Il tuo vero volto

di Pandora86
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Ricordi ***
Capitolo 3: *** Bugie ***
Capitolo 4: *** Che cosa ci fai qui? ***
Capitolo 5: *** Amico o nemico? ***
Capitolo 6: *** Lui è il basket! ***
Capitolo 7: *** A noi due ***
Capitolo 8: *** Comprensione ***
Capitolo 9: *** la verità ***
Capitolo 10: *** é colpa mia ***
Capitolo 11: *** Io non sono come te ***
Capitolo 12: *** Parole non dette ***
Capitolo 13: *** Vergogna ***
Capitolo 14: *** Gelosia ***
Capitolo 15: *** Intuizioni e verità nascoste ***
Capitolo 16: *** Imprevisto ***
Capitolo 17: *** Decisioni ***
Capitolo 18: *** Per Lui ***
Capitolo 19: *** Ti stavo aspettando! ***
Capitolo 20: *** Primo giorno ***
Capitolo 21: *** Una parte di me ***
Capitolo 22: *** La tua insicurezza ***
Capitolo 23: *** La tua forza ***
Capitolo 24: *** Noi ***
Capitolo 25: *** Maschera ***
Capitolo 26: *** Parole ***
Capitolo 27: *** Ryonan contro Kainan - Prima parte ***
Capitolo 28: *** Ryonan contro Kainan - Seconda parte ***
Capitolo 29: *** Non si sfugge al passato - Prima parte ***
Capitolo 30: *** Non si sfugge al passato - Seconda parte ***
Capitolo 31: *** Ritorno al presente - Prima Parte ***
Capitolo 32: *** Ritorno al presente - Seconda Parte ***
Capitolo 33: *** Salto nel vuoto ***
Capitolo 34: *** Passato, presente e forse... anche futuro. ***
Capitolo 35: *** L'ultima partita - Prima parte ***
Capitolo 36: *** L'ultima partita - Seconda parte ***
Capitolo 37: *** Non sono geloso! ***
Capitolo 38: *** Strani comportamenti ***
Capitolo 39: *** Tempesta ***
Capitolo 40: *** Reazione ***
Capitolo 41: *** La tua mano ***
Capitolo 42: *** Rischiare di perderti per capire di volerti ***
Capitolo 43: *** All'unisono ***
Capitolo 44: *** Il tuo vero volto ***
Capitolo 45: *** Idee assurde e provocazioni! ***
Capitolo 46: *** Una nuova sfida ***
Capitolo 47: *** I 20.000 tiri ***
Capitolo 48: *** Voltare pagina ***
Capitolo 49: *** Il rientro ***
Capitolo 50: *** Il Tuo vero volto - Parte Seconda ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


 Ecco a voi una storia incentrata sui nostri protagonisti preferiti. Si tratta di una fic molto introspettiva che segue la linea generale del manga e dell’anime, come potrete notare dalla linea generale dei fatti e da alcuni dialoghi, arricchendo però, con nuovi avvenimenti, le giornate dei nostri protagonisti e non solo. 
Mi raccomando… fatemi sapere cosa ne pensate!!
Buona lettura!                             
 
                                                  Il tuo vero volto
 

Prologo
 
“Ah, ah, ah, sono un genio! Ah, ah, ah” esclamò Sakuragi con le mani sui fianchi e la faccia da idiota.

Quel giorno, dopo aver letto l’articolo su di lui a scuola, era più incontenibile del solito.

“Come no, il genio degli stupidi!”  rispose Miyagi al suo fianco.

“Riprendi l’allenamento, Hanamichi. Anzi, credo che ripassare i fondamentali non ti farà male” intervenne Ayako dandogli una sventagliata sulla testa.  “E finiscila con queste scemate!”  concluse severa.

“Uffa!” piagnucolò  il rosso. “Sono un genio incompreso”.

“Forza Hanamichi, sei tutti noi!” urlò incoraggiante Haruko dagli spalti.

“Harukinaaa”.

“I fondamentali ti aspettano, Hanamichi” intervenne ancora Ayako sogghignando e,trascinandolo a bordo campo.

“No, i fondamentali noooo” piagnucolò ancora.

 “Finiscila di fare il buffone!” lo bacchettò, per l'ennesima volta, Ayako.

“Coraggio, cosa vuoi che siano i fondamentali per un genio come te” lo incoraggiò sarcastico Miyagi, scatenando l’ilarità generale.

E l’allenamento riprese.

Sakuragi iniziò i fondamentali.

“Dai, non ti sarai offeso, Hanamichi”  sorrise Ayako vedendolo così serio. “Che faccia scura che hai”.

“ Certo che no, sono un genio! Ah, ah, ah”.

“Come non detto” sospirò Ayako dandogli un'altra bacchettata.  “Al lavoro genio”.

Come non detto ripensò Sakuragi alla frase della sua allenatrice. Si era stupita di vederlo serio, ma si era ricreduta un istante dopo. Già, era così facile per le persone vedere solo quello che volevano. E lui sapeva esattamente cosa volevano da lui. Volevano vedere il buffone. Non importava quanto fingesse o quanto fosse di cattivo umore. Loro non volevano sapere. Loro non volevano vedere.

E riprese l’allenamento. Lui odiava i fondamentali. Li odiava perché erano troppo facili e non gli impedivano di pensare.
Quando giocava in una partita, d’allenamento o meno, lui sentiva la concentrazione crescere, l’adrenalina scorrergli nelle vene. Si sentiva vivo. Esisteva solo la palla e nient’altro.

Ma poi, una volta finito il gioco, ecco che ritornava il vuoto che aveva dentro. Quello che gli altri non volevano vedere, quello che lui stesso non voleva vedere. Ed era per questo che odiava i fondamentali.
La palestra e gli allenamenti erano ciò di cui aveva bisogno per scacciare il vuoto. E questo gli era negato perché doveva fare quegli stupidi fondamentali che permettevano ai suoi pensieri di scorrere, senza che lui potesse fermarli. E lui non voleva. Nessuno voleva vedere. E continuò a ripetersi questo, mentre la palla scorreva veloce tra le sue mani ancora più veloci.
 
Canestro.

Come al solito Rukawa era andato a segno con facile precisione scartando i suoi avversari ed evitando il capitano.

“Bel lavoro” si congratulò con lui Miyagi, provocandogli una punta di fastidio.

Davvero un bel lavoro quando si è circondati da giocatori inetti pensò tra se ironico, pentendosi però quasi subito di quel pensiero, e andando nuovamente a canestro pochi minuti dopo.

“Oggi Rukawa è inarrestabile!” commentò Kogure compiaciuto.

“Ehi! Vacci piano, non siamo in partita” urlò Mitsui.

Ma Rukawa non li ascoltava. Solo un rumore in sottofondo, quello di una palla che, a ritmo cadenzato, rimbalzava sul pavimento della palestra provocandogli un moto di fastidio.

Gettò uno sguardo veloce in direzione di quel rumore. Il ragazzo che provocava quel suono era impegnato nei fondamentali, anche se non sembrava concentrarsi troppo, eppure gli esercizi erano eseguiti perfettamente.
Quel rumore non accennava a smettere e lui ne era sempre più infastidito. Perché lui lo voleva in campo. Lui voleva la sfida che solo quell’odioso ragazzo pieno di se impegnato nei fondamentali poteva dargli. Il vuoto dentro di lui crebbe e sentì un ulteriore ondata di fastidio invaderlo. Perché non doveva essere così. Il basket era la sua vita. Come poteva sentire il vuoto mentre giocava?

Non importava che fosse un allenamento. Lui si concentrava anche quando si allenava  nel campetto vicino casa. E allora perché non sentiva più la sfida in lui nascere?

Come poteva un semplice ragazzo, dilettante per giunta se paragonato a lui, privarlo di quel piacere?

Lo odiò profondamente in quel momento, ma non importava ora. Lo avrebbe fatto entrare in campo. Avrebbe avuto la sua sfida giornaliera. Perché da qualche settimana oramai era solo di questo che viveva, si poteva dire. Non aspettava altro che il momento dell’allenamento per sentirsi vivo. E sapeva che sarebbe successo perché lui ci sarebbe stato. E quello stesso ragazzo lo avrebbe sfidato facendogli sentire l’adrenalina pura. Faceva sempre così, per ogni cosa. Voleva sempre superarlo, sempre farlo arrivare secondo, in tutto; dal riscaldamento, alle partite di allenamento, fino alle partite vere e proprie.
Rukawa voleva quelle sensazioni. Ne aveva bisogno e le avrebbe avute. Sakuragi sarebbe rientrato in campo lasciando perdere i fondamentali. Gli altri lo avrebbero ritenuto necessario per non farsi stracciare in un allenamento, perché lui sarebbe stato inarrestabile.
 
Sakuragi guardò Rukawa andare a canestro per la terza volta.

Aveva sentito Kogure dire che era inarrestabile e aveva visto Ayako annuire tra se soddisfatta. E pensò che avessero ragione. Oggi Rukawa stava dando proprio il meglio di se.
Perché poi non riusciva a capirlo. Che bisogno c’era di esibirsi in quel modo in un semplice allenamento?

Non che lui fosse da meno, anzi. Non faceva altro che mettersi in mostra ed esibirsi ma per lui era diverso. Lui era diverso: era un principiante. Non c’era bisogno di mezzi termini e sapeva anche questo. Giocava a fare il campione, a darsi delle arie, ma dentro di se non poteva mentire a se stesso. Perché non era così stupido, non quanto gli altri credevano almeno.

Per Rukawa era diverso invece. Bello, bravo acclamato da tutti. Che bisogno aveva di darsi tante arie anche in un semplice allenamento?

Che gusto ci provava a guardare gli altri dall’alto in basso per sottolineare la loro inferiorità, con lo sguardo di chi sa benissimo di essere superiore?

Era un grande campione d’accordo, ma questo non gli dava il diritto di essere sempre così presuntuoso ed egocentrico. Non gli dava il diritto di sentirsi superiore a tutta la popolazione mondiale.

E soprattutto, perché dopo ogni canestro lo guardava?

Perché di questo era certo. Rukawa aveva mandato a segno tre canestri, e dopo ognuno di esso lo aveva guardato. Di sfuggita certo, ma lo aveva guardato.

Ma Sakuragi non era uno stupido. E aveva capito tutto. O almeno quello che c’era da capire. Perché non era una coincidenza il fatto che ogni volta che lui fosse costretto, per un motivo o per un altro, a fare i fondamentali, Rukawa dava il meglio di se. Il perché poi lo facesse non aveva importanza. Per irritarlo, oppure torturarlo in modo sadico perché forse aveva capito quanto era importante per lui giocare, o per qualunque altro motivo gli suggerisse la sua mente malata. Ma il perché non era importante, per cui non si era preoccupato di capirlo.

Aveva afferrato tutto quello che c’era da capire. O almeno così credeva. E con questi pensieri distolse lo sguardo. Non avrebbe più guardato il campo. Si sarebbe concentrato su quei maledetti fondamentali, o almeno avrebbe fatto finta, ma non avrebbe più guardato il campo.

Che Rukawa facesse tutti i canestri che voleva. Uno, due , tre ,cento.

Lui non lo avrebbe più guardato.

Ayako ammirò compiaciuta i progressi di Rukawa. Era in forma e, se avesse giocato sempre così, la squadra sarebbe stata imbattibile. Anche se aveva notato che quanto più giocava bene più il suo umore era nero. Quel giorno poi, sembrava più intrattabile del solito. Non che di solito fosse allegro e loquace, anzi, i suoi discorsi erano frasi secche e coincise e, il più delle volte, sarcastiche. Tuttavia, quell’anno si era, in un certo qual modo, sciolto. Certo, con lei parlava addirittura ma questo perché loro si conoscevano dalle medie. Era con gli altri che sembrava più sciolto. Più precisamente da quando Hanamici era entrato in squadra. La loro rivalità era palpabile e Rukawa era sempre oggetto delle continue competizioni di Hanamici. Tuttavia, invece di ignorarlo, come di solito faceva alle medie quando gli altri volevano misurarsi con lui, rispondeva aspramente e in modo sarcastico. E, cosa che accadeva piuttosto spesso, lo provocava addirittura, dandogli dell’idiota o facendo altri commenti offensivi. Ad un occhio esterno sarebbe sembrato che lui fosse infastidito. Ma Ayako sapeva bene che erano poche le cose che veramente infastidivano Rukawa.

Per cui, ne aveva dedotto che i continui battibecchi di Hanamici gli facevano piacere o comunque lo stimolavano. Che fosse il talento del ragazzo o qualcos’altro quello che aveva colpito Rukawa, Ayako non avrebbe saputo dirlo con certezza.

Si fermò un attimo a guardare Sakuragi che era impegnato nei fondamentali. O almeno così era in apparenza, visto che il suo sguardo era lontano, distratto. Sorrise. Spesso era dura con lui, come poco prima, ma spesso era anche necessario. Quel ragazzo era tutto entusiasmo e energie da vendere e il suo compito, oltre che allenarlo, era anche contenere in un certo qual modo il suo ego che sembrava essere smisurato. Eppure spesso aveva notato nel ragazzo un barlume di tristezza, uno sguardo spento. Spesso durava solo un attimo. Immediatamente dopo quello sguardo veniva rimpiazzato con un’espressione ebete e una battuta che faceva ridere solo lui. Uno sguardo tanto veloce da apparire quasi un’illusione. Eppure quegli sguardi c’erano, di questo Ayako ne era certa. Avrebbe voluto sapere cosa pensava in quei momenti. Anche poco prima aveva notato quello sguardo, ma appena aveva domandato quale ne fosse il motivo, Sakuragi aveva ripreso a fare il buffone, come altre volte in passato, e lei aveva lasciato cadere l’argomento. Aveva capito che, in fondo, quella di Hanamici era solo una maschera.  Non che non fosse realmente come appariva. Non era un’ipocrita anzi, probabilmente, era uno dei ragazzi più schietti, ingenui e pieni di vita che conosceva. Tuttavia spesso Ayako aveva l’impressione che il ragazzo accentuasse apposta i lati migliori del suo carattere , quali l’allegria e la voglia di fare, rendendoli i peggiori, tanto da rasentare l’idiozia e molto spesso superarla ampiamente. E la cosa assurda era che sembrava farlo apposta. Si chiese ancora una volta il perché, ma sapeva che non avrebbe avuto una risposta a meno che non fosse stato lo stesso Sakuragi a dargliela, e lei sospettava che quel momento non sarebbe mai avvenuto.

Si ridestò dai suoi pensieri osservando Rukawa che andava a canestro nuovamente e storse un po’ la bocca. Va bene che era bravo, va bene che stava dando il meglio di se, ma quello era uno sport di squadra e Rukawa non poteva continuare a ignorare quella regola fondamentale.

Anche Akagi sembrò accorgersene e, infatti, intervenne in proposito.

“Rukawa, non stai giocando da solo. Invece di andare a canestro da solo potevi passare a Miyagi. Questo è un gioco di squadra. Non batteremo mai i nostri avversari se ognuno gioca da solo. Anche se ci siamo guadagnati l’accesso alla finale, non dobbiamo dormire sugli allori”.

Rukawa aveva annuito, non dando apparentemente peso al rimprovero del suo capitano.

Si asciugò il sudore con la maglia e si rimise in posizione di gioco. Non gli importava quello che pensava Akagi. Non gli importava di quello che pensavano gli altri. Lui avrebbe continuato così e se gli altri non erano in grado di batterlo beh… quello non dipendeva da lui, e probabilmente avrebbero fatto rientrare quella mezza sega.

Rivolse ancora una volta lo sguardo in direzione di Sakuragi. Non si era voltato quando aveva fatto un canestro. Non si era voltato neanche quando Akagi lo aveva rimproverato, uscendosene con qualche pagliacciata, cosa alquanto strana. Perché perdere un’occasione per pavoneggiarsi e sottolineare un rimprovero che avevano rivolto a lui?
Non lo capiva. Come non capiva neanche perché se ne stava impassibile a guardare il muro mentre eseguiva gesti meccanici per compiere gli esercizi. Sembrava che niente lo riguardasse.

Dannato idiota. Era tutta colpa sua se era stato rimproverato. Perché trovava sempre il modo di farsi estromettere dagli allenamenti facendo qualcosa di stupido e privarlo della sua sfida quotidiana?

Dannazione. Rukawa non aspettava altro che gli allenamenti quotidiani e lui non giocava neanche. Un odio profondo lo invase. Perché l’avrebbe pagata. Non sapeva ancora come, anche se i modi erano tanti. Primo fra tutti umiliarlo sul campo. Non poteva privarlo del suo piacere e pensare di passarla liscia.

E inoltre l’allenamento era finito. E lui non solo era stato rimproverato, ma non era riuscito neanche a far rientrare in campo quell’imbecille.

Akagi aveva chiamato a raccolta la squadra per parlare. Anche quel fastidioso rumore ritmico era finito. Sakuragi aveva terminato i fondamentali e si era avvicinato per sentire cosa aveva da dire il loro capitano. E per giunta stava distante da lui.

Non si era neanche avvicinato. Se si fosse avvicinato Rukawa era certo che Sakuragi non avrebbe risparmiato qualche commento sul rimprovero che aveva ricevuto. O che comunque si sarebbe lasciato provocare, come succedeva puntualmente, dai suoi sguardi sprezzanti e avrebbero cominciato a battibeccare come al solito. Non che Rukawa rispondesse molto in realtà. Era solito normalmente mugugnare o lanciare qualche frase sarcastica. Anche perché a tutto il resto ci pensava Sakuragi. Bastava un niente perché quell’idiota iniziasse a urlare e a dimenarsi con lui, cercando un modo  per arrivare alle mani.

E questo va anche bene pensò Rukawa che, in fondo, non disprezzava la scazzottata in se.

Tra l’altro, doveva ammettere che anche in quello Sakuragi lo stimolava. Era dannatamente forte e ricordava le testate di presentazione che gli aveva rivolto all’inizio dell’anno.

E non disprezzava neanche il teatrino che si creava prima che arrivassero a menarsi sul serio, con le urla e gli strepiti di Sakuragi. E vero che era un buffone si trovò a pensare Rukawa, però aveva anche un qualcosa che trascinava la squadra, portando una ventata di allegria.

Akagi stava sottolineando loro l’importanza delle partite che sarebbero venute e la forza dei loro avversari. Per questo Rukawa si permise di lasciar vagare libera la mente, perso nei suoi pensieri.

Si ritrovò a ripensare agli allenamenti e alle partite delle scuole medie. Tutti davano il massimo e, chi  più che meno, ognuno cercava di mettersi in mostra. Ma non si rideva mai. Nè una battuta, né un sorriso. A volte si scherzava certo, ma era sempre tutto in un certo qual modo misurato.

Con Sakuragi invece… esisteva la parola misurato nel suo vocabolario?

Rukawa era certo di no. Sin dal loro primo allenamento, Sakuragi si era messo in mostra nei modi più impossibili.  E aveva portato una ventata di allegria nella squadra. Perché, anche se il capitano continuava a riprenderlo a suon di pugni e tutti gli davano dell’imbecille, era anche vero che tutti ridevano e non di lui ma con lui. Inoltre era diventato fondamentale per la squadra e questo Rukawa lo sapeva.

Ripensò all’ultima partita contro lo Shoyo. Ripensò a quella schiacciata e a come si era sentito nel vederlo saltare con quell’elevazione e con quella potenza.

Quel ragazzo era una vera e propria forza della natura. Non era il buffone e neanche il teppista. Era semplicemente un portento.

Akagi aveva finito il suo discorso e stavano tutti rientrando negli spogliatoi. Rukawa non poté fare a meno di guardare ancora una volta Hanamichi che, senza una parola, era andato a fare la doccia…eppure il buon umore era palpabile quel giorno dato che, appena il giorno prima, avevano battuto lo Shoyo.

Sembrava arrabbiato, o forse… triste.

Continua...

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Capitolo 2
*** Ricordi ***


Ed ecco a voi il primo capitolo. Questo è un capitolo introduttivo della storia che inizia a prendere forma, e dai prossimi capitoli si movimenterà dato che saranno un po’ più discorsivi, non abbandonando tuttavia la base introspettiva.
I protagonisti, come vedrete, hanno una crescita molto lenta che credo si adatti bene ai loro caratteri complessi.
Mi raccomando… fatemi sapere cosa ne pensate!!!
Grazie mille a chi ha recensito e a chi ha inserito la storia nelle seguite.
Grazie anche a tutti i lettori silenziosi.
Buona lettura!!!!
 
 
Capitolo 1. Ricordi
 
“Allora Hanamichi, com’è andato l’allenamento?” domandò Mito fuori dalla palestra.

“Eh, eh, eh, sono il Tensai, io! Ah, ah, ah”.

“Il solito idiota!” diede il suo contributo Rukawa.

“Ehi, brutta volpe, vuoi che ti spacchi il muso?” s’inalberò Hanamichi stringendo i pugni.

“Coraggio Hana, lascia stare” intervenne Mito mettendogli una mano sulla spalla. “Andiamo” aggiunse, trascinandosi dietro l’amico.

Che cavolo ti intrometti idiota? fu questo il pensiero di Rukawa guardandoli allontanarsi con un moto di fastidio.

Si soffermò ancora una volta sulla sua figura. Si ritrovò a pensare che, anche visto di spalle, il suo compagno di squadra sembrava imponente. Tuttavia, il modo in cui camminava affiancato dagli altri, le mani in tasca e la testa chinata… perché appariva così inappropriatamente triste? Le sue spalle… sembrava che portassero un grosso peso invisibile agli altri.

Perché aveva quest’impressione? Avevano appena vinto una partita importante, perché l’entusiasmo della squadra non contagiava anche lui che era il casinista per eccellenza? Si va bene, la mattina appena visto l’articolo si era esibito più del solito mettendosi in ridicolo all’ingresso della scuola e anche in palestra si era messo in mostra come al solito. Peccato che però ci fosse qualcosa di diverso… gli occhi rimanevano seri anche durante le sue pagliacciate, soprattutto poi quando aveva iniziato a fare i fondamentali. Sakuragi aveva definitivamente gettato la maschera e non aveva rivolto più la parola a nessuno.

Quel dannato ragazzo era una contraddizione vivente… perché doveva sempre andare controcorrente?

Si riscosse dai suoi pensieri accorgendosi, solo allora, di essere rimasto fermo almeno un paio di minuti a fissare il cancello della scuola. Sakuragi era uscito dalla sua visuale da un po’.

Dandosi mentalmente dell’idiota, si avviò verso casa.

In fondo, è solo un do’aho.

E fu questo il pensiero che lo accompagnò nel tragitto verso casa. Eppure… anche se in modo offensivo non riusciva a fare a meno di pensare al compagno di squadra.

Entrò nell’imponente casa, dirigendosi direttamente verso la sua stanza. Si sdraiò sul letto e ricominciò a pensare all’ultima partita. E soprattutto alle azioni di Hanamichi.

Da quando lo chiamava per nome? Ma era una domanda di cui conosceva già la risposta.

L’aveva chiamato per nome quella mattina di quella che sembrava una vita fa, quando si era recato al campetto per i suoi soliti allenamenti e vi aveva trovato Hanamichi  ad allenarsi nel tiro sotto canestro. Si era effettivamente sorpreso di trovarlo lì. Lo aveva guardato e riguardato e, ovviamente, aveva guardato anche la ragazzina che si era presa la briga di allenarlo. Con che presunzione poi non lo sapeva, visto che a lui era subito stato chiaro che era la mano che non andava. L’elevazione e la potenza erano buone. Anche la postura. Ma era la posizione della mano che era sbagliata. Eppure… era un errore da poco considerando il tutto. Perché Hanamichi non aveva la più pallida idea della tecnica giusta per eseguire un tiro così elementare, come lo definiva lui, però in un solo giorno era arrivato a padroneggiare della tecnica e, se qualcuno gli avesse suggerito il modo giusto di come poggiare la mano, avrebbe fatto sicuramente canestro. Dove aveva imparato poi, non lo sapeva. Di certo non guardando lui il giorno prima, quando il capitano gli aveva chiesto di mostrargli il tiro e Kogure gli aveva suggerito di prendere spunto dai suoi movimenti. Non aveva fatto altro che fare casino e ostacolarlo in tutti i modi che gli venivano in mente. Aveva persino fatto finta di chiedergli scusa per poi lanciargli contro la cesta di ferro con le palle da basket. E allora, se non l’aveva osservato per niente, come mai riusciva già così bene nella postura?

Semplice… aveva talento, ma questo non l’avrebbe mai ammesso. Era nato per fare quello sport. Fu in quel momento che Rukawa ebbe la certezza di questo.

Che fosse in gamba l’aveva già pensato quando aveva battuto il capitano a inizio anno, in quella famosa sfida dove tutta la scuola era accorsa. Ricordava ancora particolare per particolare. Erano nove a nove e presto Akagi avrebbe fatto il decimo tiro che gli avrebbe assicurato la vittoria. Cosa era avvenuto poi?

Sakuragi aveva deciso di fare sul serio. Tutti gli altri oramai credevano che il capitano avesse già vinto ma lui si era accorto che qualcosa nello sguardo del rosso era cambiato. Aveva visto il fuoco nei suoi occhi accendersi. Per Hanamichi Sakuragi la sfida iniziava in quel momento. E, da quello sguardo, Rukawa aveva capito che la combattività di quel ragazzo era sopra ogni limite, così come la sua tenacia. E, infatti, aveva vinto, esibendosi con un’elevazione e una forza muscolare fuori dal normale. Oltre che in un’azione spettacolare che, tenendo conto del fatto che non avesse mai praticato quello sport, aveva dell’incredibile.

Poi Rukawa era andato via con un pensiero.

Devo ammetterlo Sakuragi. Sei stato in gamba.

E, nei giorni successivi, non aveva potuto fare a meno di pensare a quello sguardo e si era ritrovato contento senza saperne il motivo quando era entrato nella squadra.

Tuttavia Hanamichi non aveva fatto altro che fare l’idiota, sbandierando i suoi Harukina cara ai quattro venti, e la testa calda pronta alle mani quando si trattava di lui, non facendo altro che portare scompiglio agli allenamenti e a mettersi in mostra. Rukawa non aveva più visto quel volto se non di sfuggita. E aveva iniziato a osservarlo sempre con maggiore attenzione, per rivedere quello sguardo, per capire… cosa poi… non gli era ancora chiaro… sentiva solamente che c’era qualcosa di più.

Tuttavia, solo quella mattina, osservandolo fare il tiro aveva capito il suo potenziale, un potenziale che neanche il ragazzo sapeva di avere, anche se sbandierava di essere un genio a destra e a manca.

E nelle partite poi… quella con lo Shoyo in particolare…. Quando l’asso della squadra avversaria era entrato in campo e quando Sakuragi aveva commesso il quarto fallo, cos’aveva provato?

Inutile negarlo, si era preoccupato, perché sapeva che era un elemento fondamentale. Per questo non aveva potuto fare a meno di spronarlo quando sembrava che in campo non ci fosse. E quando aveva fatto quella schiacciata, cosa aveva provato?

Adrenalina? Emozione? Impossibile definirlo… non aveva potuto fare a meno di fargli i complimenti. Di dirgli che era dispiaciuto. Ed era la verità… ma cosa provava realmente?

I suoi gusti sessuali non erano un mistero: sapeva benissimo di preferire il suo stesso sesso anziché quello opposto. Ma non era solo attrazione fisica e lui lo sapeva. Perché di Sakuragi non gli interessava il corpo quanto la mente, le espressioni dei suoi occhi, quelle vere però… non quelle che mascherava dietro le sue buffonate. Perché di questo era sicuro… Sakuragi era molto più di quello che mostrava, per questo lo voleva in campo durante gli allenamenti e lo odiava quando si faceva estromettere. Per questo lo provocava e finiva in rissa con lui. Voleva sapere. Voleva capire cosa nascondesse. Per quanto il suo corpo lo attraesse non poco, questo lo doveva ammettere. Però… era la sua anima quella che voleva, quella vera.

Rukawa si alzò dal letto sbuffando… di questo passo non avrebbe dormito neanche a volerlo.

Guardò con disappunto l’ora notando che era in ritardo. Aveva passato le ultime ore del tardo pomeriggio a pensare a Sakuragi.

Erano le otto di sera e tra poco suo padre sarebbe passato a prenderlo per andare a cena fuori.
Perso com’era nei suoi pensieri, non aveva tenuto conto dell’ora e suo padre sarebbe stato lì a momenti.

Già, suo padre. Non che la cena con lui gli dispiacesse. Era più corretto dire che la cosa lo lasciava totalmente indifferente. Quella sera poi era solo un po’ infastidito perché non aveva dormito. Tuttavia, dire espressamente cosa pensava di quelle uscite avrebbe ferito il genitore ed era questo il motivo per cui le accettava con stoica pazienza senza fiatare.

Da quando era morta sua madre, suo padre si era dedicato anima e corpo al lavoro. Cercava di essere presente ma Kaede capiva che, anche quando gli era vicino e cercava di interagire, la sua mente era lontana, altrove. Rapita da un ricordo troppo doloroso. Ed anche lui, faceva lo stesso. Quando era vicino al padre, anche lui, nonostante fosse presente fisicamente era altrove, chiuso nei suoi silenzi.

Quando non viaggiava per lavoro, suo padre aveva preso l’abitudine a rimanere nel suo ufficio a Tokyo.

Prima un giorno, poi due, poi settimane. Fino a che, secondo un tacito accorto tra padre e figlio, si era trasferito lì, consapevole dei sentimenti di Kaede. Lui si allontanava da una casa pregna di ricordi per riuscire ad andare avanti e interagire con il mondo. Il figlio invece ci restava volentieri, circondandosi di ricordi e interagendo sempre meno con gli altri.

Due modi diversi per affrontare lo stesso dolore. Un dolore che li aveva allontanati.

Eppure, nonostante tutto, suo padre cercava di essere presente, con quelle cene per l’appunto. E lui non si tirava indietro.  Lo passava a prendere per andare a cenare nei ristoranti più costosi di Kanagawa, certo che la pigrizia del figlio, non gli avrebbe consentito di uscire dalla prefettura. Kaede si riscosse dai suoi pensieri sentendo il telefono squillare.

Ecco appunto pensò dandosi mentalmente dell’idiota e, cercando di rendersi presentabile in meno di cinque minuti, si preparò a uscire di casa imprecando fra se contro il doaho che gli aveva fatto perdere tempo.
 

                                 ………………………………………………………………………
 

Erano da poco passate le undici. Kaede si appoggiò sbuffando al muro dell’uscita del ristorante.

La cena si era svolta in tutta tranquillità. Solite raccomandazioni, soliti sguardi crucciati sui suoi voti senza però ricevere nessun rimprovero, solite promesse di andarlo a vedere giocare mai mantenute. Solite cose insomma.

Il padre lo aveva lasciato all’uscita dicendogli che sarebbe andato a prendere la macchina. Come al solito. Erano passati alcuni minuti e del genitore nessuna traccia. Di sicuro tra un po’ sarebbe arrivato dicendogli che era stato trattenuto da una telefonata importante. Ed anche questo era abituale. Soliti schemi.

Chiuse gli occhi e lasciò di nuovo vagare i suoi pensieri. Una nota testa rossa si fece largo nella sua mente e neanche di questo Kaede si sorprese più di tanto.

Sapeva benissimo di pensare quasi sempre al suo compagno di squadra e la cosa non gli creava nessun problema. Perché, tra tutti i suoi difetti, la non obiettività non ne faceva parte. Era sempre stato obiettivo, forse fin troppo con se stesso. Non si nascondeva dietro un dito, non l’aveva mai fatto. Non avrebbe mai mentito a se stesso.

Era una di quelle persone che avrebbe potuto elencare tutti i suoi pregi e i suoi difetti senza scomporsi minimamente e, essere obiettivi, era una di queste qualità.

Sapeva con certezza di essere un campione. Come sapeva che i suoi voti scolastici lasciavano a desiderare e che lui non facesse niente in proposito. Come aveva saputo che la malattia che aveva colpito la sua mamma era di quelle brutte e che suo padre, dopo la sua morte, stava  troppo male per continuare a fare il genitore.

Anche quando aveva capito i suoi gusti sessuali non si era fatto troppi problemi e aveva accettato la cosa con indifferenza. Perché per lui l’importante era sapere. Se non avesse saputo i suoi sbagli nello sport non sarebbe riuscito a diventare quello che era.

Per questo pensare al compagno di squadra non gli creava problemi. Anche se non l’avrebbe mai ammesso con qualcuno, neanche sotto tortura, non mentiva a se stesso. Mai. Aveva capito che gli piaceva pensare a lui. Come aveva capito di non avere nessuna possibilità considerando l’odio che questo non si preoccupava di nascondere e considerato il fatto che era indiscutibilmente etero, come dimostravano i suoi Harukina cara sbandierati a tutta la popolazione mondiale. Aveva capito che avrebbe solo potuto continuare a osservarlo in silenzio e pensare a lui. Faceva male? Sì, però l’aveva accettato, e ci conviveva.
La sua mente corse al loro primo e, forse unico, scambio di battute amichevoli che avevano avuto durante l’ultima partita.
 
“Ehi” l’aveva chiamato.

“Nh?” aveva mugugnato aggressivo l’altro, e come dargli torto. Il suo peggior nemico , il suo rivale in tutto, dallo sport, all’amore, che gli rivolgeva la parola dopo che era stato espulso.

“Mi dispiace molto. Era un bel tiro” aveva detto.

Ed era quello che pensava. Era la pura e sacrosanta verità. Era stata un’azione bellissima ed anche il pubblico si era esaltato. E l’arbitro che faceva? Fischiava.

Non era giusto. Non dopo quell’azione che era stata spettacolare. Non dopo che finalmente il pubblico acclamava le doti del compagno di squadra.

Rabbia. Era stata rabbia, quella che aveva provato Kaede in quel momento. E sicuramente ne provava anche Sakuragi. Tuttavia, l’aveva visto alzare la mano in silenzio. Nessuna imprecazione, nessuna pagliacciata. Niente di niente.

E aveva ritrovato quello sguardo. Quello vero. Ed era per questo che gli aveva rivolto la parola seriamente. Nessuna provocazione, nessun sarcasmo. Un complimento. Un complimento che andava al vero Hanamichi. Non al buffone, al Tensai, o a tutto quello che era capace di cacciare la sua mente quando era inserita la modalità megalomania.

Poi... cos’aveva visto quando lui gli aveva fatto quel complimento? Gratitudine?

Non avrebbe saputo dirlo con esattezza. Già si era sorpreso che non avesse iniziato a insultarlo, visto che ogni scusa era buona per venire alle mani con lui. Di certo aveva visto stupore, ma era durato un attimo. Perché poi lui si era voltato e il compagno di squadra,  dopo aver guardato con altrettanto stupore il pubblico che lo acclamava,  si era diretto alla panchina in silenzio.

Anche Ayako aveva notato quanto Sakuragi fosse diverso. Lui, dal bordo campo, aveva seguito il loro breve discorso.

“Come ti senti dopo quella schiacciata? L’adrenalina è ancora in corpo?” aveva detto allegra.

“A dire la verità …ecco… mi sento un po’ stanco” erano state le parole di Sakuragi. 

Il tono basso… insolito per lui.

Ayako l’aveva guardato in modo strano, rimanendo un attimo sconcertata. Anche lei probabilmente si era preparata a dover contenere uno dei suoi spropositati show. E invece… si era seduto in panchina, in silenzio, abbassando lo sguardo. Negando il suo vero volto, non solo a lui, ma a tutti questa volta. Un volto in cui si sarebbe potuto scorgere qualcosa di diverso dal solito.

Il suo vero volto.

Lo stesso volto che Kaede aveva visto nella stessa partita, precedentemente alla schiacciata. Un volto preoccupato per la paura di fare fallo e di essere espulso. Nessun genio anche questa volta. Ma solo un ragazzo che sa di essere inesperto e che non sa cosa fare. Ed anche allora Kaede gli si era avvicinato per spronarlo. Anche questa volta nessuna battuta sarcastica. Perché non era sarcastico quando Hanamichi decideva di essere se stesso. Non era sprezzante quando parlava al suo vero volto. Come allo stesso modo si regolava di conseguenza quando era inserita la modalità buffone. Quel ragazzo era molto di più di quanto mostrava. Oramai aveva la certezza che lui lo facesse apposta a mostrarsi così. Era allegro e solare certo, eppure con quel suo modo di fare non dava a nessuno la possibilità di conoscerlo veramente. Come lui del resto. Solo che lui era più onesto con se stesso. Non amava interagire con le persone e non lo nascondeva. Quel Sakuragi invece….

Sbadigliò. Il padre tardava ma non si preoccupò; era tutto come al solito!

Prestò una vaga attenzione alle voci che provenivano dal vicolo di fianco...

Non è possibile! pensò, aprendo di scatto gli occhi.

Si doveva essere addormentato in piedi pensando al Dohao e, di conseguenza, aveva anche immaginato quella voce.

Prestò nuovamente attenzione... No! Non stava sognando!

Che diamine ci faceva lì?!

Si avvicinò con cautela all’entrata del vicolo, senza però farsi vedere, rimanendo poi sconcertato allo spettacolo che gli si parava davanti.

Solo una parola, che fu appena un sussurro, uscì dalle sue labbra.

“Dohao!”


Continua...

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Capitolo 3
*** Bugie ***


Ecco a voi il secondo capitolo della storia.
Grazie a tutti per le bellissime recensioni. Grazie anche a chi ha inserito la storia tra le seguite e a tutti i lettori silenziosi.
Mi raccomando, fatemi sapere che ne pensate!
Buona lettura!
 
Capitolo 2. Bugie

 
“Dohao” ripeté ancora Rukawa sempre più perplesso, senza però farsi vedere.

Che diamine stava facendo? 

Era questa la domanda che Rukawa si poneva, osservando il compagno di squadra che indossava quella che sembrava un’uniforme da lavoro, composta da grembiule, maglia rigorosamente bianca e un fazzoletto a mo’ di bandana sulla testa, in tinta con la maglia. Sembrava intento a svuotare i bidoni della spazzatura sotto lo sguardo attento del suo amico, Mito, che lo guardava serio, appoggiato al muro a braccia incrociate.

Lasciando da parte il suo stupore, Rukawa si apprestò ad ascoltare la conversazione.

“Guarda che non è un problema, Hana” aveva ripreso a parlare Mito dopo qualche istante.

“Sul serio, Yo! Non voglio che mi aspetti, faccio tardi qui”.

“Sono con il motorino Hana, proprio perché finisci tardi, ti aspetto, così ti accompagno a casa”.

Rukawa sentì Sakuragi sospirare e lo osservò fermarsi nelle sue faccende e appoggiarsi anche lui al muro, di fronte all’amico.  Notò, con un moto di stizza, che ancora una volta il suo volto gli era negato e che invece vedeva bene il volto dell’altro, data la posizione in cui si trovava. Tuttavia, non se ne curò molto.
 
Perché, quella sera, Hanamichi stesso sembrava diverso dal solito. Nessuna traccia della sua ilarità e delle sue pagliacciate, per cui non aveva bisogno di studiare per forza il suo volto; gli sarebbe bastato ascoltare il discorso.

“Casa mia è troppo lontana, Yo! Io qui stacco verso le quattro di notte” lo sentì dire stanco.

Che significa che stacca?Pensò ancora Rukawa in quel momento.
 
Alle quattro poi… ripensò alla sua uniforme… voleva dire, probabilmente, che lavorava.
E questa scoperta lo lasciò di stucco!
Continuò ad ascoltare.

“Intendevo casa mia Hana, è più vicina della tua. Potresti riposarti lì un paio d’ore, prima di andare a scuola”.

E, ancora una volta, Rukawa non capì il senso di quelle parole.

Ma non erano vicini di casa?
Mah… forse si era sbagliato. Eppure, avrebbe giurato che fosse così. Non aveva sentito dire che erano come fratelli e che erano cresciuti insieme? Bah… non gli rimaneva altro che continuare ad ascoltare.

Vide il rosso scuotere la testa in segno di diniego.

“Grazie Yo, ma non mi va”.

“E allora?” a quel punto, Kaede vide gli occhi di Mito assottigliarsi lentamente.

“Allora cosa?” sentì rispondere Hanamichi, con un tono stanco.

”I tuoi programmi per la nottata” insistette Mito.

“Mi sono portato l’uniforme e lo zaino della scuola. Finito qui, mi dirigo direttamente là. Magari faccio due tiri prima delle lezioni e…” ma Mito lo interruppe furente.

“E magari stabilisci un nuovo record mondiale sulla mancanza di sonno. Dopo essere sbattuto a terra anche per la fame, considerando che non avrai tempo per prepararti qualcosa per il pranzo e non farai neanche colazione” si alterò Mito assottigliando ancora di più gli occhi.

“Sono un Tensai” rispose questi. Era la sua solita frase; eppure, perché a Rukawa, in quel momento, sembrava tanto diversa? Il tono… perché così rassegnato?

“E tutto per questo schifo di lavoro, dove ti sfruttano solo perché sei un minorenne” riprese Mito stringendo con rabbia i pugni.
 
Ma Kaede non sentì altro. Il clacson della macchina di suo padre lo richiamò al presente, costringendolo ad allontanarsi dal vicolo.

Cazzo!

Era questa l’unica parola coerente che riusciva a formulare mentre entrava in macchina sbattendo la porta. Non si preoccupò dello sguardo accigliato di suo padre. L’unica cosa che avrebbe voluto era continuare a sentire la conversazione.
 
Nel frattempo, le due figure continuavano a parlare.

“Ne abbiamo già parlato, Yo” disse, questa volta serio, Hanamichi con il tono di chi intende finire qui la conversazione.

E, infatti, Mito capì e non continuò oltre.

Sakuragi però si era già pentito di essere stato brusco con il suo migliore amico. In fondo, l'altro si preoccupava solamente per lui.

Con un tono decisamente più rilassato cambiò argomento.

“Sai… stavo pensando a Yoko”.

Mito capì che era un modo come un altro per alleggerire la tensione e mise il discorso sul tono scherzoso.

“Ma come! E la tua Harukina cara?”

“Imbecille. Stavo pensando alla sua faccia, stasera quando l’ho incontrata, con te e gli altri, prima di venire qua”.

“Che aveva che non andava?”.

“Non so! Mi sembrava preoccupata per qualcosa. Credo che c’entri Oda”.

“Mh… il tuo rivale in amore…” valutò Mito a metà fra il serio e l’esasperato.

Aveva capito, infatti, dove l’amico volesse andare a parare. Tuttavia, continuò il discorso facendo finta di niente.

“E allora? Questo, cosa ha a che fare con te?” domandò, conoscendo già la risposta.

“Nulla, ma voglio vederci chiaro”.

Mito alzò gli occhi al cielo. Valutò con estrema serietà di iniziare a giocarsi i numeri, visto la facilità con cui prevedeva le mosse di Hanamichi. Ma tu guarda se con tutti i problemi che aveva, doveva pure mettersi a risolvere i problemi di coppia tra il suo ex-rivale e la sua ex-fiamma. Anche se una fiamma vera e propria non lo era mai stata. Ma questo era un altro discorso.

“Ci pensi domani, mi sa che adesso devi rientrare”.

“Già! Ci vediamo domani a scuola allora. Grazie per la compagnia e per il passaggio” e rientrò.

“Figurati” rispose Mito sottovoce guardando il suo amico rientrare. Per lui, accompagnarlo a lavoro, era poca cosa. Ma questo bastava a far sentire sempre Hana in debito verso di lui. In realtà, avrebbe voluto fare molto di più ma non aveva idea di come aiutarlo. Così, si limitava a stargli accanto, a dargli dei passaggi e a reggergli il gioco nelle sue recite.

Recite in cui l’amico era il protagonista indiscusso. Il suo ruolo: buffone, valutò sedendosi sul motorino e mettendo in moto. E adesso, si metteva anche Yoko.


Ma del resto, Hanamichi era fatto così. Era sempre pronto ad aiutare qualcuno, che questi lo chiedesse o meno. Peccato che non riuscisse ad aiutare se stesso. Ma, anche questa, era un’altra storia.

Molti avrebbero pensato che il suo intervento era finalizzato a riconquistare la sua vecchia fiamma.

Peccato che non fosse così. Perché a Hana le ragazze non piacevano proprio. Ma questo non faceva parte della recita, questo era una parte del vero Hana che secondo l’amico stesso era da tenere nascosta… come tante altre cose.

Per cui… aveva collezionato i suoi cinquanta rifiuti, guadagnandosi la reputazione di sfigato etero.
Faceva il buffone, guadagnandosi la fama dell’imbecille e così via…

E lui non poteva farci niente.
Non poteva spaccare la faccia a chiunque lo definisse idiota, anche se la tentazione era forte. Non poteva neanche andare da quelle ragazze che, oltre a scaricarlo, lo avevano anche deriso e dirgli:

“Scusate tanto, siete delle ciabatte ma siete utili per il castello di bugie del mio amico”.

No! Decisamente non poteva. E allora si limitava a stargli affianco. Sperando che, prima o poi, la fortuna girasse anche dalla sua parte.
 
 
***
 


Cazzo! Continuava a pensare Rukawa. Non aveva molto senso, ma non riusciva a pensare a niente di coerente quella sera.

O forse, avrebbe dovuto dire quella notte, considerando che era l’una passata e lui non riusciva a prendere sonno, alla faccia di chi lo accusava di essere una volpe narcolettica.

Sorrise al pensiero di chi pronunciava quella frase. Il numero dieci avrebbe dovuto vederlo ora che non riusciva a prendere sonno. Che lo volesse oppure no, Sakuragi era sempre la causa di tutti i suoi mali valutò ironico, come lo era della mancanza di sonno in quel momento.

Si mise a sedere sul letto portandosi le mani alle tempie e cercando di mettere ordine nei suoi pensieri. Solo così poi si sarebbe addormentato… forse.

Allora, andiamo con ordine!  Impose alla sua testa, che continuava a lasciar correre immagini e pensieri sconnessi.

Riepilogò mentalmente la giornata. Come il solito, era andato a scuola sonnecchiando in bici. Poi era andato volutamente addosso al do’hao, che stava distribuendo la fotocopia dell’articolo del giornale dove c’era la sua foto ed era, di conseguenza, stato insultato. Erano arrivati gli altri della squadra e Sakuragi si era beccato un pugno in testa dal capitano.

In effetti, Rukawa ricordò solo allora la punta di fastidio che aveva provato quando era sopraggiunto il capitano della squadra di Judo e aveva accartocciato la foto di Sakuragi, proponendogli di entrare nella sua squadra.

Poi si erano allenati e Sakuragi aveva iniziato a sparare pagliacciate come suo solito. Il discordo era finito su Oda, punta di diamante della squadra che avrebbe giocato contro il Kainan a breve. Avevano ripreso a giocare e l’imbecille si era fatto punire perché si metteva troppo in mostra. Non era più rientrato e lui era stato anche rimproverato.

Rukawa ripensò allo sguardo di Hanamichi durante i fondamentali e si chiese perché fosse così cupo. Non pensava di certo dipendesse dal discorso fatto su Oda. Aveva carpito che erano delle stesse scuole medie e che fossero rivali. Aveva capito anche che Hanamichi avrebbe voluto giocare contro di lui, ma sapeva che il suo sguardo non era così cupo solo per quello, visto che era lo stesso sguardo che aveva sempre durante i fondamentali, a volte più evidente, a volte meno evidente, ma comunque c’era. E c’era anche altre volte, in occasioni diverse anche se durava poco.
Gli altri non se ne accorgevano ma a Rukawa non sfuggiva. Per cui, era escluso che il suo malumore dipendesse da Oda.

Però…Rukawa quella mattina l’aveva visto allegro, o meglio, dopo aver dato un occhio al giornale, aveva creduto che il compagno di squadra sarebbe stato felice dell’articolo su di lui. Eppure, neanche quel risultato sembrava bastare a cancellare la tristezza velata di quegli occhi. E allora, Rukawa si chiese quale fosse il motivo. Quali fossero i pensieri che lo facevano incupire.
Possibile che fossero così tristi, da non essere scacciati neanche dopo la felicità provata dalla vittoria e dal vedere le proprie capacità finalmente riconosciute?

Evidentemente, sì!

Continuò a ripercorrere la giornata.
 
A fine allenamento, era andato a casa e poi aveva cenato con suo padre.
 
E poi… aveva incontrato il dohao. E origliando aveva avuto informazioni su di lui che prima erano sconosciute. Non che lui sapesse molto su Sakuragi. Non erano amici e non lo sarebbero stati mai, probabilmente.
 
A quel punto, però, la domanda da porsi era logica: quanto sapevano gli altri su di lui?

Escludendo i componenti della sua banda, rimanevano i compagni di squadra.

Miyagi, ad esempio, era un buon amico di Hanamichi, come lo era diventato il capitano e Kogure, e anche Mitsui. Ma Rukawa dubitava fortemente che sapessero che Hanamichi lavorava. Perché, se l’avessero saputo allora, lo avrebbe saputo anche lui dato che, anche se non domandava direttamente, era molto attento a carpire informazioni.

Come aveva saputo che, ad esempio, Mito era il braccio destro di Hanamichi e che erano come fratelli, conosciutisi perché vicini di casa.

Ma se erano vicini di casa, allora perché quella frase di ieri sera?

Intendevo casa mia Hana. È più vicina della tua.

Rukawa lo aveva sentito distintamente. Come aveva sentito distintamente il tono di voce di Mito quando si era alterato.


Aveva capito che era contrario al fatto che Hanamichi lavorasse.

Guardò l’ora: erano le due e Hanamichi stava ancora lavorando. Sperò, con tutto il cuore, che avesse accettato l’offerta di Mito ma, conoscendo la cocciutaggine dell’altro, dubitava che fosse così.

Si stese nuovamente sul letto, sbuffando. Quella sera, non volendo, era venuto a conoscenza di cose che la testa rossa ci teneva a non far trapelare.

Come il fatto che lavorasse, ad esempio.
 
Anche se Rukawa non ci trovava nulla di male, anzi. La sua reputazione ci avrebbe solo guadagnato. Non sarebbe apparso come l’irresponsabile che tutti credevano. Ma evidentemente non era questo che voleva quella scimmia e l’altro gli reggeva il gioco.

Però… perché mentire sul fatto che non fossero vicini di casa?

Rukawa capì che c’era qualcosa sotto che giustificava la bugia.

Già! Perché quella era una bugia.
 
 Le altre cose erano solo omissioni, quella invece era una bugia vera e propria.

E allora, capì che quella non doveva essere l’unica. Si girò sul fianco; era inutile continuare a pensarci. L’indomani ci avrebbe visto più chiaro.

Di certo, non sarebbe andato da Sakuragi a fare domande dirette, perché, punto primo: questi non lo avrebbe risposto.
 
Punto secondo: probabilmente, lo avrebbe preso a testate.
 
Ma lui aveva i suoi modi per scoprire le cose. Fino ad ora si era limitato a osservarlo da lontano, per cercare di afferrare la sua anima e i pensieri che, il soggetto in questione, faceva molta attenzione a non rivelare.


Tuttavia, lui aveva un vantaggio. Sakuragi non si curava minimamente di lui e se lo faceva lo insultava. Non sospettava minimamente di essere osservato dal suo peggior nemico limitandosi a nascondersi da quelli che considerava i suoi "amici”.
 
Anche se tanto amici non lo erano, considerato che non sapevano niente di lui.
 
Quindi… non gli restava che sfruttare questo vantaggio.

Guardò l’ora e vide che erano le due e mezza. Chiuse gli occhi e una nota testa rossa fece capolino nella sua mente. Lasciò che questa immagine lo accompagnasse nel sonno, rivolgendo a lui il suo ultimo pensiero e una raccomandazione muta:

Non ti stancare troppo, doaho! 
 
E si addormentò.
 
 
***
 


Hanamichi scavalcò con agilità il muro della scuola e, con passo deciso, si avviò verso la palestra.
 
Guardò l’orologio: erano le cinque e un quarto del mattino.  
 
A quell’ora, la palestra era sicuramente chiusa. Nessuno sano di mente, in effetti, sarebbe andato a quell’orario improbabile a scuola.
 
Neanche il gorilla che, avendo le chiavi, andava sempre lì la mattina presto, prima delle lezioni. Ma lui, in fondo, non si poteva definire proprio normale, valutò ironico aprendo con facilità la serratura. Avere le chiavi o meno, non aveva mai rappresentato un ostacolo per lui.

Accese la luce e si guardò intorno. Quanto amava quel luogo?

Impossibile misurarlo. Si sedette sulla panchina sorridendo.

Yo non aveva insistito per farlo andare da lui come in passato. Perché, anche lui, aveva capito che non c’era altro luogo in cui volesse stare dopo il lavoro o quando i ricordi si facevano troppo pesanti.


Il basket era la sua ancora. Ancora cui si aggrappava nei momenti più bui, quando la stanchezza si faceva sentire o, semplicemente, quando non aveva voglia di pensare.
 
 E allora correva in palestra. La palestra che apparteneva a tutti i componenti della squadra ma che, in quei momenti, era solo sua e di nessun altro.

Amava il silenzio che c’era.
Amava poter osservare i canestri e toccare la cesta dei palloni in silenzio e con venerazione.

Quando c’erano gli altri, invece, non poteva e se ne rammaricava.
Ma non ne faceva una colpa a nessuno, se non a se stesso. In fondo, era lui che non permetteva a nessuno di entrare nel suo mondo, anche se era aperto e solare con tutti. Era lui che non voleva condividere quei momenti con nessuno, perché faceva troppo male dividere con gli altri il dolore e poi vedere la pena nei loro occhi.

Solo a Yohei lo permetteva. La mattina precedente, lo aveva svegliato all’alba e trascinato con lui e l’amico non aveva fatto domande. Lo aveva seguito e, una volta in palestra, anche se aveva fatto qualche battuta, gli era stato vicino ascoltando il suo silenzio.
 
Perché Yohei sapeva cosa significava il basket e quanto fosse importante quel luogo. Ed era l’unico che conosceva i suoi sguardi e sapeva leggere i suoi silenzi. Perché lui, di silenzi, ne aveva tanti, forse troppi.
 
Strano a dirsi; gli altri avrebbero sicuramente riso. Tuttavia, valutò, anche quando era allegro e ciarliero con gli altri, non c’era alcuna differenza rispetto a quando stava in silenzio affiancato dal suo migliore amico.

Perché, in fondo, le parole di un buffone non vengono ascoltate, allo stesso modo delle parole di una persona taciturna, che non vengono neppure pronunciate.
 
Esattamente come…

“Dannazione” imprecò sottovoce.
 
Possibile che quella persona dovesse tormentarlo anche in quei momenti? Non bastava già doverlo sopportare durante l’allenamento e nelle partite?

Maledetto Rukawa! Pensò tra se.

Perché il pensiero del compagno di squadra non lo lasciava in pace? Addirittura poi, associarlo a lui nei suoi silenzi.
 
Era vero, Rukawa non parlava molto, anzi non parlava affatto.
 
Tuttavia, non parlava perché era dannatamente sicuro di se e megalomane. A lui non interessava minimamente quello che le persone avevano da dire, come non interessava farsi ascoltare. Viveva in funzione del basket, ed era quella che si poteva definire una macchina pensante. Solo quella palla arancione contava per quel ghiacciolo umano… proprio come per lui.

Ecco… l’aveva fatto ancora… l’aveva associato di nuovo a lui.
 
Ma loro non avevano niente in comune.

Niente di niente! Pensò con rabbia, stringendo forte il pallone.

Rukawa era bello, bravo, presuntuoso, acclamato, eccetera eccetera. Rukawa non parlava perché non riteneva necessario sprecare parole. Non come lui che, anche se parlava, in realtà non diceva niente per continuare a fingere e tenere alto il suo castello di bugie. Perché la sua stessa esistenza era caratterizzata da bugie.

Mentiva agli altri e a se stesso perché non voleva affrontare la realtà.
 
Il basket era stato la sua salvezza, mesi addietro, e lo era tuttora. Per Rukawa, invece, era solo un modo come un altro per mettersi in mostra. Lui non aveva bisogno di allenarsi. Lui era mister perfezione. Lui primeggiava sempre!

“Maledetto…” imprecò ad alta voce, stringendo con più forza il pallone.
 
Perché doveva pensare a lui? Perché quel bastardo doveva rovinargli i suoi momenti di quiete?

“ESCI DALLA MIA TESTA” urlò alla palestra, vuota lanciando il pallone.

“Kami…” sospirò, più calmo, portandosi una mano agli occhi.

Si inginocchiò, portandosi i gomiti sulle cosce.

“Sono stanco…” un’altra frase sussurrata.

Poi si sollevò in piedi, decidendo di andare a recuperare il pallone.

Guardò dove l’aveva lanciato, e solo allora si accorse della figura appoggiata alla porta dell’ingresso che conduceva agli spogliatoi, che lo guardava serio a braccia incrociate.

Impallidì.

Che diamine ci faceva lì? Fu questo l’unico pensiero coerente in quegli istanti.

L’altro non parlava e continuava a osservarlo serio.

Sakuragi sostenne il suo sguardo, e finalmente si decise a parlare, anche se le parole furono appena un sussurro.

“…Rukawa”

Continua...



Note:
1)      Come avrete capito, gli avvenimenti del capitolo si svolgono esattamente tra la puntata 47 e 48  dell’anime. In pratica ho prolungato la serata di Hanamichi dopo l’uscita con la sua armata e ho creato un impegno per Rukawa.

2)      Per quanto riguarda il fatto che Hanamichi e Mito siano vicini di casa, l’autore non specifica nulla in proposito per cui trovo che sia un elemento che non contrasti con il canone e che come vedrete, sarà per me un punto cardine della storia.

Che dire... spero che il capitolo vi sia piaciuto. Mi raccomando, aspetto i vostri pareri.
Pandora86.

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Capitolo 4
*** Che cosa ci fai qui? ***


 Ecco a voi il terzo capitolo della storia. 
Grazie mille per le bellissime recensioni. Grazie anche a chi ha inserito la storia tra le seguite e a tutti i lettori silenziosi.
Come il solito, a fine capitolo troverete i riferimenti con l’anime.
(ve li darei anche relativi al manga ma, purtroppo, l’ho momentaneamente ceduto e quindi non posso essere precisa nell’indicare gli avvenimenti).
Mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate!
Che altro dire… buona lettura!
 
Capitolo 3. Che cosa ci fai qui?
 

“Rukawa” ripeté, stavolta a voce più alta, rivolto all’altro, che continuava a osservarlo con uno sguardo indecifrabile non accennando a muoversi.
Solo un pensiero nella testa.

Che cosa ci fai qui?

Rukawa sapeva che lo avrebbe trovato lì. Si era alzato prima appositamente e, quando aveva visto le luci della palestra accese, aveva capito di non essersi sbagliato.

Gli era chiaro, oramai, che non doveva essere la prima volta che Sakuragi passava la notte in palestra. E si era mosso di conseguenza, come aveva sempre fatto.

Aveva capito che se lo provocava si infiammava. Aveva capito che fare i fondamentali non gli faceva piacere anche se, non sapeva il perché e che, quando li faceva, poteva scorgere il suo volto. Così non lasciava scampo ai compagni di squadra e, dopo ogni canestro, lo guardava. Ed era sicuro che la scimmia rossa se ne fosse accorta. Anche se dubitava che ne avesse capito il motivo.

La sera prima, aveva saputo che si sarebbe diretto in palestra e aveva dedotto che non doveva essere la prima volta. Motivo per cui, si era regolato di conseguenza.

Perché sapeva che, a quell’ora, avrebbe trovato il vero Hanamichi.

E, infatti, non aveva sbagliato.

Era il vero Hanamichi quello che adesso lo guardava pieno di stupore. Era impallidito un attimo prima. Sicuramente si era domandato perché fosse lì.

Ma era sicuro che quello che lo avesse fatto impallidire era non tanto il fatto di trovarlo lì.
 Quello che probabilmente lo tormentava era non sapere da quanto tempo fosse lì.

Sakuragi, nel frattempo, continuava a fissare Rukawa, non sapendo cosa fare.

Quanto aveva visto? Da quanto lo stava osservando? E perché, se era venuto ad allenarsi così presto, non era entrato e aveva iniziato, preferendo invece di starsene lì impalato sulla porta?

Si era mostrato troppo, pensò. Tuttavia, valutò, la cosa non era poi tanto grave. Certo, forse il suo comportamento poteva sembrare diverso dal solito, in fondo però, quello che aveva di fronte era Rukawa. Fossero stati Miyagi o Ayako o qualcun altro componente della squadra, allora sapeva che avrebbe dovuto rispondere a qualche domanda.

Tipo, cosa ci facesse lì o cosa significava il suo urlare a una palestra vuota.

Ma quello che aveva di fronte era Rukawa che non si curava minimamente degli altri, figurarsi di lui. Probabilmente, non lo stava veramente osservando. Aveva deciso di venire ad allenarsi e, avendo trovato la palestra occupata, aveva deciso di aspettare che se ne andasse. Nell’aspettare, si era addormentato in piedi.

Sì, è andata sicuramente così! Si convinse Hanamichi. Quella kitsune era in grado di dormire anche in piedi e a occhi aperti.

Sorvolò sullo sguardo di Rukawa. Perché, se avesse considerato la serietà e l’attenzione che c’era in quello sguardo, la sua teoria non sarebbe rimasta in piedi neanche per un istante. Ma Hanamichi era particolarmente bravo a convincersi delle cose che non voleva accettare e, una volta capita la situazione, si diede mentalmente dello stupido.

In fondo, è solo Rukawa! Considerò con se stesso e riportò la situazione alla normalità nell’unico modo che conosceva.

“Ah, ah, ah” il suono della risata sguaiata di Hanamichi rimbombò fra le mura della palestra.

“Cosa vedono i miei occhi? Un miraggio?” continuò, portandosi le mani ai fianchi e continuando a ridere con la migliore faccia da imbecille che il suo repertorio conosceva.

“La kitsune sveglia a quest’ora? Che c’è, sei imbalsamato?” aggiunse avvicinandosi all’altro, visto che questi continuava a guardarlo, stavolta con un’espressione truce, dalla stessa posizione di prima.

Idiota! Pensò Rukawa, riservandogli la sua occhiata gelida migliore.

Perché il numero undici aveva capito il gioco dell’altro. Era stato colto impreparato e quindi aveva preferito rimediare al tutto con i suoi soliti show. Ma stavolta Rukawa non lo avrebbe lasciato fare, dandogli corda come faceva di solito. Non poteva pensare davvero che lui non avrebbe dato minimamente peso allo sfogo cui aveva assistito pochi attimi prima.

Perché, che non lo considerasse passava anche. Che lo insultasse, lo aveva accettato da tempo. Ma che lo trattasse da stupido, questo Rukawa non lo sopportava proprio. Perché lui stupido non lo era per niente. Avrebbe di gran lunga preferito che l’altro si fosse defilato o l’avesse ignorato. Sarebbe risultato meno offensivo per la sua intelligenza, visto che in quei mesi le sue osservazioni silenziose lo avevano portato a conoscere il suo compagno di squadra molto di più di quanto lui stesso lasciasse intendere. E sicuramente sapeva di più dei suoi cosiddetti amici, esclusa la sua banda. Persone che ridevano e scherzavano con lui ma che in realtà si bevevano ogni frottola che raccontava, dando per scontato che non ci fosse nient’altro da sapere. Persone che davano per scontato che il Sakuragi da conoscere fosse tutto lì. Ma il fatto che avesse preferito riservargli i suoi teatrini lo mandava fuori di testa.

Ma stavolta non ti farò illudere di avermi fregato, do’hao!

“Dì la verità, kitsune” continuò Sakuragi imperterrito, ignaro del filo dei pensieri dell’altro. “Sei venuto a spiare gli allenamenti del Tensai per afferrare i segreti delle mie immeeense doti, ma non ci riusciiiraaai maaai. Ah, ah, ah”.

“Nh..” mugugnò Rukawa, osservandolo con una strana luce negli occhi e avvicinandosi lentamente a lui.

Sakuragi rimase per un attimo interdetto. Si era aspettato che Rukawa lo chiamasse idiota e lo aggirasse per iniziare ad allenarsi. Invece, si era avvicinato e ora lo fissava in modo strano. Quegli occhi lo misero a disagio. Rukawa stesso lo metteva a disagio in verità. Insultarlo era facile come venire alle mani; ma reggere quello sguardo così penetrante era un’altra cosa: sembrava leggergli dentro. Tuttavia, non abbassò gli occhi e non mutò espressione; non si sarebbe scoperto ancora. Non con il suo peggior nemico, perlomeno.

Rukawa si avvicinò ancora, tanto da far rimanere una distanza irrisoria tra loro, fino a che non decise di parlare.

“La mancanza di sonno ti fa parlare ancora più a vanvera, do’hao” sussurrò, con voce lenta, ad appena qualche centimetro dalle sue labbra.

Osservò il lampo di stupore passare in quegli occhi così espressivi che però, con suo sommo rammarico, aveva occasione di vedere poche volte e mai così da vicino.

“Per stavolta passi” sussurrò a voce ancora più bassa, tuttavia perfettamente udibile dal suo interlocutore, facendo attenzione a scandire bene le parole. Poi, come se nulla fosse successo, lo aggirò e, prendendo un pallone, incominciò ad allenarsi.

Per stavolta passi? Che cazzo significa?

Era questo il pensiero di Sakuragi in quel momento.

A cosa si riferiva? Possibile che intendesse quello di poco fa?
Questi erano i pensieri del numero dieci.
Sentì il rumore della palla e osservò l’altro.

Rukawa si comportava come se niente fosse. E lui? Cos’avrebbe dovuto fare, invece?

Sicuramente, avrebbe dovuto chiedere cosa voleva dire, ammesso che poi l’altro gli avesse risposto. Ma era veramente sicuro di volerlo sapere?

“Ma va al diavolo, razza di mentecatto!” urlò arrabbiato e si defilò di corsa verso l’uscita della palestra.

Rukawa guardò il compagno di squadra uscire con un moto di rabbia.

Provava rabbia perché, adesso, Kaede Rukawa era incazzato.


… Era dannatamente incazzato.

E così, la scimmia aveva preferito battersi in ritirata ed evitare il confronto.
Perché non era così stupido e sapeva a cosa si riferiva la sua frase. La sua stessa fuga glielo confermava. Sapeva che se non avesse intuito il significato delle sue parole probabilmente sarebbe rimasto e sarebbero venuti alle mani, tanto per cambiare. Soprattutto ora che non c’erano né il capitano né la loro manager a interromperli, come poteva farsi scappare un’occasione così? Considerato che l’unica cosa che sembrava renderlo veramente felice era riempirlo di pugni e primeggiare almeno in quello. Sicuramente, spaccare la s faccia della super matricola lo avrebbe reso di buon umore. Chissà, magari sarebbe piaciuto meno alla babbuina e di conseguenza il do’hao avrebbe potuto guadagnare qualche punto in più agli occhi di Harukina caaraaa.

Perché questo sarebbe stato il ragionamento dell’Hanamichi che incontrava tutti i giorni in palestra. Mettersi in mostra, mettere in ridicolo lui e poi conquistare la sua bella. Che, tra l’altro, Rukawa gli avrebbe lasciato più che volentieri. Oramai era uno schema noto a tutti i componenti della squadra. Ma a lui questo non importava. Se Sakuragi voleva far credere a tutti che lo odiava solo perché c’era di mezzo un’insulsa ragazzina, fatti suoi ma lui, di certo, non se la beveva.

Certo, forse all’inizio era stato così e forse questo era uno dei tanti motivi che giustificavano il suo odio. Ma di sicuro non il più importante. Perché lo detestava in modo troppo profondo e, considerato che non era così stupido come lasciava credere, la babbuina era una scusa troppo superficiale, anche se calzava a pennello con la maschera che portava.

Quanto ti conosco, eh Hanamichi? Non ci crederesti mai!

Ed era per questo che prima gli aveva detto quelle frasi. Perché lui lo conosceva. Molto più degli altri e molto più di quanto lui sospettasse.

Ed è forse ora che anche il Do’hao cominci a capire.

Perché era stufo. Che Sakuragi facesse l’imbecille con gli altri. Ma che non prendesse per il culo lui.

Era ormai una questione di principio, Rukawa lo sapeva.

Accettava che lui lo odiasse. Ma non poteva credere di ingannarlo. E soprattutto, non doveva dare per scontato che l’odio fosse ricambiato.

Perché, se l’antipatia era una cosa, l’odio ne era un’altra. Lui non ne provava verso il do’hao ma era suo diritto sapere la motivazione di questo sentimento verso di lui. Se lo detestava, almeno che gli dicesse il reale motivo.

Ma non trovava giusto essere odiato senza neppure avere una possibilità di appello. Non pretendeva che l’altro ricambiasse i suoi sentimenti, ci aveva rinunciato da tempo anzi, era più corretto dire che non ci aveva mai sperato… ma essere detestati così profondamente non era un toccasana e, senza saperne il motivo, era logorante…sempre di più.

Chissà che shock era stato per lui sapere che aveva notato che non aveva dormito.

In verità non si notava affatto, dovette ammettere, con se stesso, Rukawa. Evidentemente, ci aveva fatto l’abitudine, pensò con tristezza centrando nuovamente il canestro. Però Hanamichi non sapeva che lui aveva origliato la sera precedente; di conseguenza doveva aver pensato che lui lo avesse notato.

Lui, il suo peggior nemico, che lo aveva osservato con così tanta attenzione, da notare che non aveva dormito. Doveva essere stata una rivelazione per il numero dieci.

Lui, il suo peggior nemico, che aveva assistito al suo sfogo.

Ma che umiliazione per il Tensai delle finzioni. Perché doveva ammetterlo: in quello era un vero Tensai. Ma non così bravo da ingannare lui.

Si chiese, ancora una volta, cosa lo tormentasse in maniera così logorante.

Lo aveva sentito dire di essere stanco. Ma Rukawa sapeva che quella frase non racchiudeva solo la sua stanchezza fisica e, in quel momento, aveva provato una profonda tristezza per il do’hao. Ma si era anche sentito impotente. Perché lui non poteva fare niente. Sakuragi non l’avrebbe permesso. In verità, non l’avrebbe permesso a nessuno.

Si era aspettato di trovarlo stanco e, magari, addormentato su una panchina.

Invece, cosa aveva visto?

Un Sakuragi che si beava del silenzio della palestra. Un Sakuragi che toccava, con venerazione, un pallone da basket. E aveva avuto la conferma ai suoi sospetti.

Per entrambi, giocare a basket era la vita.  Per questo, valutò, evidentemente si era sempre sentito attratto da lui. E non solo dal suo corpo. Ma dalla sua mente.

Perché Sakuragi e il basket erano la stessa cosa. L’uno non escludeva l’altro, anzi. Amare il basket significava amare anche Sakuragi che, con il suo talento, sembrava essere nato solo per giocare. E amare Sakuragi significava amare il basket visto che, per lui, giocare era vitale come respirare. 
Solo Sakuragi poteva capire quello che provava quando lui giocava, perché sarebbe diventato un campione, come lui. Era stato una rivelazione, come lo era stato lui. Perché era impossibile avere tanto talento e ignorare il richiamo del gioco. Per Sakuragi, il basket, contava molto più di quello che lasciava intendere. E Rukawa ebbe il sospetto che, al pari di lui, avesse solo quello.

Infatti, era corso in palestra in cerca di pace da chissà cosa. Ma aveva incontrato la sua nemesi. Nemesi che, tra l’altro, doveva averlo sconvolto non poco.

Ma non finisce qui! Pensò Rukawa, centrando per l’ennesima volta il canestro.
        
 
***
 


Che giornata di merda! Pensava intanto Sakuragi, seduto sul muretto fuori l’ingresso della scuola. 
Non mancava molto all’inizio delle lezioni e, di conseguenza, non aveva senso andare a girovagare a zonzo. Non si era minimamente accorto che fosse passato tutto questo tempo. Da un lato ne fu lieto. Tra un po’ sarebbero venuti i ragazzi dell’armata e avrebbe potuto parlare un po’ con il suo fidato braccio destro.

Anche se… parlare di cosa? Sensazioni?

Come avrebbe potuto spiegare a Yohei, in maniera semplice e lineare, i fatti di quella mattina? In fondo, non era avvenuto niente di che. E se non era avvenuto niente di che, non avrebbe dovuto parlare di nulla, in effetti.

Non era sicuro di riuscire a spiegarlo all’amico anche se, sicuramente Mito si sarebbe accorto che qualcosa non andava. Era sconcertante come Yohei riuscisse a leggergli dentro.

Eppure, esisteva una parola che riassumeva tutto quello che provava.

Era preoccupato. E dalla preoccupazione scaturiva la paura.

Paura che Rukawa non dormisse come sembrava. Che non fosse poi così disinteressato al mondo esterno come appariva. 

Come aveva fatto a notare che non aveva dormito?

E perché aveva marcato la parola stavolta?

Era certo che si riferisse alla sua uscita di poc’anzi e non alle sue pagliacciate.

Tra l’altro… che ci faceva a quell’ora in palestra? Non lo aveva mai incontrato. Il capitano andava lì ad allenarsi tutte le mattine, ma Rukawa?

Sembrava quasi che… sapesse di trovarlo lì.

Ma questo non è possibile pensò, scartando con decisione quest’ipotesi. Perché, anche se l’avesse saputo, e non vedeva come, per quale motivo sarebbe dovuto andare lì per incontrare proprio lui?

Eppure… la sensazione di paura rimaneva. Di solito, non si curava di Rukawa, ma se la kitsune non era così estranea al mondo, allora cosa sapeva di lui?

Ovviamente niente, si rispose.

Però… gli venne in mente che dopo ogni canestro che faceva quando lui era impegnato nei fondamentali lo guardava. Non se ne era mai domandato il perché eppure, prestando più attenzione al passato, gli vennero in mente varie volte in cui Rukawa era stato…diverso nel rapportarsi a lui.

Sì, diverso era la parola adatta.

Quando lo aveva spronato con lo Shoyo… perché, se lo riteneva un incapace?

Quando gli aveva fatto i complimenti…perché, se non lo considerava affatto?

Possibile che fosse interessato a lui?

Gli venne in mente che non era solo contro lo Shoyo che Rukawa lo aveva spronato. Era avvenuto anche molto tempo prima, quando ancora non era iniziato il campionato interscolastico. Esattamente, quando avevano giocato un’amichevole contro il Ryonan. Ricordava ancora perfettamente com’era andata. Era nel panico più totale e gli altri non facevano altro che dispensare consigli che non sortivano alcun effetto. Lui non lì sentiva più. Era la sua prima partita e doveva sostituire Akagi che si era infortunato.

Poi, Rukawa gli aveva tirato un calcio.

“Ehi seghetta, vedi di darti una calmata se vuoi combinare qualcosa di buono”.

E lui aveva reagito. Rukawa aveva toccato il tasto giusto. Aveva capito come smuoverlo. Possibile che lo avesse inquadrato così bene?

E questo gli fece paura. Perché, a quanto pareva, non solo Rukawa sembrava conoscere i tasti giusti per spronarlo, ma sembrava avere afferrato l’essenza del suo carattere con estrema facilità.

Se era così, non era certo di esserne contento. Il fatto che conoscesse le sue reazioni tanto bene non poteva portare a nulla di buono e il suo probabile interesse di certo non aveva un fine benevolo anzi…magari si divertiva a tormentarlo perché aveva capito che … ma non lasciò che la sua testa finisse di formulare il pensiero.

Non è possibile! Non può averlo capito! Nessuno può averlo capito!

Tra l’altro, ora aveva cose più importanti cui pensare. Ma non potette fare a meno di richiamare, nella sua mente, l’immagine di Rukawa che si avvicinava a lui. Era stato calore quello che aveva provato, misto a chissà quale aspettativa. 
Calore dal ghiacciolo umano poi, che controsenso.

Cosa devo fare ora?

E, tra questi pensieri, si addormentò.
                
 
***

 
Sussultò al suono della campanella. Avrebbe saltato volentieri la prima ora in fondo, dormire in terrazza, era molto più costruttivo.

Peccato che quella fosse la campanella della seconda ora, costatò con disappunto alzandosi per raggiungere la sua classe. Avrebbe dormito lì.

Tutta colpa tua, do’hao! Ma metto in conto anche questa.

Perdere addirittura le sue preziose ore di sonno. Se l’idiota non la smetteva di fingere che la sua vita fosse tutta un bellissimo gioco probabilmente, piuttosto che limitarsi a osservarlo in silenzio, lo avrebbe pestato a sangue.

Sì, era un’ipotesi allettante. E poi, dopo averlo conciato per le feste, si sarebbe fatto dire che diamine aveva, perché lo odiava e perché si ostinava ad apparire sempre in quel modo. 
Perché era questo il problema. Non dubitava che Sakuragi fosse allegro, solare e pieno di vita. 
Ma dubitava del fatto che lui fosse sempre così. Tutti avevano i loro momenti “no”. Tutti tranne lui, che indossava quella perenne maschera di ilarità, quasi calcando apposta i lati migliori del suo carattere, facendoli apparire i peggiori. 
Ma lui, da attento osservatore, aveva scorto il suo vero volto. 

Un volto che aveva dei problemi. Un volto che, ogni tanto, era pensieroso. Un volto velato di amarezza.

Ed era per questo che lui voleva sapere.

In effetti, pestarlo a sangue per farsi dire il perché era sempre più allettante.

E poi gli avrebbe detto che magari lo avrebbe aiutato, qualunque fosse il problema, avendo così qualche possibilità di risultargli più simpatico. Di certo, in questo modo, non avrebbe perso ore di sonno.

Tuttavia scartò l’ipotesi. Dubitava che Sakuragi si sarebbe confidato proprio con lui, anche se la pena era quella di essere torturato.

Sospirò, sentendo un suono familiare in fondo al corridoio.

Ma quanta energia aveva? Si domandò osservandolo. Eccolo che era impegnato in una delle sue recite con la sua fidata compagnia. Da quello che diceva, sospettava che in classe ci fosse la babbuina che aveva tutte le sue attenzioni.

Lo sentì parlare di psicologia femminile.

Mmh… quindi, secondo lui, la sorella del capitano sospirava triste per lui.

Beh… anche lui di psicologia non se ne intendeva.

Sta a vedere, do’hao.

E si incamminò lungo il corridoio, non calcolandolo di striscio ma, attentissimo a ogni particolare.

Ed ecco che la ragazza lo guardava, agognando in un suo sguardo, sentendo poi dopo il puntualissimo insulto da parte di Hanamichi.

Suvvia, do’hao! Per avere il cuore infranto, non mi sembri troppo deluso. Dovresti ringraziarmi visto che ti tengo il gioco. Ci vediamo agli allenamenti.
Fu questo che Rukawa pensò avviandosi, senza voltarsi, nella sua classe.

Ma quel giorno agli allenamenti, di Hanamichi, non ci fu traccia.

Rukawa poteva vedere la rabbia di Akagi per la sua assenza. Il capitano temeva che Sakuragi si fosse montato la testa e, di conseguenza, avesse inventato la scusa dell’intervista per non presentarsi. Ed era arrabbiato perché Sakuragi si stava rivelando più fondamentale di quanto tutti si aspettassero, tutti meno che lui.

Rukawa aveva sempre avuto il sospetto che quel ragazzo si sarebbe rivelato un portento in quello sport. Per questo se ne era sempre sentito attratto.

Tuttavia, sapeva anche che non aveva saltato gli allenamenti perché li snobbava.

Alla fine delle lezioni, aveva sentito lui e la sua immancabile armata parlare di Oda. A quanto aveva capito, il do’hao voleva vederci chiaro in qualcosa.

Aveva nominato anche una ragazza e sembrava preoccupato per lei.

Ma come, pensò ironico, e Harukkiiiiina caraaa dove la mettiamo?

Aveva sempre sospettato che, in fondo, Sakuragi non fosse innamorato veramente della ragazza. Certo, era molto legato a lei. Era gentile con lui e lo incoraggiava; e Rukawa credeva che, in fin dei conti, verso la ragazza provasse solo molta riconoscenza per la stima che lei riponeva in lui. Certo che però, legarsi in tal modo a una ragazzina solo per un po’ di incoraggiamento faceva pensare, costatò Rukawa. Evidentemente, Hanamichi era alla disperata ricerca di qualcuno che lo trattasse con affetto… e questo poteva significare che nei suoi sedici anni poteva averne ricevuto molto poco. Comunque queste erano solo ipotesi. E lui adesso aveva altro cui pensare. O meglio, altro da fare, si corresse uscendo dalla doccia.

Se il Do’hao non si era presentato agli allenamenti, poteva voler dire che era ancora alla scuola Takezono. Rukawa sapeva dove era quella scuola. A inizio anno l’aveva scartata subito perché troppo lontana da casa. In effetti non era lontanissima, dal liceo Shohoku ci si poteva arrivare a piedi in poco. Diciamo che era troppo lontana per la distanza che concedeva la sua pigrizia.

Ora però doveva decidere se andare lì o meno.

Se fosse andato, probabilmente avrebbe saputo cos’aveva in mente la scimmia. Doveva essere una cosa importante per fargli saltare gli allenamenti.

Se invece fosse andato a casa, avrebbe potuto solo continuare a fare supposizioni su supposizioni sperando di carpire qualcosa nei giorni successivi.

Ripensò allo sfogo di Hanamichi quella mattina… forse non c’entrava niente… però…

Tra l’altro, lo aveva trattato da stupido. Lo aveva sottovalutato, non considerandolo affatto.

E fu questo il pensiero che fece decidere Rukawa.

Non mi sottovalutare do’hao.
                            
 
***
 


Oramai era in prossimità della scuola. Forse, il do’hao se ne era già andato. In effetti, anche gli allenamenti della squadra di basket del Takezono dovevano essere finiti. 

I suoi pensieri furono interrotti da un vociare di ragazze che stavano uscendo dalla scuola, armate di scope.
 
“Quelle luride spie si sono defilate” urlava quella che doveva essere il capo banda.
 
“Il nostro uomo è uno solo: ODA. E lo abbiamo difeso da quei bastardiii!

“SIIIII”.

Rukawa si portò le mani alla testa, sospirando in modo teatrale.

Si può sapere che hai combinato, do’hao?

Certo però che le ragazze, quando si mettevano… ripensò al suo fan club.

Mamma mia!

“Ho fammeeeeeeeeee”.
Rukawa sentì una voce familiare piagnucolare.

“Dite che se ne sono andate?” disse un’altra voce familiare.

Rukawa fece appena in tempo a togliersi dalla visuale. Immaginò Sakuragi e i suoi attorniati da tante gentili donzelle armate di scope e arnesi vari. Se fosse stato diverso, probabilmente, non sarebbe riuscito a trattenersi dalle risate.

“Io direi di si”. Questa era la voce di Mito. “Mica potevano stare qui tutta la serata. Tra l’altro, siamo fortunati Hanamichi! Le luci della palestra sono ancora accese”.

“Già” rispose questa volta l’inconfondibile voce. “Allora, finalmente, possiamo fare quattro chiacchiere con Oda e chiedergli perché fa soffrire Yoko”.

Rukawa guardò Sakuragi e company dirigersi in palestra. Se entrava anche lui, rischiava di farsi beccare. Li avrebbe aspettati lì e avrebbe ascoltato i loro commenti. Aveva notato lo sguardo serio del do’hao. Evidentemente, era con tutti i componenti della banda che si sentiva libero di essere se stesso, anche se era Mito quello cui doveva essere più legato. Si sentì, per un attimo, invidioso.

Cos’avrebbe dato per essere al posto di quel ragazzo? Però... era contento che Hanamichi avesse almeno qualcuno su cui contare. In fondo… le cose potevano sempre cambiare; perché Mito non aveva il basket che lo legava all’amico.

Non dovette aspettare molto. Presto vide la nota armata uscire dalla palestra.

Bene! Magari adesso capirò perché hai saltato l’allenamento, do’hao! E forse, non solo questo.

“Bene Hanamichi, sei contento? Abbiamo risolto il mistero e non siamo stati pestati dalle fan di Oda”.

“Già… sono contento però che si sia tutto risolto” sentì dire da Mito.

“Ehi Hanamichi, hai perso la bussola?” domandò quello grasso.

“Casa tua non è da quella parte” sentì dire dal biondo.

Rukawa vide Sakuragi allontanarsi, senza neanche rispondere i suoi amici.

“Lasciatelo stare” sentì dire da Mito. “Ora vuole stare da solo. Credo che sia diretto in palestra”.

A quanto pare, valutò Rukawa, Mito era anche quello che lo conosceva meglio di tutti e che sapeva interpretare meglio i suoi stati d’animo.

“Perché è così cupo? Dovrebbe essere contento. In fondo, Yoko non viene cornificata. Era solo preoccupata per la caviglia di Oda. O forse, vuoi dire che si sente in colpa anche per quello?” domandò il biondo.

“ Non dirmi che avremmo dovuto lasciare che lo pestasse così, non si sarebbe infortunato sul serio giocando” chiese, a sua volta, quello con i baffi.

Il solito imbecille, pensò Rukawa.

“No! Non intendeva pestarlo sul serio, lo sapete” ribatté Mito. “Stava solo facendo un po’ di scena. Credo che sia solo preoccupato e che voglia stare un po’ da solo”.

“Come se non avesse altro cui pensare” disse serio sempre quello con i baffi. “E poi” aggiunse, “ogni tanto qualche parola in più potrebbe anche sprecarla. Mica lo leggiamo nel pensiero”.

A Rukawa quella frase fece riflettere. Non era quello che dicevano spesso di lui? Con parole diverse, certo, ma il senso era lo stesso.

“Lo sapete com’è fatto” rispose Mito sorridendo. “Gioca a fare il teppista ma non riesce a fare a meno di aiutare gli altri” aggiunse con un sorriso.

Sentendo questa frase, un moto di tenerezza pervase Rukawa. In fondo, aveva sempre saputo che il do’hao fosse di animo buono.

“E poi” aggiunse serio, “preferisco interpretare i suoi silenzi piuttosto che ascoltare frasi senza senso. Tra l’altro, anche quando parla con gli altri non è che dica molto in realtà” concluse il fidato braccio destro del numero dieci.

E Rukawa pensò che avesse pienamente ragione. Perché, era una cosa che aveva sempre pensato anche lui.

“Beh… noi andiamo a casa. Tu che fai, Yo? Vai da lui?” a parlare, questa volta, era stato il biondo.

“No, vado a casa sua. È da un po’ che non ci vado. Credo che mia madre già sia lì. Vado a darle una mano”.

“Ci vediamo domani a scuola allora” salutò quello grasso.

 E si separarono.

Rukawa, a quel punto, non ebbe dubbi su cosa fare e, visto che oramai era arrivato fin lì, tanto valeva continuare. Con Sakuragi, aveva già avuto un incontro ravvicinato quella mattina e, per quanto avrebbe voluto stargli vicino, sapeva che la sua presenza sarebbe stata controproducente, visto che anche Mito riteneva opportuno lasciarlo solo. E considerato che era quello che lo conosceva di più, doveva fidarsi del suo giudizio. Inoltre, da Sakuragi quella sera non avrebbe ricavato nulla.

Invece, considerò, se Mito passava a casa del do’hao avrebbe potuto vederci chiaro sulla bugia riguardo al fatto che fossero vicini. Inoltre, sospettava che neanche gli altri, a parte la sua banda, sapessero dove abitava. In effetti, il do’hao aveva sempre sorvolato sull’argomento.

Che significava poi, è da un po’ che non vado e il resto?

Forse, andava a salutare i suoi genitori… ma… non stava in piedi con il resto del discorso.

Bene! Pensò. Forse tra un po’ ci avrebbe visto più chiaro.

Seguì Mito per un po’, fino a che non lo vide entrare in un’abitazione. Poggiò la sua bicicletta a un albero e si avvicinò alla casa leggendone il cognome.

C’è qualcosa che non quadra, pensò. Quella era la casa di Mito.

Tuttavia, valutò, se erano vicini di casa, avrebbe trovato l’abitazione di Hanamichi nei dintorni. E almeno, avrebbe avuto la conferma che non abitava lì.

Si mosse verso la piccola villetta alla sua destra leggendo il cognome:

Sakuragi, dicevano i kanji.

Ma allora… che cazzo significa tutto questo?

Casa mia è più lontana. Erano state queste le parole di Hanamichi.

Sì, di quanto? Due metri?

Notò che la porta era socchiusa.

Beh… al massimo avrebbe detto che era un compagno di squadra di Sakuragi. In fondo, era la verità.

“Permesso” disse bussando sulla porta aperta senza però avere risposta.

Si tolse le scarpe ed entrò. Qualcuno doveva esserci visto che la porta era aperta e la luce accesa.

“Finalmente sei arrivato” sentì dire.

Vide una donna sulla cinquantina dall’aspetto giovanile venirgli incontro e guardarlo sorpresa. Evidentemente, aspettava qualcun altro.

Doveva essere la madre del do’hao. Forse era a lui che si riferiva. Anche se comunque le cose non tornavano. Qui, più che avere chiarimenti, sembrava che la matassa si stesse ingarbugliando sempre più.

Rukawa si affrettò a presentarsi.

“Sono un compagno di scuola di Hanamichi, lui non c’è?” domandò con noncuranza.

Vide la donna sgranare gli occhi e guardarlo ancora più sorpresa. Eppure aveva fatto una domanda banale. Invece, lei lo guardava come se fosse un matto. Che fosse affetta da idiozia cronica come il figlio? Forse quella del do’hao era una malattia ereditaria.

Una voce dura alle sue spalle interruppe il filo dei suoi pensieri.

“Tu che cosa ci fai qui?”
 

Continua...

Note:


1)   Gli avvenimenti di mia invenzione narrati nel capitolo si svolgono esattamente nella puntata 48 dell’anime.

2)   La parte dove Rukawa cammina per il corridoio della scuola è una parte originale presa dal canone; io l’ho rielaborata dando una nuova base introspettiva.

3)   Come ricorderete, successivamente Hanamichi si reca dal suo rivale ed io ho fatto in modo che Rukawa lo seguisse.

4)   Le frasi che dicono i suoi amici dopo, cioè: Ehi Hanamichi hai perso la bussola e casa tua non è da quella parte, sono le frasi originali. In pratica ho aggiunto qualche frase prima e creato un discorso dopo, sfruttando il fatto che Hanamichi non rispondesse alla sua armata e si recasse in palestra in silenzio. Per quanto riguarda Rukawa invece, gli ho solo creato un impegno per la serata intrecciandolo con gli avvenimenti riguardanti Hanamichi e company.
 
5)   L’episodio in cui l’armata viene accerchiata dalle ragazze è preso dal canone. Lo trovavo molto divertente e di conseguenza ho deciso di inserirlo.

Che dire… Spero che il capitolo vi sia piaciuto…  Mi raccomando fatemi sapere cosa ne pensate!!

Pandora86
 

 

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Capitolo 5
*** Amico o nemico? ***


Ecco a voi il quarto capitolo della storia.
Grazie mille a Rebychan per la bella recensione del capitolo precedente. Grazie anche a chi ha inserito la storia tra le preferite e le seguite.
Grazie anche a tutti i lettori silenziosi.
Mi raccomando…. Fatemi sapere che ne pensate!!
Buona lettura.
 
 
Capitolo 4. Amico o nemico?
 
Rukawa non si voltò. Sapeva che a parlare era stato Mito che ora non era più alle sue spalle e si avvicinava alla donna.

“Qui finisco io, mamma. Tu vai a casa”.

Quindi quella non è la madre del do’hao, valutò Rukawa.

“Va bene caro. Ho sistemato di sopra. Tuttavia se tu…” rispose la donna.

“Sì mamma, lo so!” la interruppe il figlio non staccando gli occhi da Rukawa. “Ora vai, ci penso io”.

“Non so… sei sicuro?” domandò titubante la donna, guardando ora lui, ora il figlio.

Da come si stavano fissando, doveva avere capito che non scorreva buon sangue tra loro, considerato che il saluto di Mito non era stato dei più amichevoli.

E come dargli torto, in effetti. Era l’ultima persona che, probabilmente, si sarebbe aspettato di trovare lì.

“Sì, mamma. Ora vai” il tono era serio, ma non scortese.

Era evidente che avrebbe voluto sapere cosa stava succedendo ma si affrettò a uscire. Doveva avere capito, dal tono del figlio, che non era il momento.

Rukawa non aspettava altro. Era entrato nella faccenda e ora non si sarebbe tirato indietro.

Quello che Kaede Rukawa vuole, allora Kaede Rukawa ottiene! Pensò, fronteggiando l’altro con lo sguardo.

Lo sovrastava in altezza ma era un vantaggio effimero, se era Mito che ti ritrovavi davanti, considerando che la stessa figura del ragazzo e il suo sguardo, sapevano essere imponenti quando voleva.

In fondo è un teppista. Ed è anche molto forte, pensò Rukawa. Ma lui di certo non si sarebbe tirato indietro.

“Allora” domandò nuovamente Mito quando la donna fu uscita.

“Tu esattamente… cosa ci fai qui?” terminò incrociando le braccia, non smettendo di fissarlo per neanche un istante.

Rukawa non sapeva che dire ma non avrebbe abbassato lo sguardo. In fondo, considerò, era chiaro perché fosse lì. O almeno, poteva essere intuito. E comunque, non era questo il momento di parlare, visto che Mito non si aspettava una risposta. Non da lui almeno.

Mi sta studiando! Pensò Rukawa. E non gli interessa che dica frasi sul motivo che mi ha spinto qui. Lui lo sa già.

Perché di quello, oramai, era sicuro. Aveva domandato perché fosse lì, certo. Ma non si era mostrato minimamente sorpreso quando lo aveva visto. O meglio, considerato che era di spalle, era stato il suo tono a non essere sorpreso. Era stato solo molto serio.

Sì! Lui sa perché sono qui, considerò Rukawa ripensando al tono che il ragazzo aveva assunto nelle poche frasi che aveva detto.

Lasciò che l’altro finisse il suo esame, non facendosi intimorire minimamente. Del resto, dubitava ci fosse qualcosa che potesse mettergli paura o metterlo in soggezione.

Ed era bene che anche l’altro lo capisse. Anche se probabilmente lo sapeva già, visto il suo acume.

Perché aveva sempre saputo che quello, più degli altri componenti della banda, era quello più perspicace. E, se voleva sapere qualcosa del do’hao, il mezzo era passare attraverso il benestare di Mito. Sospettava che non ci avrebbe pensato due volte a spaccargli la faccia, se solo avesse sospettato che le sue intenzioni verso Hanamichi non erano buone. E Rukawa sospettava anche che i suoi pugni non sarebbero stati leggeri come quelli di Hanamichi.

Non che Sakuragi fosse meno forte, anzi. Ricordava ancora la facilità con la quale aveva steso Tetsuo. Tuttavia, quando si picchiavano, Sakuragi non ci andava così pesante. E neanche lui, in effetti. Le loro scazzottate erano quasi uno schema prestabilito agli allenamenti, ma nessuno dei due puntava a farsi veramente male.

Il che è abbastanza strano, visto quanto mi odia rifletté Rukawa.

Nel frattempo, in quel dialogo silenzioso, anche Mito faceva le sue considerazioni.

È molto perspicace! Pensò Mito, continuando a guardare Rukawa che non abbassava lo sguardo

Ha capito che non voglio una risposta e, di conseguenza, non me la dà. Anzi… ha capito che sto considerando se posso fidarmi di lui o se devo cacciarlo via, e si sottopone al mio esame con sguardo fiero e risoluto. Vuole che mi fidi di lui. Non mi sono sbagliato riguardo a Rukawa.

Si decise quindi a spezzare quel silenzio.

“Sempre molto loquace vedo”.

Era ancora serio, anche se sembrava più rilassato, valutò Rukawa. Forse aveva capito che poteva fidarsi di lui.

“Nh” si limitò a mugugnare in risposta, e stavolta si permise di dare anche un’occhiata alla casa. Per tutto quel tempo non aveva fatto che guardare Mito, non curandosi minimamente dell’ambiente circostante. Però… era curioso di vedere la casa del do’hao. Considerando che di certo Hanamichi non lo avrebbe mai invitato.

Quella era quindi un’occasione più unica che rara.

Si guardò attorno con curiosità, non facendo però trapelare nulla dal suo sguardo o dai suoi movimenti. Solo leggeri spostamenti della testa e la direzione dei suoi occhi facevano capire che si stava guardando intorno.

Vide che nella stanza dove si trovavano, l’ingresso, c’erano un divano e due poltrone coperti da lenzuoli bianchi.

Il tavolino centrale era coperto da una plastica trasparente, come a volerlo proteggere dall’usura. E anche gli scaffali che contenevano i libri, che stavano ordinati sulla parete di fronte al divano, erano coperti da un vetro. Quelli che invece non erano messi in ordine, erano protetti da un’apposita plastica per copertine e sembrava che non fossero mossi da tempo. Questi particolari lo colpirono molto.

Sembrava che ogni mobile, gingillo e quant’altro ci fosse, non venisse toccato da molto. Ma un pensiero lo colpì più di un altro. Ogni cosa era protetta dall’usura del tempo e dalla polvere. Sembrava quasi che il proprietario della casa avesse voluto conservare tutto com’era per un lasso di tempo indeterminato, visto che non era pratico usare una qualunque cosa in quella stanza, e forse in tutta la casa, togliendo le protezioni che c’erano e rimettendole ogni volta.

Lenzuoli per le poltrone, plastiche per i mobili e i libri, teche per i gingilli.

Ma che razza di casa è?!

Era vero che ci abitava il do’hao però… qui si rasentava l’assurdo.

Chi diamine poteva vivere in una casa del genere? Perché era questo il punto:
non sembrava minimamente vissuta… o meglio… lo era stata chissà quanto tempo prima.

Sembra quasi di essere in un…

“Museo” la voce di Mito terminò il suo pensiero.

Era acuto quel ragazzo. Aveva seguito il suo sguardo, indovinandone facilmente i pensieri.

“Fa lo stesso effetto anche a me” aggiunse e, stavolta, il suo tono era triste.

Rukawa però aveva ora un milione di domande da fare. Al diavolo se avesse dovuto sprecarsi a parlare un po’ in più.

 Voleva sapere. Doveva sapere.

“Suppongo che tu abbia molte domande”.

Ecco che di nuovo lo leggeva dentro.

“Ma prima avrei da fartene una io. E non mentirmi!” fece una pausa. “Me ne accorgerei” concluse con un sorriso appena accennato.

Rukawa vi lesse una velata minaccia. Il tono basso, il mezzo sorriso.  Tuttavia, alzò lo sguardo chiedendosi cosa potesse volere Mito da lui.

“Nh?” mugugnò interrogativo, alzando un sopracciglio.

“Voglio sapere… se mi sei amico o nemico”.

E Rukawa, questa volta, non afferrò esattamente cosa volesse dire.

Dalla sua faccia dovette essere evidente visto che l’altro si affrettò a spiegare.

“Lascia che ti chiarisca le mie personali definizioni di amico o nemico”.

Ah, ecco! Adesso viene il bello! Pensò Rukawa che si fece attento.

Perché aveva capito dove l’altro volesse andare a parare. E se la sua risposta fosse stata sincera, allora… beh… forse non si sarebbe più limitato solo a osservare il do’hao, perché era l’unica cosa che gli era concessa.

 Magari…
“È mio amico” chiarì Mito, “chi non vuole fare del male a Hanamichi, e non intendo un male fisico. Intendo chi lo stima. Chi lo tratta da amico. Chi nutre un affetto sincero per lui” e si interruppe, quasi come se volesse dare modo all’altro di afferrare il concetto.

“È mio nemico” riprese dopo un po’, “chi vuole prenderlo in giro. Chi è attratto da lui”.

A quelle parole Rukawa, sussultò impercettibilmente, cosa che non sfuggì all’altro che allargò il sorriso.

Tuttavia, considerò Rukawa, quanto più il sorriso dell’altro si allargava, tanto più i suoi occhi si assottigliavano. Inoltre, non si era mosso nemmeno di un millimetro. Era evidente che fosse pronto a buttarlo fuori a calci. Magari, pronto per un ricovero.

“Oh, sì! Me ne sono accorto e la cosa non dovrebbe sorprenderti visto quanto lo osservi” riprese Mito.

Rukawa assottigliò gli occhi. E così, non solo si era accorto che era attratto dal do’hao ma anche che lo osservava spesso… praticamente sempre.

Provò un certo tipo di stima inconscia verso quel ragazzo. Il do’hao era in buone mani.

“O considerato” riprese, “quanto sei scarso a origliare o nei pedinamenti. Anche se sei molto forte, non sei un ragazzo di strada. Ma evidentemente le tue osservazioni si limitano a Hanamichi, senza curarti di chi gli sta intorno. Ma del resto… sapevo anche questo”.

Rukawa, stavolta, lo guardò allibito. E così, se ne era accorto. Tra l’altro, era vero quello che aveva detto. Aveva sempre guardato il volto di Hanamichi, le azioni di Hanamichi, le pagliacciate di Hanamichi, eccetera eccetera. Ma non si era mai curato di osservare più di tanto i suoi amici. Ed era per questo che Mito si era accorto di tutto. Anche lui guardava Hanamichi. Ed era molto attento alle piccole cose, considerato che si era accorto di lui che, praticamente, non lasciava trapelare nulla di sé.

Come se stesse sempre all’erta, in effetti.

Lo vuole proteggere, pensò Rukawa. Questo oramai gli era più che evidente.

L’altro continuò.

“Eri tu che origliavi vicino al vicolo del ristorante, vero? Come eri tu che ci aspettavi fuori alla scuola Takezono. Del resto, avevi sentito che ci saremmo diretti lì, fingendo di dormire vicino all’albero”.

Domande retoriche, Rukawa lo sapeva. Tuttavia, era meglio essere sinceri visto che si trattava di banalità.

“Nh” mugugnò serio con un cenno d’assenso.

 Però… se Mito sapeva, allora anche… era un dubbio che doveva togliersi.

“Anche…” incominciò.

“No” lo interruppe Mito. “Hana non se n'è accorto”.

Rukawa si rilassò.

“Ti stavo dicendo” riprese “che, è appunto mio nemico chi ha una semplice attrazione per Hana. Chi vuole prenderlo in giro. Chi vuole giocare con i suoi sentimenti” concluse, calcando sull’ultima parola.

Rukawa annuì.

“Quindi Rukawa, rispondimi ora! Tu mi sei amico o nemico?”

E Rukawa non ebbe dubbi su cosa rispondere. Strinse i pugni guardando l’altro negli occhi. La sua voce era decisa. Il suo sguardo era risoluto.

Amico” solo questo disse.

Perché sapeva che adesso era l’altro a dover decidere.
 

Continua...

Note

1)   L’avvenimento che avete appena letto si svolge esattamente dopo il ritorno dell’armata dalla visita a Oda.

2)   Il canone ci dà informazioni solo riguardo a Hanamichi, che passa la notte in palestra. Io ho prolungato la serata di Mito, facendola intrecciare con quella di Rukawa.

Che dire…. Spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto…. Mi raccomando, commentate.
Pandora86

 

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Capitolo 6
*** Lui è il basket! ***


Ecco a voi il quinto capitolo.
Grazie a chi ha recensito… cosa farei senza i vostri bellissimi commenti?
Grazie anche a chi ha inserito la storia tra le seguite e le preferite.
E, ovviamente, grazie anche a tutti i lettori silenziosi!
Buona lettura!
 


Capitolo 5. Lui è il basket!
 
“Amico” fu solo questo, quello che Mito sentì dire a Rukawa.

Del resto, non era una persona che si perdeva in parole inutili. E, forse era proprio per questo suo modo di fare, che ogni suo gesto o parola sembravano carichi di sicurezza.

Non era uno dei tanti che, per esprimere un concetto importante o rivendicare qualcosa cui tengono, dicono parole su parole sperando di essere convincenti.

No! Anche in questo, andava diritto al punto. E sapeva essere convincente, anche riducendo al minimo il suo linguaggio.

Bastava guardare i suoi occhi.

Ebbe, in quel momento, la certezza di non essersi sbagliato. Ed era ora che Hana fosse felice. Perché Rukawa poteva prendersi cura di lui. Come del resto Hana poteva avere cura di Rukawa. Erano molto simili nelle loro diversità e si sarebbero confrontati a vicenda imparando l’uno dall’altro, con la sicurezza di avere una spalla su cui appoggiarsi nei momenti di bisogno.

Certo… rimaneva da convincere Hana, che non prendeva neanche in considerazione l’idea. O meglio… faceva finta di non prenderla in considerazione.

Ma questo era un elemento secondario.

“Bene!” rispose sorridendo e appoggiando le braccia alla spalliera del divano. “In parte l’ho sempre saputo.
Ma capisci che avevo bisogno di una conferma”.

“Nh” annuì Rukawa.

In effetti, rifletté Rukawa, quella sera aveva fatto un bel passo avanti. Non gli andava molto a genio che qualcuno sapesse dei suoi sentimenti verso la scimmia. Però…se questo qualcuno era Mito, allora il discorso cambiava. E sapeva fin troppo bene quanto il do’hao fosse cocciuto e quanto la sua impresa, che prima appariva titanica, di sapere qualcosa in più su di lui, ne guadagnasse in questa… come definirla… collaborazione?

Perché a Rukawa non era sfuggito che a Mito non importava minimamente di striscio che lui fosse un ragazzo. Anzi… essendosi accorto dell’attrazione che provava, aveva tenuto gli occhi aperti. E, quella sera, aveva parlato di sentimenti.

Aveva paura che lui potesse far soffrire il do’hao o considerarlo per una semplice attrazione fisica.

E questa era una cosa un po’ strana se parlavi di uno che sbandierava i suoi Harukiiinaaaa a tutta la scuola, considerato che poi erano Mito e la sua banda che gli tenevano il gioco.

Forse era per questo che quando Hanamichi si faceva in quattro per la sorella del capitano, la cosa non lo toccava. Non molto di più, in effetti, di quando faceva l’idiota in generale e lui sapeva che fingeva.

Ma del resto, Mito non era uno stupido. E se aveva detto quelle cose, non solo sapeva che lui le avrebbe colte… ma sapeva anche che gli avrebbe rivelato, indirettamente, qualcosa.
E, se lo aveva rivelato a lui, forse voleva poter dire che non doveva essere indifferente al do’hao. Per questo si era preoccupato che lui potesse farlo soffrire. E in quel momento comprese che… forse qualche speranza c’era. Mito sembrava voler dire questo. Altrimenti perché preoccuparsi di quello che lui pensava se il do’hao non lo considerava neanche di striscio?

E questa, per Rukawa, era collaborazione! E se non lo era, avrebbe fatto in modo che lo diventasse.

“Mi dispiace non poterti fare accomodare” riprese Mito. “Mi sa che ci toccherà stare in piedi. Anzi, come avrai sentito da mia madre, ho delle cose da fare. Vieni con me al piano di sopra e… cerca di essere più loquace” disse, avvicinandosi alle scale con tono leggero, “perché non sono telepatico”.

“Nh” annuì Rukawa, apprestandosi a salire dopo di lui.

L’altro alzò gli occhi esasperato, non sapendo se ridere o piangere.

“Devo chiudere le tende nella camera di Hanamichi” e lo invitò a seguirlo in una stanza.

Rukawa entrò, incuriosito come non mai. E così, quella era la stanza del do’hao. O meglio, lo era stata.

Rukawa notò il letto sfatto e vari indumenti lasciati in giro. Alcuni libri erano aperti sulla scrivania… fumetti sugli scaffali alle pareti… tra l’altro, tutti messi alla rinfusa! Quella sembrava la stanza più vissuta di tutta la casa eppure, notando il filo di polvere sulle cose, Rukawa capì che, anche in quella stanza, tutto era stato lasciato chissà a quanto tempo prima. Disordine compreso.

“Ogni tanto” continuò Mito chiudendo le tende, “bisogna far prendere un po’ di aria alla casa”.

“Da quanto?” domandò Rukawa.

“Tre anni” rispose Mito.

Rukawa lo osservò spolverare i fumetti che erano sulle pareti, stando però attento a lasciare tutto com’era. Capì che il ragazzo stava facendo quelle cose perché voleva dirgli qualcosa, oltre perché lo aveva detto alla madre.

Ma Rukawa era stanco di deduzioni. Quelle andavano bene finché era da solo. Ora era venuto il momento delle domande.

“Ma lui…”

“Non abita più qui” rispose questi. “Ma questo, del resto, lo avevi già capito origliando. Ed è per questo che sei qui. Avevi sentito dire che eravamo vicini di casa e qualcosa non ti tornava”.

Rukawa annuì. Tra l’altro, se Sakuragi non abitava più lì, vista la quantità di cose in quella stanza, doveva aver portato con sé lo stretto necessario. Ma perché era andato via? E perché i suoi genitori tenevano la casa in questo modo?

“Ma perché?” domandò ancora.

“Perché cosa? Perché non abita più qui? Perché vuole che sia tutto come tre anni fa, anche se lui non ci mette più piede?”.

“Entrambe le cose” rispose deciso.

“Perché fa troppo male. Perché non accetta”.

“Cosa?” chiese ancora.

Mito gli indicò con lo sguardo una foto riposta in una cornice sul comodino accanto al letto.

Rukawa si avvicinò, inginocchiandosi per guardarla bene, senza tuttavia toccarla.

Ritraeva due persone e un bambino piccolo, di quattro o cinque anni.

La donna, con una folta capigliatura rosso fuoco, teneva sorridente per mano un bambino piccolo, dalla capigliatura dello stesso colore, che la guardava adorante. L’uomo, che era inginocchiato, e teneva un braccio sul bambino e uno sulla donna, sorrideva felice.

Quelli dovevano essere la madre e il padre del do’hao.

“Allora è rosso sul serio” sussurrò Rukawa senza riuscire a staccare gli occhi da quella foto. Come sembravano felici quelle persone in quel momento.

Mito sorrise e si sedette sul letto.

Rukawa, dalla posizione in cui era e non sapendo bene dove poter stare, si sedette sul pavimento di fronte al ragazzo.

“Ci tiene molto ai suoi capelli. Adora sua madre. Probabilmente, i suoi capelli, sono l’unica cosa vera di lui negli ultimi tre anni”.

Rukawa guardò ancora la foto, non sapendo stavolta cosa dire. Perché le domande erano troppe e lui non sapeva da dove cominciare.

“Quante volte hai pensato che fingesse, Rukawa?” riprese Mito.

“Molte volte” ammise.

“Non è propriamente così. Nel senso… Hanamichi, sin da piccolo, si è sempre distinto per la sua allegria. La sua tendenza a far ridere la gente con le sue battute. La sua voglia di vivere. Il suo carattere, insomma! Che è quello che vedi tutti i giorni”.

“Ma hai detto che finge” lo interruppe Rukawa.

“Ed è vero!” rispose Mito. “Perché, se è vero che quello è il suo carattere originario, è anche vero che non corrisponde al suo stato d’animo attuale.

Perché anche Hanamichi, come questa casa…”

“È rimasto fermo a tre anni fa” terminò per lui Rukawa.

“Già! Per questo prima ti ho detto che lui non accetta”.

A questo punto, Rukawa voleva sapere. Cosa mai poteva essere successo, tre anni prima, da cambiare così radicalmente la vita di un ragazzo? Da segnarlo così profondamente?

E i suoi genitori, in tutto questo, che ruolo avevano? Perché non facevano nulla per il figlio?

“I suoi genitori?” domandò.

“Beh… in teoria, questo proprio non potrei dirtelo. E non solo perché Hana non vorrebbe. Hai capito abbastanza, dal nostro dialogo, da sapere che non è quella la cosa che mi frena”.

Rukawa annuì. In effetti, a Hanamichi non avrebbe fatto piacere neanche saperlo seduto lì. Eppure a Mito non creava nessun problema questa cosa. Forse perché pensava di agire per il suo bene.

Un pensiero lo colpì! Se era così… se le cose stavano così… allora non aveva solo qualche speranza con il do’hao.

La voce di Mito interruppe i suoi pensieri.

“In realtà, io vorrei che fosse lui a parlarne. Primo: perché è un suo diritto. Secondo: per aprirsi e liberarsi del peso che lo opprime. Ma so che non lo farà mai. Non in questo secolo, almeno. Quindi, considerando che non abbiamo tutto questo tempo, credo anche che tu debba sapere… se sei venuto fin qui, significherà pur qualcosa”.

Rukawa, a quelle parole, alzò lo sguardo facendosi attento.

“Del resto” considerò Mito, “sei venuto fin qui per scoprire una bugia, non aspettandoti minimamente di trovare una casa come questa. E poi, non credo proprio che i tuoi nervi potrebbero cedere. Dubito che tu ne abbia in effetti”.

Rukawa non capiva. Cosa doveva mai dirgli di tanto sconvolgente?

“Perché vedi… “continuò Mito lentamente, “…solo perché io non voglia dirtelo… non vuol dire che tu non lo possa capire”.

No, fermi tutti! Che cazzo significa questo?Fu questo il pensiero di Rukawa.

Davvero Mito credeva che potesse ancora capirci qualcosa? In effetti, pensava di aver capito tanto del do’hao… ma… entro certi limiti. Lui sapeva di aver colto i suoi stati d’animo e il suo carattere, più degli altri sicuramente. Ma di certo non si poteva pretendere da lui che capisse, quella che era stata in passato, la vita del do’hao.

Eppure, Mito sembrava convinto. Attese paziente che l’altro si spiegasse meglio.

“Voglio dire…vedi… lui va a trovarli sempre prima di ogni partita. Di solito, dopo gli allenamenti”.

E stavolta, Rukawa capì.

“Però, voglio avvertirti. Non ti piacerà. E dovrai essere forte”.

Rukawa annuì. Non aveva importanza. Finalmente poteva sapere perché il do’hao avesse sempre quella velata tristezza negli occhi. E forse avrebbe potuto aiutarlo; del resto, era sempre più convinto del fatto che se Mito gli aveva detto quelle cose, allora doveva esserci una ragione valida.

Però… c’era una cosa che non tornava…

“Perché mi odia?” domandò senza alcuna inflessione particolare nella voce.

Tuttavia, all’altro fu chiaro quanto interessasse a Rukawa la risposta a quella domanda.

“Non ti odia!” rispose.

Rukawa alzò un sopracciglio.

“Non nel modo in cui credi tu almeno. Credo che capirai molto, e forse anche questo, nel modo che tu sai” fece allusivo, sorridendo.

“Comunque” aggiunse alzandosi, “ho sempre pensato che, in fondo, l’amore e l’odio siano le due facce di una stessa medaglia” e si avviò alla porta.

Rukawa si alzò. Ma non potette fare a meno di porre un’ultima domanda.

“Tu…?”.

Mito si voltò, guardandolo con un’espressione indecifrabile.

“Io… cosa esattamente?”.

“Lo ami?”.

Mito sorrise.

“Si!”.

Rukawa lo guardò. Ma allora, perché non l’aveva direttamente buttato fuori, se anche lui…
La voce dell’altro lo riscosse dai suoi pensieri.

“Ma non come credi tu. Ci sono tante forme di amore, Rukawa, ricordatelo! Una non meno forte di un’altra. L’amore di una madre verso un figlio. L’amore verso uno sport. L’amore tra due fratelli”.

Rukawa annuì.

“Ora credo che tu debba salutarmi qui. Comunque, sappi che, per qualunque cosa, io ci sono. Ora sai anche dove abito”.

Rukawa annuì di nuovo e si avviò alla porta.

“Rukawa” lo chiamò l’altro. “Solo un’ultima cosa.

Tre anni fa, ho fatto due promesse.

Ho promesso a Hana che ci sarei stato sempre, e che mi sarei preso cura di lui. E, anche se lui non ha bisogno di me, e se la cava anche da solo, per le questioni pratiche almeno, per me però quella promessa è sempre valida.

La seconda, l’ho fatta a me stesso.

Ho promesso che l’avrei protetto.

E intendo mantenerle entrambe” e tese la mano.

Rukawa la strinse appena, con una luce decisa negli occhi.

“Le manterrai” e si voltò.

“Sai una cosa?” sentì la voce dell’altro quando era arrivato al cancello d’ingresso del giardino.

“All’inizio, credevo di sbagliarmi. Pensavo che, in fondo, tu vivessi solo in funzione del basket. Però, sono contento che non sia così”.

Rukawa si voltò.

“Lui è il basket!” disse serio. E se ne andò.
 
Continua...


Note

Non credo ci sia molto da dire.
Questa parte è la continuazione della serata del capitolo precedente.

Ho ritenuto opportuno concludere così il capitolo perché, come avrete capito, era tutto incentrato su Mito e Rukawa. 
In particolare, ho voluto dare risalto alla figura di Mito e fargli prendere un posto importante nella storia, e di conseguenza, dare anche spazio ai suoi pensieri ed esplorare un po’ la sua mente e il suo personaggio, dandogli un nuovo spessore introspettivo.

Che dire…. Fatemi sapere cosa ne pensate!!



Pandora86

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Capitolo 7
*** A noi due ***


Ecco a voi il sesto capitolo della storia.

Grazie mille a chi ha recensito…. le vostre osservazioni mi sono sempre utilissime e mi spronano molto!

Dedico il capitolo a Vampire_Zero che oggi compie gli anni!!!

Auguroni!!!

Grazie anche a chi ha inserito la storia tra le preferite e le seguite.
E anche a tutti i lettori silenziosi.

Buona lettura.
 
Capitolo 6. A noi due
 
Mito sorrise, chiudendo la porta di casa dell’amico.

Ripensò alle parole di Rukawa. Le poche che c’erano state, almeno.

Lui è il basket, aveva detto e Mito era sicuro di aver capito cosa volesse dire.

Non era un intenditore però, era sicuro che l’amico avesse talento. Molto più talento di altri giocatori veterani. Ed era stato questo che Rukawa aveva voluto dirgli. Con tutto quel talento, era la personificazione stessa di quello sport.

Si stese sul letto, sbadigliando. Domani avrebbe dovuto alzarsi presto per andare ad assistere alla partita tra il Takezono e il Kainan. Hanamichi aveva detto che sarebbe arrivato prima di tutti ma, considerato che avrebbe passato la notte in palestra ad allenarsi, dubitava facesse in tempo.

Ripensò alla chiacchierata che aveva avuto poco prima con Rukawa e seppe di aver fatto la cosa giusta.

Rukawa era veramente interessato a Hanamichi se gli aveva detto che lo considerava al pari del basket, anzi, per lui erano la stessa cosa, ed era contento che le cose fossero andate in quel modo.

Perché anche a Hanamichi, Rukawa interessava. Molto in verità.

Lo ammirava per la sua bravura. Voleva superarlo. Lo invidiava.

Ed era certo che Rukawa avesse colto il significato delle sue parole.

Doveva aver notato che non si era minimamente scomposto quando aveva saputo che lui, un ragazzo, si interessava a Hanamichi, un altro ragazzo.

Perché era in questo che, in effetti, Rukawa aveva bisogno di una spinta. Sarebbe rimasto a osservarlo per decenni magari, senza però capire che Hanamichi tanto etero non lo era. Perché questa era una cosa che la persona in questione nascondeva molto bene. Anche agli occhi di un osservatore così attento come Rukawa.

E, infatti, dal suo sguardo, aveva capito che era stata una rivelazione per lui, anche se non si era scomposto minimamente. Ma lui, fidato braccio destro dell'armata che lo teneva d’occhio da un po’, sapeva riconoscere i suoi sguardi, in parte.
Rukawa aveva anche capito che c’era la possibilità di essere ricambiato.

È in gamba, valutò. Era la seconda volta che lo pensava. La prima volta, lo aveva pensato dopo che Hanamichi lo aveva preso a testate sul terrazzo della scuola, a inizio anno.

Poi aveva iniziato a tenerlo d’occhio. E aveva i suoi buoni motivi, visto che Hanamichi, per quanto ostinatamente dichiarasse di essere “normale”, sembrava che fosse stato colpito dal compagno di squadra.

Per questo Hana era corso ai ripari con tanta insistenza. Sperava in Haruko, anche se sapeva di non essere ricambiato. Certo, l’aveva conosciuta prima di incontrare Rukawa e, tanto per cambiare, se ne era “innamorato”, visto che la ragazza era gentile con lui. Aveva pensato quindi di poter essere ricambiato e di conseguenza essere “normale”. Poi aveva incontrato Rukawa… e tutto gli era stato, tranne indifferente, così si era aggrappato ancora di più a Haruko che, guarda caso, era innamorata persa di Rukawa e di conseguenza non lo ricambiava minimamente.

Però gli era amica, e lui le era molto affezionato. E se un giorno si fosse accorta di lui, pensava che sarebbe stato felice, anche se in fondo non la amava.

Mito aveva provato, in passato, a spiegargli più volte che l’amore poteva avere tante facce, proprio come aveva detto a Rukawa. Ma questo Hanamichi non lo accettava. E invece, quell’anno aveva dovuto sbatterci la faccia contro, visto che Rukawa gli interessava. Ed era per questo motivo che lo odiava. Non era l’unica ragione ma, sicuramente, la principale; la più profonda.

Così Mito, essendosene accorto, aveva pensato bene di cercare di capire un po’ che tipo fosse questo Rukawa.

E aveva visto che non considerava nessuno. Chiunque si sarebbe sentito lusingato con tutte quelle fan, ma lui non le considerava neanche di striscio. In apparenza, sembrava interessato solo al basket.

Così Mito aveva pensato che, in fondo, poteva non essere il fatto che il suo fan club non gli interessasse quanto, il fatto che fosse composto da ragazze. Così si era informato e aveva scoperto che a Rukawa non interessavano né le ragazze, né i ragazzi. Non aveva avuto nessuna storia in passato. Sembrava una macchina che si muoveva in funzione di una palla arancione.

Poi aveva notato quanto osservava Hanamichi e quanto rispondesse alle sue provocazioni. Mito ricordò che, all'epoca, aveva avuto l’impressione che cercasse di interagire con lui, in qualunque modo. Nonostante l’altro si ostinasse ad alzare un muro.

Lui, in realtà, aveva sempre saputo che Rukawa non era il tipo di persona che si interessa a qualcuno per prenderlo in giro. Ma lui aveva posto lo stesso la domanda e l’altro non si era tirato indietro.

Lui, una persona così scontrosa, che ammette i suoi sentimenti con un estraneo. Ma lui non era un estraneo qualunque, e questo Rukawa lo sapeva.

Gli aveva anche domandato il perché lo odiasse. E Mito, in quella domanda, aveva letto rabbia.
Sicuramente, era stato male al pensiero che Hanamichi lo odiasse. Ma Kaede Rukawa non era tipo da crogiolarsi nel dolore. Tra l’altro, aveva capito che Hanamichi non lo odiava solo per Haruko. E questo gli provocava rabbia. Perché non riusciva a giustificare l’odio profondo dell’altro.

Inoltre, anche Mito ci aveva guadagnato qualcosa quella sera. Perché lo stesso Rukawa aveva ammesso il grande talento di Hanamichi. E questo lo rasserenava.

Aveva accettato con entusiasmo che lui si iscrivesse al club di basket. Allora, sperava che potesse trovare qualcosa con cui distrarsi. E invece, aveva trovato l’amore. Un amore assoluto verso quello sport. E si era impegnato. Ma lui, non essendo un giocatore, non poteva giudicare se fosse bravo o meno. Di conseguenza, aveva temuto che Hanamichi prendesse un’altra delusione scoprendo di non essere all’altezza. Invece, il grande campione, la super matricola aveva ammesso che il do’hao, come lo chiamava lui, aveva talento. Anzi, ne aveva addirittura tanto da essere la personificazione di quello sport.
Mito sorrise. Perché sembrava che finalmente il vento stesse cambiando e che, finalmente, la fortuna si stesse ricordando di Hanamichi.
 
                 
 ***
 

Rukawa aprì leggermente la porta della palestra. Mito aveva ragione, Hanamichi si stava allenando.

Stavolta però non lo avrebbe disturbato. Non voleva turbarlo. Non ora che aveva i mezzi per scoprire come avvicinarlo. Lo osservò schiacciare e ne fu inevitabilmente attratto ancora di più. Se solo il do’hao fosse stato più collaborativo… quante cose avrebbe potuto imparare in ancora minor tempo di quanto già impiegasse ma, in partita, non gli passava la palla neanche a pagarlo.

Se solo avessero potuto giocare insieme, veramente però. Certo, Rukawa sapeva di essere più bravo. Però… visto quanto il do’hao imparava velocemente… se solo si fosse impegnato, sarebbe stato in grado di metterlo in difficoltà; non seria, ma quantomeno discreta. Invece, era ossessionato dall’idea di superarlo, e questo gli faceva perdere il controllo facilmente. Anche in partita, le azioni che faceva erano dettate dall’istinto, a differenza degli altri. E questo significava essere nati per giocare a basket.

Invece, quando faceva un’azione per mettersi in mostra, e far vedere che era più bravo di lui, eccolo che sbagliava perché era un principiante. Ma, se avesse acquisito l’esperienza necessaria, sommata al suo istinto, allora sarebbe stato il campione tra i campioni.

Ora come ora Rukawa, invece, non lo prendeva minimamente in considerazione.

E questo, solo perché si comportava da ritardato non riuscendo così a imparare nulla. Invece… imparare da chi è più bravo, era essenziale per diventare imbattibile. Misurarsi con chi è migliore sportivamente, dando il meglio di se stessi. E non come faceva lui che, con la sua ossessione, perdeva facilmente la testa comportandosi da mentecatto.

Le partite che aveva giocato con lui erano state a metà tra il comico e il serio.

Il pubblico ora rideva per una sua pagliacciata, ora per una cosa fuori luogo, ora per un’azione imbecille.

Poi però rimaneva sorpreso e applaudiva quando si lasciava trasportare dall’istinto.

Tuttavia, giocare con lui, era sempre stare come su di un filo sospeso tra due fuochi.

Non si sapeva mai se quando prendeva la palla in mano avrebbe fatto una cosa spettacolare, oppure avrebbe sprecato un’azione.

E questo perché non riusciva a mettere fuori dal campo la rivalità che aveva con lui e lavorare a favore della squadra.

Perché Hanamichi era imprevedibile, non solo per gli avversari, ma anche per la squadra stessa, e questo non era un vantaggio, anzi.

Smaniava con l’idea di umiliarlo mettendo così solo in ridicolo se stesso e, di conseguenza, non imparava nulla. Motivo per cui Rukawa non poteva minimamente prenderlo in considerazione.

Ma questo, Sakuragi doveva ancora capirlo.

Silenziosamente, chiuse la porta e si allontanò verso casa.

Dovrai fare ancora molta strada per battermi, do’hao!

Era questo che pensava, era questo che avrebbe voluto dirgli. Perché, se Hanamichi si fosse impegnato, allora Sendoh non avrebbe primeggiato nella lista di Rukawa tra i giocatori da battere. E solo quando avrebbero potuto fare un confronto ad armi pari, allora sarebbero stati sulla stessa lunghezza d’onda.
Perché non si comunicava solo a parole. Si comunicava anche giocando. Anzi… si entrava molto di più in sintonia. Perché loro avevano il basket.

Mi auguro che tu questo lo capisca presto, Hanamichi.

E, forse, presto lo avrebbe capito. Forse, avrebbe potuto spiegarglielo.

Mito aveva detto che non lo odiava. E lui ci credeva.

Anche lui è attratto da me. Insultandomi, non fa altro che negare a se stesso, quello che è.

Perché ti nascondi, Hanamichi? Di cosa hai paura?

La paura di Mito gli era sembrata più che evidente. Non voleva che l’amico soffrisse e vegliava su di lui.

Quante ne hai passate, Hanamichi?

Ma era inutile domandarselo, considerato che presto lo avrebbe scoperto e forse... avrebbe anche scoperto un modo per abbattere il muro di finzioni che circondava il do’hao.


*** 

La partita era finita, e il Takezono aveva perso.

Hanamichi vide Oda seduto su una panchina fuori la palestra, in compagnia di Yoko.

Gli dispiaceva per lui. Era un bravo giocatore e non doveva abbattersi.

L’altro lo vide e lo chiamò:

“Hanamichi”.

“Non starai qui a piangerti addosso” rispose questi. “Un giorno, avrai l’onore di giocare contro il genio e di uscirne sconfitto. Per ora… pensa a guarire!” e si allontanò, seguito dalla sua immancabile compagnia.

“In bocca al lupo per le finali, Sakuragi” urlò Yoko in risposta. “Io e Oda faremo il tifo per te”.

“Ma sei impazzita? Io non farò mai il tifo per lui” urlò, in risposta, Oda.

“Devi cercare di mettere da parte l’orgoglio” gli consigliò Takamiya.

“E soprattutto, di essere più sportivo” aggiunse Mito.

Rukawa, poco distante, ascoltò tutto sorridendo fra sé.

Quando voleva, il do’hao era veramente una persona straordinaria, visto come fosse riuscito a tirare su il morale del suo rivale. Si era comportato da vero sportivo. A quanto pareva, solo con lui non ci riusciva. Ed ecco che ora si preparava a imbastire uno dei suoi soliti teatrini.

“Ah, ah, ah, lasciatelo parlare! Prima o poi, dovrà inchinarsi di fronte al re dei rimbalzi”.

“Come dire…” incominciò Mito, sulla sua stessa lunghezza d’onda.

“Pallone gonfiato?” suggerì quello biondo.

“Come osate?” urlò Sakuragi, iniziando a inseguirli.

“Oda, tienitela stretta quella ragazza” urlò Mito correndo.

“Così non ti riduci come il povero Hanamichi” concluse il biondo.

Rukawa guardò la faccia di Oda e di quella che doveva essere la sua ragazza. Guardavano il gruppetto con espressione serena e Rukawa lesse riconoscenza nello sguardo di Oda. Sakuragi aveva scelto la carta giusta per incoraggiarlo.

Ma ecco che Hanamichi e il suo gruppo di scalmanati si avvicinavano a lui.

“Vi prendo a calci fino alla palestra” stava urlando ancora Hanamichi.

“Tzè! Do’hao!” si fece notare Rukawa.

“Che ci fai qui, Baka Kitsune?”

“Mi sembra ovvio, do’hao!” rispose Rukawa indicando la palestra dove si era appena disputata la partita.

“E da quando ti fa così paura il Kainan, kitsune?”

Rukawa non si prese la briga di risponderlo avviandosi anche lui in palestra a bordo della sua bicicletta.

“Ehi, vuoi che ti spacchi la faccia? “urlò di rimando Hanamichi.

Rukawa, in tutta risposta, si voltò osservando per un attimo Mito. Poi guardò di nuovo Hanamichi liquidandolo con un “do’hao” e riprendendo a pedalare.

“MA VATTI A SCHIANTARE” urlò Hanamichi, borbottando poi per tutta la strada, seguito a distanza dai suoi fidati amici.

“NELLA PROSSIMA PARTITA, DOPO LE MIA AZIONI, RUKAWA NON SE LO FILERÀ  PIÙ  NESSUNO” urlò ancora, facendo sussultare un passante.

“Questo già lo hai detto, Hanamichi” disse Mito sorridendo.

“Bah… siamo arrivati. E c’è anche la bicicletta della kitsune; mai che qualcuno lassù mi stesse a sentire. Voi che fate?”.

“Mi sembra ovvio, Hanamiccchiiii” rispose Takamiya.

“Veniamo a vedere i tuoi allenamenti” aggiunse Okosu.

“Sì, le risate sono sempre assicurate” concluse Noma.

“Razza di BASTARDI” scattò Hanamichi.

“Do’hao”.

“Mi spieghi che ci fai sempre tra i piedi, Kitsune?”

Io” rispose marcando la parola, “sono qui per allenarmi. Dovresti farlo anche tu, ogni tanto”

Sakuragi lo raggiunse nella palestra, afferrandolo per la maglia.

“Vuoi che ti faccia allenare per un letto d’ospedale, bastardo?”.

Rukawa, in tutta risposta, gli prese i polsi.

“L’altra volta, non eri così rumoroso” sussurrò, in modo che potesse udirlo solo lui.

Sakuragi sussultò impercettibilmente. Ora, il suo sguardo era serio.

“Finiscila, mentecatto” intervenne Akagi con un pugno. “Se hai tante energie, usale per allenarti”.

“Ahio, Gori! Mi hai fatto la buaaa” rispose Sakuragi inginocchiandosi a terra e tenendosi la testa.

Di nuovo la faccia da imbecille.

Alzò lo sguardo verso Rukawa nella stessa posizione. Il suo volto era nascosto agli altri dai gomiti.

Rukawa vide in quegli occhi una velata minaccia. Era uno sguardo riservato solo a lui.

Le sue labbra mimarono silenziose una parola che, tuttavia, Rukawa capì benissimo.

“Dopo”

E Rukawa, in tutta risposta, non abbassò lo sguardo. Perché non si sarebbe tirato indietro.

Ti ho in pugno, do’hao! Ma non come credi tu.

“Coraggio, Hanamichi”.

Ecco l’immancabile babbuina, pensò Rukawa.

Ed ecco Hanamichi saltare come un grillo, e correre da lei.

“Harukina”.

“Vieni ad allenarti, ritardato”.

Ecco l’immancabile pugno del gorilla che lo riportava all’ordine.

“Ahio, Goriiii!Mi hai fatto maaaleeee”ecco che si teneva di nuovo la testa.

E poi, ecco che guardava di nuovo Rukawa che, nel frattempo, si era mosso a centro campo, avvicinandosi quindi agli spettatori all’ingresso della palestra e al do’hao.

Che, guarda caso, ora non si curava minimamente della sorella del capitano che sembrava in trance e arrossiva per il fatto che il suo idolo fosse alla misera distanza di tre metri da lei.

Però, che emozione! Pensò Rukawa sarcastico

Lo sguardo di Sakuragi era di nuovo serio. Negli occhi, la stessa luce di prima.

Non ti preoccupare, do’hao! Ci sarò.

Ed ecco che ora cambiava nuovamente espressione, rivolto alla bertuccia.

“Non ti preoccupare, Harukina, finché il genio Sakuragi gioca nello Shohoku, nessuno potrà batterci, ah, ah, ah”concluse con la sua solita aria da sbruffone, e la solita risata da mentecatto, portandosi al centro della palestra con le mani nei pantaloncini.

 Però Rukawa una cosa doveva ammetterla: in quanto a velocità sul cambio delle espressioni, non lo batteva nessuno. Certo che, se non avesse sfondato nel basket, di sicuro avrebbe avuto davanti a se una carriera come attore tragi-comico.

“Forza Hanamichiiii, facci sognare” ed ecco il suo immancabile pubblico di scalmanati che lo acclamava.

Rukawa volse per un istante lo sguardo verso Mito, che sorrideva impercettibilmente. Di certo, aveva colto quello che era avvenuto. Come era sicuro che sapesse dell’incontro che aveva avuto con Sakuragi la mattina precedente.

In effetti, la sera prima non aveva pensato a chiedergli cosa assillasse così il do’hao.

Poco male! In fondo, lo avrebbe scoperto da Sakuragi stesso magari.

Perché finalmente Rukawa era soddisfatto. Sakuragi si era mostrato. E solo a lui per giunta, facendo attenzione che gli altri non cogliessero nulla.

Non aveva fatto finta di niente. Anzi, stavolta aveva accettato i fatti, Almeno quello della mattina precedente. Anche se, visto lo sguardo di Sakuragi, non era sicuro che il modo in cui volesse affrontare l’argomento fosse uguale al suo.

Dubitava, infatti, che il numero dieci fosse pronto a un dialogo civile. Rukawa aveva visto in quegli occhi la ferocia di una persona che si sente minacciata. E dubitava che ci sarebbe andato leggero con le mani, stavolta.

Beh… anche questo non aveva importanza, per il momento. Ora doveva solo allenarsi.
 

***
 

L’allenamento era finito. Li aveva raggiunti il signor Anzai e aveva spiegato loro la forza del Kainan e quanto sarebbe stata dura la partita che avrebbero disputato fra due giorni.

Aveva lodato Sakuragi per la sua determinazione e, di conseguenza, ora tutta la squadra era al massimo della concentrazione.

Rukawa vide il numero dieci rimanere ad allenarsi e decise di fare lo stesso dalla parte opposta del campo.
Ayako lì osservò per un attimo perplessa. Sakuragi sembrava diverso, e anche Rukawa sembrava più serio del solito.

Sembrava che tra quei due aleggiasse una strana atmosfera, come se ci fosse qualcosa in sospeso.

Anche Akagi notò i due che si allenavano.

“Posso lasciarvi qui, o distruggete la palestra?”

Rukawa non si prese neanche la briga di rispondere.

“Ah, ah, ah, non ti preoccupare Gori, mi mostrerò magnanimo nel caso Rukawa volesse imparare qualcosa”.

“Vedi di non straparlare come tuo solito, imbecille” e si avviò negli spogliatoi.

Goditi i tuoi ultimi momenti da buffone do’hao tanto, tra un po’, dovrai abbassare la maschera.

Rukawa aveva notato, infatti, che Sakuragi ancora non si muoveva dalla sua parte di campo.

Evidentemente, voleva aspettare che tutti gli altri fossero usciti dalla palestra.

Cos’è Sakuragi, vuoi eliminare l’unico testimone? 

Vide che si avvicinava alla sua armata.

“Andate ragazzi, non aspettatemi” il suo tono era serio.

Rukawa lo vide scambiarsi un cenno d’intesa con Mito.

“E' molto bello che tu voglia restare ad allenarti” intervenne Haruko.

“Eh sì, Harukina” ecco di nuovo il tono vomitevolmente mieloso. “Anche un cammmpiiioneeee cooomeee mee ha bisogno di alleeenarsssi…”.

“Posso restare a farti compagnia” si offrì gentilmente lei.

Sì, come no! Pensò Rukawa con una certa rabbia.
Fare compagnia a lui quando ci sono io! Perché non ti levi di mezzo una buona volta? SEI DI TROPPO!

“Suvvia, Haruko” intervenne Mito. “Anche il Genio ha i suoi segreti”.

“Già! Magari approfitta dell’assenza degli altri per evitare di fare figuracce” intervenne Okosu.

“Sì, ma non allenarti troppo Hanamiiccchi” intervenne Takamiya, “o perderai il titolo di re delle espulsioni”.

“Ma non ti preoccupare!” aggiunse Noma. “Noi faremo sempre il tifo per te”.

“Razza di dementi, io vi prendo a TESTATE”.

“Coraggio ragazzi, non disturbiamo oltre il Tensai” intervenne Mito provvidenziale. “Vieni Haruko, andiamo” disse gentilmente, rivolto alla ragazza.

“Buon allenamento, allora” rispose sempre sorridente lei, volgendo un ultimo sguardo a Rukawa.

“A domani, Hana” salutò Mito, chiudendo la porta della palestra.

E, cos’era quello che aveva fatto guardando lui?

Un occhiolino? Era stato troppo veloce, ma Rukawa era certo che fosse stato proprio quello.

Non ti preoccupare, è in buone mani. Sai che è così! 
E seppe che Mito glielo aveva letto nello sguardo. Altrimenti, non avrebbe mai lasciato solo Hanamichi.

“Bene” esordì Hanamichi, guardandolo minaccioso.

Rukawa lasciò andare la palla, facendo qualche passo verso Sakuragi che fece altrettanto. I due ora avevano pochi metri a dividerli.

“Molto bene” ripeté Sakuragi con calma, con in viso un sorrisetto sarcastico.

E così, anche questo è uno dei tuoi volti Hanamichi, pensò Rukawa, non staccandogli gli occhi di dosso.

“A noi due, Rukawa”

“A noi due, Sakuragi”
 
Continua…

Note
1)   Gli avvenimenti di mia invenzione narrati in questo capitolo si svolgono esattamente tra la puntata 48 e 49 dell’anime.
La prima parte del capitolo è la continuazione della serata di Mito e Rukawa letta nel capitolo precedente. 

2 ) Il dialogo fra Sakuragi e Oda è preso dal canone. In pratica, l’ho continuato aggiungendoci la figura di Rukawa.    

3)   Le raccomandazioni del signor Anzai sono prese dal canone. Non le ho scritte chiaramente ma solo accennate, in quanto non utili ai fini narrativi. In questo caso, non ho fatto altro che prolungare la giornata di Rukawa e Hanamichi dopo gli allenamenti.

Che dire... spero che anche questo capitolo sia di vostro gradimento! Mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate!



Pandora86

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Capitolo 8
*** Comprensione ***


Salve a tutti!
Ecco a voi il settimo capitolo!
Grazie a tutti per le bellissime recensioni!
Grazie anche a chi continua a inserire la storia tra le preferite e le seguite!
Grazie anche a tutti i lettori silenziosi!
Buona lettura!
 
Capitolo 7. Comprensione 
 

“Allora Rukawa” esordì Sakuragi, “cosa volevi dire esattamente poco fa?”

“Quello che ho detto!” fu la risposta secca dell’altro.

Breve e coinciso. Come sempre.

Sakuragi incrociò le braccia, guardandolo beffardo.

“Mh… vedi Rukawa, quello che hai detto, poteva essere frainteso” il tono era calmo.

Tuttavia, quanto più il tono appariva calmo, tanto più la sua faccia era minacciosa.

Rukawa assottigliò gli occhi; di certo, Sakuragi sarebbe presto passato alle mani.

Ma lui non avrebbe ceduto. Avrebbe continuato a parlare. Non voleva picchiarsi con lui. Non ora che, finalmente, dopo tanto tempo, era al vero Hanamichi che parlava. Non avrebbe negato ciò che aveva visto. Perché era evidente dove l’altro volesse andare a parare.

“Ad esempio” continuò Hanamichi, ignaro dei pensieri dell'altro, “poteva sembrare che tu ti riferissi all’altro giorno. Ma credo proprio di essermi sbagliato. Vero, Rukawa?”.

“Ma guarda! Era proprio a quello che mi riferivo”.

“Allora vedi di dimenticarlo” si alterò Sakuragi, afferrandolo per la maglia.

Rukawa non si mosse, continuando con lo stesso tono.

“Cos’è, non sai parlare?”

“Veramente, io pensavo che quello fossi tu, Rukawa” rispose Sakuragi a tono, stringendo la maglia ancora di più.

“Beh, non sono io che voglio menare le mani. Non ora almeno” rispose duro, afferrandogli i polsi e facendogli così perdere la presa sulla sua maglia.

Senza lasciargli i polsi, lo guardò fisso negli occhi.

“Qual è il problema, do’hao?”

“NON CHIAMARMI COSÌ ” scattò Sakuragi, allontanandolo da se.

“Qual è il problema, Sakuragi?” ripeté Rukawa, con lo stesso tono.

“Non c’era nessun problema, Rukawa, prima che tu comparissi nella mia vita” iniziò a inveire Sakuragi.

“E non c’era nessun problema, prima che tu facessi quell’allusione” il tono era sempre più alto.

“Che cosa volevi ottenere con quella frase? Non ti era bastato ridere dello spettacolino a cui avevi assistito? No, certo che no. Il grande Kaede Rukawa deve umiliare le persone oltre che a deriderle” oramai, era un fiume in piena.

Sakuragi stava dando sfogo tutta la rabbia accumulata, usando la sua nemesi come valvola di sfogo.

Le sue parole erano solo cariche di veleno.

“Quanto ti ha fatto ridere, Rukawa?” si avvicinò stringendo i pugni. “Quanto, dimmi quanto, bastardo!

Che effetto ti ha fatto vedere il do’hao in una versione inedita?

Per quanto, pensi ancora di ricordarmelo?

Rispondimi!”.

Sakuragi era fuori di sé, valutò Rukawa. Gli aveva sputato addosso tutta la rabbia provata nell’essere visto da lui, ma non solo quella.

Scaricava, su di lui, anni di rabbia, additandolo come la principale causa.

In altre parole, Rukawa sapeva che l’altro stava per scoppiare. Anzi, era già scoppiato.

Sakuragi ora era vulnerabile. All’inizio, evidentemente, voleva rimanere calmo. Ora, invece, aveva perso il controllo della situazione da lui stesso creata e le parole uscivano da sole.

A questo, Rukawa capì che c’era una sola spiegazione:

era attratto da lui!
Il numero undici ne ebbe, in quel momento, la certezza assoluta. E non era un’attrazione da poco, visto che doveva aver provato con tutte le sue forze a cancellarla.

E questo lo aveva fatto imbestialire. E anche fatto venire a galla le sue paure.

Paura che lui lo deridesse.

Paura che lui lo umiliasse.

Paura che lui non lo considerasse.

Perché era questo che cercava Sakuragi con i suoi atteggiamenti.

Cercava inconsciamente di interagire con lui, nell’unico modo che conosceva: respingendolo, odiandolo.

Perché era per questo che lo odiava così profondamente. Ora, Rukawa, lo aveva capito.

 Ora comprendeva.

Perché, in fondo, Sakuragi non lo conosceva. Ma non riusciva neanche a non provare niente per lui. E per questo lo odiava, visto che cercava in tutti i modi di apparire quello che non era.

Provava disgusto per se stesso e, ogni volta che erano a contatto, il disgusto aumentava. Perché era Rukawa stesso a ricordargli quello che era.

Lui non accetta, erano state le parole di Mito riguardo a qualcosa avvenuto tre anni prima.

Tuttavia, Mito non aveva detto: non accetta quello che è avvenuto.

Aveva semplicemente detto: non accetta.

Ed è qui che sta la differenza, considerò Rukawa.

Perché il do’hao, in sostanza, non accettava se stesso. Non accettava quello che era avvenuto. Ma neanche quello che era.

E Rukawa, invece, non faceva altro che ricordargli la parte di se che più negava, visto che era riuscito a nasconderla anche a lui che lo osservava così attentamente.

Perché quella era una cosa che non aveva mai preso in considerazione prima che fossero le parole, o meglio le non parole, di Mito a illuminarlo.

E di conseguenza Sakuragi lo allontanava anche se, inconsciamente, non poteva fare a meno di cercarlo nell’unico modo che gli sembrava onorevole: dargliele di santa ragione, prima e dopo averlo insultato.

Per questo, in fondo, non si facevano mai male sul serio. Erano quelli i loro dialoghi.

Allontani per non farti male Sakuragi. Ma è ora che, anche tu, capisca qualcosa di me.

“Cos’è… non sai cosa rispondere?” gli ringhiò contro il numero dieci.

“Tanto per cambiare, hai detto solo stronzate”.

Sakuragi lo guardò un attimo interdetto. In effetti, si era lasciato andare un po’ troppo. All’inizio, aveva pensato di gestire la situazione con calma e un certo sangue freddo. Era pronto a mandare il suo odiatissimo rivale all’altro mondo, giusto per chiarirgli un po’ le idee riguardo all’allusione di poco prima.

Quel giorno, si era avviato in palestra pensando che, in fondo, Rukawa era sempre Rukawa. Scontroso, non dotato di parola, asociale, affetto da narcolessia cronica e del tutto disinteressato a quello che non era il basket.

Quindi… sicuramente aveva già dimenticato la faccenda. In fondo, che interesse poteva mai avere per lui?

Le parole che gli aveva detto erano riferite solo ai suoi insulti. Quella mattina, in effetti, era un po’ sconvolto dalla sorpresa di averlo trovato lì, e quindi aveva travisato le sue parole capendo che, ragionandoci a mente fredda, non avevano in fondo nessun significato.

Aveva raccontato l’episodio a Mito con tono ironico, contornandolo di insulti verso Rukawa, visto che quelli sembravano non bastare mai. Mito aveva sorriso comprensivo, non dicendo nulla. Ma, in fondo, quante volte ascoltava i suoi sproloqui senza parlare?

Gli era sembrato un po’ troppo riflessivo sull’avvenimento. Ma Mito era fatto così; rifletteva su tutto, anche quando non c’era nulla da capire.

Così, si era avviato in palestra accantonando la faccenda. Poi… Rukawa aveva fatto la sua allusione… quindi non aveva dimenticato la cosa. Ma perché cacciarla fuori? Che interesse aveva nel fare ciò?

Semplice: voleva umiliarlo. Sfruttare la debolezza alla quale aveva assistito e vendicarsi, in questo modo, degli insulti che riceveva. E così, Sakuragi aveva deciso di agire.

Gli aveva fatto capire che, successivamente, ne avrebbero parlato. O meglio, lui avrebbe parlato, intimando all’altro, in maniera molto convincente, di rivedere la sua memoria e tornare a interessarsi solo ed esclusivamente a una palla arancione.

E poi… aveva perso il controllo. Ma del resto, quando mai lui era calmo nelle cose che faceva? L’impulsività era un suo lato caratteriale che, anche stavolta, aveva avuto la meglio.

E aveva gettato addosso a Rukawa tutta la sua frustrazione. E la sua paura.

Perché quelle parole erano state dettate dalla paura. Paura di essersi umiliato di fronte all’ultima persona che avrebbe voluto, davanti alla persona che più odiava perché… ogni santo giorno gli ricordava la sua attrazione verso di lui. E lui non voleva essere così, ma non avrebbe perso il confronto con lui e fu, perciò, con tono sarcastico che riprese a parlare.

“Ah si? Beh, ma come tu sai, io ho spesso l’abitudine di parlare a vanvera quindi, dimenticati tutto quanto! In fondo, io dico solo stronzate”.

“Mh…cerchi sempre di cadere in piedi, eh? Le stronzate che hai detto, erano quelle che riguardavano me”.

“Scusa, non ti seguo… puoi ripetere? Sai, io sono un po’ indietro” rispose Sakuragi gesticolando vistosamente. Il tono era freddamente ironico.  Le parole pungenti.

“Adesso basta!” ora Rukawa era serio. Si avvicinò a Sakuragi preparandosi a quello che, probabilmente, sarebbe stato il discorso più lungo di tutta una vita.

“Basta” ripeté, afferrandolo per la maglia.

“Non è vero che non c’era nessun problema nella tua vita, prima della mia comparsa.

Non è vero che non c’era nessun problema, prima della mia allusione” continuò Rukawa.

Ricordava perfettamente il capo di accusa contro di lui che l’altro gli aveva elencato prima. E avrebbe contestato, punto per punto.

“Se avessi voluto ridere, l’avrei fatto allora.

Non mi ha fatto nessun effetto vedere il do’hao versione inedita perché non è la prima volta che lo vedo”.

Sakuragi sussultò allargando gli occhi ma Rukawa continuò.

“Quel do’hao l’ho visto quando ha battuto il capitano a inizio anno, proprio quando stava per perdere.

L’ho visto quando ha fatto il quarto fallo, nella partita contro lo Shoyo.

Quando, nella stessa partita, si è seduto in silenzio dopo aver fatto quella schiacciata fenomenale.

L’ho visto nella rissa in palestra.

Lo vedo ogni volta che fa i fondamentali con i pensieri rivolti a chissà cosa.

Ti basta, o preferisci che continui?” si interruppe Rukawa lasciandolo.

Sakuragi lo guardava con un’espressione di incredulità evidente.

“Cosa…” il tono era incerto. “Che significa…io…tu…” non riusciva a formulare una domanda coerente.

“… la schiacciata… il complimento…” sembrava che stesse assemblando i pezzi del discorso che aveva sentito.

“Il complimento era rivolto al vero Hanamichi”.

Sakuragi sussultò… l’aveva chiamato per nome.

“Come le parole di adesso”.

Rukawa si avvicinò.

“Tu non hai capito nulla di me. Ma forse, ora comprenderai da solo il senso di tutto ciò” e se ne andò.

Sarebbe voluto rimanere ma sapeva che, al momento, la cosa più giusta da fare era lasciare che Hanamichi riflettesse sul significato delle sue parole.

Probabilmente, si sarebbe confidato con Mito. E, forse, avrebbe capito che di lui si poteva fidare. Ma per questo ci voleva tempo, e Rukawa lo sapeva.

I disagi che manifestava il numero dieci erano troppo profondi perché potessero essere cancellati da un giorno all’altro.

Tra l’altro, non aveva dimenticato che domani aveva qualcosa di importante da fare, che riguardava proprio Sakuragi. Di conseguenza, aveva deciso di non forzare troppo l’altro senza avere il quadro completo della situazione.

Perché i problemi di Hanamichi avevano radici lontane. E lui aveva tutto l’interesse a conoscerli nella loro complessità.

Solo così avrebbe potuto sperare di aiutarlo e magari stargli vicino.
 


***

 
Sakuragi, nel frattempo, pensava.

Com’era potuto avvenire tutto ciò?

Rukawa si era mostrato diverso. Aveva parlato… senza sarcasmo, senza insulti.

Aveva semplicemente parlato.

Come quando gli aveva fatto il complimento.

Quante volte Sakuragi aveva ripensato alle sue parole?

Si era accorto di lui. Si era accorto di quando era di pessimo umore, di quando era triste.

Nonostante lui cercasse di apparire sempre allegro, nonostante lui cercasse sempre di avere le simpatie di tutti con le sue buffonate, per paura di rimanere solo.

Perché era questa la verità: lui non voleva essere solo.

Se si fosse mostrato triste, ogni tanto, quanti lo avrebbero considerato? Probabilmente, nessuno! Perché, una persona allegra non poteva essere triste per qualcosa di serio. Sarebbe stata questa la loro ottica. Non ne era certo, ma non aveva intenzione di scoprirlo.

Se gli altri avessero saputo che era diverso, come lo avrebbero trattato? Non voleva neanche immaginarlo.

Quando lui faceva i fondamentali allora… era per questo che Rukawa lo guardava dopo ogni canestro che segnava?

Di solito lo insultava, lo chiamava do’hao.

Tuttavia, Sakuragi si accorse, in quel momento, che in alcuni casi non era stato così.

Ora comprendeva che Rukawa aveva intuito che la sua, talvolta, era una facciata e si comportava di conseguenza. Quando fingeva, lui si adeguava. Quasi come se gli reggesse il gioco.

Quando invece era serio, gli si avvicinava senza derisione e senza sarcasmo.

Ed era lui ad avvicinarsi. Lui a parlargli. Anche quando, poco prima, aveva fatto quell’allusione, l’aveva fatta in modo che nessuno se ne accorgesse.

Quindi, non voleva deriderlo. Non ne aveva mai avuto intenzione.

Era andato al di là della sua apparenza, molto più degli altri, e doveva averlo osservato parecchio.

Ora Sakuragi lo comprendeva.

Ma… perché?

Possibile che fosse interessato a lui, nonostante il muro di odio che Sakuragi aveva provveduto a creare tra loro?

Tra l’altro, Rukawa non aveva mai detto di odiarlo; a pensarci bene, era sempre e solo lui che gli urlava contro.

Possibile che fosse interessato a lui, nonostante tutto?

E se anche fosse stato così… lui era pronto ad accettarlo?

Come aveva fatto a non accorgersi di niente? E dire che Mito, qualche volta, sentendolo parlare male di Rukawa, gli aveva detto che le apparenze potevano ingannare, proprio come nel suo caso.

Ripensò a una loro conversazione, avvenuta poco dopo il suo ingresso nella squadra.

“Allora… ti piace il basket?”.

“Molto!” aveva confermato lui. “Mi fa sentire bene giocare”.

“E come ti sembrano i tuoi compagni di squadra?”

“Mah… il gorilla, in fondo, non è male. Il quattrocchi praticamente non fa che incoraggiarmi… bravi ragazzi!”.

“E Rukawa?”

“Scusa?” aveva domandato scettico Sakuragi, alzando un sopracciglio con l’aria di chi non ha capito molto bene.

“E di Rukawa cosa ne pensi? Come ti trovi?”aveva insistito imperturbabile l’amico, conscio che l’altro avesse capito benissimo.

“Penso che sia un grande imbecille, che se la tira solo perché è un campione e che si da troppe arie, tanto da non parlare con nessuno e snobbare tutti. 
Quanto a come mi trovo, la risposta già la sai. Non ci parlo né gli passo la palla e, se mi capita sotto tiro, gli spacco la faccia. Non credo di stargli simpatico e la cosa è ricambiata” aveva elencato velocemente Sakuragi.

“Mh…” Mito si era fatto pensieroso, “non credi che, a volte, le apparenze ingannino?”.

“Non credo che sia il suo caso”.

“Eppure… si potrebbe dire lo stesso di te!”.

E da allora non avevano più toccato l’argomento, se non di sfuggita.

Quanto gli suonavano vere, ora, quelle parole?

Non avrebbe saputo dire se Rukawa fosse o meno come appariva. Fatto stava che non era così disinteressato verso il mondo
come sembrava, se si era accorto di lui. E non era così poco loquace, visto il dialogo che avevano avuto.

Ma allora... anche la sua era una maschera, oppure era veramente così?

Però, se fosse stata una maschera, perché mostrarsi proprio a lui?

E se, nel caso contrario, non portava nessuna maschera, voleva poter dire, in base a quanto poco lo conosceva, che si era accorto di lui, non perché fosse molto perspicace, anche se, in effetti, stupido non lo era.

Diciamo piuttosto indifferente.

Invece, con lui, era voluto andare a fondo. Voleva parlare, come gli aveva detto poco prima.

Questo poteva voler dire solo una cosa, e cioè che non si era interessato a lui dopo aver notato alcuni suoi atteggiamenti. Ma l’esatto opposto.

Lui gli interessava dal principio e di conseguenza, rientrando nei suoi interessi, si era accorto delle sue facciate.

Ma allora… se le cose stavano così… cosa voleva? Essergli amico? Oppure…

Era chiaro perché avesse fatto quell’allusione. Evidentemente, non gli era andato giù il fatto che lui avesse liquidato la faccenda in quel modo. Era per questo che gli aveva detto quella frase.

Per stavolta passi!

Quanto apparivano chiare le cose ora.

Adesso però, io che faccio?

Sconsolato, si avviò verso gli spogliatoi. Rukawa era andato via già da un po’.

Quasi come se avesse voluto lasciarlo solo con i suoi pensieri.

Quanto mi conosci, Rukawa?
 
 
***
 


Il giorno dopo, Sakuragi si avviò in palestra con il cuore un po’ più leggero.

Non aveva dormito molto la notte precedente, temendo il confronto con Rukawa, ma Yohei, quella mattina, era riuscito a rassicurarlo.

“Non vedo perché dovresti temere di andare in palestra. Punto primo” aveva cominciato con fare pratico, “domani giocate contro il Kainan, e Akagi ti scortica vivo se non vai ad allenarti.

Punto secondo: anche Rukawa sa che domani giocherete una partita importante, di conseguenza non credo che affronterà argomenti particolari con allusioni o altro. Tra l’altro mi è sembrato, da quello che mi hai detto, che abbia usato molto tatto ne-”.

A quelle parole Sakuragi aveva avuto un colpo di tosse molto poco realista.

molto tatto” aveva continuato Mito imperterrito marcando le parole, “nell’affrontare il dialogo con te che, conoscendoti, non vedevi l’ora di mandarlo all’ospedale. E questo, perché ha capito che quello che ti turbava l’altro giorno non era cosa da prendere alla leggera o sbandierare in piazza”.

Sakuragi aveva sbuffato.

“Per cui, oggi, tu fili in palestra senza storie ed io e gli altri veniamo a fare il tifo, come al solito”.

E così, Sakuragi si era avviato in palestra più tranquillo.

E doveva ammettere che Mito aveva avuto ragione ancora una volta.

Soliti do’hao seguiti da baka kitsune. E nessun accenno al loro dialogo.

Un punto a favore di Rukawa, pensò Sakuragi. Probabilmente, ha capito che non sopporterei che gli altri iniziassero a notare qualcosa di diverso nei nostri rapporti. Anche lui, in fondo, è molto riservato.

Ma cosa vado a pensare?Si corresse mentalmente subito dopo.

Evidentemente, la kitsune è troppo presa dall’incontro di domani per sprecare energie a parlare con me… però…  forse… può darsi che non sia così.

Accompagnato da questi pensieri, uscì dalla doccia e asciugandosi velocemente, salutò poi gli altri.

“A DOMANI, RAGAZZI. DORMITE TRANQUILLI! DOMANI, IL TENSAI, VI ASSICURERÀ LA VITTORIA!”.

“Che cavolo hai da urlare? Non siamo sordi!” rimbeccò Miyagi con tono astioso dato che, essendo vicino al numero dieci, aveva quasi rischiato la rottura del timpano.

Con un’ultima risata, Sakuragi uscì dagli spogliatoi. Ora, sul suo volto c’era un sorriso dolce, ricoperto da una leggera amarezza. C’era ancora una cosa che doveva fare prima della partita: era il suo gesto portafortuna.

Non si era accorto di qualcuno lo aveva osservato molto attentamente.

Rukawa, infatti, si era preparato quasi alla stessa velocità di Sakuragi. Era deciso ad andare fino in fondo.
 


***
 


Oramai, lo seguiva da dieci minuti buoni. Il do’hao sembrava non essersi accorto di nulla.

Era quasi assente, in effetti, mentre camminava per la strada. Però, un dolce sorriso gli aleggiava sul volto.

Come era diverso quel sorriso, rispetto a tutti quelli che riservava alla sua Harukina cara.

Era così vero.

A Rukawa venne qualche dubbio. Forse, non avrebbe dovuto intromettersi in questioni familiari che non lo riguardavano.

Una cosa era osservare, un’altra era ficcare il naso.

Anche se, a pensarci bene, qualche sera prima non ci aveva pensato due volte a seguire il braccio destro del do'hao.

Tra l’altro, Mito stesso gli aveva suggerito di fare così.

Per cui, scacciò i dubbi velocemente.

Se aspetto il do’hao, non mi basta questa vita.

Perso nelle sue riflessioni, non si accorse del fatto che Sakuragi si era fermato davanti a un cancello bianco.

Si fermò, appena in tempo per vedere che direzione prendesse.

Ma…
Rukawa era spiazzato.
Sakuragi stava entrando.

Ma… perché entra lì?

La sua mente era incapace di formulare pensieri coerenti.

Probabilmente, sarebbe impallidito se la sua carnagione bianchissima glielo avesse permesso.

Ripensò alle parole di Mito.

Adora sua madre… va a trovarli prima di ogni partita…

E allora…, pensò Rukawa sempre più spiazzato, che cazzo significa tutto questo?
 
Continua…

Note:
1)    Gli avvenimenti letti in questo capitolo sono ambientati nella puntata 49 dell’anime.
        In pratica ho prolungato l’allenamento e inserito un avvenimento il giorno prima della partita contro il Kainan.

Che dire…. Spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto! Mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate!!!


Pandora86

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Capitolo 9
*** la verità ***


Ecco a voi l’ottavo capitolo della storia!
Come sempre, i doverosi ringraziamenti per le bellissime recensioni che mi sono sempre molto d’incoraggiamento!
Grazie anche a chi segue la storia e a chi continua a inserirla nelle preferite.
E ovviamente, grazie anche a tutti i lettori silenziosi.
Buona lettura!
 
 
Capitolo 8. La verità
 
Rukawa non ci poteva credere.

Sakuragi stava entrando in un cimitero.

In effetti, quando Mito gli aveva indicato la foto dei genitori, lui aveva pensato a qualcosa del genere. Eppure, l'altro aveva parlato poi della madre di Hanamichi al presente.

Ricordava di aver pensato che fosse morto solo suo padre e la madre, dopo la perdita del marito, avesse deciso di tenere la casa nel modo che lui aveva visto.

Però, poi Mito aveva parlato di entrambi al presente, dicendo che Hanamichi andava a trovarli. E, a quel punto, non aveva più fatto deduzioni.

Però, ora che ci pensava, non aveva specificato se andasse a trovarli insieme o meno.

Per cui, poteva essere morto solo suo padre considerato che aveva parlato poi, riferendosi alla madre, con il tempo al presente. Di certo era così.

Però Rukawa, ora, non capiva.

 Perché Mito gli aveva dato quel consiglio?

Escludeva che non sapesse dove sarebbe andato Hanamichi.

Era quindi questa la cosa sconvolgente che Rukawa doveva vedere?

Il numero undici non lo credeva possibile. Mito, infatti, aveva accennato qualche battuta sulla sua mancanza di nervi.

Dovrai essere forte, gli aveva detto.

Tuttavia, Sakuragi stava andando a visitare la tomba del padre. Era una cosa molto triste di cui non era a conoscenza. Anzi, probabilmente nessuno lo sapeva. Questo spiegava la tristezza del do’hao, ma da qui a sconvolgere i suoi nervi… insomma… era dispiaciuto infinitamente, però perché era lui a dover essere forte?

Inoltre, perché Mito non poteva semplicemente dirglielo?

Perché poi aveva aggiunto che non gli sarebbe piaciuto?

C’è qualcosa di più, considerò Rukawa.

Si decise a entrare; doveva vederci chiaro.

Notò subito l’imponente figura del compagno di squadra che sedeva, a gambe incrociate, fra due lapidi.

Rukawa si avvicinò, rimanendo dietro un albero.

Ma cosa...?! Non è possibile!

Rukawa aveva riconosciuto quelle foto sulle tombe. Una era del padre, come aveva supposto.

L’altra era… della madre.

Adora sua madre…. Perché allora Mito aveva usato il presente?

Guardò le date: avevano lo stesso anno. Erano morti quindi…

Tre anni fa! Allora, è stato Sakuragi stesso a decidere di mantenere la casa intatta.

Con un rapido calcolo, Rukawa valutò che la madre era morta all’incirca nove mesi dopo il padre.

Rukawa sentiva che c’era qualcosa di più, anche se scoprire che il do’hao non avesse i genitori era già abbastanza sconvolgente. Di certo, bastava a giustificare la sua tristezza.

Ma perché non lo ha detto a nessuno?

 Sentiva, istintivamente, che era altro quello che Mito voleva fargli capire.

Sentì Sakuragi schiarirsi la voce.

“Ciao mamma” iniziò a parlare.

“Ciao papà, come state?

Oggi, gli allenamenti sono finiti più tardi ma ho fatto prima che ho potuto.

Mi dispiace non essere venuto molto a trovarvi ultimamente, ma sapete com’è... tra il lavoro e la scuola.

Domani, giocheremo contro il Kainan. Dicono che sia una squadra fortissima, ma… vi prometto che non farò errori. Vinceremo!

Non come nella partita contro lo Shoyo; non mi farò più espellere”.

Ecco perché, nonostante tutto, era triste, valutò pensierosa la figura dietro l’albero.

Sakuragi continuò.

“So che, negli ultimi anni, vi ho dato parecchi pensieri…”.

Ma che dice? Pensò Rukawa.

“Anzi, forse da quando sono nato. Ma, da quando gioco a basket, sono diventato un bravo ragazzo; il figlio che avreste voluto. Sarete orgogliosi di me”.

Quanta tristezza si poteva percepire in quelle parole.

“Sapete, l’altro giorno Yo è passato a casa. Non vi preoccupate, è tutto in ordine per quando… quando magari ci tornerete”.

Rukawa rimase di sasso.

Adesso era sconvolto. Veramente sconvolto.

Mai come quella volta ringraziò il suo autocontrollo.

Ecco perché Mito aveva parlato al presente. Ecco perché Mito aveva detto che Hanamichi non accettava.

Ora, Rukawa aveva capito. Aveva sempre sospettato che Sakuragi fosse una persona molto sensibile. Essere rimasto solo l’aveva segnato profondamente.

Parlava ai genitori come se fossero vivi.

Parlava alle loro lapidi ma non voleva rendersi conto che non potevano tornare.

Sapeva che non li avrebbe più rivisti, ma si illudeva che non fosse così.

Preferiva vivere continuando a sperare che tornassero, perché faceva troppo male vivere accettando che non li avrebbe più rivisti.

Se ne rendeva conto, per questo ogni tanto Rukawa scorgeva nei suoi occhi una velata malinconia.

Ma poi, scacciava quei pensieri preferendo pensare che le cose non stessero come in realtà stavano.

E andava avanti così; a metà fra la speranza di poter rivedere i genitori, e la certezza che questo non sarebbe mai avvenuto.

Era quindi questo, questo quello che Mito voleva mostrargli.

“Mi mancate…” stava continuando Hanamichi.

“Sì, lo so che voi siete qui…” aggiunse sorridendo.

“Però… sarebbe bello essere di nuovo tutti a casa. Vi presenterei Haruko… vi ho già parlato di lei… è molto buona con me”.

Rukawa strinse impercettibilmente i pugni, assottigliando gli occhi.

“Magari, quando lei si accorgerà di me, con lei riuscirò a essere felice. Non avrete modo di vergognarvi di me…”

Adesso capisco. Adesso finalmente capisco, rifletté Rukawa sospirando.

Tutto tornava ora. Tutti i pezzi si incastravano perfettamente.

Finalmente, sapeva tutta la verità, o almeno una buona parte, in quel mare di finzioni, bugie e cose non dette.

Ecco quali erano le paure di Hanamichi. Ecco quali erano le sue fragilità.

Ecco quale era il vero Hanamichi.

Era rimasto fermo a tre anni prima. Non diceva niente a nessuno, perché dirlo avrebbe significato accettarlo. E lui non voleva.

Ecco perché si aggrappava a Haruko, come probabilmente alle precedenti cinquanta ragazze.

Per questo lavorava. Per questo si era trasferito. Vivere in quella casa avrebbe significato rendersi conto che i genitori non c’erano più. E questo faceva troppo male.

Ora sapeva quanto profonde fossero le ferite di Hanamichi. Finalmente, sapeva anche come aiutarlo. E non avrebbe sbagliato.

“Ora devo andare” stava continuando Sakuragi, “ma prometto che ci vedremo presto. Vi voglio bene”.

E si alzò per andarsene. Fece giusto qualche metro prima di andare a scontrarsi con qualcuno.

“Mi scusi” incominciò, alzando lo sguardo e sgranando gli occhi dalla sorpresa.

“Ru-Rukawa!”.

Hanamichi indietreggiò istintivamente, e Rukawa temette che stesse per svenire.

Gli andò incontro, visibilmente preoccupato ma l’altro lo allontanò con la mano.

“N-non qui” disse, e si avviò fuori quasi di corsa.

Rukawa lo guardò incerto, seguendolo e accelerando il passo.

Era troppo sconvolto e di certo non poteva lasciarlo in quelle condizioni.

Forse aveva sbagliato a farsi vedere ora. E domani dovevano pure giocare.

Uscì fuori dal cimitero, trovandolo con lo sguardo.

Sakuragi era seduto a terra con testa fra le mani.

“Ehi…” lo chiamò Rukawa, inginocchiandosi di fronte a lui.

“P-perché sei qui?”.

Rukawa ora non aveva più dubbi su cosa fare.

“Il cimitero non è di tua proprietà” il tono era leggero.

Sakuragi alzò lo sguardo.

Rukawa notò che era molto pallido.

“Stai bene?”.

Sakuragi annuì.

“Hai visto e sentito tutto vero?”.

“Lo sai che è così”.

Sakuragi nascose la testa tra le braccia.

“N-non volevo parlare con te… davanti a loro”.

Rukawa annuì. Gli era chiaro il senso di quella frase. Non voleva che i suoi genitori lo vedessero parlare con lui. Non voleva farli vergognare.

Quanto gli appariva fragile ora il suo compagno di squadra.

Ora capiva il senso di protezione che provava Mito; era lo stesso che provava lui in quel momento.

Era come se il tempo si fosse fermato. Non esisteva più niente. Solo loro due.

Solo Sakuragi che sembrava un cucciolo abbandonato in cerca di aiuto.

Solo Sakuragi che si appellava ai genitori morti, facendo finta che fossero vivi, perché aveva paura di sentirsi solo.

Rukawa agì d’istinto.

Lo abbracciò, circondandogli la schiena con un braccio e facendogli poggiare la testa sulla sua spalla.

Da quanto tempo desiderava farlo?

Da quanto tempo desiderava accarezzare i suoi capelli e sentirlo così vicino a se?

Lo sentì irrigidirsi, ma non si allontanò, ne fu Sakuragi ad allontanarlo.

Perché era di questo che ora aveva bisogno. Non di parole vuote che, paragonate al suo profondo dolore, perdevano di consistenza.

Aveva bisogno di gesti. Di una spalla a cui aggrapparsi. Aveva bisogno di capire che lui non era solo, e che mai lo sarebbe stato.

Perché Rukawa era certo di questo.

Lui e Sakuragi erano legati da un filo indissolubile e invisibile agli altri.

Si erano incontrati e poi scontrati. E, anche se agli occhi del mondo erano totalmente diversi, le loro menti erano affini.

Perché erano sempre stati sulla stessa lunghezza d’onda.

Erano soli, avevano solo il basket.

 Quello stesso sport li aveva uniti; e nessuno avrebbe potuto dividerli.

Il loro legame ci sarebbe sempre stato. Al di là di quello che sarebbe avvenuto poi. Al di là delle strade che avrebbero intrapreso nel futuro.

Rukawa sentì Sakuragi rilassarsi.

Chiuse gli occhi, godendosi quel momento.

Sapeva che la strada verso il do’hao sarebbe stata ancora lunga, ma a Rukawa questo non importava.

La costanza e la testardaggine erano i punti forti del suo carattere.

Avrebbe abbattuto i suoi muri, uno dopo l’altro, e non importava quanto tempo ci sarebbe voluto.

Sakuragi sarebbe ritornato quello di un tempo, allegro e solare, ma non per paura che mostrando le sue fragilità, gli altri avrebbero potuto allontanarlo. Ma perché alla sua allegria sarebbe corrisposto il suo vero stato d’animo.

 E avrebbe accettato quello che era.

Rukawa si staccò a malincuore dall’altro, notando che questi non lo guardava.

Intravide che il viso era diventato della stessa tonalità dei capelli.

Era anche timido il suo do’hao. Lo aveva sempre sospettato.

Si alzò… c’era ancora una cosa che doveva fare.

“Vieni con me” il tono era serio, ma non imperativo.

Non era un ordine, quanto una richiesta.

Sakuragi alzò lo sguardo alquanto perplesso. Vide Rukawa che entrava nuovamente nel cimitero.

Che diavolo ha in mente quel baka?

Rukawa era fermo all’entrata, aspettando che lui si alzasse e lo seguisse.

Sakuragi era indeciso. Le cose con Rukawa stavano cambiando senza che lui avesse modo di fermarle.

Tuttavia, non poté fare a meno di alzarsi e seguire l’altro.

Rientrarono nel cimitero.

Rukawa camminava deciso, Sakuragi si teneva distante da lui.

Fino a che, Rukawa non si fermò davanti ad una lapide indicandogliela con la mano.

Sakuragi lesse il nome.

Reika Rukawa.

Adesso era Sakuragi a essere sconvolto. E così… anche la kitsune non aveva la madre.

E le date risalivano a parecchi anni prima. Praticamente, Rukawa era stato un bambino all’epoca.

Rukawa aveva perso la madre quando aveva poco più di sei anni.

Era per questo quindi che era al cimitero.

Ma cosa voleva dirgli con quel gesto?

Sakuragi alzò lo sguardo, non sapendo cosa dire in una situazione del genere.

Lui, che forse avrebbe dovuto sapere quali erano le parole giuste, non le conosceva. Come si affronta un dolore del genere?

Lui preferiva scappare, lui preferiva illudersi di cose che non c’erano.

Fu Rukawa a spezzare il silenzio.

“Non tornerà. Io l’ho accettato. E devi farlo anche tu”.

Erano parole dure, che riuscirono a scuotere Sakuragi dal suo torpore.

Aveva capito dove l’altro volesse andare a parare. Ma lui non voleva ascoltare.

Provò a controbattere.

“Senti, io”

“No, sentimi tu. Ascoltami bene” lo interruppe brusco Rukawa.

“Lei non mi parlerà più. Ma sarà sempre con me fino a quando avrò la forza di ricordarla. E lo stesso vale anche per te”.

Sakuragi si avviò verso l’uscita.

Non sapeva cosa fare e voleva solo andare via da lì.

Voleva solo porre quanta più distanza possibile tra lui e Rukawa. Sapeva che, ancora una volta, stava scappando. Ma non gli importava. Voleva solo andarsene, mettendo quanta più distanza possibile fra lui e il compagno di squadra. Non voleva ascoltare le sue parole.

Parole che però, nel frattempo, continuavano a risuonargli nella testa, senza che potesse fare nulla.

L’altro lo seguì, sapendo che stava scappando ancora una volta, non riuscendo ad accettare il significato del suo discorso.

Lo raggiunse in poco tempo, afferrandogli il braccio e facendolo voltare.

“Lasciami in pace, Rukawa. Lasciami stare” quasi gli urlò le ultime parole.

Rukawa lesse, in quello sguardo, una supplica disperata. Ma stavolta non avrebbe assecondato il gioco dell’altro. Lo avrebbe lasciato andare, ma solo dopo avergli detto quello che riteneva giusto.

Strinse ancora di più il suo braccio.

“Prima, dovrai ascoltarmi”.

 E il tono di Rukawa, stavolta, non ammetteva repliche.

Sakuragi non si muoveva. Non andava via, ma neanche accennava a voler dire qualcosa. Aveva capito, dal tono dell’altro, che questa volta non sarebbe potuto scappare. Probabilmente, lo avrebbe inseguito fino a casa pur di farsi ascoltare.

Perché quando Rukawa prendeva una decisione, nessuno riusciva a fargli cambiare idea.

Cosa mai voleva dirgli di tanto importante?

Lui aveva perso la madre, non sapeva in quali circostanze. Anzi non sapeva neanche della sua morte fino a qualche minuto fa.

Eppure… sembrava che Rukawa fosse andato avanti… sembrava che lo avesse accettato.
 Era forse questo, quello che voleva dirgli?
Se aveva sentito tutto, doveva anche aver capito che lui preferiva illudersi che un giorno i genitori sarebbero potuti tornare, anche se sapeva che non era così… ma questa illusione lo faceva andare avanti.

Per qualche minuto, aleggiò il silenzio. Intorno a loro, anche il tempo sembrava essersi fermato.

Da un lato, c’era Sakuragi con la testa piena di domande, che però non osavano uscire dalla sua bocca.

Dall’altro, c’era Rukawa che lo osservava paziente, sapendo che ora l’altro lo avrebbe ascoltato perché lui poteva avere le risposte che cercava. Non tutte… ma quella più importante.

E fu proprio Sakuragi a interrompere il silenzio, stavolta.

“Come si fa?”.

Rukawa lasciò andare il braccio del compagno di squadra, perché ora aveva la certezza che non sarebbe scappato.

Sorrise impercettibilmente e si sentì invadere da una profonda tenerezza verso il do’hao.

Il tono con cui gli aveva rivolto la domanda era incerto e la sua testa doveva essere piena di dubbi, però… finalmente aveva teso la mano. E l’aveva tesa verso di lui.

Finalmente aveva chiesto aiuto. E lo stava chiedendo proprio a lui.

In quella domanda era racchiuso tutto.

Voleva sapere come fare per andare avanti.

“Devi piangere” Rukawa era deciso. Non avrebbe sprecato quest’opportunità.

Aveva visto nell’altro un barlume di speranza e non si sarebbe tirato indietro, ora che finalmente Sakuragi, con quella timida richiesta, apriva un piccolo varco nel muro che aveva costruito fra loro.

Ora che finalmente aveva in mano le carte per aiutare Sakuragi ad affrontare il suo dolore.

“Ti devi disperare sul fatto che non ci siano più. Devi far entrare tutto il tuo dolore e poi farlo uscire sfogandoti”.

L’altro lo guardò interdetto; praticamente, gli stava dicendo di stare male.

Ma non era meglio come faceva lui?

Rukawa dovette capire il filo dei suoi pensieri perché riprese.

“Farà male. Molto male… fino a che non starai meglio.

Un giorno ci penserai continuamente.

Il giorno dopo un po’ meno, e così via.

Fino a quando, imparerai a conviverci.

E soprattutto… devi chiedere aiuto a chi ti vuole bene. Perché non sei solo. Non serve a niente fingere che vada tutto bene.
Chi ti vuole bene, se ne accorge lo stesso quando c’è qualcosa che non va”.

L’altro abbassò lo sguardo. Ora, non sapeva veramente cosa dire.

Già faceva fatica ad assimilare il discorso che aveva sentito. C’era solo confusione ora nella sua testa. Però… trovò il coraggio per un’altra domanda.

“Tu lo hai fatto?”.

“Io l’ho accettato”.


Sakuragi alzò finalmente lo sguardo verso Rukawa. Quanta fierezza in quegli occhi. Quanta decisione nelle sue parole. Come gli appariva forte ora la figura del suo compagno di squadra. Quanto gli appariva incrollabile.

Sembrava sicuro di quello che diceva. E se avesse avuto ragione?

Però… era Rukawa quello con cui stava parlando. E, se anche avesse avuto ragione, come si sarebbe regolato poi con lui?

Possibile che quello che aveva costruito in quei mesi, fosse stato abbattuto con poche parole dall’altro?

Oramai, i loro rapporti erano definitivamente cambiati. Quante volte aveva desiderato una spalla a cui appoggiarsi, e ora gli era stata offerta da Rukawa.

Proprio da Kaede Rukawa. E lui, questo, poteva accettarlo?

Sakuragi, in quel momento, sapeva che di essere troppo confuso per permettere alla sua mente di andare con ordine. Troppe erano le cose che doveva assimilare. Troppe quelle che doveva rivedere.

I suoi pensieri non seguivano un filo logico. Solo una cosa però gli era chiara.

Non voleva che fosse Rukawa quello che aveva davanti. Non era pronto ad accettare che le cose fossero cambiate. Gli altri cosa avrebbero pensato poi?

Ecco che continuava… si preoccupava degli altri… si lasciava dominare da pensieri inutili, rispetto all’importanza del loro discorso. Ma era troppo confuso e forse dipendeva da questo.

Riprese a parlare, incerto.

“Senti… io… riguardo a oggi… gli altri…” e si interruppe.

Ma Rukawa capì benissimo cosa l’altro volesse dire e, ancora una volta, lo precedette.

“Dimentica tutto” disse deciso. “O meglio, dimentica che oggi a parlarti ci sia stato io. Non voglio nessun ringraziamento se dettato dall’obbligo. Domani, quando ci vedremo, sarà come se non fosse successo nulla” e si girò per andarsene.

“Per ora” aggiunse, prima di voltarsi definitivamente.

Sakuragi guardò la sua figura allontanarsi.

Possibile che quello fosse davvero il Kaede Rukawa che conosceva?

Ma poi, in fondo, quanto sapeva di lui? Nulla.

Ripensò a quell’abbraccio e a come si era sentito.

Cos’aveva provato? Calore… conforto… sostegno… e lo aveva provato solo con un abbraccio.

Quando mai era andato in quel posto e si era sentito così?

Ogni volta, c’era il vuoto nel suo animo, un vuoto opprimente in cui aveva paura di precipitare. Un vuoto in cui non vedeva nessuna mano tesa.

E allora, che faceva? Non ci pensava, semplice!

Tornava alle sue cose di sempre, allenamenti, lavoro, scuola.

Ma quanto viveva in realtà?

Faceva finta di vivere, ecco qual era la verità.

Ripensò alle parole di Rukawa.

Farà male. Molto male.

Eppure, quando il vuoto lo opprimeva, quando la paura di restare solo si faceva più forte, non stava lo stesso male?

Forse… seguire il suo consiglio sarebbe stato meno doloroso. Ma come si faceva?

Devi chiedere aiuto a chi ti vuole bene.

Di nuovo, furono le parole di Rukawa a venirgli in soccorso.

Ma a chi? A lui?

No! Questo non poteva accettarlo. Lo aveva aiutato, era vero, ma da qui a ….
No! Era sbagliato il cambiamento che c’era stato tra loro.

Chissà cosa aveva pensato Rukawa, quando aveva nominato gli altri e altre cose senza senso. Di certo, aveva previsto una cosa del genere altrimenti non lo avrebbe risposto con tanta decisione.

Che pensiero inutile poi, rispetto agli avvenimenti che c’erano stati.

E a lui importava sul serio degli altri? Forse no, ma… era Rukawa il problema.  Perché se le cose fossero cambiate, lui non aveva la certezza di non far trapelare nulla dei suoi sentimenti.

Sentimenti a cui era ancora intenzionato a porvi rimedio.

Perché era sbagliato quello che provava e Rukawa, in fondo, non poteva farci proprio niente. Ma non avrebbero potuto essere amici. Anche se, quel giorno, le cose fra loro erano cambiate. Non avrebbero potuto esserlo mai.

Per cui, avrebbe seguito il suo consiglio.

Quello che aveva incontrato quel giorno, non era stato Kaede Rukawa ma un semplice passante, che aveva saputo scaldare il freddo che sentiva dentro.

L’indomani, avrebbe visto Kaede Rukawa, quando avrebbero giocato contro il Kainan. Non oggi. Fra lui e il suo odiato rivale non era successo niente.

Era così che dovevano andare le cose. Lui non poteva permettere a se stesso di cambiare le cose con Rukawa, spingersi oltre avrebbe significato fare i conti con qualcosa che lo avrebbe cambiato totalmente.

E lui non era ancora pronto.

Probabilmente, non lo sarebbe stato mai.

Perciò, avrebbe fatto finta che non fosse successo nulla.

Era stato Rukawa stesso a dirlo. E a lui stava bene.

Era Yo quello da cui doveva andare. Era Yo che poteva aiutarlo a trovare un senso alle parole del passante misterioso.

Ecco, già suonava meglio. Molto meglio.

Era Yo la spalla a cui doveva appoggiarsi. Lui avrebbe saputo consigliarlo per il meglio, aiutandolo a mettere in ordine i suoi pensieri che scorrevano senza senso.

Così, fece una cosa che non faceva da un po’ di tempo.

Si avviò deciso verso la casa dell’amico.



***
 

Rukawa si alzò pigramente dal letto. E così, anche quel pomeriggio aveva riposato poco o niente.

Sbuffò. Il suo pensiero era rivolto al do’hao.

Conoscendolo, era sicuramente andato a parlare con il suo amico ma del resto, cosa si aspettava? Di trovarlo fuori alla sua porta, mentre diceva che era con lui che voleva confidarsi?

Seee… l’anno del mai, pensò ironico.

Sperò, in ogni caso, che stesse bene. Sapeva che le sue parole avevano sortito il loro effetto.

Sakuragi ci avrebbe riflettuto e forse, poco alla volta, le cose sarebbero cambiate.

Lo aveva osservato attentamente prima di andare via. E, anche se il suo sguardo era pieno di dubbi, sapeva che stava meglio rispetto a quando se lo era trovato davanti improvvisamente, altrimenti non lo avrebbe mai lasciato solo.

Tuttavia il suo compito era finito lì… almeno per quella giornata.

Sapeva che l’altro non avrebbe mai accettato aiuto da lui.

Perché accettare aiuto da lui, avrebbe significato anche ammettere che il suo odio era dettato dall’attrazione che nutriva verso di lui.

Ma considerato quanto profonde fossero le sue ferite, non era ancora pronto per una cosa del genere. Considerando poi, il profondo significato che aveva per lui essere “normale”.

Perché non era una negazione da poco quella che faceva a se stesso. Lui non voleva deludere i genitori. Avrebbe dovuto prima affrontare la solitudine creatasi per la loro prematura scomparsa, scoprendo poi che, in quella solitudine, non sarebbe stato comunque da solo.

Avrebbe prima dovuto affrontare i fantasmi del suo passato.

E poi avrebbe potuto accettare quello che era, vivendo serenamente la sua diversità.

Ma per questo ci voleva tempo e Rukawa lo sapeva.

Già il fatto che non lo avesse respinto nell’abbraccio, voleva dire tanto.

Ed era per questo che poi gli aveva detto quelle cose.

Perché Sakuragi si trovava ad un passo difficile. E, accettare aiuto da lui in quel momento, sarebbe stato un colpo troppo duro anche per il suo orgoglio.

Perché Sakuragi era anche molto orgoglioso, visto come si ostinava ad andare avanti da solo.

Orgoglio che era stato smantellato pezzo dopo pezzo dalla sua nemesi.

Per cui, gli aveva detto di fare finta di niente, sapendo che avrebbe seguito il suo consiglio.

Era fin troppo bravo, in effetti, a credere alle cose che voleva.

Doveva avere pazienza. Magari, presto il do’hao avrebbe capito che di lui si poteva fidare e di conseguenza non avrebbe più negato i sentimenti che provava, perché ne avrebbero parlato insieme e Rukawa avrebbe dissolto i suoi dubbi.

Ed era certo di riuscirci. Era sempre stato bravo a ottenere le cose che voleva. O non si sarebbe chiamato Kaede Rukawa.

Tuttavia, non era ancora il momento.

Il suono del campanello lo distolse dai suoi pensieri.

Mmm…. Stasera abbiamo visite! Pensò, avvicinandosi alla porta d’ingresso.

Sarebbe stato troppo bello pensare che fuori dalla porta ci sarebbe stato Hanamichi.

Ma la realtà era diversa, e lui sapeva perfettamente chi fosse venuto a trovarlo.
 
Non fu, infatti, sorpreso di trovarsi Yohei Mito davanti.

Sapeva che Sakuragi sarebbe andato da lui dopo le sue parole, e ne era contento. Anche se avrebbe preferito esserci lui al posto della persona che ora aveva di fronte.

Di conseguenza, era sicuro che Mito lo avrebbe cercato per sapere nei dettagli cosa fosse successo.

Per un attimo, temette che fosse successo qualcosa a Hanamichi, ma bastò guardare il volto tranquillo dell’altro per sapere che non doveva preoccuparsi.

“Entra” gli disse seccamente, facendosi da parte per farlo passare.

“Sì, io sto bene, grazie, e tu?” fece ironico Mito, entrando.

Rukawa gli indicò una poltrona dove sedersi e Mito alzò gli occhi al cielo.

Possibile che Hana doveva interessarsi proprio a una persona che sembrava avesse dimenticato, non si sapeva dove, la voce?

Come se poi la situazione non fosse già abbastanza complicata, senza che si mettesse pure Rukawa che non sprecava una parola manco le pagasse.

“Volevo ringraziarti” esordì Mito, con un sorriso sincero.

Rukawa annuì, sedendosi di fronte a lui.

“Ora Hana è a lavoro” continuò Mito, rassegnandosi a dover parlare da solo. “Oggi, è venuto a casa mia. Non ci veniva da molto tempo”.

Rukawa capì il senso di quell’affermazione.

“Sai, prima di farsi accompagnare a lavoro, Hana mi ha raccontato di uno sconosciuto che ha incontrato per caso e che gli ha fatto capire delle cose. Era molto confuso in verità, però non era triste. O meglio, non come al solito, quando torna dalle sue visite. Era diverso. Sembrava che avesse sul volto una nuova consapevolezza, Anche se è ancora tormentato dai dubbi. Le parole di questo passante però sono riuscite a scuoterlo” e si interruppe guardando l’altro, che non accennava a profferire parola.

“Sai…” riprese, “ho pensato che lo sconosciuto potessi essere tu”.

“Nh” mugugnò Rukawa con un cenno d’assenso.

Il numero undici notò come il migliore amico del do’hao fosse più amichevole rispetto al loro primo dialogo. E la causa di questo cambiamento poteva essere solo una: aveva fatto centro.

Aveva trovato il modo giusto per aiutare Sakuragi, e la faccia tranquilla di Mito ne era la prova.

“Ha fatto come gli ho detto, a quanto pare” disse Rukawa, intervenendo nel monologo dell’altro.

“Cioè?” chiese a sua volta Mito.

“Gli ho detto di fare finta che a parlare non fossi stato io”.

“Capisco”.

Passarono alcuni istanti, dove fu ancora una volta Mito a rompere il silenzio.

“Le cose cambieranno. Prima o poi, Hana ti accetterà”.

“Lo so” affermò Rukawa deciso.

Mito guardò il volto sicuro dell’altro. A guardarlo, si stentava a credere che avesse solo sedici anni. E non parlava solo dell’aspetto fisico, quanto del suo carattere.

Appariva strano, infatti, che una persona così giovane avesse già chiaro in mente quale fosse la sua strada e fosse così sicuro di se nelle sue decisioni.

Rukawa era sicuro, freddo e determinato nei suoi obiettivi.

E, nonostante tutti i suoi difetti, Mito sapeva che era la persona giusta per Hanamichi.

Lui sapeva scuoterlo, spronarlo e, talvolta, anche consolarlo, senza mai sbagliare.

E Hana che, nonostante le apparenze che lo vedevano atteggiarsi a Genio, era una persona estremamente insicura e con una sensibilità sopra la media, poteva solo trarre beneficio dal rapporto con Rukawa.

Chissà quanto era costato a Rukawa, dire a Hanamichi di fare finta di niente.

Ma a quanto pareva, l’aveva accettato, apparentemente, senza porsi troppi problemi. Aveva capito che non era il momento giusto e si era fatto da parte.

Era però sicuro che le cose sarebbero cambiate, come dimostrava la luce fiera nei suoi occhi.

E questo voleva dire solo una cosa: che il sentimento che lo legava al suo migliore amico era profondo. Forse troppo, perché lui potesse capirlo fino in fondo.

Quei due si erano sempre attratti e respinti, quasi reagendo a una legge creata appositamente per loro.

Ed erano legati indissolubilmente dal loro grande amore: il basket.

Ed era proprio a proposito di questo che aveva deciso di fare visita a Rukawa.

Doveva togliersi un dubbio riguardante la partita del giorno successivo.

“Senti” esordì deciso, “è vero che Hana ha fatto il primo passo verso qualcosa che si porta dietro da anni, però…  domani…” e si interruppe.

Come poteva formulare la domanda nel modo migliore? Considerato poi quanto fosse scarso di parole l’altro.

Invece, con suo grande stupore, fu proprio Rukawa a venirgli incontro rispondendolo alla domanda appena formulata.

“Domani, non avrà problemi nella partita”.

Mito lo guardò accigliato.

“Ne sei sicuro?”.

Rukawa annuì deciso.

“Non lo puoi capire. Ma io ti posso assicurare che domani giocherà come al solito. Anzi, forse meglio del solito”.


“Ma quello che è avvenuto oggi fra te e lui…” incominciò Mito.

“Non conta” lo interruppe Rukawa.

“Perché ha la stoffa del campione, come me. E, quando entrerà in campo, conterà solo la partita. Non potrà ignorare il richiamo del gioco”.

E Mito, a quelle parole, non potette fare altro che annuire. Era vero, lui non poteva capire, ma se era Rukawa ad assicurarglielo allora doveva fidarsi.  Come si era fidato l’altro qualche sera prima, quando gli aveva rivelato i suoi sentimenti.

Si alzò, più tranquillo.

“Non ti rubo più tempo. Anche tu domani devi giocare. Magari, domani farò anche il tifo per te” aggiunse scherzoso.

“Non credo ti convenga farti sentire” ribatté lapidario Rukawa.

Tuttavia, Mito avrebbe potuto giurare di averlo visto sorridere impercettibilmente.

“Solo una cosa: non mi sei sembrato sorpreso della mia visita, né del fatto che io sapessi dove abitavi”.

“Nh… diciamo che la ritenevo una possibilità. Quanto a dove abito” il tono ora era volutamente sarcastico, “suppongo che tu ti sia informato ampiamente sul mio conto”.
“È vero” ammise Mito con semplicità, alzando le spalle. “Me ne fai una colpa?” domandò sorridendo.

“Avrei fatto lo stesso anch’io”.

“Ora devo proprio andare” e si avviò verso la porta.

 “Grazie” aggiunse, tendendo la mano.

L’altro la strinse e lo guardò uscire.

Ora, per il momento, non doveva preoccuparsi di Hanamichi.

Adesso, doveva solo pensare a battere il Kainan.
 

Continua….
 
Note:
1)    Gli avvenimenti di cui avete letto sono ambientati il giorno prima della partita contro il Kainan.
        Ovviamente, il nome della madre di Rukawa è inventato!

Che dire… spero che questo capitolo vi sia piaciuto. Mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate!

Ci vediamo il 5 per il prossimo aggiornamento!

Pandora86

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Capitolo 10
*** é colpa mia ***


Ecco a voi il nono capitolo della storia!!!
Come al solito, i doverosi ringraziamenti per le bellissime recensioni che mi sono sempre molto d’incoraggiamento!!!
Grazie anche a chi segue la storia e a chi continua a inserirla nelle preferite!!!
E ovviamente, grazie anche a tutti i lettori silenziosi!!!
Buona lettura!!!
 

Capitolo 9. È colpa mia
 

La partita era finita.

Lo Shohoku aveva perso.

Abbiamo perso pensava rabbioso Rukawa nella solitudine del suo appartamento.

Abbiamo perso.

Com’era potuto accadere?

Ripensò brevemente alla giornata.

Il do’hao si era comportato normalmente e anche lui. E questo era previsto.

Tanto per cambiare, aveva iniziato a dare spettacolo prima dell’incontro, non resistendo alle provocazioni dell’altro imbecille.

E lui era intervenuto.

In effetti, per una persona come lui che stava sempre sulle sue, interveniva un po’ troppo spesso quando si trattava del do’hao.

Ma del resto, non aveva sopportato che quella mezza sega del Kainan si esibisse nel suo perfetto palleggio davanti a chi giocava da così poco tempo.

Quindi, senza pensarci due volte, aveva deciso di intervenire.

Soliti teatrini, soliti pugni del capitano.

Poi avevano iniziato a giocare. Sakuragi si era comportato meglio di quanto si aspettasse. In poco tempo, aveva messo in difficoltà il Kainan, fino a che l’allenatore della squadra avversaria non aveva deciso di prendere provvedimenti.

E lui aveva visto di nuovo il vero volto di Hanamichi. Inoltre, anche Akagi lo aveva visto.

il capitano si era accorto, infatti,  dell’umiltà con cui Sakuragi gli chiedeva come centrare il canestro.

Si era accorto di come Sakuragi avesse messo da parte le sue buffonate per chiedere un consiglio, sinceramente dispiaciuto per tutti gli sbagli commessi.

Ma il capitano non aveva potuto fare nulla per lui, se non consigliargli di schiacciare.

Però, Maki era stato furbo e Sakuragi aveva fallito ancora.

Rukawa si era reso conto che, in quel momento, non avrebbe potuto fare niente per lui neanche se lo avesse voluto con tutto se stesso.

Tuttavia, non sarebbe comunque rimasto stato a guardare come un semplice spettatore.

Per il resto della partita, avrebbe avuto solo un pensiero nella testa: recuperare tutti i punti, uno dopo l’altro.  Avrebbe recuperato anche quelli che Sakuragi aveva mancato.

E nessuno lo avrebbe fermato.

Poi, cos’era avvenuto? L’infortunio del capitano aveva dato una svolta alla partita, ma non in senso negativo per lo Shohoku.

Aveva visto di nuovo il fuoco accendersi negli occhi di Sakuragi. E non importava ora che lo marcasse o no quel tappo.

Ora lui aveva una motivazione più grande. Una sfida nuova degna di un campione.

Se ripensava a quei momenti sotto canestro, sentiva ancora l’adrenalina scorrergli nelle vene.

Avevano difeso il canestro, insieme, stoppando le mosse del Kainan una dopo l’altra. I loro compagni di squadra erano quasi demotivati; si domandavano quanto l’assenza del capitano potesse pesare sul risultato finale.

Loro, invece, no. Avevano, entrambi, un pensiero nella testa.

Fermare il Kainan.

E Rukawa, finalmente, aveva trovato il Sakuragi che tanto cercava. Anche in un campo da gioco.

Ripensò al loro breve scambio di battute, nei frangenti in cui difendevano il canestro.

“Devo sempre correre in tuo aiuto, eh?” gli aveva detto mentre stoppava una palla.

Ma, non c’era rimprovero. Non c’era ironia. Era solo una costatazione. Rivolta al vero Hanamichi

“Perché non crepi?!” era stata la puntuale risposta di Sakuragi.

Poi, era finita lì. Sakuragi non si era deconcentrato iniziando a inveire su di lui; aveva continuato a difendere il canestro. Non aveva perso di vista l’obiettivo.

Il loro era stato un semplice scambio di battute… come due compagni di squadra.

E forse, inconsciamente, c’entrava quello che era avvenuto il giorno prima.

Ma Rukawa non avrebbe saputo dirlo con certezza. In effetti, anche la sua frase, vista a mente fredda, sarebbe potuta sembrare un chiaro riferimento agli avvenimenti precedenti.

Ma non era così, perché loro erano due campioni. E, quando erano in campo, contava solo la palla e nient’altro. Non si facevano abbattere da nulla, e Sakuragi, in quell’incontro, era cresciuto ancora. Perché erano stati loro i trascinatori della squadra in quel momento.

Per Rukawa contava solo la differenza di punti.

Per Sakuragi era essenziale difendere il canestro.

E se ne erano accorti tutti.

Perché, guarda caso quando Sakuragi aveva detto quella che poteva sembrare una frase stupida, il solo pensiero lo faceva quasi sorridere, riferita al fratello di Kin Kong, nessuno aveva riso.

Aveva accompagnato quella frase con una stoppata incredibile, lasciando tutti a bocca aperta. Persino lui che era sotto canestro era rimasto sconcertato.

E allora tutti avevano capito la serietà implicita delle sue parole.

Lui si stava assumendo un ruolo, e nessuno glielo avrebbe tolto.

Tutti avevano visto il vero Hanamichi.

L’Hanamichi che non si tira indietro di fronte alle responsabilità.

L’Hanamichi che sa di aver fatto degli errori e che vuole rimediare.
L’Hanamichi che gioca a favore della squadra con tutte le sue forze.
L’Hanamichi che aveva preso a cuore le parole del capitano e che voleva a tutti i costi realizzare il suo sogno.
L’Hanamichi che parlava seriamente incoraggiando la squadra.

E avevano continuato così…insieme… come una cosa sola.

Rukawa pensava a diminuire la differenza dei punti.

Sakuragi pensava a non farla aumentare.

Era questa la vera essenza del basket, e loro l’avevano afferrata. Anche se Rukawa dubitava che Sakuragi lo avesse capito appieno.

Certo, qualche teatrino comico non era mancato.

Rukawa aveva sentito distintamente Sakuragi che si chiedeva perché non si fosse rotto le gambe da piccolo. Però, nonostante ciò, il numero dieci non si era lasciato trasportare dalla rivalità che aveva con lui, e non aveva potuto fare a meno di guardare ogni canestro che faceva. Esattamente come lui che non aveva potuto fare a meno di guardare ogni rimbalzo che recuperava l’altro.

Poi, era finito il primo tempo. Akagi era rientrato trovando le due squadre in parità e, nonostante il pubblico continuasse ad acclamare solo lui, era stato anche Sakuragi a fare in modo che la squadra ottenesse quel risultato. Non contavano più i suoi canestri mancati, lui li aveva recuperati tutti. E anche di più. Tra l’altro, Sakuragi gli aveva anche passato la palla.

Poi,era cominciato il secondo tempo. Cos’era cambiato?

Il fatto che il Kainan avesse deciso di fare sul serio?

No! Non era stato questo a farli perdere. Il signor Anzai aveva escogitato una brillante strategia e Sakuragi non aveva commesso errori.

Maki era stato, infatti, costretto a commettere un brutto fallo su di lui per fermarlo. Rukawa lo aveva guardato cadere impallidendo, se possibile, più del solito.

Ma Sakuragi aveva beffato tutti, tirando in quel modo assurdo. E lui, ancora una volta, si era sentito orgoglioso dei suoi miglioramenti e della sua innata fantasia verso quello sport.

Ripensò al suo recupero incredibile e pericoloso. Quando, pur di prendere la palla era andato a sbattere contro la panchina.

Lui, guardandolo cadere, aveva sentito di dover completare quell’azione tanto incredibile considerato che Sakuragi avrebbe potuto farsi male sul serio.

E aveva preso la palla. Ma le parole di Sakuragi lo avevano sorpreso più di tutto.

“Rukawa, per una volta, fa la cosa giusta” aveva urlato con disperazione quasi.

Lui, che lo odiava così tanto, aveva invocato il suo aiuto per completare un’azione. Lui, che faceva fuoco e fiamme ogni volta che centrava il canestro, aveva affidato a lui il completamento di quella che poteva essere una delle ultime azioni della squadra.

Aveva definitivamente gettato la maschera di rivalità che portava davanti a tutti.

Per il bene della squadra.

E Rukawa si era sentito vivo, motivato a dare il massimo ancora una volta.

Per la squadra, ma soprattutto per lui. Per le sue azioni. Per l’aspettativa che Sakuragi aveva riposto su di lui.

E non aveva fallito.

Ma poi, le forze gli erano mancate ed era quasi svenuto in mezzo al campo.

Anche Sakuragi si era preoccupato. Perché Rukawa se ne era accorto. Anche se, aveva  mascherato la sua preoccupazione con una provocazione.

Del resto, si era già scoperto troppo.

“Solo fortuna” aveva detto.

“Invidioso…” gli aveva risposto Rukawa ancora a terra. “È tutta bravura”.

Ma il loro scambio di battute poteva anche sembrare altro.

Perché Sakuragi sapeva che non era stata fortuna, considerato che era stato lui a chiedergli di fare canestro.

Lo aveva provocato per vedere se stava bene.

E Rukawa aveva risposto alla sua provocazione per non farlo preoccupare.

Perché mancava poco e non doveva perdere di vista l’obiettivo.

Si era seduto in panchina con la rabbia in corpo.

Si era trovato senza fiato quando Sakuragi aveva fatto quella schiacciata fenomenale. Aveva gettato l’asciugamano che aveva sulle spalle e aveva iniziato a incitarlo. Ma non solo dentro di se. Tutti avevano sentito le sue parole d’incoraggiamento verso il compagno di
squadra. La sua, quasi disperata, richiesta di centrare il canestro.

Per Rukawa, in quel momento, nulla aveva importanza. Assolutamente nulla. Contava solo lui e quello che le sue incredibili azioni gli facevano provare. Contava solo la rabbia per non essere stato all’altezza della situazione ed essersi perso l’emozione di essere in campo
con lui durante quella schiacciata incredibile.

E poi… avevano perso.

E lui aveva visto Sakuragi piangere. Piangere disperato.

Com’era stato diverso il suo volto rispetto a quando avevano perso l’amichevole contro il Ryonan.

Lì c’era stato un Sakuragi che insisteva per farsi passare la palla, che non accettava la sconfitta.

Invece, in quel momento, Sakuragi piangeva. E Rukawa, come il resto della squadra, era rimasto a guardarlo in quello stato senza poter fare nulla. Solo il capitano sembrava fosse riuscito a consolarlo in parte.

Ma lui era solo rimasto a guardarlo, sentendosi impotente di fronte a tanta delusione.

È colpa mia aveva pensato in quel momento vedendolo piangere.

E questo pensiero lo aveva accompagnato per tutta la giornata. Assieme al volto di Sakuragi, pieno di delusione e dolore.

Nelle lacrime di Sakuragi c’era tutto.

La promessa infranta ai genitori. La promessa che non avrebbe fatto errori, che non si sarebbe fatto espellere. Che avrebbe vinto.

In quelle lacrime c’era la delusione data ad Akagi.

Ma non era stata colpa di Sakuragi. Non era stato il suo passaggio sbagliato.

Era stata solo colpa sua.

Rukawa sapeva che era sua la colpa di quelle lacrime.

E non aveva fatto nulla. Con che coraggio poteva consolare l’altro se la colpa era stata solo sua?

Perché, a causa della sua poca resistenza, ora era l’altro che si addossava tutte le colpe.

Perché aveva capito che Sakuragi, oltre alla delusione si era addossato anche il senso di colpa.

Ma non lo avrebbe permesso.

Avrebbe preferito che l’altro lo accusasse. Ma non poteva permettere che si addossasse i suoi errori.

E domani, agli allenamenti, avrebbe pensato a chiarirgli le idee in proposito.
 
                                   
                                                       …………………………………………………………
 

Rukawa guardava continuamente l’entrata della palestra.

Quel pomeriggio, Ayako aveva pensato di risollevare loro il morale a suon di sventagliate.

Ma Sakuragi non era presente.

Non era nemmeno venuto a scuola.

Mitsui aveva ipotizzato che stesse pensando ancora a quel passaggio sbagliato.

E Rukawa, in quel momento, si era sentito fremere. Perché sapeva che era così.

Ma non era giusto. Non era per niente giusto.

E, ancora una volta, provava rabbia verso il do’hao.

Perché questo era: un do’hao.

Possibile che si lasciasse abbattere così facilmente? Che gusto ci trovava poi, a prendersi le colpe degli altri e crogiolarsi nel dolore?

Rukawa sapeva che il suo umore non sarebbe stato dei migliori, ma addirittura non presentarsi agli allenamenti…. Questo non poteva accettarlo.

Perché non sarebbe di certo stata la prima sconfitta quella contro il Kainan.

Nel loro futuro, dato che erano nati per giocare, ce ne sarebbero sicuramente state altre.

Le cose non si affrontano così  Hanamichi!

Questo pensava. E ci avrebbe pensato lui a farglielo entrare in quella testa vuota che si ritrovava.

Lui stesso, che aveva piene colpe della sconfitta, non si era comportato così.

Aveva accettato di aver sbagliato e si era presentato in palestra ad allenarsi proprio per non sbagliare più.

Ma tanto, so dove trovarti do’hao!

E, con questo pensiero, riprese ad allenarsi.
 
                   
                                                      …………………………………………………..
 

Pioveva.

Ma a Sakuragi non importava.

Continuava a camminare per le strade, incurante della pioggia che lo bagnava, con un unico pensiero nella testa.

Abbiamo perso… per colpa mia.

Aveva incontrato Haruko quel pomeriggio. Quanto era stata buona con lui… nonostante lui avesse infranto i sogni del suo fratellone.

Ripensò alle parole di Akagi… e si sentì uno schifo.

Akagi che parlava alla squadra. Akagi che faceva affidamento su di loro. Akagi che gli aveva insegnato tutto quello che sapeva fare.

Come poteva, ora, guardarlo in faccia?

Come poteva continuare a giocare con quel senso di colpa opprimente?

Sono solo un peso… per tutti…

Ripensò a Rukawa, che era quasi svenuto in mezzo al campo… aveva dato tutto se stesso… era stato lui a recuperare tutti i punti.

Ed io ho rovinato tutto.

Come poteva guardare in faccia anche lui?

Dopo quello che c’era stato fra loro, cosa avrebbe pensato il compagno di squadra?

Che sono una nullità!

E questo pensiero faceva male… troppo male.

Lui aveva sempre cercato di batterlo, aveva sempre voluto che lo considerasse. Perché era questo che cercava inconsciamente di fare con il suo atteggiamento; voleva che lui lo notasse.

E, chissà come, qualcosa tra loro era cambiato, senza che lui avesse la forza di opporsi.

E, nonostante davanti agli altri loro facessero finta di niente, lui non aveva dimenticato quello che era avvenuto due giorni prima.

Non c’era riuscito. Quell’abbraccio… come poteva dimenticarlo se, di notte, immaginava che quelle braccia lo stringessero ancora?

E poi… era giusto tutto questo?

Guardò  dove si trovava. Inconsciamente, aveva raggiunto la palestra.

Entrò, non accorgendosi che anche qualcun altro lo aveva visto entrare.

Poi, a metà strada, ci ripensò. Era veramente degno di entrare di nuovo in un campo da gioco?

Lui, che aveva tradito le aspettative delle persone che contavano su di lui per qualcosa.

Lui, che aveva tradito lo sport stesso.

No! Non ne era degno.

Prese un pallone e si diresse verso gli spogliatoi. Non accese neanche la luce.

Si sedette a terra e continuò a pensare ai suoi tormenti.

 
Ma non era solo come credeva.

Finalmente sei arrivato do’hao, era questo il pensiero di Rukawa che aveva osservato le mosse del compagno di squadra.

Ti stavo aspettando

E si diresse verso lo spogliatoio.

Aveva visto il volto di Sakuragi.

Era distrutto. Veramente distrutto.

Ma stavolta, non lo avrebbe giustificato. Non gli avrebbe permesso di prendersi delle responsabilità che non gli appartenevano.

Perché quelle erano sue, e sue soltanto.

Si fermò all’ingresso degli spogliatoi appoggiandosi alla porta. Nella penombra, osservò il compagno di squadra seduto a terra.

Doveva essere bagnato fradicio a giudicare dalla scia d’acqua che aveva lasciato sul pavimento.
“È colpa mia. È soltanto colpa mia…” lo sentì sussurrare.

Proprio come pensavo… ma questo non te lo permetto!

Ed era vero, quello non l’avrebbe permesso. Già era abbastanza brutto aver portato la squadra alla sconfitta a causa della sua poca resistenza. Ma che il do’hao si comportasse anche in quel modo, non poteva accettarlo. E, se quella sera, avesse dovuto menare le mani… beh… non si sarebbe tirato indietro. Perché era ora che il do’hao imparasse crescere.

Deciso, accese la luce. Vide l’altro sussultare ma non se ne curò.

“Guarda chi si vede. Che ci fai qui?” domandò e, non considerandolo minimamente, si avvicinò al suo armadietto.

“Rukawa?”.

Il numero undici non gli prestò la minima attenzione. Vedeva l’altro che lo guardava interdetto e si avviò verso l’uscita.

Sakuragi non ebbe modo di vedere il mezzo sorriso che accompagnava il volto di Rukawa.

Il numero undici sapeva, infatti, che l’altro stava per scoppiare.

Coraggio Do’hao, vediamo quanto ci metti ad andare su tutte le furie.

E, in effetti, non dovette aspettare molto.

“EHI” urlò Sakuragi, in preda ad una rabbia incontrollata. “NON HAI NIENTE DA DIRMI?”.

Rukawa lo degnò appena di uno sguardo.

Cosa vorresti sentirti dire? Che è colpa tua? Ma questo non lo sentirai mai do’hao.

Sakuragi continuò, ignaro dei pensieri dell’altro.
“So che stai aspettando il momento opportuno per rinfacciarmi il mio sbaglio” urlò ancora.

Ecco, appunto. Ma, ancora una volta, non hai capito proprio niente Hanamichi.

L’altro continuò.
“Oppure, stai zitto perché hai compassione di me?”.

“Compassione?” domandò calmo Rukawa, alzando un sopracciglio e avviandosi in palestra.

Sapeva che l’altro lo avrebbe seguito in preda alla rabbia. Perché era di questo che ora aveva bisogno Sakuragi: doveva sfogarsi, e anche lui ne aveva bisogno in effetti.

In palestra e con gli altri si era comportato come al solito. Ma, dentro di se, provava rabbia verso se stesso. Era incazzato nero, e la sconfitta gli bruciava ancora. Però, Kaede Rukawa non era il tipo da lasciarsi andare in preda alle emozioni davanti agli altri.

Ma Sakuragi non era gli altri. Da lui si lasciava insultare, provocandolo addirittura. Con lui interveniva spesso lasciandosi andare a qualche parola in più. Con lui arrivava alle mani. Con lui si lasciava andare e, la cosa, gli risultava estremamente facile. Con lui era praticamente se stesso. Pur non cambiando minimamente il suo carattere, con Sakuragi riusciva ad apparire più aperto, più propenso a provare emozioni. Ed era questo uno dei motivi per cui non avrebbe mai rinunciato a quella scimmia. Che l’altro lo volesse oppure no.

Ed era per questo che non gli avrebbe fatto addossare le colpe del suo sbaglio. Mai!

Arrivò in palestra seguito dall’altro come aveva previsto.

Certe volte sei troppo prevedibile do’hao… e adesso, vediamo come reagisci!

“Sei solo un presuntuoso” lo provocò. “Pensi che abbiamo perso la partita per colpa tua?”.

“È così!” urlò di rimando l’altro.

 Invece, no! pensò Rukawa continuando a parlare.

“Abbassa la cresta, imbecille. È vero, lo ammetto. Ieri hai giocato meglio di quanto tutti si aspettassero da te. Ma è piccolo… ” disse, avvicinando il pollice e l’indice.

“Che cosa?”.

“È stato questo il tuo contributo alla partita. E non questo” concluse, allargando la distanza fra le due dita.

Vide l’altro andare su tutte le furie, ma avrebbe continuato.

“Fin dall’inizio, avevamo previsto tutti che avresti fatto un sacco di sbagli e nessuno si è stupito quando è successo. Del resto, non sei altro che un principiante”.

L’altro, oramai, non ci vedeva più dalla rabbia ma Rukawa gli avrebbe fatto ascoltare tutto quello che aveva da dirgli. Perché era vero, lui giocava solo da tre mesi. Come poteva addossarsi le colpe del risultato di una partita?

Questo era il compito di giocatori più esperti, come lui ad esempio.

E lui aveva fallito

“Un tuo errore non decide le sorti di una partita. Ficcatelo bene in testa”.

Ecco… oramai Sakuragi era nero.

Come puoi dire questo dopo che ho dato tutto me stesso Rukawa? Come puoi considerarmi così poco?

Si preparò a colpirlo ma si trattenne. Lui non voleva risolvere la faccenda così, e non era Rukawa quello che doveva prendere i pugni, ma era lui. Lui aveva commesso lo sbaglio che aveva decretato la sconfitta, per questo ora Rukawa lo considerava una nullità. Ed era sempre lui che doveva prenderle, e non Rukawa che, tanto per cambiare, si era distinto per la sua bravura.

“Sarebbe troppo facile dartele adesso. Ma io voglio umiliarti sul campo”.

Quello che fece Rukawa però, lo sorprese più di tutto.

“Prima, impara a crescere” gli disse, colpendolo.

E allora, a quel punto, Sakuragi non ci vide più. E, tanto per cambiare, finirono alle mani.

Erano pugni rabbiosi quelli che si davano. Ma non era rabbia verso chi colpivano, quella che provavano. Era rabbia verso se stessi.

Continuarono, fino a quando Rukawa non parlò di nuovo.
“È soltanto per colpa mia se abbiamo perso” il tono era rammaricato stavolta eSakuragi capì quando dovette costargli quella confessione.

Ma che dice?

L’altro continuò.

“Se avessi avuto energie sufficienti, non avremmo perso contro il Kainan”.

Sakuragi sentì la rabbia montargli dentro. Perché diceva quelle cose? Perché si addossava colpe non sue, quando poi aveva giocato benissimo?

Perché faceva questo?

Non è possibile… non può pensarlo veramente!

Lui, il grande campione, che ammetteva di aver sbagliato… quando poi non era stata colpa sua. Questo non stava né in cielo né in terra e Sakuragi non gli avrebbe permesso di portare le sue responsabilità. Perché, se ora Kaede Rukawa si sentiva in colpa… beh… non era giusto! E, anche quello, era colpa sua.

“CHI TI CREDI DI ESSERE, IL SALVATORE DELLA PATRIA? È SOLTANTO COLPA MIA!”.

“IMBECILLE, È STATA MIA” e stavolta anche Rukawa aveva alzato il tono.

Sakuragi avrebbe potuto giurare di sentire una nota disperata nella sua voce.

Ed anche Rukawa notò la disperazione dell’altro.

E continuarono così… per sfogarsi… ma soprattutto per punirsi.

Continuarono, in una lotta dove non ci sarebbero stati nessun vinto e nessun vincitore… perché sapevano, entrambi, di aver perso.

E andarono avanti, fino a che non si accasciarono entrambi a terra.

Quante ne avevano date… e quante ne avevano prese.

Sakuragi respirava affannosamente.

Rukawa lo guardava di sottecchi.

Ora, nei loro occhi c’era di nuovo la luce di sfida che li contraddistingueva in un campo da gioco.

La disperazione era andata via con quei pugni e con quei calci. Ma non quelli che avevano dato. Era andata via con quelli che avevano ricevuto.

Fu di nuovo Rukawa a spezzare il silenzio

“Sei fradicio”.

Sakuragi annuì e guardò fuori. Pioveva ancora. Sembrava che anche il tempo fosse del loro stesso umore.

Rukawa seguì il suo sguardo.

“Continuerà per un pò”.

“Già” confermò Sakuragi avviandosi verso l’uscita. Voleva solo andare a casa ora. E poco importava il fatto che dovesse farsi un’altra doccia. Però … una cosa doveva farla prima di andare via.

“Grazie” disse senza voltarsi mentre apriva la porta della palestra.

Le parole di Rukawa, però, lo costrinsero a bloccarsi di colpo.

“Non te ne andare”.

Sakuragi si girò perplesso.

Era una richiesta quella? E il tono poi…così dolce.

Sapeva che era venuto il momento di andare… che non avrebbe dovuto spingersi oltre… ma era troppo triste in quel momento.

E non gli importava se quello che aveva davanti era Kaede Rukawa. Non gli importava del perché gli avesse chiesto di non andare.

Non gli importava di nulla. Voleva solo quel calore che aveva saputo scaldarlo giorni prima. Voleva solamente non essere solo.

Lasciò che le lacrime bagnassero il suo viso e si avvicinò all’altro con passo incerto.

Una mano era tesa… in una muta richiesta.

Richiesta che Rukawa lesse in tutta la sua importanza.

Si avvicinò deciso, lo prese per mano e, attirandolo a se, lo abbracciò… di nuovo. Ma, stavolta, con una nuova consapevolezza. La consapevolezza che era stato l’altro a cercarlo.

E un calore intenso invase il suo animo. Sentiva Sakuragi versare lacrime silenziose. Sentiva le sue braccia che gli stringevano la vita.

“Non è stata colpa tua” gli sussurrò a un orecchio.

L’altro lo guardò, non staccandosi tuttavia dall’abbraccio.

Rukawa guardò il suo viso triste, velato dalle lacrime.

E decise di agire. Perché non voleva che l’altro rimanesse da solo. E neanche lui voleva stare da solo. O meglio… non voleva stare senza di lui.

Stavolta non l’avrebbe lasciato andare. Non l’avrebbe lasciato correre dal suo fidato amico. Stavolta voleva esserci lui. E anche lui voleva la presenza dell’altro.

Perché, quella sconfitta bruciava ancora. E , ora che tutta la rabbia era uscita, dovevano fare i conti con l’amarezza che aveva preso il suo posto.

E loro dovevano accettare che le cose fossero andate così. Dovevano raccogliere i cocci delle loro delusioni e rimetterli insieme per tornare a combattere da veri campioni.

E dovevano farlo insieme. Nessuno in quel momento sarebbe potuto stare accanto a Sakuragi. E lo stesso valeva per lui.

Fu per questo che parlò. Fu per questo che lasciò uscire dalle sue labbra quella sussurrata richiesta.

“Casa mia è vicina. Vieni da me”.
 

Continua….
 
Note :

1)    Gli avvenimenti di cui avete letto nella prima parte riguardante la partita sono ambientati tra le puntate 50 e   59 dell’anime.
Come avrete notato ho ripreso vari punti originali della partita per  rielaborarli con una nuova luce introspettiva che tiene conto degli avvenimenti inventati da me durante i vari capitoli della storia.
 
 
2)    La parte finale è tratta dalla puntata 61 dell’anime e riprende la famosa scazzottata tra Hanamichi e Kaede. 
Il dialogo durante questa parte è preso dall’originale, e ho ritenuto giusto riportarlo per inserire i pensieri dei protagonisti alla luce degli avvenimenti che io fatto vivere loro. In pratica anche alla famosa rissa che personalmente è una parte che amo molto ho provato a dare una nuova base introspettiva, e l’ho prolungata immaginando un ipotetico dopo.
 
3)    Ho anche fatto in modo che Kaede sapesse già dove si sarebbe diretto Hanamichi, facendo si che il loro incontro non sia stato casuale.
 
Che altro dire… spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto… mi raccomando attendo con ansia i vostri commenti!



Pandora86

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Capitolo 11
*** Io non sono come te ***


Ecco a voi il decimo capitolo della storia!
Come al solito grazie per le bellissime recensioni!
Grazie anche a chi continua ad aggiungere la storia tra le preferite e le seguite!
E ovviamente grazie anche a tutti i lettori silenziosi!
Buona lettura!!
 
 
 
Capitolo 10. Io non sono come te
 

Rukawa guardò Sakuragi seduto sul divano del suo salotto intento a osservare chissà quale punto della parete.

Tuttavia, nonostante il silenzio, sembrava a suo agio.

Rukawa seppe di aver fatto bene. Come sapeva anche che l’altro avrebbe accettato il suo invito.

Invito che, in altri momenti, gli avrebbe fatto storcere il naso.

E che, invece, adesso aveva accettato.

Forse ne aveva approfittato, rifletté Rukawa. Aveva approfittato del suo stato d’animo. Ma non era una cosa dettata da secondi fini. Lui non voleva lasciarlo solo.

D’altro canto voleva anche compagnia per se stesso.

E Sakuragi rappresentava l’unica compagnia che lui volesse avere.

L’unico che fosse in grado di dargliela.

Sakuragi rappresentava l’unico che fosse in grado di dargli tutto quello di cui aveva bisogno.

Compagnia nella sua solitudine.

Sfide per il suo carattere competitivo.

Parole nei suoi silenzi.

E soprattutto… sapeva riscaldargli il cuore con il suo essere se stesso. Con il suo sorriso. Con le sue espressioni, e anche con le sue buffonate.

Lui era l’unico. E lo sarebbe sempre stato.

Si chiese se Sakuragi provava verso di lui un sentimento così forte come quello che provava lui.

Ma, in fondo, non aveva importanza quantificarlo. Soprattutto se loro erano destinati a essere una cosa sola, sia nella vita che nello sport.

D’altro canto, se la sua fosse stata semplice attrazione, non lo avrebbe odiato così tanto.

Non avrebbe trovato tanto difficile liberarsene. Senza riuscirci, tra l’altro.

Per cui… andava bene così.

Si chiese se avesse colto il significato delle sue parole di pochi giorni prima.

Di certo, al suo amico, non erano sfuggite.

Lui lo aveva detto apposta.

Aveva detto appositamente chi ti vuole bene se ne accorge se qualcosa non va.

Si sperava che Sakuragi, forse non subito, ma almeno entro il secolo, capisse che in quella fascia rientrava anche lui, il suo odiato rivale.

Considerato che, nell’altra conversazione, si fosse premurato di fargli capire quanto lo osservava.

Doveva aver capito che anche lui provava le stesse cose. Che lo voleva allo stesso modo in cui lo desiderava l’altro, almeno sul piano fisico.

Perché Sakuragi lo respingeva proprio perché lo desiderava troppo.

Si chiese se il numero dieci avesse mai provato a pensare perché, una semplice attrazione fisica, fosse così difficile da cancellare.

Doveva aver capito che c’era qualcosa di più. Proprio come lo aveva capito Rukawa.

Mah…. Forse, era più probabile che sarebbe stato il suo migliore amico a illuminarlo… e accompagnò quel pensiero con uno sbuffo.

Certo, inutile negare che non si sarebbe mai aspettato che l’altro gli tendesse la mano in cerca di conforto.

Però… era ancora troppo presto.

E, stranamente quella sera, la consapevolezza di ciò gli dava fastidio.

Tutto, da quando lo aveva abbracciato.

Una cosa era osservarlo e venire a contatto con lui solo per menare le mani.

Un’altra era assaporare il suo tocco in un contesto diverso.

E Rukawa, al pensiero di quel breve contatto, che poi si era ripetuto poco prima in palestra, diventava stranamente impaziente.

Sbuffò nuovamente, sedendosi accanto al do’hao che lo guardò perplesso.

Inutile dire che non avevano parlato molto. Anzi, non avevano parlato per niente.

Sakuragi si era limitato ad annuire e a seguirlo a casa.

Lui, invece, gli aveva indicato il divano con un cenno, invitandolo a mettersi comodo.

Perfetto…, pensò ironico Rukawa, siamo finiti in un film muto.

Eppure, si stava così bene anche in silenzio. E anche Sakuragi sembrava a suo agio.

Guardò la maglia appiccicata al suo corpo, e ripensò al suo abbraccio… alla consistenza della sua mano quando lui lo aveva afferrato e tirato verso di se…. a come le braccia del do’hao gli avessero stretto la schiena… al suo viso nell’incavo del suo collo…al…

Cazzo, gemette mentalmente Rukawa, devo darmi una calmata!

Mascherò il suo disappunto con un altro sbuffo, imponendosi di non guardare più alla sua destra.

Sakuragi, intanto, lo guardava perplesso.

“Che c’è? Vuoi una tisana rilassante?” domandò, a metà fra il serio e l’ironico.

Non poteva credere di essere a casa di Kaede Rukawa… per cui… era meglio non pensarci! Si stava così bene lì. La sconfitta bruciava di meno e aveva ancora addosso il calore dell’abbraccio di Rukawa.

Forse aveva sbagliato. Forse l’indomani se ne sarebbe pentito.

Però… quella sera non aveva importanza.

Rukawa lo guardò perplesso, alzando un sopracciglio.

“Nh?”.

“Ti farebbe bene. Sembri una pentola a pressione a furia di sbuffare”.

“Nh… dovrebbe essere una battuta divertente?” domandò Rukawa scettico.

“No! Una semplice costatazione dei fatti, kitsune!”  spiegò Sakuragi con fare pratico, appoggiando un gomito sul bracciolo del divano e voltandosi per osservarlo meglio.

“Nh… convinto tu, do’hao!” rispose Rukawa distogliendo lo sguardo con fare indifferente.

“Non sono un do’hao”.

Si che lo sei, pensò Rukawa con la mente altrove. Lo sei eccome.

Dov’era finito il suo autocontrollo? Gli bastava osservare Sakuragi sul divano, a pochi centimetri da lui, per mandarlo in crisi ormonale?

E dire che lui non aveva mai avuto di questi problemi.

Ma non era colpa sua. Tanto per cambiare, era colpa del do’hao. Sempre e solo colpa del do’hao.

Che era troppo seducente quando si muoveva.

Con quella maglia poi.

“Sei fradicio”affermò di nuovo.

“Questo già lo hai detto, kitsune”.

“Dovresti toglierti almeno la maglia. Non ho intenzione di accudirti, domani mattina, quando ti sveglierai con quaranta di febbre”.

“Sempre gentile eh?”.

“Tra l’altro, mi stai inzuppando il divano”.

“Oh, scusa tanto…” fece Sakuragi alzandosi, fintamente offeso.

“E comunque, non credo che la tua roba mi stia kitsune. Sei troppo mingherlino”.

L’altro alzò gli occhi al cielo e lo invitò a seguirlo con la mano.

“Dove stiamo andando? Ti avverto che, se vuoi rifilarmi la stanza degli ospiti, dovrai farmi una mappa per come arrivare all’ingresso”.

“Meglio di no, non ho intenzione di farmi sfasciare la casa”.

“Tipica ospitalità giapponese” gli fece il verso l’altro.

“Nh” rispose Rukawa, aprendo la porta di una stanza e dirigendosi spedito verso il suo armadio.

Sakuragi lo osservò perplesso, fino a che non gli arrivò diritto in faccia qualcosa che sembrava un indumento.

“Ti ho detto che la roba tua non mi sta, kitsune” si lamentò questi, togliendosi l’indumento dal volto.

“I pantaloni sì” rispose, con tono saccente, Rukawa.

In verità anche la maglia, aggiunse mentalmente… però…. una volta tanto poteva anche dargli ragione.

E non c’erano secondi fini. Non c’entrava nulla il fatto che volesse vederlo, anche solo vederlo, a torso nudo.

Sì come no… pensò ironico Rukawa.

Però, era vero il fatto che non aveva altri scopi. Gli bastava osservarlo.

Solo osservarlo. E non in palestra o a scuola. Ma nella sua camera.

Gli bastava questo. Per ora.

Sakuragi guardò perplesso l’indumento.

E arrossì fino all’inverosimile quando vide Rukawa cambiarsi. Si sentiva maledettamente a disagio.

Oh andiamo… neanche fosse la prima volta che lo vedo,cercò di convincersi mentalmente per scacciare l’imbarazzo.

Tra l’altro, notò che anche Rukawa era rimasto a torso nudo.

Rukawa sembrò intuire il suo stato d’animo. Gli era bastato, infatti, osservare il rossore sulle sue guance.

“Come mai se così rosso? A che cosa stai pensando?” domandò con tono ironico calcando, volutamente, le parole.

“Non sto pensando proprio a niente, baka kistune” urlò con un tono di voce, di almeno un’ottava, sopra la norma.

Sentendosi punto sul vivo, Sakuragi iniziò a cambiarsi con rabbia.

“Proprio a niente” continuò a borbottare, più a se stesso che all’altro in verità.

“Meglio! Non vorrei dovermi chiudere a chiave in un’altra stanza stanotte. Non sei il mio tipo” lo provocò, volutamente, Rukawa.

“MA COME TI PERMETTI?” urlò Sakuragi ancora più rosso, fumando di rabbia e d’imbarazzo. “E POI SEI TU CHE NON SEI IL MIO TIPO. MI PIACCIONO ALTRI ATTRIBUTI HAI PRESENTE?”.

Seee… come no, pensò Rukawa.

“Piantala di urlare imbecille. Mi stai sfondando i timpani” disse invece.

“Io ti sfonderei volentieri qualcos’altro, baka”.

Rukawa lo guardò, per un attimo, interdetto.

Ci è, o ci fa? Si domandò fra sé.

Sakuragi, intercettando il suo sguardo, si rese immediatamente conto del doppio senso della sua frase.

Risultato: il suo colorito ora variava da un rosso acceso a un viola scuro.

Rukawa sarebbe volentieri scoppiato a ridere, ma non credeva che l’altro avrebbe gradito.

Per cui, si limitò a fare come se nulla fosse.

“Mettiamoci a dormire” e s’infilò, con noncuranza, sotto le lenzuola.

“Ehi baka, ed io dove dormo?” domandò Sakuragi che non si era del tutto ripreso dalla gaffe di qualche istante prima.

Rukawa si voltò a guardarlo appoggiandosi su un gomito.

“Hai detto che non volevi una stanza. O il letto o il divano. Scegli” e si voltò.

“Ma come sarebbe? Io, sul divano, non ci dormo! Sono l’ospite” s’impuntò, cocciutamente, l’altro  incrociando le braccia.

Rukawa si voltò nuovamente a guardarlo, sbuffando in modo fintamente annoiato.

Doveva ammetterlo: si stava divertendo un mondo.

Gli sarebbe piaciuto che quei teatrini facessero parte della sua quotidianità. Gli sarebbe piaciuto litigare ogni sera con Sakuragi in quel modo, a casa sua, per le piccole cose.

Lo guardò. Aveva assunto un’espressione imbronciata, che lo faceva sembrare un bambino di poco più di dieci anni.

In quel momento, capì appieno le parole di Mito che gli parlavano di un Sakuragi allegro e pieno di vita. Un Sakuragi che cerca sempre il lato buono delle cose e che affronta tutto con una bella risata, senza però sottrarsi alle sue responsabilità.

Questi pensieri gli fecero provare una tenerezza infinita verso il do’hao.

Ripromise, ancora una volta, a se stesso che Hanamichi sarebbe tornato quello di un tempo. Insieme a lui.

“Allora?!” insistette l’altro visto che non riceveva risposta.

“E io sono il padrone di casa” rispose Rukawa con tono ovvio. “Tra l’altro, ti ho messo a scelta” e si voltò nuovamente.

Sakuragi rimase spiazzato.

E ora, che doveva fare?

Guardò il divano. In effetti, era invitante… e sembrava comodo… per una persona con venti centimetri in meno a lui.

Di certo, domani non si sarebbe alzato.

“E va bene, kitsune” disse con fare agguerrito, “non ti darò la soddisfazione di avere il lettone tutto per te. Dovrai sopportarmi durante le tue preziose ore di sonno”.

E, con la grazia di un elefante, si buttò letteralmente sul letto facendo sobbalzare l’altro.

“Quanto sei fastidioso, do’hao”  disse Rukawa, in risposta al comportamento dell’altro.

“Ti tocca sopportarmi, kitsune” esclamò Sakuragi, con un gran sorriso stampato in faccia.

Rukawa sbuffò, fintamente annoiato. Doveva ammetterlo: quella situazione era veramente piacevole. Così come la familiarità che si era creata con il do’hao.

Con il do’hao, anche una cosa normale diventava infinitamente piacevole e divertente.

In cuor suo, sperò che quella notte potesse non finire mai.

“Senti kitsune” lo chiamò ancora l’altro.

“Nh?”.

“Visto che non ho sonno… giusto per fare conversazione…”.

Rukawa lo guardò, assottigliando gli occhi. Sakuragi sembrava essersi completamente ripreso da ogni forma d’imbarazzo e sembrava di ottimo umore.

Evidentemente, gongolava all’idea di riempirlo di chiacchiere e dargli fastidio in tutti i modi possibili.

Peccato che non avesse capito che anche Rukawa trovava gusto in tutto ciò.

Per cui, mugugnò in segno di domanda.

“Vedi” continuò l’altro, allargando il sorriso, “Mi domandavo, chi è il tuo tipo, visto che sei immune all’immensooo fascino del Tensai. Forse, una di quelle sgallettate che sbava per te?”.

“Nh” mugugnò Rukawa, sorridendo impercettibilmente.

Era evidente, ora, che Sakuragi voleva provare a metterlo in imbarazzo. Forse, per compensare quello che aveva provato precedentemente.

“Dai…”il tono, ora, era fintamente piagnucoloso, “dimmelo, sono curioso!”

Sei troppo ingenuo do’hao per riuscire a mettermi in imbarazzo, pensò Rukawa con un moto di tenerezza.

E, in effetti, era vero; Sakuragi era veramente troppo ingenuo in alcuni casi.

Vediamo adesso come reagisci, pensò Rukawa pregustandosi la sua reazione.

“Vedi do’hao ” sussurrò lentamente guardandolo negli occhi, “sono IO che preferisco altri attributi ” concluse, osservando la reazione dell’altro.

Ok! Forse ho esagerato, considerò guardando il volto di Hanamichi che, oltre ad essere arrossito fino all’inverosimile, sembrava anche incapace di parlare visto che muoveva le labbra senza lasciare uscire alcun suono.

“C-cosa? La kitsune… altri attributi…”

“Sono gay, do’hao” disse secco per chiarire il concetto. “Ciò non toglie che tu non sia il mio tipo” aggiunse per smorzare i toni e, sperando che l’altro iniziasse a respirare, si voltò nuovamente spegnendo la luce.

Forse, al buio il do’hao si sarebbe sentito meno in imbarazzo.

“Ma come osi?” s’inalberò Sakuragi. “Ciò dimostra che, tanto per cambiare, non capisci una mazza” e si voltò, con tutta la grazia di cui disponeva.

Passarono qualche minuto in silenzio.

Sakuragi stava assemblando le informazioni che aveva ottenuto per caso.

E dire che voleva solo provocarlo un po’. Chi avrebbe mai pensato che, alla kitsune, piacessero i ragazzi… lui pensava che si interessasse solo a una palla arancione.

Ma allora, era per questo che lo aveva aiutato?

Ma noo… se gli aveva appena detto che non era il suo tipo.

In effetti, se non glielo avesse detto non ci sarebbe mai arrivato.

L’aveva portato a casa sua, ma non aveva provato nessun avvicinamento in quel senso, per cui… non era nelle sue intenzioni provarci.

Allora, lo aveva aiutato perché gli faceva pena?

Se vabbè… in fondo si trattava sempre di Rukawa.

Sakuragi sbuffò. Di questo passo, non avrebbe chiuso occhio.

Guardò la figura alla sua sinistra. Probabilmente già dormiva.

Gli aveva appena detto di essere gay con l’aria di chi non ha nessun problema ad ammetterlo. Non se ne vergognava. Non si sentiva diverso.

Mister perfezione che era gay… Sakuragi non riusciva a non pensarci.

Lui si vergognava profondamente di quello che era. Rukawa invece no… l’aveva ammesso con lo stesso tono di chi parla del tempo.

Forse, voleva dire che, in fondo, non c’era nulla di male in tutto ciò?

Forse, non era sbagliato quello che era… forse era sbagliata l’ottica con cui la viveva.

Sbuffò nuovamente, non potendo fare a meno di guardare nuovamente verso Rukawa. Non che lo distinguesse molto in realtà al buio, però riusciva a vedere i contorni della sua figura.

Questo pensiero lo colpì… da quanto tempo, si rifiutava di dormire al buio?

Non che ne avesse paura… però gli sembrava che dormire con un po’ di luce lo aiutasse.

Del resto, si sa che la notte porta sempre brutti pensieri. E una lampada accesa sembrava in qualche modo scacciarli, dandogli l’illusione di dormire in pieno giorno.

Possibile che non se ne fosse accorto fino a allora? Possibile che la figura di Rukawa al suo fianco avesse scacciato via tutti i suoi incubi?

Il problema era che, essendosene accorto, ora non riusciva veramente a dormire.

Se però l’avesse svegliato con una richiesta del genere, come avrebbe reagito il compagno di squadra?

Mi sa che mi butta fuori a pedate.

Tra l’altro, l’avrebbe svegliato disturbando così il suo sonno sacro.

Però… forse avrebbe capito… magari avrebbe acconsentito senza parlare.

Nei giorni precedenti aveva capito che Rukawa era molto di più di quello che appariva.

Più perspicace… più comprensivo… più gentile.

Sì, era stato gentile con lui e, a quel pensiero, sentì il suo volto andare in fiamme.

In palestra, quella sera l’aveva attirato a se e abbracciato quando lui gli aveva teso la mano.

Ecco, ora aveva la certezza che la sua temperatura corporea era notevolmente aumentata.

Beh, doveva ammetterlo; non era stato solo gentile, era stato molto di più.

Per cui, con quel pensiero in testa, Sakuragi decise di rischiare.

Rukawa, nel frattempo, rifletteva. Forse era stato un azzardo rivelare al do’hao i suoi interessi. Tuttavia, era andata meno peggio di quanto si aspettasse. Inoltre, sapere di non essere l’unico in quella situazione, forse, avrebbe potuto essere di conforto al numero dieci.

Ammesso che l’avesse accettato.

Però… le cose stavano cambiano.

Sentì l’altro sbuffare ripetutamente.

Chissà per quanto ancora sarebbero durati i suoi monologhi interiori. La sua testa doveva essere un cumulo di domande.

Tra l’altro, Sakuragi non aveva la sua freddezza e, dalla faccia che aveva fatto quando aveva pronunciato chiaramente la parola gay, era evidente che ci sarebbe stato a pensare tutta la notte. Oltre ad essere diventato viola.

Era evidente che si rifiutava di pensare anche solo a quella parola. Figurarsi pronunciarla.

D’altro canto, ora stava a lui rivelarsi. Non poteva dirgli, infatti, quello che sapeva.

Lo avrebbe umiliato e ferito. Gli avrebbe fatto male sapere di lui e Mito, che fino a quel momento, rappresentava il suo unico punto fermo.

Per cui… non poteva fare di più. Stava per assopirsi, quando l’altro lo chiamò.

“Rukawa”.

Rukawa non rispose immediatamente. Com’era strano il tono di voce con cui l’aveva chiamato.

Era incerto… titubante…

“Sei ancora sveglio?”.

Un’altra frase sussurrata. Rukawa capì immediatamente che c’era qualcosa che non andava.

Quello non era il Sakuragi di tutti i giorni. Era quello vero… la parte di se che l’altro teneva così ben nascosta, e che lui faticosamente cercava.

La parte fragile. La parte umana e sensibile in quel subbuglio di pagliacciate e idiozie.

Quello era il Sakuragi che tanto cercava e che, adesso, veniva spontaneamente da lui. Come qualche ora prima in palestra.

Si voltò immediatamente, accendendo la luce.

Voleva vedere il suo volto. Voleva sapere cosa aveva.

Notò che l’altro si rifiutava di guardarlo.

“Ecco… mi domandavo…”

“Nh?” lo invitò Rukawa ad andare avanti.

Possibile che volesse parlargli di lui? Possibile che la sua semplice ammissione, riguardo ai suoi interessi, avesse spronato il compagno di squadra a parlare di se?

A saperlo… l’avrebbe detto prima.

Tuttavia, Sakuragi non l’aveva chiamato per parlargli dei suoi gusti sessuali.

Anche se, come avrebbe capito dopo, era per mostrargli una parte di se il motivo per il quale aveva richiamato la sua attenzione.

“Ti darebbe fastidio dormire… con la luce accesa?”.

Rukawa dovette faticare non poco per mantenere il suo autocontrollo.

Ma… tutto si sarebbe aspettato, tranne una richiesta del genere.

Capì quanto dovesse essere costata all’altro, motivo per cui, fece finta di nulla. Non voleva metterlo a disagio. Non più di quanto non lo fosse già.

Voleva che il do’hao stesse bene con lui. Meglio di come stava con il suo migliore amico.

Voleva fargli capire che di lui si poteva fidare. Voleva farlo essere sereno e, magari, che una parte della sua serenità dipendesse anche dalla sua presenza.

“Dormo anche in piedi, do’hao” disse solamente, accendendo una piccola lampada su una delle mensole al lato di Sakuragi.

Nel fare questo, il suo braccio sfiorò inavvertitamente il torace dell’altro e piccoli brividi gli percorsero per tutto il corpo.

Anche Sakuragi si sentì avvampare a quel tocco e voltò lo sguardo.

“Grazie” mugugnò pieno di vergogna.

Rukawa, conoscendo il suo stato d’animo fece finta di non averlo sentito.

Ora Sakuragi stava meglio. Strano a dirsi, ma un po’ di luce lo aiutava veramente a dormire.

Lasciò vagare il suo sguardo sulla camera, che non aveva osservato molto in verità.

I suoi occhi si posarono su una fotografia affianco alla piccola lampada.

Doveva essere la madre di Rukawa. Era bellissima, proprio come il figlio.

Si mise seduto sul letto muovendosi con lentezza, avvicinandosi meglio per guardare la fotografia.

“Io non sono come te” sussurrò piano, con lo sguardo ancora rivolto alla foto e con la mente altrove.

Rukawa si voltò di nuovo, chiedendosi quale fosse il motivo del turbamento che aveva avvertito in quella frase pronunciata con un tono così triste.

Vide che Sakuragi aveva lo sguardo lontano.

Gli occhi erano posati sulla foto di sua madre. La mente altrove.

“Io non posso piangere”.

Lo sentì dire ancora, ma non parlò. Si limitò a stargli vicino, in silenzio.

Non sapeva quali pensieri turbassero l’animo del do’hao. Non sapeva se avrebbe continuato a parlare o risolto tutto con una delle sue pagliacciate.

Ma la cosa non gli importava. Che il do’hao volesse o no le cose tra loro stavano cambiando. Lui stava cambiando. Si stava aprendo verso il suo odiato rivale, capendo che, in fondo, tanto nemico non lo era. Gi stava mostrando un pezzo di se. E andava bene così. Più che bene.

Per cui, rimase in paziente attesa.

Sakuragi, nel frattempo, ripensava alle parole che Rukawa gli aveva detto quel giorno al cimitero.

Gli aveva detto di piangere. Lo aveva confortato. Gli aveva detto come andare avanti.

E lui si era sentito sollevato.

Però… se Rukawa aveva affrontato il dolore a suo modo, non voleva dire che potesse farlo anche lui.

Lui era diverso. E non si trattava, ora, dei suoi gusti sessuali.

Se Rukawa aveva perso la madre, per le circostanze della vita, lui invece aveva perso i genitori solamente per colpa sua.

Sapeva che Rukawa lo aveva sentito. Ne avvertiva la presenza accanto, ma non si voltò a guardarlo. Non ne aveva bisogno.

“Ti va di ascoltare una storia?” gli domandò, con tono stanco.

Rukawa lesse, in quella domanda, una muta preghiera.

Si trattenne a fatica dall’abbracciarlo e magari anche baciarlo. Finalmente, le cose stavano cambiando.

Ora avrebbe saputo le cose come erano andate. E le avrebbe sapute da Sakuragi stesso. Per cui… non voleva rovinare tutto seguendo i suoi istinti.

Anche se faceva veramente fatica a controllare le sue emozioni stavolta, s’impose di rimanere calmo.

“Tutte le storie che vuoi” disse solamente.

Ora, toccava all’altro parlare.
 

Continua…..

Note:
1)      Gli avvenimenti di questo capitolo sono ambientati nella puntata 61. In pratica ho immaginato  come si svolgessero le cose dopo la rissa in palestra.
 
 
Spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto…

Pandora86

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Capitolo 12
*** Parole non dette ***


Ecco a voi l’undicesimo capitolo della storia!
Come al solito grazie per le bellissime recensioni!
Grazie anche a chi continua ad aggiungere la storia tra le preferite e le seguite!
E ovviamente grazie anche a tutti i lettori silenziosi!
Buona lettura!
 


Capitolo 11. Parole non dette
 

Sakuragi si alzò lentamente, riducendo al minimo i movimenti.

Si stentava a credere che si trattasse della stessa persona che, pochi minuti prima, si era fiondata sul letto con la stessa grazia di chi ci si butta su per sfondarlo piuttosto che per dormirci.

Rukawa lo seguiva impercettibilmente con lo sguardo.

Anche lui non si muoveva. Aveva l’impressione che se si fosse mosso, infatti, si sarebbe potuto rompere quel clima, quasi magico, che si era creato tra loro.

Sapeva che sarebbe stata una lunga notte e che probabilmente non avrebbe dormito affatto.

Ma non gli importava. Perché, nemmeno nei suoi sogni più rosei le cose avrebbero potuto prendere quella tanto inaspettata quanto voluta piega.

Sakuragi si avvicinò alla finestra, guardando fuori e sedendosi sul bordo.

Il suo sguardo era lontano. La mente percorreva ricordi che aveva, per tanto tempo, cercato di cancellare.

Rukawa osservava il profilo del compagno di squadra, non riuscendo a pensare, in quel momento, a qualcosa di più bello del suo volto.

Quanto lo amava quel volto? Impossibile quantificarlo.

Probabilmente, avrebbero dovuto creare un’unità di misura apposita.

“Io non sono come te, Rukawa”.

La voce era un sussurro, tuttavia perfettamente udibile.

“Io non posso piangere, perché è colpa mia. È tutta colpa mia”.

Rukawa, a quella frase, s’intristì. Vide che Sakuragi non abbassava lo sguardo. Segno che lui credeva veramente in quello che diceva. Segno che per lui le cose stavano realmente così.

Il suo sguardo era tipico di chi si è ripetuto una cosa per troppo tempo e, essendosene convinto, la ammette senza problemi. Quasi come una routine.

Ma perché si faceva questo? Come poteva un ragazzino avere le colpe della morte dei propri genitori?

“Ho sempre pensato che tu fossi perfetto” continuò Sakuragi lentamente.

Non c’era incertezza nella sua voce però. Parlava come se stesse solo raccogliendo le idee, ma non come se si trovasse ad ammettere qualcosa.

Segno che questi erano pensieri che covava da lungo tempo.

Ma… in tutto ciò… che c’entrava lui?

“Ho sempre pensato che tu rappresentassi il figlio perfetto. Calmo, senza grilli per la testa, l’orgoglio di ogni genitore insomma”.

Rukawa soppesava le parole che l’altro gli diceva.

Tutto stava, finalmente, prendendo forma.

“io invece, sono sempre stato un po’ matto” e, a quelle parole, sorrise impercettibilmente.

“Però… non ci trovavo nulla di male.

I miei voti hanno sempre lasciato a desiderare.

Sono sempre stato impulsivo e pronto alle mani. Per questo mio padre mi ha insegnato a difendermi. Non voleva che mi facessi male sul serio.

Credeva che io fossi di animo buono”.

Rukawa, a quelle frasi, lasciò che le sue labbra si piegassero in un sorriso affettuoso.

Era esattamente quello che pensava anche lui.

Lo sei sul serio, do’hao. Se non lo fossi, non staresti così male.

“Mi hanno sempre amato. Con i miei tanti difetti e i miei pochi pregi.

Ed io ho sempre dato per scontato che ci fossero. Che ci sarebbero sempre stati, qualunque cosa fosse successa.

Nonostante mi dicevano continuamente che dovessi calmare un po’ l’impulsività del mio carattere.

Erano preoccupati che io avessi dei problemi con persone che non si limitavano ad atteggiarsi ai teppisti come facevo io.

Con brutte persone, insomma.

Paradossalmente, loro credevano che il mio essere troppo buono e facile alle mani, mi avrebbe portato dei guai.

Ed io ora vorrei che fosse stato veramente così. Perché vedi… i guai sono venuti, ma non hanno investito me… hanno preso in pieno loro”.

A quelle parole, Sakuragi s’interruppe. Perché diamine gli stava dicendo tutte quelle cose?

Ma lo sapeva già perché; si era lasciato trasportare dalla situazione.

Tutto avrebbe pensato, in effetti, tranne che di finire la giornata a casa di Rukawa.

E di sapere qualcosa in più su di lui.

Ma non voleva questo.

Non voleva che diventassero qualcosa di simile a degli amici. Perché poi gli avrebbe fatto troppo male tornare indietro.

Vide che Rukawa non lo invitava ad andare avanti aspettando pazientemente.

Lo amava. E lo odiava.

Possono esistere due sentimenti così opposti nel proprio cuore verso una stessa persona?

Sakuragi non lo sapeva. Poco prima, seduto sul divano, aveva pensato che, in fondo, andava bene così.

Che quella sera, non gli importava essere in compagnia di Rukawa. Che ci avrebbe pensato poi…

Poi… aveva riflettuto sulle sue parole… e anche su quelle dei giorni precedenti.

Cosa voleva ottenere raccontandogli tutto?

Di certo non la sua pietà, a costo di prenderlo a testate!

Voleva semplicemente fargli capire che i suoi consigli non andavano bene per uno come lui.

Ci aveva riflettuto, e si era illuso di poter stare meglio basandosi sulle parole del compagno di squadra.

Ma le cose che gli aveva detto non si adattavano al suo caso.

Se Rukawa doveva parlare, che almeno lo facesse con cognizione di causa.

Erano stati questi i suoi successivi pensieri. Per questo ora stava parlando. In effetti, non avrebbe mai creduto che  avrebbe avuto l’opportunità di farlo così presto.

E adesso vediamo che consigli mi dai Rukawa,pensò con rabbia.

Si stava innervosendo, lo sapeva. Ma era tutta quella situazione a mandarlo fuori di testa.

Tutta la perfezione che circondava il compagno di squadra.

Che veniva usato ancora una volta e inconsapevolmente, come qualche giorno prima, come valvola di sfogo.

Ma non gli importava. Avrebbe continuato a parlare.

“Vuoi sapere com’è morto mio padre?” gli domandò.

L’altro non rispose. Sapeva che era una domanda retorica.

“Pensa un po’, quel giorno avevo marinato la scuola e, tanto per cambiare, ero finito a botte con qualcuno.

Quando torno a casa, sai cosa vedo? Mio padre disteso sul pavimento d’ingresso”.

Rukawa sussultò impercettibilmente. E non solo per la rivelazione in sé, quanto per il tono freddo dell’altro. Si vedeva chiaramente che si stava controllando.

Perché Sakuragi non era così freddo. Non lo sarebbe mai stato.

Ma non voleva far vedere le sue emozioni. Voleva essere da solo nella sua tristezza.

A quel punto, capì perché gli stava raccontando la sua storia.

Non perché lo volesse nel suo mondo. Ma perché, con le sue parole, era riuscito a vedere una via d’uscita. Una via d’uscita che pensava di non meritare.

E voleva fargli capire che le sue parole erano state sbagliate.

Per questo il tono era distaccato. Per questo aveva l’atteggiamento di chi sta dando una notizia a qualcuno della cui natura non gliene importa nulla.

Voleva solo informarlo. Gli stava solo raccontando i fatti ma non cosa avesse provato, e questo a Rukawa non era sfuggito.

Sospirò impercettibilmente. Del resto, aveva sempre saputo che la testa rossa non era una persona facile.

Proprio come lui. Ma non si sarebbe arreso.

“Aveva avuto un infarto” continuò Sakuragi. “La prima cosa che pensai, era raggiungere un ospedale. Mi precipitai fuori di casa, correndo come un matto.

Ma venni fermato dalla stessa banda di poco prima. Erano tornati ed erano più numerosi.

Li pregai di lasciarmi andare. Io l’avrei fatto al posto loro. Ma non mi ascoltarono”.

A quel punto, si fermò e guardò Rukawa negli occhi.

“Non feci in tempo” disse con tono deciso.

E, per la prima volta, Rukawa lesse un’emozione in quelle parole. Rabbia. E tanto, tanto dolore.

“Mia madre non era in casa” continuò ancora, voltandosi.

“Non me ne ha mai fatto una colpa, nonostante io avessi preferito che lei mi accusasse. Tuttavia, mio padre le mancava. E… a poco a poco si è lasciata morire. Lo amava troppo… e lo ha raggiunto nove mesi dopo”.

E si voltò nuovamente a guardarlo.

“Dimmi Rukawa, puoi dire lo stesso di te? Puoi dire di essere l’assassino di tua madre, come io lo sono dei miei genitori?”.

Rukawa lo guardò. Lesse solo rabbia in quegli occhi. Verso di lui, ma soprattutto verso se stesso.

Il tuo racconto non quadra do’hao… ma ne parleremo poi.

In effetti, Sakuragi, non volendo, si era assolto con le sue stesse parole.

Lui voleva sentirsi colpevole, ma non si era accorto che era caduto in una contraddizione. Non che non fosse la verità quello che gli aveva detto. Solo… c’era una piccola discrepanza, ma non era il momento adatto per parlarne.

Il suo racconto era stato pieno di parole, ma le parole più importanti non erano state pronunciate.

“Ti sei chiesto dov’è mio padre, do’hao?” disse invece.

L’altro lo guardò, sgranando gli occhi.

“Cazzo” imprecò sottovoce guardandosi intorno. Lui era abituato a stare da solo, ma Rukawa doveva avere un padre che abitava con lui. Possibile che non se ne fosse accorto? Possibile che non ci avesse pensato?

“Non è qui” riprese Rukawa intuendo al volo i suoi pensieri. “Carino da parte tua, ricordartene solo ora” aggiunse, con ironia pungente.

Sakuragi lo guardò. Sicuramente, stava pensando al peggio.
“È a Tokyo. Si è trasferito nel suo ufficio” si affrettò ad aggiungere.

Sakuragi sospirò.

Rukawa non seppe se il sospiro era dovuto al fatto che non fosse lì o al fatto che fosse ancora in vita.

Probabilmente, per tutte e due le cose considerò fra se.

“Se fossi un figlio perfetto” soffiò con tono rabbioso, intercettando i suoi occhi, “mio padre non si sarebbe stancato di fare il genitore” e si girò per mettersi a dormire.

Non aveva senso continuare a parlare. Almeno fino a quando il do’hao non avesse abbassato la maschera di freddezza che si era imposto.

Se avesse voluto consolazione, non si sarebbe tirato indietro.

Quello che voleva, però, era solo una scusa per appigliarsi a qualcosa che non fossero le sue parole. E lui, di certo, non gli avrebbe dato corda.

Si sentiva in colpa. E il senso di colpa lo distruggeva. Ma lui non poteva fare nulla se il do’hao non chiedeva. Se non ammetteva di avere bisogno di aiuto.

Soprattutto, se voleva continuare a sentirsi in colpa.

Ora non era il momento adatto. Ma presto, si sarebbe trovato nuovamente faccia a faccia con lui e gli avrebbe fatto rivedere il suo racconto.

Perché Sakuragi aveva fatto troppi giri di parole, per non dire il reale motivo del suo dolore.

Aveva subito uno shock. Uno shock che andava al di là della morte dei suoi genitori. Shock di cui lui aveva intuito la natura.

Ma il do’hao si rifiutava di parlarne. Molto probabilmente, non l’aveva detto neanche a sua madre, il giorno che il padre era morto.

Anzi, sicuramente non gliene aveva parlato. Perché lui voleva sentirsi colpevole.

L’aveva ammesso lui stesso. Avrebbe preferito che sua madre lo accusasse.

Voleva sentirsi colpevole, perché non riusciva ad accettare l’impotenza che aveva provato quando aveva trovato suo padre.

A lui non era sfuggito il particolare che Sakuragi aveva omesso.

E presto, avrebbe nuovamente affrontato il discorso con lui. Aveva tralasciato un dettaglio, che lui gli avrebbe prontamente fatto notare.

Ma non ora. Quello non era il momento adatto.

Aveva già fatto qualche passo avanti. Meglio non procedere con troppa fretta.

Sakuragi era rimasto spiazzato. Non gli era sfuggito il lampo d’ira sul volto dell’altro.

Si avvicinò a letto cercando di fare il meno rumore possibile. Non voleva dare ancora fastidio al compagno di squadra.

Non avrebbe voluto che la serata finisse così, pensò stringendo impercettibilmente le lenzuola.

Era stata una bella serata. Ma lui aveva rovinato tutto.

Tra l’altro, era quello che voleva. Eppure, perché adesso faceva così male?

Rukawa doveva aver capito che il suo racconto era un modo per rifiutare il suo aiuto. L’aiuto che gli aveva offerto giorni prima.

Era un modo per farlo uscire dal suo mondo. Il pezzo di mondo in cui Rukawa era entrato con prepotenza senza che Sakuragi potesse impedirlo.

Era un modo per allontanarlo.

Eppure, visto che sembrava esserci riuscito, perché allora era così triste?

In fondo è meglio così…, cercò di consolarsi.

In fondo, era lui ad amare il compagno di squadra e non il contrario.

Anche se fossero diventati amici, o qualcosa di simile, Rukawa non l’avrebbe mai ricambiato.

E lui ci sarebbe stato male.

Una cosa era fare finta di niente con una persona che non ti calcolava di striscio.

Un’altra era fare il finto tonto con un amico.

Sì, è giusto così, si disse tra se.

E lo era veramente, ne era convinto. Allontanare Rukawa, forse, era il solo migliore per cercare di essere una persona “normale”.

Se poi Haruko si fosse accorta di lui…

Eppure… nonostante tutto, perché la tristezza non lo abbandonava?

Sentiva che si stava assopendo. L’altro, probabilmente, già dormiva.

Non riusciva più a trattenere le lacrime che gli portavano quei pensieri.

Ne sentì una scendere lungo la guancia. Subito dopo, un’altra e un’altra ancora.

Era sempre così quando non riusciva a dormire.

Iniziava a pensare e, quando mancava poco al sonno, lasciava uscire le lacrime che lo accompagnavano per tutta la notte, facendolo svegliare la mattina dopo con il volto bagnato.

Quasi ogni sera era così. E solo perché prima si era sentito protetto con la presenza di Rukawa, non voleva dire che le cose per lui dovessero cambiare.

Le lacrime continuavano a scendere e i suoi pensieri erano sempre più incoerenti, tipici del dormiveglia che precedono il sonno vero e proprio.

Segno che, a breve, si sarebbe addormentato.

Fino a che… non sentì una mano accarezzargli la guancia.

Rukawa? pensò sconcertato, ma non si mosse.

Quel tocco era infinitamente piacevole e, forse, stava sognando.

In fondo, se era un sogno, che male c’era?

La mano sulla sua guancia era delicata e Sakuragi si beò di quel tocco.

Sapeva che era sbagliato ma, in quel momento, non gli importava.

Il suo respiro si regolò e sperò che quelle carezze potessero durare in eterno.

Rukawa, intanto, guardava il volto del do’hao e lasciava che la sua mano asciugasse le lacrime che aveva versato.

Lo aveva sentito piangere. Non che avesse fatto molto rumore, anzi… erano lacrime silenziose, probabilmente versate nel sonno.

Si era voltato e lo aveva visto versare lacrime, con gli occhi chiusi e il respiro irregolare tipico del pianto.

E non aveva saputo resistere. Probabilmente, stava facendo un brutto sogno a causa del loro discorso di poco prima. E lui non voleva.

Voleva che stesse bene.

La mano era partita da sola in una prima carezza. E non si era fermata alle successive.

Aveva sentito Sakuragi rilassarsi al tocco della sua mano e il suo respiro farsi regolare.

Sorrise impercettibilmente, continuando ad accarezzarlo piano e sperando che non si svegliasse, ma che continuasse a dormire tranquillo accompagnato dal suo tocco.

Ora le lacrime non scorrevano più.

Lasciò che la sua mano vagasse sul suo profilo.

Il dito percorse quei lineamenti marcati e perfetti. Sfiorò i suoi capelli trovandoli incredibilmente morbidi, proprio come ricordava.

Sapeva che stava osando e che se il compagno si fosse svegliato, probabilmente, sarebbe incorso nella sua ira, guadagnandosi una delle sue famose testate.

Ma non gli importava.

Continuò a percorrere il suo profilo arrivando alle sue labbra.

Ne tracciò i contorni trovandole incredibilmente invitanti.

Era oramai a pochi centimetri dal suo viso. Poteva sentire il respiro di Sakuragi sulla sua guancia.

Sapeva che era sbagliato. Sapeva che stava rubando al do’hao il suo primo bacio.

Che, tra l’altro, è anche il mio primo bacio in effetti,  rifletté.

Ma non gli importava. Si sarebbe accontentato di un tocco. Un solo, brevissimo, tocco. Gli sarebbe bastato.

Si avvicinò ancora, facendo attenzione a non fare rumore e, chiudendo gli occhi, poggiò lievemente le sue labbra su quelle di Hanamichi.

Da quanto sognava poter fare una cosa del genere?

Si allontanò a malincuore tenendo ancora gli occhi chiusi… voleva conservare il sapore del do’hao sulle sue labbra… il più a lungo possibile.

Con un sospiro, si decise ad aprire gli occhi. Se avesse continuato a stare così vicino al do’hao non sapeva quanto sarebbe riuscito a controllarsi e lui, il do’hao, lo voleva cosciente in una situazione del genere.

Cosciente e, soprattutto, partecipe.

Tra l’altro, non voleva neanche che si svegliasse e pensasse chissà cosa.

Fu una sorpresa amara però quello che vide, non appena le sue palpebre si aprirono.

Sakuragi era sveglio… e lo guardava.
 

Continua…..

Note:
1)      Gli avvenimenti di questo capitolo sono ambientati nella puntata 61 e sono la continuazione del capitolo precedente, in un’ipotetica serata che ho immaginato dopo la rissa.
 
 
Spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto… mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate.

Pandora86
  

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Capitolo 13
*** Vergogna ***


Ecco a voi il dodicesimo capitolo della storia!
Come al solito grazie per le bellissime recensioni!
Mi raccomando, continuate a farmi sapere cosa ne pensate!
Grazie anche a chi continua ad aggiungere la storia tra le preferite e le seguite!
E ovviamente grazie anche a tutti i lettori silenziosi!
Buona lettura!
 
Capitolo 12. Vergogna 
 

Merda, fu questo il primo pensiero di Rukawa.

Il primo di molti altri, uno più incoerente dell’altro.

Perché Hanamichi doveva svegliarsi proprio ora? E cos’avrebbe fatto trovandolo così vicino?

Per la prima volta, in tutta la sua vita, Kaede Rukawa era stato preso in contropiede. Era decisamente spiazzato.

Quanto tempo era passato? Pochi istanti, che a lui sembravano ore.

Il suo volto era ancora vicino a quello del do’hao.

Le loro labbra erano separate da pochi centimetri.

Adesso mi da una testata, fu questo il pensiero di Rukawa quando vide la mano del compagno di squadra avvicinarsi al suo volto.

Chiuse gli occhi, certo che a breve le loro teste avrebbero fatto un incontro ravvicinato.

Rimase perciò perplesso quando sentì la mano dell’altro sfiorarlo in una carezza.

Riaprì gli occhi, facendosi investire dalle emozioni che gli provocava lo sguardo dell’altro.

La mano ancora sulla sua guancia.

Com’era dolce il suo tocco.

E il suo sguardo… era un sorriso quello che aleggiava sul volto di Hanamichi?

Rukawa non ci pensò ancora.

Si avvicinò nuovamente al compagno. Ora le loro labbra erano vicinissime e si sfioravano.

Rukawa aspettava il consenso dell’altro.

Consenso che non gli venne negato.

Sentì la mano di Sakuragi sulla sua nuca e dischiuse le labbra in cerca di un contato più intimo.

Contatto che arrivò immediatamente.

Mi sta baciando era questo l’unico pensiero di Rukawa in quel momento.

E non gli importava di nulla.

Appoggiò la sua mano sul torace muscoloso dell’altro, mentre Sakuragi gli cingeva la schiena con un braccio.

Il numero dieci si portò sul gomito facendo poggiare sul cuscino la testa di Rukawa.

Le loro bocche ancora unite.

Le loro lingue ancora impegnate in una danza di cui entrambi conoscevano alla perfezione i passi.

Rukawa non seppe dire quanto durò quel bacio.

Seppe solo che durò troppo poco quando le loro labbra si separarono.

E adesso? Si domandò

Ma non dovette attendere molto.

Sakuragi poggiò la testa nell’incavo del suo collo e si lasciò andare sul corpo del compagno. Con un braccio gli cingeva la vita.

Rukawa lo osservò un attimo perplesso.

Sentì il respiro dell’altro sul suo collo farsi regolare, fino a diventare più pesante.

Stava dormendo?

Non era possibile! Sakuragi lo aveva baciato nel sonno e poi accusava lui di narcolessia solo perché dormiva in bici e in qualunque altro posto a patto che non fosse un campo di basket?

E lui che rifilava baci, e che baci tra l’altro, quando dormiva, allora come doveva considerarsi?

In effetti, gli occhi del do’hao gli erano sembrati un po’ appannati mentre lo guardavano. Il suo sguardo era inebetito… ma addirittura baciarlo!

Non che lui non avesse risposto, anzi…

Però…

Mi sa che il do’hao credeva di sognare, pensò sospirando.

Magari lo stava sognando… forse era per questo che piangeva, considerò andando ad accarezzare i capelli della figura che dormiva accoccolata su di lui ignara di tutto.

Beato te che dormi, si ritrovò a pensare con un mezzo sorriso.

Vabbè… in fondo va bene anche così, considerò cingendo la schiena dell’altro e continuando ad accarezzargli i capelli.

Chiuse gli occhi e presto raggiunse il suo do’hao nel mondo dei sogni.
 

                                   ………………………………………………..
 

Erano le sei del mattino passate quando Yohei Mito andò ad aprire la porta di casa sua, dietro l’insistenza pressante e fastidiosa del campanello.

Con uno sbadiglio andò ad aprire.

Cavolo, stava dormendo così bene! Possibile che, in quella casa, nessuno avesse sentito il campanello?

Vabbè, oramai era sveglio. Si domandava solamente chi fosse venuto a rompere le palle a quell’ora.

Spero che abbia un motivo valido, pensò.

Era vero che tra un po’ si sarebbe dovuto alzare per andare a scuola. Probabilmente, era per questo che sua madre non era andata ad aprire. Però… i suoi ultimi dieci minuti insomma… che glieli lasciassero fare in santa pace.

Aprì la porta con gli occhi semi chiusi… ma dovette aprirli di scatto quando riconobbe la figura che gli era davanti.

“Hana?” domandò perplesso.

L’altro gli rivolse un mezzo sorriso.

“Posso?”

Mito si scostò e lo lasciò entrare.

“Che succede? Parli o mi devo preoccupare?” incominciò tempestando di domande l’altro.

“Posso stare qui prima di andare a scuola?” domandò Sakuragi.

Yohei capì al volo che doveva aver passato la notte in bianco.

“Vieni” lo invitò, con un cenno, ad andare nella sua camera.

“Te la senti di venire a scuola?” gli domandò.

Non sapeva cosa fosse successo. Sapeva solo che Hanamichi era sconvolto.

L’altro annuì.

“Ti va di mangiare qualcosa?”

“Sì, grazie…” rispose, sedendosi stancamente sul letto.

Se era venuto da lui significava che voleva parlargli di qualcosa. Di conseguenza aveva bisogno di raccogliere le idee.

Per cui, lo lasciò solo andando a preparare la colazione. Sapeva che quando sarebbe ritornato lo avrebbe trovato pronto a parlare.

Sakuragi guardò l’amico uscire, provando un moto di riconoscenza.

Sapeva che Yo era preoccupato, ma sapeva anche che lo aveva lasciato solo apposta per permettergli di raccogliere le idee.

Ma lui non aveva bisogno di raccogliere le idee. Sapeva già cosa fare.

Ci aveva pensato per strada e sapeva che quella era l’unica soluzione.

Voleva parlare con l’amico. Ne aveva un gran bisogno.

Ma si sentiva sporco… come mai aveva provato in vita sua.

Sapeva che Yohei non l’avrebbe giudicato. Ma lui non voleva parlargli in quello stato.

Aveva fatto una cosa orribile e ora doveva pagarne le conseguenze.

Aveva baciato Rukawa. E Rukawa aveva risposto al bacio.

E poi, tanto per cambiare, era scappato.

Invece che alzarsi, prenderlo a testate e scappare via da quella casa il più lontano possibile, dopo aver insultato Rukawa chiarendo che provava schifo per quello che era successo, facendogli credere che in realtà lui credeva di stare baciando la sua Harukina cara, cosa aveva fatto?

Gli aveva fatto credere che stava dormendo.

Non che fosse molto sveglio… in realtà era mezzo addormentato.

Però… non era stato un riflesso incondizionato del sonno come aveva fatto credere al compagno di squadra.

Invece che affrontare la cosa, aveva preferito addormentarsi sul suo corpo, o meglio, fingere di addormentarsi.

Aveva aspettato che l’altro dormisse e poi se ne era andato in silenzio.

Perché? Perché era un vigliacco… un dannato vigliacco.

Quando Rukawa aveva poggiato le labbra sulle sue in quel lieve contatto, quando gli aveva asciugato le lacrime, ricordava di aver desiderato di svegliarsi con lui ogni giorno.

In quel momento aveva desiderato di più… e l’aveva baciato.

Non aveva avuto il coraggio di ferire Rukawa insultandolo. Aveva provato dolore a quel pensiero… e la situazione gli era sfuggita di mano.

Ma, adesso, avrebbe posto rimedio.

Raggiunse il bagno e si guardò allo specchio.

“Kami… che schifo” sussurrò al suo riflesso.

Ma avrebbe cambiato le cose. Prese con decisione il rasoio vicino al lavandino e si guardò.

Sapeva cosa fare e non avrebbe avuto esitazioni.

Lo mise in funzione e lo avvicinò ai suoi capelli.

Ripensò a sua madre. Non era degno di portare i capelli che aveva ereditato da lei.

“Mi dispiace mamma” sussurrò a bassa voce allo specchio. “Non ti deluderò più”.

E si rasò la prima ciocca.

I capelli andavano via. E con loro andava via tutto lo schifo che c’era stato quella notte.

Ogni ciocca che cadeva rappresentava uno dei suoi fallimenti.

La partita… il suo sbaglio… Rukawa…

Andava via tutto.

Sarebbe stato una persona diversa… e ci sarebbe riuscito.

Finì l’operazione guardandosi soddisfatto. Ora era una persona nuova.

Si avvicinò alla doccia e si lavò con cura.

L’acqua portava via l’odore di Rukawa che aveva ancora addosso.

I capelli che il compagno aveva accarezzato per un po’, prima di addormentarsi, dopo il loro bacio, se ne erano andati.

E ora anche il suo odore sarebbe sparito.

Uscì dalla doccia, asciugandosi con cura.

Si diresse verso l’armadio prendendo la sua uniforme.

Yohei aveva sempre insistito per tenerne una di riserva, quando voleva che lui andasse a dormire a casa sua dopo il lavoro. Assieme alla sua cartella e ai libri.

Si vestì e si guardò allo specchio.

Ora era veramente una persona nuova.

E i capelli portati in quel modo gli avrebbero ricordato il suo sbaglio.

Scese, sentendo l’aroma della colazione appena preparata dal suo amico.

Entrò in cucina sorridendo. Ora era pronto a parlare.

“Non hai saputo resistere al richiamo della fame?” disse allegro Yohei avendolo sentito arrivare.

Il sorriso si trasformò in una smorfia scioccata quando però si voltò, guardando l’amico.

La tazza, che aveva in mano, cadde producendo un rumore secco quando arrivò in contatto con il pavimento.

“Hana…”balbettò “che cosa hai fatto?”
 
                   
                                        ………………………………………………………….
 

Rukawa si girò assonnato nel letto provando una sensazione di fastidio.

Gli mancava qualcosa. O meglio, gli mancava il calore di qualcuno che, fino a poco prima, dormiva sulla sua spalla e gli cingeva la vita.

Con gli occhi chiusi, istintivamente, allungò la mano nel letto alla ricerca di Hanamichi.

Si mise a sedere di scatto quando si accorse che era da solo.

Guardò l’ora… erano le sei passate.

Toccò la parte del letto occupata fino a poco prima dal do’hao, notando che era fredda.

Segno che doveva essere andato via già da un po’.

Sapeva che era così. Sapeva che non l’avrebbe trovato in giro per casa.

Evidentemente, il do’hao si era svegliato abbracciato a lui e aveva preferito battersi in ritirata.

Tanto per cambiare, pensò ironico.

Si toccò le labbra. Aveva ancora il sapore del bacio che Sakuragi gli aveva dato,
e di cui solo lui portava il ricordo.

Chiuse gli occhi, richiamando con la mente quei momenti e quelle sensazioni.

Come avrebbe fatto ora a farne a meno?

Sospirò, portandosi una mano alla testa.

Sapeva che il do’hao non ricordava nulla. E avrebbe anche dovuto prevedere che sarebbe andato via.

Anche se, in parte aveva sperato che il do’hao, svegliandosi in quelle condizioni, avrebbe dato il via ai suoi teatrini urlanti, e di conseguenza l’avrebbe svegliato.

In effetti, gli sarebbe piaciuto svegliarsi con lui ancora a casa sua, che si faceva chissà quali viaggi su cosa fosse accaduto quella notte.

E lui avrebbe risposto con il suo solito sarcasmo, accusandolo di essergli saltato addosso in preda a chissà quali sogni sconci.

Allora Sakuragi sarebbe arrossito e avrebbe iniziato a inveirgli contro.

Però… le cose erano andate diversamente. E la sensibilità del do’hao non andava sottovalutata.

Si sarà spaventato, valutò fra sé alzandosi per farsi una doccia. Forse, quella mattina sarebbe arrivato in orario.

E, tanto per cambiare, avrebbe investito Sakuragi con la sua bicicletta.

In fondo, vuole fare finta di nulla pensò sorridendo.
 

                                         ………………………………………………………..
 

Sakuragi soffiava sul caffè bollente che Yohei gli aveva preparato.

L’amico non aveva detto una sola parola sul suo racconto. Non che gli avesse raccontato i dettagli, ma a grandi linee aveva rispettato gli avvenimenti che si erano susseguiti.

La scazzottata, l’invito a casa, l’abbraccio, il racconto dei suoi genitori e infine il bacio.

Ma Yohei sembrava con la mente altrove. E lo era, in effetti.

Mito, infatti, aveva capito il perché del gesto di Hana. E, anche se la cosa lo rendeva molto triste, sapeva che era quello che ora serviva all’amico per stare meglio.

Non si preoccupava del bacio che c’era stato. La stessa reazione di Sakuragi, così drastica, era da considerarsi un buon segno.

Un buon segno perché Hanamichi vi aveva proprio posto rimedio con tanta drammaticità.

Ma, presto o tardi, non sarebbe riuscito a negare quello che aveva vissuto.

Perché una cosa era insultare il compagno di squadra. Un’altra era baciarlo e poi fare finta di niente.

Mito sapeva che, molto presto, Hanamichi non avrebbe più negato con tanta insistenza quella parte di se stesso. Non avrebbe più potuto farne a meno, considerato quanto si era sbilanciato Rukawa con lui.

Doveva aver capito, infatti, di essere ricambiato. E presto avrebbe anche capito che le persone che non voleva deludere, sarebbero state orgogliose di lui.

Perché quello che i genitori di Hanamichi avevano sempre voluto era solo ed esclusivamente la sua felicità.

Purtroppo, se ne erano andati troppo presto.

E Hanamichi non aveva avuto modo di dirgli da che parte stavano i suoi interessi.

Perché, Mito era convinto se ci fossero stati, gli avrebbero sicuramente detto che a loro non importava con chi stava, purché fosse felice.

Ma questo non era avvenuto. E Hanamichi si era ritrovato da solo a gestire cose più grandi di lui. Si era ritrovato senza una guida e, di conseguenza, aveva smarrito la strada.

Quello che lo faceva pensare era, invece, il racconto che aveva fatto a Rukawa.

Di certo, era quello che era stato riservato a lui e all’armata tre anni prima.

Il rientro, il ritrovamento del padre e la corsa disperata verso un ospedale.

Si chiese se Rukawa avesse colto la verità. Era vero che era acuto, però non era detto che proprio quel particolare della storia gli saltasse all’occhio.

Motivo per cui doveva intervenire.

In fondo, era stato lo stesso Sakuragi a raccontare la sua storia a Rukawa. Lui si sarebbe limitato ad aggiungere quel piccolo particolare che aveva fatto sprofondare Hanamichi nel baratro in cui era caduto.

Perché Rukawa aveva le carte giuste per affrontare l’argomento.

Lui non l’aveva mai fatto… ma Rukawa avrebbe potuto.

La voce dell’amico lo distolse dai suoi pensieri.

“Allora, andiamo?” domandò Sakuragi perplesso.

“Si! Scusa, ero sovrappensiero” rispose Mito.

“Senti Yo, non preoccuparti per me” aggiunse Sakuragi sulla porta. Aveva visto l’amico pensieroso e non voleva farlo preoccupare.

“Dai, andiamo! Che oggi abbiamo la probabilità di arrivare puntuali” rispose questi sorridendo.

“Tra l’altro, tu devi ritornare in palestra che siete nel vivo delle finali” aggiunse allegramente avviandosi verso la scuola.

Sakuragi annuì sorridendo.

“Non mi va di andare a scuola” rispose.

“Vuoi fare un’altra assenza?” domandò Mito.

Sakuragi fece spallucce.

“Ho capito!” continuò Mito. “Vuoi andare direttamente in palestra, eh?”

“Ah, ah, ah, come faranno senza un campiiioooneee del mio calibro” rispose Sakuragi, che sembrava aver ritrovato il suo buon umore.

“Appunto, campione, andiamo che oggi ti devi allenare”  gli diede corda Mito, sulla sua stessa lunghezza d’onda.

Ed io devo parlare con Rukawa, si appuntò mentalmente deciso, come non mai, ad andare a fondo della faccenda. 
 

Continua….
 

Note:

1)La prima parte del capitolo è ambientata nella puntata 61 dell’anime, ed è la conclusione della continuazione della serata da me inventata dopo la rissa.

2)La seconda parte è sempre ambientata nella stessa puntata. Il canone, dopo la  rissa, salta direttamente alla mattina dopo, dove ritroviamo i nostri protagonisti a scuola. Io ho inserito degli avvenimenti che cronologicamente vengono prima del rientro a scuola. In pratica, dopo aver immaginato un’ipotetica serata, ho anche immaginato un’ipotetica mattinata, prima che Sakuragi si presentasse in palestra rapato.  Ho preso questo fatto originale e ho immaginato come dovesse avvenire letteralmente, senza saltare direttamente al gesto, dandogli una nuova luce introspettiva che tiene conto dei fatti da me narrati.

Spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto.

Mi raccomando, attendo i vostri commenti!

Pandora86

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Capitolo 14
*** Gelosia ***


Ecco a voi il tredicesimo capitolo della storia!
Come al solito grazie per le bellissime recensioni!!
Mi raccomando, continuate a farmi sapere cosa ne pensate!
Grazie anche a chi continua ad aggiungere la storia tra le preferite e le seguite!
E ovviamente grazie anche a tutti i lettori silenziosi!
Buona lettura!
 
 
 
Capitolo 13. Gelosia
 

E così, anche oggi, il do’hao non si è presentato a scuola pensò Rukawa sospirando e avviandosi in palestra.

Superò la sua armata che stava parlando con la bertuccia, alias sorella del capitano.

Si stava informando su dove fosse il do’hao.

Sentì la sua armata sdrammatizzare, non dando così nessuna informazione su dove si trovasse Hanamichi.

Tuttavia, dubitava che non ne fossero a conoscenza.

Perciò, si ripromise di parlare con Mito dopo gli allenamenti, lontano da occhi indiscreti. Di certo, a lui avrebbe detto dove si trovava Hanamichi. E gli avrebbe anche chiarito alcuni dubbi che gli erano sorti riguardo al passato di Sakuragi.

Si avvicinò alla palestra vedendo Miyagi e Mitsui ridere a crepapelle.

Che avranno da ridere questi due? Si domandò sorpassandoli ed entrando in palestra.

Ma la risposta gli arrivò poco dopo.

Sakuragi non era venuto a scuola… ma si era presentato agli allenamenti.

Ma non era questo il punto… si era rapato!

Ripensò alle parole di Mito.

Ci tiene molto ai suoi capelli.

In effetti, erano quello che gli rimaneva della madre.

Ma perché? Perché punirsi in questo modo? Si domandò, ma la risposta gli fu chiara poco dopo, quando Sakuragi continuò a pulire il campo non calcolandolo di striscio.

Se lo ricorda. Non stava dormendo.

La consapevolezza di quella rivelazione lo colpì come un pugno in pieno volto.

Dovette fare ricorso a tutto il suo autocontrollo per non andare dal do’hao e prenderlo a pugni.

L’aveva baciato di sua spontanea volontà. Anzi, aveva risposto al bacio iniziato da Rukawa,  aveva poi finto di dormire e, infine, se ne era andato.

Rukawa strinse i pugni.

Avrei dovuto legarlo al letto, pensò assottigliando gli occhi.

Se Sakuragi non se ne fosse andato, se fosse rimasto allora non avrebbe più potuto negare quello che provava. Non ci sarebbe riuscito perché Rukawa non glielo avrebbe permesso.

Poi facciamo i conti do’hao, considerò con rabbia.

Nel frattempo, vide sopraggiungere la sua armata e la babbuina.

Ovviamente, iniziarono a ridere a crepapelle, come da copione.

Intercettò, per un attimo, lo sguardo di Mito che per un momento interruppe le risate.

Tu lo sapevi già, pensò guardandolo negli occhi.

“Perché ti sei rapato?” domandò Haruko, entrando in palestra.

“Per ricordarmi che abbiamo perso soltanto per colpa mia” affermò Sakuragi sicuro.

“Non crescerà mai” intervenne Rukawa, facendo la sua parte e avendo la conferma che Sakuragi ricordava cosa era avvenuto tra loro.

Infatti, il numero non lo considerò minimamente. Di solito, invece, avrebbe iniziato a inveirgli contro.

Vediamo per quanto riuscirai a ignorarmi  dopo quello che c’è stato, do’hao!

L’allenamento proseguì senza problemi.

Sakuragi sembrava più carico che mai. Aveva ritrovato la voglia di combattere.

Anzai, in quel momento, comunicò la sua decisione di organizzare una partita di allenamento tra le matricole e gli anziani.

Ovviamente, Sakuragi non mancò di provocarlo ricordando al coach che “qualcuno” era crollato durante la partita contro il Kainan.

Bene! Rientrava tutto nella normalità, in fondo.

Rukawa si rivolse a lui duro.

“Vedi di non starmi tra i piedi, anche se è una partita dall’allenamento voglio vincerla” gli intimò, quando iniziarono a giocare.

In fondo, era questo che voleva no?

“E tu vedi di non crollare, stavolta niente sostituzioni, stronzetta” gli rispose Sakuragi, calcando sull’ultima parola.

Rukawa lo guardò male. Stavolta Sakuragi lo aveva insultato in modo diverso dal solito. E anche lui, in effetti.

Era stato uno scambio di battute serio.

Niente sospiri teatrali da parte di Rukawa.

Niente facce da ebete da parte di Sakuragi.

Erano arrabbiati! Ognuno per lo stesso motivo ma, paradossalmente, per la cosa opposta.

Rukawa era arrabbiato perché il compagno di squadra non avrebbe dovuto comportarsi così. Non poteva prenderlo in giro e decidere per tutti e due.

Tra l’altro, l’aveva chiamato ‘stronzetta’. Che strano termine per uno che ignora gli avvenimenti della sera precedente.

Sakuragi, invece, era arrabbiato perché Rukawa, ancora una volta, non lo considerava in campo.

Come può baciarmi e, contemporaneamente, considerarmi una nullità?

Gli aveva intimato seriamente di stare alla larga. E lui, a quel punto, l’aveva provocato con quel termine.

Rukawa non sapeva che lui ricordava perfettamente quello che era avvenuto. Ma perché lo trattava in quel modo?

Per cui, decise di giocare come mai aveva giocato prima d’ora.

Gli avrebbe dimostrato che lui valeva qualcosa anche in un campo da gioco.

E Rukawa si sarebbe dovuto arrendere di fronte alle sue capacità.

Ma quello che Sakuragi ignorava era proprio il fatto che Rukawa non avesse il minimo dubbio sulle sue capacità.

Il numero undici, infatti, lo stava osservando giocare in una partita in cui lui, fino a quel momento, aveva fatto ben poco. In breve, Sakuragi aveva calamitato l’attenzione su di se.

Con i suoi rimbalzi, con i suoi passaggi, con i suoi scatti.

Dopo pochi minuti, la squadra degli anziani si ritrovò in svantaggio.

E Sakuragi non sembrava intenzionato a fare sconti agli avversari. Rukawa lo guardava giocare, non potendo fare a meno di rimanerne affascinato.

Tuttavia, Sakuragi aveva una luce nuova negli occhi: quella della rabbia.

Si buttava su tutti i passaggi, cercava le azioni più impossibili, portandole stranamente a buon fine, per dimostrare agli altri, ma soprattutto a se stesso, che valeva qualcosa.

E stavolta, non si era lasciato trasportare dalla rivalità con lui. O meglio, sembrava fosse quella a dargli la carica.

Che voglia dimostrarmi quanto vale? Pensò Rukawa.

In effetti, sembrava che Sakuragi volesse la sua approvazione.

Da un lato, la cosa lo lusingava. Che finalmente fosse riuscito ad ottenere le attenzioni del do’hao anche in un campo da gioco?

Che finalmente questi si fosse deciso ad ammettere che lui fosse più bravo e, di conseguenza, cercare la sua approvazione, per provare a crescere insieme in quello sport?

Beh, a conti fatti, forse queste erano cose che il do’hao aveva sempre provato. Non a caso, era sempre con lui che attaccava briga. Non a caso, era sempre lui che voleva superare.

E questo andava bene. Tuttavia, dall’altro lato Rukawa non poteva fare a meno di provare un certo tipo di rabbia per questo ennesimo comportamento infantile del do’hao.

Perché era vero che cercava la sua approvazione ma era anche vero che, ancora una volta, la cercava nel modo sbagliato. Evidentemente, non riusciva a spiegarsi come mai, dopo quello che c’era stato tra loro, lui non lo considerasse minimamente in campo.

Tanto per cambiare, non capisci una mazza, do’hao! Si ritrovò a pensare con rabbia.

Era un campione, ma era troppo volubile. Si lasciava trasportare dai suoi umori, come una ragazzina in crisi adolescenziale, e il suo gioco , di conseguenza, ne risentiva.

Si lasciava condizionare da quello che c’era stato tra loro, cosa che tra l’altro doveva averlo scosso non poco. E invece, loro in campo, qualunque cosa accadesse, dovevano giocare a favore della squadra, comportandosi come i campioni che erano.

Proprio come la partita durante il Kainan. Tuttavia , sembrava che Sakuragi avesse perduto quello spirito, probabilmente ancora prima di averlo afferrato pienamente. E, di conseguenza giocava da solo, per dimostrargli di valere qualcosa.

Di questo passo, non sarebbe mai andato lontano.

E se c’era una cosa che Rukawa non sopportava, era proprio questo: vedere tutto quel talento buttato, letteralmente, nel cesso.

A un certo punto, il signor Anzai decise di far entrare in campo Mitsui.

Rukawa iniziò a comprendere le motivazioni del coach e il vero intento che aveva avuto nell’organizzare quella partita.
 
Quando Mitsui, che fino a allora su decisione dello stesso Anzai aveva fatto da arbitro, entrò in campo la squadra degli anziani era in netto svantaggio.

Il coach probabilmente voleva ridare fiducia a Hanamichi dopo l’errore commesso nella partita contro il Kainan. Ma voleva anche fargli capire i suoi limiti.

Non a caso ora, era Mitsui a marcare Sakuragi. Che, guarda caso, non riusciva più a combinare niente di decente.

Lo vide, in preda all’esasperazione dovuta alla marcatura asfissiante di Mitsui, lanciare la palla a casaccio, che caso dei casi, andò a posarsi proprio tra le mani della babbuina.

Risultato: ora la palestra era invasa dalle risate di tutti.

“Se lanci così in partita, si spanceranno tutti dalle risate” fu la provocazione di Rukawa verso la scimmia rossa che, tanto per cambiare, quando perdeva il controllo si comportava da ritardato.

“Chiudi il becco tu!” urlò Hanamichi isterico, ritornando a giocare.

Il resto della partita non fu altro che uno scontro Hanamichi - Mitsui.

Scontro che quest’ultimo sembrava aver preso molto a cuore. Rukawa aveva notato il sorriso che era comparso sul volto di Mitsui quando Sakuragi aveva deciso di lasciare, con un pugno, un segno permanente alla porta per sfogare la sua rabbia e la sua frustrazione dovuta al fatto di non riuscire più neanche a entrare nell’area avversaria.

Tra l’altro, sembrava che Mitsui non stesse neanche più giocando. Il suo fine sembrava, infatti, solo voler far imparare qualcosa a Sakuragi.

Rukawa li osservava con rabbia mentre Mitsui continuava a impartire consigli come fosse chissà chi.

 E il coach lo lasciava fare, proprio come se quello fosse stato il suo obiettivo iniziale.

“Se continui a giocare così, ti bloccherò sempre lo vuoi capire?”.

Ecco un altro rimprovero da parte di Mitsui. Nella palestra, infatti, non si sentiva altro se non i suggerimenti del numero quattordici e le conseguenti rispostacce del numero dieci.

Rukawa, oramai, non era nervoso. Era nero.

E Sakuragi sembrava sempre più in difficoltà. Eccolo, infatti, commettere fallo in preda al nervosismo.

“Ma che diavolo fai? Non puoi pensar di farti largo a gomitate ogni volta che hai la palla in mano, così rischi di farti espellere!”.

Ed ecco il puntuale rimprovero di Mitsui

“Adesso sei in buona posizione, sei più alto di me, dovresti farcela. Se non segni, sei proprio un coglione, è un tiro facilissimo”.

“Ma dove l’hai mandata? Non dirmi che tiri a occhi chiusi!”.

Ma chi ti credi di essere? Pensò Rukawa. Sei tu il coglione! 

E lo pensava sul serio.

Era un bravo giocatore certo, ma lui era più bravo. Se lo avesse sfidato lo avrebbe battuto in niente.

E cos’era quella che provava? Gelosia?

Sì. Era proprio gelosia. E invidia, forse. Solo il do’hao riusciva a fargli provare questi sentimenti.

Sentimenti che non avrebbe mai ammesso di provare, in altri tempi. E , in altri tempi ancora, non avrebbe neanche creduto di poterli provare.

Ma questo, prima che Sakuragi irrompesse nella sua vita come una furia. Prima che il do’hao gli entrasse dentro per non uscirne più. E del resto, per quanto controllato, anche lui era un essere umano.

Un essere umano che vuole qualcuno a tutti i costi e che per molto tempo ha creduto di non poterlo avere. E che, quando invece ha capito di poter essere ricambiato, vuole che nessuno posi gli occhi sulla persona in questione.

Perché si era accorto di come Mitsui guardava Hanamichi.

Non poteva dire che fosse interesse. Ma di certo, era ammirazione. Sicuramente, provava un certo affetto verso il compagno di squadra.

E questo andava anche bene. Rukawa on voleva certo che gli altri evitassero il do’hao, o che fossero scortesi con lui.

Del resto, era facile voler bene a Hanamichi. E Rukawa sapeva di non essere l’unico a essersi accorto delle sue qualità e del suo buon cuore.

Che gli volessero bene non era un problema. Ma che lo facessero a una certa distanza. Diciamo a un centinaio di metri.

E invece, Mitsui sembrava averci preso gusto a tallonare il do’hao.

Va bene che lo doveva marcare. Ma tra un po’ gli si incollava addosso pur di non fargli centrare il canestro.

Cosa, tra l’altro, non necessaria visto che Sakuragi non centrava il canestro neanche se pregava.

 Non era giusto, tra l’altro, che fosse proprio Mitsui ad arrogarsi il diritto di allenare il do’hao.

Non aveva neanche il diritto di trasformare una partita d’allenamento in un allenamento personale. Anche Miyagi poteva dare a Sakuragi buoni consigli, proprio come aveva fatto in passato. E Miyagi andava bene per allenare il do’hao. Era un bravo giocatore e, soprattutto, molto interessato alla loro manager.

Non voleva che Sakuragi pensasse che Mitsui fosse più bravo di lui. Non voleva che il do’hao iniziasse a guardare Mitsui con occhi diversi perché lo stava mettendo in difficoltà.

Non voleva che lo sostituisse a lui come rivale.

E quando Kaede Rukawa non voleva qualcosa, allora vi poneva rimedio.

Prossimo obiettivo: umiliare Mitsui sul campo. Possibilmente, davanti al do’hao.

Non sapeva ancora quando. Ma sicuramente molto presto.

Poi vedremo chi guarderai Hanamichi, dopo che l’avrò stracciato.

Tuttavia, al momento l’unico modo che aveva per far abbassare la cresta a Mitsui era non lasciarsi mettere da parte.

Sakuragi doveva capire che erano una squadra e avrebbe dovuto cercare il suo aiuto.

Fu per questo che, non appena intercettò  la palla e si fiondò in attacco, decise di passarla al compagno di squadra.

Vide Mitsui rimanere spiazzato dal loro attacco. E sapeva anche il perché. Quando riuscivano a giocare insieme, lui e Sakuragi erano imbattibili.

“Ripassamela” gli disse poi.

Ma, tanto per cambiare, il do’hao decise di fare di testa sua fiondandosi a canestro per schiacciare.

E Rukawa agì d’istinto.

Non ne poteva più dell’idiozia del compagno di squadra.

Saltò con lui. Gli spettatori rimasero a bocca aperta.

Quello che ne venne fuori fu una schiacciata memorabile.

Con loro due appesi al canestro a litigare.

“Perché ti sei messo in mezzo, Rukawa?”.

“Imbecille, avresti dovuto passarmi la palla, tu non centri il canestro neanche se paghi!”.

Gli altri assistevano al loro show. Rukawa si rendeva conto che il suo comportamento era infantile e che, se si fosse trattato di un’altra persona, mai si sarebbe lasciato andare così tanto. Ma non poteva farci niente. Non sopportava che il do’hao non lo considerasse in campo, soprattutto dopo che era stato lui a passargli la palla di sua spontanea volontà.

“Vuoi usarmi come spalla per le tue azioni spettacolari, Rukawa?” sentì Sakuragi sussurrare serio. Il tono era carico di rancore.

Rukawa lo guardò un istante. Sarebbe scoppiato a ridere se non fosse stato ancora incazzato nero.

La situazione, in effetti, era tragi-comica.

Loro due appesi a un canestro che , prima litigavano come due galline, e poi si accingevano a fare un discorso serio.

“Lasciamoli lì, prima o poi si stancheranno di stare appesi al canestro” intervenne Mitsui fra l’ilarità generale, ma Rukawa lo sentì appena.

“Non ti fidi di me?” gli chiese ancora Sakuragi sottovoce, afferrandolo per la maglia.

“Sei tu che non ti fidi di me” rispose tagliente Rukawa. “Non è colpa mia se non sai tirare” e detto questo, lasciò il canestro per avviarsi verso gli spogliatoi, non degnando nessuno di uno sguardo.
 

                              ……………………………………………….
 

L’allenamento era finito.

E l’umore di Rukawa era pessimo. Neanche una doccia era riuscita a scacciare via tutto il malumore di quella giornata. E, di certo, le chiacchiere degli spogliatoi non avevano contribuito a migliorare il suo umore.

“Però” aveva esordito Mitsui entrando, “Non male la scimmia rossa. Se avesse saputo tirare meglio, di sicuro mi avrebbe messo in difficoltà”.

“Non mi sembra, però, che a te sia dispiaciuto fargli da insegnante” aveva aggiunto Miyagi, facendogli l’occhiolino.

“Chissà” era stata la risposta di Mistui che aveva sorriso in modo allusivo, prima di guardarlo di sfuggita con un sorrisetto molto irritante.

Che cazzo hai da sogghignare, stronzo? Aveva pensato Rukawa, non calcolandoli di striscio.

Il suo umore non gli permise di accorgersi del cenno d’intesa che si erano scambiati Miyagi e Mitsui e, quando era uscito,  la sua mente era già altrove.

Non aveva dimenticato, infatti, di avere ancora una cosa da fare.

Prima di andare negli spogliatori, aveva sentito il capitano chiedere a Sakuragi di rimanere in palestra ad allenarsi. Voleva insegnargli a tirare. A quanto pare, tutti si stavano rendendo conto dell’indispensabile presenza di Hanamichi.

Bene, aveva considerato Rukawa. Avrebbe avuto la possibilità di fare quattro chiacchiere con Mito molto prima di quanto si aspettasse.

Prima di uscire, diede un’ultima occhiata in palestra. A quanto pare, Sakuragi si allenava senza fiatare mettendosi d’impegno. Con un sospiro, si avviò fuori dall’edificio scolastico.

Rimase sorpreso però quando, appena fuori dalla scuola, trovò Yohei Mito, a braccia incrociate, appoggiato al muro.

Era evidente che stava aspettando lui e non Sakuragi. Altrimenti, sarebbe rimasto in palestra.

Tra l’altro, notò che era solo. Si era liberato del resto dell’armata. Segno che anche lui voleva parlargli, e qualcosa gli diceva che Mito non doveva aver apprezzato molto il taglio di capelli di Sakuragi, per spingerlo a parlargli appena fuori la scuola e, di conseguenza, a pochi metri dal do’hao.

Me lo sarei dovuto aspettare, considerò Rukawa.

Mito alzò lo sguardo.

 “Ti stavo aspettando” e il suo tono di voce era serio.

Ma Rukawa non si sarebbe lasciato di certo intimorire. La giornata era stata uno schifo, e l’allenamento anche. Il suo umore, di conseguenza, era pessimo.

Per cui, avrebbe condotto lui il gioco. Era lui a dover parlare con Mito, e di una questione più importante del nuovo taglio di capelli di Hanamichi, e non il contrario.

E lo avrebbe fatto capire all’altro senza troppi giri di parole. Se poi dopo, l’altro avesse voluto parlare, bene, lo avrebbe ascoltato. Ma solo dopo.

Perché c’era un punto importante della storia che gli aveva raccontato Sakuragi che voleva chiarire. Ci aveva riflettuto durante tutto il tragitto a scuola.

E, prima di avvicinarsi al do’hao, doveva avere delle informazioni. Perché non poteva permettersi di sbagliare. Non su un particolare così importante.

Fu con tono secco perciò che rispose all’altro.

“Ero io che stavo aspettando te”.
 

Continua…..
 
Note:

 1)Gli avvenimenti di questo capitolo  sono ambientati nella puntata 61  dell’anime.

L’allenamento è preso dal canone, come le frasi di Mitsui durante la partita dall’allenamento e come le frasi che si scambiano Sakuragi e Rukawa. Mi sono limitata ad approfondire  i pensieri di Rukawa tenendo conto degli avvenimenti da me inventati.

2)Anche l’ultima parte dell’allenamento (quella in cui Rukawa e Sakuragi finiscono appesi al canestro) è presa dal canone come le frasi iniziali che si scambiano. Io ho immaginato un ipotetico dopo, con qualche battuta in più tra i nostri protagonisti per giustificare l’impegno di Hanamichi nell’imparare a tirare a canestro.

Il dopo allenamento, invece, è tutto di mia invenzione.


Mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate! Attendo i vostri pareri!

Alla prossima.

Pandora86

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Capitolo 15
*** Intuizioni e verità nascoste ***


Ecco a voi il quattordicesimo capitolo della storia!
Come al solito grazie per le bellissime recensioni.
Mi raccomando, continuate a farmi sapere cosa ne pensate!
Grazie anche a chi continua ad aggiungere la storia tra le preferite e le seguite.
E ovviamente grazie anche a tutti i lettori silenziosi.
Ci vediamo a fine capitolo per le note e per le informazioni riguardo le prossime pubblicazioni.
Mi scuso in anticipo nel caso ci dovesse essere qualche errore di battitura… leggo e rileggo ma sapete com’è… qualcosa mi sfugge sempre!
Per adesso…buona lettura!    
 

Capitolo 14. Intuizioni e verità nascoste
 

Hanamichi tirava a canestro sotto lo sguardo attento di Akagi, facendo tesoro dei suoi rimproveri e dei suoi suggerimenti.

Tirava, senza stancarsi e senza lamentarsi.

Semplicemente… continuava a tirare. Una, due, tre volte…. continuava e basta.

Akagi gli aveva detto che avrebbe dovuto fare duecento tiri dopo ogni allenamento.  Lui avrebbe potuto farne anche mille.

Tirare a canestro lo faceva stare bene. Erano troppe le cose a cui aveva dovuto pensare in quei giorni.

Ed era ancora troppo vivo il ricordo della notte precedente.

E lui si sentiva svuotato. L’allenamento non lo aveva consolato. Ancora una volta, aveva fatto la figura dell’imbecille. Sapeva che Mitsui era un bravo giocatore ma credeva di poterlo, almeno, mettere in difficoltà.

Da quando era entrato nella squadra di basket, il suo unico obiettivo era stato umiliare Rukawa.

Distruggere quell’alone di perfezione che circondava il compagno, umiliandolo proprio nella cosa in cui primeggiava per eccellenza.

E ci aveva messo tutto se stesso. Anche se si sentiva inferiore. Anche se sapeva di essere un principiante.

Poi erano passati i mesi, e lui aveva acquistato un po’ di fiducia nelle sue potenzialità. Kogure continuava a incoraggiarlo. E lui credeva alle sue parole.

Ma adesso, dopo mesi, ecco che ritornava quella sensazione di inferiorità. E non solo rispetto a Rukawa, ma rispetto a tutti.

Possibile che non fosse migliorato neanche un po’? Possibile che non fosse neanche in grado di mettere in difficoltà Mitsui?

Cosa aveva pensato Rukawa guardandolo fallire miseramente una volta dopo l’altra, con un compagno di squadra che di certo gli era inferiore in termini di bravura?

Sicuramente aveva pensato che era una nullità. E lui non voleva questo.

Sapeva di essere incoerente. Sapeva che il suo atteggiamento non faceva altro che allontanare il compagno di squadra.

Ed era quello che voleva. Almeno, fino a quella mattina.

Poi, cos’era cambiato?

Era cambiato l’atteggiamento di Rukawa. Lui lo aveva avvertito, e gli aveva fatto male.

Perché, se c’era una cosa che aveva notato in questi mesi, era che Rukawa non si era mai arrabbiato con lui.

L’aveva insultato, spronato e, negli ultimi tempi, incoraggiato e consolato.

Ma mai si era arrabbiato. Mai gli aveva intimato di stargli lontano.

E lui aveva capito. Aveva capito che aveva sbagliato tutto. Il compagno di squadra provava qualcosa per lui. Probabilmente lo ricambiava. E lui, come il solito, aveva buttato tutto nel cesso.

L’atteggiamento di Rukawa gli aveva fatto aprire gli occhi. E, paradossalmente, si era reso conto di aver perso qualcosa. Qualcosa che non aveva neanche avuto il coraggio di iniziare, perché troppo vigliacco.

Era per questo che, quando si era ritrovato appeso al canestro, aveva buttato via tutte le maschere, e gli aveva chiesto del perché non si fidasse di lui.

Ma Rukawa non lo aveva deriso o umiliato. Lo aveva accusato di essere lui a non fidarsi e non il contrario. Ricordandogli, tra l’altro, che non sapeva tirare.

E lui aveva capito. Di conseguenza adesso voleva rimediare. Di certo non sarebbe potuto andare da Rukawa a dirgli cosa pensava. Ma avrebbe potuto fare qualcosa per lui lo stesso.

Impegnarsi ed essere di valido aiuto nello sport che lui amava tanto.

In quei mesi, non aveva fatto altro che esercitarsi nei palleggi, nei rimbalzi e nei passaggi. Tutte cose che non facevano punti. Adesso, invece, aveva la possibilità di essere di effettivo aiuto all’attacco dello Shohoku. E non l’avrebbe sprecata.

Quella mattina, aveva giurato a se stesso di essere una persona diversa. E lo sarebbe stato davvero.
 

                        …………………………………………………………….
 
 

Rukawa guardava il the che gli aveva offerto Mito.

L’altro gli aveva detto che avrebbero avuto tutta la serata a disposizione, e che era meglio andare a casa sua.

Rukawa l’aveva seguito annuendo. Il tragitto gli era servito per riordinare le idee.

Perché era vero che aveva ben chiaro cosa dire; il problema era che non sapeva come.

Vide che Mito stavolta non prendeva l’iniziativa.

Meglio così, pensò. Stavolta, comincio io.

“Non ho intenzione di parlare del nuovo taglio di capelli di Hanamichi” esordì secco. Semplice e coinciso.

In fondo, non c’era modo migliore per iniziare un discorso che andare dritto al punto.

“Neanche io” rispose serio Mito.

L’altro lo guardò perplesso.

“Quelle sono cose che dovete risolvere tra voi” continuò sicuro. “Del resto, credo anche che tu abbia capito perché l’ha fatto”.

“Non stava dormendo” rispose Rukawa. Non era una domanda, quanto una costatazione dei fatti.

Era, infatti, certo che Mito sapesse benissimo di cosa parlasse. E il suo umore non poté che peggiorare sentendo la risposta dell’altro.

“No! Non dormiva”.

Rukawa strinse le mani attorno alla tazza che aveva di fronte.

Possibile che ogni cosa che riguardasse la vita del do’hao dovesse, prima o dopo, a seconda dei casi, arrivare al suo braccio destro?

Se Hanamichi aveva dei dubbi, non poteva parlarne a lui?

Ma certo che no! Era troppo semplice per quella mente complicata della testa rossa. Che gusto ci trovava poi a ingarbugliare una situazione che tutto era tranne che semplice?

Cos’avrebbe fatto la prossima volta? Mettere manifesti per tutta Kanagawa?

No! Rukawa sapeva che non l’avrebbe fatto. Come aveva sempre saputo che, arrivare a Hanamichi, significava passare attraverso il benestare di Mito.

Come sapeva anche che Mito era il suo unico punto di riferimento. Normale che andasse da lui quando era sconvolto.

Mito dovette seguire il corso dei suoi pensieri perché, quando riprese a parlare, un sorriso sincero aleggiava sul suo volto.

“Si è rapato qui. So che avresti preferito che magari lo facesse a casa tua” aggiunse triste.

Rukawa capì il significato di quelle parole. Era la risposta ai suoi pensieri. E si accorse anche che il ragazzo che aveva di fronte era sinceramente dispiaciuto della fuga di Hanamichi da casa sua, e che avrebbe realmente preferito che fossero loro stessi a districarsi in quella matassa, senza fughe e frasi sottintese.

“Nh… poi avrei dovuto pulire io” rispose Rukawa, con un impercettibile sorriso.

“Mi dispiace sul serio sai, so che sei molto riservato” aggiunse Mito.

Rukawa fece un cenno con la mano come a dire che non gli importava. E, in effetti, era vero.

Una cosa era che tutta la squadra, o tutta la scuola, sapesse quello che era avvenuto. Non che se ne vergognasse. E non che temesse i pettegolezzi.

Ma quello riguardava la sua vita privata, in cui pochi avevano accesso, forse proprio per compensare il fatto che a scuola fosse così popolare e famoso.

Che le ragazzine e la massa continuassero ad adorare e idolatrare la sua immagine. Era l’unica cosa che potevano fare, oltre a rimuginare su di lui o immaginarsi la sua vita. Lui non aveva bisogno di loro.

Aveva bisogno solo di pochi. Ed erano quei pochi a poter penetrare la sua privacy.

E Mito era uno di quei pochi. Uno dei pochi a cui aveva dovuto concederlo. E, conoscendolo meglio, uno dei pochi a cui avrebbe voluto concederglielo.

Perché, a conti fatti, anche il ragazzo era molto riservato. E, anche di lui, sapeva poco o nulla. Proprio come il do’hao.

Solo che Sakuragi preferiva atteggiarsi a buffone per non far conoscere i suoi tormenti.

Mito, invece, si limitava a fargli da spalla non attirando sguardi su di se, e quindi richiamando comunque l’attenzione proprio per la sua figura calma e silenziosa.

Un po’ come me, si ritrovò a riflettere Rukawa.

Tuttavia, Mito non mancava di far notare la sua presenza quando lo riteneva necessario. E quando questo avveniva, il ragazzo esercitava sempre una certa soggezione su chi lo circondava.

Quindi, a conti fatti, non gli importava minimamente che qualcuno fosse venuto a conoscenza dei dettagli sulla sua serata con il do’hao, se questo qualcuno era Mito.

Tra l’altro, dovette anche ammettere di aver frainteso le intenzioni del ragazzo quel pomeriggio. Era convinto che volesse spiegazioni, o che volesse riprenderlo per qualche atteggiamento che poteva aver sbagliato nei confronti di Hanamichi. Si era, sostanzialmente, fatto trascinare dal suo malumore travisando le intenzioni dell’altro.

Mito, invece, non voleva fare nulla di tutto ciò. Del resto era stato chiaro: quelle erano cose loro.

Questo significava che lui voleva rimanere fuori dai loro rapporti il più possibile per permettere loro di uscire da quella situazione con le loro forze.

Ed era per questo che, in effetti, non gli creava alcun problema quanto Mito sapesse.

Questo confermava i pensieri che aveva avuto su di lui poco prima. Era una figura attenta e silenziosa, che si prestava a essere una buona spalla quando se ne presentava la necessità. E che interveniva quando lo riteneva indispensabile.

E, di solito, i suoi interventi erano più che giustificati.

 Ricordava perfettamente il loro primo incontro a casa del do’hao. Gli aveva detto lo stretto necessario, indicandogli come agire. Ma non aveva detto una parola di più. Il suo intervento era stato minimo ma fondamentale. Voleva che Hanamichi fosse felice. Ma voleva anche che vivesse come un normale sedicenne che prende decisioni da solo e che sa di poter sbagliare. Voleva che si confrontasse e che si aprisse con le persone a modo suo. Voleva che vivesse la sua vita, rimanendogli affianco, ma non ficcando il naso dove non era necessario.

In effetti, avrebbe dovuto capire che Mito non voleva parlare con lui per fargli ramanzine o altro.

Tanto per cambiare, era colpa del do’hao e della gelosia che aveva provato. Se non fosse stato di pessimo umore, avrebbe capito al volo che c’era qualcosa di più oltre al taglio di capelli di Hanamichi nei pensieri di Mito.

Motivo per cui, dato che non poteva trattarsi di una sciocchezza, decise che avrebbe ascoltato cos’aveva da dirgli l’altro.

La voce di Mito lo distolse dai suoi pensieri.

“Credo sia inutile dirti che Hanamichi mi ha raccontato la vostra serata”.

Rukawa annuì, aspettando che l’altro continuasse.

“Tra l’altro, sono felice che il vostro rapporto abbia fatto un passo avanti”.

“Peccato che il do’hao ne abbia poi fatti dieci indietro” lo interruppe Rukawa scocciato.

“Non è come credi” aggiunse Mito notando l’umore dell’altro e sorridendo di rimando.

Rukawa inarcò un sopracciglio scettico.

“Vedi” continuò Mito, “io conosco Hanamichi. E so che non si è pentito di quello che è successo”.

Questa volta, Rukawa intervenne con uno sbuffo scettico.

Mito si lasciò andare a una risata allegra.

L’altro lo guardò storto, assottigliando gli occhi.

“Volevo parlarti d’altro Rukawa. Tuttavia , visto che siamo in argomento, permettimi di spiegarti qualcosa su Hanamichi e sul suo nuovo taglio di capelli”.

“Nh!” acconsentì con un mugugno molto scettico. In fondo, cos’aveva da perdere?

“Vedi…. lui si è rapato prima di parlarmene…” disse Mito serio, interrompendosi subito dopo.

Rukawa lo guardò male. E allora? Che importanza aveva se lo avesse fatto prima o dopo? E soprattutto, perché il tono di Mito era quello che si usa per le grandi rivelazioni?

“Francamente, non ti seguo” ammise, ancora più seccato.

Perché non la piantava di dirgli frasi cariche di significato che capiva solo lui?

Possibile che più si andava avanti in quella storia, più Mito si esprimeva a monosillabi?

Cos’è, vuole forse mettermi a mio agio? Pensò Rukawa ironico.

In effetti, anche lui limitava il suo linguaggio al minimo indispensabile.

Tuttavia era stanco. E veniva da una giornataccia.

Motivo per cui, valutò, era ora che la piantassero, tutti e due, di giocare agli indovinelli.

La storia era andata troppo oltre. Il suo rapporto con Hanamichi era andato troppo oltre. Motivo per cui si decise a ribattere.

“Non credi che sia il caso di spiegarti?”.

Mito sorrise di rimando a quella domanda. Rukawa che articolava due intere frasi di seguito aveva un qualcosa di sorprendente.

A quanto pare, si sta sciogliendo! Pensò Mito.

“Scusa” si decise a rispondere, finalmente. “Ma sai Rukawa, di solito è questo l’effetto che hanno i monosillabi e le mezze frasi”.

Rukawa lo guardò.

Che si stesse riferendo a lui?

Dal sorriso dell’altro, capì che doveva essere effettivamente così.

“Che vuoi dire?” si ritrovò, quindi, a domandare.

Possibile che, ogni volta che si ritrovava a parlare con quel ragazzo, deciso a sapere qualcosa, non solo non aveva quello che voleva, non direttamente almeno, ma si ritrovava sempre per la testa un cumulo di domande in più?

“Voglio dire” si accinse a spiegare Mito, “che stasera ho voluto vederti per parlarti di un argomento particolare. O meglio, di un argomento particolare che mi auguro affronterai con Hanamichi. Tuttavia, andiamo con ordine, ok?”.

Rukawa annuì serio.

“Prima voglio chiarirti qualcosa sul taglio di capelli di Hanamichi, visto che ci siamo ritrovati a parlarne. Anche se non era quello l’oggetto principale del mio discorso”.

A quel punto, Mito si alzò avvicinandosi alla finestra per scrutare la strada oramai illuminata dalla fioca luce dei lampioni.

“Perché vedi, io penso si sia rapato proprio perché non è riuscito a pentirsi del suo gesto. Non fino in fondo almeno, per questo ha provato a cancellare ciò che era. E sempre per questo mi ha raccontato tutto dopo averlo fatto. Mi segui?”.

Rukawa annuì pensieroso.

Se le cose stavano così, allora presto o tardi il do’hao non avrebbe più potuto fare a meno di negare ciò che provava.

La voce di Mito lo interruppe dai suoi pensieri.

“Per questo non sono preoccupato del suo taglio di capelli. Dispiaciuto, ma non preoccupato. Era di questo che pensavi io ti dovessi parlare?”.

Rukawa si ritrovò ad annuire ancora.

“Magari fosse solo questo, Rukawa…” e stavolta il tono era basso, accompagnato da un sospiro.

“Volevo parlarti, invece, della storia che ti ha raccontato” continuò con tono quasi incerto.  “Quella riguardo ai suoi genitori”.

Rukawa stavolta si fece attento. Assottigliò gli occhi, guardando fisso l’altro e rimanendo in attesa.

Possibile che quello che aveva dedotto dal racconto di Hanamichi fosse la verità?

“Suppongo che sia stata la stessa storia che è stata propinata a me e al resto dell’armata tre anni prima. Come alla madre di Hanamichi. Però vedi…”.

E qui Mito si interruppe. Non poteva pretendere certo che l’altro capisse quello che voleva dire. Purtroppo, qui si andava nel campo delle ipotesi, dove solo Hanamichi sapeva la verità.

Lui pensava di averla intuita dal comportamento illogico dell’altro in quell’avvenimento. Tuttavia, poteva anche essersi sbagliato.

Quel comportamento poteva anche essere dettato dal dolore di aver visto il padre in quello stato.

Eppure lui lo conosceva… anche se sconvolto, Hanamichi non si sarebbe comportato in quel modo.

Ma come dire a Rukawa tutto questo?

Motivo per cui, rimase di sasso quando sentì l’altro parlare.

Perché, tutto si sarebbe aspettato, tranne quella frase che uscì con tono secco e deciso dalla bocca di Rukawa, e che ebbe il potere di spiazzarlo totalmente.

Era già morto!”.
 

Continua….
 
Note:

 Gli avvenimenti letti in questo capitolo sono ambientati nella puntata 61.
In pratica, ho immaginato la serata dei nostri protagonisti dopo l’allenamento e ho rielaborato i pensieri di Hanamichi durante il suo allenamento speciale, secondo gli avvenimenti da me creati, dandogli quindi una nuova base introspettiva.
 
Mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate!

Pandora86

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Capitolo 16
*** Imprevisto ***


Ecco a voi il quindicesimo capitolo della storia!
Come al solito, grazie per le bellissime recensioni!
Mi raccomando, continuate a farmi sapere cosa ne pensate!
Grazie anche a chi continua ad aggiungere la storia tra le preferite e le seguite e, ovviamente, grazie anche a tutti i lettori silenziosi!
Ci vediamo a fine capitolo per le note e per le informazioni riguardo alle prossime pubblicazioni.
Mi scuso in anticipo nel caso ci dovesse essere qualche errore di battitura; leggo e rileggo ma sapete com’è… qualcosa mi sfugge sempre!
Per adesso…buona lettura!   
 
 
 
Capitolo 15. Imprevisto
 

“Era già morto” disse Rukawa deciso.

Aveva visto la titubanza sul volto dell’altro. Era evidente che non sapeva come esprimersi. Cosa abbastanza strana se si deve raccontare qualcosa di cui si conosce la natura.

Ma anche a Mito era stata rifilata la stessa storia, e anche lui aveva colto qual era la verità.

O meglio, aveva colto che quella non era tutta la verità ma, proprio come lui, non ne aveva la certezza. Motivo per cui, ora il ragazzo che aveva di fronte, evidentemente, non sapeva come affrontare la situazione.

Buona ragione per lui, invece, per dirgli ciò che aveva intuito. Per dirgli che anche lui aveva avuto qualche sospetto sulla reale natura dei fatti.

Sapeva che era un azzardo. Sapeva che forse non era questo che Mito voleva dirgli.

Tuttavia, aveva deciso di rischiare.

E ora spettava all’altro dare o meno conferma dei suoi sospetti.
 

                                          ………………………………………………
 

Hanamichi si era concesso una lunga doccia rilassante in palestra.

Era soddisfatto e il suo umore era decisamente migliorato. Tirare a canestro gli aveva fatto bene.

Il gorilla era stato severo, ma lui non si era comunque risparmiato.

Akagi aveva detto che avrebbe dovuto fare duecento tiri dopo ogni allenamento.

Ma lui aveva qualcos’altro in mente. Aveva, infatti, deciso che ne avrebbe fatti altrettanti anche prima della scuola. Tanto il gorilla andava ad allenarsi lì ogni mattina.

Fra un po’ avrebbero dovuto affrontare il Takezato. E lui non poteva permettersi di fare errori. Ma, d’altro canto, non poteva neanche dedicarsi solo ed esclusivamente al basket come avrebbe voluto.

Tuttavia, un modo per ottimizzare le cose c’era. E al diavolo se avesse dovuto mandare il suo orgoglio a farsi benedire.

Per il basket ne valeva la pena. Per Lui ne valeva la pena.
 

                                  …………………………………………………………….
 

Mito era rimasto spiazzato.

Si soffermò un istante a guardare Rukawa che non aveva più detto nulla, ma attendeva paziente una sua risposta.

A quanto pareva, il suo interesse per Hanamichi andava anche oltre a quello che potesse effettivamente immaginare.

Ricordò che tre anni prima, quando Hanamichi aveva raccontato loro della morte del padre, lui era stato l’unico del gruppo a capire che c’era qualcosa che non andava.

E non perché fosse più perspicace degli altri o perche loro gli volessero meno bene rispetto a lui.

Ma semplicemente perché lo conosceva di più. Come conosceva le sue debolezze.

Anche gli altri sapevano che Hanamichi era una persona sensibile, un amico fidato. E, nonostante lo prendessero in giro riguardo ai suoi proclami di genialità, non avevano avuto nessun dubbio nell’eleggerlo come loro capo e ad affidarsi a lui nelle loro balorde imprese, qualunque esse fossero. Come stare in giro per i locali fino a tardi oppure farsi coinvolgere in una rissa. Oppure, semplicemente, passare tutta la serata a giocare ai videogiochi.

Loro non obiettavano mai. Sapevano che con Hanamichi le risate erano assicurate. Ma sapevano anche di poter contare su qualcuno che non se la sarebbe data a gambe qualora i teppisti con cui avevano a che fare, di tanto in tanto, si fossero presentati più tosti del previsto.

Non avevano, infatti, avuto bisogno di neanche un minuto per decidere cosa fare quando erano dovuti andare in aiuto del loro capo nella famosa rissa in palestra.

Così era stato in passato e, probabilmente, così sarebbe stato per tutti gli anni a venire.

In effetti, era stato automatico pensare a lui come il capo e dare il suo nome al gruppo.

Perché questo era per loro: un capo; una persona con una forza muscolare fuori dal comune, una testa calda ma dall’animo nobile. Anche loro erano andati oltre l’apparenza del buffone.

Il problema, però, era proprio questo: l’avevano idealizzato. Non che avessero un’opinione sbagliata di lui.

Tuttavia, credevano ciecamente alle sue parole, qualunque esse fossero, senza neanche l’ombra del dubbio.

Erano a conoscenza del fatto che lavorasse, del fatto che avesse cambiato casa, e anche dei suoi gusti sessuali. Sapevano anche che stava ancora male per la morte dei genitori.

Ma non s’interrogavano sul perché. Per loro era un semplice dolore dovuto alla mancanza delle due figure fondamentali nella vita di un adolescente. E non avevano mai dubitato delle sue parole.

Mito, invece, era andato oltre. Oltre il muro d’orgoglio dell’altro. E aveva intuito, dal racconto, che c’era qualcosa che non andava.

Per questo era stupito che anche Rukawa non si fosse lasciato abbindolare.

Con quella frase, giusta o sbagliata che fosse (non era sicuro, infatti, di aver capito se realmente intendesse quello che pensava lui) voleva dirgli questo.

Doveva aver capito, dalla sua titubanza, che l’argomento non era facile.

Si chiese se ci avesse pensato su o se fin dall’inizio fosse arrivato a una qualche ipotesi.

Per questo anche lui voleva incontrarlo. Volevano parlare della stessa cosa.

Si sorprese, ancora una volta, dell’empatia che sembrava avere Rukawa nei confronti di Hanamichi. Non si conoscevano da molto eppure quei due avevano un qualcosa che li legava indissolubilmente.

Ancora una volta fu lieto di questo.

Si accorse che era stato in silenzio, perso nei suoi pensieri, per alcuni minuti.

Rukawa, nel frattempo, non aveva accennato a parlare preferendo attendere silenzioso.

Mito si schiarì la voce e si apprestò a parlare. Oramai erano arrivati al punto cruciale dell’argomento.

Mito stava per dargli una risposta quando il suono del campanello lo interruppe.

Quando sua madre parlò per accogliere l’ospite entrambi sentirono il sangue ghiacciarsi nelle vene.

“Hanamichi caro, che bello vederti qui” stava dicendo la donna. “Ma che fai sulla porta? Entra pure”.

Nell’altra stanza le due figure non potettero fare altro che guardarsi allibite.

Mito aveva sgranato gli occhi, segno che non si aspettava quella visita.

Rukawa, anche non lasciando trapelare nessuna espressione era, se possibile, ancora più bianco del solito.

Tra l’altro, sembravano entrambi mummificati, dato che se ne stavano lì a guardarsi senza muovere neppure un muscolo.

Tutti e due con un solo pensiero nella testa:

E adesso?

Mito fu il più lesto dei due. Non che Rukawa non avesse spirito di improvvisazione ma dato che si trovava in una situazione scomoda, dove l’altro era a conoscenza di più cose, una delle quali era appunto la testa rossa che si trovava nell’altra stanza, lasciò che fosse Mito a suggerirgli cosa fare.

Tutto avvenne in pochi istanti.

Mito, infatti, sapeva di dover raggiungere al più presto l’ingresso per evitare che la madre straparlasse, e al contempo liberarsi dell’ingombrante ospite in cucina.

Stava per andare nell’altra stanza per trascinarsi di peso Hanamichi in camera sua quando la voce della madre lo fece immobilizzare seduta stante facendogli, se possibile, sgranare ancora di più gli occhi.

“Yo è in cucina, Hana caro, se vuoi raggiungerlo c’è anche un vostro compagno di scuola”.

Mito si voltò a guardare Rukawa che lo fissò con la stessa espressione di una statua di pietra.

Lo sentì solo mormorare sottovoce.

“Adesso sono cazzi!”.

 
Continua….
 
Note

Gli avvenimenti di questo capitolo sono sempre ambientati nella puntata 61 dell’anime e sono la continuazione della serata dei vari personaggi.

Come avrete notato, il capitolo è un po’ più corto rispetto ai miei standard.

È stata una cosa voluta e non per lasciare una certa suspance narrativa, ma soprattutto perché, come avrete notato, è un capitolo dove i dialoghi sono molto carenti, basato fondamentalmente sull’introspezione.

Già da un po’, infatti, volevo approfondire il rapporto tra Hanamichi e il suo gruppo, ed evidenziare le differenze tra Mito e gli altri, visto che anche nel canone Yohei sembra il personaggio più vicino a Hanamichi.

Io ho provato a spiegare il perché di ciò e spero di esserci riuscita in modo convincente.

Mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate!!!

Pandora86

 

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Capitolo 17
*** Decisioni ***


Ecco a voi il sedicesimo capitolo della storia!
Come al solito grazie per le bellissime recensioni!
Mi raccomando, continuate a farmi sapere cosa ne pensate!
Grazie anche a chi continua ad aggiungere la storia tra le preferite e le seguite!
E ovviamente grazie anche a tutti i lettori silenziosi!
Ci vediamo a fine capitolo per le note e per le informazioni riguardo alle prossime pubblicazioni.
Mi scuso in anticipo nel caso ci dovesse essere qualche errore di battitura. Leggo e rileggo ma sapete com’è… qualcosa mi sfugge sempre!!
Per adesso…buona lettura!!!!    
 
 
 
Capitolo 16.  Decisioni 
 

Mito non seppe mai chi potesse volergli tanto male lassù per essersi trovato in una situazione del genere.

Tuttavia, fu lesto a prendere l’iniziativa.

Si avvicinò a Rukawa sussurrandogli una frettolosa indicazione verso la finestra e si precipitò fuori dalla cucina proprio quando Hanamichi stava per entrarci.

Per poco non gli finì addosso, in effetti.

Rukawa nel frattempo, dopo averlo guardato male per l’idea ortodossa che aveva avuto per farlo togliere di mezzo, si apprestò a scavalcare la finestra sperando vivamente che non passasse nessuno.

Ci manca solo che mi prendano per un ladro, pensò sempre più di malumore sedendosi proprio sotto la finestra che aveva scavalcato con agilità e desiderando, per una volta nella sua vita, di avere almeno dieci centimetri in meno.

Tutta colpa tua do’hao. Sempre e solo colpa tua.

Tra l’altro, Sakuragi era arrivato proprio quando poteva avere le risposte che cercava. E, dall’espressione che aveva fatto Mito, era evidente che era stato preso anche lui in contropiede. Non lo aspettava e, tanto per cambiare, Sakuragi aveva scelto il momento meno opportuno per fare visita all’ amico.

Tuttavia, dovette ammettere che togliersi di mezzo era stata la soluzione migliore.

A quel punto della storia, non era proprio il caso che Sakuragi lo scoprisse a casa del suo migliore amico, per una serie di motivi. Primo fra tutti ci teneva alla sua incolumità e dubitava del fatto che Mito fosse stato tanto ansioso di rimanere senza una casa, considerando che l’ira della scimmia avrebbe potuto farla saltare in aria.

E soprattutto, i passi avanti che aveva fatto, e di cui Mito sembrava così sicuro, sarebbero andati tutti a farsi benedire.

Forse, quando in un futuro le cose si sarebbero aggiustate, lui e Mito avrebbero potuto raccontare a Sakuragi, fra una risata e l’altra, tutte le cose che stavano avvenendo in quel periodo. Ma adesso era decisamente presto.

Tuttavia, era deciso a scoprire il motivo per il quale Sakuragi si era recato lì. Aveva intuito, infatti, che in passato avesse rifiutato spesso l’ospitalità di Mito e che fosse andato in quella casa solo per motivi particolari.

Come quello della sera precedente, ad esempio.

Possibile che Hanamichi fosse ancora così sconvolto?

Rukawa non lo credeva possibile. Motivo per cui aveva deciso di rimanere proprio sotto la finestra.

Origliare non era il massimo e la posizione non era delle migliori.

Tuttavia, lui e Mito avevano un discorso da fare. Tra l’altro, sicuramente il ragazzo lo avrebbe visto nel momento in cui avesse deciso di chiudere la finestra, facendogli capire se fosse o meno il caso che restasse.

Ma tu guarda che razza di situazione, pensò sospirando piano.

La situazione, in effetti, poteva apparire comica se la si guardava da un punto di vista esterno.

Cos’è? Siamo finiti in uno di quei film, dove aleggia continuamente la suspance e i protagonisti vengono interrotti, sempre e solo, sul più bello? Pensò ancora con ironia.

Un rumore gli fece intuire l’entrata dei due in cucina.

“Allora Yo,” sentì dire a Hanamichi, “chi c’è in casa?”.

Dal rumore che ne seguì, intuì che, quello che sperava fosse Mito, doveva essersi avvicinato alla finestra per chiuderla. Rukawa alzò leggermente lo sguardo notando che si trattava proprio di Mito che gli lanciava un’espressione divertita.

In effetti, doveva apparire abbastanza ridicolo visto da quella prospettiva.

Un ragazzo alto quasi uno e novanta che è praticamente accasciato a terra con le spalle poggiate al muro e un gomito a sorreggerlo in quella posizione scomoda.

Tuttavia, nonostante la postura, non mancò di notare che Mito gli aveva lasciato uno spiraglio aperto.

Rukawa lo prese come un segnale positivo e si mise in ascolto. In fondo, anche in passato aveva origliato e anche in passato Mito, pur essendosene accorto, non aveva fatto nulla per impedirglielo.

L’unica differenza, in effetti, era quella che stavolta Rukawa era a conoscenza del fatto che Mito sapesse che c’era anche lui.

“Chi c’era, vorrai dire” lo sentì rispondere e, dal tono che aveva usato, Rukawa suppose stesse sorridendo.

L’ombra che veniva proiettata sul giardino gli diceva che Mito doveva aver dato le spalle alla finestra sedendosi sopra.

Non vuole correre rischi, pensò Rukawa prendendo il suo gesto come il permesso ufficiale per "partecipare" alla conversazione.

“Va bene, chi c’era allora?” si spazientì Sakuragi.
“È passato Noma. Voleva uno dei miei videogame” rispose sicuro Mito.

Rukawa ci avrebbe creduto, se non avesse saputo con esattezza che le cose non stavano propriamente così.

“Noma?” domandò scettico Hanamichi. “E allora, perché tua madre non mi ha detto subito che c’era anche lui?”.

E adesso, vediamo come la metti! Pensò ancora Rukawa.

“Beh” rispose Mito con noncuranza, “stasera doveva essere particolarmente svanita, considerando il fatto che non si è nemmeno accorta che è uscito” concluse convinto.

Ci sa fare, non c’è dubbio! Approvò mentalmente Rukawa.

“Comunque Hana, mi vuoi dire perché sei qui?” domandò, deviando definitivamente il discorso.

“Perché mi andava di vedere il mio migliore amico?” esclamò questi allegro.

“Ritenta” rispose Mito di rimando con un sorriso ironico.

“Ho bisogno di aiuto, Yo”.

Il tono si era fatto improvvisamente serio.

Rukawa si mise sull’attenti. Anche se erano stati interrotti sulla parte più importante della conversazione, quello che si apprestava ad ascoltare non sembrava meno importante.

Tra l’altro, aveva l’occasione più unica che rara di ascoltare Hanamichi parlare di uno dei suoi tanti problemi.

Questa volta non era Mito che lo illuminava a proposito della vita del do’hao.

Ma era Sakuragi stesso a parlare. E, anche se sapeva che era sbagliato quello che stava facendo, sapeva anche che non si sarebbe mosso di lì.

Anche volendo, non avrebbe potuto. Sakuragi era come una calamita per lui. L’attrazione che esercitava era una cosa su cui Rukawa aveva smesso di interrogarsi da tempo.

Un po’ come quando si cerca di nuotare controcorrente. S’impiegano tutte le proprie forze ma non si ottiene nulla fino a che, una volta che si decide di lasciarsi trasportare, si scopre che è infinitamente più piacevole.

E Rukawa non era il tipo da sprecare forze in qualcosa d’inutile.

Perché lottare contro quello che provava verso il do’hao era proprio questo: una battaglia persa in partenza.

 Lui non ci aveva mai neanche provato. A lui importava sapere. Una volta capito quello che provava, l’aveva accettato senza problemi.

Perché Rukawa era fatto così. Non si negava quello che lo faceva stare bene.

E s’infischiava di tutto, a parte di quello che rientrava nei suoi interessi.

Da questo punto di vista, la sua mente era più semplice di quella del do’hao.

Strano a dirsi ma lui, che all’apparenza sembrava un carattere difficile, era in realtà molto più pratico e chiaro sotto certi punti di vista.

Le ragazzine a scuola sognavano su di lui, immaginando chissà quali film sulla sua vita, per motivare i suoi silenzi e la sua solitudine.

Ma lui in realtà di motivo non ne aveva nessuno. Non gli piaceva la gente, né il rumore. Né gli interessava la scuola o la socializzazione con i suoi compagni.

Lui voleva una carriera come giocatore di basket. Di conseguenza, le altre cose non gli interessavano. E questo, per Rukawa, era un ragionamento semplice e coinciso, proprio come tutta la sua persona.

A differenza di Sakuragi che, con il con il suo carattere cristallino e ridanciano, dava l’impressione che il mondo fosse tutto una giostra.

A scuola si limitavano a credere che fosse un teppista e un buffone. Rukawa era, infatti, sicuro che mai i compagni di scuola si fossero interrogati su Sakuragi e sulla sua vita, anche quando era entrato nella squadra e di conseguenza aveva acquistato una certa popolarità.

Nessuno sapeva quanti tormenti avesse il do’hao. Nessuno sapeva veramente quali pensieri celasse.

Rukawa era sicuro che neanche in cent’anni sarebbe riuscito a conoscere tutte le sfumature del suo carattere.

Era come il basket. Quando si superava un ostacolo, un altro immediatamente faceva la sua comparsa sfidandolo a superarlo.

Per questo se ne era sempre sentito attratto.  Poi l’attrazione era cresciuta trasformandosi in amore. Un amore profondo, fatto di gesti più che parole.

E Rukawa l’aveva accettato senza problemi. Perché negarsi di pensare alla testa rossa se questo lo faceva stare bene?

Ma Sakuragi non era così. La sua mente era sempre un caotico cumulo di domande e di perché.

Ed era questo il motivo per cui non si sarebbe mai schiodato da quella posizione.

Voleva sentire Hanamichi parlare. Parlare veramente però. Anche se era sbagliato, non era importante.

Niente era più importante del compagno di squadra che parlava di se regalando a lui la prima vera occasione di ascoltarlo.

Sentì Sakuragi sospirare, distogliendosi dai suoi pensieri.

Mito non aveva ancora parlato. Segno che ascoltava attento, non forzando l’altro al dialogo scegliendo, in questo modo, di rispettare i suoi tempi.

“Sai…” incominciò Sakuragi, “ho trovato un lavoro”.

“Un altro?”.

“Già, ma non è come credi; non sono stato licenziato. Mi serviva semplicemente un altro lavoro per arrotondare”.

“Hana, mi spieghi che senso ha tutto questo?”.

“Yo, lo sai che non voglio niente da nessuno. Non voglio i soldi del fratello di mio padre”.
“È tuo zio Hana, ed è suo dovere mantenerti”.

“Già, peccato che io non voglia niente da lui. Non siamo mai stati in buoni rapporti e mai lo saremo. Non voglio la sua pietà, soprattutto quando non si è degnato neanche di venire al funerale di mio padre”.

Rukawa sentì Hanamichi alterarsi.

Quindi, provvedeva da se a tutte le spese, come aveva ipotizzato del resto.

“Va bene Hana. Mi dici come posso aiutarti?” sentì Mito che deviava nuovamente il discorso per non irritare ulteriormente Sakuragi.

“Ecco…” incominciò titubante il rosso grattandosi la testa, “non so se hai notato che figura ho fatto agli allenamenti”.

“La figura di uno che gioca da pochi mesi” lo consolò Yohei sapendo cosa frullava nella testa dell’altro.

“La figura di un’imbecille, Yo” rispose Hanamichi con tono stanco. “E sono stufo di non riuscire mai a combinare nulla di buono”.

A quella frase Rukawa s’intristì. Se solo Hanamichi gli avesse dato l’opportunità di aiutarlo quante cose sarebbero cambiate.

Purtroppo però l’orgoglio della testa rossa sembrava duro da abbattere. Ma del resto, se non fosse stato così, Rukawa sapeva che l’interesse verso Hanamichi non sarebbe cresciuto fino a quel punto.

“Tra l’altro” continuò questi, “non so se hai notato Rukawa”.

“Intendi quando siete rimasti appesi al canestro a becchettare come due galline? Ammetto che è stato divertente” e qui, il tono di Mito, era ironico.

Rukawa abbozzò un mezzo sorriso. Doveva essere stato veramente ridicolo appeso lassù a litigare col do’hao.

“Anche, ma non solo. Mi riferisco all’inizio della partita”.

“Quando ti ha detto di stargli lontano?” continuò Yohei facendosi improvvisamente serio. Tutti in palestra avevano sentito i loro toni durante quello scambio di battute.

“Già, pensa che io sia una nullità” disse Sakuragi stancamente.

Per Rukawa quelle parole furono un colpo al cuore.

Quanto sarebbe voluto uscire allo scoperto e urlargli che non era così.

Urlargli che non aveva capito niente. Prenderlo a pugni, se necessario, per farglielo capire. Poi abbracciarlo e dirgli che lui gli sarebbe sempre stato accanto e che doveva smetterla di ignorare l’alchimia che scorreva tra loro.

Ma non poteva. Ancora una volta, aveva le mani legate.

“Non credo sia così Hana” cercò di rassicurarlo Mito.

“Mi ha detto, espressamente, che non so tirare” continuò Hanamichi.

“Beh, è la verità” cercò di farlo ragionare il suo braccio destro.

“Lo so che è la verità, Yo” scattò Hana. “Lo sa anche il gorilla. Lo sanno tutti che se non imparo a giocare non sarò di nessuna utilità alla squadra”.

“Se non impari a tirare” lo corresse paziente Mito, “non sarai di nessuna utilità in attacco”.

“Non cambia molto!” Rukawa lo sentì borbottare. “In ogni caso, voglio cambiare Yo, e tu devi aiutarmi”.

“Come? Non credo di poterti insegnare a tirare. Al massimo, potresti chiedere a Rukawa” buttò lì Mito.

“Ah, ah, ah, era una battuta, Yo?” domandò Hanamichi sarcastico.

“No, per niente. Potresti sul serio chiedere a lui”.

“Sì, come no! Di sicuro mi aiuterebbe. Ci metto le mani sul fuoco. Soprattutto visto quanto non mi considera”.

“Questo non è vero, Hana” lo interruppe serio Mito. “Soprattutto, dopo quello che c’è stato tra voi”.

A quelle parole, Rukawa si fece ancora più attento.

“Ma hai visto come mi ha trattato durante l’allenamento?” s’inalberò. “A lui interessa solo il basket, ed io non so giocare, punto”.

“E tu invece? Come ti sei comportato con lui?”.

“Che vuoi dire?”.

“Beh, tu lo sai che io ti sostengo e ti appoggio sempre ma, puoi veramente dire che il tuo comportamento è stato corretto?”.

“Ma lui non lo sa” si incaponì Sakuragi.

“Questo non ha importanza. Perché l’hai baciato, se poi sei scappato? Perché gli hai fatto credere di dormire? Puoi forse dire di essere stato corretto nei suoi confronti?”.

“Perché NON VOLEVO FERIRLO” urlò Hanamichi interrompendo la sequenza di domande dell’altro.

Rukawa, a quella frase, sbarrò gli occhi.

“Non volevo insultarlo facendogli credere qualcos’altro” stavolta, il tono era basso. “Non ce l’ho fatta Yo. Volevo sentirlo mio, anche se per qualche minuto. Ed è per questo che non posso chiedergli più nulla. Non dopo quello che ha fatto per me. Però, c’è ancora qualcosa che posso fare per lui e per la squadra”.

Rukawa non credeva di essere una persona dalle lacrime facili. Eppure, quelle parole gli avevano messo  addosso un’insensata voglia di piangere.

E così, il do’hao non aveva voluto ferirlo. Sakuragi non sapeva che il suo sentimento fosse ricambiato. Si era lasciato andare, non riuscendo a resistere a quel contatto, con questa convinzione nella testa.
Per quanto negasse i sentimenti che provava, inconsciamente, non poteva fare a meno di sperare nelle sue attenzioni.

Quel bacio poi doveva averlo confuso ancora di più, convinto com’era che l’unico interesse del suo acerrimo rivale fosse solo una palla arancione.

Tuttavia, non aveva voluto neanche umiliarlo dicendogli che provava disgusto per lui. Non per mentire ancora una volta a se stesso. Ma per non ferire lui.

“Per questo sono venuto qua” la voce di Sakuragi lo riscosse, ancora una volta, dai suoi pensieri.

“Akagi ha detto che mi farà fare, dopo ogni allenamento, duecento tiri. Abbiamo cominciato stasera. Io, invece, voglio farne duecento anche ogni mattina prima di andare a scuola”.

“Capisco!” lo interruppe Yohei. “Visto che casa mia è più vicina alla scuola, puoi organizzarti anche meglio con il lavoro. Sai già che non c’è problema”.

“Già” ammise l’altro. “Devo farlo Yo. Voglio farlo! Questa volta, voglio impegnarmi. Tra un po’, giocheremo contro il Takezato ed io voglio essere di aiuto alla squadra. Ma, soprattutto, non voglio essere un ostacolo per i suoi sogni”.

A questa affermazione sia Rukawa che Mito capirono chi fosse il soggetto.

“Conta su di me, Hana”.

“Grazie, Yo! Sai, giocare mi aiuta. Tuttavia, io non so dove questo mi porterà. Non so se sceglierò di continuare a giocare o meno. Rukawa, invece, non è così. Per lui conta solo il basket. Lui ha dei sogni, degli obiettivi, come Akagi.

E, se non posso essergli di aiuto, non voglio neanche essergli d’intralcio”.

A quella frase, Rukawa si alzò, senza fare rumore, per andarsene.

Aveva molto da pensare quella sera, e non si preoccupava del fatto che Mito si domandasse il perché fosse andato via. Sapeva che avrebbe capito il suo gesto.

Non voleva sentire altro. Non ne aveva bisogno.

Era vero che c’era un discorso lasciato in sospeso. Ma non gli interessava più.

Perché era con Hanamichi che doveva parlarne. Sia che i suoi sospetti fossero giusti, sia che fossero sbagliati.

Dovevano smetterla di andare avanti a malintesi e sotterfugi. Era ora di parlare chiaro.

Soprattutto, dopo aver sentito il discorso del do’hao.

Per la prima volta, si era sentito in colpa. Un intruso.

Quello che Hanamichi voleva fare per lui, nonostante avesse a malapena il tempo per dormire, l’aveva scosso.

Si chiese quanto gli costasse chiedere ospitalità al suo amico. Non perché fosse Mito. Ma perché l’abitazione del suo migliore amico era vicina alla casa dove, da tempo, si rifiutava di entrare.

E, tutto quello, lo stava facendo per lui. Ma la cosa che gli faceva più rabbia era che se non avesse origliato, non l’avrebbe mai saputo.

E lui era stato frettoloso e impulsivo. Si era lasciato trasportare dalla rabbia quando aveva capito che non dormiva, quando l’aveva baciato. Ma non aveva compreso il perché del suo gesto.

Ma le cose presto sarebbero cambiate. Lui le avrebbe cambiate.

Non sarebbe più andato in cerca d’informazioni. Le avrebbe chieste direttamente all’interessato.

E forse, poco alla volta, Hanamichi gli avrebbe rivelato i suoi pensieri e i suoi tormenti. Ma solo quando e se avesse voluto.
 

                                                    ……………………………………………..

 

Mito mise in moto.

Hanamichi gli aveva chiesto di accompagnarlo al lavoro e procedeva spedito sul suo fidato motorino.

Aveva notato immediatamente la non presenza di Rukawa.

Le rivelazioni dell’amico dovevano averlo scosso.

E, conoscendo il numero undici, aveva capito che non avrebbero più avuto modo di continuare la loro conversazione.

Rukawa avrebbe interagito direttamente con Hanamichi.

E forse, era meglio così. Poteva darsi che questa nuova situazione avrebbe portato a qualcosa di buono.

Ed era ora che entrambi costruissero da soli il loro rapporto. Senza suggerimenti e incontri nascosti.

Credo che le cose stiano cambiando in meglio, pensò sorridendo Mito.

Quella sera era di buon umore e il vento sulla faccia gli dava una piacevole situazione di benessere.

Finalmente, sembrava che le cose stessero andando al posto giusto.

Ora, non restava che vedere come sarebbero andati i giorni seguenti.
 


Continua….
 
Note :
  

Gli avvenimenti narrati in questo capitolo sono la mia personale conclusione della  puntata 61, cioè la fine della serata dei nostri protagonisti e di Yohei.

Per quanto riguarda l’accenno sullo zio di Hanamichi, è completamente inventato da me. Non avendo informazioni sulla sua famiglia, supporre di uno zio, magari in cattivi rapporti con il nipote, credo che non contrasti in alcun modo il canone.

Ci sarà comunque, successivamente, un approfondimento, nei capitoli più avanti, sulla vita che conduce Hanamichi. Anche se credo che i suoi legami familiari, oltre a quelli riguardanti il padre e la madre, saranno solo lievemente accennati.

Spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto… attendo ansiosa i vostri commenti!

Ci vediamo domenica prossima con il nuovo capitolo!

Pandora86
  

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Capitolo 18
*** Per Lui ***


Ecco a voi il diciassettesimo capitolo della storia!
Come al solito, grazie per le bellissime recensioni!!!!
Mi raccomando, continuate a farmi sapere cosa ne pensate!!!
Grazie anche a chi continua ad aggiungere la storia tra le preferite e le seguite e, ovviamente, grazie anche a tutti i lettori silenziosi!!!
Ci vediamo a fine capitolo per le note e per le informazioni riguardo le prossime pubblicazioni.

Mi scuso in anticipo nel caso ci dovesse essere qualche errore di battitura. Leggo e rileggo ma sapete com’è… qualcosa mi sfugge sempre!

Per adesso…buona lettura!!!!    
 


Capitolo 17. Per Lui
 


Rukawa, quella mattina, si era svegliato più tardi del solito.

Troppe cose da pensare che lo avevano tenuto sveglio quasi fino all’alba.

Il pensiero di quello che il do’hao voleva fare per lui lo rendeva immensamente felice. Quella sera, una nuova sensazione gli aveva invaso l’animo.

Sensazione a cui non aveva saputo dare un nome. Ma, per la prima volta in vita sua, era realmente felice. Si sentiva completo.

Non solo il do’hao lo ricambiava, ma questo lo sapeva già da un po’.

Ma per la prima volta, da quando era iniziata quella storia, sentiva di avere costruito qualcosa con il compagno di squadra.

Non che lui avesse fatto molto. Non credeva, infatti, c’entrassero gli abbracci e l’unico bacio che c’era stato. Erano stati rilevanti, ma non fondamentali.

E lui conosceva troppo bene il do’hao per sapere che, anche se per assurdo gli avesse fatto una serenata sotto casa, ammesso che prima o poi fosse venuto a conoscenza di dove abitava, Sakuragi non si sarebbe sbilanciato in quel modo se non lo avesse realmente voluto.

Non che fosse andato da lui a dirgli qualcosa. Però aveva pensato a lui. Si era preoccupato per lui.

E questo non sarebbe mai successo se finalmente Sakuragi non avesse deciso di accettare quello che provava. Certo, la strada era ancora lunga, ma si poteva dire che quello era già qualcosa.

E a Rukawa, questo qualcosa, aveva riscaldato il cuore. Molto più del bacio e dei due abbracci.

Perché quelli erano gesti che per il momento erano rimasti fini a loro stessi essendo stati creati dalle situazioni che ne erano scaturite.

Invece, il fatto che Sakuragi si preoccupasse di non intralciare il suo sogno e che volesse aiutarlo nella sua realizzazione era un qualcosa di più grande.

Un segno che il compagno di squadra si preoccupava per lui e del suo futuro anche se pensava che i suoi sentimenti non fossero ricambiati. Anche se, probabilmente, avrebbe continuato a insultarlo davanti a tutti.

Soprattutto, era un gesto dove il compagno di squadra non voleva nessun ringraziamento perché Rukawa stesso non avrebbe mai dovuto saperlo.

E questo era infinitamente più grande. Questo era il cuore del do’hao e rappresentava il suo altruismo. Perché quasi nessuno si sarebbe impegnato così tanto in qualcosa per non ricevere nulla in cambio, ma soprattutto senza neanche farlo sapere al diretto interessato.

E mai nessuno si era preoccupato così per lui. Suo padre no di certo. Sua madre probabilmente sì, ma lui era troppo piccolo per ricordarlo.

All’ingresso della scuola, gli saltò subito all’occhio il fedele gruppo degli amici di Hanamichi che si affrettavano per entrare.

Tuttavia, quella mattina non c’era nessun do’hao da investire.

Notò, con la coda dell’occhio, Mito rivolgergli un sorriso enigmatico.

Doveva aver capito il perché della sua improvvisa sparizione la sera precedente.

Gli rivolse un impercettibile cenno prima di entrare a scuola.

Da qui in poi me la vedo io, pensò sicuro dirigendosi in classe.

Ed era vero. Da quel momento in poi se la sarebbe vista solo ed esclusivamente lui.


 
                                         ……………………………………………………
 


Mito guardava Hanamichi dormire alla grossa durante la lezione. Si era dato da fare quella mattina. Non l’aveva neanche svegliato per andare a scuola.

Al posto del futon aveva trovato un semplice bigliettino con scritto “grazie” e Mito aveva sorriso commosso.

Non che lui avesse fatto molto. Ma era contento di poter essergli almeno un po’ d’aiuto.

Hanamichi era una persona molto riconoscente, e Mito si riteneva fortunato ad avere la possibilità di potergli essere così vicino.

In quel grazie non richiudeva solo il ringraziamento per averlo ospitato, e questo Mito l’aveva capito. Rappresentava un grazie per esserci e per non averlo mai lasciato solo, e questo aveva toccato il cuore di Yohei che aveva sentito crescere l’affetto verso quel ragazzo dai capelli rossi che, in quel momento, ronfava beatamente sul banco incurante del professore, schiumante di rabbia per quel poco interesse verso le sue lezioni.

Quella mattina, aveva preso il biglietto tra le mani e l’aveva conservato in un cassetto con un sorriso. Quel foglio rappresentava il loro legame e la loro amicizia, e valeva più di mille regali per Yohei. Per questo l’aveva conservato con tanta cura; anche se, probabilmente, a Hanamichi non l’avrebbe mai detto.
 


                                          …………………………………………………………
 


Rukawa si stava apprestando a uscire dallo Shohoku. Gli allenamenti erano finiti e Sakuragi era rimasto ad allenarsi, come da programma, con il capitano.

Quella mattina, passando davanti alla sua classe, l’aveva visto dormire sul banco.

Non che Sakuragi fosse molto diligente, ma sapeva per certo che non era sua abitudine dormire a scuola durante le lezioni. Preferiva fare casino e mettersi in mostra.

Quella mattina, invece, aveva fatto il suo allenamento supplementare e doveva essere molto stanco.

Nonostante tutto, si era presentato agli allenamenti pieno di energie come il solito.

Rukawa gli si era tenuto il più distante possibile per non disturbarlo ulteriormente. In fondo, ignorarsi era la normalità tra loro. Soliti do’hao seguiti da baka kitsune, ma null’altro.

Non aveva senso andare a impelagarsi in cose più grandi di loro quando Sakuragi sembrava aver trovato una parvenza di normalità, uno scopo.

Perché il suo discorso era stato chiaro la sera prima. Si sentiva una nullità perché non aveva la certezza che può dare un obiettivo. A differenza di Rukawa, che sapeva già perfettamente cosa voleva dalla vita.

Ora invece aveva uno scopo, seppur momentaneo, di conseguenza lo avrebbe lasciato fare.  C’era tempo per altre cose, e Rukawa avrebbe aspettato.

Sakuragi stava lavorando duramente e, per questo, il numero undici lo rispettava.

Un pensiero lo fece fermare improvvisamente.

Sakuragi non stava solo lavorando duramente. Stava lavorando più duramente di tutti… anche di lui!

Non ci aveva pensato. Era una cosa ovvia, ma non vi aveva badato.

Il do’hao, come lo chiamava lui, stava lavorando più duramente anche della super matricola, per aiutare l’asso dello Shohoku a realizzare il suo sogno.

Non il sogno di Sakuragi…  ma quello di Kaede Rukawa.

Cambiò immediatamente direzione avviandosi verso la palestra.

Non sarebbe intervenuto, ma aveva un’improvvisa voglia di essergli vicino.

Rientrò veloce negli spogliatoi sedendosi vicino all’entrata della palestra.

Il do’hao continuava a tirare. Nonostante avesse dormito poco. Nonostante, dopo dovesse, quasi sicuramente, recarsi a lavorare. Nonostante avesse appena finito un allenamento pesante, proprio come lui.

Continuava a tirare… senza lamentarsi.

E si impegnava… più di tutti. Rukawa lo poteva notare dalla sua fronte corrugata. Dall’attenzione con cui ascoltava le parole del capitano.

Rukawa riconobbe quello sguardo. Era lo stesso di quando aveva spiato per la prima volta i suoi allenamenti, nel campetto vicino casa.

Non che allora lo stesse proprio spiando. In realtà, aspettava che gli liberassero il campo. Eppure… il sentimento che provava verso il do’hao era già presente, anche se un po’ più vago. Era stata, infatti, quella volta che aveva pensato a lui chiamandolo con il suo nome.

Quanto tempo era passato… e anche lo sguardo di Hanamichi era mutato, in effetti.

Aveva quella luce decisa che Rukawa cercava continuamente, tuttavia, era più maturo.

All’epoca, Sakuragi non si era fatto mancare qualche teatrino con la sorella del capitano. E dubitava che questo dipendesse dal fatto che dovesse mantenere “alta” la sua reputazione. Erano solo loro due e la ragazzina era un po’ troppo ingenua. Che l’avesse corteggiata o meno nel suo solito modo teatrale non avrebbe fatto nessuna differenza. Lei non si sarebbe accorta di una diversità nel comportamento della scimmia.

Invece adesso… aveva di nuovo quello sguardo ma… era più maturo.

Ascoltava Akagi che parlava, ma era come se fosse solo. Come se non volesse più fingere… come se non ne avesse più il tempo.

E anche questo lo stava facendo per lui. Era disposto anche a questo pur di non intralciarlo.

Si rendeva conto che non aveva più molto tempo.

La partita era vicina e Sakuragi si stava allenando come un matto. Per Lui.

Non entrerà, pensò guardando un ennesimo tiro di Sakuragi.

E, infatti, la palla aveva centrato il ferro. Ciò nonostante, Rukawa notò che il numero dieci stava iniziando a prendere familiarità con il tiro.

Perché Sakuragi stesso aveva capito che non sarebbe entrata ancora prima che la palla toccasse il ferro. Rukawa lo aveva capito dalla sua espressione.

E questo aveva dell’incredibile. Aveva iniziato solo il giorno prima a tirare, eppure già era a quel punto di familiarità.

“La palla mi è scivolata” lo sentì dire, quasi per giustificarsi.

E lui non aveva bisogno di giustificazioni.

Sei stanco do’hao. Sei solo troppo stanco maledizione! Pensò con rabbia. Non sei tu che non vali niente.

“Allora, va ad asciugarti” fu la laconica risposta di Akagi.

A riposare no, eh?! Pensò ancora Rukawa con rabbia.

Ma, in fondo, non aveva molto senso prendersela con Akagi. Lui non sapeva.

Anzi, il fatto che lo allenasse dimostrava in realtà quanto contasse su di lui.

Anche Akagi avrebbe voluto avere più tempo. Rukawa lo capì dallo sguardo che rivolse al do’hao mentre andava ad asciugarsi.

“Eccomi, gorilla! Pronto a riprendere l’allenamento” lo sentì dire con il suo solito tono baldanzoso.

“Bene! Quante energie”.

“Sono Hanamichi Sakuragi, il giocatore con più talento e carattere che ci sia”.

“Sempre modesto”.

Rukawa sorrise nel sentire quella frase.

Lo sei do’hao. Lo sei sul serio in questo momento.

E Rukawa gli sarebbe rimasto vicino. In ogni caso.

Un applauso interruppe un ennesimo tiro di Sakuragi che era andato a segno.

“Ciao quattr’ occhi” sentì dire da Hanamichi.

Kogure?! Che ci fa anche lui, qui? Si domandò Rukawa.

“Pensavo fossi già andato a casa” intervenne, sorpreso, Akagi.
“È tardi, sicuramente i tuoi ti daranno per disperso” aggiunse Sakuragi con una faccia da ebete.

“E i tuoi, allora?” rispose Kogure, accompagnando la domanda con una risata allegra.

Lui non ha nessuno che lo aspetti, pensò Rukawa triste. E, come aveva previsto, nessuno lo sapeva.

Quanto avrebbe voluto cambiare quella situazione. Anche lui non aveva nessuno che lo aspettasse a casa. Però a lui quella condizione non era mai pesata.

Lui aveva il basket e non gli serviva nient’altro. Non si era mai fatto problemi relativi al fatto che i suoi compagni avessero i genitori a casa e lui no, anzi.

Lui viveva quella situazione come un privilegio. Non aveva dei genitori pedanti che intralciavano il suo scopo.

 Per il do’hao, invece, doveva essere diverso. E lo dimostrava la domanda fatta al sempai. Lui non dimenticava mai il suo dolore. E stava male per quella mancanza.

All’improvviso, a Rukawa la sua casa sembrò troppo grande e troppo silenziosa.

S’immaginò quanto sarebbe stato diverso se ogni sera fosse rincasato con Sakuragi.

Svegliarsi con lui il mattino.

E si rese conto che non era la casa a essere silenziosa. Per lui, il silenzio andava fin troppo bene. Era la mancanza di Hanamichi nella sua vita che gli pesava. Sapeva che non avrebbe tollerato, infatti, altra gente in casa o altre voci che rimbombavano fra le pareti all’infuori di quella della scimmia. Era lui l’unico che avrebbe potuto riempire i suoi silenzi. L’unico che avrebbe mai ascoltato.

Chissà dove abitava Sakuragi. Gli sarebbe piaciuto andare a casa sua, quella dove attualmente risiedeva.

Probabilmente abitava con lo zio, in fondo era sempre un minore. Ma questo non gli cambiava granché, anzi forse lo faceva sentire ancora più solo considerato che non dovevano essere in buoni rapporti.

Si chiese quanto gli pesasse tornare a casa. Quanto fosse difficile la vita per lui.

E, per la prima volta, si vergognò della sua situazione. Del lusso che traspariva in ogni angolo di casa sua. Della facilità della sua vita.

Lui aveva un bell’assegno mensile che suo padre gli passava, e non si faceva nessuno scrupolo nell’utilizzare quei soldi. Lui aveva il suo scopo e solo questo era rilevante.

Sakuragi, invece, no. Aveva il suo orgoglio. La sua dignità. E non voleva niente da nessuno.

Anche se questo significava fare i salti mortali.

Quanto avrebbe voluto che la sua vita fosse più facile e, a quel pensiero, un’idea gli balenò in testa.

Forse le cose possono cambiare anche subito, pensò con un lieve sorriso che gli aleggiava sul volto.

La voce di Kogure interruppe i suoi pensieri.

“Ero alla stazione della metropolitana, ma poi sono tornato indietro. Se posso fare qualcosa, ditemelo”.

Quindi, anche lui si era reso conto che Sakuragi stava lavorando più di tutta la squadra messa assieme, nonostante non sapesse fino a che punto arrivassero i suoi sacrifici.

“Va bene” fu la risposta di Akagi. “Adesso vediamo come te la cavi, Hanamichi. Kogure, tu gli passi la palla ed io mi metto in difesa.

Non preoccuparti, non mi muoverò” continuò poi, rivolto a Sakuragi. “Mi limiterò a stare fermo, con le braccia alzate. Tu dovrai evitarmi e andare a canestro. Guarda che non sarà facile come prima”.

“Ma figuriamoci, sono un campione l’hai dimenticato?”.

“Ok! Cominciamo” si preparò Kogure.

“Pronto” fu l’urlo di Hanamichi che ricominciò il suo allenamento più carico che mai.

“Visto? Quando hai qualcuno davanti, ti scomponi. Ricordati quello che ti ho detto” lo riprese Akagi.

Coraggio do’hao. Sei un campione, lo dici stesso tu, anche se in fondo non ci credi, pensava intanto Rukawa incoraggiandolo silenziosamente mentre continuava a osservarlo di nascosto.

“Bravo! Adesso hai capito come si tira, continua così” si complimentò  Kogure.

“Grazie” fu la riconoscente risposta di Sakuragi. “So che per colpa mia ti beccherai una sgridata dai tuoi”.

Rukawa s’intristì nuovamente a quella frase. Kogure non lo sapeva, ma in quel momento era come se Sakuragi avesse espresso un desiderio per se stesso.

Di questo ne era abbastanza sicuro. Si chiese quante volte in passato i suoi defunti genitori l’avessero sgridato perché tornava tardi a casa. Gli aveva detto lui stesso di essere stato un figlio decisamente scapestrato.

Probabilmente, Sakuragi avrebbe dato tutto quello che aveva per essere al posto di Kogure in quel momento.

Le cose cambieranno do’hao, si ripromise Rukawa ancora una volta.

Perché, anche se non poteva più ridargli i genitori, Sakuragi avrebbe potuto comunque avere il calore di qualcuno caro accanto.

Ascoltò distrattamente il discorso di Kogure mentre un’idea nella sua testa prendeva sempre più forma.

Anche Rukawa avrebbe fatto qualcosa o, quantomeno, avrebbe tentato. E l’avrebbe fatto subito.

Sakuragi stava facendo enormi sacrifici per lui.

E Rukawa avrebbe ricambiato. Al diavolo se, probabilmente, avesse dovuto sprecare qualche parola in più e rinunciare un po’ al suo orgoglio.

La cosa non lo toccava minimamente.

Perché l’avrebbe fatto per Lui.
 
 


Continua…
 
Gli avvenimenti letti in questo capitolo sono ambientati nella puntata 62 dell’anime.

In quella puntata, Sakuragi inizia il suo allenamento speciale in vista della partita contro il Takezato.

I discorsi con Akagi e l’intervento di Kogure sono presi dal canone, come avrete notato.

In pratica, ho aggiunto la presenza nascosta di Rukawa e i suoi pensieri durante l’allenamento di Sakuragi.

Ho anche inventato di sana pianta la mattina di Sakuragi prima dell’allenamento e la scena che riguarda Mito, sfruttando il fatto che nel canone ci viene fatto vedere il protagonista che dorme sul banco dopo essersi allenato.

Io ho preso quella scena ampliandola e aggiungendoci particolari di mia invenzione per adattarla alla storia che narro.

Mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate.

Ci vediamo domenica prossima con il nuovo capitolo.

Pandora86

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Capitolo 19
*** Ti stavo aspettando! ***


Ecco a voi il diciottesimo capitolo della storia!
Come il solito, grazie per le bellissime recensioni!
Mi raccomando, continuate a farmi sapere cosa ne pensate!
Grazie anche a chi continua ad aggiungere la storia tra le preferite e le seguite e, ovviamente, grazie anche a tutti i lettori silenziosi!
Ci vediamo a fine capitolo per le note e per le informazioni riguardo alle prossime pubblicazioni.
Mi scuso in anticipo nel caso ci dovesse essere qualche errore di battitura; leggo e rileggo ma sapete com’è… qualcosa mi sfugge sempre!

Per adesso… buona lettura!
 
 
 
Capitolo 18. Ti stavo aspettando!
 

L’allenamento era finito. Finalmente, Sakuragi aveva finito i suoi trecento tiri supplementari.

“Vatti a cambiare, Gorilla! Finisco io qui di mettere a posto” disse Sakuragi rivolto al suo capitano.

“Quante energie che abbiamo stasera”.

“Ah, ah, ah, soonoo un Teeensaai! Ah, ah, ah”.

“Come non detto; ci vediamo domani. Mi raccomando, puntuale!” aggiunse severo Akagi prima di andarsene.

Rukawa osservò Sakuragi mettere i palloni dentro la cesta con calma.

A ogni pallone riservava un sorriso. Si vedeva che era soddisfatto del suo allenamento.

Rukawa si sentì orgoglioso di lui.

Aveva visto quanto l’avesse colpito il discorso di Kogure. Discorso che Rukawa aveva ascoltato distrattamente. Era stato più interessato a osservare l’espressione di Sakuragi.

Rukawa conosceva quell’espressione. Era la stessa di quando aveva sostituito Akagi durante la partita contro il Kainan.

Aveva assimilato ogni parola di Kogure e l’aveva fatta propria.

La speranza del vice capitano di andare ai campionati nazionali. La sua paura che quella contro il Ryonan fosse la sua ultima partita.

Sakuragi lo aveva ascoltato attentamente e si era impegnato ancor più seriamente.

Rukawa, invece, aveva provato un certo fastidio nell’ascoltare il discorso del sempai.

Ma sì, aveva pensato, giusto per mettergli altra pressione addosso!

Fortuna che Akagi l’aveva interrotto, rassicurandolo che non avrebbe rinunciato proprio a niente, perché loro sarebbero arrivati ai campionati nazionali.

Tuttavia, Sakuragi era rimasto colpito. Aveva capito che anche Kogure aveva degli obiettivi e, sicuramente, aveva fatto la differenza con se stesso.

Per questo era voluto rimanere in palestra da solo. Probabilmente sentiva il bisogno di riflettere. Rukawa ci avrebbe messo le mani sul fuoco.

E poi, per lui che differenza faceva rimanere un’ora in più in palestra?

A casa non aveva nessuno ad aspettarlo.  Questa cosa gli pesava molto più di quanto fosse disposto ad ammettere.

Invece, la palestra rappresentava la sua casa. L’unica in cui volesse stare dopo un allenamento massacrante.

Ma le cose non avrebbero dovuto continuare ad andare necessariamente in questo modo.

In effetti, Rukawa si sorprese leggermente per la direzione che avevano avuto i suoi pensieri.

Doveva ammettere che, quando aveva capito i gusti sessuali di Hanamichi e l’interesse che questi covava segretamente per lui, aveva pensato a loro come una coppia, ma mai al fatto che potessero abitare insieme.

Aveva pensato che, di tanto in tanto, avrebbero potuto dormire insieme, ma mai che Sakuragi occupasse un posto definitivo nella sua casa.

E non perché non lo volesse; semplicemente, perché non ci aveva mai pensato.

Questo, probabilmente, era anche dovuto alla sua giovane età.

Era strano, infatti, che un sedicenne volesse già andare a vivere con la persona che amava.

Di solito, queste erano cose che si progettavano in un futuro più o meno remoto.

Tuttavia, quella sera aveva capito. Sentendo Sakuragi parlare, aveva capito che avrebbe voluto dargli il calore di una famiglia. Che avrebbe voluto fargli capire che ci sarebbe stato lui ad aspettarlo a casa se solo il numero dieci l’avesse accettato.

E anche Rukawa voleva questo. Anche lui voleva che ci fosse la scimmia ad accoglierlo fra le mura della sua enorme abitazione. Voleva che riempisse i suoi silenzi e che lo riscaldasse in ogni momento con il calore che emanava dal suo sorriso.

Però, sapeva anche che non sarebbe stato facile convincerlo.

Ma non era questo a scoraggiarlo; o non si sarebbe chiamato Kaede Rukawa.

L’importante era farglielo capire. Insinuargli l’idea nella testa.

Sapeva, infatti, che la scimmia ci avrebbe pensato. E, presto o tardi, avrebbe ceduto.

Sarebbe entrato nel mondo di Sakuragi, con la stessa prepotenza con la quale lo stesso Hanamichi gli era entrato nel cuore e nella mente.

Senza ricorrere a espedienti o sotterfugi. Semplicemente… standogli vicino, fino a fargli capire che non avrebbe potuto fare a meno della sua presenza, allo stesso modo in cui Rukawa sentiva di non poter più fare a meno di lui.

Vide Sakuragi posare l’ultimo pallone, accompagnando il gesto con uno sbadiglio, e si avviò negli spogliatoi.

Aveva abilmente evitato il capitano quando era uscito.

Non voleva nessuno nella sua vita privata. All’infuori di Sakuragi.

E anche se per lui, in fondo, non avrebbe fatto differenza, farsi vedere o meno da Akagi, sapeva che Hanamichi non era ancora pronto a far vedere a qualcuno che le cose tra loro stavano cambiando.

Motivo per cui, quando il capitano era passato, lui si era scostato.

Ma ora non aveva più nessun motivo per nascondersi.

Ci vediamo tra un po’ do’hao, pensò con un sorriso furbo sedendosi pigramente sul pavimento degli spogliatoi e appoggiandosi, con le spalle, agli armadietti.
 
              
                               ……………………………………………………….
 


Hanamichi guardò con orgoglio il pavimento della palestra che aveva appena finito di pulire.

Quel luogo lo faceva stare bene e amava pulirlo personalmente, soprattutto quando faceva un allenamento pieno e soddisfacente, proprio come quel pomeriggio.

Guardò l’ora: erano quasi le dieci e lui non aveva più molto tempo.

Peccato, pensò guardando con un sospiro triste la palestra; gli sarebbe piaciuto rimanere ancora un po’.

Tirare gli aveva fatto bene e si sentiva stranamente carico e pieno di energie, nonostante la stanchezza fisica.

Andare a lavoro non gli pesava più di tanto, soprattutto considerando che dopo molto tempo si sentiva soddisfatto con se stesso.

Chissà che faccia avrebbe fatto la kitsune quando, nella partita contro il Takezato, lui avrebbe fatto vedere i suoi progressi.

 Fischiettando allegro si diresse verso gli spogliatoi, dove avrebbe fatto una doccia veloce e recuperato la cartella.

Chissà che magari tra una pausa e l’altra non fosse riuscito anche a mandare giù qualche boccone e a fare i compiti per la scuola.

Non che gli importasse granché dell’ultima cosa. Però… doveva quanto meno tentarci.

Ripensò a suo padre e a quanto ci tenesse che lui si facesse un’istruzione.

In verità, le poche volte che studiava era proprio spinto da questo pensiero.

Ripensò a sua madre e alle sue espressioni quando vedeva i voti che lui portava a casa, in particolare in inglese. Anzi… era solo in quella materia che sua madre si scaldava tanto, ma questa era un’altra storia.

Notò, con un moto di stizza, che il gorilla aveva lasciato la luce accesa.

E poi dava a lui del ritardato.

Aprì la porta già pensando quello che avrebbe detto l’indomani ad Akagi e sogghignando tra se, quando quello che vide ebbe il potere di pietrificargli il sorriso sul volto.

“Rukawa?!” domandò incerto osservando la figura stesa sul pavimento che dormiva alla grossa.

No, stai calmo! Sei solo un po’ stanco e questa è una visione, pensò tra se, chiudendo gli occhi e strofinandoseli con un braccio.

Rukawa intanto, con gli occhi socchiusi e nascosti dalla lunga frangia, non si perdeva un attimo di quello show.

Ecco, pensò ancora Sakuragi alle prese con i suoi monologhi mentali, adesso apri gli occhi e vedi che lo spogliatoio è vuoto. Nessuna kitsune a ronfare sul pavimento.

E aprì gli occhi che, lentamente, si andarono sgranando sempre più.

Che diamine ci fa qui a quest’ora? Pensò nuovamente sempre più interdetto, avvicinandosi lentamente al compagno di squadra e guardandolo con circospezione, quasi aspettandosi che potesse svanire da un momento all’altro. 

Tra l’altro, Sakuragi notò solo in quel momento che la kitsune stava dormendo proprio sulla sua cartella.

Non poteva usare la sua come cuscino?!  Notò fra se con la mente sempre più in subbuglio, notando lo zaino della volpe sul pavimento, qualche metro più in là.

Si acquattò vicino al compagno di squadra poggiandosi sui talloni e continuando a osservarlo perplesso, con la testa di lato.

E adesso che faccio? Pensò sempre più disorientato. Non è che si è sentito male?

Ma poi scosse la testa con decisione.

Naaa… sarà uno dei suoi attacchi di narcolessia, decise fra se avvicinandosi per guardarlo meglio, con la fronte corrugata che esprimeva tutte le sue perplessità.

Rukawa intanto continuava a osservarlo, faticando non poco a trattenere un sorriso.

Chissà in quali buffi discorsi era incappata la mente del suo do’hao.

O la va o la spacca! Pensò ancora Sakuragi, completamente ignaro del fatto che la volpe fosse sveglia e che, attentissima, lo osservava divertito.

Fece un bel respiro d’incoraggiamento, manco dovesse affrontare una maratona di dieci chilometri stando in apnea, e si apprestò a svegliare il bell addormentato.

“Ehi” lo chiamò con un tono incerto, toccandolo delicatamente con il dito.

“Baka kitsune sei vivo?” domandò ancora, stavolta con più decisione, non ottenendo però nessun risultato.

E va bene! Qui ci vogliono le maniere forti, pensò nuovamente facendosi coraggio.

Inspirò a pieni polmoni l’aria circostante gonfiando poi le guance, come a voler incamerare tutto l’ossigeno a disposizione nella stanza e trattenerlo dentro la bocca il più a lungo possibile.

Si avvicinò deciso al volto del compagno mettendosi in ginocchio e poggiando i palmi a terra.

Cos’è, vuole baciarmi?! Si domandò intanto un interdetto Rukawa, colto impreparato dalle mosse del compagno di squadra.

Sakuragi, nel frattempo, stava avvicinandosi sempre di più.

Che cosa gli frulla in testa stavolta al do’hao? Si chiese nuovamente Rukawa, che però non ebbe neanche il tempo di ipotizzare qualcosa che Sakuragi entrò in azione.

“KITSUNEEE CI SEIII?” gli urlò, infatti, il numero dieci in prossimità dell’orecchio, facendolo letteralmente sobbalzare per lo spavento.

Rukawa, infatti, che tutto si era aspettato tranne quell’urlo disumano a un soffio dal suo orecchio (che avrebbe risvegliato anche un morto e che forse avevano sentito anche le abitazioni vicine) si era messo a sedere di scatto sbarrando gli occhi e urtando la testa contro gli armadietti.

“Allora sei vivo, baka?” domandò poi allegramente Sakuragi, guardando soddisfatto il risultato della sua prodezza.

Altro che vivo. Qui io ci rimango, pensò Rukawa guardandolo storto e massaggiandosi la testa.

Il suo battito cardiaco era notevolmente aumentato e, di sicuro, aveva perso sette anni di vita.

Era vero che l’aveva anche un po’ provocato non “svegliandosi” subito, pensò con un moto di stizza. Ma qui rischiava un infarto per colpa delle genialate del do’hao.

A conti fatti, un altro bacio sarebbe stato molto meglio! Valutò ancora, assottigliando di più gli occhi.

“Scusa tanto, ma eri sulla mia cartella” continuò Sakuragi con un gran sorriso.

Infatti, era impagabile il viso di Rukawa che era sbiancato dalla paura. Tra l’altro, doveva essersi veramente spaventato parecchio se non aveva neanche reagito con uno dei suoi soliti pugni.

“Nh…” mugugnò Rukawa in risposta con il suo monosillabo preferito, mentre lo guardava con odio puro, e massaggiandosi l’orecchio che ancora gli fischiava.

Oramai era sicuro: il timpano era andato!

“Allora, mi dici che cosa ci fai qui?” domandò ancora Sakuragi, poggiando le mani sui fianchi.

“Mi sembra ovvio, do’hao!” rispose sicuro Rukawa, guardandolo negli occhi.

“Eh?”.

Rukawa vide la faccia del numero dieci sgranarsi per lo stupore. Possibile che avesse capito cosa intendeva semplicemente dalla sua risposta?

Bene! Si fanno dei passi avanti, pensò soddisfatto guardando la testa rossa grattarsi il mento interdetto.

“Mah…” si decise poi a dire Sakuragi alzandosi e avviandosi verso le docce. “Allora ti lascio dormire. Contento tu”.

Eh?

Rukawa lo guardo incerto.

Ma che aveva capito?

“Ma che hai capito, do’hao?” domandò, esprimendo ad alta voce i suoi dubbi.

“beh…” si voltò Sakuragi che, nel frattempo, si era sfilato la canottiera. “Non hai detto che sei qui per dormire?”.

Rukawa lo guardò allibito, scuotendo la testa sconsolato.

Lui che era qui per dormire…. Ma quando mai!

E soprattutto, quand’è che aveva detto una cosa del genere?

Come al solito, il do’hao aveva equivocato!

Era vero che lui non era stato chiaro nel parlare… però…. pensare che fosse lì per dormire rasentava l’idiozia allo stato puro.

“Do’hao” disse rivolto al compagno di squadra.

“Ehi baka”, s’inalberò Sakuragi, “mi spieghi perché ogni scusa è buona per darmi dell’idiota?”.

“Perché lo sei… do’hao” rispose nuovamente Rukawa, calcando bene l’ultima parola.

Vedendo però che il compagno di squadra stringeva i pugni pronto a menare le mani aggiunse:

“Non ero qui per dormire, idiota. Se ben ricordi, ho una casa” lo provocò volutamente.

Come aveva previsto, il volto di Sakuragi divenne della stessa tonalità dei suoi capelli.

“COSA VUOI CHE NE SAPPIA IO? MICA TI LEGGO NEL PENSIERO” scattò, infatti.

“Do’hao”.

“MA LA VUOI PIANTARE?” lo aggredì nuovamente.

Meno male che la scuola è deserta, pensò Rukawa che preferì rispondere con il suo monosillabo preferito per non irritare ulteriormente la scimmia.

“Nh…”.

E la cosa sembrò funzionare visto che, quando sentì di nuovo Hanamichi parlare, il suo tono di voce aveva assunto un volume decisamente più normale.

“Oh, senti… pensavo semplicemente che fossi venuto ad allenarti e, avendo trovato il campo occupato, nell’attesa ti fossi addormentato”.

“Nh... no!” rispose serafico Rukawa.

“Vuoi forse dire che sarebbe impossibile una cosa del genere?” lo provocò Sakuragi
avvicinandosi con un sorriso furbo.

“Non è questo il caso” lo contraddisse, nuovamente, Rukawa.

“Quindi, ammetti che sarebbe potuto essere benissimo così?” continuò Sakuragi con un sorriso di scherno in volto.

“Nh… non è questo il caso” si ostinò a rispondere Rukawa, non volendo dare assolutamente ragione al compagno di squadra.

“E va bene! Allora, mi dici che diavolo ci fai qui, baka?” lo aggredì Sakuragi che si stava nuovamente inalberando, visto che l’odioso numero undici non gli dava ragione neanche quando si trattava di una cosa così ovvia.

“Mi sembra ovvio, do’hao” ripeté ancora Rukawa, che si stava divertendo un mondo a prendere in giro quella scimmia rossa.

I suoi sbalzi d’umore erano tanto veloci quanto imprevedibili e Rukawa non poteva farne a meno.

Sakuragi, a differenza di lui, era l’impulsività fatta persona.

Era allegro e ridanciano (ma spesso perdeva il senso della misura rendendosi ridicolo).

Era triste e sofferente (anche se si ostinava a fare come se nulla fosse).

Era ottimista e pieno di vita ( anche se spesso si abbatteva per nulla).

Era ingenuo e innocente ( e questo lo portava a farsi chissà quali viaggi mentali).

Era altruista come nessun altro (anche se non ci teneva a farlo sapere).

Era manesco e pronto alle mani ( questo quando si trattava di lui! ).

Era tutto questo e anche di più. E lo era contemporaneamente.

Stargli dietro era come andare su una giostra pericolosa senza avere allacciato la cintura di sicurezza.

Adrenalina pura.

“MA COS’ È, SEI UN NASTRO REGISTRATO, BAKA?” si alterò, infatti, Sakuragi che stava perdendo la poca pazienza che possedeva, e tutta in una volta.

Forse, effettivamente, è il caso di chiarirgli un po’ le idee, pensò Rukawa che, per quanto si stesse divertendo, sentiva anche che era arrivato il momento di arrivare al sodo.

Fu per questo che lasciò definitivamente da parte l’ironia.

Il suo sguardo ora era fiero e deciso. Perché era fondamentale che Sakuragi capisse il concetto.

“Ti stavo aspettando, do’hao!” disse serio guardandolo negli occhi, marcando quella parola che racchiudeva una parte delle sofferenze dell’altro.

Ora non gli restava che aspettare la reazione del compagno di squadra.
 
 
Continua….
 
Note:
 
Gli avvenimenti letti in questo capitolo sono ambientati nella puntata 62.

In quella puntata, Sakuragi inizia il suo allenamento supplementare. Io ho approfondito questo aspetto inserendoci la presenza di Rukawa e ipotizzando su un post allenamento, riproponendomi di narrare i famosi tre giorni di super allenamento passo per passo, non tralasciandone nessuno, considerato che il canone ci da solo un’idea approssimativa di cosa succede e di quanto Sakuragi si alleni.

Come avrete notato, ho solo accennato al discorso di Kogure, non ritenendo necessario riportarne parola per parola visto che era secondo me inutile ai fini della storia e che mi serviva solo il “senso” delle sue parole per approfondire i pensieri di Rukawa e far sentire maggiormente il peso della responsabilità a Hanamichi che secondo la mia storia, in questa parte della fic si sente completo perché ha un obiettivo.

Siccome calzava a pennello con il discorso del protagonista riguardo a questo, ho pensato di “prenderlo in prestito” per dare più credibilità all’introspezione di Hanamichi da me creata.
 
Che altro dire…. Spero che questo capitolo vi sia piaciuto. Attendo ansiosa i vostri commenti!!!!

Ci vediamo domenica prossima con il nuovo capitolo!!!

Pandora86

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Capitolo 20
*** Primo giorno ***


Ecco a voi il diciannovesimo capitolo della storia!!!
Come al solito grazie per le bellissime recensioni!!!!
Mi raccomando, continuate a farmi sapere cosa ne pensate!!!
Grazie anche a chi continua ad aggiungere la storia tra le preferite e le seguite!!!
E, ovviamente, grazie anche a tutti i lettori silenziosi!!!
Ci vediamo a fine capitolo per le note e per le informazioni riguardo alle prossime pubblicazioni.
Mi scuso in anticipo nel caso ci dovesse essere qualche errore di battitura…leggo e rileggo ma sapete com’è… qualcosa mi sfugge sempre!!!!
Per adesso…buona lettura!!!!
 
 
Capitolo 19. Primo giorno
 

Sakuragi era allibito.

Guardava il suo compagno di squadra non riuscendo nemmeno a parlare.

Un solo pensiero nella testa:

la kitsune mi stava aspettando!

Che cosa voleva dire poi, non lo aveva ancora capito.

Che avesse seguito tutto il suo allenamento? A pro di che, poi?

“Che significa?” balbettò incerto, rivolto alla volpe.

“Quello che ho detto. Ti stavo aspettando” rispose deciso Rukawa.

Tuttavia, comprese di dover necessariamente essere ancora più chiaro.

“Andiamo a casa mia, do’hao” continuò, avvicinandosi alla porta.
 “Ti aspetto fuori” e uscì.

Sapeva, infatti, che era venuto il momento di lasciarlo da solo.

Dubitava che il do’hao accettasse la sua offerta, ma gli era anche chiaro che il pensiero gli sarebbe ronzato in continuazione nella testa da adesso in poi.

Anche se, forse, avrebbe potuto specificare meglio cosa intendeva; era stato, infatti, un po’ troppo diretto. Di certo il do’hao sarebbe rimasto a fissare il vuoto per dieci minuti buoni, in cerca di risposte alle sue domande inesistenti.

Tuttavia a sua difesa, questa volta, non c’era il fatto che era scarso di parole.

Non si era espresso in maniera così diretta solo perché il suo carattere non gli permetteva di pronunciare più di trenta parole di seguito.

Stavolta non si sarebbe tirato indietro, infatti, se avesse dovuto parlare di più. Anzi, gli sarebbe piaciuto convincere il do’hao con un bel discorso e poi rassicurarlo.

Peccato che poi Sakuragi lo avrebbe di certo preso a testate!

Avrebbe travisato le sue parole e i suoi gesti, confondendoli con pietà o chissà che altro, e allora di certo non avrebbe mai raggiunto il suo scopo.

Motivo per cui era stato diretto, anche se non avrebbe voluto.

Paradossalmente, lui che amava andare al succo della faccenda sempre e comunque con poche e semplici parole, stavolta gli sarebbe piaciuto intavolare una conversazione con quella scimmia per fargli entrare un po’ di sale in quella zucca vuota che si ritrovava, ma soprattutto per fargli capire le sue vere intenzioni.

Peccato però che non avesse potuto e, strano a dirsi, questo pensiero gli dava non poco fastidio.

Guarda che effetto mi fai, Hanamichi! Pensò sospirando, appoggiandosi al muro d’ingresso nella scuola.

Fargli desiderare addirittura di dire qualche parola in più, e infastidirsi perché non aveva potuto farlo.

Ma, del resto, Rukawa aveva accettato da tanto tempo il potere che aveva Sakuragi su di lui.

Perso fra questi pensieri, non vide sopraggiungere un motorino rosa che gli si era praticamente parato davanti.

Non fece fatica a riconoscere chi era il guidatore, che a sua volta lo guardava con un mezzo sorriso in volto lasciando trapelare tutta la sorpresa provata nel vederlo lì.

Yohei Mito era, infatti, alquanto sbalordito di aver trovato Rukawa ad attenderlo al posto di Hanamichi.

Fu perciò uno sguardo interrogativo quello che rivolse al numero undici, non pronunciando però nessuna parola.

Non sapeva cosa Rukawa ci facesse lì, e non sapeva neanche che cosa fosse potuto succedere fra lui e il suo amico.

Ma guarda! Stavolta, l’ho proprio preso in contropiede, pensò Rukawa osservando le espressioni del ragazzo ma non profferendo parola.

Il do’hao era ancora in palestra e sarebbe uscito a momenti. Non sarebbe stato saggio farsi vedere a conversare amabilmente con il suo fidato braccio destro.

Anzi, era più corretto dire con il suo braccio destro che gli parlava amichevolmente e lui che mugugnava risposte.

In ogni caso, comunque la si volesse mettere, quelli erano il posto e il momento meno adatti per far capire al do’hao la familiarità che aveva con Mito.

Motivo per cui, se ne rimase zitto chiudendo appena gli occhi sapendo che l’altro avrebbe seguito il suo esempio.

Del resto, anche se l’aveva preso in contropiede, sapeva che Mito avrebbe afferrato al volo la situazione.

O quanto meno avrebbe colto i segnali impliciti che mandava il suo atteggiamento.

E, infatti, Mito capì. Era stato sorpreso di trovare Rukawa ad aspettarlo.

Poi aveva capito che Rukawa in realtà non stava aspettando lui ma il suo amico.

Ragion per cui, perso in questi ragionamenti, si sedette in paziente attesa sul suo motorino aspettando che il Tensai facesse il suo arrivo, senza però riuscire a trattenere un sorriso.

Chissà che hanno combinato questi due…
 

                                        ………………………………………………….
 

Sakuragi sembrava un automa. Si era spogliato, fatto la doccia e poi asciugato e rivestito con cura.

Il tutto meccanicamente, senza badare a ciò che faceva, con un solo pensiero che gli vorticava nella testa.

Rukawa mi stava aspettando.

E da questo pensiero ne scaturiva un altro.

Ha detto che andiamo a casa sua

Da qui partiva, per lui, l’ovvia domanda:

Che significa?

E, di conseguenza, ricominciava da capo come un cane che si morde la coda.

I pensieri sembravano una sequenza prestabilita. Una catena che lui non riusciva a spezzare.

Lasciò la palestra, respirando l’aria fresca della sera. La leggera brezza gli scompiglio i capelli ancora umidi.

A quel punto, un altro pensiero si aggiunse alla catena:

Ha detto che mi avrebbe aspettato fuori.

E da qui la conseguente domanda:

Ed io, adesso, che faccio?

Fu con sollievo che vide il motorino rosa del suo amico fuori la scuola.

Non sapeva perché, ma in quel momento Yohei rappresentava la sua ancora di salvezza.

Si sentiva impreparato di fronte al mare in tempesta che rappresentava Rukawa e, ora come ora, non sarebbe riuscito a racimolare il coraggio necessario per un tu per tu con il compagno di squadra.

Il motivo era anche piuttosto semplice; se avesse, ancora una volta, travisato le parole e le intenzioni della volpe?

Non che ci avesse capito granché in ogni caso, però… aveva comunque capito che Rukawa voleva passare del tempo con lui.

E soprattutto, di sua spontanea iniziativa.

Non perché l’aveva visto triste in un cimitero.

Non perché un temporale si era messo di mezzo facendo passare il suo invito per una cortesia.

Niente di tutto questo. L’aveva semplicemente aspettato dopo una giornata normale, invitandolo ad andare a casa sua.

Oddio, era vero anche che la kitsune invece di usare il condizionale aveva preferito l’imperativo.

Ma, a conti fatti, quello era un invito posto al termine di una giornata come tante, quasi come se fosse una routine.

Questo pensiero lo colpì… possibile che avesse pensato che andare a casa di Rukawa potesse essere una routine?

Scosse la testa con decisione, avvicinandosi al suo amico e notando la figura semi dormiente appoggiata al muro che, al suo passaggio, alzò la testa guardandolo negli occhi.

Quello sguardo lo metteva a disagio. Tutta la figura di Rukawa lo metteva a disagio.

E poi, era vero che non gli sarebbe dispiaciuto andare a casa della volpe.

Ma non poteva Rukawa essere un po’ più gentile nell’esprimersi?

Considerando poi come l’aveva trattato nel famoso allenamento, dove erano rimasti appesi al canestro come due civette che si becchettavano contendendosi lo stesso ramo.

Certo, era anche vero che se Rukawa si fosse mostrato loquace e gentile di sicuro sarebbe corso a chiamare l’igiene mentale… dopo avergli dato una bella testata.

Giusto per farlo ritornare in se!

Odiava essere così confuso e avere tutti quei pensieri in testa.

Pensare gli faceva decisamente male!

E poi anche lui aveva il suo orgoglio, che cacchio!

Fu per questo che salì con decisione sulla sella del motorino, fissando Rukawa e liquidandolo con un deciso:

“Scordatelo”.

E rivolgendosi poi al suo amico.

“Andiamo, Yo”.

Mito, che dal canto suo non si era perso nulla di quegli sguardi infuocati e di quella risposta irritata, decise di fare la sua parte, sperando che presto quei due sarebbero riusciti a fare a meno di lui, imparando una buona volta a cavarsela da soli.

Sarebbe anche ora, pensò rispondendo poi a Hanamichi.

“Hai ragione, Hana. Il Cat’s Eye ci aspetta” e, con un veloce sguardo a Rukawa, mise in moto.

Del resto si sa, a buon intenditor….  pensò allegro, diretto al bar dove lavorava l’amico, certo che Rukawa avrebbe saputo perfettamente cosa fare.

E, infatti, un mezzo sorriso incurvò appena le labbra del ragazzo.

Al Cat’Eye, eh? Sono proprio curioso di vedere dove lavori, do’hao.

Perché aveva capito che quella non era un’uscita tra amici.

A Hanamichi le parole di Mito non erano dovute sembrare strane.

Aveva, infatti, solo detto il nome di un bar e, a un orecchio esterno, poteva sembrare solo la meta di divertimento dei due.

Del resto, Hanamichi non sapeva che Rukawa fosse a conoscenza del fatto che lavorava.

In realtà, il numero undici sapeva bene della vita sacrificata che conduceva il do’hao.

Fu per questo che recuperò la sua bicicletta avviandosi deciso verso casa, giusto per sistemare delle cose e poi uscire di nuovo.

Non aveva, infatti, intenzione di pedalare o camminare. Avrebbe, una volta tanto, sfruttato una delle tante comodità che gli concedeva suo padre: l’autista!

L’affettuoso genitore, infatti, colmava la sua assenza con quelle che Kaede definiva le cose più inutili ed esagerate.

Era esagerato, infatti, nonostante la loro posizione economica, mettere a disposizione di un ragazzo di sedici anni una macchina con tanto di autista.

“Ti accompagnerà dove vorrai quando io non potrò” aveva detto il genitore.

In pratica, significava ti darò tutto basta che non mi fai fare il padre a tempo pieno.

“Non ti darà fastidio e dormirà nella dependance. Si occuperà anche delle pulizie e terrà in ordine giardino”.

E Kaede aveva mugugnato indifferente.

In fondo, contento lui di buttare i soldi. Perché era questo che faceva, dato che il tutto-fare non si vedeva mai a parte una volta alla settimana per pulire la casa e di certo non lo aveva mai scortato in giro.

Era pur sempre vero però, che gli faceva trovare il frigo pieno e gli abiti lavati, il tutto senza farsi vedere.

Kaede era stato chiaro a proposito con lui.

“Fai quello che ti pare ma non starmi tra i piedi” gli aveva intimato prima di andare in camera sua.

E, a quanto pare, era stato preso in parola visto che il “domestico” provvedeva ai bisogni della casa senza farsi trovare in giro.

Anzi, in quello era davvero bravo. Sospettava che suo padre l’avesse preparato appositamente a una cosa del genere.

In ogni caso, poco importava. Una volta tanto, si sarebbe fatto scorazzare in giro dal “suo” autista.

In fondo è per buona causa, pensò sorridendo e cominciando a pedalare più veloce.
 

                               ……………………………………………………
 

Hanamichi fischiettava allegro, tra i tavoli del bar, con un vassoio in mano.

Quella sera, era veramente di buon umore.

Tralasciando l’incidente kitsune, che la sua mente aveva provveduto prontamente a cancellare (almeno per il momento) era stata veramente una giornata soddisfacente.

Tra l’altro, era anche riuscito a mangiare qualcosa, dato che il locale quella sera era poco affollato.

“Serve aiuto dietro il banco, Saeko?” domando allegro a una ragazza con folti capelli biondi, rigorosamente tinti, e dall’aria svanita che gli sorrise allegramente.

“Non preoccuparti, Hanachan! Qui ho la situazione sotto controllo”.

“Sakuragi” intervenne il proprietario del bar, “vai a controllare il tizio al tavolo numero dieci”.

“Cos’ha che non va?”.

“Mah…” rispose l’uomo, “è entrato quando tu eri in cucina a lavare le stoviglie, una mezz’oretta fa, e l’unica cosa che ha fatto, dopo aver ordinato, è stata quella di dormire sul tavolo”.

“Ohhh…”portò le mani al viso la ragazza, “forse si è sentito male”.

“Non credo!” ribattete prontamente l’uomo. “Forse, è solo un po’ alticcio”.

“Ho capito” intervenne Sakuragi. “Vado a controllare” concluse, avviandosi prontamente al tavolo con la sua aria più minacciosa.

Del resto, era uno dei motivi per cui era stato assunto e che giustificava i suoi orari di lavoro, che erano esclusivamente serali.

Il proprietario del bar aveva capito che lui era intenzionato a lavorare seriamente e che non avrebbe creato problemi. Ma aveva anche capito che un tipo come lui sarebbe stato utile come eventuale “buttafuori” per clienti particolarmente alticci o con ragazzini troppo esuberanti che pretendevano bevande alcoliche che non potevano avere.

Motivo per cui, si era avviato con decisione verso il suddetto tavolo, che era in un angolo del locale, decisamente un po’ più appartato rispetto a quelli centrali.

“Allora? Ci sentiamo male, amico?” domandò Sakuragi con voce dura, sbattendo le mani sul tavolo e sfruttando, da quella prospettiva, la sua già considerevole altezza.

Solo quando il cliente alzò il capo, Sakuragi riconobbe quel volto conosciuto.

Non ci aveva fatto caso perché di solito non guardava più di tanto i clienti, ancor meno quelli che presupponeva avrebbe dovuto buttare fuori a calci.

“Mh…” disse la figura conosciuta, “quanto casino fai do’hao”.

“Rukawa?” domandò allibito.

Era la seconda volta, nel giro di poche ore, che diceva la stessa frase, e con la stessa nota sorpresa nella voce.

“Cosa ci fai qui?” domandò.

Possibile che la kitsune comparisse nei luoghi più impensati, prendendolo puntualmente in contropiede?

Oddio, non che la palestra della scuola fosse un luogo così impensato.

Ma il locare dove lavorava sì, però!

Questa era una persecuzione bella e buona!

 Rukawa, dal canto suo, osservò il volto del compagno di squadra.

Sakuragi era sorpreso di trovarlo lì. Evidentemente, non aveva collegato il fatto che Mito avesse fatto il nome del bar e che “casualmente” fosse lì. Probabilmente, non ricordava neppure che il suo amico avesse detto il luogo dove erano diretti.

Pensava a una casualità. Anzi, a giudicare dalla sua faccia, a una persecuzione piuttosto.

Quanto sei ingenuo do’hao, pensò Rukawa con tenerezza.

Era questo che colpiva di Sakuragi: la sua ingenuità. Quanto era diverso rispetto agli altri adolescenti.

Invidiosi, opportunisti e sempre in cerca di occasioni propizie per scavalcare gli altri.

Sakuragi invece no. Era sempre pronto ad aiutare qualcuno, e aveva la perspicacia di un bambino di quattro anni. Nonostante la vita l’avesse segnato duramente, e lui tenesse il suo dolore per se, il suo altruismo e il suo cuore semplice non ne erano minimamente stati intaccati.

Certo, aveva la mente più complicata di tutta la popolazione del Giappone messa assieme. Ma il suo cuore era comunque semplice e privo di cattiveria.

Rukawa ripensò a come era corso ad aiutare, tempo fa, la ragazza di Oda.

“Allora baka?” chiese ancora Sakuragi, interrompendo il filo dei pensieri dell’altro.

Rukawa alzò il sopracciglio, guardandolo come se fosse un ritardato.

“Mi sembra ovvio, do’hao” ancora la stessa frase.

Sakuragi ebbe l’impressione di fare un salto indietro a poche ore prima.

Tuttavia stavolta Rukawa continuò, telegrafico come suo solito.

“Cena” e indicò gli avanzi delle polpette che aveva ordinato. “Compiti” e indicò i quaderni aperti sulla tavola.

“Che tu mi hai bagnato” aggiunse poi tagliente.

“Ops…” disse solo Sakuragi, osservando che aveva rovesciato il bicchiere quando aveva sbattuto le mani sul tavolo.

In effetti, era stata una cosa voluta. La cosa migliore, in quei casi, era sempre far sobbalzare il cliente prendendolo alla sprovvista per poi buttarlo fuori.

“Te ne porto un altro” disse solamente, prendendo il bicchiere e asciugando il tavolo.

Rukawa lo osservò allontanarsi. Anzi, lo osservava da un po’.

Quando era entrato, aveva notato subito che Sakuragi non era in sala.

Si era seduto, sperando che non lavorasse nelle cucine, e la sua pazienza era stata premiata quando il do’hao era andato a servire alcuni clienti verso i tavoli centrali.

Aveva notato che nella tasca posteriore del jeans c’era un libro.

In effetti, era stato colpito da questo particolare. Era ammirevole che Sakuragi cercasse anche di studiare.

Anche se, dalla forma, non sembrava un libro di scuola quanto più uno per letture personali.

E così ti piace leggere do’hao, aveva pensato con un mezzo sorriso sulle labbra, chiedendosi quando Sakuragi avrebbe smesso di sorprenderlo.

Probabilmente mai, si appuntò poi mentalmente.

Un particolare lo colpì però in quel momento, e riguardava sempre quel libro che Sakuragi aveva con sé.

Ma che caratteri sono? Pensò, per poi correggersi da solo.
Naaa… mi sarò sbagliato.

Nel frattempo, Sakuragi si era avvicinato al bancone del bar.

“Tutto ok, signore. Solo un ragazzo che si è addormentato nel fare i compiti”.

“Ohhh” s’intromise, con fare sognante, la collega. “Che bello impegnarsi così. Deve essere proprio stanco per crollare. Sicuramente, sono compiti molto difficili”.

“O solo molto svogliato” la corresse Sakuragi con un ghigno, aggiungendo poi con evidente sarcasmo, “e sicuramente, sono i libri stessi a portargli sonnolenza” concluse, mentre riempiva il bicchiere d’acqua per riportarlo al ‘cliente’.

“Non ti ho chiesto se l’acqua era liscia o gassata” disse con sicurezza, poggiando il bicchiere sul tavolo.

Che cacchio, perlomeno sul posto di lavoro non voleva passare per un deficiente balbettante, anche se nei paraggi c’era Rukawa.

“Ho optato per la liscia” concluse poi.

“Va bene” confermò Rukawa.

“Lo so” ribattete pronto Sakuragi, con un sorriso sicuro.

Ecco che adesso parte con una sparata delle sue, pensò Rukawa sospirando, ma dovette ricredersi un istante dopo.

Sakuragi sorrideva sicuro, ma non era arrivato nessun proclamo di genialità sul suo essere il Tensai dell’acqua o di chissà cosa.

Anzi, quello non era neanche il sorriso che annunciava i suoi show.

Era diverso… affettuoso, forse. In ogni caso, era l’espressione di chi fa notare, in tutta tranquillità, a un’altra persona di essere a conoscenza di un dato particolare.

Fu per questo che Rukawa lo guardò interrogativo.

“Bevi sempre acqua naturale agli allenamenti” spiegò Sakuragi, in risposta al suo sguardo.

Sempre quel sorriso che gli aleggiava sul volto.

E così, anche lui mi osserva pensò, a metà fra il confuso e l’inebetito per quella piccola – grande scoperta.

Rukawa ringraziò il cielo per avergli donato il suo innato autocontrollo, altrimenti sarebbe arrossito come un adolescente alla prima cotta.

Che poi proprio questo era; un adolescente alle prese con il suo primo amore.

Fatto sta che però non si sarebbe mai abbassato ai livelli delle ragazzine che sbavavano per lui o che arrossivano estasiate, tipo Harukiiinaa – babbuina – caaraaa!

Questo assolutamente NO! Convenne deciso, ragionando con se stesso.

Certo, nella mente di Sakuragi, il babbuina non era previsto, ma del resto si sapeva: era un do’hao.

Solo Hanamichi, tra l’altro, era in grado di mandarlo in confusione tale e farlo felice con poche semplici parole.

Solo il do’hao era in grado di farlo perdere in monologhi interiori come quello.

Sempre e solo colpa sua!

“E comunque” disse poi, più per darsi una parvenza di sicurezza che per altro, “cosa ci fai qui tu?” chiese Rukawa, rigirando abilmente la domanda di poco prima.

In effetti, considerò fra se Sakuragi, lui non sa che io lavoro.

“Io qui ci lavoro” rispose deciso.

“Nh…”.

“Sai una cosa, baka?” lo provocò Sakuragi, sedendosi sul tavolo e prendendo il libro in mano.

“Non ti ci vedo proprio nei panni del secchione, ih, ih, ih”.

“Mh… do’hao” lo insultò puntualmente Rukawa, anche se non potette fare a meno di osservare il viso rilassato dell’altro in sua compagnia, nonostante la battuta.

Battuta che poi era diversa rispetto ai loro insulti passati. Sembrava più uno sfottò tra vecchi amici.

Oramai c’era una certa familiarità tra loro, che la scimmia lo volesse ammettere oppure no.

“Cos’abbiamo qui poi?” continuò Sakuragi con lo stesso tono, ignaro dei pensieri dell’altro. “Inglese?” domandò, sfogliando il libro.
“È l’unica materia che vale la pena studiare” rispose pronto Rukawa.

Sakuragi lo guardò perplesso per poi scoppiare in una risata allegra.

“Certo che sei strano forte, eh?” disse quando riuscì a trattenere il riso.

“Comunque, ” continuò con il chiaro intento di punzecchiare ancora il compagno di squadra, “visto che è l’unica cosa che studi, deduco che tu sia una cima in questa materia, eh?”.

Sakuragi non ci poteva fare niente. Rukawa alle prese con libri e quaderni era uno spettacolo troppo spassoso. Considerando poi, che fino a poco prima, ci stava praticamente dormendo sopra, il tutto appariva terribilmente divertente.

“O forse, no!” si corresse immediatamente, vedendo il foglio destinato alla traduzione del brano ancora immacolato, eccezione fatta per il titolo.

“Nh… do’hao” mugugnò Rukawa, assottigliando gli occhi.

“Beh, il lavoro chiama, baka! Buono studio” disse, contornando le parole con una marcata ironia, mettendo il libro sul tavolo e alzandosi per rivolgersi ad altri clienti.

“Ti aspetto!” lo fermò Rukawa con le sue parole.

Ancora la stessa affermazione di poche ore prima.

E stavolta Sakuragi ne aveva capito appieno il significato. L’aveva capito anche prima, solo che aveva evitato di pensarci.

Rukawa voleva la sua compagnia. E anche lui la desiderava ma… stava succedendo tutto troppo velocemente e non si sentiva ancora pronto.

Fu per questo che quando parlò di nuovo lo fece con un tono calmo, che però racchiudeva tutta la speranza che un simile evento potesse verificarsi di nuovo.

“Stasera no, kitsune! Qui finisco tardi!”.

E Rukawa capì.

Annuì semplicemente con il capo, lasciando intravedere un mezzo sorriso.

“Va bene, do’hao. Portami il conto!”.

“Subito, baka” rispose prontamente, dirigendosi verso la cassa.

Rukawa lo guardò allontanarsi sorridendo dentro di se.

Era felice. E anche abbastanza compiaciuto. Era vero che Sakuragi aveva rifiutato, però gli aveva lasciato intendere che prima o poi avrebbe accettato il suo invito.

A quanto pare, le cose stavano veramente andando per il verso giusto.

Sakuragi, nel frattempo, aveva raggiunto la cassa.

“Cosa ha preso il tavolo numero dieci, Saeko?” domandò allegro.

“Due onigiri e dell’acqua naturale” rispose prontamente la ragazza.

“Va bene, me ne occupo io” rispose Sakuragi, compilando personalmente lo scontrino.

Poi, con un sorrisetto, prese il foglio di carta incominciando a scrivere qualcosa sul retro.

Vediamo se il baka se ne accorge, pensò sorridendo avvicinandosi a Rukawa.

“Allora kitsune, sono 500 yen (N.d.A. circa 5,00 euro). Conserva lo scontrino, l’ho fatto personalmente, con tanto aamooooreeeee!” disse trattenendo a fatica le risa e infilando il pezzo di carta nel libro a mo di segnalibro.

“Mh…” rispose Rukawa. “Ecco” concluse, porgendogli la cifra richiesta.

Sakuragi guardò le monete, diventando furente.

“Cos’è, oltre ad essere un baka, sei anche uno spilorcio? Dov’è la mancia?”.

“Nessuna mancia do’hao” e si voltò per andarsene.

Non gli era sfuggito però il sorriso riconoscente che gli aveva rivolto Sakuragi a quel gesto.

Lui lo aveva fatto apposta a non lasciare una mancia. E Sakuragi aveva apprezzato.

Si accomodò sul sedile, sbadigliando e pensando che, in fondo, le cose non erano andate così male con il do’hao.

Dopotutto, era appena il primo giorno che lui tentava un approccio simile.

Sì! Le cose erano andate piuttosto bene.

E, cullato dal movimento dell’automobile, si addormentò con un sorriso sereno in volto e con una nota testa rossa che faceva capolino nei suoi pensieri, accompagnandolo nel sonno.
 

Continua…


 Note:
 
Questo capitolo è ambientato nella puntata 62 dell’anime. È la conclusione del primo giorno di allenamento speciale di Hanamichi.

L’onigiri è la classica polpetta di riso con l’alga intorno.

Il nome del bar dove lavora Hanamichi, insieme al nome della sua collega, è un voluto riferimento a Hojio e al suo manga City Hunter che, assieme a Slam Dunk, è uno di quelli che adoro.
 
Che dire…. Spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto. Attendo ansiosa i vostri commenti.

Ci vediamo domenica prossima con il nuovo capitolo.

Pandora86

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Capitolo 21
*** Una parte di me ***


Ecco a voi il ventesimo capitolo della fic.

Non mi sembra vero che questa storia sia arrivata fino a questo punto e tutto grazie ai vostri bellissimi commenti. Grazie mille!!!

Ringrazio anche chi continua a inserire la storia tra le preferite e le seguite, e ovviamente grazie anche a tutti i lettori silenziosi!!!

Ci vediamo a fine capitolo per le note e le informazioni riguardo le prossime pubblicazioni.

Per adesso, buona lettura!
 

Capitolo 20. Una parte di me!
 

Hanamichi aveva finito, anche quella mattina, i suoi tiri.

Notava che il pallone centrava sempre più facilmente il canestro e che il suo corpo aveva oramai memorizzato la posizione giusta.

Anche il gorilla se ne era accorto, considerato che quella mattina l’aveva richiamato meno del solito.

In realtà, un po’ aveva temuto quell’allenamento mattutino. O meglio, aveva temuto l’incontro con Akagi.

Temeva che gli parlasse della presenza di Rukawa in palestra la sera precedente.

Tuttavia Akagi non gli aveva detto nulla, e lui si era sentito un po’ stupido.

In fondo, anche la kitsune era riservata e magari non aveva dato spiegazioni sulla sua presenza. O forse non si era fatta vedere dal capitano.

Però, quando era entrato lui dormiva quindi c’era già in precedenza. Oppure, sapendo dei suoi allenamenti, Rukawa era ritornato a scuola successivamente?

Ma no… così aveva ancora meno senso di prima.

D’altro canto, considerò poi Sakuragi, anche se Akagi avesse trovato Rukawa negli spogliatoi, perché poi sarebbe venuto a dirlo proprio a lui?

In fondo, cosa ne sapeva il capitano del legame che aveva con la kitsune.

No… un momento… aveva pensato legame?

Lui, con Rukawa?

Però… in effetti, un qualcosa si stava creando. E poi, la kitsune stava aspettando proprio lui ieri sera.

Però, perché non dirlo ad Akagi? Si vergognava?

Naaa… non ce lo vedeva proprio Rukawa a provare imbarazzo per qualcosa.

Tra l’altro, non era proprio Sakuragi stesso che aveva timore dell’incontro con il capitano, proprio perché temeva che questi potesse essere a conoscenza di loro due?

Va bene! Un altro pensiero così e poi sarebbe stato pronto per la neuro.

In ogni caso, era meglio avviarsi in classe, valutò fra se, lasciando correre (per il momento) questi pensieri assurdi.
 

                                          …………………………………………………
 


Rukawa si sedette al suo posto con uno sbadiglio. Anche quella mattina, era riuscito a varcare i cancelli dell’istituto scolastico per un soffio, e adesso si apprestava a fare il suo pisolino mattutino sul banco di scuola.

Ascoltava vagamente i mormorii dei compagni di banco, che non facevano altro che conciliargli ancora di più il sonno.

“Allora” stava dicendo una sua compagna di classe, “hai fatto la traduzione?”.

“Si, ma non credo di averla fatta bene” sentì rispondere da un altro suo compagno.

“Cavolo, il prof la vuole per oggi” si era intromessa un’altra ragazza.

Rukawa aprì di scatto gli occhi.

Cacchio! Si era dimenticato di scrivere quanto meno qualcosa per il compito che avrebbe dovuto consegnare quella mattina. E di certo, non poteva rischiare di presentare il foglio bianco.

Come minimo, sarebbe stato mandato dal preside. Un’altra insufficienza e avrebbe potuto rischiare anche una sospensione.

Sospensione da scuola = esonerato anche dal club di basket durante il periodo della sospensione.

No. Questo non poteva assolutamente permetterlo.

Si affrettò ad aprire il libro d’inglese sotto lo sguardo stupefatto dei suoi compagni di classe.

Che guardate? Ogni tanto i compiti li faccio anch’io! Pensò, con un moto di stizza.

Guardò sconsolato il brano che avrebbe dovuto tradurre.

Non era a digiuno d’inglese, ma il prof ci aveva dato dentro.

Stanco di avere dei somari al posto di alunni diligenti, aveva assegnato un brano particolarmente difficile che non avrebbero dovuto affrontare prima della fine dell’anno, minacciando una sonora punizione a chi non si fosse impegnato.

E adesso? Pensò Kaede, ancora più sconsolato di prima.

Quello era arabo. Non gli passò neanche per un istante l’idea di chiedere a un suo compagno di classe. Ci teneva alla sua incolumità, sia fisica che mentale.

Perché, di una cosa era certo:

Se avesse chiesto aiuto a un ragazzo, sicuramente, gli avrebbe passato una cosa sbagliata oppure avrebbe trovato un modo per attaccare briga.

Oppure ancora, cosa di certo più probabile, avrebbe riferito tutto al professore.

Se invece avesse chiesto aiuto a una ragazza, questa, oltre al compito, gli avrebbe rifilato anche la sua biografia, con tanto di numero di telefono e indirizzo.

Inoltre, gli si sarebbe appiccicata ancora di più addosso, visto che la super matricola aveva chiesto aiuto proprio a lei.

E lui, onestamente, avrebbe preferito piuttosto andare sul terrazzo della scuola e buttarsi di sotto, anziché avere una piattola in più tra i piedi.

E poi, andiamo…. Quando mai Kaede Rukawa chiedeva aiuto a qualcuno e rivolgeva la sua parola a un compagno di classe?

Mai!

In virtù di ciò, decise che se la sarebbe cavata da solo. In fondo, almeno in inglese, la sua media era, più o meno, quella di tutta la classe.

Nonostante rimanesse un fermo sostenitore della filosofia che ogni lingua s’imparava sul posto anziché sui libri, ogni tanto il libro d’inglese lo apriva e, raramente, capitava anche che prestasse attenzione al professore quando spiegava.

Certo… sempre a occhi chiusi… ma comunque ascoltava!

Di conseguenza, non temeva che il suo voto sarebbe stato tanto inferiore rispetto agli altri.

Guardando il libro, l’occhio gli cadde sullo scontrino che Sakuragi aveva infilato tra le pagine la sera precedente.

Fatto con tanto amooreeee, aveva detto lui.

Che idiota, pensò Rukawa con tenerezza accarezzando quella piccola carta e prendendola in mano.

Solo allora si accorse che quello scontrino aveva qualcosa che non andava. Certo, era fatto in piena regolarità, ma era stranamente lungo per essere stato fatto a una persona che aveva ordinato due polpette.

Infatti, gran parte era lasciata in bianco.

Il do’hao non fa economia in carta, pensò sorridendo.

Probabilmente, Sakuragi aveva semplicemente poca pratica con la cassa e aveva lasciato uscire una quantità di carta spropositata.

Lo piegò, con l’intenzione di conservarlo, quando si accorse che forse quella del do’hao non era stata una distrazione.

Il retro dello scontrino era scritto a mano, probabilmente da Sakuragi stesso.

Il cuore di Rukawa perse un battito.

Il do’hao gli aveva lasciato un messaggio. Aveva scritto qualcosa a lui approfittando della scusa dello scontrino.

E lui se ne era accorto solo quella mattina, per una fortuita combinazione di eventi.

Se, infatti, non si fosse ricordato del compito chissà quando avrebbe aperto di nuovo quel libro.

Conservalo con cura gli aveva detto.

E la frase, che gli era sembrata uno sfottò, acquistava un nuovo significato ora.

Si apprestò, con il cuore a mille, a leggere quello che il do’hao aveva scritto.

La preoccupazione dovuta al compito aveva oramai abbandonato la sua mente.

Tuttavia, quello che lesse lo lasciò di stucco.

Ma che significa? Pensò, continuando a leggere.

Mi vuole prendere in giro?

Eppure Rukawa non lo credeva possibile. Però… sembrava che il do’hao gli avesse scritto il paragrafo di qualche strano racconto.

Poi un dubbio lo colse. Quelle frasi non erano poi così prive di senso. Rukawa era sicuro di averle già sentite a qualche parte.

L’occhio gli cadde sulla pagina, dove c’era il testo del compito, che avrebbe dovuto consegnare quella mattina, e finalmente Rukawa capì.

Gli aveva tradotto il brano!

Su questo non c’erano più dubbi oramai. Le frasi che gli sembravano conosciute, doveva averle sentite dal prof quando aveva assegnato quel testo.

Ma come diamine ha fatto?

Ricordava che Sakuragi aveva preso in mano il suo libro e lo aveva appena guardato.

Ma allora come aveva fatto a fare poi la traduzione?

Calma, Kaede! Pensa! Magari il do’hao conosceva già il brano.

Ma comunque la cosa non aveva senso. Innanzitutto, sarebbe stata una coincidenza troppo poco verosimile che Sakuragi avesse studiato lo stesso brano.

Il professore ne aveva assegnato apposta uno così difficile per punire la classe. Quello, infatti, non era nel programma.

Ma allora?

In ogni caso, non aveva senso continuare a fissare lo scontrino. Tra l’altro, Sakuragi avrebbe anche potuto volerlo prendere in giro.

Ci dubitava, ma non poteva escludere questa possibilità.

Non sapeva, infatti, se quello che c’era scritto su quel minuscolo pezzo di carta fosse o meno esatto.

E, prima di fare qualunque ipotesi, doveva appunto appurare ciò.

Motivo per cui, lasciato da parte lo stupore iniziale, decise di rischiare.

Prese il foglio destinato alla traduzione e incominciò a copiare. E alla fine dell’ora, quando il professore avrebbe consegnato i compiti corretti, insieme al suo voto, sarebbe anche arrivata una parte delle risposte che cercava.

 
                                   ………………………………………………………..
 

“Ti vedo pensieroso, Hana” stava dicendo Yohei guardando il suo amico che, a differenza del giorno prima, non aveva dormito sul banco, ma aveva fissato il professore durante tutta la lezione.

A un occhio esterno poteva sembrare che stesse ascoltando, ma Mito conosceva abbastanza bene quello sguardo da capire che il suo amico era stato con la mente altrove durante tutta la lezione.
“È successo qualcosa ieri?” domandò ancora. In effetti, era dalla sera precedente che Hanamichi era stato stranamente silenzioso.

Certo, gli aveva raccontato dell’episodio con Rukawa, di quello che era avvenuto negli spogliatoi e la sorpresa nell’esserselo trovato al locale dove lavorava.

A quell’affermazione, Yohei era a stento riuscito a trattenere una risata.

Il suo amico era proprio ingenuo!

Però, se conosceva bene la testa rossa che gli sedeva di fianco, sapeva che aveva omesso qualcosa, ragion per cui, visto che aveva lasciato a Hana la nottata per dormirci su, ora era abbastanza curioso da incalzarlo di domande.

“Allora?” continuò imperterrito.

“Mah…” si decise a rispondere il soggetto in questione, “magari l’avrà buttato senza accorgersene” disse, seguendo un ragionamento noto solo a lui.

“Buttato cosa? Ti decidi a spiegarmi?” domandò ancora Yohei, visto che Hanamichi sembrava con la testa altrove impegnato in chissà quali complicati monologhi interiori.

A quel punto, Sakuragi si decise a raccontargli (rigorosamente a bassa voce e soprattutto lontano da orecchie indiscrete) cosa aveva fatto la sera prima.

“Gli hai tradotto il brano?” chiese sorpreso Yohei alla fine, con evidente allegria.

“Non urlare” lo interruppe Hanamichi, tappandogli la bocca con la mano.

“AH, AH, AH, SONO UN GENIO” aggiunse poi, visto che, all’affermazione di Mito, alcuni suoi compagni di classe si erano girati incuriositi.

Vedendo poi che si trattava delle solite sparate megalomani del compagno di classe, avevano ripreso i loro discorsi come se nulla fosse.

“La prossima volta, ti prendo a testate” aggiunse poi il rosso, guardando minaccioso il suo migliore amico.

“Comunque, ” riprese Yohei, per nulla impaurito da quella minaccia, “hai fatto una bella cosa”.

“Che dubito avrà notato” ci tenette a puntualizzare Sakuragi.

“E se invece se ne fosse accorto?” lo pungolò Yohei, sempre più divertito.

“Mh…” mugugnò l’altro, non sapendo cosa rispondere.

“Dì la verità, speri che lo noti” insistette ancora il suo fidato braccio destro.

“Sì e no. Non lo so, Yo” e si prese la testa fra le mani.

“Hai agito d’istinto, Hana. Perché vuoi fargli conoscere una parte di te” iniziò Mito, saggio come sempre.


“Pensa di meno e lasciati andare” concluse poi, dandogli un affettuoso pugno sulla spalla a mo d’incoraggiamento.

“Mah… ci proverò” rispose titubante l’altro, e insieme si avviarono per consumare il loro bento con gli altri membri dell’armata.
 

                                             ………………………………………………………
 

Rukawa era in terrazza per pranzare in tutta solitudine come suo solito.

E, fin qui, niente di strano!

La cosa strana era che fra le mani, invece di avere il suo pranzo, aveva il compito che aveva ricevuto poco prima dal professore.

98, come cazzo è possibile? Pensava, continuando a guardare il foglio come se potesse risponderlo.

Aveva preso 98; la traduzione che gli aveva fatto Sakuragi gli aveva fruttato quasi il massimo dei voti.

Eppure, ricordava con esattezza che il do’hao (anche se forse questa non era l’occasione adatta per chiamarlo così) aveva appena dato un occhio al suo libro.

Ma allora, come era riuscito a tradurre il brano in così poco tempo, e in modo così perfetto?

Credeva che fosse una capra a scuola.

A meno che….

E gli vennero in mente i caratteri del libro che Sakuragi aveva con sé. Allora non si era sbagliato; erano caratteri occidentali.

Sbuffò, spazientito da tutta quella situazione. Perché Sakuragi assomigliava sempre di più a una matassa ingarbugliata, dove appena si pensa di avere il capo ci si rende conto, poco dopo, che non si è fatto altro che imbrogliare ancora di più il filo?

Eppure, al di là di tutto questo Rukawa aveva capito che la testa rossa non gli aveva fatto i compiti solo per fargli prendere un bel voto.

No… sembrava piuttosto che volesse dirgli qualcosa di lui.

Nel suo modo contorto ovvio, però, in ogni caso, Sakuragi gli aveva volontariamente rivelato una parte di se molto intima.

Forse iniziava a fidarsi di lui. Forse voleva lasciarsi conoscere da lui.

Voleva fargli vedere qualcosa di diverso rispetto a quello che vedevano tutti.

Qualcosa che rientrava nella sua sfera privata. E forse… era un modo un po’ impacciato di chiedergli di entrare nel suo mondo.

Un mondo dal quale lui stesso l’aveva volutamente cacciato poche sere prima a casa sua.

Sbuffò ancora, mettendo il compito da parte. Era stupido continuare a porsi domande inutili.

Si sarebbe rivolto al diretto interessato.

Che, stavolta, avrebbe risposto! In fondo, non poteva pretendere che lui non gli facesse nessuna domanda dopo aver lanciato un’esca di quella portata.

E poi gli doveva anche qualcos’altro.

Eh, sì! Perché il professore, stupito da tanto genio da parte di Rukawa, si era insospettito assegnandogli compiti extra.

In primis pensava avesse copiato. Ma poi, vedendo che nessun altro compito era a quei livelli, si era indispettito assegnandogli altri brani, pensando che in passato l’avesse preso in giro consegnandogli compiti che a malapena arrivavano ai quaranta.

Visto che Sakuragi era tanto bravo, li avrebbe rifilati a lui. Oltre a torchiarlo fino a quando non gli avesse dato delle risposte.

Bene! Parleremo a lungo stasera, do’hao! Pensò sicuro dei suoi propositi.

Propositi che durarono ben poco quando gli venne in mente che quella sera non avrebbe potuto fare proprio niente.

O meglio, non avrebbe potuto fare niente che comprendesse anche il suo compagno di squadra.

Cazzo, imprecò mentalmente ricordandosi che nella serata doveva vedere suo padre.

Mh… vorrà dire che avrai un giorno in più per pensare a cosa dirmi, do’hao, pensò ironico mettendosi sul fianco per recuperare il sonno perso a causa di quella scimmia rossa.
 

                                            ………………………………………………..
 

Sakuragi entrò negli spogliatoi. Era un po’ in anticipo e non fu sorpreso di trovare Rukawa già intento a cambiarsi.

Notò anche che non c’era nessuno oltre a loro. Con un bel respiro, si fece coraggio e si avvicinò alla panca per cambiarsi.

Le parole del suo fidato braccio destro gli risuonavano nella testa.

Pensa meno e lasciati andare.

E lui così avrebbe fatto. O, quanto meno, ci avrebbe provato!

Se Rukawa non si era accorto di niente, allora non avrebbe sollevato la questione.

Ma se invece avesse notato qualcosa, allora non si sarebbe tirato indietro.

Gli e lo doveva e stavolta non sarebbe scappato.

Forse perché era stanco di scappare. E perché era stufo di mentire a se stesso sul fatto che lui e Rukawa non fossero niente.

Non riusciva a dimenticare il bacio che c’era stato. Anzi, forse era stato proprio quello a spingerlo a fare quel gesto la sera prima.

Inconsciamente, voleva che Rukawa lo conoscesse. Che lo stimasse e non solo come giocatore di basket.

Aveva sempre cercato di attirare la sua attenzione, anche se a suon di botte e insulti.

E adesso era pronto a rivelargli una parte di se, qualora il compagno di squadra gli avesse chiesto qualcosa.

Anzi… ad affidargli una parte di se. Una parte che lui custodiva gelosamente e che avrebbe rivelato a pochi. O meglio… a nessuno all’infuori di lui.

Rukawa, dal canto suo, sapeva di avere poco tempo prima che arrivassero gli altri.

Era arrivato prima, come sua abitudine, con la speranza che il do’hao ( l’avrebbe chiamato così in ogni caso!) fosse diventato così ligio alle attività del club tanto da arrivare anche lui in anticipo.

E, a quanto pareva, le sue preghiere erano state esaudite visto che, poco dopo, la scimmia aveva fatto il suo ingresso negli spogliatoi.

Rukawa lo vide poggiare la sua borsa sulla panca con la sua solita grazia da elefante e decise di andare subito al dunque.

“Bella traduzione, do’hao” esordì serio.

Sakuragi sorrise appena nel sentirsi chiamare, ancora una volta, idiota.

Non sapeva se Rukawa l’avesse fatto apposta o no, ma una cosa era certa: la kitsune non avrebbe mai smesso di chiamarlo in quel modo.

In quel momento, Hanamichi capì che i loro non erano più insulti, quanto più nomignoli che si affibbiavano persone che fra di loro hanno un profondo legame.

E non poté non apprezzare questo lato di Rukawa.

Un Rukawa che voleva conoscerlo probabilmente, ma che qualunque cosa avesse saputo non avrebbe cambiato idea su di lui.

Proprio come Yohei, che comunque andavano le cose, rimaneva sempre al suo fianco.

Anche se avesse scoperto che Sakuragi era l’imperatore.

Perché, per Rukawa, lui non era un do’hao, ma il do’hao.

E, proprio in base a questo, decise che questa volta gli avrebbe mostrato qualcosa di se volontariamente e non per un caso fortuito… se il compagno di squadra avesse voluto.

“Lieto di esserti stato utile, kitsune” rispose sorridendo.

Rukawa fu per un attimo preso in contropiede.

Sakuragi non aveva negato nulla. Non era scappato a un confronto diretto con lui.

Era vero che era stato lo stesso Sakuragi a spingerlo su quella linea.

Ma, con quella scimmia rossa, niente era scontato. Con quella mente complicata che si ritrovava, Rukawa non aveva escluso che ancora una volta battesse in ritirata.

E invece Sakuragi non si era tirato indietro alle inevitabili domande.

E quello era un avvenimento storico. Ma soprattutto voleva dire che Rukawa, anche se aveva capito ben poco, su una cosa ci aveva azzeccato: Hanamichi iniziava a fidarsi di lui.

Fu per questo che gli rispose con un mezzo sorriso.

“Utile è dir poco. Mi ha fruttato quasi il massimo dei voti”.

Sakuragi si soffermò un attimo a osservare il volto dell’altro incurvato in un semi sorriso. E trovò che non vi fosse niente di più bello.

“Suppongo che il tuo sia stato un bel salto di qualità, eh kitsune?”.

Bene! Fin qui non è andata male, pensò Rukawa.

La scimmia sembrava più propensa a parlare e meno a insultarlo e a menare le mani.

Motivo per cui, pose la fatidica domanda.

“Mi piacerebbe solo sapere come hai fatto” chiese, con una certa nota di urgenza nella voce.

Gli altri sarebbero potuti arrivare da un momento all’altro.

E Sakuragi sarebbe sicuramente passato dalla modalità cordiale alla modalità buffone.

Sentì l’altro sospirare.
“È una lunga storia kitsune” sussurrò, diventando improvvisamente malinconico.

Rukawa lo notò ma, ancora una volta, fu costretto ad andare direttamente al punto.

“Che domani mi spiegherai” concluse con una costatazione piuttosto che con una domanda.

“Domani?” domandò perplesso l’altro.

“Stasera sono impegnato, do’hao” e si allontanò, sentendo gli altri entrare.

“EHI! SIETE IN RITARDO” urlò Sakuragi, indicando i compagni con un dito, dopo essere saltato sulla panca.

“COME FARESTE SENZA UN GEENIOO COOMEEE MEEEE? AH, AH, AH”.

Ecco! Pensò Rukawa sospirando. Come volevasi dimostrare.

“Idiota” disse, dando il suo contributo.

“EHI, COME OSI?” s’inalberò Sakuragi.

“Finiscila ritardato” intervenne Akagi, riportando l’ordine con uno dei suoi pugni.

“uffaaa… ma peerchè te la prendi seempreee cooon meeee?” piagnucolò Sakuragi massaggiandosi la testa.

“Tzè” fu il commento di Rukawa, che si avviò in palestra.

“EHI, BAKA” urlò Sakuragi avvicinandosi e parandosi davanti alla porta. “COME OSI IGNORARE IL SOMMO TENSAI?”.

Rukawa approfittò di quella vicinanza, mimando con le labbra “domani”.

“Finisci di cambiarti mentecatto” decretò ancora Akagi con un pugno.
“Ahio Gory, mi ha fatto la buaaa” piagnucolò a sua volta Sakuragi, inginocchiandosi a terra.

Non senza rivolgere però, a Rukawa, uno sguardo pieno di significato mimando a sua volta con le labbra un “ci sarò” prima di tornare a piagnucolare.

Era la conferma che Rukawa aspettava.

Lo aggirò facilmente e si avviò in palestra.

In altre circostanze, avrebbe addirittura sorriso per esternare il suo buon umore.

Aveva ottenuto il suo scopo. E le cose non stavano andando bene. Stavano andando più che bene.
 

Continua….

Note:
Gli avvenimenti trattati in questo capitolo sono ambientati nella puntata 62 dell’anime.
Si tratta del secondo giorno di allenamento speciale di Hanamichi.
 
Spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto! Mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate!

A domenica prossima con il nuovo aggiornamento!!!

Pandora86

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Capitolo 22
*** La tua insicurezza ***


Ecco a voi il ventunesimo capitolo di questa fic.
Come il solito, grazie per le bellissime recensioni che mi spronano a dare sempre il massimo.
Grazie anche a chi ha aggiunto la storia tra le preferite e le seguite.
E, ovviamente, grazie anche a tutti i lettori silenziosi.
Ci vediamo a fine capitolo per le note e le informazioni riguardo le prossime pubblicazioni.
Per adesso, buona lettura!
 

Capitolo 21. La tua insicurezza
 

Sakuragi puliva la palestra pensieroso.

Il gorilla era andato via poco prima, e lui aveva finito i suoi trecento tiri d’allenamento centrandoli tutti, senza sbagliare una sola volta.

L’indomani, avrebbero giocato contro il Takezato e lui si sentiva carico come non mai.

Chissà quali sarebbero state le reazioni della squadra quando lui avrebbe fatto vedere quello che aveva imparato.

Ma, soprattutto, chissà lui che faccia avrebbe fatto.

Oddio, forse sperare in un cambio d’espressione in una persona dove la mimica facciale era ridotta ai minimi termini era più utopia che altro.

Però, Sakuragi era sicuro di riuscire a capire il suo umore.

Era vero che la sua espressione non cambiava mai. Ciò nonostante, gli sarebbe bastato guardare i suoi occhi. Perché quelli cambiavano eccome.

E non mentivano mai.

Si avviò nello spogliatoio pensando che, in effetti, non era propriamente vero che Rukawa non cambiava mai espressione.

Ricordava come il pomeriggio precedente avesse sorriso.

E si senti felice. Rukawa aveva sorriso, e quel sorriso lo aveva rivolto a lui.

Notò, con una punta di delusione, che le luci erano spente e lo spogliatoio vuoto.

Era vero che l’altro gli aveva detto che il giorno dopo avrebbero parlato.

Tuttavia, non aveva specificato il quando. Così, si era aspettato che lo facessero a ora di pranzo, magari lontano da orecchie indiscrete.

Oppure, prima dell’allenamento. Ma, di Rukawa, manco l’ombra prima degli allenamenti.

Così, si era dato dello stupido pensando che due giorni prima Rukawa lo aveva aspettato dopo il suo allenamento supplementare.

Di conseguenza, avrebbe fatto così anche stavolta.

Peccato che però lo spogliatoio fosse vuoto, e Sakuragi si sentì improvvisamente triste.

Sono solo un idiota, pensò con un vuoto allo stomaco che non accennava a diminuire. 
A lui interessa solo il basket.

E, in fondo, era meglio così. Tuttavia, sentì gli occhi pizzicare.

Le lacrime insistevano per uscire ma lui non avrebbe ceduto.

Possibile che fosse diventato così idiota? Era solo un debole, se piangeva per un motivo del genere.

Eppure, la delusione era cocente. Pensava che Rukawa fosse interessato a lui, ed era stato felice quando l’altro aveva chiesto spiegazioni.

Si era sentito importante, e quello l’aveva spronato a dare il meglio di se nell’allenamento.

Lui, una volta tanto, aveva provato a non tirarsi indietro.

Era stato disposto a raccontargli la parte più cara e intima che possedeva.

Ma, evidentemente, l’interesse di Rukawa sulla traduzione era stata una curiosità momentanea.

E anche il suo interesse per me lo è? Si domandò Hanamichi, asciugandosi con cura.

La doccia non lo aveva rilassato ne aveva portato via la tristezza.

Una lacrima sfuggì al suo controllo, e Hanamichi si sentì invadere dalla rabbia.

Perché Rukawa lo rendeva debole.

Aveva permesso all’altro di avere un certo ascendente su di lui e di dominare i suoi sentimenti.

Si asciugò gli occhi con rabbia.

Lui non aveva bisogno delle attenzioni elemosinate della kitsune.

Lui non aveva bisogno di nessuno.

E l’indomani, prima, durante e dopo la partita avrebbe rimesso le cose a posto, riportandole allo stadio originario.

E non avrebbe mai più permesso a Rukawa di prenderlo per il culo.

Perché lui era il Tensai. Ma soprattutto perché non voleva più soffrire.

In fondo, era sempre stato contento che Rukawa all’inizio non lo sopportasse.

Lui lo sapeva, anche se lo negava con insistenza, di provare attrazione per il numero undici.

Ma sapeva anche che, con un tipo come lui, avrebbe solo sofferto. Però, Rukawa non lo calcolava di striscio, e quando lo faceva era per insultarlo e fargli così notare che l’antipatia era reciproca.

Motivo per cui, era più facile gestire la cosa.

Poi le cose erano iniziate a cambiare. Rukawa lo aveva cercato. Lo aveva consolato e abbracciato, finendo addirittura per baciarsi.

E lui, in cuor suo, aveva iniziato a sperare.

E, esserselo trovato due sere prima al locale dove lavorava, gli aveva fatto scattare qualcosa.

Vederlo lì, con quei libri, lo aveva fatto ridere di gusto. E, in quel momento, la proposta fatta da Rukawa era diventata più difficile da ignorare.

Motivo per cui, gli aveva fatto quella traduzione.

Perso in questi tristi pensieri, uscì dalla palestra.

Vide che Mito non era ancora arrivato.

Uscì dalla scuola, rimanendo in attesa e sospirando.

Che stupido era stato. Ma non ci sarebbe cascato più.

Chiuse gli occhi, lasciando che la leggera brezza dell’aria serale gli accarezzasse il viso.

Non si accorse che qualcuno alle sue spalle lo guardava con uno strano cipiglio.

“Devo aspettare ancora molto do’hao?”.

Sakuragi aprì gli occhi sussultando. Quella voce…. non poteva essere un parto della sua mente.

“Ki- kitsune?”domandò, voltandosi incerto.

Rukawa lo osservò, inarcando un sopracciglio.

Ma che aveva?

Gli occhi poi… gli sembravano lucidi.

Possibile che avesse pianto? E perché poi?

E soprattutto, perché diamine sembrava sorpreso di trovarlo lì?

Possibile che avesse sperato che lui si tirasse indietro?

Oppure, era Sakuragi stesso a volersi battere in ritirata ancora una volta?

Eh no! Stavolta non te lo permetto, pensò rabbioso.

“Mi sembrava avessimo da fare do’hao” sibilò freddo.

Sakuragi sgranò gli occhi.

Allora lo stava aspettando fuori.

Sorrise sincero.

Però che cavolo, pensò corrugando la fronte, non poteva essere un po’ più chiaro?

Che diamine gli costava, il giorno prima, specificare il quando avrebbero parlato? Pensò ancora, con un cipiglio sul volto.

E poi, lui ora aveva da fare. Prima lo evitava tutta la giornata e poi di sera lo cercava.

Non si ricordava che doveva lavorare?

Rukawa osservò con interesse il compagno di squadra che cambiava espressione ogni millesimo di secondo.

Ma che diamine aveva quella sera?

Quando lui gli aveva ricordato dell’appuntamento, aveva sorriso.

Quindi, voleva dire che non l’aveva dimenticato e che anche lui voleva un confronto.

Ma ecco che poi si rabbuiava di nuovo pensando a chissà cosa.

E poi, quegli occhi lucidi… possibile che avere a che fare con quella testa matta non fosse mai semplice?
Eppure lui era stato chiaro.

Tuttavia, non dovette aspettare molto per conoscere i pensieri di Sakuragi visto che questi parlò esprimendo tutto il suo disappunto.

“Io adesso ho da fare baka. O pensi che stia ai tuoi comodi?”.

In fondo, Mito sarebbe venuto a momenti valutò fra se Sakuragi.

Chi era Rukawa per decidere il come e il quando, pretendendo che lui desse buca all’amico che si disturbava in quel modo per lui?

Proprio nessuno. E non avrebbe mancato di farglielo notare.

Rukawa lo guardò scettico. Allora era per questo che si era mostrato sorpreso nel trovarlo lì.

Lui, in effetti, non aveva specificato l’ora e nemmeno la parte della giornata.

Ma credeva fosse ovvio, che cavolo!

Tutto quell’astio poi. Evidentemente, Sakuragi era rimasto deluso nel non trovarlo in palestra, e per questo forse aveva pianto.

Rukawa provò una grande tenerezza per quella testa rossa. Nonostante si autoproclamasse il Tensai, era così insicuro su se stesso che non averlo trovato nello spogliatoio gli aveva fatto credere di essere stato preso in giro.

Si era sentito abbandonato ancora una volta probabilmente, proprio quando lui aveva deciso di fare un passo avanti.

Ed ecco che, di conseguenza, alzava nuovamente le sue barriere, chiudendosi in se stesso e diventando pungente.

Rukawa avrebbe voluto consolarlo e rassicurarlo.

Ma, tanto per cambiare l’altro non avrebbe gradito, reagendo ancora peggio.

Si sarebbe sentito messo a nudo per le sue debolezze, e allora di certo lo avrebbe preso a pugni.

Rukawa era sicuro di ciò, perché c’era una cosa che più di tutte ammirava in Sakuragi: la sua forza.

La sua sorprendente forza fisica. La sua incrollabile forza d’animo. La sua illimitata forza di volontà. La sua ostinata forza nell’andare avanti nonostante tutto, non volendo in nessun modo la compassione della gente.

Una parola che racchiudeva forse tutto del compagno di squadra.

Sakuragi era una forza in tutti i sensi. La stessa forza che spronava anche il resto della squadra, e lo stesso Rukawa, quando Sakuragi sorprendeva tutti con i suoi miracoli in campo.

In effetti, rifletté Rukawa, se avesse dovuto descriverlo in un unico termine, avrebbe usato proprio quello.

Tuttavia, anche il suo orgoglio era una barriera dura da abbattere. Anzi, probabilmente, era l’ovvia conseguenza del suo modo di essere.

Non si poteva avere un carattere tanto forte senza avere un orgoglio sopra la media.

E questo, del resto, valeva anche per lui.

Erano due ossi duri in fatto d’orgoglio.

Ma, in fondo, di che si lamentava?

Aveva sempre saputo che Sakuragi non era facile da gestire.

Era un vulcano sempre pronto a eruttare. Indomabile per natura. E lo dimostrava proprio l’ultima frase che aveva detto.

Oltre a questo però, la scimmia era anche un imbecille patentato che si perdeva nelle cose più ovvie se non gli venivano specificate. Poi reagiva di conseguenza, senza neanche accertarsi di avere ragione.

Lui poi, da parte sua, misurava le parole manco le pagasse. E, nel caso specifico, anche se con Sakuragi avesse parlato un po’ di più, sapeva che questi non avrebbe gradito fraintendendo il suo cambiamento, credendolo dovuto a chissà quali ridicoli motivi.

E la testata sarebbe partita all’istante!

A questo pensiero, però Rukawa non poté trattenere un sorriso. Gli altri si lamentavano continuamente del fatto che lui parlasse poco. Invece, Sakuragi lo voleva così com’era. Lo accettava con i suoi silenzi e con la sua introversione.

E non gradiva nessun cambiamento, soprattutto se rivolto a lui.

Non voleva compassione, ne riguardi. Voleva semplicemente che gli altri lo trattassero normalmente. E, nel caso di Rukawa, voleva appunto che l’altro lo apprezzasse per come era, e che non sentisse il bisogno di parlare se non voleva.

E, soprattutto, che non si sforzasse di essere diverso perché mosso dall’affetto che provava.

Del resto, bastava Sakuragi a chiacchierare e fare casino per entrambi.

Ciò nonostante, rimaneva il fatto che per loro gli equivoci sarebbero stati all’ordine del giorno, ora e sempre.

Ma che bella coppia che siamo, pensò Rukawa ironico, non potendo però fare a meno di soffermarsi sull’ultima parola che aveva pensato.

Coppia… com’era piacevole pensare a loro due in questi termini.

Fatto sta che adesso si trovava a dover calmare la scimmia rossa che, tanto per cambiare, era partita per la tangente prendendo fischi per fiaschi.

“Mi sembrava che l’ora fosse ovvia, do’hao. O preferisci mettere i manifesti a scuola?” lo provocò volutamente.

Sakuragi boccheggiò alla ricerca di parole per contraddire il numero undici.

In effetti, l’ora era ovvia.

Però io lo aspettavo in palestra, s’impuntò mentalmente, cocciuto come non mai, non volendo assolutamente dare  ragione al compagno di squadra.

“Beh, ” incominciò, “ora aspetto qualcun altro” concluse imbronciato, incrociando le braccia e sfidandolo a contraddirlo.

In fondo, Yohei sarebbe stato lì a momenti. Anzi, dove diavolo era finito?

Cos’è, siamo all’asilo? Si domandò Rukawa, osservando l’atteggiamento e la posa assunta da Sakuragi.

“Intendi il tuo amico?” domandò invece, con un mezzo ghigno.

Sakuragi, tanto per cambiare, fraintese la sua espressione.

Perché ghignava parlando di Yohei?

Ma come diavolo si permetteva?

A quel punto, non ci vide più.

“CHE RAZZA DI ESPRESSIONE È QUELLA, BAKA?

Sì, INTENDO PROPRIO IL MIO AMICO E NEANCHE LUI È AI TUOI PORCI COMODI”.

Si avvicinò, afferrando l’altro per la collottola.

“o pensi che gli dia il pacco solo perché devo parlare con te?” gli sibilò rabbioso.

Rukawa sospirò.

“Non intendevo dire questo do’hao. Ti ho solo domandato se parlavi del tuo amico” gli fece notare con ovvietà.

Sakuragi rimase per un attimo interdetto. In effetti, aveva un senso… forse.

Ma allora, cosa diavolo era quell’espressione ironica?

“E allora perché ghignavi baka?” domandò ancora Sakuragi, allentando tuttavia la presa.

Cosa che a Rukawa non sfuggì, visto che con una mano allontanò l’altro da se.

“Io non ghignavo do’hao” rispose sicuro, anche se, in effetti, era proprio quello che aveva fatto.

Tuttavia, l’altro ne aveva frainteso il motivo di conseguenza, non avendolo fatto per i motivi che intendeva Sakuragi, allora era come se non l’avesse fatto.

Ragionamento ovvio, decretò fra se Rukawa, che però stavolta aggiunse.

“E comunque, te l’ho domandato perché io l’ho appena mandato via” concluse sicuro.

A quel punto, Sakuragi fece un passo indietro.

Che cosa aveva detto? Aveva mandato via Yo?

Ma perché? E soprattutto, perché diavolo Yo era stato a sentire qual baka?

Forse vuole farmi un favore, pensò giustificando l’amico.

Ma il comportamento di Rukawa che senso aveva?

“C-cosa?...  Ma…ma p-perché?” balbettò incerto.

Rukawa, a quel punto, si mosse andando a recuperare la sua bicicletta appoggiata vicino al muro.

Con decisione, si mise in sella.

“Salta su do’hao” disse deciso

“MA HAI BEVUTO BAKA?” si alterò nuovamente Sakuragi che, in verità, non ci capiva più nulla e, come al solito, nascondeva la sua insicurezza dando sfogo alla sua irascibilità.

“Ti accompagno io a lavoro do’hao” aggiunse Rukawa, guardandolo torvo con il tono di chi spiega che due più due fa quattro a un bambino particolarmente cocciuto.

“IO SU QUELLA COSA SGANGHERATA NON CI SALGO” urlò ancora Sakuragi.

“Sali, prima che il vicinato chiami qualcuno per schiamazzi notturni” gli fece notare ancora Rukawa.

Se la scimmia avesse continuato a urlare, facendosi sentire da tutte le abitazioni nei pressi della scuola, tra un po’ si sarebbero affacciati tutti.

Sakuragi, a quell’osservazione, si guardò intorno e si avvicinò scettico.

“Perché devo stare dietro?” domandò, stavolta con un tono di voce bassissimo.

O uno o novanta, pensò Rukawa che rispose con tono pratico guardandolo come se parlasse a un mentecatto.

“Perché la bici è mia”.

Sakuragi, a quel punto, non avendo più nulla da obiettare salì.

Non si fidava della guida della kitsune e allacciò le braccia intorno al suo torace con un gesto automatico.

Rukawa lo notò e si chiese se l’altro se ne fosse accorto.

“Vedi di farmi arrivare vivo kitsune” sibilò ancora Sakuragi.

Rukawa sorrise e cominciò a pedalare.

“Sai almeno la strada kitsune?” lo provocò ancora.

“Nh, ovvio do’hao” rispose, come al solito, l’altro.

Solo in quel momento Sakuragi si accorse di stare abbracciando Rukawa.

Oddio, proprio un abbraccio non era, considerato che era dovuto dalla situazione.

Però, gli era venuto automatico farlo e Rukawa non aveva obiettato.

Tra l‘altro, era la prima volta che aveva un contatto così intimo dopo il bacio che c’era stato.

Si irrigidì leggermente ma non si scostò. Sentì l’imbarazzo crescere in lui.

In fondo lui non sa che ero sveglio, decretò fra se deciso, non riuscendo però a impedire al suo viso di raggiungere la stessa tonalità dei capelli.

Meno male che sono di spalle, si consolò osservando la schiena della kitsune che pedalava sicura.

Quella serata stava prendendo una piega decisamente strana.
 
 

Continua….
 
Note:

Gli avvenimenti letti in questo capitolo sono ambientati nella puntata 62 dell’anime.

È il terzo e ultimo giorno di allenamento speciale di Hanamichi.
 
Spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto.

Mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate.

Ci vediamo domenica prossima con il nuovo capitolo!

Pandora86

 

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Capitolo 23
*** La tua forza ***


 Ecco a voi il ventiduesimo capitolo della fic.
Come il solito grazie per le bellissime recensioni, e anche a chi continua a inserire la storia tra le preferite e le seguite.
Ovviamente grazie anche a tutti i lettori silenziosi.
Ci vediamo a fine capitolo per le note e le informazioni riguardo alle prossime pubblicazioni. 
Per adesso, buona lettura.
 
 
Capitolo 22.  La tua forza

 
Rukawa guardava Sakuragi servire i tavoli da circa due ore, reprimendo uno sbadiglio.

Era interessante guardare Sakuragi in un ambiente così diverso dalla scuola.

Il rosso aveva un’aria cordiale e rilassata, e aveva molto successo con i clienti che serviva, che fossero uomini o donne, giovani o di mezz’età.

Prima, l’aveva visto sorridere dolcemente a una donna sulla cinquantina che gli aveva fatto una carezza, guardandolo come se fosse suo figlio.

L’aveva visto scherzare allegramente con la sua collega, con una risata così diversa da quelle che propinava a scuola.

La scimmia aveva proprio carisma quando voleva e non se ne rendeva neanche conto.

Riusciva a rapportarsi con tutti i tipi di clienti, che fossero degli snob con la puzza sotto il naso o dei perdigiorno senza cervello.

Evidentemente, si trovava a suo agio in quell’ambiente. Molto più di quando era a scuola sicuramente.

E anche il proprietario del locale sembrava volergli molto bene, nonostante l’apparenza dell’uomo fosse così burbera.

Sakuragi sapeva essere cordiale e disponibile, ma anche minaccioso e autoritario se lo riteneva necessario.

Rukawa ripensò alla semi rissa a cui aveva assistito neanche mezz’ora prima. In quel momento, aveva capito perché Sakuragi lavorasse solo negli orari serali, in un locale aperto tutto il giorno.

Due clienti particolarmente alticci si erano mostrati parecchio piantagrane nel momento del pagamento.

Rukawa aveva osservato il rosso avvicinarsi provando un certo timore per lui, soprattutto quando uno dei due aveva afferrato una bottiglia vuota.

Peccato che Sakuragi li avesse sbattuti fuori in men che non si dica, quasi rompendo il braccio a uno e, soprattutto, non creando panico fra gli altri clienti.

E Rukawa costatò che lui aveva avuto timore perché temeva che il rosso potesse farsi male, essendo legato a lui da un sentimento profondo.

Gli altri clienti, invece, avevano dimostrato di avere piena fiducia di Sakuragi, e di conseguenza non si erano scomposti minimamente durante gli scambi di battute particolarmente accesi che c’erano stati.

Erano rassicurati dalla sua presenza anche non conoscendolo. E non solo dalla sua stazza, ma soprattutto dalla sua espressione.

Un’espressione sicura di chi ha la situazione sotto controllo.

C’erano anche stati diversi scambi di battute tra i clienti e addirittura scommesse.

“Scommettiamo che li sistema in meno di cinque minuti?”aveva detto uno allegramente.

“Secondo voi, quei due escono vivi?”aveva detto un altro sghignazzando.

E Rukawa aveva sentito la sua ammirazione crescere.

Perché anche lui era forte dal punto di vista fisico.

Ma Sakuragi, oltre ad essere dotato per natura, aveva quel tipo di forza e quello sguardo forgiati dalla strada.

In effetti, era una cosa che anche Mito gli aveva fatto notare non molto tempo prima.

Anche se sei molto forte, non sei cresciuto in strada gli aveva detto.

Solo in quel momento, Rukawa capì il pieno significato di quelle parole.

E, per la prima volta, si sentì inferiore rispetto al rosso.

Che cos’era lui, cresciuto tra gli agi della sua ricca famiglia, rispetto a Sakuragi, che si era forgiato in momenti difficili e in situazioni pericolose?

Proprio niente, ammise fra se con rammarico.

Ripensò alla rissa in palestra. E le domande, a quel punto, iniziarono a scorrere veloci nella sua testa.

Quanto tempo ci aveva messo lui a cadere semi svenuto sul parquet della palestra?

Gli era bastato perdere un po’ di sangue.

Tra l’altro, era stato steso proprio dal tipo che Sakuragi aveva mandato al tappeto senza difficoltà.

Lui era stato messo a terra in un colpo solo. Hanamichi invece, dopo averle prese, lo aveva sistemato in poco. E i colpi ricevuti non avevano sortito in lui nessun effetto.

Non aveva neanche sentito lo spazzolone che gli era stato dato in testa da Mitsui.

Stranamente, solo ora assemblava i pezzi di quello che era avvenuto quella volta. E non perché era quasi svenuto.

In effetti, ricordava abbastanza tutto, nonostante lui all’epoca fosse stato semi incosciente, per una buona parte.

Diciamo che ora aveva più dati a disposizione, che gli permettevano di notare quei particolari che gli erano sfuggiti.

In effetti, ricordò come l’armata di Sakuragi fosse venuta in soccorso dell’amico.

Eppure, una volta arrivati lì, non si erano preoccupati minimamente del loro capo. Anzi, ognuno aveva pensato a entrare pienamente nella rissa.

Lo stesso Mito non aveva badato più di tanto a Sakuragi, nonostante il suo viso fosse sporco di sangue.

E, solo in quel momento, Rukawa capì il perché.

L’armata si era messa in mezzo per prendersi le colpe e non fare ricadere il tutto sul club di basket.

E non perché temeva per l’incolumità del loro capo.

Loro sapevano benissimo che Sakuragi avrebbe potuto stendere tutti senza fatica. Anche lui aveva perso sangue, ma non se ne era minimamente accorto.

E i suoi amici non se ne erano preoccupati per niente.

Di certo poi non era svenuto.

Il suo gruppo era intervenuto semplicemente per “parata”; in altre parole, per togliere la squadra dagli impicci.

Rukawa si sentì improvvisamente triste.

Quel ricordo tanto caro che aveva, ora perdeva di significato.

Ricordava che lui e Sakuragi erano intervenuti all’unisono; e si era sentito una cosa con il rosso.

Si era sentito parte di lui nel difendere, insieme, qualcosa a cui entrambi tenevano.

Si era sentito forte come lui nell’affrontare quei teppisti.

Ma ora capiva che lui non aveva fatto proprio niente. A Sakuragi, del suo intervento, non avrebbe potuto fregare di meno.

Si era trattenuto perché temeva per il club, prendendole senza fare niente, ma intervenendo poi per salvare il playmaker.

Però, l’intervento della sua armata aveva dato il via. E lui si era scatenato.

Rukawa capì di essere stato cieco nel paragonarsi a lui. E soprattutto, molto presuntuoso.

Solamente perché facevano rissa di continuo, non voleva dire che erano sullo stesso piano. Anzi, lui a confronto non era niente.

Chissà, magari i suoi colpi, il rosso neanche li sentiva quando litigavano.

Come poteva sentire i suoi cazzotti se gli era stato rotto lo spazzolone che usavano per pulire il parquet in testa e lui non si era minimamente scomposto?

Si era rialzato persino dopo essere stato sbattuto con la testa nella porta della palestra.

Dalla stessa persona che aveva messo K.O. Rukawa senza difficoltà.

Ripensò, in quel momento, alle sue parole.

“Ma guarda”, aveva detto toccandosi il volto, “ci deve essere un moscerino insignificante e dispettoso che mi ha punto sulla guancia.

Ma io non ho sentito niente. NIENTE DI NIENTE”.

Mitsui e gli altri lo avevano poi circondato.

“Ehi pagliaccio”, erano state le parole del tiratore, “perché non la pianti di fare superman?”.

Lo stesso Rukawa si era alzato in piedi dopo quelle parole.

Temeva per il rosso, per la sua capacità di ficcarsi nei guai, volendo affrontare tutti quei teppisti insieme e da solo. Era stato questo il pensiero di allora. Quello che l’aveva fatto alzare in piedi.

Peccato che poi non fosse riuscito a fare niente, crollando nuovamente sul parquet; era troppo debole e Testuo gli aveva dato il colpo di grazia.

Ricordò, in quel momento, di aver sperato che quanto meno Sakuragi stesse zitto, così da non farsi conciare per le feste, invece di straparlare come il discorso che aveva fatto a Tetsuo, al quale Rukawa, da attento osservatore quale si riteneva, non aveva saputo dare la giusta importanza.

Solo in quel momento, seduto al tavolo di un bar, osservando Sakuragi trottare allegramente da un cliente all’altro, Rukawa capì che quelle parole erano la verità.

Le parole che preannunciavano il vero volto di Sakuragi: un Sakuragi che finalmente decide di mostrarsi per quello che è.

E lui, nonostante lo osservasse da tanto tempo, non ne aveva saputo scorgere il significato. Un significato che adesso gli appariva chiaro come non mai. 

Rukawa era stato steso da Tetsuo senza poter fare niente.

Invece Sakuragi non aveva voluto fare niente.

Ed era qui che stava la differenza.

Per questo probabilmente Tetsuo aveva riso. Il ragazzino che aveva davanti, lo stimolava. Ma non aveva ancora capito che sarebbe stato lui a prenderle.

Per questo forse Sakuragi si era anche fatto prendere a pugni successivamente.

Solo per far capire all’altro che era una nullità in confronto alla sua forza.

Solo per deriderlo quando aveva iniziato a deviare i pugni con una facilità estrema.

Per questo si era fatto afferrare e colpire. Per questo aveva incassato.

Per far capire agli altri che non erano come lui.

Per far capire, a chi aveva di fronte, che lui stava solo giocando.

Fino a che, con l’intervento della sua armata, aveva deciso di fare sul serio.

Rukawa si sentì improvvisamente svuotato.

Che cosa poteva dare lui, a una persona come Sakuragi, oltre il basket?

Che poi, visto quanto imparava, chi gli assicurava che presto non lo avrebbe battuto?

Si sentì piccolo davanti alle esperienze e alle qualità dell’altro. E, per la prima volta, ebbe timore. Timore di non essere all’altezza.

Lui era più bravo a giocare a basket. Sakuragi era più bravo a vivere.

La risata del soggetto in questione lo riscosse dai suoi pensieri.

Non ha importanza, pensò guardandolo.

Non avevano importanza, infatti, le differenze tra loro considerò fra se deciso. Sakuragi sarebbe stato suo.

E insieme, si sarebbero migliorati a vicenda. Avrebbero imparato l’uno dall’altro. Lui avrebbe insegnato all’altro quello che lo sport ancora gli nascondeva, gli avrebbe fatto comprendere appieno l’amore che il basket riusciva a scatenare nel loro animo, dandogli così un obiettivo.

Sakuragi gli avrebbe insegnato la gioia che si prova nel condividere lo stesso obiettivo con qualcuno, vivendo appieno la vita.

E non si sarebbe fatto più prendere da questi pensieri. Avrebbe accettato la superiorità dell’altro, ora che gli era saltata all’occhio.

Ma non avrebbe rinunciato a lui per nessun motivo. O non si sarebbe chiamato Kaede Rukawa.

Vide il proprietario del locale avvicinarsi Sakuragi per parlargli.

“Vai a casa ragazzo, per stasera hai lavorato abbastanza”.

“Ma signore”, protestò il soggetto in questione, “non sono neanche a metà del mio turno”.

“Diciamo che hai fatto gli straordinari con quei due tipi prima”rispose l’altro ridendo.

“Ma non ho comunque finito” s’incaponì, testardo, il rosso.

Rukawa quasi sorrise. Tipico di Sakuragi comportarsi così.

“Vai a casa ragazzo, che domani devi anche giocare”.

“Ma signore”, tentò ancora Sakuragi.

“Non farmelo ripetere”, lo interruppe l’uomo, “ fila e cambiarti e va a casa. Ci vediamo domani alla stessa ora”concluse imperativo e si voltò, dedicandosi ad altri clienti.

Sakuragi si avviò con un mezzo sbuffo nel retro del locale per poi uscirne dieci minuti dopo contrariato con non mai.

A Rukawa non ci volle molto per capire che era di pessimo umore.

Povero me, pensò sconsolato vedendo il rosso avvicinarsi.

Adesso sarebbe toccato a lui sorbirsi i malumori dell’altro.

“Allora kitsune, hai finito di dormire sul tavolo?”esordì, infatti, brusco.

“Nh…”mugugnò Rukawa alzandosi e avvicinandosi alla cassa per pagare.

“Lascia stare, stasera offro io” fece Sakuragi sbrigativo.

Rukawa alzò un sopracciglio perplesso.

“Senti, mi sono sdebitato per il passaggio. O pensi che sia tanto a terra da non poterti nemmeno pagare la cena?”si alterò a quel punto Sakuragi.

“Nh… do’hao” concluse Rukawa, avviandosi verso l’uscita.

Come aveva previsto, la testa rossa sfogava su di lui i suoi malumori, scattando come una molla per un nonnulla.

Meglio non fargli notare che era lo stesso Rukawa a dovergli un favore per la traduzione.

Sarebbe montato su tutte le furie urlando che l’aveva fatto per mettersi in mostra e per fargli fare la figura dell’ignorante, o chissà quale altro motivo.

Avrebbe comunque tenuto a specificare che non l’aveva fatto per fargli un favore.

Notò che Sakuragi lo aveva seguito guardando l’orologio. Sapeva cosa stesse pensando.

Erano appena le undici e venti e il proprietario del locale l’aveva mandato via molto tempo prima.

“Ti vuole bene”, disse a un certo punto Rukawa, “lo fa per affetto”.

L’altro lo guardò sorpreso per poi sospirare.

Da quando la kitsune legge nel pensiero? Pensò, non proprio sicuro che la cosa gli facesse piacere.

“Lo so, ” ammise, “e adesso che si fa?”domandò, più che altro, per cambiare argomento.

Sapeva anche lui che l’uomo gli voleva bene e che non era mosso da compassione.

Ma gli aveva dato fastidio lo stesso far vedere che lui aveva dei riguardi nei suoi confronti a Rukawa.

Già lo considerava un idiota. Di questo passo, cos’avrebbe pensato? Si domandò perplesso ignaro che, ancora una volta, il numero undici aveva perfettamente seguito il filo dei suoi pensieri.

“Ovvio, do’hao. Andiamo a casa mia” rispose Rukawa, salendo in sella alla sua fedele bici.

“Tra l’altro, mi devi fare i compiti”precisò Rukawa per metterlo a suo agio.

Sapeva che ritornare in quella casa gli avrebbe creato parecchio imbarazzo.

“Non pensavo che oltre a essere una kitsune, fossi anche una capra” lo sfotté pungente Sakuragi salendo in bici dietro di lui.

Rukawa iniziò a pedalare notando che però stavolta non gli stringeva la vita. Si manteneva in perfetto equilibrio, tenendosi alla maggiore distanza dal suo corpo concessagli dalla situazione.
Segno che era teso.

Tra l’altro notò, ricollegandosi ai suoi pensieri di poco prima, che Sakuragi non aveva nessuna difficoltà a rimanere in equilibrio, pur non aggrappandosi alla sua schiena, ma anzi, tenendo le mani poggiate sulle ginocchia.

I suoi muscoli dovevano essere abbastanza tesi, tanto da permettergli di sedersi dietro di lui non stringendo volutamente nessun appiglio e, nello stesso tempo, non cadere mentre l’altro pedalava.

Eppure, Sakuragi non dava il minimo segno di ciò. Sembrava rilassato in apparenza.  Come se stesse seduto su una sedia, con le mani mollemente poggiate sulle ginocchia.

Che persona straordinaria sei, Hanamichi? Si domandò concedendosi, anche se solo nella sua mente, di chiamarlo per nome.

Perché definirlo atleticamente preparato, sarebbe stato riduttivo.

Da qui i pensieri di Rukawa andarono, come ovvia conseguenza, all’incredibile resistenza che mostrava nelle partite.

Resistenza che, probabilmente, batteva anche quella del capitano.

E confronto alla sua cos’era poi?

Lasciamo stare, pensò non riuscendo a impedire che il suo sguardo se incupisse.

Lui giocava a basket da anni. Eppure, durante la partita con il Kainan era praticamente svenuto.

Si allenava tutti i giorni. Si sottoponeva a esercizi duri costantemente.

Ma a cosa serviva tutto ciò se paragonato alla resistenza dell’altro, che si allenava meno di lui, considerato tutto quello che aveva da fare, e da molto meno tempo soprattutto?

Proprio niente, pensò ancora più sconsolato.

Era questo che in quel momento si sentiva rispetto a Sakuragi: niente.

Gli altri non se ne erano mai accorti.

Lui che, con una forza del genere, si teneva i pugni di Akagi.

Lui che, quando voleva, compiva dei miracoli in campo.

Lui che, con quella resistenza, di partite avrebbe potuto giocarne anche due di fila.

Lui che, con una tale forza muscolare, riusciva a saltare più in alto di Akagi.

Eppure, gli altri, anche notando che aveva talento, non si sorprendevano come invece avrebbero dovuto.

E questo perché si ostinava a comportarsi come un mentecatto.

Certo, aveva la sua fama di teppista a scuola. Ma, era appunto una fama. Nessuno sapeva quanto in realtà fosse forte. In caso contrario, tempo prima Mitsui non lo avrebbe di certo sfidato con la sua banda, nella famosa rissa.

Certo, era venuto per il playmaker. Ma, con una persona simile in palestra, chi sano di mente si sarebbe presentato per fare a botte?

 Tra l’altro, anche Sakuragi stesso si era trattenuto, fino a quando la situazione non era poi degenerata.

Sembrava che lui ci tenesse di più a fare il buffone.

E Rukawa capì anche perché. Lui voleva essere amico di tutti. Lui voleva essere accettato, e risultare simpatico facendo ridere la gente.

Per questo si teneva i pugni di Akagi. Anzi, li provocava addirittura.

Erano il suo rapporto speciale con il capitano.

E le nostre risse cosa sono invece per te, Hanamichi? Si domandò a quel punto.

L’atteggiamento di Sakuragi nei confronti degli altri era chiaro. Non voleva che lo temessero, ma che non lo abbandonassero.

E, con il suo comportamento, non allontanava nessuno. In fondo, come si può avere paura di un buffone, anche se è una testa calda?

Sapevano che era forte, ma giustificavano il tutto pensando che fosse dovuto semplicemente al fatto che in passato si buttava a capofitto nelle risse.

Nessuno, infatti, si faceva problemi a chiamarlo idiota. Nessuno aveva paura di lui.

Solo un buffone, un po’ attaccabrighe, che in fondo a menare le mani non se la cavava male.

Neanche Rukawa stesso aveva fatto alla sua superiorità fisica caso fino a pochi istanti prima.

Aveva sempre pensato che fosse dotato. Che fosse una forza della natura.

Ma mai che gli fosse superiore. Mai che fosse superiore a tutta la squadra messa assieme.

Eppure, che lo volesse o no, questa era la nuda realtà cadutagli improvvisamente sulla testa.

E, per la prima volta, si domandò cosa ci trovasse l’altro in lui.

Lui oramai aveva capito completamente perché si era incaponito così tanto sul rosso.

Con molta probabilità, aveva sempre avvertito inconsciamente che Sakuragi gli fosse superiore. E che presto sarebbe diventato un valido avversario.

Lui, invece, cosa diamine ci trova in uno come me? Si domandò tristemente.

Il suo bell’aspetto?

Naaa… Sakuragi non era un tipo che badava a queste cose.

E allora, cosa? La sua bravura a basket?

Sì, questa poteva andare. Peccato che però fosse un po’ poco per giudicare l’interesse dell’altro.

E allora cosa?

I suoi silenzi? I suoi sguardi sempre indifferenti? Il suo dormire ovunque?

Possibile poi, che non gli venisse in mente nulla di adatto?

In fondo, era questo il suo carattere; lui lo aveva sempre saputo.

Ma l’altro, che cosa poteva avere scorto di così interessante?

Iniziò a pedalare più velocemente, scuotendo la testa.

Sapeva che i suoi pensieri non avrebbero mai trovato una risposta, a meno che non fosse stato Sakuragi stesso a dargliela.

Oramai erano nei pressi della sua abitazione.

Rukawa sospirò; sarebbe stata una lunga serata.
 
 

Continua….
 
Note
 
Questo capitolo è ambientato nella puntata 62 dell’anime e rappresenta il terzo e ultimo giorno di allenamento di Hanamichi.

Mi scuso del fatto che non è ancora stato svelato il mistero della traduzione.

Ci tengo però a precisare che non è dovuto al voler creare una sorta di suspance.
(mi piacciono i finali con un punto domanda, ma non è questo il caso).

Essendo la mia una fic introspettiva, mi ripropongo passo dopo passo di analizzare il complesso carattere del protagonista (come si nota anche dal titolo della fic) e di chi gli sta intorno.

Gli ultimi due capitoli servivano proprio a questo (come avrete notato dai titoli).

In questo, in particolare, mi sono apprestata a descrivere la componente fondamentale di Hanamichi: la sua indubbia forza fisica (particolare che mi sta a cuore).

Tra l’altro, il tutto è narrato tramite osservazioni di Rukawa che si rende conto di essere inferiore fisicamente al rosso e per la prima volta ha dei dubbi (in fondo, ha comunque 16 anni!).

E questo, a mio parere, poteva avvenire solo quando i due avevano una sorta di rapporto già creato, e non all’inizio della loro conoscenza.

Tra l’altro, è per questo che nei capitoli passati ho solo accennato alla famosa rissa, senza però approfondirla dal punto di vista introspettivo. Era riservata, infatti, per questo capitolo e serviva a questo scopo.

Inoltre ho provato anche a spiegare perché, secondo il mio parere, tutti prendono facilmente in giro Hanamichi (soprattutto il pubblico scolastico durante le partite) nonostante la sua fama di teppista.

Ho provato ad analizzare questi vari aspetti ripercorrendo la rissa in palestra come si nota da alcune frasi, arricchendola però dal punto di vista introspettivo con gli elementi da me aggiunti con questa fic.

Spero di essermela cavata!

In ogni caso non temete, nel prossimo capitolo sarà svelato il mistero della traduzione (la fic è già scritta, di conseguenza lo posso garantire).

Spero comunque che il capitolo sia piaciuto.

Mi raccomando fatemi sapere.

 Ci vediamo domenica prossima con il nuovo capitolo.

Pandora86

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Capitolo 24
*** Noi ***


Ecco a voi il ventitreesimo capitolo della fic.
Come il solito grazie per le bellissime recensioni, e anche a chi continua a inserire la storia tra le preferite e le seguite.
Ovviamente grazie anche a tutti i lettori silenziosi.
Ci vediamo a fine capitolo per le note e le informazioni riguardo alle prossime pubblicazioni. 
Mi scuso in anticipo per eventuali errori. Leggo e rileggo ma sapete com’è… qualcosa sfugge sempre!!
Per adesso, buona lettura.
 
Capitolo 23. Noi
 
Il tragitto fu silenzioso e, pedalando lesto, Rukawa riuscì a raggiungere la sua abitazione in poco tempo.

Sakuragi nascondeva il suo imbarazzo camminando baldanzoso e con un’espressione di scherno in viso.

“Non pensavo fossi così diligente, Rukawa”lo sfotté, infatti, una volta entrato all’interno della villa.

L’altro alzò un sopracciglio con aria interrogativa.

“Da come pedalavi, sembravi avere qualcuno alle calcagna. Cos’è tutta questa voglia di fare i compiti?”continuò ironico, appoggiandosi al muro a braccia incrociate.

Rukawa scrollò le spalle indifferente, anche se sapeva che la testa rossa aveva fatto centro.

Lui, in effetti, non vedeva l’ora di arrivare a casa. Anche se i compiti con c’entravano niente.

I pensieri che c’erano stati quella serata lo avevano scosso.

Aveva sempre stimato Sakuragi. Ma adesso provava qualcosa in più.

Lo guardò appoggiato al muro. Possibile che gli sembrasse così forte e incrollabile, anche rimanendo immobile?

Guardò il suo volto. E all’improvviso capì perché i clienti del locale non avevano avuto paura.

Rukawa poteva, infatti, sentire la sicurezza che emanava quello sguardo. E Sakuragi stesso non mutava espressione, continuando a guardarlo silenzioso.

Aveva fatto bene a osservarlo in un ambiente a lui congeniale. A scuola non avrebbe potuto provare quelle sensazioni.

Sakuragi stesso provvedeva a cancellarle.

E il pensiero che fosse in casa sua, con quello sguardo precluso agli altri, lo fece sentire su di giri.

Il pensiero che quella persona sarebbe potuta essere sua lo mandò fuori di testa.

 Cos’avrebbe provato nel sentire quelle braccia che lo stringevano ogni qual volta lui lo volesse?

Scosse la testa, contrariato.

Non si sarebbe comportato come una ragazzina in calore alla presenza del suo idolo.

Era vero, Sakuragi era forte.

Era vero, Sakuragi era resistente.

Era vero, Sakuragi gli era superiore fisicamente.

Peccato che questo non avesse la minima importanza, visto che neanche lui era una mezza tacca.

E poi… anche lui è interessato a me, punto e basta! Decretò, fra se, deciso Rukawa.

Del resto, a lui bastava sapere una cosa per agire di conseguenza.

E, in questo caso, non si sarebbe tirato indietro, né si sarebbe fatto intimorire dalla superiorità dell’altro.

Sapere per agire, era questa la sua filosofia. E non perdersi in domande e dubbi inutili.

A lui Sakuragi piaceva e anche l’altro ricambiava.

Solo questo importava.

Erano queste le basi per costruire un noi. Erano sullo stesso piano dal punto di vista sentimentale.

Erano una cosa sola, dal punto di vista emotivo, cosi presi l’uno dall’altro.

Erano pari, nessuno inferiore all’altro.

Solo così avrebbero avuto futuro. Solo così ci sarebbe stato un noi.

E Rukawa avrebbe fatto in modo che ciò avvenisse.

“Allora?”domandò ancora Sakuragi, continuando a fissare il compagno.

Si sentiva maledettamente a disagio, ma non l’avrebbe, in nessun modo, dato a vedere.

Non si sarebbe fatto mettere al tappeto da quella volpe congelata.

Che poi, quella sera anche la kitsune era strana.

Il suo sguardo sembrava altrove, perso in chissà quali pensieri, e questo era tutto da dire, secondo il suo modesto parere.

La kitsune che pensava, facendo funzionare il suo unico neurone, aveva un non so che di comico.

Iniziò a sghignazzare, senza apparente motivo.

Rukawa alzò un sopracciglio perplesso.

“Oh, non farci caso kitsune. Stavo solo ridendo di te!” ammise sincero.

In realtà, non avrebbe voluto essere così acido ma si sentiva a disagio. E Rukawa, certe volte, era capace di fargli cacciare fuori il peggio di se, visto quanto mandasse in tilt il suo cervello.

Metti poi che si trovava in una situazione che tutto era tranne che normale, e allora ecco che partiva a parlare con battute e ironia.

Lui a casa della volpe per fargli i compiti. Chi mai, sano di mente, avrebbe potuto concepire una simile cosa?

In ogni caso, Rukawa non sembrò prendersela più di tanto.

“Non ne dubito” rispose acido a sua volta, andando a prendere lo zaino che era sul tavolino di fronte al divano.

“Peccato che tra un po’ non riderai più” affermò lapidario, svuotandone l’intero contenuto sul tavolo con fare noncurante.

Una non precisata quantità di fogli si sparse sul tavolino del salotto, non risparmiando il pavimento.

Sakuragi boccheggiò, sgranando gli occhi e osservando la mole di carta.

“Tutti questi compiti?” domandò perplesso, con lo sguardo interdetto.

“Tutto merito tuo, do’hao” gli sibilò Rukawa, assottigliando gli occhi.

“Il vostro professore è pazzo kitsune, per assegnarvi tutta questa roba” esclamò Sakuragi sorpreso, con un tono di cameratismo verso l’altro.

In fondo, un po’ di solidarietà fra studenti non faceva male, e il pensiero di un simile professore lo fece rabbrividire.

Quasi quasi la kitsune gli faceva pena!

“Li ha assegnati a solo a me. Grazie a te” ci tenne a precisare Rukawa alzando, con una mano, il compito dove spiccava un evidentissimo 98.

“Eh?” s’incuriosì, a quel punto, l’altro guardando il foglio di carta.

Perché Rukawa sembrava arrabbiato nonostante il voto? E, soprattutto, perché attribuiva a esso, e di conseguenza a lui, la colpa di tutti quei compiti?

“Cavolo c’entro io baka?” sbottò offeso.

In fondo, neanche lui aveva mai preso un voto così. Anche se questa era un’altra storia, considerò fra se.

Rukawa a quel punto, si spiegò meglio giusto per fargli capire che, in un modo o in un altro, la colpa era sempre sua.

“Li ha assegnati solo a me do’hao”, e si avvicinò al compagno di squadra.

“Dopo questo” concluse dopo avergli piazzato il compito a neanche due centimetri dalla faccia.

Sakuragi fece andare il suo sguardo dal compito alla volpe, e poi ancora dalla volpe al compito, senza riuscire ad afferrare subito il significato di quelle parole.

Poi, all’improvviso capì, e la casa fu invasa dal suono di una risata allegra.

“Ma non mi dire”, incominciò fra una risata e l’altra, “devo dedurre che il voto sia abbastanza superiore rispetto ai tuoi standard” concluse, non riuscendo però a trattenere un’ultima risata.

Rukawa, a quel punto, lo fulminò con lo sguardo.

E va bene, non era una cima. Ma perché il do’hao ci impiegava sempre così tanto a capire?

E soprattutto, perché una volta che afferrava il concetto, non si limitava ad annuire silenzioso?

Ma figuriamoci!

Doveva sempre dire una parola di troppo e, in quel caso, rigirare il coltello nella piaga.

Sakuragi nel frattempo sembrava aver recuperato tutto il suo buon umore, visto che si avvicinò con fare baldanzoso al tavolino sedendosi a terra e cercando di mettere ordine fra tutti quei fogli.

Cosa che non sfuggì all’occhio attento di Rukawa che avvicinandosi non poté però trattenere uno sbuffo contrariato.

Sempre a discapito mio, pensò sedendosi per terra di fianco al compagno.

“Tra l’altro”, continuò Sakuragi, “invece che assegnarti compiti per punizione, non poteva direttamente metterti un voto basso per aver copiato?”.

“Era quello che avrebbe voluto fare” rispose serafico Rukawa.

“Eh?”, lo guardò perplesso l’altro corrugando la fronte.

Ma allora è proprio tardo, considerò ancora Rukawa che era ad un passo dal commettere uno sterminio di massa.

Era vero che c’era solo Sakuragi in casa. Peccato che l’idiota valesse per dieci.

In ogni senso!

“E da chi avrei copiato esattamente do’hao?” gli sibilò contro tenendoci però a marcare l’ultima parola.

“Ma che ne so”, rispose Sakuragi offeso.

“Appunto” continuò Rukawa. “È quello che si è domandato anche lui” chiarì, sperando che l’altro stavolta afferrasse immediatamente il concetto.

Da chi diamine avrebbe potuto copiare, visto che era stato l’unico a presentare una traduzione come quella?

E Sakuragi, infatti, capì.

“Ahh”, disse solamente, “ una classe di somari!” e sghignazzò ancora.

Rukawa era certo che tra un po’ l’avrebbe strozzato.

E poi accusava lui di fare la prima donna e di mettersi in mostra.

Però… nonostante tutto era felice che Sakuragi fosse così rilassato e di buon umore in sua presenza.

Anche se alle mie spalle, concluse poi fra sé con uno sbuffo.

“Dai”, continuò l’altro ignaro dei pensieri del compagno di squadra, “vedrai che con il mitico Tensai diventerai uno studente modello” disse sghignazzando.

“Per quand’è che devi consegnare tutta sta roba?”domandò poi, indicando i fogli.

“Per domani” e fu il turno di Rukawa stavolta di sorridere ironico.

A Sakuragi invece il riso gli si cancellò istantaneamente sul volto, lasciando il posto a un’espressione di sorpresa.

“Domani?”, domandò con tanto d’occhi, guardando i fogli che adesso gli sembravano davvero parecchi.

“Ma come…” cominciò sempre più interdetto.

“Cazzi tuoi do’hao”, rispose lapidario il numero undici.

Ed ecco Kaede Rukawa in tutta la sua finezza considerò fra se Sakuragi con un’espressione offesa.

“Baka!” gli sibilò contro, prendendo un foglio e iniziando a leggerlo.

Rukawa lo osservò prendere una matita e giocherellarci con le dita.

In effetti, non era vero che avrebbe dovuto consegnare tutto per il giorno dopo.

La prossima lezione d’inglese ci sarebbe stata soltanto la prossima settimana.

Considerala una piccola vendetta do’hao rimuginò fra se, osservando l’altro che continuava a giocare con la matita, rigirandosela fra le dita.

E poi in fondo presto gli avrebbe detto che non era così. Solo dopo avergli fatto fare più della metà del lavoro.

Tutto no, questo era certo.

Altri compiti da fare = altro tempo con Sakuragi a casa sua.

Fu questo il calcolo di Rukawa che, in quel momento, si sentì un vero asso della matematica.

Che poi domani avrebbero dovuto anche giocare, di conseguenza non avrebbero neanche seguito le lezioni.

Tuttavia Sakuragi non aveva dato segno di aver colto un simile particolare.

Forse aveva pensato che, essendo la sua una punizione, avrebbe comunque dovuto passare a portare i compiti al professore.

O forse, cosa ancora più probabile, non aveva pensato a nulla, prendendolo in parola.

E un sorriso tenero aleggiò sul volto di Rukawa. Com’era ingenuo il suo do’hao. Ingenuo e fiducioso verso gli altri, nonostante tutto.

Tuttavia il suo volto ridivenne serio quando andò a posare sul braccio dell’altro.

Sakuragi alzò il volto sorpreso. Posò il foglio che aveva in mano e sospirò.

Era arrivato il momento delle spiegazioni.

Si ritrasse dal contatto con l’altro e appoggiò la schiena al divano.

Chiuse gli occhi, massaggiandoli con il pollice e l’indice, come a voler raccogliere le idee.

Rukawa lo osservava in un silenzio innaturale non muovendo neanche un muscolo.

Non se l’era presa dall’allontanamento dell’altro. Perché, anche se Sakuragi aveva interrotto il contatto fisico, lo stava accogliendo nel suo io più intimo.

Lo sguardo di Rukawa si fece carico d’aspettativa. Sapeva che stavolta il racconto sarebbe stato diverso rispetto a quello che c’era stato poco tempo prima, sempre in quella stessa casa.

“Di un po’ kitsune”, esordì Sakuragi guardandolo con un sorriso rilassato, “ti piacciono i miei capelli?” domandò senza alcuna logica apparente.

Rukawa inarcò le sopracciglia.

Cosa mai potevano c’entrare i suoi capelli?

Ripensò alla foto che aveva visto tempo addietro a casa di Sakuragi.

Possibile che ci fosse un collegamento?

Era evidente che la risposta fosse sì. La domanda di Sakuragi non poteva essere casuale.

Peccato che lui non avesse ancora capito il motivo. E che, soprattutto, lui quel tipo di collegamento non avrebbe proprio dovuto farlo.

Sakuragi, infatti, non sapeva della sua escursione a casa sua.

E, per il momento, era meglio che continuasse non saperlo.

Assunse la sua migliore espressione perplessa. La testa rossa non doveva aver seguito granché dei suoi pensieri.

E in quel momento ringraziò il fatto di essere, per natura, così poco espressivo.

Anche se piano piano, un vuoto allo stomaco cresceva. E l’ombra di un rimorso iniziava a insinuarsi nel cuore.

Del resto, avrebbe dovuto prevedere che prima o poi si sarebbe scontrato con quel sentimento.  Lui era a conoscenza di cose che non avrebbe dovuto sapere. Era stato dove non sarebbe dovuto stare.

E, anche se era stato spalleggiato e appoggiato dal migliore amico del do’hao, facendolo per il suo stesso bene, si sentiva comunque inappropriato e subdolo di fronte al sorriso disarmante dell’altro, che finalmente iniziava a fidarsi di lui.

Come poteva nascere un rapporto su queste basi?

Persino tre o quattro sere prima aveva origliato le confidenze del do’hao con il suo migliore amico.

Però… poi se ne era andato, rifletté.

Aveva deciso di non usare più sotterfugi.

Aveva deciso di iniziare quella sera.

Per adesso quindi, poteva andare bene così. E poi, un giorno o l’altro, avrebbe raccontato a Sakuragi tutto quello che c’era stato.

Ma solo quando l’altro fosse stato pronto. Farlo adesso avrebbe significato compromettere tutto per niente.

E quello che c’era in gioco era infinitamente più grande dei suoi momentanei sensi di colpa.

Motivo per cui, avrebbe fatto finta di niente. Per ora.

“Allora?” domandò Sakuragi interrompendo le sue disquisizioni mentali.

In effetti, era stato un minuto buono in silenzio. E l’altro lo guardava sorridendo, con il volto poggiato sulla sua mano, stretta a pugno.

“Sei ancora sveglio baka?” domandò ancora passandogli una mano sul volto.

“Nh” mugugnò per risposta Rukawa.

“Allora" insistette Sakuragi, “cosa ne pensi dei miei capelli kitsune?” domandò ancora poggiando il volto su entrambe le mani e continuando a fissarlo sorridente.

“E non mi dire che ti piacciono, perché ti sbatto come un tappeto” aggiunse poi minaccioso.

“Nh… strani” si ritrovò a dire Rukawa.

Era ovvio che non gli avrebbe mai detto quanto gli piacessero. E di certo non per la sua minaccia.

Figuriamoci se ti sto a sentire do’hao pensò guardandolo.

Ma di certo non poteva dirgli quanto effettivamente gli piacessero. Quanto gli sarebbe piaciuto passarci le mani e accarezzarli (oddio, quello che ne rimaneva visto il taglio dell’altro).

O quanto sembrassero dannatamente intonati ai suoi, che erano di un nero intenso.

Rosso e nero. Nero e rosso.

Erano quelli i colori della loro vita. Una palla arancione a righe nere.

La loro uniforme, rossa con le scritte nere.

I loro capelli. Il loro legame.

“Mh… strani eh?”, continuò Sakuragi.“Pensavo peggio!” affermò voltandosi per estrarre qualcosa dalla sua tasca posteriore.

Prese il portafoglio tirandone fuori un cartoncino che porse all’altro.

Rukawa lo prese titubante, e capì che era una fotografia. La stessa che lui aveva visto e che mai avrebbe dovuto vedere.

Guardò il volto del compagno di squadra e poi nuovamente la fotografia.

Adesso era evidente cosa c’entravano i capelli. La consapevolezza di dove l’altro volesse andare a parare si faceva finalmente strada in lui.

“Quante volte hai pensato che mi fossi tinto baka?” domandò ancora Sakuragi.

“Nh… sempre” rispose a mezza voce Rukawa.

Ed era la verità. In fondo, aveva sempre dubitato della sincerità dell’altro su quell’argomento, almeno fino a quando non aveva visto quella stessa foto che ora aveva tra le mani, tempo addietro.

Ripensò a come la scimmia fosse scattata, quando aveva specificato ad Anzai il fatto che i suoi capelli fossero naturali.

Ci tiene molto ai suoi capelli aveva detto Mito e Rukawa ne stava finalmente comprendendo il perché.

Non erano solo il legame con la madre. Rappresentavano la sua discendenza.

“Risposta sbagliata. Anche se non posso darti torto. Sapevo che non l’avevi notato”.

“Nh?” mugugnò Rukawa perplesso.

“Al cimitero” specificò Sakuragi.

E Rukawa capì. Al cimitero c’era la foto di sua madre.

Era vero. Rukawa non l’aveva notata. Semplicemente perché era già a conoscenza del volto della donna.

Peccato che questo Sakuragi non potesse saperlo.

“ E comunque”continuò l’altro, “quanti giapponesi conosci con un colore di questo tipo?”.

Domanda retorica, Rukawa lo sapeva.

“Osserva meglio la foto che hai in mano kitsune” gli consigliò a quel punto Sakuragi, indicando la stessa con un cenno della testa.

Rukawa la osservò, anche se sarebbe stato superfluo.

La ricordava perfettamente, dettaglio per dettaglio. Come tutto quello che riguardava il do’hao.

La madre di Hanamichi che, leggermente piegata, teneva per mano il figlio. Il padre che, con un braccio, toccava la moglie con l’altro Hanamichi.

“Sai quanto era alta mia madre, kitsune?” domandò ancora Hanamichi sorridendo.

Rukawa alzò lo sguardo. Il volto dell’altro sembrava sereno, nonostante parlasse di cose per lui dolorose.

Stavolta Hanamichi lasciava vedere i suoi sentimenti, il suo affetto. E non manteneva il distacco come la volta precedente.

E Rukawa capì anche il perché di tutte quelle domande. Si era aspettato un lungo discorso.

Ma conoscendo Hanamichi capì di essersi sbagliato. Si apprestava a fargli conoscere una parte di se.

Non a raccontargli qualcosa come spettatore esterno. Il suo volto era tornato con l’espressione che aveva nella foto che ora aveva in mano.

Era andato ai ricordi belli. E stavolta Hanamichi non gli stava raccontando una storia. Voleva farlo entrare nella storia. Nella sua storia. Conducendolo pian piano e a piccoli passi.

“Dalla foto non si nota”, continuò Hanamichi, “eppure, ti posso assicurare che era alta almeno quanto me e te”.

“Per questo tuo padre è inginocchiato”, valutò a quel punto Rukawa, intervenendo, per la prima volta, con una frase di senso compiuto.

Non sarebbe voluto intervenire. Avrebbe voluto che fosse solo l’altro a parlare. Eppure seppe di aver fatto bene.

Perché era quello che Sakuragi voleva. Non si stava semplicemente limitando a rispondere alle sue stesse domande. Voleva renderlo partecipe. Voleva che condividesse in suo lato più intimo.

Non voleva che Rukawa fosse non un ascoltatore esterno. Voleva che fosse suo complice.

“Allora non sei tanto addormentato, kitsune” lo sfotté Sakuragi con una punta d’ironia.

“Mio padre era più basso di almeno quindici centimetri. Per questo si faceva fotografare sempre così con lei” continuò ancora Sakuragi con lo sguardo lontano.

“Irlandese baka. Capisci ora?” domandò sorridendo, alzando il foglio con la traduzione e chiarendo ogni dubbio al compagno.

Ora, infatti, non gli restava che gustarsi appieno la reazione dell’altro a quella rivelazione.
 

Continua…
 

Gli avvenimenti narrati in questo capitolo sono ambientati nella puntata 62 dell’anime.

Finalmente è stato svelato in parte il mistero della traduzione. Come avrete capito ho dato a Hanamichi delle origini europee da parte di madre (verrà spiegato tutto nel dettaglio nel prossimo capitolo).

Ho optato per una scelta del genere perché credo che siano veramente pochi i giapponesi con un colore di capelli del genere e, visto che il canone non ci da indicazioni a riguardo, ho considerato che fosse una scelta fattibile visto che non cade in contraddizione con il manga.

Spero che il capitolo sia piaciuto! Mi raccomando fatemi sapere cosa ne pensate!

Ci vediamo domenica prossima per il nuovo capitolo.

Pandora86

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Capitolo 25
*** Maschera ***


Ecco a voi il nuovo capitolo della fic.
Come il solito grazie per le bellissime recensioni, e anche a chi continua a inserire la storia tra le preferite e le seguite.
Ovviamente grazie anche a tutti i lettori silenziosi.
Ci vediamo a fine capitolo per le note e le informazioni riguardo alle prossime pubblicazioni. 
Mi scuso in anticipo per eventuali errori. Leggo e rileggo ma sapete com’è… qualcosa sfugge sempre!!
Per adesso, buona lettura.
 
 
 
Capitolo 24. Maschera
 

Sakuragi continuava a guardare Rukawa.

Sapeva che con le sue parole non avrebbe ottenuto un cambio d’espressione evidente anche perché, piuttosto che dirgli direttamente i fatti, l’aveva portato pian piano alla soluzione.

Di conseguenza, la sua ultima affermazione, per quanto a effetto, era già stata comunque annunciata in precedenza.

Eppure, in quegli occhi c’era stato un effettivo cambiamento.

Sorpresa?

Chissà! Non avrebbe saputo dirlo con esattezza.

Tuttavia, di una cosa era certo: Rukawa era stato preso in contropiede e, a quel pensiero, sorrise sincero.

Aver sorpreso la kitsune aveva per lui un grosso significato.

Lui che cercava di essere sempre al centro dell’attenzione.

Lui, che pur di essere notato, si rendeva ridicolo.

E ora invece, non erano servite le sue sparate megalomani per attirare l’attenzione dello scostante compagno di squadra.

Gli era bastato essere se stesso.

Non che con gli altri fingesse, solo che… beh…

Era difficile dirlo. Cos’era la sua?

Paura?

Di cosa poi?

Della solitudine, delle delusioni che la vita può dare. Dell’allontanamento degli altri.

Non viveva esclusivamente per il giudizio degli altri, almeno per quello che riguardava le sue origini, ma aveva comunque paura di rimanere da solo.

Del resto, lui non aveva il coraggio di sua madre.

Rukawa invece com’era rispetto a lui?

Uno che se ne infischiava altamente di quello che pensavano gli altri.

Uno che portava avanti quello in cui credeva, costasse quello che costasse.

Uno che per difendere il suo obiettivo non si tirava mai indietro. Davanti a nulla.

Questo pensiero lo portò alla rissa in palestra.

Cos’aveva visto?

Un Rukawa che era intervenuto per difendere i suoi ideali.

Un Rukawa che si era accigliato quando avevano spento una sigaretta sulla palla da basket.

Un Rukawa che non aveva paura di nulla.

Una persona molto diversa da quello che poteva apparire. Lui, freddo e scostante, si era incendiato nel momento in cui avevano insultato la cosa più preziosa che aveva.

Nonostante fosse stato ferito. Nonostante la squadra rischiasse. Nonostante tutto.

E lui invece cos’aveva fatto, se non farsi trascinare ancora una volta dalla forza del numero undici?

Lo sguardo e l’intervento di Rukawa lo avevano portato inesorabilmente a sentirsi attratto ancora di più verso il compagno di squadra.

Un compagno che voleva superare, che rappresentava il suo obiettivo.

Ma anche che invidiava; perché non sarebbe stato mai come lui.

Perché lui non era forte quanto Rukawa nel difendere quello in cui credeva.

Lui non era così incrollabile. E forse per questo non era mai riuscito a cancellare l’attrazione verso il compagno di squadra.

Che poi… non era riduttivo definirla solo attrazione?

Possibile che ancora si rifiutasse di ammettere che l’altro gli piaceva, e anche molto?

Sospirò sconsolato.

“Do’hao!”.

Il tono brusco di Rukawa lo riportò improvvisamente alla realtà.

“È la terza volta che ti chiamo” affermò l’altro, guardando Sakuragi con uno strano cipiglio.

Stava diventando sempre più difficile per lui capire cosa passava nella testa di quella scimmia rossa.

“Pensavo” esordì Sakuragi con un tono di voce insolitamente basso per uno come lui.

Cosa che non sfuggì a Rukawa, che lo provocò volutamente.

“E da quando?” domandò ironico.

“Come osi, baka kitsune?” si infiammò nuovamente il rosso.

Ecco, così va meglio! Pensò Rukawa, trattenendo un sorriso.

“E comunque”, continuò Sakuragi ancora alterato, “visto che hai interrotto i miei importantissimi pensieri, suppongo tu volessi dirmi qualcosa!” e incrociò le braccia mettendo il broncio.

Rukawa lo guardò perplesso. Non si sarebbe mai abituato agli sbalzi d’umore di quella scimmia.

Senza parlare gli indicò i fogli sul tavolo, in un chiaro invito a mettersi a lavoro.

In realtà, ci sarebbero state molte cose che ancora voleva sapere.

Anzi… lui voleva sapere tutto!

Però… aveva capito che le spiegazioni sarebbero arrivate poi, dato che Sakuragi quella sera gli aveva rivelato qualcosa di lui che teneva gelosamente custodito dentro di se.

Per il resto… ci sarebbe stato tempo.

Sakuragi, con uno sbuffo, prese un foglio e incominciò a scrivere, senza mancare di lanciare, di tanto in tanto, occhiate torve al compagno.

Rukawa invece lo osservava, avendo così modo di appurare quello che già aveva supposto: la facilità con cui Sakuragi si districava in quella lingua.

Si ricordò del libro e dei caratteri sopra di esso.

Quasi come se fosse…

“Bilingue?” sentì la sua voce domandare.

Sakuragi alzò lo sguardo sorpreso.

“Eh? Bi-che?” domandò perplesso.

L’altro non riuscì a trattenere un’espressione perplessa.

Ma allora è proprio un do’hao, pensò cercando di rendergli, a parole, il concetto più chiaro.

“Sei bilingue, do’hao! Parli allo stesso modo sia il giapponese che l’inglese” disse.

E, per rendergli più chiaro il concetto, aggiunse:

“Il libro che leggevi a lavoro”.

“Ah…” fece Sakuragi, che aveva capito cosa l’altro intendesse. “Beh… non credo. Non nel senso che intendi tu almeno”.

Era indeciso. In effetti, non ci aveva mai pensato.

“Cioè?” chiese ancora Rukawa.

Va bene, aveva detto che c’era tempo per le domande. E, infatti, erano passati quasi cinque minuti!

E poi… era dannatamente curioso, ora!

Inoltre Sakuragi gli facilitava lo scopo, dato che quella sera sembrava essere di buona.

Di conseguenza, perché non approfittarne?

E al diavolo i compiti, che andassero pure nello scarico del water.

“Mia madre” rispose Sakuragi, come se quello spiegasse tutto.

Rukawa lo guardò interrogativo.

Cos’è, stare in sua compagnia lo aveva contagiato?

Adesso, anche Sakuragi era affetto dalla sindrome del monosillabo?

Che poi, proprio un monosillabo la sua risposta non era stata. Però, se continuava così finiva che lui faceva le domande e Sakuragi rispondeva con un sì o con un no.

“E dovrei aver capito secondo te?” gli domandò ironico.

Era snervante che una persona così logorroica fosse, nel momento meno opportuno, così poco loquace.
Sakuragi iniziò a ridere di gusto.

“Scusa” disse poi. “Ma vedi, il fatto è che… insomma… Yo e gli altri lo sanno… ed io… beh… come posso spiegarti?”.

“Dall’inizio?”suggerì Rukawa con ovvietà, inarcando un sopracciglio.

Sakuragi lo guardò perplesso.

In effetti, aveva ragione. Guardò Rukawa che, come il solito, non era scomposto.

Gli faceva notare l’ovvio, dove lui non lo vedeva. Gli dava una marcia in più, e non solo in quell’occasione.

Oramai, il loro rapporto era definitivamente cambiato.

E lui, era disposto ad accettarlo?

Gli aveva fatto quella traduzione d’istinto, senza pensare a quello che avrebbe portato.

E ora era lì, in presenza di Rukawa, a casa di quest’ultimo, a parlare proprio di sua madre.

Che diamine stava facendo?

Si toccò inconsciamente i capelli.

Rukawa lo notò e non gli fu difficile, stavolta, seguire il corso dei pensieri dell’altro.

In effetti, aveva un po’ forzato la mano con le domande quella sera.

E non era così sciocco da credere che Sakuragi sarebbe cambiato in poche ore, e così radicalmente.

Ci voleva tempo. E lui ora non poteva fare niente per il do’hao.

Doveva essere Sakuragi, in quel momento, a scacciare i suoi stessi fantasmi.

E Rukawa avrebbe accettato la sua decisione. Sia che avesse continuato a parlare. Sia che se ne andasse sbattendo la porta.

L’avrebbe accettata. Qualunque fosse stata. Per quella sera.

Sakuragi, nel frattempo, ripensava a sua madre e al suo coraggio.

Lei, che a detta di suo padre, non conosceva nulla della terra del Sol Levante, eppure, si era trasferita definitivamente in Giappone. Lei che non aveva mai tinto i suoi capelli perché portava con orgoglio le sue origini europee.

E lui invece cos’aveva pensato in quel momento?

Di scappare ancora una volta?

No! Non quando era stato lui a cominciare il tutto.

Già una volta non si era comportato bene con Rukawa, e lui non era così.

Lui non voleva essere così.

Ne andava del suo orgoglio. Ma soprattutto, ne andava della delusione che avrebbe provato sua madre a vederlo comportarsi in quel modo.

Avrebbe continuato quello che lui stesso aveva iniziato; con tutte le eventuali conseguenze.

Motivo per cui sarebbe rimasto a casa di Rukawa, rispondendo alle domande dell’altro, qualora ce ne fossero state.

Pensa di meno e lasciati andare.

Le parole di Yohei arrivarono in suo soccorso, ancora una volta.

Aveva agito d’istinto fino a ora. E così avrebbe continuato a fare.

“A detta di mio padre”, cominciò sicuro, “quando conobbe mia madre, lei non capiva un’acca di giapponese” e sorrise, ripensando a suo padre.

Guardò negli occhi Rukawa. Scorse una luce attenta e decisa negli occhi dell’altro.

Inconsciamente, ne trasse coraggio. Sospirò. Si apprestava a parlare dei suoi genitori, della sua famiglia.

E lo avrebbe fatto a testa alta. Perché loro, per lui, erano tutto.

Proprio come avrebbe fatto Rukawa nel parlare di qualcosa a cui teneva. Per una volta, avrebbe agito esattamente come lui.

“Sinceramente, non so come abbiano fatto a mettersi insieme”spiegò Sakuragi, “fatto sta che mia madre decise di trasferirsi definitivamente in Giappone.

Nonostante le avversità dei parenti. Nonostante non conoscesse nessuno.

Si affidò completamente al carattere forte e intraprendente che aveva, e all’amore che provava per mio padre.

Tuttavia, non negò mai le sue origini. Non si tinse mai i capelli, perché amava mio padre quanto la sua terra.

E poi vengo io” a quel punto, Sakuragi poggiò la testa sul divano alle sue spalle chiudendo gli occhi.

“Stesso colore dei capelli di mia madre ma tratti somatici di mio padre.

Era il mio rapporto speciale con loro”, Sakuragi guardò nuovamente Rukawa, “mio padre era contento che avessi preso il colore dei capelli della donna che amava. Mia madre invece andava orgogliosa del fatto che avessi preso i tratti dell’uomo che aveva seguito per amore.

“Quanto alla lingua”e, a quel punto, indicò i fogli sul tavolino, “erano il mio rapporto speciale con lei.

Ero io che parlavo nella sua lingua sin da piccolissimo, e solo con lei.

Ero io che a scuola mi divertivo a portare a casa voti bassi proprio in inglese per vedere come avrebbe reagito.

Ero sempre io che leggevo i suoi libri nella sua lingua madre”e, a quel punto, estrasse il libro da una tasta del pantalone che indossava.

“E sono sempre io che, quando penso a lei, lo faccio nella sua lingua, perché lei mi parla così.

Avevo un rapporto speciale con ognuno di loro. Con mio padre, lei ed io, parlavamo esclusivamente giapponese. Quando invece ero da solo con lei, era nella sua lingua che ci parlavamo. Di solito mio padre non c’era, e non perché non ci avrebbe capito. Anche se io, essendo piccolo, avevo appreso molto più velocemente di lui.

Era il mio rapporto speciale con lei” ripeté Sakuragi a quel punto.

Chiuse nuovamente gli occhi portando una mano al viso.

Si sentiva svuotato. Eppure… non in senso negativo.

Aveva sempre creduto che, per preservare il suo rapporto speciale con la madre, gli altri ne sarebbero dovuti essere, inevitabilmente, tagliati fuori.

Esclusa l’armata, infatti, nessuno dei suoi conoscenti sapeva di quella storia; nemmeno i suoi parenti.

Sapevano delle origini della madre, questo sì, ma non sapevano il rapporto che avesse con il figlio.

Solo il padre, in effetti, faceva parte di quella storia. Lui che guardava con affetto la moglie mentre spiegava il giusto accento di una parola o di un’altra al figlio.

E ora invece, aveva raccontato tutto a Rukawa.

Che, tra l’altro, teneva ancora in mano la fotografia che gli aveva dato, notò quando aprì gli occhi.

“Ricordi felici”disse, a quel punto, osservandola dalle mani dell’altro.

“Era mio padre il legame vero tra noi” aggiunse parlando più a se stesso che all’altro. “Quando lui è morto… lei non mi ha parlato più nella sua lingua”.

Rukawa sussultò impercettibilmente a quell’ultima osservazione.

Un’osservazione che racchiudeva tutta la distruzione che Sakuragi si portava dentro.

Il volto del numero dieci si era improvvisamente spento.

Lo sguardo era vacuo.  

Rukawa aveva notato come continuasse a parlare della lingua della madre, come se non gli appartenesse.

Come se non se ne sentisse degno.

Il numero undici capì che l’altro stava precipitando. Ma lui non lo avrebbe permesso.

Sakuragi intanto era corso con la mente lontano.

Il dolore lo stava trascinando in un vortice pericoloso.

In quei momenti, quando il dolore lo assaliva, gli sembrava di avere un enorme buco nero nel cuore.

Un buco nero che era in grado di risucchiare tutte le cose belle che lo circondavano.

E lui ne aveva paura. Perché, quando cadeva in quel buco nero, nessuna mano era tesa per tirarlo fuori.

Era solo. E precipitava. Sempre più a fondo. E lui aveva paura di cadere. Perché non era sicuro di riuscire a risalire. Era per questo che si ostinava a parlare a due lapidi, sperando che, da qualche parte, i genitori veramente lo ascoltassero.

Era per questo che chiudeva il suo cuore e continuava ad andare avanti come se nulla fosse.

 Lui non voleva precipitare. Non davanti a Rukawa. E neanche nella solitudine della sua casa. Lui non voleva ricordare e basta.

Lui si rifiutava categoricamente di ricordare. Lui non voleva perdere il controllo. Perché non sarebbe riuscito a scacciare le ombre nere nella sua mente, che gli puntavano il dito contro, facendolo sentire impotente.

Perché il passato lo avrebbe schiacciato.

Motivo per cui, riportò la situazione alla normalità nell’unico modo che conosceva:



Una Maschera.

“E comunque, kitsune”esordì improvvisamente con tono allegro, “sappi che non parlo l’inglese ma l’irlandese” specificò.

Sapeva che Rukawa non era uno stupido. Sapeva che, ancora una volta, stava scappando dal dolore.

Ma era più forte di lui, motivo per cui, continuò parlando a raffica.

“Può sembrare la stessa cosa da un punto di vista scritto, ma la pronuncia è totalmente diversa. Un inglese e un irlandese potrebbero anche non capirsi e poi... ”

“Basta!” lo interruppe Rukawa che aveva seguitò il suo cambio d’espressione.

“Basta” ripeté con tono duro, guardando il compagno che lo fissava allibito.

Che lo pregava, con gli occhi, di lasciargli continuare quella farsa, perché aveva troppa paura di precipitare.

Perché, in quel momento, sentiva una grande voragine dentro e rischiava di esserne inghiottito.

Ma Rukawa lo avrebbe afferrato sul baratro di quel dolore. E avrebbe fatto in modo che Sakuragi lo capisse.

Fu perciò con la decisione che contraddistingueva il suo intero essere, che lo afferrò per un braccio tirandolo verso di se, e circondandogli le spalle in un abbraccio da cui non gli avrebbe permesso di fuggire.

Sakuragi, dal canto suo, si era ritrovato improvvisamente tra le braccia di Rukawa senza sapere come esserci finito.

Aveva capito che il compagno non era cascato a quel suo ulteriore cambio d’umore.

E lui lo aveva pregato, con gli occhi, di lasciarlo continuare perché aveva paura.

 Poi, era finito tra le sue braccia.

Sentiva il fiato di Rukawa pizzicargli il collo.

Finché, sentì la sua voce in un sussurro.

“È anche la tua lingua”.

Una sola frase. Una sola verità. Che ebbe il potere di aprirgli gli occhi.

Che ebbe il potere di scatenare la tempesta che si portava dentro da troppo tempo.

E fu allora che una lacrima sfuggì al suo controllo. E poi un’altra e un’altra ancora.

Un pianto silenzioso. Che però, proprio per questo, racchiudeva un dolore infinitamente più grande.

Rukawa sentiva le lacrime silenziose di Sakuragi bagnargli il collo.

Non era un singhiozzare rumoroso di un bambino capriccioso.

Non era un pianto compassionevole di un amico consolatore.

Non era uno sfogo disperato di una persona lasciata da quella che credeva la sua metà.

Non erano lacrime di rabbia, né di frustrazione e nemmeno di impotenza.

Erano lacrime mai versate. Poche lacrime, che scendevano a intervalli irregolari.

Non erano tante. Non erano copiose.

Ma erano in grado di aprire uno squarcio nel cuore dell’altro.

Perché erano lacrime d’accettazione. Quelle che, in pochi istanti, riuscivano a cancellare via tutto il lavoro fatto su se stessi per anni.

E Rukawa lo avrebbe tenuto stretto fino a quando fossero scese.

Perché quando Sakuragi avrebbe finito di piangere, la sua mente e il suo cuore avrebbero affrontato un nuovo dolore, che gli avrebbe lacerato l’anima.

Ma non sarebbe stato da solo. Lui non lo avrebbe abbandonato. Mai.

Sakuragi intanto sentiva le lacrime scendere. Le immagini scorrevano silenziose davanti alla sua mente.

Suo padre… sua madre… tutto il suo dolore.

Si sentiva perso. Non voleva ricordare, eppure quei ricordi continuavano a tormentarlo.

Si sentiva vuoto. Non riusciva a muoversi. Non riusciva a urlare. Solo quelle lacrime che gli bagnavano il volto.

Solo i ricordi che lo stavano schiacciando e il freddo del suo animo che stava avendo il sopravvento.

Sentì le braccia di Rukawa stringerlo di più e inconsciamente strinse con forza la maglia che l’altro indossava.

Un appiglio. Un appiglio in quel baratro senza fine.

Calore, dove le braccia di Rukawa si posavano. Calore che stava riscaldando il freddo del suo animo.

Affetto, che trapelava da quella stretta. Affetto che lo riscosse dal suo torpore.

Amore, che avvertiva dal battito del cuore dell’altro. Amore che lo riportò nuovamente al presente.

Non seppe dire quanto durò l’abbraccio.

Lentamente si staccò, per andare a guardare il numero undici negli occhi, come a voler cercare le risposte che lo assillavano nello sguardo dell’altro.

Sul suo viso, oltre le lacrime, Rukawa poteva leggere tutta la confusione che lo assaliva quel momento.

“Perché?” lo sentì domandare con voce incerta.

Un perché che racchiudeva tutto.

Perché è successo.

Ma soprattutto, perché sei qui a consolarmi.

Perché non mi lasci solo anche tu.

Erano queste le domande che vorticavano nella testa di Sakuragi.

E tutte che iniziavano con quella dannatissima parola.

Perché?

Rukawa andò ad asciugargli le lacrime con una mano e, avvicinandolo a se, sussurrò quello che da tanto tempo racchiudeva nel suo cuore e che adesso sentiva il bisogno di donare all’altro.

“Perché mi piaci, do’hao” sussurrò quasi sulla sua bocca, “e perché non c’è nulla di sbagliato” concluse, andando a sfiorare le labbra dell’altro in un bacio casto.

Sakuragi, dal canto suo, non ci capiva più nulla se non il fatto che Rukawa era lì con lui che lo abbracciava, con il volto vicinissimo al suo.

Non sentiva più niente se non le sensazioni che provate quando l’altro lo aveva sfiorato.

Mi piaci. Non c’è nulla di sbagliato

Erano questi i pensieri che gli ronzavano in testa.

La risposta a tutte le sue domande.

L’incrollabile sicurezza dell’altro e la sua vicinanza lo spinsero a volere qualcosa di più.

Lo spinsero a desiderare che quella notte non finisse mai.

Lo spinsero a sperare che l’altro potesse avere ragione.

Si avvicinò titubante al compagno che, in tutta risposta, lo abbracciò ancora più forte, come a volergli trasmettere tutta la sua sicurezza e il suo sostegno.

Sakuragi, in quelle braccia, sentiva il macigno che aveva sul cuore farsi più leggero.

Come poteva essere sbagliato, se era tutto dannatamente così bello?

Finalmente si era posto la domanda giusta. La domanda, la cui risposta gli avrebbe finalmente permesso di scacciare tutti i demoni e le paure che aveva nel cuore.

Perché… se avesse accettato se stesso e avesse chiesto aiuto, allora anche le ombre del passato sarebbero andate via. Non avrebbe mai dimenticato.

Ma avrebbe accettato.

Di conseguenza, si sarebbe reso conto che non sarebbe stato più solo.

Forse la risposta non sarebbe arrivata subito. Probabilmente ci sarebbe voluto ancora altro tempo. Però… aveva finalmente iniziato a interrogare se stesso nel modo giusto.

Ed era stato merito di Rukawa. Merito del suo sguardo fiero e deciso. Merito dei suoi occhi che sembravano guardarlo dentro e trapassarlo da una parte all’altra.

Sakuragi ricercò nuovamente le labbra dell’altro, andando a cingergli timidamente la vita.

Rukawa lo accontentò approfondendo il bacio.

Non pensava che la serata potesse concludersi così.

Non si interrogò sul fatto che potesse essere troppo presto.

Sapeva che le sue parole avevano aperto uno spiraglio di luce nel cuore dell’altro.

Aveva letto la nuova consapevolezza nei suoi occhi. La consapevolezza di volerlo affianco in quel momento.

E… anche se il giorno dopo sarebbero sorti nuovi dubbi, Rukawa sapeva che qualcosa si stava sbloccando. Nel modo giusto, stavolta.

Sentì le mani si Sakuragi accarezzargli la schiena e percepì il calore delle sue mani da sopra la maglia.

Ora, nessuno dei sue aveva un pensiero preciso in testa, se non quello di assecondare le sensazioni che sentivano in maniera sempre più crescente.

Rukawa andò a baciare il collo del compagno. Sentì Sakuragi trattenere il fiato e reprimere un piccolo gemito. Tuttavia non lo sentì tirarsi indietro, e questo lo incoraggiò ad andare avanti.

Le mani di Sakuragi andarono a sfiorare impacciate la schiena dell’altro sotto la stoffa.

Rukawa, a quel contatto, si impose di controllarsi. Non voleva rovinare tutto con la sua impetuosità.

Ciò nonostante non poté, però, mettere freno alle sue mani, che avanzarono in carezze sempre più audaci sotto la maglia dell’altro.

Prima la schiena, poi gli addominali scolpiti, fino a sfiorare i capezzoli.

Quanto aveva bramato accarezzare quella pelle?

Anche le mani di Sakuragi presero coraggio, e le sue labbra andarono a sfiorare il collo dell’altro in delicati baci.

Rukawa chiuse gli occhi assaporando quelle sensazioni.

Neanche nella sua immaginazione, il tocco di Sakuragi riusciva a mandarlo così fuori di testa. Desiderò che quelle carezze non finissero mai e non riuscì a controllare un gemito, che mal soffocò sul collo dell’altro.

La sua mano andò ai pantaloni dell’altro che, bottone dopo bottone, rivelarono tutta l’eccitazione di Sakuragi.

Il suo corpo rivelava quello che la sua mente tentava da anni di nascondere.

Rukawa gli fece sentire appieno anche la sua eccitazione avvicinando i loro bacini, sentendo il gemito di Sakuragi che stavolta non provò neanche a trattenere.

E continuarono così, senza riuscire a fermarsi. Senza potersi più tirare indietro, anche volendo.

Le loro braccia che serravano i loro corpi, quasi per paura che tutto quello potesse finire.

Continuarono a strusciare le loro eccitazioni a una velocità e un’impetuosità sempre maggiore, con una passione che nessuno dei due sapeva di possedere.

Nei loro gesti era racchiuso tutto l’amore che sentivano per l’altro, tutti i sentimenti che a lungo avevano tenuto nascosti.

Finché, non toccarono entrambi l’apice del piacere, che li travolse in un vortice di sensazioni mai conosciute prima.

Arrivarono contemporaneamente, come due perfette metà che vanno finalmente a incastrarsi.

Rimasero ancora abbracciati, troppo scossi per parlare.

Troppo scossi per fare qualsiasi cosa che non fosse abbracciare il compagno.

E, in quel momento, non c’era nulla di sbagliato.
 
 
Continua…
 
Anche questo capitolo è ambientato nella puntata 62 dell’anime.

È la conclusione dei tre giorni di super allenamento di Hanamichi.

Spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto. Mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate!!

Ci vediamo domenica prossima con il nuovo capitolo.

Pandora86

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Capitolo 26
*** Parole ***


Ecco a voi il nuovo capitolo della fic.
Come al solito grazie per le bellissime recensioni, e anche a chi continua a inserire la storia tra le preferite e le seguite.
Ovviamente grazie anche a tutti i lettori silenziosi.
Ci vediamo a fine capitolo per le note e le informazioni riguardo le prossime pubblicazioni. 
Mi scuso in anticipo per eventuali errori. Leggo e rileggo ma sapete com’è… qualcosa sfugge sempre!
Per adesso, buona lettura.
 

Capitolo 25. Parole 
 

Rukawa aprì piano gli occhi. La luce che filtrava dalla finestra gli dava fastidio, ma di certo non era stato questo a svegliarlo.

Quella mattina dovevano giocare e lui aveva una sveglia interna quando si trattava di basket.

Rimase ancora un po’ a occhi chiusi gustandosi i suoi ultimi dieci minuti a letto.

Ma… un momento… aveva pensato letto?!

Si alzò improvvisamente a sedere, guardandosi intorno.

Gli avvenimenti della sera prima lo travolsero, scorrendo nella sua mente come una sequenza prestabilita.

Sakuragi e i compiti. Sakuragi e il suo pianto. Sakuragi e… quello che ne era venuto dopo.

Cosa diamine ci faceva lui a letto?

E soprattutto, perché, ancora una volta, era solo?

Possibile che avesse sognato tutto?

Vide poi che non indossava il pigiama.

Era a torso nudo, con i pantaloni della tuta. Il suo corpo recava ancora le tracce del piacere provato la sera precedente.

Si alzò velocemente, scalciando via le lenzuola. Un solo pensiero nella testa.

Dove cazzo sei do’hao?
 

  ***
 

Sakuragi era al campetto, vicino la casa del suo fidato amico.

Non si era dimenticato che quella mattina lui doveva giocare.

E soprattutto, che doveva dimostrare alla sua squadra e a Rukawa quanto avesse imparato.

Rukawa… il pensiero di quello che era avvenuto non lo lasciava in pace un istante.

I baci infuocati che si erano scambiati erano impressi nella sua mente.

Così come quello che era successo dopo.

Arrossì al pensiero.

Come era potuto arrivare a tanto?

Non lo sapeva. Sapeva solo che si era poi addormentato abbracciato a Rukawa, svegliandosi poco dopo con la kitsune completamente spalmata sul suo corpo, a mo di cuscino, che lo stringeva nel sonno in un abraccio soffocante.

Ricordava di essere rimasto per un po’ a fissare il volto di Rukawa addormentato.

Non aveva mai avuto modo di fissare i suoi lineamenti così a lungo e così da vicino.

Una sola parola nella sua mente mentre fissava il compagno di squadra:

Perfezione.

Sakuragi ricordava le imprecazioni, neanche troppo silenziose, che aveva lanciato a Rukawa quando aveva provato a staccarsi dall’abbraccio del numero undici, e di averlo poi portato a letto.

Gli sarebbe piaciuto sdraiarsi vicino a lui e svegliarsi poi insieme.
Però… era ancora scosso. Si era guardato gli addominali, che portavano ancora i segni del piacere consumato, e una morsa allo stomaco aveva fatto capolino.

Cos’avrebbe fatto ora?

E soprattutto, come avrebbe potuto fare a meno di tutto ciò?

Non lo sapeva. Come sapeva che ancora una volta si stava tirando indietro.

Sapeva che avrebbero dovuto parlare di quello che era successo, che avrebbero dovuto chiarirsi; ma lui ancora non se la sentiva.

Era sceso in salotto dando un occhio distratto ai compiti che avrebbe dovuto fare.

Aveva sorriso, guardando la mole di carta. Da quanto tempo non passava una serata così tranquilla?

Quasi come se Rukawa avesse la capacità di allontanare, con la sua stessa presenza silenziosa, tutti i demoni che si portava dentro.

Era per quello che, anche se si stava andando via, battendosi in ritirata ancora una volta, non aveva potuto fare a meno di lasciare un messaggio all’altro.
 

    ***
 

Ohi kitsune, sei uscito dal letargo?

Come puoi vedere, il sommo Tensai ti ha fatto l’onore di mettere a tua disposizione la sua immensa conoscenza finendoti tutti i compiti.

Giusto per informazione, ho anche abbassato la media secondo i tuoi standard, seminando qualche errore qua e là.

Ci vediamo alla partita (anche se potresti anche non presentarti visto che il sommo Genio basta e avanza).

                                                                                                                                                                                      Il Tensai.
 
P.S. Dammi un po’ di tempo.
 

Era la terza volta che Rukawa leggeva quelle poche righe.

Aveva sorriso quando Sakuragi aveva tenuto a precisare la sua media scolastica sottolineando "i tuoi standard".

Ma non era quella frase che gli interessava particolarmente.

Dammi un po’ di tempo.

Era questa l’affermazione che Rukawa continuava a fissare.

Che poteva mai significare?

O meglio, il significato l’aveva compreso. Quello che lo preoccupava erano le direzioni che avrebbero preso i pensieri di Sakuragi dopo quello che era avvenuto.

Si sedette sul divano sospirando e osservando i compiti svolti.

Con la mano che ancora stringeva il biglietto contenente il messaggio.

La stessa mano che aveva accarezzato il corpo di Hanamichi la sera precedente.

Perché Sakuragi era andato via ancora una volta?

Era vero, gli aveva lasciato un messaggio, usando un fiume di parole, per dirgli che, stavolta, non avrebbe fatto finta di niente.

O che, almeno, ci avrebbe pensato.

Non aveva specificato che le cose non sarebbero andate come la volta precedente perché, in teoria, Sakuragi stesso non avrebbe dovuto ricordarsi del bacio.

Però quella parola ‘stavolta’ non scritta, era comunque presente tra le poche righe del biglietto.

Rukawa era, infatti, sicuro che avesse scritto quella frase pensando proprio alla sua fuga dopo il bacio.

Quello che lo preoccupava era, però, il come Sakuragi avrebbe pensato a quello che era avvenuto.

Si prese la testa fra le mani non riuscendo a scacciare i dubbi dalla sua mente.

Lui ora, che doveva fare ora?

Inutile negare che fosse preoccupato.

Perché diamine mi sono addormentato, dannazione? Si domandò rabbioso.

Soprattutto dopo quello che c’era stato. Le confidenze, l’abbraccio, il pianto… e poi la loro attrazione che era venuta fuori con la stessa forza di un vulcano in piena.

Non si sarebbe dovuto addormentare. Avrebbe dovuto chiarire i dubbi che, prevedeva, sarebbero giunti al compagno.

Sapeva che l’orgoglio di Sakuragi non gli permetteva di mostrarsi più fragile del necessario.

Ma lui si era ripromesso di stargli accanto.

Perché vuoi affrontare tutto da solo, Hanamichi?

Guardò nuovamente i compiti svolti e gli venne in mente che Sakuragi non era andato a fare visita ai suoi genitori, anche se quella mattina avrebbero dovuto giocare.

Chissà a che ora è andato via? Pensò, riflettendo sul fatto che probabilmente ci sarebbe andato prima della partita.

Anche se non ne era poi tanto sicuro. Non dopo quello che era avvenuto, almeno.

Era vero, Sakuragi aveva finalmente pianto.

Ma questo non risolveva niente se il dolore causato dalle sue lacrime avrebbe dovuto affrontarlo da solo. Si sarebbe sentito ancora più perso.

E questo non avrebbe portato a nulla di buono.

Sperò vivamente che fosse andato dal suo amico.

Forse era il caso di avvertirlo delle possibili condizioni in cui era uscita la testa rossa da casa sua.

O forse, è meglio di no! Considerò poi. E forse lui si stava preoccupando troppo.

Di certo, non avrebbe risolto niente andando da Mito a quell’orario improbabile e magari trovarsi Sakuragi davanti la porta.

In fondo, Sakuragi gli aveva chiesto del tempo. Quindi aveva intenzione di parlarne.

Anche se per mandarlo a quel paese, ma comunque voleva parlarne.

Di conseguenza, era improbabile che facesse qualche sciocchezza.

Quello che lo preoccupava di più era però il fatto che Sakuragi, dopo il suo pianto, avrebbe cominciato a rendersi conto di come stavano le cose.

Avrebbe cominciato a vedere una nuova realtà. Quella in cui si trovava, e non quella di anni prima.

Rukawa considerò che probabilmente questa volta Hanamichi non si sarebbe presentato dai genitori.

Anche se i suoi pensieri sarebbero stati rivolti a loro in ogni caso.

Sarebbe spettata a loro l’assoluzione del figlio. Peccato che però loro non ci fossero più. E di questo, Hanamichi stava iniziando a rendersi conto.

Non che fosse matto. Semplicemente, aveva paura di affrontare il dolore.

Un dolore troppo grande per un ragazzino. Un dolore troppo grande per chiunque.

La colpa per la morte del padre… e di conseguenza la successiva mancanza della madre.

Parenti fantasmi che, da quello che aveva capito, non si occupavano per niente di lui facendolo sentire un peso.

Parenti che non gli avevano teso una mano quando si tormentava, credendo di essere un assassino. L’aveva creduto per troppo tempo finendo per convincersene.

E andava avanti portando delle catene invisibili che si era auto - imposto.

Era questa la realtà in cui Sakuragi si trovava ora. La realtà in cui si sarebbe ritrovato quella mattina.

E ora, dove lo avrebbe portato tutto ciò?

Perché vuoi affrontare i tuoi demoni da solo, Hanamichi? Si domandò prendendosi la testa tra le mani e continuando a stringere quel misero pezzo di carta, sperando che le ore passassero in fretta.
 
  ***                               
 

Sakuragi si stese sulla terra dura del campetto da basket.

Aveva finito i suoi tiri dall’allenamento.

Ogni tiro un pensiero.

Chiuse gli occhi ripensando a quella mattina.

Era passato a casa di Mito per darsi una lavata veloce e poi era corso al campetto, senza neanche svegliare Yohei.

Si soffermò sulle sue azioni.

Quando aveva baciato Rukawa, aveva sentito il bisogno di scappare e di parlare con qualcuno.

Si era rapato per un semplice bacio.

Semplice, se paragonato a tutto quello che c’era stato la sera prima.

Invece ora era corso su un campo da basket.

Che la kitsune lo stesse contagiando con la sua fissazione?

Sorrise al pensiero, accarezzando la palla che aveva di fianco.

La kitsune… Rukawa… Kaede.

Aprì gli occhi, sussultando al nome del compagno.

Si toccò le labbra ripensando al calore ricevuto la sera prima.

Mi piaci do’hao. 

Erano state queste le parole di Rukawa.

Ma … com’era possibile?

Eppure Rukawa non mentiva, Sakuragi lo sapeva.

Anche lui si era fatto un’idea del numero undici e sapeva che, quello che era avvenuto, non era stato un gioco per l’altro.

Perché Rukawa non giocava con le persone. Metteva tutto se stesso in quello che credeva.

Come il basket… e come l’abbraccio che gli aveva riservato.

Un abbraccio forte, una presa decisa.

Era questo Rukawa. Sicuro, incrollabile… ma soprattutto: determinato.

Non si faceva distrarre da nulla, andava avanti per la sua strada sempre e comunque.

E lui, invece, come si sentiva ora verso il compagno di squadra?

Perché poi, non aveva sentito il bisogno di cancellare le tracce di quello che era avvenuto come la volta precedente?

Non c’è nulla di sbagliato.

Ancora la voce di Rukawa nella sua mente.

E se avesse avuto ragione?

Possibile che lui fosse normale pur provando attrazione per un altro ragazzo?

Anche le parole di Mito gli vennero in soccorso.

Quelle in cui diceva che l’amore può avere tante facce.

Parole dette quasi ogni volta che veniva scaricato.

Parole dette prima della comparsa di Rukawa nella sua vita.

Parole cui non aveva mai dato ascolto.

Perché invece ora gli tornavano alla mente?

Ma soprattutto, perché ora gli sembravano maledettamente vere?

Forse perché, prima di Rukawa, lui non si era mai interessato a nessuno in particolare.

Aveva cominciato a corteggiare le ragazze di continuo alle scuole medie.

Cosa cercava poi, non lo sapeva neanche lui.

Un po’ di affetto, forse. Un po’ di calore.

Calore che era venuto a mancare nella sua vita troppo presto perché potesse capirne appieno il significato e l’importanza.

Ed era stato scaricato… una, due, tre volte, e via di seguito.

Fino a che… non si era accorto di guardare con occhi diversi un suo compagno di classe.

Non gli interessava, non lo incuriosiva né gli stava simpatico; ma lo attraeva.

Era attratto da lui. Era attratto dal suo corpo.

Proprio come i suoi coetanei iniziavano ad apprezzare le forme acerbe delle coetanee intorno a loro oppure, a osservare con interesse quelle di ragazze più grandi.

Allo stesso modo, lui iniziava ad apprezzare altre forme.

Cosa fare allora se non parlare con Yo?

Non l’aveva fatto subito, questo no. Però… quando aveva capito che non riusciva a darsi una spiegazione da solo era andato a parlarne con il suo migliore amico, con il cuore a mille e la preoccupazione al massimo.

E questi, cosa faceva?

Lo abbracciava e gli domandava:

E allora? Qual è il problema?

E allora, Hanamichi era corso via. Aveva impiegato tutta la notte per trovare una soluzione. Poi l’illuminazione era arrivata la mattina.

Se anche Mito si ostinava a dire che non c’era nulla di male, lui gli avrebbe dimostrato il contrario trovandosi una ragazza.

E così erano arrivati i suoi cinquanta rifiuti.

Ultimo, dato proprio dalla ragazza di Oda.

Alle superiori poi era arrivata Haruko. E con lei… Kaede Rukawa.

Non aveva mai visto un volto così attraente e magnetico.

Nessun volto maschile gli aveva scatenato i brividi che aveva provocato la voce di Rukawa quando si era presentato sulla terrazza della scuola, dopo aver chiesto se lui e l’armata erano amici dei ragazzi che aveva appena steso.

Lo sguardo di Hanamichi era andato da lui fino ai sempai accasciati a terra.

Non aveva mai visto un ragazzo forte almeno quanto lui.

Forte, ma soprattutto bello. E non nel senso comune del termine. Era una bellezza eterea, divina. Occhi blu. Occhi di ghiaccio. Pelle bianca fino a sembrare fine porcellana.

Una bellezza angelica, pienamente contrastante con la forza dimostrata nello stendere senza fatica quei ragazzi.

E poi si era presentato con la sua voce calda. E Hanamichi era scattato.

Perché, in fondo, si era iscritto nel club di basket, se non per lui?

Inconsciamente, però la ragione era questa. Voleva dimostrare a se stesso cosa poi?

Non lo sapeva.

Ricordava ancora i suoi occhi brucianti durante la sfida con il capitano a inizio anno.

Occhi che si sentiva continuamente addosso durante gli allenamenti e le partite.

Il discorso di Mito sull’amore gli era sempre scivolato.

Perché invece ora acquistava senso?

E la risposta comparve all’istante nella sua testa: era innamorato di Rukawa.

Continuò ad accarezzare la palla.


Tra un po’ avrebbero dovuto giocare.

E, un altro cambiamento era avvenuto nel suo modo di fare.

Perché non aveva sentito il bisogno di andare dai genitori?

Non per quello che c’era stato.

Semplicemente perché guardando il cielo quella mattina, aveva visto i loro volti.

Loro potevano vederlo. Loro potevano sentirlo ovunque lui fosse. E soprattutto, ovunque loro fossero.

Questo l’aveva capito da tempo. Eppure, solo quella mattina aveva parlato con loro guardando il cielo, prima di iniziare i suoi tiri.

In passato aveva spesso pensato a loro. Ma mai parlato con entrambi in quel modo.

Eppure, l’effetto era lo stesso che avere davanti due lapidi. Ora l’aveva capito.

Perché loro non sarebbero tornati più. Ma poteva parlare con loro chiedendo direttamente al suo cuore.

L’immagine di sua madre sorridente fece capolino nella sua mente.

Come poteva lei sorridergli ancora benevola dopo quello che lui aveva fatto?

Non c’è nulla di sbagliato.

Questa era la voce di Rukawa.

I tuoi genitori hanno sempre voluto la tua felicità, Hana.

Stavolta era la voce di Yohei.

Cerca di essere felice figliolo, qualunque cosa tu faccia.

Questa era, invece, la voce di suo padre che parlava a un Hanamichi di otto anni che insisteva per fare l’astronauta dopo averne visto uno in televisione.

Segui sempre il tuo cuore e si te stesso, come ho fatto io piccolino.

Stavolta era sua madre che, stringendo la mano di suo padre, spiegava a un Hanamichi di dieci anni perché suo zio l’aveva insultato pesantemente sul suo colore naturale di capelli.

Perché gli venivano in mente quegli episodi?

E soprattutto, come aveva fatto a dimenticarli? Perché si era ostinato per anni a non voler ricordare, né le cose belle né le cose brutte?

Come poteva aver fatto una cosa del genere?

Forse avevano ragione tutte le voci di quei pensieri, che sembravano essergli venute in soccorso.

Sii te stesso.

Sii felice.

Quindi… loro avrebbero capito? Avrebbero accettato?

Non lo sapeva ancora. Tuttavia, il suo animo era sereno come non lo era da tempo.

Accanto a se aveva la sua palla da basket, che gli aveva dato un obiettivo.

Per questo era corso al campetto quella mattina. Il basket oramai rappresentava la sua oasi felice. Sapeva che sua madre sarebbe stata fiera di lui e avrebbe riso prendendosi il merito della sua altezza.

Sapeva che suo padre l’avrebbe guardato con orgoglio apprezzando il fatto che suo figlio, lo stesso cui aveva insegnato a difendersi, usava la sua potenza muscolare e la sua caparbietà in uno sport come quello.

Nella testa, le immagini sorridenti dei suoi genitori facevano capolino in questo o in quel ricordo piacevole.

Se li immaginò a tifare per lui sugli spalti.

E con quell’immagine nella mente, ma soprattutto nel cuore, si addormentò profondamente.
 
  
***
 

Rukawa si guardava intorno con circospezione.

Il messaggio che gli aveva lasciato Sakuragi giaceva nel suo comodino, accanto allo scontrino che, lo stesso, gli aveva scritto appena tre sere prima.

Briciole. Era questo, quello che rappresentavano i due fogli che erano destinati a essere conservati gelosamente.

Erano solo le briciole che il compagno aveva lasciato sul suo cammino.

Briciole, se paragonate a quello che avrebbe potuto avere.

Pur tuttavia, erano ugualmente importanti.

Perché le parole scritte su quei biglietti erano destinate a lui e a lui soltanto.

Ed erano scritte dal vero Sakuragi.

Ora però continuava a guardarsi intorno, sentendo il cuore accelerare i battiti.

Dalla sua espressione non trapelava nulla, come al solito.

Ma la preoccupazione stava prendendo il sopravvento.

Era con il resto della squadra allo stadio dove, tra qualche minuto, avrebbero disputato la partita.


Peccato che di Sakuragi non si vedesse neanche l’ombra.

“Cercalo, da qualche parte dovrà pure essere” sentì dire da Kogure rivolto a una riserva.

“Non ti scaldare, non sentiremo la sua mancanza!” disse allora pungente, rivolto a Kogure.


Avrebbe voluto restarsene zitto, ma non ce l’aveva fatta a trattenersi.

Lui, di solito, non parlava molto e ancor meno interagiva con i suoi compagni di squadra intervenendo, di sua iniziativa, nei discorsi che non riguardavano il basket.

E anche in quelli, per lo più restava zitto ad ascoltare oppure annuiva o negava con la testa in risposta a una domanda diretta.

Eppure, quando si trattava di Hanamichi, non riusciva a fare a meno di palesare la sua presenza, rivolgendosi alla testa rossa o parlando di lui in sua assenza, anche se con ironia.

E stavolta, non era riuscito a trattenere il sarcasmo visto che la non presenza del numero dieci stava iniziando a innervosirlo.

Quando si erano baciati, Sakuragi aveva deciso di raparsi.

Un brivido freddo gli attraversò la schiena.

Che avesse fatto qualche sciocchezza ancora più grande di quella precedente?

Rukawa iniziò a sudare freddo.

Che hai fatto stavolta, Hanamichi?

“Dove diamine si è cacciato quell’imbecille?” sentì urlare ad Akagi a pochi istanti prima dal fischio d’inizio.

Vorrei saperlo anch’io! Pensò Rukawa stizzito, avviandosi a centro campo con un solo pensiero nella testa prima che l’arbitro desse inizio alla partita.

Lo stesso che aveva avuto quella mattina.

Dove cazzo sei do’hao?
 
 
Continua….
 
Questo capitolo è ambientato nella puntata 62 dell’anime.
Si tratta del risveglio di Kaede prima della partita e dei pensieri di Hanamichi durante i suoi tiri mattutini rielaborati con gli avvenimenti da me inventati.
Spero che il capitolo sia piaciuto. Mi raccomando, commentate!


Pandora86

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Capitolo 27
*** Ryonan contro Kainan - Prima parte ***


Eccomi con il nuovo capitolo della fic.
Come sempre, grazie per le bellissime recensioni, e anche chi continua a inserire la storia tra le preferite e le seguite.
Ovviamente, grazie anche a tutti i lettori silenziosi.
Ci vediamo a fine capitolo per le note e le informazioni riguardo le prossime pubblicazioni. 
Mi scuso in anticipo per eventuali errori. Leggo e rileggo ma sapete com’è… qualcosa sfugge sempre!!
Per adesso, buona lettura.
 
 
  
Capitolo 26. Ryonan contro Kainan – Prima parte.
 

Sakuragi aprì lentamente gli occhi.

Che bel sogno stava facendo.
Peccato che qualcosa l’avesse svegliato.

Più precisamente, una pallina. Una pallina, di non si sa che tipo di gioco, che era andata a colpire direttamente la sua testa.

Aprì svogliatamente gli occhi, sentendo un vociare intorno a lui.

Si tirò lentamente a sedere.

“Guarda, una donna nuda”diceva una di queste voci.

“Ma no! È un maschio!” lo corresse un’altra voce.

“Ah, questi giovani pervertiti”sentì dire a un altro.

Sakuragi si voltò distrattamente a guardare la provenienza di quel vociare.

Notò, con la coda dell’occhio, che proveniva da un gruppetto di arzilli vecchietti.

“Copriti, maiale!” fu il rimprovero di uno di loro.

Sakuragi, ancora intontito dal sonno, volse lo sguardo di fronte a sé.

L’orologio presente nel campetto segnava le 10:10.

Una sola parola prese forma nella sua testa: CAZZO!

Lanciando un urlo disumano, si fiondò verso la casa del suo amico.

Avrebbe dovuto essere in campo già da dieci minuti.
 

***
 

Rukawa mise a segno un’altra schiacciata fenomenale.

Non c’era partita. Anche con un uomo in meno sotto canestro, lo Shohoku stava sovrastando il Takezato.

E anche l’allenatore non aveva dubbi a riguardo, tanto da fare uscire Akagi dopo il primo tempo.

La partita vera si sarebbe giocata con il Ryonan e Akagi avrebbe dovuto essere in forma per allora.

All’improvviso, si senti un’ovazione da parte del pubblico.

E il perché fu presto detto: Sakuragi aveva fatto il suo ingresso nello stadio.

“È arrivato l’idiota!” fu la pronta battuta di Rukawa.

Chi avesse prestato attenzione al tono però, avrebbe notato un certo sollievo nascosto dall’insulto.

Rukawa non aveva, infatti, saputo trattenere un sospiro di sollievo, prima di fare la sua battuta sarcastica.

 Era stato inoltre il primo della squadra a parlare, dopo la comparsa di Sakuragi.

Che strana cosa, in effetti, per una persona così taciturna.

Ma del resto, Rukawa lo sapeva. Quando si trattava di Sakuragi, in un modo o in un altro, il numero undici palesava sempre la sua presenza.

Seguì con attenzione quello che stava avvenendo nella panchina della sua squadra.

Il suo occhio attento cercava segnali: di qualunque tipo.

Si era preoccupato parecchio per l'assenza di Sakuragi alla partita, visto quanti sacrifici avesse fatto il numero dieci per allenarsi in vista dell'incontro.

Ora però Sakuragi c’era; e solo questo contava.

“Ahio, gorilla! Ma perché?”stava domandando nel frattempo Sakuragi al capitano, dopo aver ricevuto un sonoro pugno in testa.

“Dov’eri finito, razza d’imbecille?”questa, invece, era la voce tonante di Akagi che non provava nemmeno a nascondere il nervosismo.

“Vedi… stamattina mi sono alzato all’alba per fare i tiri d’allenamento”si decise a spiegare Sakuragi il motivo del suo ritardo. “A un certo punto, mi sono steso a terra. Ero stanco morto e mi sono addormentato”.

Rukawa non si perse una battuta di quello che aveva appena detto la scimmia.

Con altrettanta attenzione, osservò il suo volto.

Com’era diverso rispetto al solito. E il tono della sua voce poi… sembrava dispiaciuto, e anche molto mortificato.

Rukawa sapeva quanto ci tenesse a giocare quella partita e quanto si fosse allenato in vista dell’incontro.

Inoltre, dopo gli avvenimenti della sera prima, il primo pensiero di Sakuragi, quando era uscito da casa sua, era stato correre su un campo da basket.

Rukawa si sentì rincuorato. Quanti miglioramenti stava facendo Hanamichi.

Quanta passione stava dimostrando verso quello sport.

Non aveva fatto una sciocchezza perché sconvolto.

Non si era rapato o chissà cosa come la volta precedente, per provare a rinnegare quello che era avvenuto.

Era corso su un campo da basket.

Per allenarsi; ma soprattutto per pensare.

Lui stesso, non andava a fare due tiri quando aveva bisogno di schiarirsi le idee?

Rukawa si sentì orgoglioso di lui.

E anche il capitano doveva essere rimasto colpito dall’atteggiamento maturo del numero dieci.

Era vero, gli aveva dato un altro pugno.

Ma Rukawa aveva sentito distintamente le parole che gli aveva rivolto dopo avergli comunicato che in quella partita non avrebbe giocato.

“Fidati di me. Non voglio che il Ryonan veda quanti progressi hai fatto”aveva aggiunto in tono serio.

E Rukawa era d’accordo. La partita vera, infatti, sarebbe stata contro di loro.

Comunque, per il momento, questo non aveva importanza.

Ora doveva solo pensare a schiacciare ancora di più il Takezato.

Aveva visto il do’hao guardare Sendoh con interesse, quando Akagi aveva nominato il Ryonan.

Entrando di corsa, infatti, non si era accorto della formazione del liceo Ryonan schierata al completo su uno dei lati del campo.

Rukawa aveva notato la luce di sfida che si era accesa negli occhi del do’hao guardando il porcospino, come lo chiamava lui.

E questo non andava bene.

Sakuragi non doveva considerare nessun altro rivale all’infuori di lui.

Ed era compito di Rukawa battere Sendoh. Sakuragi si sarebbe dovuto confrontare solo ed esclusivamente con lui.

Motivo per cui, avrebbe schiacciato ancora di più il Takezato con i suoi canestri.

Era un po’ come sparare sulla croce rossa lo sapeva; ma d’altra parte quella era una partita e quelli erano avversari.

Inoltre, Sakuragi avrebbe guardato lui, e lui soltanto.
 

***
 

La partita era finita.

Risultato finale: Shohoku 120 - Takezato 81.

Ora toccava al Ryonan giocare contro il Kainan.

Lo Shohoku si era accomodato sugli spalti per assistere alla partita che si sarebbe disputata a momenti.

Sakuragi decise di ignorare il fatto che seduto accanto a sé ci fosse Rukawa.

Come faceva poi, a finire sempre vicino a lui, era un mistero.

Succedeva agli allenamenti, quando il capitano o il signor Anzai richiamavano la squadra per comunicare qualcosa.

In metropolitana, quando si spostava con la squadra.

Seduto vicino, quando assistevano a qualche partita.

Che il numero undici lo facesse apposta?

Con uno sbuffò, scacciò quel pensiero.

Era vero, Rukawa aveva detto che gli piaceva.

Ma da qui a capitargli, di proposito, sempre di fianco ce ne voleva!

Ma sì. Sono solo coincidenze! Pensò, cercando di tranquillizzarsi e di non richiamare alla mente quello che era avvenuto tra di loro.

Ora doveva solo concentrasi sulla partita che si sarebbe disputata a breve.

Solo a quello e a nient’altro.

Rukawa, intanto, guardava di sottecchi il numero dieci che gli sedeva, in apparenza tranquillo, di fianco.

Come sempre, aveva fatto in modo di sedersi vicino a lui.

Si chiese se Sakuragi si fosse accorto di quante volte si trovassero vicino, nonostante il loro rapporto.

Figuriamoci, pensò poi, è sempre un do’hao!

Lui faceva in modo di essergli sempre accanto.

Anche prima che facesse chiarezza con i suoi sentimenti.

Anche prima che tra lui e Sakuragi le cose evolvessero in quel modo.

Anzi… prima lo faceva ancora di più, considerando quanto gli interessasse il compagno di squadra, e ben coscio che l’interesse non fosse ricambiato.

Il loro rapporto erano botte, insulti e provocazioni. Ma Rukawa non poteva fare a meno di capitargli sempre di fianco, che fossero in metropolitana o in uno stadio.

Figuriamoci ora che il loro rapporto si era evoluto fino a quel punto.

Sarebbe stato praticamente impossibile stargli lontano.

Considerando poi, che sarebbe potuto capitargli vicino Mitsui. E, visto l’interesse che ci aveva messo il Sempai quando aveva allenato Hanamichi in una delle ultime partite dall’allenamento, non era proprio il caso.

Oppure, considerando l’occhiata che aveva rivolto a Sendoh poco prima il do’hao.

In effetti, non si era mai domandato cosa Hanamichi ne pensasse di lui.

E questo, perché aveva sempre dato per scontato che a Sakuragi i ragazzi non interessassero affatto.

Ma… alla luce degli ultimi avvenimenti e delle scoperte che c’erano state, come doveva catalogare ora, le occhiate e le provocazioni che il do’hao riservava al numero sette del Ryonan?

In effetti, con Sendoh aveva attaccato sempre briga, proprio come con lui.

E… visto che tanto etero non lo era, per Rukawa era lecito interrogarsi su simili cose.

Inoltre, considerando che ancora non sapeva cosa passasse nella testa del do’hao, a maggior ragione faceva bene a non mollare la scimmia nemmeno per un istante.

Non ora che aveva capito di non poterne fare a meno. Non dopo quello che c’era stato la sera prima.

Sapeva che sarebbe stata dura fare finta di niente.

Ma lui l’avrebbe fatto, per non ferire l’orgoglio di Hanamichi che non era ancora pronto a vivere alla luce del sole qualcosa che doveva ancora accettare lui stesso.

In futuro, però, Rukawa avrebbe fatto bene a fargli presente che lui non amava la condivisione.

Neanche di sguardi!

In fondo, era vero che non si erano ancora chiariti, però le cose erano comunque cambiate.

Che direzione avrebbe preso il tutto poi, ancora non si sapeva.

Ma questo non era imputabile a nessuno dei due.

I campionati erano nel pieno del loro svolgimento ed entrambi dovevano fare il loro dovere di campioni.

Rukawa tuttavia era ottimista in proposito.

Sakuragi non avrebbe potuto a lungo negare quello che provava.

Inoltre, sembrava tranquillo dopo quello che era successo.

Lo ignorava, ma in questo non c’era nulla di strano.

Aveva la fronte aggrottata che esprimeva tutta la sua concentrazione per la partita che stava per disputarsi.

E Rukawa lo imitò. Ora anche lui doveva solo memorizzare al meglio gli schemi del Ryonan.

Per il resto ci sarebbe stato tempo.

La voce di Sakuragi lo distolse dai suoi pensieri.

“Me lo ricordo” stava dicendo il numero dieci, con sguardo serio.

Eh?! Ma di chi parla? Pensò Rukawa, seguendo il suo sguardo.

Vide che era puntato su un nuovo acquisto del Ryonan.

Rukawa aveva notato subito quella faccia nuova, visto che non aveva giocato contro di loro nell’amichevole.

“Ma non sapevo fosse un giocatore del Ryonan” concluse Sakuragi, appoggiandosi al parapetto.

Ma allora, prima non stava guardando Sendoh, valutò Rukawa, vedendo il tipo in questione mettere a segno una schiacciata fenomenale.

Inoltre, il tizio, prima di schiacciare, aveva guardato dalla loro parte.

Che questi due si conoscano? Si domandò dubbioso Rukawa.

Ed ecco poi, che a tre minuti dall’inizio, Nobunaga decideva di dare spettacolo.

“Idiota, vuole solo mettersi in mostra” aveva commentato rabbioso Sakuragi.

“Tzè” era stato il contributo di Rukawa.

Come volevasi dimostrare, il numero dieci del Kainan rimediò solo una sonora figuraccia.

Quello che invece attirò lo sguardo di Rukawa fu quello che avveniva dalla parte opposta del campo.

Sendoh aveva fatto un passaggio al nuovo venuto, che aveva messo a segno il canestro senza difficoltà.

Non c’era nulla da dire. Era stata un’azione da manuale e ne erano rimasti tutti affascinati.

“Qualcuno di voi conosce il numero tredici?” domandò Kogure a quel punto.

“No” rispose Akagi. “Non c’era nell’amichevole che abbiamo giocato contro il Ryonan”.

“Si chiama Fukuda”intervenne inaspettatamente Sakuragi. “Ma è detto Fuku-chan”.

Ma allora si conoscono sul serio, considerò Rukawa assottigliando gli occhi.

Nulla traspariva dal suo aspetto. Sedeva serio a braccia incrociate, come al solito.

Dentro di se però, ribolliva di rabbia.

Da quando Sakuragi conosceva i giocatori delle squadre avversarie?

In fondo, era sempre quello che pensava che l’asso dello Shoyo fosse una riserva.

Chiamandolo poi pivello e suona pifferi!

Ma allora, come si spiegava tutto ciò?

Decise che ci avrebbe visto più chiaro, in un modo o in un altro.

“Mi raccomando” disse a quel punto Akagi, “osservate attentamente gli schemi del Ryonan. Sarà contro di loro che giocheremo la prossima partita”.

“Sì, d’accordo” annuì Sakuragi.

Ed ecco che la partita stava per iniziare. Erano stati presentati tutti i titolari.

Cominciava la grande sfida.

“Molto interessante, date un’occhiata” intervenne, a quel punto, Sakuragi.

“Perché? Che succede?” domandò Kogure con interesse.

“Lo scimmione vicino all’orango! Una lotta tra scimmie!”.

Ed ecco che se ne usciva con una delle sue solite battute idiote.

Se c’era una cosa che non sarebbe mai cambiata, sarebbero state proprio le uscite fuori luogo di Sakuragi.

“Manchi soltanto tu all’appello”fu la pronta provocazione di Rukawa.

Ancora una volta, non era riuscito a trattenersi. Anche se, in effetti, non aveva voluto trattenersi.

Perché sospettava che, in fondo, il loro rapporto sarebbe sempre stato così.

Un punzecchiarsi a vicenda con battute e insulti.

Un provocarsi continuo per ogni sfida inesistente.

Un menarsi di continuo per avere ragione sulle cose più assurde.

Quello era uno stato di cose che non sarebbe mai cambiato. E a Rukawa non dispiaceva affatto. Era anche su quello che era costruito il loro rapporto.

E, anche se probabilmente in futuro dopo un pugno ci sarebbe stata una carezza, le cose non sarebbero cambiate mai sotto il punto di vista competitivo.

Erano orgogliosi e testardi in pari misura.

Per questo Rukawa sospettava che non si sarebbero mai stancati l’uno dell’altro.

Perché il loro era un rapporto vivo. Lo era stato in passato, lo era nel presente e lo sarebbe stato in futuro.

Comunque sarebbero andate le cose.

Tuttavia, stavolta Sakuragi non ebbe modo di rispondere all’ennesima provocazione del numero undici.

E non perché non lo volesse.

Semplicemente perché quello che avveniva in campo calamitava tutta la sua attenzione.

Ciò non toglieva, che in futuro avrebbe precisato a Rukawa chi era la scimmia.

Anche Rukawa seguì il suo esempio; era certo che la partita che si sarebbe disputata a breve, sarebbe stata giocata e combattuta fino all’ultimo minuto.

Di certo, non sarebbe stato uno spettacolo noioso.

L’arbitro aveva fischiato; la partita era finalmente cominciata.

Ora non rimaneva che vedere come sarebbe andata a finire tra il Kainan e il Ryonan.
 

Continua….
 

Note:
 
Gli avvenimenti letti in questo capitolo sono ambientati verso la fine della puntata 62 e l’inizio della puntata 63 dell’anime.

Come potrete notare, infatti, molti discorsi sono fedeli al canone.

Io mi sono limitata ad approfondire i pensieri dei personaggi con una nuova base introspettiva che segue le vicende da me inventate.
 

Che altro dire… spero che il capitolo vi sia piaciuto, anche se, in effetti, è un capitolo di passaggio. Mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate!!!

Ci vediamo domenica prossima, con il nuovo capitolo.

Pandora86.

 

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Capitolo 28
*** Ryonan contro Kainan - Seconda parte ***


Ecco a voi il nuovo capitolo della fic.
Come al solito ringrazio tutti per le bellissime recensioni e chi continua a inserire la storia tra le preferite, seguite e ricordate.
Ovviamente, grazie anche a tutti i lettori silenziosi.
Ci vediamo a fine capitolo per le note e le informazioni riguardo alle prossime pubblicazioni.

Buona lettura.
 

Capitolo 27. Ryonan contro Kainan – Seconda parte
 

Rukawa sgranò impercettibilmente gli occhi.

Ma in che ruolo fanno giocare Sendoh?

Era questa la sua muta domanda.

E non doveva essere l’unico a pensarlo visto che, poco dopo, Mitsui espresse i suoi dubbi in proposito ad alta voce.

Anche Miyagi sembrava perplesso.

 Temono così tanto Maki da cambiare ruolo a Sendoh? Si domandò ancora Rukawa.

Dentro, ribolliva di rabbia. Maki aveva battuto anche lui, nonostante non giocasse nel suo ruolo. Era stato, fondamentalmente, compito di Miyagi tenere testa al capitano del Kainan.

Sendoh invece era ritenuto talmente bravo, da potersi confrontare con lui anche nel ruolo di play maker?

Rukawa non lo riteneva possibile.

Sendoh non poteva essere così bravo. Non doveva!

Anche Hanamichi guardava con interesse quello che avveniva in campo.

Del resto, anche lui era stato messo in difficoltà da Maki.

E Akagi espresse a voce questo pensiero.

“Bisogna ammettere che è difficile per chiunque contrastare Maki. Tu ne sai qualcosa, eh Hanamichi?”.

Il numero dieci non si preoccupò neanche di rispondere.

Rukawa era sicuro che stesse ripercorrendo la partita che loro avevano giocato contro il Kainan.

Ribollendo di rabbia, proprio come lui!

Inoltre, la tattica del coach del Ryonan sembrava funzionare.

A pochi minuti dall’inizio, il Ryonan aveva segnato grazie a Fukuda su un passaggio di Sendoh.

Nulla da dire, era stata un’azione impeccabile.

Ryota e Mitsui non erano riusciti a trattenere lo stupore.

E anche Rukawa stesso, aveva faticato a mantenere la sua impassibilità.

“Hanamichi” chiamò con voce seria il capitano.

“Che c’è?” domandò l’altro, con tono altrettanto serio.

“Guarda attentamente come gioca il numero tredici. Potresti trovartelo di fronte” concluse il capitano.

Rukawa era d’accordo con lui. Sapeva meglio di Akagi, quanto Hanamichi stesse diventando fondamentale per la squadra.

Ed era altrettanto fondamentale che iniziasse a tenere d’occhio i suoi avversari preparandosi al meglio.

Esattamente come faceva lui.

“Non vedo l’ora”.

Rukawa sussultò impercettibilmente a quella risposta.

Sakuragi aveva uno sguardo minaccioso e, anche se il tono con cui aveva parlato era stato basso, era comunque carico di rabbia.

Si vedeva che non aveva giocato. Aveva ancora tante energie da scaricare e la partita cui stavano assistendo aveva acceso la luce della sfida nei suoi occhi.

Rukawa era sicuro che, contro il Ryonan, Sakuragi avrebbe giocato ancora meglio del solito.

Del resto era uno dei pochi che, oltre ad imparare dagli allenamenti, migliorava effettivamente durante le partite vere e proprie.

Rukawa si preparò mentalmente alla loro prossima sfida.

Era sicuro che Sakuragi avrebbe fatto dei miracoli in campo. Ma lui non sarebbe stato da meno.

“Guardate!” disse a quel punto Hanamichi. “Sendoh continua marcare Maki da solo”.

Si sentiva, dal tono, che era stupito.

Rukawa era certo che anche Sakuragi avesse colto l’importanza che dava il mister del Ryonan a Sendoh.

“L’allenatore del Ryonan usa Sendoh per impostare il gioco e fermare Maki”spiegò, infatti, Akagi.

Rukawa assottigliò gli occhi.

Era proprio curioso di vedere quanto Sendoh avrebbe resistito contro il capitano del Kainan.

Se la sta cavando dannatamente bene, fu però il suo pensiero successivamente.

Tanto che, l’allenatore del Kainan era stato costretto a chiedere un time out.

Dopo nove minuti e dieci secondi dall’inizio del primo tempo, il Ryonan conduceva per ventinove a quattordici.

Ben undici punti di vantaggio sulla squadra dei campioni.

E Hanamichi era a dir poco furente.

Sembrava inoltre che il destino del Kainan fosse segnato.

Era finito il primo tempo e il Ryonan continuava a condurre con un vantaggio di dieci punti.

Rukawa poteva vedere fin dagli spalti l’espressione compiaciuta di Sendoh.

Maledetto, imprecò mentalmente.

Non poteva succedere che loro battessero il Kainan.

Non era possibile che lo Shohoku stesso avesse perso contro il Ryonan.

Come faceva Sendoh a essere migliorato tanto?

Ma soprattutto… possibile che il numero tredici avesse portato tanta forza alla squadra?

Oramai, il secondo tempo era cominciato e il Kainan viveva una situazione nuova.

Mai la squadra dei campioni si era trovava così in difficoltà da dover rimontare tanti punti all’inizio del secondo tempo di una partita.

Rukawa guardò di sottecchi Hanamichi.

Stava fremendo come e, se possibile, più di lui.

Il suo sguardo attento era puntato su Fukuda.

Nulla da dire. Giocava davvero in modo spettacolare.

E il pubblico oramai acclamava solo lui.

“Usano Fukuda come realizzatore” stava dicendo in quel momento Akagi.

“Puoi tradurre Ayako?” domandò a quel punto Sakuragi perplesso.

Rukawa sorrise impercettibilmente. Era facile dimenticare che Sakuragi fosse un principiante.

Questo perché aveva un talento sopra la media. Pur tuttavia, era anche necessario non dimenticare che Sakuragi ignorava ancora gran parte delle regole basilari del basket.

Una cosa di cui lui stesso si rendeva conto, Rukawa di questo era certo.

In altri tempi, non avrebbe mai chiesto chiarimenti davanti a tutta la squadra, palesando così la sua ignoranza.

Tuttavia Sakuragi stava lentamente crescendo. E anche questo era un dato di fatto innegabile.

“Un giocatore che segna un sacco di punti, ignorante!” spiegò pratica la loro manager.

“Oh sì, ho capito! Proprio come mee allooraaa” rispose pronto Sakuragi, con una faccia da imbecille.

Non poté però impedire al suo sguardo di posarsi per un attimo su Rukawa.

Lo stesso Rukawa che, nella partita appena giocata e che lui non aveva disputato, aveva segnato la maggior parte dei punti.

“Esaltato” lo provocò allora il numero undici.

E Sakuragi non poté fare a meno, stavolta, di guardarlo pieno di rabbia.

Possibile che Rukawa non imparasse mai a tenere chiusa quella boccaccia che si ritrovava?

O meglio, perché decideva di dare aria alle sue corde vocali solo quando si trattava di lui?

Possibile poi che fosse la stessa persona della sera precedente?

Lo stesso che lo abbracciava e lo baciava in quel modo?

Che il compagno fosse affetto da una strana sindrome di personalità multipla?

Non lo sopportava!

Non quando interveniva a sproposito.

Lui aveva fatto una semplice battuta. Era normale che volesse acquistare un po’ di dignità dopo aver ammesso di fronte alla squadra che lui non sapeva neanche cos’era un realizzatore.

Rukawa notò il nervosismo dell’altro.

Che si fosse veramente offeso per la sua ultima battuta?

In fondo, non aveva niente di diverso dalle precedenti.

E anche l’insulto, non era stato poi tanto pesante.

Lui voleva semplicemente provocarlo un po’, come al solito, e cancellargli quella luce triste negli occhi.

Si era accorto di come lo aveva guardato quando Ayako aveva dato delucidazioni.

Sicuramente, aveva pensato a tutte le schiacciate a cui aveva assistito nella partita in cui non aveva giocato.

Rukawa sorrise impercettibilmente. C’era riuscito: Sakuragi aveva guardato lui e lui soltanto.

Fatto sta, che il suo umore fosse una continua altalena. E Rukawa sapeva anche questo.

Aveva intuito che Sakuragi aveva fatto quella sparata per sorvolare sulla sua ignoranza.

Ma che bisogno aveva poi di arrabbiarsi in quel modo per una sua semplice provocazione?

In fondo, era tutto negli schemi.

Vide il compagno arrossire e impallidire.

Ecco! Adesso era certo che stava pensando a quello che era avvenuto la sera precedente.

“Con Sendoh, Fukuda e Uozumi il Ryonan è diventata una squadra fortissima”.

Stava intanto dicendo uno spettatore seduto poco distante tra loro.

“Penso proprio che assisteremo alla sconfitta del Kainan” concluse l’uomo.

E Rukawa fu certo che quella sarebbe stata la goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso.

Già sentiva Hanamichi ringhiare di sottofondo.

“Eh si!” continuò l’uomo con tono compiaciuto. “Questa potrebbe essere la volta buona”.

Adesso esplode, valutò Rukawa guardando di sottecchi il numero dieci.

E, infatti, la reazione di Sakuragi, come volevasi dimostrare, non tardò ad arrivare.

Rukawa si preparò spiritualmente e mentalmente. Era certo che lo stadio sarebbe esploso.

“COS’HAI DETTO MENTECATTO?” saltò su Sakuragi con i pugni alzati.

Gli spettatori impallidirono.

Ci pensarono Kogure e le altre riserve a mantenere il numero dieci che era salito in piedi sulla sedia.

“SEI CONVINTO CHE LO SHOHOKU SIA MENO FORTE DEL RYONAN?” continuò a urlare imperterrito, incurante del fatto che mezzo stadio lo stesse guardando.

“N-non ho detto niente del genere”provò a difendersi balbettando l’uomo che, come unica colpa, aveva quella di aver fatto un’innocente osservazione in un momento sbagliato.

“MA IL KAINAN HA BATTUTO LO SHOHOKU, PER CUI SE IL RYONAN BATTE IL KAINAN…” continuò Sakuragi con i suoi strepiti.

In effetti, ha la sua logica! Considerò mentalmente Rukawa, trattenendo a stento le risa.

Pover’uomo, pensò poi. Quando Sakuragi era di quell’umore, di solito prendeva a pugni lui.

Ma gli strepiti e i deliri di Sakuragi furono presto interrotti da un altro canestro messo a segno dal Ryonan. Più precisamente, da Fukuda.

Sakuragi rimase immobile a guardare l’ennesimo successo del numero tredici.

La sua faccia era una maschera di rabbia.

I suoi muscoli tremavano.

Rukawa sapeva per certo che, se avesse potuto, avrebbe fatto a pezzi qualcosa, o qualcuno, più che volentieri.

Dopo aver preso a testate tutti i giocatori in campo.

E, infatti, Rukawa non si era sbagliato sull’umore del numero dieci.

Sakuragi, a quell’ennesimo canestro di Fukuda, non ci aveva visto più.

Continuava a guardare il campo. Il suo corpo era un fascio di nervi.

Tutta la rabbia che sentiva dentro stava per esplodere.

La vicinanza di Rukawa. La sua assenza. Il suo allenamento degli ultimi giorni vanificato dal suo stesso ritardo.

Il Ryonan che aveva deciso di mettere in difficoltà il Kainan.

E poi ancora:

Rukawa che gli sedeva di fianco e lo provocava.

Rukawa che metteva a segno schiacciate fenomenali.

Il suo allenamento. Il suo ritardo.

Sakuragi non ne poteva più.

Sentiva l’impellente bisogno di spaccare qualcosa.

Presto non sarebbe più riuscito a controllarsi e la rabbia che provava sarebbe uscita fuori.

E c’era un solo posto dove sfogarla.

Fu per questo che si avviò, con passo deciso e sguardo serio, verso l’uscita.

“Ehi Sakuragi, non guardi la partita?” lo richiamò Akagi.

“Me ne vado” fu la rabbiosa risposta di Hanamichi.

“Per quale ragione?” s’informò Kogure.

Sakuragi riservò loro il suo miglior sguardo truce.

“Perché mi sono rotto di assistere a questa pagliacciata”.

Il capitano e il suo vice lo guardarono perplessi. Non si erano aspettati un tale cambiamento d’umore.

E, forse, non avevano mai visto Sakuragi così arrabbiato.

Sicuramente, non riuscivano a motivare tanta rabbia considerò Rukawa che era l’unico ad aver seguito i pensieri dell’altro e, di conseguenza, anche a prevedere e capire il suo comportamento.

Sakuragi, dal canto suo, non riuscì a trattenere, ancora una volta, la sua impetuosità.

Il Kainan non doveva assolutamente perdere contro il Ryonan.

Fu per questo che urlò deciso verso il campo.

“EHI TU, RAZZA DI BABBUINO!” strepitò rivolto al numero dieci del Kainan.

“VUOI DECIDERTI A GIOCARE CON UN PO’ PIÙ DI GRINTA?”

“Dici a me?” urlò a sua volta Kyota.

“ALTRIMENTI, LASCIA PERDERE IL BASKET E VAI SUL MARCIAPIEDE” fu l’elegante incoraggiamento di Sakuragi, che non ne poteva più di vedere il sorrisetto compiaciuto di Sendoh e l’aria da super uomo di Fukuda.

“Chiudi quella fogna idiota e piantala di fare casino”.

Rukawa seguì l’ennesimo teatrino con un moto di stizza.

Sul fatto che Sakuragi, prima di andarsene, dovesse attirare l’attenzione di mezzo stadio e anche dei giocatori in campo non c’era nulla di strano.

Ma che quel deficiente si premurasse di rispondergli mentre stava giocando, oltrepassava le vette dell’idiozia andando a catalogarsi come un qualcosa di non definito, vista la stupidità e, soprattutto, l’inutilità di quel comportamento.

“Sta tranquillo, non ti disturbo più, me ne vado” concluse Sakuragi, prima di avviarsi definitivamente.

“Crepa” urlò ancora la matricola del Kainan e Rukawa assottigliò gli occhi.

Non aveva mai sopportato quella mezza sega. Ora più che mai.

“Credi che sia facile?  Il nemico è molto più forte di quanto ci aspettassimo” si sentì in dovere di precisare Kyota, sempre nel bel mezzo della partita.

Peccato che Sakuragi non lo ascoltasse più e che fosse definitivamente andato via.  

“Tutti in attacco” urlò poi nuovamente Nobunaga, stavolta rivolto alla sua squadra.

Rukawa si apprestò a seguire quell’azione con interesse.

Quel deficiente, ora, aveva una nuova luce negli occhi.

Che le parole di Sakuragi lo avessero realmente incoraggiato?

Rukawa aveva capito, infatti, che la testa rossa, sentendosi impotente di fronte all’apparente superiorità del Ryonan, aveva provato, a modo suo, a scuotere i giocatori del Kainan.

In particolare, quel deficiente che portava quell’assurda fascetta in fronte.

Del resto, non era lui stesso che riusciva sempre a spronare Sakuragi utilizzando proprio quel modo di fare?

D'altro canto, il fatto che Nobunaga avesse colto la sfida aveva dell’incredibile.

Sakuragi, non volendo, o forse volendo proprio quello, era riuscito a dare uno scossone alla partita.

Non a caso, infatti, Kyota era appena andato a canestro con un’azione impeccabile, riuscendo a beffare Uozumi.

Il pubblico ed entrambe le squadre in campo erano rimaste colpite dalla schiacciata fenomenale del numero dieci.

Ed ecco che ora quel demente si metteva in mostra come un pavone.

Che buffone. Vai al diavolo! Pensò Rukawa non potendone più e alzandosi.

Non era estroverso come Sakuragi, ma anche lui ne aveva le tasche piene di quello spettacolo.

Vedere quella partita gli faceva ribollire il sangue nelle vene, accendendogli la competizione e facendogli venire voglia di giocare.

Con passo deciso, si avviò verso l’uscita.

“Ehi Rukawa, non te ne andrai anche tu vero?” s’informò Kogure.

“Sì, ne ho abbastanza. Non c’è più nulla d’interessante da vedere. Ormai il Ryonan ha vinto” rispose spiccio, prima di avviarsi definitivamente.

Con la coda dell’occhio, registrò che anche Ryota e Mitsui stavano facendo altrettanto.

Si ritrovarono, non volendo, a camminare fianco a fianco, troppo presi dalle loro perplessità per farci caso.

Tutte e tre con lo stesso pensiero nella testa:

La partita di domani dipenderà da me.
 

***
 
Sakuragi pedalava più veloce della luce.

La sua prossima meta: la palestra della scuola.

Non ho un minuto da perdere.

Era questo il pensiero che lo spingeva a pedalare sempre più veloce.

Non mi interessa quanti punti ha realizzato Fukuda contro il Kainan.

Contro di me non avrà nessuna possibilità. Prima della partita di domani, ho ancora un mucchio di tempo per allenarmi.

Era questo il suo chiodo fisso.

Allenarsi, allenarsi e poi ancora allenarsi.

Non avrebbe buttato nel cesso quello che aveva imparato negli ultimi giorni.

Non avrebbe sprecato un minuto di più. E avrebbe dimostrato a tutti quanto valeva.

Il Ryonan si stava dimostrando forte. Troppo forte per i suoi gusti.

E lui non poteva continuare a intralciare la squadra con la sua inesperienza.

Non poteva continuare a intralciare lui.

Era sicuro Rukawa avrebbe dato il meglio di se.

Ma sarebbe stato lui, Hanamichi Sakuragi, a battere Sendoh, Uozumi e anche Fukuda.

Dimostrando finalmente a Rukawa quanto valeva.

Avrebbe utilizzato il tempo a disposizione per allenarsi e non si sarebbe fatto distrarre da niente e nessuno.

Non sapeva, però, che presto i suoi piani avrebbero subito una brusca variazione, indipendente dalla sua volontà.

Una variazione che avrebbe potuto minare tutto quello che aveva costruito con tanta fatica, riportandolo facilmente sull’orlo di un baratro senza fine.
 

***
 

Mito guardò con interesse Sakuragi sfrecciare come un missile a bordo della sua bicicletta.

Si accorse subito, dall’espressione dell’amico, che non vedeva l’ora di andare in palestra ad allenarsi.

Chissà com’è andata la partita, si domandò curioso.

Loro non vi avevano assistito, perché impegnati con le lezioni a scuola.

“Ma cos’è stata?  Una tromba d’aria?” domandò Takamiya.

“No! È passato Hanamichi”chiarì Mito, serio in volto.

Che diamine sarà successo per farlo arrabbiare tanto? si domandò ancora.

Del resto, a lui bastava un’occhiata per capire gli stati d’animo del numero dieci.

Era sempre stato così in passato e sospettava che, anche in futuro, quell’empatia che aveva con Hanamichi sarebbe rimasta invariata.

“Allora, com’è andata la partita?” gli domandò correndogli incontro, insieme agli altri.

“Non sembri stanco e affaticato. Evidentemente sei stato espulso!” si espresse ancora Takamiya.

Come Mito aveva previsto, Sakuragi non li calcolò neanche di striscio dirigendosi a passo deciso verso la palestra.

“Aspetta! Dove vai Hanamichi?” domandò inutilmente il biondo ma Yohei sapeva che non sarebbe arrivata nessuna risposta.

Hanamichi era incredibilmente chiuso e restio a parlare, quando era di quell’umore.

Mito non credeva possibile che fosse stato realmente espulso.

Ma di certo qualcosa è successo, valutò fra se.

In ogni caso, non se ne preoccupò più di tanto.

Avrebbe lasciato Hanamichi solo in palestra per un po’ e poi si sarebbe fatto dire cosa era accaduto.

Del resto, era sparito dalla sera precedente, e considerato dove aveva trascorso la notte, prevedeva che Hanamichi l’avrebbe al più presto aggiornato sui fatti.

Quelli della mattina e, soprattutto, quelli della notte precedente.

Che siano già alle prime scaramucce tra innamorati? Pensò ironico, e si allontanò con un sorriso sereno in volto.

Non poteva sapere però quanto si sarebbe pentito, nelle ore a venire, di non aver raggiunto Hanamichi.

Non poteva sapere, infatti, che Hanamichi non avrebbe avuto modo di raccontargli alcunché.

Presto l’amico sarebbe stato preso nuovamente di mira da un destino dispettoso e beffardo che l’avrebbe travolto con avvenimenti catastrofici.

Avvenimenti che avrebbero colto indirettamente anche lui, la sua fidata spalla.

Visto che sarebbe toccato a lui, ancora una volta, cercare di raccogliere successivamente i cocci del cuore e dell’animo di Hanamichi.

 

***
 

Rukawa osservò con interesse il gatto che aveva di fronte.

Era andato a fare un giro per sbollire la rabbia ed ecco che si era trovato quell’esserino minuscolo che gli attraversava la strada.

Era tutto nero e aveva degli occhi molto espressivi. Oltre ad un musetto veramente adorabile.

Rukawa non era superstizioso e i gatti gli erano sempre piaciuti.

Silenziosi, indipendenti ma anche testardi e incredibilmente affettuosi con i loro padroni.

Li aveva sempre sentiti affini.

Ancora una volta, il suo pensiero corse alla testa rossa.

Sakuragi lo vedeva un tipo più propenso ad andare d’accordo con i cani, che erano festosi e giocherelloni, oltre che totalmente dipendenti dal loro padrone, a cui davano in cambio un affetto assoluto e incondizionato.

In fondo, anche i loro caratteri potevano sembrare agli antipodi, proprio come lo erano un cane e un gatto.

Tuttavia, Rukawa sapeva bene quanto un cane e un gatto potessero benissimo andare d’accordo e volersi bene pur litigando di tanto in tanto.

Anzi, c’erano cuccioli di gatto cresciuti da cani che praticamente diventavano inseparabili.

Opposti per natura ma ugualmente vicini, prima per forza di cose e poi per un affetto incondizionato.

Proprio come loro.

Opposti ma inesorabilmente attratti.

Diversi ma incredibilmente affini.

Indipendenti ma assurdamente complementari.

Senza nessuna remora, si inginocchiò cercando di richiamare l’attenzione del micio.

Che però, non lo considerò correndo via.

Rukawa non era superstizioso.

Non lo era mai stato e non era logico che lo fosse.

Non credeva che un esserino tanto piccolo e indifeso potesse portare chissà quali sventure.

Non lo credeva un segno di chissà cosa.

Peccato non sapesse che in quel momento qualcosa di funesto stava accadendo.

Qualcosa che, presto, avrebbe riguardato anche lui.

Qualcosa che rischiava di compromettere tutto quello che di buono aveva costruito con Hanamichi.

Qualcosa con cui avrebbe dovuto fare i conti a breve non avendo, però, nessuna garanzia di uscirne illeso.
 


Continua...
 
Note:
 
Gli avvenimenti di cui avete letto nel capitolo sono ambientati nelle puntate 63 e 64 dell’anime.
I dialoghi e gli avvenimenti sono presi dal canone.
In pratica, non ho fatto altro che approfondire i pensieri dei personaggi con una nuova base introspettiva.

Spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto.

Mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate.

Ci vediamo domenica prossima con il nuovo capitolo.

Pandora86.

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Capitolo 29
*** Non si sfugge al passato - Prima parte ***


Rieccomi con il nuovo capitolo della fic.
Come al solito grazie per le bellissime recensioni, e anche a chi continua ad inserire la storia tra le preferite e le seguite.
Ovviamente grazie anche a tutti i lettori silenziosi.
Ci vediamo a fine capitolo per le note e le informazioni riguardo le prossime pubblicazioni.
Mi scuso in anticipo per eventuali errori. Leggo e rileggo ma sapete com’è… qualcosa sfugge sempre!!
Per adesso, buona lettura.
 
Capitolo 28. Non si sfugge al passato – Prima parte.

 
Akagi correva nei corridoi dell’ospedale, seguito da Kogure e Ayako.

“È nella camera 306.” Disse continuando a correre.

Haruko l’aveva chiamato avvertendolo che il Signor Anzai si era sentito male.

Avevano immediatamente abbandonato lo stadio per precipitarsi in ospedale.

Erano tutti allibiti.

Nessuno sapeva che il coach soffrisse di cuore.

Ayako invece non aveva nascosto la sua preoccupazione per la partita del giorno dopo.

Ad Akagi non importava nulla invece. Non aveva importanza che il coach l’indomani non sarebbe stato con loro.

Contava solo che stesse bene.

Furono tutti e tre sorpresi vedendo la figura immobile dinanzi alla porta dove era ricoverato il signor Anzai.

Si fermarono di colpo riprendendo fiato.

“Hanamichi!” esordì Ayako sorpresa di trovarlo lì.

“Sei arrivato prima di noi.” Constatò invece Akagi che non si spiegava cosa diamine ci facesse Sakuragi lì.

La cosa che preoccupava Akagi, era sosprattutto il fatto che Sakuragi non si era mosso ne voltato da quando erano arrivati.

Videro Hanamichi annuire lievemente con la testa.

Ma continua a non voltarsi pensò preoccupato Akagi.

“Il signor Anzai è lì?” Domandò incerto Kogure.

E fu allora che Hanamichi si voltò lasciandoli ammutoliti.

Sakuragi stava piangendo.

“Rispondi per la miseria. Come sta il signor Anzai?” Lo incalzò nuovamente Akagi, non curandosi minimamente di nascondere la
preoccupazione nella sua voce.

“Il coach, come sta?” Continuò, visto che non otteneva nessuna risposta.

Ma Sakuragi continuava a non rispondere. A nulla serviva porgergli delle domande. Continuava a rimanere muto con il volto coperto di lacrime.

Gli si avvicinarono con passo incerto ma all’ennesima domanda, Sakuragi scappò via.

Lo guardarono correre verso l’uscita senza provare neanche a fermarlo.

Akagi osservò la schiena di Sakuragi scomparire all’angolo del corridoio.

E pensò che doveva prepararsi al peggio.
 
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Rukawa osservò in lontananza sopraggiungere Miyagi e Mitsui.

Ci avrebbe scommesso che anche loro fossero diretti in palestra.

Come una nota testa rossa di sua conoscenza.

Era palese che Hanamichi, non avendo giocato, sarebbe andato a scaricare le sue energie in un campo da basket.

Rukawa era infatti certo che l’avrebbe trovato lì.

Oramai Sakuragi non era più un teppista perdigiorno. Si allenava come e più degli altri mettendoci il doppio dell’impegno.

Anche Ryota e Mitsui non avevano potuto fare a meno di raggiungere la palestra della scuola e Rukawa considerò che avrebbe dovuto
prevedere anche questo quando li aveva visti lasciare lo stadio.

Certo, avrebbe potuto andare ad allenarsi nel campetto vicino casa per non essere disturbato.

Ma sapeva che era andato a scuola perché vi avrebbe trovato una certa scimmia con un umore più nero del solito e sicuramente anche più
intrattabile rispetto alle altre volte.

Di conseguenza, non ci aveva pensato neanche mezzo secondo quando aveva deciso la sua meta.

Chissà che magari lui non fosse riuscito a placare l’ira di Sakuragi.

Aveva scoperto che esistevano altrimodi per zittirlo constatò con ironia.

Tuttavia, il suo intento era unicamente allenarsi insieme ad Hanamichi e prepararsi al meglio per la partita del giorno successivo.

E… il fatto che ci fossero anche altri due titolari della squadra avrebbe potuto significare che il loro allenamento sarebbe stato più competitivo
ed interessante.

Del resto Sakuragi era come lui. Alla vigilia di partite importanti tutto sembrava perdere di significato.

Era il basket il loro legame più profondo. E una sfida interessante era proprio quello che ci voleva per scacciare il malumore dovuto alla partita a
cui avevano assistito.

Erano questi i suoi pensieri quando entrò in palestra affiancato dagli altri.

Non sapeva però che un’amara sorpresa lo aspettava.
 

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Akagi aveva aperto la porta della stanza 306 non riuscendo a trattenere un tremito nella mano.

“Beh… E-entriamo.” Aveva balbettato rivolto agli altri, posando la mano sulla maniglia cercando di farsi forza ma soprattutto, cercando di
infondere ad Ayako e Kogure. Un coraggio che lui stesso sentiva, in quel momento, di non avere.

Qualunque notizia avessero avuto in quella stanza l’avrebbero affrontata a testa alta.

E toccava a lui cercare di fare forza agli altri. Era il capitano della squadra ed era abituato a non sottrarsi alle sue responsabilità.

Ayako e Kogure varcarono la soglia della stanza d’ospedale tenendosi dietro Akagi.

Osservarono tutti e tre con orrore il corpo immobile del signor Anzai, temendo che veramente la loro paura più grande fosse divenuta realtà.

Passò un istante eterno, dove l’orrore prese il sopravvento sui loro corpi e sulle loro menti, rendendoli incapaci di muoversi e profferire parola.

Fu un attimo però e le loro paure si frantumarono come il più fragile dei bicchieri.

Il signor Anzai si era mosso sotto il loro sguardo attonito.

Mosso e girato nel sonno, ricercando una posizione più comoda.

Il signor Anzai stava semplicemente dormendo.
 

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Hanamichi camminava per la strada con uno sguardo vacuo.

Non sapeva dove stava andando. Non sapeva più neanche che giorno era.

La sua mente riviveva continuamente i momenti di neanche qualche ora addietro, come una sequenza che, una volta finita, ricomincia
nuovamente d’accapo, senza alcuna possibilità d’interruzione.

Camminava senza sapere neanche più chi era.

Era andato in palestra ad allenarsi.

Il signor Anzai l’aveva raggiunto.

E lui, poco dopo, si era girato realizzando che il coach si era accasciato a terra senza una ragione apparente.

Aveva sentito la terra aprirsi sotto i suoi piedi e il terrore l’aveva immobilizato.

Aveva lanciato per aria i palloni che aveva in mano avvicinandosi immediatamente al coach.

“Che ti prende, stai male?” Aveva stupidamente domandato.

Se quello era uno scherzo, era di pessimo gusto.

“Per la miseria!” Aveva imprecato non riuscendo a fare altro, se non rimanere immobile accanto al signor Anzai.

La sua mente era vuota. Lo smarrimento era totale.

Osservava il corpo del signor Anzai e la sua mente non registrava più nulla.

Sembrava inceppata e impossibilitata a fare qualsiasi pensiero coerente.

Solo un ronzio di sottofondo come una vecchia radio rotta. E le immagini che si susseguivano silenziose nella sua testa senza che lui potesse fermarle.

All’improvviso, non era più in palestra e non aveva più sedici anni.

Il parquet del campo divenne il pavimento di casa sua.

Il corpo del signor Anzai divenne improvisamente più magro e sfinante.

Suo padre.

La stessa posizione. La stessa immobilità.

I tre anni passati persero d’importanza. Non esistevano più.

C’era solo suo padre che, ancora una volta, stava morendo davanti ai suoi occhi.

Il destino beffardo gli stava facendo assistere alla morte di suo padre per la seconda volta.

Papà si ritrovò a pensare.
Papà… PAPÀ….Continuava a ripetersi nella sua testa.

NO! Non ti lascerò morire di nuovo.

E qualcosa dentro di lui si sbloccò.

Osservò lo stato del signor Anzai costatando che, proprio come suo padre, era ancora vivo.

Ma che presto, esattamente come suo padre, sarebbe morto tra le sue braccia senza che lui potesse impedirlo.

Senza che lui avesse il potere di fermare il tempo e contrastare così la morte che presto sarebbe sopraggiunta.

Sei piccolo e impotente Hanamichi.

Una voce  rimbombava nella sua testa.

Cosa speri di fare contro di me?

Si prese la testa fra le mani.

No. No. No, ti prego. Continuava a pensare rivolto alla voce.

Vai via! Implorò dentro di se.

Lasciami in pace.

Te lo porterò via davanti ai tuoi occhi. E tu non potrai fare niente.

NIENTE DI NIENTE!

NO! Si oppose con forza Hanamichi contro la sua stessa coscienza.

NO! Ancora una negazione espressa con forza.

E stavolta Hanamichi non fu certo di averlo solo pensato. Ma questo adesso non aveva importanza.

Quello che contava ora, era solo salvare il signor Anzai.

 
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Akagi ascoltava le parole della moglie del Signor Anzai.

La signora li aveva salutati allegramente, informandoli che suo marito stava riposando e che il pericolo era passato.

Ayako, Kogure e Akagi stesso non erano riusciti a trattenere delle imprecazioni nei confronti di Sakuragi appena avevano costatato che il loro
allenatore stava semplicemente dormendo.

Che senso aveva comportarsi in quel modo se il signor Anzai stava bene?

E adesso ascoltavano allibiti la signora che spiegava quanto fosse stato tempestivo l’intervento di Sakuragi.

Senza di lui suo marito sarebbe morto. Su quest’affermazione era stata chiara.

Spiegò la presenza di Sakuragi lì.

Sakuragi che prestava i primi soccorsi.

Sakuragi che chiamava l’ambulanza insistendo per rimanere vicino al signor Anzai.

Sakuragi che la avvertiva personalmente delle condizioni del marito.

Sakuragi che, secondo i medici, era stato fondamentale per la salvezza del coach.

I tre ascoltavano tutto questo allibiti.

Non pensavano che Sakuragi fosse un completo irresponsabile.

Però… quello che li lasciava perplessi era stata la reazione di Sakuragi quando lo avevano visto fuori la porta.

Il signor Anzai stava bene e Sakuragi era stato pronto di riflessi nel soccorrerlo.

Ma perché era tanto sconvolto? Si domandò Akagi.

Possibile che il compagno di squadra fosse tanto sensibile?

Lui sapeva che quella di Sakuragi, talvolta, era solo un’apparenza.

Apparenza che serve a nascondere una sensibilità tanto grande? Si domandò ancora.

Non lo sapeva con certezza. Sapeva solo che negli ultimi giorni era stato parecchio a contatto con Sakuragi ed era andato al di là della sua apparenza di buffone.

Nonostante il sollievo per il signor Anzai non riuscì, perciò, a togliersi dalla mente la faccia sconvolta e la fuga inispegabile di Sakuragi.

Da cosa stavi scappando veramente Hanamichi?
 

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Sakuragi continuava a camminare, mentre il mondo intorno a lui perdeva consistenza.

Camminava, camminava e camminava ancora.

Solo questo e nient’altro.

Si sentiva svuotato.

Sapeva che il signor Anzai stava bene e non avrebbe avuto conseguenze gravi o, quanto meno, ci sperava.

Lui aveva fatto tutto il possibile. O almeno, ci aveva provato.

Aveva fatto quello che avrebbe dovuto fare tre anni fa.

Papà pensò nuovamente.

Ecco i suoi peccati che facevano nuovamente capolino.

Il padre che moriva e lui che non faceva niente per salvarlo.

Era rientrato, dopo l’ennesima rissa, trovandolo accasciato sul pavimento. Gli si era inginocchiato accanto non sapendo cosa fare.

Riusciva solamente a scuoterlo e a urlare.

“Papà!” lo chiamava disperato. “Papà! Cos’hai stai male?”

E intanto suo padre moriva.

I suoi ansimi diventavano sempre più leggeri.

I suoi respiri sempre più radi.

Fino a che non ansimò più.

Fino a che non respirò più.

Suo padre era morto. Davanti ai suoi occhi.

Ricordava la sua fuga disperata verso un’ospedale.

Qui vicino c’è un’ospedale! Aveva pensato. Devo chiamare un dottore.

Erano stati questi i suoi sciocchi pensieri.

Ricordava la sua corsa folle per qualcosa che non poteva essere più salvato.

Tanto inutile quanto controproducente. Suo padre era già morto.

Tra le sue braccia.

I teppisti, poco dopo, lo avevano fermato.

Gli stessi teppisti che prima le avevano prese, ora erano tornati più numerosi.

Li aveva guardati allibbito non sapendo cosa fare. In atri tempi non ci avrebbe pensato due volte a lanciarsi nella mischia. Ed era sicuro che,
anche se più numerosi, i teppisti non avrebbero avuto vista facile contro di lui.

Ma stavolta era diverso.

Suo padre stava male. Suo padre era morto.

E lui voleva soltanto scappare. Voleva soltanto trovare un dottore che gli dicesse che non era vero che il cuore di suo padre si era fermato.

Voleva soltanto un dottore che gli dicesse che era uno stupido ragazzino che aveva scambiato uno svenimento per qualcos’altro.

I teppisti iniziarono a colpirlo.

Lui aveva  implorato loro di lasciarlo andare.

Aveva gridato disperato che suo padre stava male.

Ma non era servito a niente. Avevano continuato a picchiarlo.

E lui non era riuscito ad andare via.

Andare via per fare cosa poi?

Suo padre era già morto.

Ricordava che non si era neanche difeso.

Era stato picchiato brutalmente.

Si era fatto picchiare brutalmente.

E sapeva anche il perché.

Suo padre gli aveva sempre detto di controllare il suo carattere.

Gli aveva sempre raccomandato di non mischiarsi con certa gente.

Temeva che potesse avere dei guai.

E invece i guai avevano colpito suo padre.

Se lui non si fosse fermato a fare a botte sarebbe certamente arrivato prima a casa.

Sarebbe arrivato in tempo per soccorrere suo padre quando era alla fase iniziale del malore.

Ma le cose non erano andate così. Suo padre era morto. Ed era soltanto colpa sua.

Chissà quanto tempo era stato accasciato sul pavimento… solo.

Chissà quanto tempo prima aveva iniziato a sentirsi male.

Una lacrima sfuggì al suo controllo e lui l’asciugò distrattamente.

Anche poco fa si era dato alla fuga davanti agli sguardi ansiosi di Akagi, Kogure e Ayako.

Tutto come tre anni fa.

Continuava a camminare, quasi aspettando dei teppisti che gli facessero nuovamente pagare la sua poca prontezza di riflessi.

Che lo punissero nuovamente per non essere stato lesto a chiamare un’ambulanza.

Che gli facessero scontare i suoi peccati.

Ma nessuno arrivava e lui continuava a camminare.

Il mondo intorno a lui si faceva sempre più astratto.

I ricordi che lo avevano fatto arrossire quella mattina non c’erano più.

Non c’era Rukawa nei suoi pensieri. Non c’era Yo.

Dov’era? Non lo sapeva.

Che giorno era? Non sapeva neanche questo.

Tutto quello che aveva vissuto in quei tre anni, era solo un incubo perché era totalmente impazzito?

Improvvisamente si fermò guardandosi intorno.

Riconosceva quel luogo.

Era l’entrata della scuola.

E all’improvviso ricordò.

Ricordò chi era e dove si trovava.

Ricordò che giorno era e cosa stava facendo prima di soccorrere il signor Anzai.

Si stava allenando.

Stava impiegando il suo tempo su un campo da basket.

Rukawa.

Il nome del compagno gli rimbombò nella testa.

Rukawa che quella mattina gli sedeva vicino.

Rukawa che lo provocava.

Doveva allenarsi.

Era questo che doveva fare.

Era questo che avrebbe voluto il signor Anzai.
 

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Lentamente Ayako, insieme ad Akagi e Kogure, si dirigeva verso l’uscita dell’ospedale.

Fortunatamente il signor Anzai stava bene.

Peccato che non potesse presenziare nell’incontro del giorno seguente.

Guardò i volti pensierosi di Akagi e Kogure.

Era certa che anche loro erano rimasti colpiti dal comportamento di Sakuragi.

Non tanto per il soccorso che aveva prestato.

Lo avevano capito tutti che era un buffone megalomane, ma di buon cuore e che la sua aria da teppista era solo un’altra delle sue buffonate.

Si atteggiava a essere un teppista, tutto qui. Ma non era realmente cattivo.

La cosa che lasciava pensare era la sorprendente sensibilità di Sakuragi nell’affrontare il dopo di quel triste evento.

Ayako ricordò che più volte gli aveva scorto un’espressione triste in volto.

Soprattutto quando faceva i fondamentali.

Ma Hanamichi stesso aveva sempre sorvolato.

Eppure lei sapeva che quelle espressioni c’erano.

Sapeva che, in Sakuragi stesso, c’era qualcosa in più di quello che appariva.

Peccato che non avrebbe mai saputo cosa. Non dal diretto interessato almeno.

Pur tuttavia, da buona manager e buona amica che era diventata, non poteva non preoccuparsi di Sakuragi in questo momento.

Aveva sempre capito che in fondo Sakuragi era una persona chiusa almeno quanto Rukawa. Lei stessa non sapeva quasi nulla di lui.

Si chiese dove fosse e se stesse bene.

Lei, se lui lo avesse voluto, lo avrebbe aiutato volentieri, qualunque fosse il suo problema.

Qualunque tormento nascondesse.

I suoi pensieri furono interrotti dal resto della squadra che si era fermata davanti all’ospedale.

“Come sta il signor Anzai?” domandarono ansiosi.

“Per fortuna si riprenderà in fretta.” Fu lesto a rassicurarli Kogure.

“È stato Hanamichi a salvargli la vita.” Specificò poi.

“Hanamichi?” Si domandarono gli altri scettici.

Kogure non sapeva perché aveva sentito il bisogno di specificarlo.

Sapeva solo che era giusto così.

Le lacrime di Sakuragi lo avevano colpito.

Lo stesso Sakuragi lo aveva sempre colpito.

Il suo impegno negli ultimi giorni.

I suoi miracoli in campo.

La veemenza con cui aveva reagito alla rissa in palestra.

Le sue lacrime di poco fa.

Aveva sempre saputo che Sakuragi non era quello che appariva. Non solo quello almeno.

E adesso aveva sentito il bisogno di farlo sapere anche altri.

Per questo lo incoraggiava sempre. Per questo rideva alle sue battute e cercava di mitigare i rimproveri di Akagi quando erano rivolti a lui. Per
questo lo rincuorava anche quando sbagliava.

Kogure all’inizio lo vedeva come un mezzo per realizzare i propri sogni, visto il talento che aveva e visto che quell’anno in squadra c’era anche
Rukawa.

Più avanti, aveva iniziato a credere in lui come sportivo, vista la forza di volontà che metteva nel basket. Cosa che si era riconfermata quella stessa mattina, quando Sakuragi aveva spiegato i motivi del suo ritardo.

Ora credeva in lui come persona.

E sperò che, qualunque fosse il motivo della sua immotivata fuga, stesse bene.

Lui, se Sakuragi avesse voluto, ci sarebbe stato.

Fu la domanda di Ayako sul risultato della partita a distoglierlo da questi pensieri.

Seppe così che il Kainan aveva vinto ancora una volta, andando però ai tempi suplementari.

Parlarono della partita e dell’espulsione di Uozumi.

Visto come la squadra aveva giocato, si presupponeva che sarebbe stato un’incontro tutt’altro che facile quello per la qualificazione del secondo
posto.

La partecipazione ai campionati nazionali se la sarebbero dovuta contendere mettendo nella partita il massimo impegno, affrontando una sfida all’ultimo sangue.

Perché l’indomani sabbe toccato a loro affrontare il Ryonan.
                

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Miyagi trattenne a stento uno sbadiglio. Quella giornata era stata carica di emozioni.

Prima la partita che aveva giocato con la sua squadra.

Poi quella a cui aveva assistito.

E infine il malore di Anzai.

Ayakuccia, da brava manager qual’era, aveva provveduto ad avvertire lui e gli altri su quello che era avvenuto al coach.

Era rimasta sorpresa quando lui le aveva risposto che era già a conoscenza di quello che era avvenuto.

E si era anche sentito un pochino in colpa per la battutaccia che aveva fatto ad Hanamichi quando lei lo aveva informato su quanto Sakuragi
fosse stato determinante per la salute dell’allenatore.

“Il signor Anzai si sarà sentito male vedendoti allenare.” Gli aveva detto quel pomeriggio e ovviamente Sakuragi si era infiammato subito.

In effetti lui aveva cercato di smorzare la tensione visto quanto Mitsui fosse arrabbiato e considerando che, se le stava andando a cercare dalla
persona sbagliata.

Quando Sakuragi non aveva reagito agli insulti dell’altro era rimasto un po’ sopreso.

Già si immaginava di dover affrontare il Ryonan con un uomo in meno.

E invece Sakuragi aveva sorvolato.

In effetti quando era entrato in palestra aveva una strana espressione in volto.

Sembrava quasi… assente.

Ma… era un termine del tutto fuori luogo se associato ad un tipo come Sakuragi.

Eppure… in fondo quanto sapeva lui di Sakuragi?

Che era uno sfigato in amore. Un teppista molto forte e un buffone.

Ma questo era quello che appariva.

Era un buffone, eppure quando voleva il suo sguardo riusciva ad incutere sicurezza. Lo aveva visto quello stesso pomeriggio quando li aveva incitati a dare il massimo l’indomani, nonostante l’assenza del signor Anzai.

Inoltre, Ryota aveva capito che, quando giocava, ci metteva il cuore.

Era un teppista, ma quando c’era stata la rissa in palestra aveva fatto di tutto per non reagire, intervenendo poi per salvare lui.

Era uno sfigato in amore… ma Ryota non era proprio sicuro che si fosse impegnato al cento per cento per conquistare le cinquanta ragazze che lo avevano rifiutato.

Era solo un’impressione, nulla di più, quella che aveva avuto talvolta.

Eppure quella sensazione c’era.

Ripensò quando, quello stesso pomeriggio l’allenamento era finito per ridursi ad uno scambio di pugni fra Sakuragi e Rukawa.

Quei due erano impossibili… eppure Sakuragi quando si trattava di menare le mani con Rukawa non si tirava mai indietro.

Rukawa poi… Mister non parlo mai che, invece, quando si trattava di Sakuragi non si tirava mai indietro.

Tra quei due c’era sempre stata una strana atmosfera.

Lo aveva sempre pensato in fondo.

Comunque non era il momento di pensare a simili cose.

Del resto, lui era amico di Hanamichi. E se Hanamichi avesse voluto confidarsi con lui, di certo non si sarebbe tirato indietro.

Ora il suo problema era cercare di capire come avrebbe potuto fermare Sendoh.
 

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Mitsui fissava pigramente il soffitto.

Il signor Anzai si era sentito male.

E lui invece adesso si sentiva una merda.

Ayako l’aveva telefonato per avvertirlo di quanto fosse successo.

E lui aveva appreso che Sakuragi aveva realmente salvato la vita al coach.

E lui invece che aveva fatto?

Lo aveva insultato accusandolo di non fregarsene nulla.

Era quasi arrivato alle mani con lui, ma stranamente Sakuragi non aveva reagito.

Lui, che aveva promesso al signor Anzai di rigare dritto, stava per fare a botte proprio con la persona che aveva soccorso l’allenatore stesso.

E la cosa grave era che lui era intenzionato seriamente a prendere a pugni Sakuragi. L’avrebbe fatto se questi invece non si fosse tirato indietro,
non reagendo ai suoi strattoni.

Ci aveva pensato poi il tappo a sedare gli animi e ad allontanarlo da Hanamichi.

Tra l’altro, considerò, aveva scelto la persona sbagliata per attaccare briga.

Se Sakuragi non fosse stato così maturo da non reagire, lui ora probabilmente sarebbe stato ricoverato in un letto d’ospedale.

Si era comportato come un ragazzino isterico, prendendosela con la persona sbagliata.

Si sentì in colpa per le accuse infondate che gli aveva rivolto.

Si era sentito in colpa quello stesso pomeriggio in effetti.

Per questo si era poi offerto di aiutarlo nell’allenamento.

Persino Rukawa lo aveva guardato particolarmente male.

Lo stesso Rukawa che poi aveva decretato la parola fine a degli allenamenti (che non erano neppure cominciati) facendo a botte con Sakuragi quel pomeriggio stesso.

Ripensò ancora una volta allo sguardo di Rukawa.

Probabilmente, se il numero undici avesse potuto, l’avrebbe fulminato all’istante.

Sorrise fra se. Non aveva sbagliato quando aveva pensato che Rukawa non era così indifferente al fascino del numero dieci.

Era stata solo una sensazione in passato. Quella sera invece, ne aveva la certezza.

In ogni caso, ora aveva un altro problema da affrontare.

Il giorno dopo avrebbero affrontato la partita più importante del torneo senza poter contare sul prezioso aiuto del signor Anzai.

E lui avrebbe dovuto dare il massimo.
 

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Rukawa fissò pensieroso il telefono.

Aveva appena attaccato dopo una lunga conversazione con Ayako.

O meglio, dopo un lungo monologo dell’altra.

Un monologo in cui lo informava della partita e della sua conclusione.

Del malore del signor Anzai e di come Sakuragi gli avesse prestato i primi soccorsi, salvandogli a tutti gli effetti la vita.

Ripensò alla mattina e al pomeriggio appena trascorsi.

Dopo essersi defilato dallo stadio, aveva girovagato per un po’, decidendo poi di dirigersi in palestra, sicuro di trovarvi un Hanamichi di pessimo umore, impegnato ad allenarsi.

Aveva invece trovato Miyagi e Mitsui che erano arrivati con lui ma, del do’hao nessuna traccia.

Si era sorpreso alquanto di non trovarlo lì.

Avrebbe scommesso tutto quello che aveva che Sakuragi sarebbe andato a scaricare le sue energie in palestra.

Eppure, di lui neanche l’ombra, almeno fino a quel momento.

Sakuragi era arrivato poco dopo, guardandoli trasognato.

Rukawa era impallidito all’istante vedendo la sua espressione.

Sakuragi li guardava in modo strano. Come se si fosse appena svegliato e stesse mettendo a fuoco chi erano gli individui che aveva davanti.

Rukawa aveva visto, inoltre, che i suoi occhi erano umidi.

Che dimanine era successo?

Avrebbe avuto poco dopo la risposta.

Sakuragi li aveva guardati ancora un istante, prima di scuotere la testa come per darsi una svegliata.

Poi li aveva raggiunti e aveva spiegato loro quello che era successo.

Il signor Anzai che aveva avuto un attacco di cuore.

Lui che era da poco tornato dall’ospedale.

Nella sua mente si era formata una sola parola:

CAZZO.

E non aveva mai maledetto tanto la presenza di Mitsui e di Miyagi come quel pomeriggio.

Avrebbe voluto che scomparissero all’istante. Perché loro non potevano sapere cosa realmente era accaduto. Loro non potevano sapere in che baratro poteva essere caduto Sakuragi. Loro non potevano conoscere tutto il dolore che si portava dentro.

Adesso si spiegava quello sguardo assente. Adesso si spiegavano quelle lacrime mal cancellate.

Eppure, anche gli altri avrebbero potuto notare qualcosa, se solo lo avessero voluto.

Bastava il tono telegrafico con cui Sakuragi li aveva informati degli avvenimenti.

La freddezza del suo sguardo mentre parlava. Una freddezza che evidentemente avevano preferito scambiare per serietà. Magari avevano pure pensato che Sakuragi aveva avuto la decenza di non scherzare su un argomento tanto importante.

A quel pensiero strinse i pugni con rabbia.

Perché gli altri si ostinavano ad essere così dannatamente ciechi?

“Come sarebbe a dire che il signor Anzai si è sentito male?” Aveva urlato Mitsui dopo il racconto si Sakuragi.

“Che cosa hanno detto i medici? È grave?” Aveva continuato imperterrito il tiratore.

“Non lo so!” Era stata la risposta di Hanamichi.

Una risposta rassegnata. Data con un tono stanco.

Rukawa capì all’istante che il compagno di squadra era distrutto.

Ma evidentemente Mistui non aveva afferrato niente di tutto ciò.

Non ci aveva pensato due volte ad afferrare Sakuragi per la maglia.

“Come non lo sai? Non te ne frega niente di lui?” L’aveva aggredito.

Rukawa aveva sgranato gli occhi a quelle parole.

Parole che erano più affilate di un coltello. Parole che Mitsui non sapeva quanto male potessero fare.

“Mi sono dimenticato di chiedere” era stata la risposta di Sakuragi.

Il tono adesso era rabbioso. Esasperato.

“Lasciami la maglia Mitsui!” aveva poi urlato a sua volta alzando il tono.

“Sei uno stronzo” era stato il pronto insulto del numero quattordici che, invece di lasciare la presa, aveva iniziato a strattonarlo con forza.

Rukawa ricordò di essere stato quasi per intervenire, pronto a scaraventare il numero quattordici lontano dal do’hao.

Ma il play maker era stato più lesto di lui a separarli.

O meglio, ad allontanare Mitsui da Hanamichi, visto che questi non accennava a difendersi.

È questo è abbastanza strano aveva pensato Rukawa.

Sakuragi aveva guardato il tiratore con un’espressione rassegnata.

In quel momento Rukawa aveva visto il vuoto nei suoi occhi.

Sembrava quasi che Sakuragi aspettasse proprio quello. E che non avesse nessuna intenzione di reagire.

Sembrava quasi che volesse prenderle apposta.

“Per tua informazione devi ringraziare me, se il signor Anzai è ancora vivo!”

Ci aveva tenuto a precisare poi Sakuragi massaggiandosi il collo.

“Non darti tante arie.” Aveva ribattuto Ryota. “Scommetto che si è sentito male dopo averti visto tirare!” E si capiva che ceracava, con
quella frase, di smorzare la tensione di poco prima.


“Ci metterei la mano sul fuoco!” era intervenuto allora, per la prima volta, Rukawa.

Voleva accertarsi che il do’hao stesse bene. Voleva che rispondesse alle sue provocazioni e che lo prendesse a pugni.

Voleva che ritornasse quello della mattina.

“Vuoi che ti spacchi la faccia Rukawa?” Aveva urlato Sakuragi rabbioso alzando il pugno.

In effetti, da quando era entrato, era la prima volta che volgeva lo sguardo su di lui.

Poi, però, aveva distolto nuovamente lo sguardo.

“Comunque…. Domani non ci sarà! Dobbiamo mettercela tutta ragazzi.” Si era poi rivolto alla squadra con sguardo serio.

Ed ecco che usciva fuori il Sakuragi che tanto Rukawa amava.

Quello serio e maturo che, nonostante la sofferenza, cerca comunque di essere di incoraggiamento per gli altri.

Poi si era tolto la maglia e si era avvicinato al canestro interrompendo il battibbecco che stavano avendo Mitsui e Miyagi.

“Piantatela. Non distraetemi! Devo fare ancora 170 tiri. Ho bisogno di concentrarmi.”

“Hanamichi, ti do una mano ad allenarmi, mi metto in difesa.” Si era offerto Mitsui, che evidentemente si sentiva un pochino in colpa per come l’aveva trattato poco prima.

Rukawa lo aveva nuovamente fulminato con lo sguardo. L’avrebbe capito anche un cieco che gli avrebbe volentieri tirato un pugno.

Poi anche Miyagi si era offerto di aiutare il do’hao.

Ma loro non capivano, era questo che pensava Rukawa.

Hanamichi era arrivato in palestra non si sa come, vista la sua faccia all’inizio.

Dopo aver girovagato non si sa quanto.

Voleva un po’ di pace.

Per questo Rukawa era intervenuto.

“E io ti farò da allenatore, per cui dovrai obbedirmi!” Aveva detto come ennesima provocazione.

Reagisci Hanamichi urlava invece dentro di se.

“Scordatelo! Non prendo ordini da te!” era stata la risposta del numero dieci.

E finalmente era riuscito a dare una svegliata a Sakuragi, considerando che poi  se le erano date di santa ragione.

Rukawa aveva sperato con tutto il cuore che quello potesse bastare, ma sapeva che non era così.

Sakuragi aveva ripreso a fare i suoi tiri, ma si vedeva che era silenzioso.

Ci metteva più concentrazione del dovuto nei tiri, segno che cercava disperatamente di scacciare i fantasmi che opprimevano la sua mente.

Quando ognuno si era ritirato a casa, Sakuragi non l’aveva considerato neanche di striscio.

Non aveva considerato nessuno. Era andato via e basta. Senza neanche fare caso agli altri che lo avevano salutato.

Non ci voleva pensò Rukawa sconsolato portandosi le mani al viso.

Perché proprio ora?

Si sedette sul divano pensieroso.

Capì anche perché Sakuragi non aveva reagito alle provocazioni di Mitsui.

Si sente in colpa considerò.

Sapeva quanto il numero quattordici fosse affezionato al loro coach e si sentiva in colpa.

Vuole essere punito pensò ancora. Vuole espiare colpe che non ha mai commesso.

Rukawa non ebbe più dubbi su cosa fare. Era giunto il momento di prendere in mano la situazione.

Non avrebbe permesso al compagno di affrontare tutto da solo. Non dopo il pianto della sera prima.

Non ora che finalmente stava cominciando ad accettare il suo passato.

Si alzò dirigendosi fuori con passo spedito e inforcando la sua bici.

Aveva indugiato anche troppo.

C’era un solo posto in cui doveva stare adesso.

Hanamichi aveva bisogno di lui.

E lui non si sarebbe tirato indietro.
 

Continua….

Note:

Questo capitolo è ambientato nella puntata   66 dell’anime.

È uno dei capitoli più lunghi da me pubblicati. Spero che non sia risultato troppo noioso.

Come avrete notato si inizia ad intravedere la risoluzione del mistero fondamentale della storia, ovvero quel “era già morto” di Rukawa visto nei capitoli addietro.

Ovviamente più avanti ci saranno sempre più spiegazioni fino al resoconto completo per bocca di Hanamichi.

Piccola anticipazione: come avrete notato non si ha la parte introspettiva di Hanamichi riguardo a quello che è avvenuto in palestra con gli altri.
In effetti era una cosa voluta. In questo capitolo si volge uno sguardo sui pensieri del resto della squadra.

I pensieri di Hanamichi saranno pienamente ripresi nel prossimo capitolo.

Spero che il capitolo vi sia piaciuto. Mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate!

Ci vediamo domenica prossima con il nuovo aggiornamento.

Pandora86.

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Capitolo 30
*** Non si sfugge al passato - Seconda parte ***


Eccomi con il nuovo capitolo della fic.
Grazie a Rebychan per aver commentato lo scorso capitolo, e anche a chi continua a inserire la storia tra le preferite e le seguite.
Ovviamente, grazie anche a tutti i lettori silenziosi.
Ci vediamo a fine capitolo per le note e le informazioni riguardo alle prossime pubblicazioni. 
Mi scuso in anticipo per eventuali errori. Leggo e rileggo ma sapete com’è… qualcosa sfugge sempre!!
Per adesso, buona lettura.
 
 
 
Capitolo 29. Non si sfugge al passato – Seconda parte.
 
Mito si prese la testa tra le mani.

Sedeva immobile su una sedia, con i gomiti poggiati sul tavolo, da un tempo indefinito.

Malediceva la sua stupidità.

E intanto ripensava agli avvenimenti di nemmeno un’ora prima.

Hanamichi era rincasato, varcando la soglia in modo fin troppo silenzioso per i suoi gusti.

Non gli aveva rivolto né un saluto, né uno sguardo.

Era corso nella camera che divideva con lui, iniziando a preparare il suo zaino, mettendo a casaccio i suoi effetti personali e i pochi vestiti che aveva portato con sé, durante la permanenza a casa sua.

Mito aveva capito subito che qualcosa non andava.

C’era qualcosa di diverso rispetto al primo pomeriggio, quando aveva visto un Hanamichi furente dirigersi a tutta velocità verso la palestra della scuola.

C’era qualcosa di diverso in quello sguardo.

Osservando la calma con cui Hanamichi riponeva le sue cose, una sensazione agghiacciante lo assalì.

Lui conosceva quello sguardo.

L’aveva visto anni addietro. E non poteva credere di vederlo nuovamente sul volto dell’amico.

Non voleva crederlo.

Non c’è ne è motivo. Si diceva. 
Non c’è nessun motivo. Continuava a ripetersi, cercando una scappatoia logica.

Non era avvenuto nulla che potesse giustificare quello sguardo. Si trattava solo una sua impressione. Era stata questa la scusa razionale alla quale continuava aggrapparsi.

Perché lui non voleva affrontare quello sguardo. L’aveva fatto anni addietro, senza molto successo peraltro, visto quanto dolore Hanamichi continuasse a portarsi dietro.

E non voleva affrontarlo di nuovo. Perché sapeva che quello sguardo l’avrebbe sconfitto.

Perché sapeva che non sarebbe riuscito a salvare il suo amico da se stesso.

Quello sguardo lo faceva sentire impotente, ricordandogli quanto fosse piccolo e inutile.

Ricordandogli che era solo un ragazzino, che si dilettava a fare il maturo.

Ricordandogli che Hanamichi aveva bisogno di un aiuto serio. Un aiuto competente. Che lui non poteva dargli. E che era troppo vigliacco anche solo per proporlo all’altro.

“Hana…” si decise finalmente a dire.

La titubanza distingueva la sua voce.

La paura che non si fosse sbagliato sulla natura di quegli occhi spenti lo attanagliava.

“Hana” ripeté incerto, “che fai?” domandò implorante.

“Il signor Anzai ha avuto un attacco di cuore” rispose freddo l’altro, e Mito sentì la terra aprirsi sotto i piedi.

“C-Come?” domandò, avvicinandosi incerto verso l’amico.

Una mano tesa verso di lui.

Ma in realtà non avrebbe saputo dire se quella mano tesa rappresentava un appiglio per l’altro oppure per se stesso.

“Si è sentito male quando mi stavo allenando. Gli ho prestato i primi soccorsi” concluse, mettendosi lo zaino in spalla.

No! Pensò Mito.

Non adesso… Non di nuovo! Urlò disperato nella sua mente.

“Dove vai, Hana?” ebbe la forza di dire, quasi urlando.

“Voglio stare da solo, Yo” e, detto questo, se ne andò.

Senza voltarsi, senza profferire parola.

Senza cambiare tono o espressione.

Un automa. Era questo, quello che ora sembrava Hanamichi.

La telegraficità delle sue frasi. La freddezza con cui le aveva pronunciate.

Tutte queste cose erano i segnali di quello che doveva aver provato e di quello che stava ancora provando.

E, per la prima volta, non seppe veramente cosa fare.

Il suo migliore amico si era definitivamente estraniato dal mondo, e lui non aveva idea di come farlo ritornare al presente.

Perché? Si domandò ancora.

Perché il destino si accaniva sempre e solo sulla stessa persona?

Perché, proprio ora che Hanamichi stava trovando un po’ di pace?

Lui solo poteva sapere cosa avesse significato quello che Hanamichi aveva vissuto quel pomeriggio.

L’armata poteva intuirlo. Poteva comprendere il loro capo, seppur minimizzando i fatti.

Perché gli altri non avevano mai avuto i suoi sospetti.

Gli altri non avevano mai intuito che Hanamichi stesse male per una ragione più profonda.

Lui invece sì. Ma non aveva mai affrontato l’argomento.

Non ne aveva mai neanche parlato con Hanamichi. Non gli aveva proposto di affrontare il suo trauma.

E adesso rischiava di pagarne le disastrose conseguenze.

Perché chiunque sarebbe impazzito dopo tutto quello.

Hanamichi compreso.

Perché le persone avevano bisogno di tempo per rielaborare un lutto.

Tempo e comprensione.

Hanamichi questo non l’aveva mai avuto.

Era solo un ragazzo. Un ragazzo solo, che si ritrovava a portare sulle spalle pesi più grandi di lui.

Un ragazzo che era andato avanti, arrancando fra il disprezzo dei suoi parenti e il disgusto che provava per se stesso.

Un ragazzo che aveva cercato di rimanere a galla in quel mare di ingiustizia, tenendosi stretto il suo orgoglio, una delle poche cose che gli rimaneva.

Non avevano mai realmente parlato di quello che era successo e che in realtà Yohei aveva già intuito.

Ci sarebbe stato tempo; era questo che si diceva.

Ma non aveva mai immaginato che un destino dispettoso e crudele scegliesse il modo più perverso per far affrontare il trauma a Hanamichi.

Fargli rivivere nuovamente tutto.

E ora, lui cosa mai poteva fare?

Doveva essere contento della freddezza di Hanamichi oppure raggiungerlo a casa sua e costringerlo a sfogarsi?

E poi… una volta che si fosse sfogato, sarebbe riuscito a rimettere insieme i pezzi dell’animo distrutto del suo amico?

Perché non l’ho raggiunto in palestra? Si domandava.

Perché non sono andato da lui?

Ma erano perché vuoti quanto inutili. Era inutile farsi simili domande.

Non poteva tornare indietro. Ora poteva solo sperare di riuscire a riaggiustare il presente.

Il campanello interruppe i suoi pensieri.

Che Hanamichi ci abbia ripensato? Si domandò speranzoso.

Ma Hanamichi non ci aveva ripensato.

Fu tutt’altra persona quella che si ritrovò davanti quella sera.

 
***

Sakuragi camminava piano.

In fondo, che motivi aveva di accelerare il passo?

Il mondo intorno a lui stava nuovamente perdendo consistenza.

A che pro sbrigarsi per raggiungere il suo appartamento?

In fondo… che senso aveva andare a passo lesto incontro alla solitudine che lo avrebbe accolto al suo interno?

Gli era dispiaciuto liquidare il suo migliore amico con poche e semplici frasi.

Gli era dispiaciuto ripagarlo in quel modo di tutte le sue gentilezze.

Ma era meglio così… lui era solo un peso. Un peso per tutti.

Le persone accanto a lui venivano travolte dalla sua sofferenza e Yohei non faceva eccezione.

Per anni gli aveva scaricato addosso i suoi pesi.

Per anni gli aveva raccontato tutto quello che lo riguardava cercando consiglio e conforto.

Ma l’amico, che vantaggio ne aveva di tutto ciò, se non quello di trovarsi di fronte a problemi che non riguardavano la sua età?

E lui non voleva che Yohei soffrisse. Non voleva che Yohei stesse male con lui.

Non sarebbe riuscito a sopportare anche la sofferenza dell’amico.

Motivo per cui, aveva preferito andarsene.

Ancora una volta, aveva preferito affrontare tutto da solo.

Perché, in quello, Yohei non poteva proprio aiutarlo.

Era vero che gli aveva detto quasi tutto di se. Ma aveva tralasciato la cosa più importante.

Aveva tralasciato come erano andate effettivamente le cose tre anni prima.

E, ancora una volta, avrebbe dovuto affrontare tutto da solo.

Però… perché questo lo spaventava?

Aveva deciso lui di rimanere solo.

Perché ora aveva così dannatamente paura, allora?

Aveva creduto di stare meglio, quando era uscito dalla palestra della scuola.

Aveva vagabondato per non sapeva quanto tempo, e poi si era ritrovato lì.

Senza che il suo corpo l’avesse deciso.

Era stato un richiamo inconscio della sua mente. O forse, del suo cuore.

Un cuore che aveva ripreso a scorrere vivo a ogni partita.

Un cuore che esultava per ogni vittoria e ogni miglioramento.

Una volta arrivato in palestra aveva scoperto, con suo sommo rammarico, che era già occupata.

Mitsui, Ryota…. E Rukawa.

Cosa diamine ci facevano lì?

Li aveva guardati per un istante infinito, resistendo alla voglia di urlare loro contro.

Urlargli che dovevano andare via. Che lui voleva stare da solo in quella palestra, perché ne aveva bisogno.

Perché stava male.

Ma, ancora una volta, l’orgoglio aveva avuto la meglio.

Perché avrebbe accettato tutto, tranne che di far capire agli altri che era sull’orlo di un baratro.

Non gli rimaneva niente; solo l’orgoglio. E lo avrebbe tenuto stretto a se, fosse anche l’ultima cosa che faceva.

Si era avvicinato, informandoli con noncuranza degli avvenimenti.

Anche se… non era riuscito a essere se stesso. O almeno, il se stesso che si era auto-imposto.

Non aveva reagito quando Mitsui gli aveva afferrato la maglia.

Era giusto, pensava tra se.

Era giusto, visto quanto il tiratore fosse affezionato al signor Anzai.

Era giusto che lui fosse punito.

Certo… si era salvato in extremis, ritornando alla sua vecchia baldanza e ricordando al tiratore il fatto che lui avesse soccorso il signor Anzai.

Aveva poi incoraggiato i tre.

E, in questo, non c’era stata finzione alcuna.

Perché loro avrebbero dovuto dare il meglio di se il giorno dopo.

Poi, aveva considerato che visto che era lì, avrebbe comunque potuto allenarsi.

Stare in quel posto gli faceva vedere sempre le cose con ottimismo.

Un ottimismo mai provato e a cui si aggrappava con tutte le sue forze.

Sperando di riuscire a tenerselo stretto anche nel momento in cui sarebbe uscito da quella palestra ritornando a fare in conti con se stesso.

Da solo.

Inoltre, sperava che tutti e tre sparissero all’istante.

Sì, tutti e tre!

Rukawa compreso.

Non lo voleva tra i piedi. Non voleva che vedesse quanto stava male.

Lui voleva essere stimato non compatito.

Lui voleva amore non pietà.

Lui voleva considerazione non pena.

Ma non se ne erano andati e Rukawa gli aveva palesato la sua presenza.

Anzi, gli aveva imposto la sua presenza, con scherno e sarcasmo.

Una presenza che lui stava volutamente ignorando.

Ma che non sarebbe riuscito a lungo a lasciare in disparte.

Rukawa era la sua ancora. Ancora a cui, per orgoglio, rifiutava di aggrapparsi.

Del resto, lo aveva sempre saputo che Rukawa non era un tipo che amava essere messo da parte.

E, infatti, Rukawa non si era fatto mettere da parte.

Doveva aver notato qualcosa nel suo sguardo.

E lo aveva provocato più del solito finendo poi, come sempre, a scazzottare con lui.

E lui, in quel momento, si era sentito vivo.

I pugni di Rukawa non erano mai leggeri. E neanche i suoi.

Non puntavano a farsi male sul serio, ma di certo non ci andavano leggeri.

Si era sfogato.

E poi si era allenato.

Ma… una volta che l’allenamento era finito e si era reso conto di dover fare ritorno a casa, l’angoscia aveva attanagliato il suo animo nuovamente.

Non voleva stare da solo.

Aveva paura. Sentiva nuovamente il buio farsi largo nel suo animo.

Voleva che qualcuno lo aiutasse.

Ma… ancora una volta, non aveva chiesto.

Ancora una volta, non aveva parlato.

Era uscito dalla palestra a testa bassa e non aveva più calcolato nessuno.

E ora, che infilava la chiave nella serratura, si chiese se, in fondo, aveva fatto bene.

Ma poi… era giusto scaricare addosso agli altri i propri problemi?

Non lo sapeva. Non sapeva più niente oramai.

Il senso di smarrimento lo stava sopraffacendo e non c’era niente che lui potesse fare.

Poco importava che il signor Anzai fosse salvo grazie a lui.

Non ci pensava. La sua mente era ferma a quando si era accasciato sul parquet della palestra.

Ferma a quando quella figura era diventata l’immagine di suo padre.

 
***
 

“Rukawa?” chiese Mito sull’uscio della porta.

Il numero undici non lo degnò della minima attenzione.

“Dov’è?” domandò senza mezzi termini. E la sua faccia lasciava chiaramente intendere che non l’avrebbe chiesto una seconda volta.

“Non è qui. È tornato a casa sua” rispose solamente Yohei. Il suo volto lasciava trasparire tutta l’angoscia di quei momenti.

“E allora” continuò spiccio Rukawa, “tu ora mi dirai dove cazzo abita”.

“Io…” cominciò Mito, non sapendo bene cosa dire in realtà.

Cosa doveva fare adesso?

Lui non aveva avuto modo di chiarire la questione con Rukawa, quella riguardante la morte del padre di Hanamichi.

Erano stati interrotti, poche sere prima, proprio sul cominciare della questione.

Rukawa aveva detto una frase ma non aveva fatto in tempo a spiegarsi.

E lui non aveva avuto modo di esporre i suoi sospetti.

E ora, come poteva lasciare che l’altro andasse da Hanamichi per stargli vicino, senza gli elementi fondamentali a disposizione?

Lui stesso non aveva mai saputo come trattare l’argomento.

“Fidati”.

Mito alzò perplesso lo sguardo.

Rukawa gli stava chiedendo di fidarsi di lui.

E, guardando quello sguardo, decise.

 
***
 

Hanamichi era straiato sul letto e fissava il soffitto.

Davanti ai suoi occhi, l’immagine di suo padre morente lo perseguitava.

Strano come quella mattina si fosse addormentato pensando ai volti dei suoi genitori sorridenti.

Strano come poche ore prima fossero i ricordi belli che gli invadevano la mente.

Ora erano solo ombre.

Lui e sua madre al funerale.

Lui e sua madre contro lo zio.

Lui e sua madre, soli ad affrontare quel dolore.

Sua madre che si lasciava pian piano morire.

Non mangiava quasi più. I suoi occhi erano sempre spenti.

Lei, tanto allegra e coraggiosa che, una volta perso il suo punto di riferimento in quel paese, si era lasciata andare lentamente.

Si era trovata sola ad affrontare un lutto, cercando di confortare un figlio tredicenne e di reagire alle infamie della famiglia di suo marito.

Ma non ci era riuscita. E Hanamichi aveva perso anche lei.

Perché non riusciva a muoversi?

Perché non riusciva a scacciare quei ricordi?

Perché non riusciva neanche più a piangere?

Domani avrebbe dovuto giocare. Ma come avrebbe fatto in quello stato?

Non era stato stesso lui a incoraggiare gli altri?

Sentì dei colpi alla porta, ma non se ne curò.

Continuò a fissare immobile il soffitto.

Forse era Yohei. O forse no.

Non aveva importanza e non l’avrebbe mai saputo.

Perché non aveva la forza di andare ad aprire.

Ci furono altri colpi che, però, sentì sempre più attutiti.

Forse avevano deciso di bussare più piano o forse era lui che si stava lentamente assopendo.

Era quello che voleva. Dormire… solo dormire ora. E forse… non svegliarsi mai più.

Forse così avrebbe incontrato i genitori. Forse avrebbe potuto chiedere loro perdono.

Pensieri sempre più incoerenti lo assalivano, ma non se ne preoccupava.

Ora tutto quello che voleva era continuare a rimanere immobile sul letto a occhi chiusi.

Registrò distrattamente che nessuno più bussava alla porta.

Forse lo scocciatore, chiunque egli fosse, aveva deciso di cambiare aria.

Meglio così, pensò.

Poi però, una voce lo destò dal suo improvviso torpore.

“Do’hao!”.

Aprì gli occhi.

Rukawa?

Non poteva essere.

O almeno, era questo che credeva Sakuragi. Peccato che quello che credeva fosse destinato a essere smentito pochi attimi dopo dalla voce rabbiosa del compagno di squadra.

“Do’hao! Apri questa cazzo di porta o la sfondo a calci!”.
 

Continua…
 
Note:

Questo capitolo è ambientato nella puntata 66 dell'anime.

In pratica, ho dato una continuazione alla serata dopo il malore del signor Anzai e dopo l’allenamento in palestra.

In questo capitolo si riprende l’allenamento in palestra dal punto di vista di Hanamichi.

Ho provato a spiegare il suo comportamento tenendo conto del canone e dei fatti da me inventati. Spero di aver fatto un buon lavoro.

In questo capitolo ho dato spazio anche ai pensieri di Mito e alle sue insicurezze dato che assieme a Sakuragi e Rukawa è uno dei perni fondamentali della storia.

Si inizia a intravedere anche la situazione familiare di Hana.

Ovviamente, tutto questo sarà chiarito più avanti per bocca del protagonista stesso.

Spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto. Mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate.

Ci vediamo domenica prossima con il nuovo capitolo.

Pandora86.

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Capitolo 31
*** Ritorno al presente - Prima Parte ***


Eccomi con il nuovo capitolo della fic.
Grazie a chi ha commentato lo scorso capitolo, e anche a chi continua a inserire la storia tra le preferite e le seguite.
Ovviamente, grazie anche a tutti i lettori silenziosi.
Ci vediamo a fine capitolo per le note e le informazioni riguardo le prossime pubblicazioni. 
Mi scuso in anticipo per eventuali errori. Leggo e rileggo ma sapete com’è… qualcosa sfugge sempre!
Per adesso, buona lettura.
 
 
 
 
 
Capitolo 30. Ritorno al presente – Prima parte
 
Rukawa pedalava veloce.

Nella testa solo un pensiero: raggiungere al più presto Hanamichi.

Non si era ingannato quel pomeriggio in palestra.

Sakuragi stava male ma, ancora una volta, aveva preferito non chiedere aiuto.

Ancora una volta, era prevalso il suo dannatissimo orgoglio.

E ora, nella solitudine del suo appartamento, rischiava di sprofondare.

Ancora una volta, da solo.

Peccato che lui non l’avrebbe permesso.

Non si domandava come avrebbe fatto.

Non si curava del fatto che, sulle vicende di tre anni prima, Sakuragi non fosse stato completamente sincero.

Non gli importava del fatto che la sua intuizione potesse essere giusta o meno.

Pedalava soltanto. Per andare da lui. Per stare con lui.

 
***
 

Mito era pensieroso e, se possibile, ancora più preoccupato di prima.

Guardava la strada illuminata dalla luce fioca dei lampioni, chiedendosi se avesse fatto la scelta giusta.

Alla fine aveva ceduto, guardando lo sguardo deciso di Rukawa.

Non dubitava di lui.

Piuttosto, si preoccupava per lui domandandosi se non lo avesse condannato a fare un salto nel vuoto.

Domandandosi se fosse stato il caso di accompagnarlo, evitando così all’altro di andare allo sbaraglio.

Perché era a questo a cui stava andando incontro Rukawa.

Si stava impelagando in una situazione senza né capo né coda essendo, per lo più, all’oscuro dei fatti più importanti.

Tuttavia… aveva fiducia in lui.

In lui e nell’ascendente che sembrava avere su Hanamichi.

In lui e in quel rapporto che aveva avuto da subito con il suo migliore amico.

Rapporto che era cresciuto durante l’anno, senza che Hanamichi stesso potesse fare niente per impedirlo.

La testardaggine di Rukawa aveva avuto la meglio.

E, dentro di se, pregò che fosse ancora una volta così.

Ripensò a qualche sera prima, quando lui e Rukawa stavano proprio per affrontare quell’argomento, prima di essere interrotti proprio da Hanamichi.

Ricordava com’era andata quella sera.

Aveva provocato Rukawa riguardo la sua poca loquacità.

Ma non aveva fatto in tempo a spiegargli il perché di quella provocazione.

Gli aveva appena accennato che era suo desiderio che Rukawa affrontasse un particolare argomento con Hanamichi.

E, guarda caso, era proprio quello a cui stava andando incontro Rukawa quella sera.

Tuttavia, avrebbe voluto dirgli anche di sprecare qualche parola in più in quell’occasione.

Ed era certo che il numero undici avrebbe acconsentito, una volta che Mito gli avesse palesato i suoi sospetti.

Sospetti che, tra l’altro, sembrava nutrire anche lo stesso Rukawa nei confronti del racconto di Hanamichi.

Tuttavia, Mito non aveva fatto in tempo a capire cosa l’altro intendesse, né a spiegargli quello che intendeva lui.

E ora Rukawa stava andando incontro a qualcosa di cui non conosceva minimamente la natura.

Non aveva fatto in tempo a chiedergli di usare tatto nell’argomento, spiegandogli che, in quel caso, le provocazioni forse non avrebbero funzionato.

Tuttavia, rifletté, forse Rukawa aveva ancora qualche possibilità di cavarsela.

Forse, sarebbe stato proprio il suo essere se stesso che l’avrebbe salvato quella sera.
Salvando così anche Hanamichi.

 
***
 

Rukawa stringeva tra le mani il foglietto su cui Mito gli aveva segnato l’indirizzo di Hanamichi.

Si guardava intorno, non riuscendo a credere a tanto squallore.

Aveva impiegato venti minuti buoni per raggiungere il quartiere dove abitava Hanamichi.

Probabilmente, in una gara avrebbe impiegato un nuovo record per aver coperto tanta distanza in così poco tempo.

E ora, cercava con gli occhi la via, dove si sarebbe dovuta trovare la palazzina in cui risiedeva la testa rossa, stringendo spasmodicamente quel piccolo foglietto, quasi potesse dargli indicazioni.

Finalmente, con un sospiro di sollievo, trovò quello che cercava.

Dei tipi loschi lo fissarono ma lui non se ne curò.

Mito lo aveva avvertito sulla pericolosità di quel quartiere. Ma lui aveva scrollato le spalle con indifferenza.

E, con la stessa indifferenza, non si preoccupò delle facce losche che lo guardavano incuriositi, più che altro.

Probabilmente la sua faccia da bravo ragazzo era una novità in quella zona.

Però, nonostante tutto, non lo infastidirono. Evidentemente avevano capito che non era serata.

Rukawa, infatti, non ci avrebbe pensato due volte a prendere a pugni quei due, se solo avessero provato a fargli perdere tempo.

Ma forse, nonostante le facce losche, erano loro che non andavano in cerca di guai, visto che l’espressione che aveva Rukawa non prometteva nulla di buono.

Appoggiò la bicicletta alla decrepita palazzina incominciando a salire velocemente le scale.

Mito gli aveva anche scritto il piano, specificando che non avrebbe trovato nessuno in casa a parte Hanamichi.

Lì per lì non si era domandato il perché.

In passato, aveva dedotto che probabilmente il do’hao abitava con suo zio.

Non avrebbe mai creduto in un quartiere così povero però, visto che quando qualche sera prima, origliando la conversazione tra i due, Mito aveva anche nominato dei soldi che spettavano di diritto a Hanamichi.

Non si spiegava perciò la povertà della zona.

Né l’assenza dello zio.

Forse fa un lavoro notturno, ponderò salendo un altro piano.

E magari non è sposato, considerò ancora.

In ogni caso, non aveva importanza.

L’avrebbe scoperto a momenti visto che ora si trovava proprio davanti alla porta di Hanamichi.

Bussò deciso senza avere, però, nessuna risposta.

Attese che qualcuno venisse ad aprire ma fu un’attesa inutile visto che nessuno si presentava alla porta.

Bussò nuovamente ma ancora nessun movimento si sentiva dall’interno della casa.

Che sia uscito? Si domandò.

Non era un’ipotesi da escludere, considerato la fretta con cui Hanamichi aveva lasciato la casa di Mito.

Era stata una decisione che il do’hao aveva preso improvvisamente dato che il giorno dopo avrebbero dovuto giocare e lui stesso aveva deciso di restare a casa di Mito
durante i campionati.

Forse è a lavoro, pensò ancora per poi scartare immediatamente l’idea.

Se Hanamichi fosse stato a lavoro, Mito l’avrebbe saputo e non l’avrebbe mandato lì inutilmente.

Non bussò più perché aveva capito quanto fosse inutile.

Se Sakuragi non c’era, avrebbe solo bussato alla porta di una casa vuota.

Ma dove può essere a quest’ora? Si domandò ancora.

E stavolta, le sue domande avevano una certa traccia di preoccupazione.

Dove poteva mai essere andato Hanamichi in quello stato?

Fu una vicina a venire in suo aiuto.

“Chi cerchi, giovanotto?” domandò un’anziana signora che, proprio in quel momento, era arrivata sul pianerottolo e sembrava dirigersi alla porta accanto.

“Non c’è?” domandò a sua volta Rukawa, indicando la porta che aveva bussato con il pollice.

Non si preoccupò di poter essere maleducato. Non si preoccupò di poter apparire sbrigativo o sgarbato.

In quel momento, gli interessava sapere solo se Hanamichi era in quella fottutissima casa.

Sapere solo se quel do’hao dei do’hao stava bene.

“Oh!” esclamò la donna aggiustandosi gli occhiali sul naso. “È tornato da un paio d’ore, credo. E se fosse uscito, me ne sarei accorta”.

Rukawa alzò un sopracciglio che esprimeva tutta la perplessità scaturita da quelle parole.

L’anziana donna si limitò a ridere ironicamente ma senza cattiveria.

“Questi muri sono di carta” spiegò.

“E, se fosse sceso, l’avrei visto dato che sono andata a buttare l’immondizia”.

Rukawa annuì con un cenno della testa che esprimeva anche i suoi ringraziamenti.

Senza più badare alla donna, che stava entrando in casa, bussò nuovamente alla porta.

Niente da fare.

Quindi Sakuragi c’era, ma non voleva aprire.

Riteneva impossibile che non sentisse che qualcuno stava bussando. Non credeva affatto che le case in quel quartiere fossero così grandi.

Di conseguenza, Sakuragi stava volontariamente ignorando chi c’era alla porta.

Ma adesso vediamo! pensò con irritazione.

“Do’hao!” chiamò deciso.

Sicuramente, ora Sakuragi sarebbe venuto ad aprire. Poteva ignorare uno scocciatore qualunque, ma non lui!

Ma, purtroppo per Rukawa, Sakuragi non venne.

Bene! Qui ci vogliono le maniere forti, considerò.

“Do’hao!” lo chiamò ancora con voce tonante. “Apri questa cazzo di porta o la sfondo a calci!” si sentì in dovere di avvertirlo.

Perché, se ancora Sakuragi non avesse dato cenni di vita, sarebbe stato proprio quello che avrebbe fatto.

Non dovette però mettere in atto i suoi propositi.

Qualche istante dopo, la porta si aprì lenta.

Rukawa deglutì impercettibilmente.

Finalmente si sarebbe trovato faccia a faccia col do’hao. Da soli!

Tuttavia, non era preparato a quello che vide.

Sakuragi era venuto alla porta rivolgendogli uno sguardo torvo.

Aveva aperto il meno possibile, segno evidente che non aveva intenzione di farlo entrare.

Inoltre, fu con voce dura che lo accolse.

“Come cazzo fai a sapere dove abito, Rukawa?”.

Rukawa sgranò gli occhi.

Possibile, che fra le tante cose, Sakuragi dovesse preoccuparsi proprio ora del fatto che lui sapeva dove abitava?

Possibile che non se ne uscisse mai con una cosa sensata?

La rabbia lo invase.

Sakuragi e quel suo fottutissimo orgoglio.

Fra tutte le cose che avrebbe potuto dire trovandoselo di fronte, aveva scelto la più sbagliata.

Ed era ora che il do’hao avesse una bella lavata di capo.

Fu una reazione istintiva. Senza ne calcolo né premeditazione.

Il braccio fu più veloce della mente.

Un pugno andò direttamente sulla pancia di Hanamichi che, preso in contropiede, era arretrato all’interno del suo stesso appartamento lasciando la porta spalancata.

Sakuragi dal canto suo guardava Rukawa con gli occhi sbarrati, massaggiandosi gli addominali.

Non aveva fatto in tempo a vedere arrivare il colpo ma, in compenso, il suo corpo abituato alle risse aveva reagito d’istinto indurendo i muscoli per attutire il pugno.

Ciò nonostante era arretrato considerato che Rukawa l’aveva colpito piuttosto forte.

“Che cazzo fai baka?” urlò rabbioso.

Il solito insulto, peccato che stavolta un insulto lo fosse sul serio.

Sakuragi aveva solo voglia di spaccare la faccia impassibile di Rukawa che, nel frattempo, era entrato in casa senza tante cerimonie chiudendosi la porta alle spalle.

Chi cazzo era per invadere casa sua in quel modo?

Chi cazzo era per imporgli la sua presenza in quel modo anche quando non era desiderata?

“Allora?” tuonò, continuando a massaggiarsi lo stomaco.

Stavolta Rukawa ci era andato veramente pesante.

“Volevi incrinarmi qualche costola, razza di deficiente che non sei altro?”

Sakuragi si tenne pronto. Si aspettava di dover menare le mani da un momento all’altro.

E stavolta, neanche lui ci sarebbe andato leggero.

Voleva stare da solo e non vedere nessuno.

Voleva che Rukawa imparasse una buona volta a farsi gli affari suoi.

Era arrabbiato con il mondo ma soprattutto con se stesso.

La sua immobilità era stata bruscamente interrotta da Rukawa.

Adesso, la rabbia in lui si era risvegliata.

Era passato alla fase successiva allo smarrimento.

Prima stava perdendo i contatti con la realtà, perso nell’oblio del suo passato.

Ora era ritornato al presente e aveva solo rabbia e frustrazione in corpo.

Rabbia verso un mondo infame e bastardo.

Frustrazione verso se stesso per non riuscire a fare niente per tirarsi fuori da quella merda che rappresentava la sua vita.

Strinse i pugni pronto a menare alla cieca, sicuro che anche Rukawa volesse la stessa cosa.

Fu invece sorpreso, ancora una volta, dalla risposta che gli arrivò dal numero undici che lo osservava con occhi di fuoco al centro della stanza, con le mani in tasca.

“Almeno adesso mi hai fatto entrare, do’hao!”.

La sua voce calma, come al solito.

Il suo tono pratico, come se spiegasse la cosa più ovvia del mondo.

Il suo atteggiamento sicuro, cosa che sempre lo contraddistingueva.

La sua posa rilassata, come se sapesse nessuna rissa sarebbe avvenuta tra di loro in quel momento.

Tutte queste cose e anche di più passarono per la mente di Sakuragi ascoltando quella risposta.

Pian piano si rilassò, abbassando i pugni lungo i fianchi.

Continuava a guardare Rukawa che lo fissava con uno strano cipiglio in volto.

Non riusciva a credere che fosse lì. Non voleva crederci. Lui non lo voleva lì.

La sua antica paura risalì a galla. Nessuno doveva sapere come viveva.

Nessuna voce doveva arrivare a scuola delle condizioni in cui era.

Avrebbe avuto delle noie. Ci sarebbero stati dei guai. Guai seri.

E adesso lui doveva, volente o nolente, tornare ad affrontare la sua quotidianità.

Doveva tornare ad affrontare il presente per salvaguardare se stesso. Per salvaguardare quello che lui aveva costruito. Per preservare le cose belle che c’erano state in quei tre
anni e non permettere a nessuno di portargliele via.

Ecco il suo orgoglio venire a galla. Orgoglio che aveva smarrito fino a poco fa, perso nei meandri oscuri della sua mente.

Ecco la sua dignità risalire in superficie.

Ecco le sue preoccupazioni per il presente ritornare alla luce.

Fu per questo che si rivolse nuovamente al compagno di squadra.

Uno sguardo deciso contraddistingueva il suo volto.

Uno sguardo di chi non vuole essere preso in giro.

Un atteggiamento sicuro che stava a significare che lui ora aveva nuovamente delle priorità.

“Non mi hai ancora detto come fai a sapere dove abito, Rukawa”.

Rukawa puntò i suoi occhi in quelli di Sakuragi.

Si chiese il perché l’altro continuava a battere su quel punto.

Non importava! In ogni caso, l’avrebbe accontentato.

Si appoggiò con le spalle al muro incrociando le braccia.

Sarebbe stata una lunga serata.

Rukawa sapeva che non poteva più mentire. Non sapeva ancora perché Sakuragi fosse così preoccupato del fatto che sapesse dove abitava.

Tuttavia, decise di accontentarlo.

“Il tuo amico” disse semplicemente.

“Yohei?” lo guardò interrogativo Sakuragi.

Rukawa annuì in risposta.

E quello sembrò bastare. Il volto di Sakuragi si rilassò impercettibilmente.

Rukawa fu un attimo irritato. Possibile che bastasse il nome di Mito per spiegare sempre tutto?

Eppure, quello che c’era stato tra loro non era una cosa da poco.

Pur tuttavia, Sakuragi si era improvvisamente zittito, non chiedendo ulteriori spiegazioni, solo nominando l’amico.

Quasi avrebbe preferito che Hanamichi lo sobillasse di domande.

Rukawa però non poteva seguire il filo dei pensieri dell’altro, anche se presto sarebbe venuto a conoscenza del perché di quell’atteggiamento.

Sakuragi, infatti, si sentiva in una botte di ferro nel sapere che era stato Yohei a dare quell’indirizzo a Rukawa e non che lo avesse scoperto da solo.

Nessuno sapeva di come abitava e se era stato Yohei a orchestrare il tutto, allora poteva fidarsi.

Forse aveva incontrato Rukawa fuori scuola o forse era andato dal numero undici dopo che lui era letteralmente scappato da casa dell’amico.

In fondo, Yohei sapeva dei suoi sentimenti verso Rukawa e inoltre doveva essere molto preoccupato.

Poco importava come fossero andate le cose, in fondo. L’importante era che fosse stato Yohei a organizzare il tutto.

Il suo segreto, ancora una volta, era salvo.

“Capisco!” riprese Sakuragi.

Rukawa non avrebbe saputo dare una definizione al tono del numero dieci.

Rassegnato? Stanco?

Probabilmente tutte e due le cose, valutò.

“Quindi è stato Yohei a mandarti qui” continuò Sakuragi sedendosi sul letto e fissando un imprecisato punto sulla parete.

A Rukawa sembrò quasi che stesse parlando più a se stesso che a lui.

“Si sarà preoccupato” disse ancora Sakuragi, massaggiandosi gli occhi.

“Mi dispiace! Combino solo casini!” concluse poi.

Rukawa non era preparato a quella versione inedita di Hanamichi.

Rassegnato, arrendevole ed evidentemente dispiaciuto per la preoccupazione causata al suo migliore amico.

E lui, invece, che posto aveva nei pensieri di Sakuragi?

Rukawa si irritò. E così la scimmia era convinta che fosse stato mandato dal suo migliore amico perché preoccupato.

Non gli interessava più di nulla; né come aveva fatto a sapere dove abitava, né quando lui e Mito si fossero incontrati.

E a lui, questa cosa, stava bene?

Ovviamente, no! E avrebbe fatto in modo che entrasse nella zucca vuota che si ritrovava l’altro.

Con passo deciso gli si parò davanti.

“Non mi ha mandato Mito” disse duro.

“C-cosa?” balbettò Sakuragi, ora smarrito.

“Sono voluto venire io” ci tenne a precisare Rukawa, sedendosi sul letto accanto a lui.

“Perché?” domandò a quel punto Hanamichi.

“Mi sembra ovvio, do’hao!” rispose secco Rukawa che guardò il volto di Sakuragi farsi più attento.

Non poteva più tergiversare, lo sapeva. Fu per questo che parlò, decidendo di rischiare il tutto per tutto.

“Mi hai mentito!”disse secco, guardando il volto di Sakuragi sgranarsi per lo stupore.

“Su tuo padre”aggiunse poi.

Diretto come sempre. Non conosceva altro modo per affrontare la situazione, né l’avrebbe cercato.

Non avrebbe fatto giri di parole inutili. Non avrebbe consolato l’altro.

Non se prima Sakuragi non fosse deciso a essere sincero con lui.

Era per questo che aveva parlato.

La bomba era stata lanciata.

Ora non restava che aspettare la reazione del compagno di squadra.
 


Continua….
 
Note:

Questo capitolo è ambientato nella puntata 66 dell’anime.

È la mia personale interpretazione di come è andata la serata dopo l’allenamento in palestra tenendo conto del canone e dei fatti da me inventati.

Spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto. Mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate.

Ci vediamo domenica prossima con il nuovo capitolo.

Pandora86.

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Capitolo 32
*** Ritorno al presente - Seconda Parte ***


Eccomi con il nuovo capitolo della fic.
Grazie a chi ha commentato lo scorso capitolo, e anche a chi continua a inserire la storia tra le preferite e le seguite.
Ovviamente, grazie anche a tutti i lettori silenziosi.
Ci vediamo a fine capitolo per le note e le informazioni riguardo alle prossime pubblicazioni. 
Mi scuso in anticipo per eventuali errori. Leggo e rileggo ma sapete com’è… qualcosa sfugge sempre!!
Per adesso, buona lettura.
 
 
 
 
Capitolo 31. Ritorno al presente – Seconda parte
 
Mito era uscito di casa in fretta e furia.

E adesso era a bordo del suo fidato motorino, oltrepassando ampiamente i limiti di velocità e non curandosene per niente.

Non sapeva perché era uscito. Sapeva solamente che l’angoscia gli attanagliava l’anima.

Hanamichi stava male e lui non avrebbe dovuto lasciarlo andare.

Aveva dato l’indirizzo a Rukawa ma non poteva sperare che l’asso dello Shohoku risolvesse la situazione da solo.

O meglio, sapeva che aveva buone possibilità. Ci sperava in realtà.

Ma non poteva essere così egoista da lasciare tutto il peso sulle spalle di Rukawa.

Lui era il miglior amico di Hanamichi e non si sarebbe tirato indietro di fronte al problema in questione.

Doveva intervenire. Doveva raggiungere Rukawa.

Quella non era una scaramuccia tra innamorati.

Fin quando si trattava di loro due, aveva evitato di intromettersi.

Ma ora la questione riguardava anche lui. Hanamichi era la sua famiglia e avrebbe affrontato questo momento con le persone che erano più importanti nella sua vita: Rukawa… e il suo fidato braccio destro.

Non si sarebbe tirato indietro, come un vigliacco.

Non avrebbe lasciato Hanamichi da solo. Non avrebbe lasciato neppure Rukawa da solo.

Erano questi i pensieri che percorrevano la sua mente, mentre parcheggiava il motorino di fronte alla palazzina fatiscente dove risiedeva Hanamichi.

Adocchiò la bici di Rukawa iniziando a salire a perdifiato le scale.

Sperò che non fosse troppo tardi. Sperò con tutto il cuore che il numero undici avesse conservato quell’ascendente che aveva su Hanamichi, salvandolo dall’oblio in cui sicuramente stava cadendo.

Arrivò a fino alla porta del suo amico quando la voce di Rukawa lo costrinse a paralizzarsi sul posto.

“Mi hai mentito. Su tuo padre!”.

Mito impallidì sentendo, lentamente, il sangue ghiacciarsi nelle vene.
 

   ***
 

Sakuragi si alzò in piedi di scatto.

Mi hai mentito! 

Su tuo padre!

La voce di Rukawa gli risuonava nella mente.

Strinse i pugni, guardando con odio il compagno di squadra.

“Cazzo dici, baka?”urlò rabbioso.

Che cosa voleva Rukawa da lui?

Che cosa ci faceva lì?

Non capiva che lui voleva stare solo ad affrontare il suo dolore?

Quell’affermazione poi… come aveva potuto Rukawa intuire la verità?

“Allora?” urlò nuovamente.

Perché Rukawa non si muoveva?

Perché continuava a fissarlo senza dire nulla?

Si avvicinò rabbioso, afferrando l’altro per la collottola.

“Mi dici che cazzo ci fai qui, baka?”urlò stringendo spasmodicamente la maglia dell’altro.

“Mi dici che cazzo vuoi da me?”urlò nuovamente, lasciando che la rabbia prendesse il sopravvento e continuando a strattonare l’altro.

Rimase, ancora una volta, spiazzato però dalla risposta del compagno di squadra.

Perché Rukawa non si era minimamente intimorito di fronte alla furia dell’altro.

Con decisione, scostò le mani di Hanamichi.

“Per vedere come stai!” disse solo, sussurrando appena e quello sembrò bastare.

Sakuragi sentì la sua rabbia sbollire. Lasciò cadere le braccia lungo i fianchi e abbassò la testa.

Ora, la rabbia era passata.

Rukawa, ancora una volta, aveva detto la cosa giusta.

Era lì per vedere come stava, non per sobillarlo di domande.

In effetti, da quando il numero undici era lì, non aveva fatto altro che rispondere alle sue di domande.

Inoltre, si era sorbito i suoi sbalzi d’umore non cogliendo però le provocazioni e scemando, ogni volta, nel numero dieci la voglia di menare le mani.

Era lì per vedere come stava; semplicemente per questo.

Sentì una lacrima scivolargli lungo la guancia.

Ancora una volta, aveva deciso di stare da solo. Di isolarsi dal mondo.

Ma aveva capito, ben presto, che non avrebbe retto nel silenzio assordante della sua casa.

Però… era stato troppo orgoglioso per chiedere aiuto.

Aveva inconsciamente invocato qualcuno che lo aiutasse, rifiutando poi razionalmente l’idea.

Ed ecco che si presentava Rukawa, irrompendo come una furia nel suo appartamento.

Rukawa, che aveva sentito la sua tacita richiesta d’aiuto.

Rukawa, che non si era fatto ingannare dalle sue sparate in palestra.

Rukawa che, ancora una volta, riusciva a leggergli dentro.

Fu per questo che andò ad appoggiare la testa sulla spalla del numero undici.

Senza abbracciarlo. Senza neanche sfiorarlo con il resto del corpo, se non con la fronte appoggiata alla sua spalla.

Una spalla che, in quel momento, gli sembrava un sostegno al quale aggrapparsi con tutte le sue forze per non cadere.

Una spalla che, in quel momento, gli sembrava una roccaforte in cui rifugiarsi.

Una spalla che gli era offerta senza chiedere nulla in cambio.

Che diceva che era lì per sorreggerlo, senza fare null’altro.

Era, infatti, questo che diceva Rukawa con il suo atteggiamento. Si era limitato a offrirgli la sua spalla rimanendo però immobile, proprio come aveva fatto Sakuragi.

“Come stai?” domandò, ancora una volta, Rukawa.

Un sussurro. Solo un sussurro che però rimbombò nella testa dell’altro peggio di un urlo.

Un sussurro al quale Sakuragi non poté fare a meno di rispondere.

“Sto male baka. Sto male!

Quanta disperazione in quella voce. Quanto dolore represso in quella, non più muta, richiesta d’aiuto.

Fu questo che Rukawa vi lesse.

“Non sei solo!” rispose altrettanto sottovoce. “Non lo sarai mai!”concluse, rimarcando il concetto.

Ed ecco le lacrime di Sakuragi uscire fuori.

Ecco il sollievo per aver chiesto aiuto ad alta voce e per la prima volta.

Sakuragi aveva sempre creduto che chiedere aiuto avrebbe fatto a pezzi il suo orgoglio, distruggendolo completamente.

Quanto si sbagliava!

Il dolore c’era. Ci sarebbe sempre stato, probabilmente.

Ma finalmente c’era anche qualcuno che capiva quanto stesse male.

E non perché l’aveva intuito o perché lo conosceva da tempo.

Ma perché lo aveva detto lui. Perché lui era stato sincero con se stesso e con qualcun altro sui suoi stati d’animo.

Non sei solo.

Era stata questa la risposta di Rukawa alla sua richiesta d’aiuto.

E lui come si era sentito?

Felice? Sollevato?

Non sapeva dare un nome ai sentimenti che contemporaneamente e tutti insieme albergavano nel suo cuore.

Aveva sempre creduto che fare vedere a qualcuno che stava male fosse sbagliato.

Aveva sempre creduto che la gente non volesse vedere il dolore altrui.

Ma si sbagliava; perché Rukawa non era la gente.

Rukawa non era come gli altri. Era Rukawa… solo Rukawa e basta.

Che non lo aveva abbandonato quando aveva chiesto aiuto.

Che non lo aveva deriso ne compatito.

Che gli aveva dato solo la sua spalla per piangere e il suo affetto.

Perché era questo che trapelava dai gesti di Rukawa.

Il suo rimanere immobile. Il suo silenzio. La sua attesa.

Erano tutto il suo affetto.

Non aveva fatto nessun gesto teatrale o pomposo per portargli consolazione.

Gli aveva semplicemente offerto la sua spalla.

Non aveva cambiato il suo modo di essere o il suo carattere taciturno per cercare di farlo stare meglio.

Gli era rimasto vicino con semplicità, rimanendo se stesso.

Non seppe dire per quanto tempo rimase in quel modo.

Seppe solo che, quando sollevò la testa incontrando gli occhi dell’altro, sentì il macigno sul cuore farsi più leggero.

Si asciugò le poche lacrime che aveva versato scoprendo che non ce n’era bisogno.

Si erano già asciugate da sole senza che ne fossero versate altre.

Le lacrime erano uscite tutte la sera prima e Sakuragi non aveva bisogno di versarne altre.

Il dolore che era stato accettato in precedenza, si era ripresentato il giorno successivo secondo un macabro disegno del destino.

Non aveva più bisogno di piangere.

Non ne aveva avuto bisogno quella sera.

In quelle ore aveva solo bisogno di essere scosso dal torpore che gli stava invadendo l’animo, ma soprattutto la mente.

Una mente che si racchiudeva nel passato, ferma all’immagine di suo padre.

Una mente che si rifiutava di ritornare al presente.

Una mente che ora invece, grazie alla presenza imposta di Rukawa, aveva capito da sola che erano passati tre anni da quel maledetto giorno.

L’apatia in cui stava scivolando era andata via, scacciata dall’ingombrante presenza di Rukawa che aveva saputo, con prontezza, riportarlo al presente.

Il dolore continuava a esserci e Sakuragi dubitava che sarebbe mai andato via.

Ma c’era anche la consapevolezza che forse non lo avrebbe affrontato da solo.

C’era anche la consapevolezza che qualcuno non l’avrebbe lasciato perdere nei meandri dei suoi ricordi.

Ora Sakuragi era lucido.

L’immagine di sua padre, alternata a quella della madre, continuavano a ricomparire nella sua mente.

Ma, come poco prima, ora sentiva che c’erano delle questioni da chiarire.

Come poco prima, che era stato preso dai problemi del suo presente preoccupandosi di come Rukawa avesse saputo dove abitava, ora sentiva che doveva chiarire una questione importante.

Rukawa aveva fatto un’insinuazione. E lui avrebbe dovuto vederci chiaro.

Si allontanò dal numero undici dandogli le spalle; ma questo non era un gesto di fuga, quanto più un modo per riprendersi la dignità che sembrava scomparsa, visto quanto Rukawa ci mettesse poco ogni volta a dargli quello di cui lui aveva bisogno.

“Cosa volevi dire prima?” domandò, con voce sicura.

Una sicurezza che invece non aveva, visto che, se aveva intuito bene, presto avrebbe dovuto fare i conti con se stesso più in profondità di quanto si fosse mai spinto.

“Quello che ho detto, Hanamichi” rispose serio Rukawa.

Sakuragi sussultò. L’aveva chiamato per nome. E questo poteva solo presagire la serietà del discorso che avrebbero affrontato a breve.

“La storia che mi hai raccontato” continuò Rukawa, “aveva qualche punto in sospeso”.

Sakuragi ascoltava quelle parole con occhi chiusi. Rukawa osservava i segni impercettibili che mandava il corpo dell’altro, chiedendosi fino a dove potesse spingersi.

Solo Sakuragi, infatti, poteva sapere quanto quelle parole fossero vere.

“Che ne diresti di dirmi la verità?”concluse allora Rukawa, con la sua voce calda e rassicurante.

Ora, spettava al numero dieci dargli una risposta.

Sakuragi si voltò, affondando nello sguardo sicuro dell’altro.

La determinazione di Rukawa, ancora una volta, lo contagiò.

Annuì impercettibilmente con la testa, andandosi a sedere sul letto.

Era venuto il momento di affrontare il passato.

Era venuto il momento di vivere il suo presente.

Era venuto il momento di pronunciare a voce alta quello che per anni aveva nascosto nel cuore e che gli aveva sempre impedito di avere una vita spensierata.

Era venuto il momento di scendere nei meandri bui del suo animo.

Sakuragi sapeva che sarebbe precipitato, ma stranamente non aveva paura.

Perché il passato non l’avrebbe inghiottito.

Ci avrebbe pensato Rukawa a farlo ritornare al presente, non permettendogli di smarrirsi nei suoi ricordi.

Non sapeva come, ma sapeva che era così.

Come pochi istanti prima. Era bastata la sua presenza a riportarlo al presente.

La fiducia che aveva sempre inconsapevolmente riposto nel compagno di squadra venne fuori.

Motivo per cui, si decise a parlare.

Avrebbe fatto un brutto viaggio.

Ma non sarebbe stato da solo.



***


Mito, nel frattempo, aveva seguito quello scambio di battute con un’ansia sempre crescente.

Aveva sentito il silenzio che c’era stato dopo l’affermazione di Rukawa.

Aveva sentito poi, dallo stesso Sakuragi, quanto stesse male.

E ora si apprestava a sentire quello che veramente era avvenuto tre anni prima.

Si era seduto con le spalle al muro, non avendo la benché minima intenzione di alzarsi.

Non voleva interferire con Rukawa, ma condivideva quello che aveva detto.

Hanamichi non era solo e mai lo sarebbe stato.

Lui, tre anni prima, aveva fatto due promesse. Ora era venuto il momento di mantenerle.

Anche se questo significava rimanere fuori dalla porta.

Anche se questo significava, talvolta, essere un’ombra silenziosa.

Perché Hanamichi non sarebbe mai stato solo.

Lui non lo avrebbe mai lasciato solo pur tenendosi in disparte.

Chiuse gli occhi sapendo che, quello che sarebbe avvenuto a breve, avrebbe segnato un passo importante nella vita di tutti loro.

Chiuse gli occhi sperando con la sua presenza, anche se al di là della porta, di dare forza al suo amico.

Un solo pensiero nella testa:

Fatti coraggio, Hana. Io sono qui!
 

Continua…
 
Note:

Questo capitolo è ambientato nella puntata 66 dell’anime.

In apparenza, potrebbe sembrare che io voglia tirarla per le lunghe non rivelando ancora il passato di Hana.
In realtà, questo capitolo è una preparazione al successivo ed è un completamento di quello precedente, dove Hanamichi grazie a Rukawa riesce a tornare al presente (come dice anche il titolo), perché ritengo che debba raccontare il passato rendendosi conto che sono passati degli anni, e questo pensiero giustifica la nascita di questo capitolo, dove si vede l’introspezione del personaggio nel passaggio dall’apatia alla realtà, l’ascendente che ha su di lui Rukawa e il forte legame di Mito verso Sakuragi.

Non vi preoccupate... nel prossimo capitolo si inizierà a sapere la verità!

Che dire… spero di non avervi annoiato e di aver fatto un buon lavoro.

Mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate!

Ci vediamo domenica prossima con il nuovo capitolo.

Pandora86.

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Capitolo 33
*** Salto nel vuoto ***


Eccomi con il nuovo capitolo della fic.
Grazie a chi ha commentato lo scorso capitolo, e anche a chi continua a inserire la storia tra le preferite e le seguite.
Ovviamente grazie anche a tutti i lettori silenziosi.
Ci vediamo a fine capitolo per le note e le informazioni riguardo alle prossime pubblicazioni. 
Mi scuso in anticipo per eventuali errori. Leggo e rileggo ma sapete com’è… qualcosa sfugge sempre!!
Per adesso, buona lettura.
 
 
Capitolo 32. Salto nel vuoto.
 
Hanamichi andò vicino alla finestra, sedendosi sopra.

Il suo sguardo era rivolto al tenue chiarore della strada, illuminata dalla fioca luce serale degli scarsi lampioni presenti nel suo quartiere.

Non era un bello spettacolo.

La strada non era curata e le abitazioni che comparivano erano fatiscenti apparendo, la sera, ancora più tetre per la scarsa illuminazione.

Da tempo oramai il suo sguardo vagava su quello spettacolo così diverso da quello offerto dalla finestra della casa che aveva condiviso con i suoi genitori.

Eppure, non si era mai lamentato. Era stato lui a scegliere di vivere così.

È questo, quello che mi merito, aveva sempre pensato in quegli anni bui.

E lo pensava ancora.

Tuttavia, quella sera c’era il desiderio di poter sperare in qualcosa di diverso.

Fu per quello che incominciò a parlare. Fu per quello che accettò di andare incontro, volontariamente, al suo passato.

Poteva essere la chiave di tutto oppure no. Ma doveva comunque tentare di fare qualcosa. Per se stesso e per chi ancora gli voleva bene.

“Hai ragione!” sussurrò piano.

“Non ti ho detto tutto. Non l’ho mai detto a nessuno. Neanche a mia madre”.

“Anche se…” fece una pausa come per raccogliere le idee, “non ho neanche mentito, in fondo. Perché le cose sono andate esattamente come ti ho raccontato Rukawa” affermò sicuro, rivolgendo il suo sguardo al compagno di squadra.

Rukawa, dal canto suo, guardava il volto dell’altro rimanendone, istante dopo istante, sempre più affascinato.

Il volto di Sakuragi era illuminato dalla fioca luce serale e Rukawa non credeva di aver mai visto niente di più bello.

Lui non si era mai preoccupato della bellezza esteriore. Né della sua, né di quella degli altri.

Sapeva di essere bello ma, semplicemente, non se ne curava.

In passato, si era osservato allo specchio ritrovando nella sua bellezza tutta la stupidità delle persone che lo circondavano.

Perché il suo successo era dovuto alla sua bellezza e lui lo sapeva.

Anche Akagi era un grande giocatore ma non aveva il suo fan club (beato lui).

Eppure nel volto di Sakuragi lui, quella sera, scorgeva un qualcosa in più della bellezza comune.

Quei tratti, lievemente illuminati dalla luna, gli davano un’espressione quasi divina.

Quella bellezza, sempre nascosta da espressioni stupide o da pagliacciate, ora si mostrava per quello che era.

E Rukawa si ritrovò, ancora una volta, a pensare alla stupidità della gente.

Acclamavano lui per il suo bel volto e il suo bel fisico senza notare la bellezza, forse più grande, di Sakuragi.

Bellezza più grande proprio perché nascosta agli altri; nascosta agli occhi di tutti.

E si ritenne fortunato.

Perché Sakuragi sarebbe stato suo e suo soltanto, come lui sarebbe appartenuto all’altro.

Il resto del mondo, in quel momento, non contava proprio niente.

Solo loro, con i loro veri io, che si confrontavano.

Solo lui e Sakuragi che, in quel momento, gli si mostrava con il suo volto. Il suo vero volto.

Sakuragi vide Rukawa sedersi sul letto.

Si ritrovò a osservarlo, ancora una volta.

Si ritrovò ad ammirarlo, ancora una volta.

La sua figura perfetta. Il suo volto scolpito nel marmo.

Eppure… a Sakuragi non era mai importato dei bei lineamenti dell’altro.

Persino la prima volta che lo aveva incontrato, non avrebbe fatto caso al suo bel faccino se non lo avesse osservato con più attenzione.

Né gli sarebbe interessato il suo bel volto, se si fosse trattato solamente di quello.

Era stato il suo essere a colpirlo.

La sua voce profonda, i suoi occhi sicuri. L’alone di sicurezza e imperturbabilità che lo circondava. E poi, i suoi occhi fieri e determinati.

La bellezza di quel ragazzo sulla terrazza era venuta soltanto dopo.

Un ragazzo a cui non sembrava interessare il suo fan club.

Un ragazzo che sembrava snobbare tutti ma che forse, proprio come lui, si adattava alla stupidità degli altri; solo che, a differenza sua, la ricambiava con indifferenza.

Sakuragi si chiese se in fondo Rukawa davvero lo volesse tutto quello.

E ovviamente la risposta era no, sapeva anche questo.

Forse, c’era stato un tempo in qui quel ragazzo si era guardato allo specchio chiedendosi perché la gente non andasse oltre il suo aspetto fisico.

In fondo, non aveva chiesto lui di nascere con quelle fattezze così perfette.

Poi, visto il suo carattere, si era sicuramente stufato, ricambiando con indifferenza tutto quello che non rientrava nei suoi interessi.

Del resto, non aveva deciso lui di nascere con quel volto, di conseguenza accoglieva la cosa con indifferenza avvallata da un carattere taciturno e scontroso.

Un volto che però lo aveva sempre incuriosito al di la di tutto.

Un volto che aveva sempre cercato perché sapeva che, proprio come lui, nascondeva qualcosa di più della bellezza in superficie che mostrava.

E aveva capito che il volto di Rukawa era sempre quello, in ogni occasione.

Lui non si nascondeva mai. Lui faceva o diceva sempre ciò che pensava.

Lui si comportava sempre con coerenza verso se stesso.

Un volto sicuro. Un volto che lui avrebbe voluto avere.

E ora, quello strano ragazzo, così supponente e indifferente, dal volto così perfetto, era seduto sul suo letto nel suo spoglio appartamento (ed era un complimento definire la catapecchia dove abitava così) che lo ascoltava in silenzio.

Che lo incoraggiava e che gli stava accanto.

E Sakuragi, per la prima volta, rifletté sul fatto che Rukawa sarebbe potuto essere suo… se soltanto Sakuragi stesso lo avesse voluto.

Se soltanto Sakuragi stesso lo avesse permesso.

Si riscosse da questi pensieri, accorgendosi di essere rimasto qualche minuto in silenzio.

“Ebbi paura”.

Sapeva che non era il modo migliore di raccontare i fatti.

Sapeva che sparare frasi a caso non era il modo migliore per spiegarsi.

Ma lui non ci poteva fare niente. Cercava di vivere alla giornata come meglio credeva e la sua vita stessa era caratterizzata dall’impetuosità del suo carattere.

E non conosceva modo migliore per esporre i fatti se non quello di esprimere i sentimenti che provò allora.

Perché non stava leggendo un bollettino meteorologico o un articolo di giornale.

Quella era la sua vita: il suo passato. E non sarebbe riuscito a raccontarlo in modo migliore se non essendo se stesso.

E anche Rukawa dovette notarlo. La differenza era palese rispetto al racconto della volta precedente: striminzito, pieno di frasi coerenti e prive di emozioni.

Fu per questo che fece quello che non aveva fatto allora: si alzò, avvicinandosi all’altro.

Una mano poggiata sulla spalla.

Una mano che, vista la forza con cui stringeva la spalla dell’altro, lasciava trapelare tutto quello che le parole e il volto non dicevano.

Una mano che faceva sentire la sua presenza e il suo calore.

Sakuragi sussultò a quel tocco. Sussultò a quella mano dalla pelle candida che stringeva con forza la sua spalla.

Ma non si sottrasse.

Perché in quella mano era stretto il suo legame con il presente.

“Ero solo uno stupido ragazzino di tredici anni, Rukawa” continuò, stavolta ben deciso a non fermarsi.

“Uno stupido ragazzino che, tanto per cambiare, aveva perso tempo in una stupida rissa.

Una rissa di cui avevo bisogno. Una rissa che decideva il mio posto e che mi dava forza”.

Rukawa seguiva quelle confessioni non capendo granché. Pur tuttavia, non se ne curava.

Perché Sakuragi gli stava offrendo il suo animo. E lui non se lo sarebbe fatto scappare.

Mito invece, dall’altro lato della porta, continuava ad ascoltare a occhi chiusi.

Non si sentiva in colpa, l’indomani lui stesso avrebbe parlato a Hanamichi della sua presenza lì. E Hanamichi avrebbe capito.

Tuttavia, sentendo quelle parole, fece fatica a non entrare e abbracciare l’amico.

Rukawa non doveva averci capito molto. Lui invece sapeva perfettamente quale piega stesse prendendo il discorso. Una piega dolorosa. Un tormento che l’amico si portava dietro da anni, da quando i genitori erano ancora vivi.

Una smorfia triste comparve sul suo volto, mentre si apprestava ad ascoltare le successive parole del suo migliore amico.

“Mi hanno sempre considerato un teppista per il colore dei miei capelli.

Quando invece ero troppo piccolo per essere considerato un teppista, gli altri bambini mi additavano con disprezzo o mi isolavano, per volere dei loro genitori presumo” Sakuragi fece un sospiro stanco.

Stava tornando indietro nel tempo, in un passato che gli sembrava lontanissimo eppure, che gli pareva anche di averlo vissuto appena il giorno prima.

“Ti sei mai reso conto di quanto questa società sia bigotta, Rukawa?” domandò ancora Sakuragi.

Rukawa non aveva bisogno di annuire o di rispondere. Lo sapeva benissimo anche lui come fosse la società in cui viveva.

Lo sapeva benissimo quanto fosse ristretta la cittadina in cui risiedeva.

Quanto fosse ristretta la mente della gente che lo circondava.

Per questo lui voleva andarsene. Perché sapeva che, rimanendo lì, non avrebbe potuto realizzare il suo sogno.

Restando lì, sarebbe stato destinato a rimanere nella mediocrità seppur osannato nel suo paese come campione di basket.

Ma se lui voleva andarsene per realizzare un sogno e per diventare qualcuno Sakuragi, a differenza sua, avrebbe voluto andare via solo per avere un po’ di pace e per essere accettato.

Anche lui all’inizio aveva pensato che fosse tinto. Del resto, visto il suo carattere egocentrico e megalomane, non si sarebbe stupito più di tanto.

Poi aveva capito che i suoi capelli erano naturali, ma aveva accantonato la faccenda.

Eppure, per la prima volta, si chiese quante difficoltà avesse dovuto affrontare il Sakuragi bambino per via del suo colore di capelli.

Si chiese quanto disprezzo avesse avuto, per il suo essere per metà occidentale.

E fu in quel momento che desiderò di andare via: con lui!

Fu in quel momento che desiderò di realizzare il suo sogno; portando l’altro con sé!

La voce di Sakuragi lo riscosse dal suo pensiero.

“I miei genitori non mi hanno mai fatto mancare il loro affetto. Eppure… io mi sentivo lo stesso diverso. La gente mi faceva sentire così.

Ed ero solo un bambino, dannazione!” quasi gridò nel pronunciare la sua ultima affermazione, tirando un pugno al muro che aveva di fronte.

“Per questo, quando andai alle medie, mi diedi alle risse. Volevano il teppista… e allora l’avrebbero avuto.

Volevano il poco di buono… e allora un poco di buono sarei stato.

Ma avrei fatto le cose a modo mio. Non sarei stato un bulletto da quattro soldi.

Avrei avuto rispetto. Se non altro, per la paura di quello che potevo fare.

Fu allora che fondai l’armata” e, a quelle parole, il volto di Sakuragi si distese in un sorriso sincero.

Si vedeva che voleva bene ai suoi amici, considerò Rukawa.

Si vedeva che rappresentavano per lui la sua famiglia.

“Ciò nonostante” continuò Sakuragi, “non mi sono mai fatto trascinare più del dovuto. Yo si diverte a dire che siamo una banda buona. In fondo, ognuno di noi gioca a fare il teppista per trovare il suo posto e non abbiamo mai veramente danneggiato nessuno.

Ci divertivamo a menare le mani, a giocare nelle sale giochi, a bere alcolici e a cercare di entrare in locali per maggiorenni.

Né di più, né di meno. Ho sempre tenuto a mente le parole di mio padre, e credo che anche lui avesse capito quello che cercavo. Per questo mi ha insegnato come difendermi” Sakuragi, a quel punto, si interruppe massaggiandosi gli occhi.

Rukawa lo osservava attento, non perdendosi nessuna delle parole pronunciate dall’altro.

Sakuragi gli stava aprendo il suo cuore. Gli stava mostrando i tormenti e i dubbi che avevano contraddistinto la sua infanzia.

Mito invece aveva sorriso nel sentire quelle parole, ricordando tutte le volte che lui e l’armata, grazie ad Hanamichi, si erano tenuti lontano dai guai.

Ripensando a quanto aveva sempre ammirato Sakuragi, quello strano bambino con i capelli rossi.

Ripensò a uno dei loro primissimi incontri.

Probabilmente, altri avevano preceduto quel ricordo ma lui non ne aveva memoria essendo troppo piccolo.

Del resto, la madre di Hanamichi e la sua li avevano fatti praticamente crescere insieme.

Rivide con la memoria un Hanamichi di quattro – cinque anni forse che, tanto per cambiare, si era azzuffato con i ragazzini del vicinato.

Erano al parco giochi e Hanamichi aveva messo il broncio.

Dopo un po’ si era riuscito a fare dire il perché.

Se non ricordava male, aveva sentito le madri dei bambini bisbigliare sul suo colore di capelli e lui aveva risolto la questione a modo suo: era andato dai figli delle donne e aveva fatto il prepotente.

“Sono orribili” aveva detto un Hanamichi quasi singhiozzante.

“Perché?” aveva allora domandato Yohei, con tutta la perplessità dei suoi cinque anni.
“Sono così belli!” aveva aggiunto, toccando i capelli dell’altro.

“Sembrano di fuoco!” aveva concluso con un gran sorriso.

E altrettanto bello era stato il sorriso che Hanamichi gli aveva regalato di rimando.

“E se qualcuno dice che sono brutti” aveva continuato Yohei stringendo le manine, “verrò con te a dargli un pugno!”.

“Promesso?” era stata la domanda che poi aveva rivolto a Hanamichi, tendendogli la mano.

“Promesso!” aveva risposto deciso l’altro, andando a stringere la mano che gli veniva offerta come simbolo di una grande promessa.

A ripensarci adesso, poteva far sorridere pensare a loro due bambini che si stringevano le mani con un’espressione tanto buffa ma così seria nella loro ingenuità.

È stato allora che è nata veramente l’armata, considerò lo Yohei adulto seduto dietro la porta di casa del suo migliore amico.

È stato allora che abbiamo iniziato a prenderci cura l’uno dell’altro.

È stato allora che ho promesso di starti sempre accanto come un fratello, pensò ancora continuando ad ascoltare, in silenzio, il racconto dell’Hanamichi sedicenne dall’altro lato della
porta.

“Tre anni fa” stava dicendo Sakuragi, “tanto per cambiare, ero impegnato in una rissa. Ero da solo e dopo aver steso quei quattro delle superiori mi divertì a rimarcare la mia
superiorità. Mi persi in inutili chiacchiere. Chiacchiere che mi facevano sentire importante.

Chiacchiere che mi costarono care!” e, a quel punto, un singhiozzo interruppe il racconto.

Rukawa strinse maggiormente la presa sulle spalle dell’altro e Sakuragi, confortato da quel gesto, continuò a parlare.

“Arrivai a casa fischiettando tranquillamente. Ma quando aprì la porta… vidi mio padre riverso sul pavimento”.

Si voltò verso l’altro guardandolo negli occhi.

“Ebbi paura, Rukawa. Ebbi solo una grande e fottutissima paura.

Riuscì solo a scuoterlo e a chiamarlo. Ero solo un ragazzino di tredici anni che giocava a fare a botte. Non riuscì a essere lucido.

Passarono pochi attimi o forse ore… e mio padre smise di respirare. Davanti ai miei occhi” e, a quel punto, si interruppe sapendo che non sarebbe riuscito ad andare avanti.

Appoggiò nuovamente la testa sulla spalla di Rukawa che andò prontamente con la mano a cingergli la vita.

“Per questo scappasti via” disse allora il numero undici, intervenendo per la prima volta nel discorso.

“Già…” confermò Sakuragi. “Pensai stupidamente a raggiungere un ospedale.

Dovevo trovare un dottore che mi dicesse che mi stavo sbagliando”.

“Anche se sapevi già di non sbagliarti e non volevi sentirtelo dire” continuò per lui Rukawa.

“Per questo non chiamasti nessuna ambulanza e neanche portasti tuo padre con te. Come non ti rivolgesti neanche ai tuoi vicini di casa. Volevi inconsciamente ritardare la notizia che avresti avuto” concluse poi a voce bassa, continuando a stringere l’altro a se.

“Proprio così” ammise stanco Sakuragi.

“Ero rimasto paralizzato dal terrore e quell’attimo mi era stato fatale nel soccorrere mio padre. Il resto già lo sai. Durante la strada, incontrai di nuovo quei teppisti”.

“E tu ti facesti picchiare volutamente” intervenne Rukawa, “per punirti di essere rincasato troppo tardi”.

“Se non mi fossi fermato a fare a botte con loro. Se non mi fossi messo a perdere tempo insultandoli. Se -”

“Basta!” lo interruppe ancora Rukawa, mettendogli una mano sulla bocca per farlo tacere.

Gli prese il volto con le mani, guardandolo negli occhi.

“Il signor Anzai è salvo!” disse deciso. “Grazie a te!” concluse.

Era necessario che ora Sakuragi capisse questo.

Era necessario che afferrasse quello che era avvenuto nel pomeriggio nel suo significato più profondo.

Ora spettava all’altro capire. La serata sarebbe stata ancora lunga, Rukawa lo sapeva.

“È salvo” ripeté ancora, “Grazie a te!” disse di nuovo, e avrebbe continuato a ripeterlo.

Fino a quando l’altro non lo avesse capito. Fino a quando fosse stato necessario.



 
Continua...

Note:

Questo capitolo è ambientato nella puntata 66 dell’anime.

In questo capitolo do la mia versione dei fatti sulla morte del padre di Sakuragi spiegando il perché della sua fuga e quale fosse il reale trauma di Hanamichi.

Versione che non va in contraddizione con il canone e che spero vi sia piaciuta!

Si vede anche la sua infanzia e un possibile perché del suo modo di essere.

Nel prossimo capitolo si capirà anche a che conclusioni era arrivato Rukawa e con quali deduzioni, anche se qualcosa già viene accennato in questo capitolo.

Chiarirò anche la situazione familiare di Hanamichi e le ipotesi di Mito sugli avvenimenti di tre anni prima.

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto.

Mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate.

Ci vediamo domenica prossima con il nuovo capitolo.

Pandora86.

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Capitolo 34
*** Passato, presente e forse... anche futuro. ***


Eccomi con il nuovo capitolo della fic.
Grazie a chi ha commentato lo scorso capitolo, e anche a chi continua a inserire la storia tra le preferite e le seguite.
Ovviamente, grazie anche a tutti i lettori silenziosi.
Ci vediamo a fine capitolo per le note e le informazioni riguardo le prossime pubblicazioni. 
Mi scuso in anticipo per eventuali errori. Leggo e rileggo ma sapete com’è… qualcosa sfugge sempre!!
Per adesso, buona lettura.
 
 
 
Capitolo 33. Passato, presente e forse… anche futuro.
 
Mito sospirò stanco.

Lui aveva sempre immaginato che le cose fossero andate così.

Lui aveva sempre immaginato che fosse questa la colpa che si portava dietro Hanamichi; la paura.

Non il fatto che non avesse soccorso il padre, ma la paura che gli aveva impedito di fare qualcosa.

Anche se probabilmente sarebbe stato tutto inutile.

E questo Sakuragi, inconsciamente, lo sapeva.

Suo padre era arrivato ai suoi ultimi atti di vita. Anche se il figlio fosse stato più lesto non sarebbe comunque riuscito a salvarlo.

Si sentiva in colpa per la prima rissa e non la seconda.

La seconda era stata una punizione per aver scelto di sfogare la sua rabbia adolescenziale in quel modo e con quel personaggio.

Si sentiva in colpa perché, per difendere i capelli di sua madre non tingendoseli, aveva provato a inserirsi nel mondo a modo suo.

E, con quell’atteggiamento, aveva perso entrambi. Prima suo padre… e poi sua madre.

Ma non era mai stata colpa sua. Non era stata colpa di nessuno. Era questo che gli aveva ripetuto negli anni, anche se Sakuragi non gli aveva mai dato ascolto.

E il perché era presto detto; Sakuragi non era stato del tutto sincero e di conseguenza le parole del suo migliore amico perdevano valenza.

Peccato che Mito avesse sempre saputo che, in fondo, le cose stavano in quel modo.

Intuito forse… o solo, probabilmente, una profonda conoscenza dell’altro.

Perché lui aveva iniziato a sospettare qualcosa non quando Hanamichi gli aveva raccontato tutto ma dopo.

E l’aveva sospettato a causa dell’atteggiamento di quest’ultimo.

Occhi colpevoli ogni volta che guardava la madre, occhi colpevoli quando, dopo la morte del padre, erano finiti in qualche rissa.

Occhi che sembravano chiedere scusa del fatto di essere in quel modo.

Occhi che sembravano chiedere scusa al mondo per aver reagito così verso le cattiverie degli altri.

E poi… c’era sempre stata la fuga che lo aveva insospettito.

La fuga che era così estranea al carattere di Hanamichi, che viveva ogni situazione buttandosi nella mischia e non tirandosi indietro a niente.

Non dubitava del fatto che avesse avuto paura. Ma dubitava che la paura lo avesse bloccato a tal punto da correre alla disperata ricerca di un ospedale quando il telefono era a pochi passi da lui.

Come lo era anche la casa del suo migliore amico.

La paura lo aveva certamente bloccato in un istante iniziale. Ma l’Hanamichi che conosceva non si sarebbe dato a un comportamento così insensato se non vi fosse stato qualcosa da cui voleva scappare.

Perché Hanamichi era così; ci metteva il cuore nelle cose che faceva ma non perdeva mai il sangue freddo nelle situazioni di pericolo.

Quante volte aveva mantenuto la lucidità, quando le persone con cui si apprestavano a fare a botte sembravano veramente decise a farli male?

Quante volte aveva evitato a lui o agli altri di finire in guai peggiori di una semplice rissa?

E lui, Yohei, cos’aveva fatto?

Gli era stato accanto imparando da lui. Forgiando il suo carattere con quello di Hanamichi e ammirandolo per tutto quello che l’amico aveva dentro di se, così ben nascosto agli occhi degli altri.

Anche con Anzai doveva aver avuto paura; una paura peggiore rispetto a quella provata con il padre.

Eppure, aveva reagito. Era riuscito a salvare il coach.

“Lo hai salvato!” continuava a ripetere Rukawa all’interno dell’appartamento e Mito sorrise a quella frase ripetuta di continuo.

Perché era vero. E forse finalmente Hanamichi avrebbe capito che, proprio come aveva salvato il signor Anzai, avrebbe potuto salvare anche suo padre se non fosse stato troppo tardi per l’uomo.

Perché non era stata colpa sua, quanto della vita che aveva deciso che suo padre era arrivato alla fine.

Si alzò… ora lui non aveva più nulla da fare lì.

Si allontanò silenziosamente, proprio come era arrivato.

Hanamichi stava meglio.  E lo sarebbe stato sempre di più.

E lui gli sarebbe rimasto accanto. Nel bene e nel male.
 

***
 

Lo hai salvato.

Le parole di Rukawa gli erano entrate nella testa e sembravano non voler più andare via.

Quindi, il signor Anzai era realmente salvo e fuori pericolo.

“Io…” incominciò staccandosi dall’abbraccio dell’altro “oggi, ho visto mio padre!”.

“Lo so” disse solamente Rukawa. “Per questo sono qui!”.

Sakuragi lo guardò allibito.

“Come potevi sapere?” domandò sconcertato.

“Perché non sarebbe stato da te” disse semplicemente Rukawa.

L’altro alzò un sopracciglio perplesso.

“Non sarebbe stato da te abbandonare tuo padre in quelle condizioni, anche per correre a cercare aiuto. Non sei rimasto tutto il tempo vicino al signor Anzai, oggi?”.

Sakuragi non rispose. Aveva capito dove l’altro volesse andare a parare.

“Non è da te pregare qualcuno di lasciarti andare. Soprattutto quando difendi qualcosa o qualcuno” continuò Rukawa.

“Hai forse pregato nella rissa in palestra?”.

Un’altra domanda alla quale Sakuragi sapeva che era inutile rispondere.

“Quindi… avevi già capito tutto, quando quella sera ti raccontai come andarono le cose?” domandò solamente il numero dieci.

Non si stupiva più di quanto Rukawa lo conoscesse. Era inutile farlo visto che aveva capito quanto l’altro lo avesse osservato in quei mesi scolastici.

E, a modo suo, l’aveva accettato in parte.

In fondo, anche lui aveva sempre cercato di andare al di là degli atteggiamenti freddi e scostanti del suo compagno di squadra.

Aveva sempre cercato di andare al di là dei suoi silenzi.

E, in fondo ci era riuscito.

Rukawa parlava, ma solo con lui.

Rukawa veniva puntualmente alle mani, ma solo con lui.

Rukawa lo provocava, ma elargiva il suo sarcasmo solo a lui.

E non poteva essere stupito dal fatto che Rukawa avesse cercato di fare lo stesso nei suoi confronti.

Ognuno cercava il vero volto dell’altro. Ognuno a modo suo.

Sakuragi con la sua impetuosità. Rukawa con la sua determinazione.

Sakuragi con il suo ciarlare, molto spesso, a vuoto. Rukawa con i suoi silenzi.

Ognuno a modo proprio. Ognuno non cambiando di una virgola il proprio carattere.

Eppure, cercando entrambi la stessa cosa.

“Non proprio”.

La voce di Rukawa lo riscosse dalle sue riflessioni.

Alzò un sopracciglio con faccia interrogativa.

“Avevo fatto delle supposizioni ma, in parte, avevo sbagliato” dovette ammettere Rukawa.

In fondo, era arrivato fin lì e il do’hao sembrava essersi calmato.

Perché non continuare ora che, finalmente, stavano avendo una conversazione civile?

“Che vuoi dire?” domandò a sua volta Sakuragi interessato, a quel punto, a saperne di più.

“Pensavo l’avessi trovato già morto” disse semplicemente Rukawa, con i suoi modi spicci.

Non serviva specificare il soggetto, Sakuragi avrebbe capito benissimo di chi stava parlando.

Non serviva fare discorsi inutili, Sakuragi avrebbe capito benissimo lui cosa intendeva.

Sorrise senza saperne realmente il motivo.

Per molto tempo aveva amato la solitudine e la amava ancora.

Ma soprattutto amava quel do’hao borioso e casinista.

Perché con lui poteva essere se stesso.

Sakuragi vide le labbra di Rukawa piegarsi in un sorriso e ricambiò istintivamente.

E così, dal suo racconto, Rukawa aveva tratto le sue conclusioni.

Aveva pensato che lui, una volta entrato, avesse trovato il padre già morto.

Beh… quanto era andato vicino alla verità!

E quanto lo conosceva il compagno di squadra, per essere corso lì dopo quello che era successo nel pomeriggio.

Aveva capito, infatti, quale fosse il suo reale malessere.

E lo stesso doveva valere anche per Yohei, considerò. Aveva sempre letto negli occhi dell’amico il sospetto ma aveva accantonato la faccenda.

E Yo si era adeguato al suo comportamento.

Era per questo che aveva voluto che anche lui sapesse la verità, valutò volgendo uno sguardo alla porta.

Rukawa… Yohei… l’armata… la sua famiglia.

La sua attuale famiglia.

E, proprio come tutte le famiglie, i componenti erano corsi ad aiutarlo nel momento del bisogno.

Rukawa con il suo cazzotto e anche con buona dose della sua arroganza.

Yohei con la sua pacatezza e la sua figura silenziosa.

E Hanamichi sentiva di aver fatto la cosa giusta.

Per la prima volta nella sua vita, sentiva di aver fatto bene a condividere il suo dolore.

Un dolore che lo spaventava ancora ma dentro il quale non sarebbe più affondato.

Un dolore che aveva condiviso con le persone più importanti per lui.

Persone che lo aiutavano a rimanere ancorato alla realtà.

Rukawa il suo presente.

Yohei il suo passato.

E lui invece in bilico fra i ricordi. In bilico tra il presente e il passato.

In bilico tra due mani che non lo avrebbero lasciato cadere e che, poco a poco, lo avrebbero aiutato a trovare il suo posto nel mondo.

Perché, per la prima volta dopo tanto tempo, Hanamichi pensava al futuro.

Ma non al futuro inteso come il giorno successivo.

Pensava piuttosto a quello che volesse realmente fare della sua vita, oltre che tirare a campare e trascinarsi in giorni che troppo si assomigliavano tra loro.

Un futuro rappresentato da lui e dalla sua incrollabile amicizia con Yohei, dove entrambi programmavano obiettivi e ridevano insieme degli insuccessi.

E forse… anche con Rukawa.

La voce del numero undici lo riscosse, ancora una volta, dalle sue riflessioni.

“Perché vivi così?”.

Fu questa la domanda di Rukawa.

Prevedibilissima, tra l’altro.

Sakuragi sospirò; sapeva che, prima o poi durante la serata, si sarebbe arrivati a quello.

“A scuola non deve arrivare nessuna voce di ciò. Finirei nei guai” disse come preambolo.

Era importante che Rukawa afferrasse la situazione nella sua gravità.

L’altro alzò un sopracciglio perplesso e Sakuragi dovette leggere bene quello sguardo visto che si affrettò ad aggiungere:

“Sono minorenne kitsune, te lo sei dimenticato? E lo sarò ancora per molti anni, purtroppo” concluse afflitto.

E Rukawa comprese, anche se faticava a crederci.

“Vivi da solo?” domandò senza pensarci, per poi complimentarsi con se stesso per la stupidità della domanda.

Bravo Kaede, continua così!

Del resto, era evidente che la risposta fosse affermativa.

Sakuragi annuì in risposta.

“Di fianco, abita la mia padrona di casa” aggiunse chiarendo il concetto.

Quindi quella donna…considerò fra se Rukawa.

“Non sa che sei minorenne!” affermò sicuro, completando ad alta voce il suo pensiero.

“E invece lo sa, kitsune!” lo contraddisse Sakuragi, con un sorriso stampato in volto.

“Ma è illegale!” fu la risposta di Rukawa, che proprio non era riuscito a trattenersi.

Sakuragi sbuffò di rimando.

“Sai, si vede che sei un signorino di buona famiglia!” lo sfotté, ricevendo la peggior occhiata inceneritrice del repertorio del numero undici.

“Hai visto in che quartiere siamo, kitsune? Qui nessuno fa domande. E poi, quella donna ha bisogno di vivere.

Quando, tempo fa, capì che non le avrei creato problemi non esitò ad affittarmi la stanza.

Lei avrebbe tirato avanti e, in qualche modo, questo avrebbe giovato anche a me”.

Ecco perché era così preoccupato prima, capì a quel punto Rukawa.

Anche lui viveva solo ma suo padre aveva comunque la residenza nella casa dove abitava.

E poi, gli aveva messo un domestico presente ventiquattro ore su ventiquattro, proprio per non avere problemi, essendo il figlio ancora minorenne.

Per questo non avrebbe minimamente immaginato che Sakuragi vivesse così.

Diede un occhio alla stanza in cui si trovava.

Prima non l’aveva fatto, troppo preso dagli sbalzi d’umore del numero dieci.

In effetti, definirlo appartamento non sarebbe stato appropriato.

La casa si componeva, infatti, di un’unica stanza, grande poco più della sua camera.

A destra c’era un piccolo angolo cucina, arrangiato come meglio si poteva. Rukawa dubitava anche che ci fosse il gas a quel punto.

A sinistra c’era il letto e per terra vi erano ammonticchiate le poche cose che Sakuragi aveva portato con sé.

Era tutto ordinato e pulito, ma tremendamente spoglio.

Rukawa notò che non c’era il telefono e nemmeno un televisore.

Diede un’occhiata alla porta che aveva di fronte.

Doveva essere il bagno, considerò a quel punto.

“Hai finito?”.

La voce di Sakuragi interruppe le sue riflessioni.

“In effetti, non ho le comodità che ci sono a casa tua” continuò, avendo seguito lo sguardo di Rukawa nelle sue osservazioni.

“Tra l’altro, non ho neanche l’acqua calda a volte” concluse ironico.

Rukawa tuttavia era sbigottito ora.

Non se la sentiva di condividere l’ironia dell’altro.

Voleva solo sapere. Sapere perché si fosse ridotto a vivere così.

“Ma perché?” domandò serio.

Il suo sguardo non ammetteva repliche.

“Perché cosa, baka?” scattò a quel punto Sakuragi.

“Perché non ho le comodità di casa tua? Perché vivo in questo quartiere e in questo modo?

Cosa c’è di sbagliato? Cos’ha che non va il sapersi mantenere da solo e non dover dipendere da nessuno?”.

“Non hai nessuno?” domandò ancora Rukawa.

In effetti, sapeva di stare tirando la corda ma non gli importava nulla.

“Se non avessi nessuno starei in un istituto!” rispose Sakuragi tagliente.

“Appunto!” rispose con ovvietà Rukawa.

“Sei insistente, kitsune!” costatò Sakuragi con tono rassegnato.

“È uno dei miei pregi” sibilò di rimando l’altro.

“Il fratello di mio padre è il mio tutore” si rassegnò allora a spiegare Sakuragi.

“In teoria, viviamo tutti e due nella vecchia casa dei miei genitori.

In pratica, invece, io sono qui e lui non ho idea in che parte di Tokyo viva”.

“E la cosa ti sta bene?” continuò ancora l’altro.

Come poteva Sakuragi rassegnarsi a vivere così?

Come poteva, quella che era la sua famiglia, farlo vivere così?

“La cosa mi sta benissimo, Rukawa. Non potrei vivere con una persona che mi disprezza. E che io detesto.

Quando anche mia madre morì” incominciò a raccontare, “mio zio fu chiaro con me.

Non voleva tra i piedi il figlio di un fratello che la famiglia aveva rinnegato perché sposato un occidentale.

Io ero d’accordo con lui. Non volevo che abitasse nella casa di una persona che aveva sempre disprezzato.

Divenne il mio tutore legalmente ma non abbiamo convissuto nemmeno un giorno insieme.

Per qualche anno, ho vissuto da Yo. Prima di iniziare la scuola ho trovato questa soluzione che mi rende indipendente. Certo, devo lavorare per mangiare però mi sta bene così”.

“Non è un suo dovere mantenerti?” domandò ancora Rukawa, mentre sentiva un odio profondo montargli dentro.

Che colpe poteva mai avere Sakuragi per essere punito in quel modo?

Perché doveva essere esiliato dalla sua stessa famiglia, solo perché il padre era andato contro le tradizioni?

L’odio verso questo fantomatico zio crebbe, come crebbe ancor di più l’odio per quella dannata società così maledettamente chiusa.

Ma lui sarebbe andato via. E avrebbe portato Sakuragi con sé. A tutti i costi!

“Certo che lo è” gli rispose uno strafottente Hanamichi con tono di scherno.

“Ma vai tu a ricordarglielo che mensilmente dovrebbe passarmi i soldi che mi deve?” domandò ironico.

“Da quanto tempo non ti mantiene più?” domandò ancora Rukawa, sempre più allibito.

Non poteva credere anche a quello. Eppure, le cose stavano così.

Il padre, viaggiando spesso, provvedeva a tutte le sue spese.

Poi, anche se trasferitosi a Tokyo, gli passava comunque un assegno mensile.

Si ritenne, per la prima volta, fortunato ad avere un padre. Si ritenne, per la prima volta, fortunato ad avere qualcuno.

“Da quando è iniziata la scuola. Ma la cosa non è un problema. Io non ho mai usato i suoi soldi se non per mantenere la casa dei miei genitori” continuò Sakuragi.

Vedendo il volto interrogativo dell’altro, si affrettò a spiegare.

“Era di proprietà di mio padre e non l’ho persa. Inoltre, mio zio non può farne niente perché, in teoria, lui abita lì con me.

Però ho fatto in modo che tutto lì dentro funzionasse ancora.

Tra l’altro, quando sarò maggiorenne, potrò usufruire del fondo che i miei genitori hanno fatto per me”.

“A costo di vivere così?” insistette Rukawa.

Non voleva che l’altro vivesse così. Prima, aveva pensato che quella casa desse un senso di spoglio. Ora invece capiva che si percepiva l’abbandono.

L’abbandono che Sakuragi aveva ricevuto. Il rifiuto che aveva subito.

E lui non voleva che l’altro si sentisse abbandonato. Perché lui non lo avrebbe lasciato mai.

Lui non voleva che l’altro si sentisse rifiutato. Perché lui lo voleva. Esattamente com’era.

“Si” si alterò ancora Sakuragi, “ a costo di vivere così!”.

“ E non accetto critiche su questo” aggiunse deciso.

“È una cosa in cui non interferisce nessuno” concluse, fissando l’altro.

Rukawa capì, dallo sguardo risoluto dell’altro, che su quello non gli avrebbe fatto cambiare idea.

Lui in quella casa c’era stato, anche se all’insaputa del numero dieci, e da un lato si trovava d’accordo con lui.

Neanche lui, infatti, aveva rimosso gli oggetti di sua madre dopo la sua morte.

“I parenti di tua madre?” domandò ancora.

Di solito non era una persona incalzante ma Sakuragi stravolgeva tutto il suo modo di essere.

“Sono delle persone straordinarie. Ho visto poco i miei nonni, ma mi vogliono molto bene. Sai però che sarebbe stato complicato andare a vivere con loro”.

“Capisco” disse solamente Rukawa.

Ora non aveva più nulla da chiedere. Non sulla vita dell’altro almeno.

Era triste la vita di Sakuragi. Lo era stata in passato e continuava a esserlo.

Ma lui avrebbe cambiato le cose.

Fu perciò che gli fece quella proposta che celava, da tanto tempo, nel suo cuore.

“Vieni a stare da me!”.

“C-cosa?” domandò incredulo Sakuragi

Era sicuro, ora, di avere seri problemi di udito.

“Vieni a stare da me” ripeté ancora una volta Rukawa e, senza aspettare risposta, si avvicinò al letto iniziando a spogliarsi.

Sakuragi, ancora troppo sorpreso per quello che avevano sentito le sue orecchie, seguì i movimenti dell’altro con gli occhi fuori dalle orbite.

Quando realizzò che l’altro si stava spogliando il suo colorito divenne di un rosso acceso.

“Che diamine stai facendo, baka?” urlò, al culmine dell’imbarazzo.

“Sono troppo stanco per tornare a casa” rispose questi, guardandolo come se fosse un idiota.

Non sapeva dove l’avrebbe portato il suo comportamento. Non sapeva se Sakuragi si sarebbe mostrato ancora così cordiale.

Ma non gli importava nulla se non di fare, tanto per cambiare, di testa sua.

Non l’avrebbe lasciato da solo. Mai più!

“ E domani dobbiamo giocare” aggiunse, mettendosi a letto.

“Anche se tu potresti anche non presentarti” lo provocò, prima di dargli le spalle.

“COME SAREBBE A DIRE?” esplose a quel punto Sakuragi. 

“QUELLO È IL MIO LETTO!” aggiunse poi senza logica.

Rukawa chiuse gli occhi, non calcolandolo minimamente.

“SEI SORDO RUKAWA?” urlò ancora schiumante di rabbia, avvicinandosi all’altro.

“Sta zitto o sveglierai tutto il quartiere!” rispose saccente il numero undici.

“Questo è il mio letto!” piagnucolò incoerente Sakuragi, con tono lamentoso ma, decisamente, più basso.

“Ed io sono l’ospite” fu la pronta risposta di Rukawa.

“Adesso dormi, se vuoi concludere qualcosa di buono domani” concluse poi.

“Non darmi ordini, baka kitsune!” replicò Sakuragi, andando tuttavia a mettersi nella sua parte di letto e cercando di mantenersi il più possibile lontano da Rukawa.

Cosa alquanto difficile però, considerando che quello era un semplice letto a una piazza.

Non poté quindi impedire che la sua schiena andasse a sfiorare la schiena dell’altro.

Ma tu guarda che cavolo di situazione, pensò Sakuragi chiudendo gli occhi e sentendosi, tuttavia, rilassato.

Non avrebbe saputo dire come si era arrivati a quel punto.

Però… in fondo la cosa non gli dispiaceva.

Vieni a stare da me.

La proposta di Rukawa gli balenò nella mente.

Era del tutto illogica e irrazionale eppure l’idea iniziò a solleticargli nella testa.

Fu per questo che dopo qualche minuto spezzò nuovamente il silenzio.

“Ehi kitsune!” lo chiamò.

“Mh” fu il mugolio di Rukawa.

“Io adoro il caffè”.

Una costatazione senza logica apparente. Eppure, sapeva che Rukawa avrebbe capito.

E, infatti, Rukawa capì.

Capì che era un modo per chiedergli di accettare il suo essere per metà occidentale.

Un modo per fargli capire le sue abitudini.

Un modo per dirgli che avrebbe pensato alla sua proposta, che tanto assurda non sembrava più.

Fu per questo che Rukawa rispose in tutta tranquillità.

“Non vedo dov’è il problema, do’hao. Anzi” e si girò cingendogli la schiena con un braccio e avvicinando il volto all’orecchio dell’altro.

“Poi me lo farai assaggiare” e chiuse gli occhi appoggiando la fronte sulla schiena del numero dieci.

Sakuragi non si era ritratto a quel contatto.

Sul suo volto era apparso un sorriso.

Un sorriso vero.

“Contaci” rispose solamente e chiuse gli occhi.

Aveva capito il significato della richiesta di Rukawa.

Lo accettava per quello che era.

Anzi… gli chiedeva di entrare a fare parte del suo mondo.

Fu con questi pensieri che si addormentò.

Fu con l’animo più sereno che si addormentarono entrambi.

La crisi era passata. Sicuramente ci sarebbero stati altri momenti bui ma, per adesso, entrambi si godevano le sensazioni di una ritrovata pace.

Fu così che dormirono tutta la notte.

Ognuno cullato dal confortante calore dell’altro.
 

Continua…
 
Note:

Questo capitolo è la mia personale conclusione del pomeriggio ambientato nella puntata 66 dell’anime.

Vi  do alcuni chiarimenti di vario genere per una corretta comprensione del capitolo:

In Giappone si diventa maggiorenni a vent’anni (anche se è in corso una legge per abbassare la maggiore età a diciotto anni). Per questo Hanamichi dice che per lui ci vuole ancora molto tempo.

Piccola curiosità: In Giappone un minore non può né comprare alcolici né tabacco tuttavia bastano diciotto anni per prendere la patente (di una macchina; per le moto ne occorrono sedici). Inoltre, chi ha meno di quattordici anni non può avere soldi con sé, né andare in un locale per mangiare qualcosa se non in presenza di un accompagnatore.

In Giappone come in Italia un minore non può abitare da solo né entrare in possesso delle proprietà di famiglia. Se però il minore deve rimanere da solo per necessità familiari (frequenti viaggi di lavoro di entrambi i genitori) i genitori devono comunicarlo alla scuola oltre a versare mensilmente le spese necessarie al minore. È inoltre consigliabile, ma non obbligatorio, assumere un adulto.

Le scuole Giapponesi sono molto rigide essendo ritenute il periodo cruciale dell’educazione del ragazzo.

Se arrivasse voce a scuola del disagio del minore, questi rischierebbe l’espulsione e, essendo la carriera scolastica giapponese parte del curriculum dell’individuo, il ragazzo avrebbe serie difficoltà in futuro nel trovare un lavoro.  Per questo Hanamichi è così preoccupato che la sua situazione arrivi a scuola.

Piccola curiosità: In Giappone se si viene bocciati si è costretti a cambiare scuola e la bocciatura avrà ripercussioni sulla carriera dell’individuo venendo vista come un disonore a vita.

In Giappone come in Italia è possibile dichiarare la residenza in un posto e il domicilio in un altro.

Nel caso di un minore basta la residenza del tutore di quest’ultimo.

A causa delle leggi restrittive giapponesi, l’affidamento di un minore a un parente occidentale non risiedente in Giappone risulta estremamente difficile se il minore ha parenti vivi giapponesi risiedenti in patria.

Per questo quando Rukawa chiede dei parenti occidentali di Hanamichi questi gli risponde che sarebbe stato complicato e Rukawa capisce cosa intende.

Per capire invece le ultime battute (riguardo il caffè) mettiamoci un po’ nei panni orientali facendo luce sulle loro usanze:

Il caffè anni addietro non era molto diffuso ne apprezzato  perché il forte odore era ritenuto nauseante.

Nell’attualità, il Giappone è diventato il terzo consumatore mondiale di caffè. La bevanda rimane comunque costosa e poco diffusa. Di certo non ce n’è il largo uso che c’è in Italia. È quasi impensabile, infatti, trovarlo nei distributori automatici.
Inoltre, i Giapponesi per prepararlo in casa non hanno la nostra classica macchinetta del caffè (credo che sia inesistente in Giappone) ma una specie di bollitore dato che consumano caffè solubile.

Hanamichi invece essendo per metà occidentale apprezza la bevanda. Gli irlandesi, a differenza degli inglesi, ne fanno largo uso come bevanda pomeridiana avendo creato una ricetta tutta loro di caffè (il famoso Irish Coffee).

Ed è proprio a questo che Rukawa si riferisce quando chiede alla testa rossa di prepararglielo.

Tra l’altro, è per questo che Mito, nei capitoli addietro, prepara il caffè a Hanamichi e non il classico the.

In quel capitolo non si tratta comunque del caffè irlandese, visto che questo prevede una base alcolica.
 
Inoltre quella del caffè è una metafora. Infatti, è un modo per Hanamichi di farsi conoscere meglio ed è un modo per Rukawa di far capire che accetta l’altro con tutte le sue stramberie.

Rukawa, infatti, essendo orientale, capisce immediatamente il significato della frase, prendendola appunto come un’abitudine occidentale dell’altro.

Ho ritenuto opportuno specificare questo nelle note, altrimenti la storia sarebbe diventata una trattazione.

Spero comunque che il capitolo sia risultato abbastanza chiaro e scorrevole e che vi sia piaciuto!!

Mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate.

Ci vediamo domenica prossima con il nuovo capitolo.

Pandora86

   

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Capitolo 35
*** L'ultima partita - Prima parte ***


Eccomi con il nuovo capitolo della fic.
Grazie a chi ha commentato lo scorso capitolo, e anche a chi continua a inserire la storia tra le preferite e le seguite.
Ovviamente grazie anche a tutti i lettori silenziosi.
Ci vediamo a fine capitolo per le note e le informazioni riguardo le prossime pubblicazioni. 
Mi scuso in anticipo per eventuali errori. Leggo e rileggo ma sapete com’è… qualcosa sfugge sempre!!
Per adesso, buona lettura.
 
 
Capitolo 34. L’ultima partita – Prima parte
 
Rukawa si apprestava a uscire di casa.

Quella mattina si era alzato prima dei suoi normali standard ma del resto, quando c’era una partita, aveva un orologio incorporato.

Aveva lasciato il do’hao addormentato. Prima di andarsene, si era soffermato un minuto a osservare la sua figura, non potendo fare a meno di sfiorare le labbra di Hanamichi con le sue.

Poi si era fatto forza ed era andato via.

Gli era dispiaciuto allontanarsi da lì ma sapeva che era la cosa migliore per Hanamichi.

Non era ancora pronto a confrontarsi con gli altri, soprattutto dopo la giornata di ieri e arrivare insieme sarebbe risultato alquanto insolito.

Inoltre, il risveglio sarebbe stato imbarazzante per il numero dieci considerando che lui gli era stato vicino in un momento di debolezza.

Non gli era costato ma era un duro colpo per l’orgoglio dell’altro, che aveva bisogno di tempo per assimilare il tutto.

Però, anche se era andato via, non aveva potuto fare a meno di lasciargli un biglietto.

Sorrise al pensiero della faccia dell’altro quando avrebbe letto ciò che aveva scritto e si avviò verso la scuola a bordo della sua inseparabile bicicletta.

Ora doveva solo pensare a vincere la partita.
 
 
***
 

Molto distante dalla scuola, un urlo disumano svegliò un intero quartiere.

“PERCHÈ NON CREPI RUKAWA?”.

Furono queste le prime parole di Hanamichi dopo il suo risveglio.

Quando aveva aperto gli occhi, si era guardato intorno alla ricerca dell’altro.

Non avendolo trovato, aveva tirato un sospiro di sollievo.

Sarebbe stato troppo imbarazzante affrontarlo quella mattina.

Poi qualcosa aveva attirato il suo sguardo: un biglietto poggiato sul letto al posto occupato da Rukawa.

L’aveva afferrato curioso, capendo subito chi ne fosse l’autore.
 
Cerca di svegliarti in tempo do’hao. Altrimenti come farai a farti espellere?
                                                                         
                                                                    Rukawa  (l’asso dello Shohoku)

P.S. Mi devi un caffè!
 
Sakuragi sorrise leggendo più volte le ultime parole.

“Contaci, Kitsune!” fu la risposta a quelle poche righe.

Si alzò velocemente. Ora aveva una partita da giocare. E niente l’avrebbe distratto.
 

***
 

Yohei sedeva impaziente sugli spalti. A breve avrebbero presentato i giocatori delle squadre e poi sarebbe iniziata la partita.

Quella mattina era giunto allo stadio insieme all’inseparabile armata con il cuore più leggero.

Sapeva che Hanamichi si era ripreso, come stava a dimostrare il fatto che avesse pungolato Sendoh appena arrivato allo stadio.

Lui aveva osservato la scena dagli spalti ridendo di cuore.

Aveva osservato anche Rukawa trovandolo più scontroso del solito ma, vedendo che il suo sguardo truce era proiettato verso il numero sette della squadra avversaria, aveva capito che la sua mente era completamente rivolta alla partita.

Era contento anche per lui, in fondo. In quei mesi l’aveva conosciuto meglio e si era convinto sempre più che fosse la persona giusta per Hanamichi.

All’inizio gli era indifferente. Il motivo per cui lo aveva notato era stato solo perché il suo migliore amico mostrava interesse verso di lui.

Poi, aveva iniziato ad apprezzarlo come persona.

Era davvero un ragazzo a posto.

Non mi dispiacerà come cognato, pensò ironicamente mentre veniva annunciato il suo nome.

Dal canto suo, dopo sapeva che avrebbe dovuto affrontare delle questioni con Hanamichi, ma questo ora non aveva importanza.

L’arbitro aveva fischiato. La partita era incominciata.

Forza ragazzi! Li incoraggiò silenziosamente. Mettetecela tutta.
 

***
 

Era pomeriggio inoltrato.

Rukawa era steso sul letto con una mano distesa lungo il fianco e un’altra ad accarezzare, inconsciamente, la parte di letto occupata tempo prima dal do’hao.

Abbiamo vinto.

Era questo, quello che pensava; il suo sogno stava divenendo realtà.

Avrebbe voluto condividere quella vittoria con il do’hao ma questi si era dileguato con Mito dopo l’annuncio di vittoria al coach.

Mito era lì che aspettava fuori dall’ospedale e Sakuragi, non appena lo aveva visto, si era allontanato con lui.

Sembrava avessero delle questioni in sospeso ma non se ne era preoccupato.

In fondo, quei due erano troppo legati tra loro per avere qualche problema serio nel loro rapporto.

Ripensò alla partita e ai momenti che aveva vissuto in quei quaranta minuti.

Sorrise, ripensando a come aveva frenato il do’hao dopo la stoppata irregolare.

Vederlo saltare in quel modo lo aveva fatto rabbrividire.

Mai aveva visto una stoppata irregolare in una partita di liceo.

Sakuragi aveva compiuto il suo primo miracolo.

Ma poi era dovuto intervenire visto che insultare l’arbitro avrebbe costato a Hanamichi un altro fallo.

Ricordava di essere ribollito di rabbia quando Sendoh lo aveva insultato dicendogli di non aver ancora imparato a giocare.

Aspetta che faccia vedere quello che sa fare aveva pensato, ma non era intervenuto visto che Sakuragi aveva fatto tutto da sé.

Aveva ricordato a Sendoh che lo Shohoku non aveva mai perso due volte contro la stessa squadra e poi aveva tirato sotto canestro.

Rukawa si era sentito fiero di lui.

Ovviamente poi aveva iniziato i suoi show e lui non aveva potuto fare a meno di provocarlo.

In effetti, Sakuragi si era esaltato talmente tanto da centrare poi un cronista a bordo campo con uno dei suoi passaggi.

Dopo aver preso un rimbalzo eccezionale, però.

È stata una strana partita, pensò Rukawa accennando un mezzo sorriso.
 
I primi minuti erano stati tutti di Sakuragi. Che ora faceva una pagliacciata, poi compiva una cosa eccezionale. Poi ancora una pagliacciata che era seguita da un’azione straordinaria.

Lui era stato uno spettatore, soprattutto nel primo tempo. Ma, del resto, aveva in mente la sua tattica.

Poi erano cominciati i guai. Sakuragi si era fatto beffare da Fukuda e Uozumi aveva commesso fallo su Akagi.

Sakuragi aveva sempre più problemi a bloccare Fukuda, anzi, non ci riusciva per niente.

Invece Akagi sembrava bloccato da qualcosa. Probabilmente il ricordo dell’infortunio gli impediva di giocare liberamente. In pratica, stavano giocando solo in tre.

Anche se poi qualcosa era cambiato in Sakuragi. Si era reso conto che Akagi non stava giocando per niente ed era intervenuto per fermare Uozumi sotto canestro.

Ci era riuscito ma erano caduti a terra violentemente.

Rukawa ripensò a quella scena provando un brivido lungo la schiena.

Dannato do’hao mi hai fatto preoccupare!  Inveì mentalmente contro Sakuragi.

Mitsui si era avvicinato a Hanamichi domandandogli se stesse bene, lui invece era rimasto immobile, troppo preoccupato per fare qualunque cosa.

Ma poi Sakuragi si era alzato. E li aveva sorpresi tutti con quella frase.

“Se credi di poter fare quello che ti pare sotto canestro, ti sbagli di grosso”.

Era questo, quello che Sakuragi aveva detto rivolto a Uozumi. E lui si era sentito, ancora una volta, orgoglioso di lui.

Del suo talento, della sua intraprendenza. Ma soprattutto, del suo non aver paura di niente, buttandosi a capofitto in tutte le situazioni, anche a costo di farsi male seriamente.

Ma questo non era servito a dare una svegliata a Akagi che aveva permesso successivamente al Ryonan di segnare.

Mitsui si era innervosito e Kogure aveva deciso di chiamare il primo time out.

Il tabellone dei punti intanto segnava:

Shohoku 4 – Ryonan 13.

Durante l’intervallo, la situazione della squadra non era migliorata.

Rukawa ripensò alle parole di Hanamichi in quel frangente.

“Il nostro punto debole è Akagi.

Visto che è fuori uso, sarò io a prendere il suo posto”.

Ha maledettamente ragione, aveva pensato Rukawa a quel punto.

La partita stava andando male e lui non aveva ancora fatto nulla anche se per sua scelta. Tuttavia, era stata una scelta obbligata visto che contro il Kainan aveva speso gran parte delle energie, proprio nel primo tempo.

Era stato per questo che non era riuscito a trattenersi dal provocarlo, ancora una volta.

“Un brocco come te?” era intervenuto allora.

E, come volevasi dimostrare, Sakuragi era andato su tutte le furie e aveva iniziato a sproloquiare.

“Hai forse paura di Sendoh?” aveva domandato.

Allora se n’è accorto!
Era stato il suo pensiero, in quel momento. Era sorpreso. Non pensava che il do’hao lo tenesse d’occhio.

Forse aveva pensato che qualcosa non andasse. Sicuramente, si stava chiedendo perché fosse così passivo agli attacchi del numero sette del Ryonan.

Per questo l’aveva rassicurato.

“Paura?” aveva ripetuto sarcastico. Il suo sguardo determinato non ammetteva repliche.

Erano intervenuti gli altri ma Sakuragi aveva continuato a battere su quel punto.

Evidentemente voleva sapere cosa stava succedendo.

“Dimmi un po’ Rukawa, se non mi sbaglio, non hai toccato neanche una volta la palla. Come ci si sente a essere completamente inutile, eh fallito?” l’aveva provocato.

“Non ti do neanche ascolto” lo aveva liquidato.

Non aveva senso reagire alle sue provocazioni. Non aveva senso che Sakuragi si preoccupasse del suo comportamento quando non riusciva a bloccare Fukuda.

Non aveva senso, se Akagi continuava a non giocare.

Il capitano aveva seguito i discorsi, non partecipando minimamente alla conversazione.

Anche se qualcosa doveva essergli arrivato visto che aveva poi deciso di darsi una svegliata.

E ovviamente Sakuragi, tanto per cambiare, aveva deciso di aiutarlo rifilandogli una testata che però, sembrava aver sortito l’effetto desiderato.

Ed erano rientrati in campo.

Akagi finalmente si era svegliato.

Sotto canestro, avevano dominato solo Sakuragi e il capitano.

E Rukawa era rimasto ad ammirare il susseguirsi di quelle azioni con il fiato sospeso.

Così come era rimasto senza fiato quando Uozumi aveva sbattuto violentemente a terra Sakuragi.

In effetti, era stata la partita in cui si era preoccupato di più per la testa rossa.

Non si rialzava e pensava si fosse fatto male sul serio.

Si erano avvicinati tutti e l’aveva provocato sperando che non si fosse fatto niente.

“Forse mi sono liberato di lui!” aveva detto, sperando che l’altro si rialzasse andando su tutte le furie.

Ma Hanamichi non si alzava. E la sua ansia cresceva.

In realtà, Hanamichi stava rimuginando sulla sua azione mancata e sul fatto di essersi fatto spazzare via così facilmente.

Doveva essere stato un momento orribile conoscendo il suo smisurato orgoglio e, di conseguenza, aveva indossato la sua maschera preferita: quella del buffone.

Quella di chi non si cura di quanto ci si renda ridicolo.

E aveva dato il via a uno dei suoi soliti show. Era intervenuta persino parte dell’armata.

Poi si era calmato e finalmente il gioco era ripreso.

Rukawa gli avrebbe volentieri mollato un pugno per averlo fatto preoccupare inutilmente.

Kogure lo aveva incoraggiato, dispiacendosi per la bellissima azione mancata del numero dieci e Rukawa si era trovato pienamente d’accordo.

“Aiutaci a vincere!”aveva detto il vice capitano e Rukawa aveva potuto nuovamente vedere il volto di Sakuragi che tanto cercava.
 Il suo vero volto.

Un volto sensibile. Un volto responsabile. Un volto determinato.

Per questo era intervenuto, prendendo poi il rimbalzo sul suo secondo tiro mancato.

Per questo aveva deciso di entrare anche lui in partita.

Aveva scartato Sendoh ed evitato Uozumi, effettuando un passaggio a Akagi che aveva recuperato il secondo punto mancato di Sakuragi.

Il Ryonan iniziava a essere in difficoltà e il coach aveva poi chiamato il time out.

Ed erano iniziati nuovamente i problemi per lo Shohoku.

Sakuragi non riusciva a bloccare Fukuda e di conseguenza era intervenuto.

Era più forte di lui. Aveva una calamita verso Sakuragi. Doveva parlargli. Doveva cercare di aiutarlo.

“Io lo sapevo già che non vali nulla. Ora lo sanno anche gli altri!” erano state queste le sue parole.

E poi aveva continuato.

“Rischiamo di perdere la partita per colpa tua!” aveva detto, sperando che Sakuragi capisse.

Doveva capire. Contro il Kainan gli aveva detto che lui, come giocatore, non era in grado di decidere le sorti di una partita.

Ora invece, con i suoi progressi, era diventato fondamentale.

Ed era necessario che lo capisse. Anche se il Ryonan si approfittava della sua inesperienza. Anche se Fukuda sembrava inarrestabile.
Lui doveva farcela. Lui poteva farcela!

Poi si era allontanato.

Spero che questo basti, aveva pensato.

Ma, purtroppo, non era bastato.

Fukuda aveva continuato a segnare un canestro dopo l’altro e poi si era messo in mezzo anche Sendoh. Lui, anche se era intervenuto, aveva potuto fare ben poco, sia per fermare l’avanzata del Ryonan, sia per aiutare il do’hao.

Nonostante tutto, però Sakuragi aveva provato a contrastare Fukuda fino all’ultimo. Anche se poi era atterrato in malo modo finendo per sbattere contro le sedie a bordo campo.

Rukawa aveva visto con orrore il sangue macchiare il pavimento.

Aveva visto con orrore il sangue macchiare il volto di Hanamichi.

Come se non bastasse, poi Fukuda aveva deciso di rimarcare la sua superiorità.

Sakuragi era stato sostituito per essere medicato.

Hanamichi non aveva risposto alle provocazioni di Fukuda. Non aveva risposto a Kogure che gli chiedeva se stava bene. Si era fatto condurre in silenzio vicino alla loro panchina, non calcolando nessuno.

Rukawa poteva percepire la sua rabbia; la stessa che provava lui.

 Ricordava che la sorella del capitano aveva provato ad avvicinarsi a Hanamichi mentre Ayako lo medicava.

Come se dovesse esserci lei vicino a lui.

Come se ne avesse diritto. Era stato questo il pensiero di Rukawa in quel momento.

Per fortuna Ayako l’aveva fermata.

Il gioco poi era ripreso ed era finito il primo tempo; erano anche riusciti a recuperare qualche punto. Mitsui aveva abbastanza esperienza per bloccare Fukuda.

Il tabellone segnava:

Shohoku 26 – Ryonan 32.

Il tiro da tre punti di Mitsui, tuttavia, aveva risollevato il morale della squadra e negli spogliatoi anche l’umore di Sakuragi sembrava essere migliorato.

Rukawa ripensò al loro scambio di battute.

“Finiscila di fare il bamboccio! Sei cresciutello!” gli aveva intimato dopo che aveva quasi sfondato l’armadietto a suon di pugni.

E Sakuragi sembrava aver reagito.

Era, infatti, ritornato sull’argomento Sendoh chiamandolo perdente ma lui non aveva risposto.

Presto capirai cosa ho in mente, aveva pensato bevendo dalla lattina e osservando lo show di Sakuragi che piagnucolava per la sua Harukina.

Ayako, infatti, gli aveva riferito che era preoccupata per la sua ferita.

Stava decisamente meglio, aveva decretato con rabbia, se aveva voglia di fare l’imbecille. In fondo, poteva continuare a sbandierare i suoi Harukina alla popolazione mondiale. La cosa non lo toccava minimamente.

È con me che hai dormito Hanamichi, non con lei. Era stato questo il suo pensiero osservando gli atteggiamenti del numero dieci.

Poi si era completamente concentrato sul secondo tempo. Ora la partita incominciava anche per lui. E lo avrebbero capito tutti.

Il secondo tempo era iniziato. E lo Shohoku ora dominava.

Ora avevano un solo punto di distacco dal Ryonan e Sakuragi aveva cominciato i suoi soliti show.

In effetti, rifletté Rukawa, li aveva cominciati quando lui aveva affermato che avrebbe battuto Sendoh.

Anzi… sembrava molto infastidito.

E così sei geloso, eh Hanamichi? Pensò sorridendo.

E finalmente, dopo di lui, anche Hanamichi era entrato in partita. Rukawa lo aveva visto sfruttare appieno il suo talento da rimbalzista che aveva costretto Uozumi a commettere il quarto fallo.

Ora il Ryonan era scoperto sotto canestro.

E Sakuragi aveva preso un rimbalzo dopo l’altro. Anche il capitano l’aveva lodato.

E lui non aveva potuto fare a meno di farsi notare, ancora una volta, da Sakuragi provocandolo con una battutaccia.

Certo poi, tanto per cambiare, Sakuragi ne aveva combinata una delle sue mandando la palla nel proprio canestro, ma non aveva importanza.

Neanche Akagi l’aveva rimproverato. Oramai erano troppo carichi per perdere.

E lo dimostrava la stoppata fenomenale che aveva fatto Sakuragi pochi minuti dopo. Persino il pubblico aveva acclamato il suo nome.

Era stata una partita memorabile, combattuta fino all’ultimo secondo, istante per istante.

Era stata dura giocare contro Sendoh e anche Sakuragi doveva essersene accorto.

Ripensò alle sue parole dopo l’ennesimo canestro del numero sette.

“Ehi, non è compito tuo marcare Sendoh? Gli stai aiutando a fare punti?”.

Lui ovviamente si era allontanato rifilandogli una spallata.

“Levati di mezzo!” gli aveva intimato mentre, dentro di sé, il suo pensiero era un altro.

Grazie! Vedrai, lo batterò! 

E sapeva che anche Sakuragi aveva capito. Era quello il loro rapporto. Era quello il loro modo di fare.

In fondo, lui aveva sempre cercato di spronare Sakuragi con battute acide e sarcasmo.

Cercava di fare leva sul suo smisurato orgoglio.

E Sakuragi in questa partita stava facendo lo stesso con lui; per la prima volta probabilmente Sakuragi lo stava provocando per farlo reagire.

Non per insultarlo. Non per denigrarlo. Lo stava provocando esattamente come aveva sempre fatto Rukawa con lui.

In effetti, rifletté il numero undici, non avevano mai parlato tanto in una partita.

Anche gli insulti non erano mai stati così continui e frequenti.

E, in cuor suo sorrise. Perché erano stati loro gli assi dello Shohoku.

Soprattutto dopo che Mitsui si era sentito male, erano stati loro a portare la squadra alla vittoria.

Sakuragi poi, era stato l’uomo chiave. Era stato lui a farli vincere, con le sue ultime, bellissime azioni, che Rukawa aveva osservato a occhi spalancati, stupendosi sempre più di quello che Sakuragi riusciva a fare.

Lo osservava, mai stanco dei suoi miracoli in campo.

Ripensò a come aveva bloccato Sendoh.

A come aveva stoppato Uozumi rimediando all’incertezza di Akagi.

A come si trovasse sempre al posto giusto nel momento giusto.

E poi… ripensò alla schiacciata che li aveva portati alla vittoria.

La schiacciata che era rimasto a osservare a occhi sbarrati, restando per qualche istante come ipnotizzato dal gioco del do’hao.

Ricordò, infatti, di essersi ripreso solo quando Hanamichi, dopo la schiacciata, aveva urlato a tutti di tornare indietro perché Sendoh stava rientrando.

Anche Sendoh era rimasto sorpreso. Tutti ne erano stati sorpresi.

Lo schema che aveva permesso al Ryonan di vincere l’amichevole. Uno schema che non si sarebbe più ripetuto grazie a Sakuragi.

Aveva ancora quelle scene impresse nella mente e poteva ancora sentire un brivido freddo lungo la schiena.

L’arbitro aveva fischiato e loro avevano vinto.

 “Ora sì che siamo una vera squadra!” aveva detto, osservando le urla di gioia degli altri componenti.

Finalmente, erano riusciti tutti a tirare fuori il meglio di sé. Nessuno si era risparmiato e i loro sforzi erano stati premiati. Avevano passato il turno per i campionati nazionali.

Si era poi dovuto accontentare di battere un cinque a Ayako. Sakuragi gli avrebbe dato una testata se si fosse dimostrato amichevole nei suoi confronti.

Però… non aveva importanza perché, ancora una volta, aveva potuto osservare il suo vero volto.

Ripensò alle parole che aveva rivolto a Kogure.

“A proposito. Hai visto che non è stata la tua ultima partita? Lo devi a me!”.

E Rukawa aveva capito subito a quale conversazione si riferisse anche se, in teoria, Sakuragi non sapeva che lui aveva origliato, appena tre giorni prima, durante il suo allenamento speciale.

Era questo il vero Sakuragi. Un Sakuragi sensibile che farebbe di tutto per le persone che contano per lui.

Che mette il cuore nelle cose che fa per non vedere i sogni degli altri infrangersi.

Kogure si era quasi commosso e Hanamichi, per smorzare il clima, aveva ripreso a fare il buffone.

Ripensò anche a come avesse poi abbracciato il capitano che piangeva di felicità provando un certo fastidio. Era stato l’unico ad avvicinarsi. L’unico a dire le parole giuste.

A quel punto, Rukawa era sicuro: tutti dovevano aver capito che Sakuragi era più di quello che mostrava. E tutti lo avevano accettato, sia per quello che era, sia per quello che mostrava.

E, con una punta di possessività, pensò che, in fondo, per come stavano andando le cose tra di loro, Sakuragi oramai era suo e suo soltanto.

Sei stato un campione, Hanamichi! 
Era questo il pensiero che lo accompagnava sul finire di quella strepitosa giornata nella solitudine del suo appartamento.

Ora i campionati nazionali li attendevano.

Ma lui, aveva altri programmi. Programmi in cui, presto o tardi, avrebbe coinvolto anche la testa rossa.
 

Continua…
 
Note:

Gli avvenimenti che avete letto in questo capitolo sono ambientati nelle puntate 67 a 84 dell’anime.

Si tratta della rivisitazione dei momenti principali della partita vista da Rukawa con la nuova base introspettiva.

Piccola anticipazione: Nel prossimo capitolo ci sarà, per la prima volta nella storia, anche il punto di vista di Hanamichi sulla partita.

Spero di non avervi annoiato e che il capitolo sia piaciuto.

Mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate.

Ci vediamo domenica prossima con il nuovo capitolo.

Pandora86.

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Capitolo 36
*** L'ultima partita - Seconda parte ***


Eccomi con il nuovo capitolo della fic.
Grazie a chi ha commentato lo scorso capitolo, e anche a chi continua a inserire la storia tra le preferite e le seguite.
Ovviamente, grazie anche a tutti i lettori silenziosi.
Ci vediamo a fine capitolo per le note e le informazioni riguardo le prossime pubblicazioni. 
Mi scuso in anticipo per eventuali errori. Leggo e rileggo ma sapete com’è… qualcosa sfugge sempre!!
Per adesso, buona lettura.
 
Capitolo 35. L’ultima partita - Seconda parte
 
Hanamichi sorseggiava il caffè che il suo fidato braccio destro gli aveva preparato.

L’aveva trovato fuori l’ospedale dopo che lui e la squadra erano andati a portare la buona notizia al coach.

Si era aspettato una mossa del genere, conoscendo Yohei.

Così, appena l’aveva visto si era allontanato con lui salutando appena gli altri.

Gli era dispiaciuto un po’ lasciare la squadra ma soprattutto, lasciare Rukawa.

Però, considerò, non che prima della comparsa di Mito avesse calcolato molto il numero undici.

Non si erano neanche complimentati per la vittoria, cosa piuttosto normale in fondo.

In realtà sperava che, quando il resto della squadra si fosse allontanata, lui avrebbe potuto parlare con Rukawa in santa pace.

Ma… una cosa era pensarlo e una cosa era farlo.

Era ancora maledettamente in imbarazzo per la sera precedente e aveva preso la presenza di Yo come la perfetta scappatoia per rimandare il confronto con il numero undici.

Inoltre, sapeva che Yohei aveva delle cose importanti da dirgli e non l’avrebbe fatto aspettare ancora.

Motivo per cui, la decisione su che strada andare si era rivelata piuttosto semplice.

“Mi sa che ti ho rubato a Rukawa!”.

La voce di Mito lo distolse dai suoi pensieri.

“Naaaa…. Quella volpe congelata sopravvivrà!” sorrise di rimando, osservando il suo migliore amico sedersi di fronte a lui, servendosi del the che aveva appena preparato.

“Mi domando come fai a preferire quella roba” non resistette Hanamichi.

Era più forte di lui, il the non gli piaceva proprio. In particolare quello verde, la classica bevanda giapponese.

Osservò il suo caffè, sentendo l’affetto crescere per il suo migliore amico.

Quella era la bevanda che riservava a lui. Da anni gli serviva il caffè ed era sempre stato l’unico a farlo.

Tra l’altro, si era impegnato nell’imparare a preparare un caffè decente non rifilandogli quello solubile. E Hanamichi, con quel gesto, si era sempre sentito accettato.

Ma forse… le cose sarebbero potute cambiare. Forse… un’altra persona in futuro avrebbe potuto avere la stessa accortezza nei suoi riguardi.

Forse…

“Si chiama the, non roba!”.

Lo corresse Mito strappandolo, ancora una volta, dai suoi pensieri.

“È lo stesso. Fa comunque schifo!” ribatté cocciuto Hanamichi.

“E tu se in caffeinomane dipendente” lo riprese Yohei.

“Vero!” rispose Sakuragi, alzando le mani in segno di resa.

“L’ho detto anche a lui ieri sera” aggiunse poi senza logica apparente, sapendo che l’altro avrebbe capito.

C’era un solo lui a cui Hanamichi poteva riferirsi e Yohei non avrebbe faticato a capire chi.

“E cos’ha detto?” gli chiese, infatti, di rimando sorridendo.

“Che non vedeva dov’era il problema” rispose, ripetendo testualmente le parole di Rukawa.

“E poi… ha detto che lo vuole assaggiare!”.

“Mh… non sa che si perde” non poté trattenersi Yohei.

“Come diamine fa a non piacerti?” domandò, per l’ennesima volta in tutti quegli anni, Hanamichi.

Non riusciva proprio a capire come l’amico non apprezzasse la bevanda che preferiva.

“Diciamo che se togli il caffè e la panna, rimanendo il whisky, mi piace di più”.

“Ma così non rimane niente!” si lamentò il numero dieci.

“Appunto!” concluse serafico Mito.

“Comunque, è una bella cosa no?” domandò, ritornando all’argomento principale.

“Beh…” si ritrovò a rispondere Hanamichi, “in effetti, non me l’aspettavo.

Sei sempre stato l’unico che mi ha preparato un caffè. Pensavo che la stra – grande maggioranza dei giapponesi ne fosse nauseata”.

“Infatti! Non piace neanche a me” rispose Mito.

“Ma il problema vero non è il fatto che la bevanda possa piacere o meno. È il fatto che ho sempre rispettato i tuoi gusti, qualunque essi fossero”.

“Già!” ammise Hanamichi.

“E adesso, anche Rukawa è disposto a farlo”.

“Già!” si ritrovò a ripetere il numero dieci. Era sempre così con Yohei.

Esprimeva alla perfezione i pensieri che gli giravano in testa centrando, con estrema facilità, i punti principali.

“Mi devo abituare” aggiunse.

“Ti abituerai in fretta. Di solito, le persone normali si abituano in fretta alle cose belle. Dovresti imparare a farlo anche tu” consigliò Mito con la sua tipica praticità.

“Stai dicendo che sono un po’ tocco?” domandò scherzosamente l’altro.

“No!” rispose serio Yohei.

“Semplicemente che tu rientri nella categoria di persone che preferisce credere alle cose brutte catalogando come impossibili quelle belle.

Ma forse” aggiunse con un sorriso, “è ora di cambiare”.

“Mi ha chiesto di andare da lui” continuò Hanamichi, osservando il volto di Yohei per carpirne le eventuali espressioni.

Cosa inutile, visto che Mito non batté ciglio.

“Spero che non ti dimenticherai di me e dell’armata” rispose con un sorriso.

“Parli come se già avessi accettato!” fu la sorpresa risposta dell’altro.

“Se gli hai detto del caffè, vuol dire che hai preso in considerazione l’idea!” concluse logico Mito.

Sakuragi, a quella risposta, non trovò nulla a cui ribattere. Era sempre così parlare con il suo amico.

Sembrava quasi che gli leggesse nel pensiero.

“Odio parlare con te!” disse con disappunto, mentre il volto esprimeva il contrario.

“Non è vero” ribatté tranquillo Yohei che poi, con espressione seria, riprese:

“Senti Hana, a proposito di ieri sera…” incominciò, per poi essere prontamente fermato da un cenno di Sakuragi.

“Lo so che eri lì!” affermò sicuro, con un sorriso in volto.

Fu la volta di Mito, che inarcò un sopracciglio perplesso, ora essere sorpreso.

“Hai dimenticato in che quartiere sono? Sono sempre all’erta. E comunque” aggiunse allargando ancora di più il sorriso, “quei muri sono di carta!”.

“Mi dispiace”disse a quel punto Mito.

“A me no!” lo corresse immediatamente Sakuragi che poi si alzò per raggiungere Yohei, in modo da sedersi accanto a lui.

“Yo” riprese, poggiando una mano sulla spalla dell’amico, “io ho parlato proprio perché c’eri anche tu. Non hai niente di meno di Rukawa e sei la mia famiglia. La mia sola famiglia” concluse accorato.

“Hana, io…”

“Mi dispiace aver taciuto tutto questo tempo”.

“Non eri pronto” disse semplicemente Mito, abbracciandolo.

Non avrebbero saputo dire quanto tempo rimasero abbracciati in silenzio. Non c’era più bisogno di parole e lo sapevano.

Si godevano insieme quel momento di pace, ognuno confortato dall’abbraccio fraterno dell’altro.

Ognuno sicuro che, comunque sarebbero andate le cose, il loro rapporto sarebbe stato sempre lì, unico punto fisso nel mare dei cambiamenti della vita.

 
***
 

Hanamichi osservava la camera, fiocamente illuminata dalla lampada sul comodino.

Yo, nel letto di fianco, dormiva.

Lui invece ripensava a quella strana giornata e alla sua conclusione.

I complimenti per la partita che gli aveva fatto il suo fidato braccio destro gli avevano ricordato che lui e la sua squadra avrebbero avuto accesso ai campionati nazionali.

Rukawa era riuscito a realizzare il suo sogno.

Rukawa…

Era stata una strana partita considerò, soprattutto per l’atteggiamento del numero undici che, nella prima parte di gioco, era stato praticamente uno spettatore assente.

Ripensò alle sue parole quando aveva compiuto il primo fallo e aveva iniziato a protestare contro l’arbitro.

“Ehi! Datti una calmata! Vuoi forse fare la fine di Uozumi?” aveva domandato Rukawa, placando le sue proteste.

Sorrise, ripensando a come il numero undici era subito corso in suo aiuto.

E come lui aveva poi voluto fare lo stesso dopo. O almeno, ci aveva provato.

Aveva notato che Rukawa evitava praticamente la sfida con Sendoh.

Che abbia paura?

Aveva pensato, osservando il numero undici effettuare un passaggio piuttosto che scontrarsi con il numero sette.

E non riusciva a spiegarsi il perché, visto che Akagi sembrava avere dei problemi.

Quale momento più opportuno di quello, per far vedere al Ryonan quello che la matricola d’oro sapeva fare su un campo di basket?

E invece no… Rukawa sembrava dormire alla grossa.

E lui… non riusciva a bloccare Fukuda.

“In teoria, dovrebbe essere compito tuo marcarlo” era intervenuto Rukawa all’ennesima azione del numero tredici, “in pratica, la tua marcatura fa acqua da tutte le parti!

Io lo sapevo già che non vali niente. Adesso lo sanno anche gli altri” aveva aggiunto, guardandolo con occhi di ghiaccio.

Perché mi dici questo? Avrebbe voluto urlargli.

Non vedi che mi sto impegnando al massimo? Avrebbe voluto dirgli.

Ma era stato zitto. E il numero undici aveva continuato.

“Rischiamo di perdere la partita per colpa tua!” aveva concluso con tono duro Rukawa.

Colpa mia… stiamo perdendo per colpa mia!
Era questo il pensiero che lo aveva accompagnato quando, altre parole gli
tornarono alla mente.

Parole dette dallo stesso Rukawa nella palestra dello Shohoku neanche una settimana prima in una sera piovosa.

“Fin dall’inizio, avevamo messo in conto che avresti fatto un sacco di errori e nessuno si è sorpreso quando è successo”.

E poi:

“Si sa, sei poco più di un principiante”.

E ancora:

“Un tuo errore non decide le sorti di una partita, ficcatelo bene in testa!”

Ma allora, si ritrovò a pensare Sakuragi, cosa era cambiato adesso?

Perché dava a lui la colpa dell’eventuale sconfitta se i suoi errori non contavano?

Perché ora addossava a lui tutta la responsabilità?

Cosa era cambiato nel pensiero del numero undici per portarlo a dire quelle parole?

Non rimaneva comunque un principiante?

Forse… non era cambiato il pensiero del numero undici, ma era cambiato lui, Hanamichi Sakuragi.

Forse… stava diventando utile alla squadra.

Forse… Rukawa iniziava anche a considerarlo come un vero giocatore di basket.

Non lo sapeva, ma c’era la possibilità che le sue ipotesi fossero corrette.

E allora, se anche ci fosse stata una sola possibilità su cento che avesse visto giusto, non doveva darsi per vinto.

Doveva fermare Fukuda a tutti i costi.

E ci aveva provato, con tutto se stesso, facendosi anche male!

Però… non era stato abbastanza e quando era rientrato per farsi medicare sentiva che la squadra stava recuperando i punti… senza di lui!

Non valgo niente.

Era stato un pensiero ricorrente in quella partita.

Avuto per la prima volta, quando Uozumi l’aveva buttato a terra.

Non si era fatto niente ma aveva preferito rimanere lì, con la faccia rivolta al pavimento, pur di non affrontare la realtà.

Questa volta aveva fallito alla grossa. Come poteva guardare in faccia la squadra? Come poteva guardare in faccia Rukawa?

Ma poi aveva risolto la situazione nel suo solito modo: facendo il buffone.

Era così che andava avanti, facendo figuracce su figuracce, mentre la gente rideva. E lui, rideva con loro. Meglio ridere e fare ancora di più l’idiota in fondo.

Ma perché stavolta faceva più male?

Perché stavolta quell’atteggiamento gli pesava?

Semplice… perché due occhi brucianti lo guardavano. E lui, a quegli occhi, voleva dimostrare quanto valeva, non quanto fosse idiota.

Ma, ancora una volta, aveva fallito. E forse era meglio così, visto che la squadra senza di lui vinceva.

Non valgo niente.

Era stato questo il pensiero che l’aveva accompagnato negli spogliatoi.

“Ho vinto io, Sakuragi!” erano state queste le parole di Fukuda.

Non valgo niente, continuava a pensare mentre prendeva a pugni l’armadietto.

Ma Rukawa, ancora una volta, era intervenuto frenando la sua rabbia.

E lui si era calmato perché, nonostante tutto, il numero undici, continuava a spronarlo.

Gli era poi ritornato alla mente che anche Rukawa stesso sembrava essere in difficoltà.

Già durante il time out aveva provato a capire cosa non andasse.

E negli spogliatoi era ritornato sull’argomento.

“Hai forse paura di Sendoh?” lo aveva accusato.

Ma lo sguardo che gli aveva rivolto il numero undici lo aveva congelato sul posto.

“Paura?” aveva ripetuto con tono basso, carico di rabbia.

Con occhi freddi pieni di determinazione.

Quello non era lo sguardo di chi aveva paura.

Quello non era lo sguardo di chi si era arreso.

E, infatti, nel secondo tempo, Rukawa si era scatenato.

Stava semplicemente risparmiando le energie e loro poi avevano vinto la partita.

Poco contavano le sue azioni. Sakuragi non aveva fatto altro che farsi trascinare dal gioco del numero undici.

Aveva concluso qualcosa di buono ma Rukawa, tanto per cambiare, era stato l’unico vero asso.

Era anche stato nominato tra i cinque migliori giocatori del campionato.

Sei un campione, kitsune! Pensò, chiudendo gli occhi.

Lasciò che il volto di Rukawa lo accompagnasse nei suoi pensieri.

I campionati nazionali lo aspettavano ma lui aveva tempo per migliorare ancora.

Aveva tempo anche per pensare a quello che stava accadendo fra lui e la volpe.

Aveva tempo per dare una risposta alla proposta che la kitsune gli aveva fatto la sera prima.

Sorrise.

I campionati nazionali lo aspettavano. E forse… anche Rukawa.
 

Continua….
 
Note:

Gli avvenimenti con cui inizia questo capitolo sono ambientati nella puntata 84 dell’anime.

In pratica, ho inventato il pomeriggio di Hanamichi dopo l’annuncio di vittoria del signor Anzai.

La seconda parte, i pensieri di Hanamichi, sono le rivisitazioni delle puntate 67 a 84 secondo il punto di vista del numero dieci.

Spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto.

Mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate!

Ci vediamo domenica prossima con il nuovo capitolo.

Pandora86.

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Capitolo 37
*** Non sono geloso! ***


Eccomi con il nuovo capitolo della fic.
Grazie a chi ha commentato lo scorso capitolo, e anche a chi continua a inserire la storia tra le preferite e le seguite.
Ovviamente grazie anche a tutti i lettori silenziosi.
Ci vediamo a fine capitolo per le note e le informazioni riguardo le prossime pubblicazioni. 
Mi scuso in anticipo per eventuali errori. Leggo e rileggo ma sapete com’è… qualcosa sfugge sempre!!
Per adesso, buona lettura.
 
 
Capitolo 36. Non sono geloso!
 
Rukawa sbuffò accarezzando la parte di letto, ancora una volta, vuota.

Non poteva farci niente; da quando il do’hao aveva dormito con lui, non poteva fare a meno di ricercarlo ogni sera accanto a se.

Ma, ancora una volta, era da solo.

Però stavolta non era colpa di nessuno, se non degli eventi e del caratteraccio del numero dieci.

Anzi… era dovuta solo ed esclusivamente a quella testa matta.

Peccato che lui, ancora una volta, ne ignorasse il perché.

Quella mattina era iniziata particolarmente storta e non parlava di quando era andato, volutamente, addosso al do’hao con la bici.

Quella era una normale routine.

In effetti, quella mattina aveva fatto le cose in grande investendo anche parte della sua armata.

E non parlava neanche di quando Sakuragi aveva iniziato a inveire contro le oche del suo fan club.

Si vedeva che era geloso marcio e lui si era ripromesso di “consolarlo” facendogli sbollire la rabbia.

E poi… non si riferiva neanche a quando Sakuragi aveva preso a testate il capitano della squadra di judo.

Quella sì che era stata una bella soddisfazione.

Fin lì insomma, tutto era andato alla normalità.

Le cose avevano iniziato a prendere una brutta piega quando quell’idiota della Akagi gli era venuta addosso nel bel mezzo del corridoio.

In effetti, ricordava di aver pensato che la giornata fosse andata fin troppo bene.

Ovviamente, l’aveva ignorata.

Peccato che poi fosse spuntata fuori quella svitata del giornalino.

E lui l’aveva, letteralmente e doveva dirlo, molto elegantemente, mandata a cagare.

Con un moto di stizza, aveva osservato la faccia sconvolta della Akagi alla sua uscita.

Come se lei lo conoscesse e si fosse sorpresa per quel suo atteggiamento.

Ma lei, che cosa diamine poteva mai saperne di lui?

Perché si sconvolgeva se non lo conosceva affatto?

Ma del resto, di che si stupiva… la gente lo idealizzava e quando mostrava com’era veramente rimaneva perplessa.

Si era rifugiato sulla terrazza non potendo impedire al suo pensiero di andare, ancora una volta, al do’hao.

Se tutte le sue fans avessero saputo quello che c’era tra loro, sicuramente sarebbero stramazzate al suolo.

Magari me le tolgo di mezzo una buona volta, pensò ironico.

E sicuramente molti avrebbero domandato cosa ci trovava lui, la super matricola, in Hanamichi Sakuragi il teppista.

Molte delle sue fans avrebbero chiesto cos’aveva lui che loro non avevano, non rassegnandosi al suo essere gay.

E lui avrebbe risposto che, oltre ad alcuni attributi fisici fondamentali, aveva quello che loro non avrebbero mai potuto avere.

Perché Sakuragi non si sarebbe scomposto per la sua risposta. Perché Sakuragi lo conosceva, non lo idealizzava.

Paradossalmente, anche in tutti quei mesi che sapeva poco o niente di lui, Sakuragi aveva colto molto di più degli altri.

Inoltre, Sakuragi lo accettava e lo voleva così com’era.  E questa era una cosa che nessun altro, all’infuori di Sakuragi, poteva avere.

Aveva osservato la pioggia scendere, desiderando che tutti andassero a quel paese.

Aveva lasciato che la pioggia bagnasse il suo volto e portasse così via il suo malumore.

Che cosa gli importava di quella sotto specie di giornalista?

Che cosa gli importava della sorella del capitano?

Che cosa gli importava del resto della scuola che lo osannava come un campione di basket?

Nulla!
Assolutamente nulla! Lui aveva altri obiettivi e nessuno l’avrebbe distratto da ciò.

E si era liberato.

“ANDATE A CAGARE TUTTI QUANTI!”.

Aveva urlato al cielo. Chissà quanti si sarebbero sorpresi se l’avessero visto urlare.

Che poi… anche lui era un essere umano, in fondo. Solo Sakuragi non si sarebbe sorpreso.

E, con questo pensiero, rientrò preparandosi per gli allenamenti.
Forse, in palestra le cose sarebbero migliorate.

Come non detto! Aveva pensato una volta messo piede in palestra.

Quella sottospecie di giornalista non si arrendeva.

Eccola lì che disturbava gli allenamenti e, come ciliegina sulla torta, ecco che Sakuragi iniziava a fare il cretino.

Non lo sopportava quando faceva così.

Anzi… non era vero che non lo sopportava quando faceva l’idiota.

Se così non fosse stato, lui non avrebbe potuto passare il tempo a provocarlo.

In verità non lo sopportava più quando faceva gli occhi a cuore rivolto alla Akagi.

Va bene, doveva accettare le cose.

Va bene, doveva ancora abituarsi all’idea.

Tutte le giustificazioni di questo mondo, ma non poteva, una volta tanto, limitarsi?

Soprattutto quando lui, la mattina stessa, stava venendo alle mani con le oche del suo fan club.

Per questo poi aveva deciso di agire.

Una schiacciata fenomenale era quello che ci voleva per richiamare l’attenzione su di se e sull’allenamento.

Avevano vinto una partita importante e non dovevano dormire sugli allori.

Il do’hao non doveva dormire sugli allori. Non quando Rukawa aveva in mente un progetto che, presto o tardi, avrebbe riguardato anche lui.

Tra l’altro, l’attenzione di Sakuragi l’aveva avuta ma non come si aspettava.

O meglio, era preparato alla sequela di insulti che il do’hao gli avrebbe riservato, ma non si aspettava tanta rabbia.

Sembrava quasi che Hanamichi ce l’avesse con lui.

Anzi… era palese che fosse arrabbiato nei suoi confronti.

Peccato che Rukawa non se ne spiegasse bellamente il motivo.

Che abbia avuto anche lui una mattinata storta?

Aveva pensato senza sapere quanto fosse andato vicino alla verità.

E, come al solito, quando Sakuragi era in preda alla rabbia, collezionava le migliori figuracce del secolo.

Ricordava di averlo visto sbattere contro il tabellone in quella che doveva essere, in origine, una schiacciata, con un’espressione perplessa.

Quello sarebbe stato un errore che avrebbe potuto commettere mesi prima ma non dopo le schiacciate fenomenali che aveva compiuto nelle partite.

Oltre ai rimbalzi, infatti, erano la sua specialità.

Non è incazzato… è nero!

Aveva pensato ancora, osservando poi il capitano riportare tutti all’ordine e ripromettendosi di scoprirne il motivo.

Peccato che poi, dopo l’allenamento, Sakuragi si era defilato con il suo braccio destro, trascinandoselo dietro fino all’uscita della scuola e riservandogli uno sguardo carico di disappunto.

Che cosa avrò mai fatto ora?

Questo era stato il suo sconsolato pensiero, di fronte all’espressione imbronciata di Hanamichi che, in quel momento, sembrava quasi un bambino dell’asilo.

Aveva osservato l’espressione rassegnata di Mito che si faceva trascinare via, rischiando quasi di farsi scappare una provocazione dopo una bella risata.

Ma si era trattenuto… soprattutto per il povero Mito che sembrava dover dire addio al suo braccio.

Motivo per cui si era avviato a casa solo, ancora una volta.

Ed è un vero peccato Hanamichi, pensò sorridendo mentre una nota testa rossa faceva capolino nei suoi pensieri.

Ci avrei pensato io a farti passare il malumore.
 

***
 

“Vuoi una camomilla?” domandò Mito, sentendo l’ennesimo sbuffo dell’amico.

“Eh?”.

“Ti stai rigirando nel letto da perlomeno mezz’ora!” gli appuntò con ovvietà Yohei.

“È un baka kitsune!” sbottò allora Hanamichi.

“Che ha fatto stavolta?” domandò Mito con un sorriso, poggiandosi su un gomito e rinunciando, definitivamente, a dormire.

“Ma l’hai visto?”

“Quando esattamente?” volle sapere Yohei con finta noncuranza.

“Non fa altro che mettersi in mostra! Non lo sopporto!” si imbronciò Hanamichi sedendosi a gambe incrociate.

“Senti chi parla” non riuscì a trattenersi Mito.

“Non ti ci mettere anche tu Yo!”

“A me è sembrato che fosse l’unico a volersi allenare. A differenza di qualcun altro” lo provocò allora con tono ironico.

“Non me lo ricordare!” si lamentò Hanamichi, tirandosi il cuscino sulla faccia.

Non riusciva a capire. Come aveva fatto a sbagliare una schiacciata?

Davanti a tutti poi e, soprattutto, dopo che Rukawa ne aveva fatta una fenomenale.

“Devi controllarti!” gli consigliò saggiamente Yohei.

“La fai facile tu!” si lamentò ancora quest’ultimo con tono piagnucoloso.

“Hana… qual è il vero problema?” gli domandò allora con tono serio.

“Che vuoi dire?” volle capire Hanamichi, voltandosi verso di lui e guardandolo attento.

“Voglio dire: la giornata non è forse iniziata con te che volevi fare a botte con le ammiratrici di Rukawa?” gli spiegò con lo stesso tono di chi spiega che due più due fa quattro a un bambino parecchio cocciuto.

Hanamichi si insospettì a quel tono.

“E allora?” chiese, sulla difensiva.

“Non è forse continuata con le ammiratrici di Rukawa che volevano a tutti i costi che tu facessi il fattorino?” chiese con il tono di chi già sapeva la risposta.

“Non vedo il punto, Yo!” gli ringhiò contro l’altro.

“E poi, chi è che è andato in palestra ad allenarsi, urlando che avrebbe battuto Rukawa a tutti i costi?” domandò ancora, riassumendo così i punti essenziali della giornata.

“Mi dici esattamente che vuoi dire?” si stufò a quel punto Hanamichi, prendendo in seria considerazione l’idea di lanciargli qualcosa contro.

“Che sei geloso, Hana!” concluse con un sorrisetto ironico e lo sguardo di chi la sa lunga.

“CHE COSA?!” esplose allora Hanamichi.

“Sei geloso marcio, Hana!” ripeté tranquillo Yohei guardandosi le unghie.

“Non è vero!” si impuntò cocciuto l’altro.

“E invece sì!” insistette Yohei. “E trovo sia un bel cambiamento, no?”

“Cioè, spiegami” ribatté allora Hanamichi, sentendo la sua poca pazienza andarsene chissà dove, “sostieni che io sia geloso e ne sei pure contento?”

“Già, visto che fino a qualche tempo fa non riuscivi neanche ad ammettere che ti piaceva Rukawa. Ora invece ne marchi addirittura il territorio. È un bel passo avanti, no?” gli spiegò con tono ovvio. “Rukawa sarà certamente contento” aggiunse con atteggiamento paterno.

Hanamichi guardò l’amico assumere l’atteggiamento da uomo vissuto e si maledì per aver iniziato quella conversazione.

“Sono diventato un cane, Yo?” domandò, assottigliando gli occhi.

“Tra l’altro” continuò Mito facendo finta di non aver sentito, “vorrei farti notare che non è hai motivo”.

“Non sono geloso!” Ripeté ancora Hanamichi incrociando le braccia ma, sotto lo sguardo penetrante del suo amico, non resistette.

“E va bene, ma non è colpa mia. È colpa sua e di quelle gallinacce che gli ronzano intorno. Perché non le manda al diavolo?” domandò, certo che adesso Yohei gli avrebbe dato ragione.

“Capisco! Quindi è per questo che in palestra sembrava volessi fulminarlo con lo sguardo”.

“E comunque” continuò ancora, frenando a priori il fiume di proteste dell’altro, “ti ricordo che Rukawa le ignora come al solito. E che è gay, Hana!” concluse, osservando il colorito dell’altro divenire di un rosso acceso.

“Mh… non c’entra!” borbottò Sakuragi.

“Mi dici qual è il vero problema?” domandò ancora facendosi serio.

“Anche se lui è…” incominciò balbettante Hanamichi, “insomma… quello che sai tu… non vuol dire che… tra lo’altro io e lui…gli altri…”

“Hana!” Lo interruppe. “Non capisco niente se non parli la mia lingua”.

“Insomma!” esplose a quel punto Hanamichi. “Quando devi capire senza che io parli, vuoi farmi parlare, quando io voglio parlare tu mi leggi nel pensiero!”.

“Eh?” lo guardò perplesso.

“Sendoh, Yo” urlò allora il numero dieci. “È Sendoh il problema. E se non lo è lui lo saranno altri”.

“Ho capito” ammise allora Yohei.

“Ci ho pensato oggi in palestra Yo, quando ho realizzato che io e Rukawa… insomma… lo sai no?” si decise finalmente a parlare chiaro Hanamichi.

“E mi sono domandato perché. Ha tutta la scuola a disposizione. E se non gli interessano le ragazze, vedi quanti giocatori di altre squadre ci sono. Come posso reggere il paragone?”

“E quindi ti ritiri prima di tentare?” volle sapere l’amico.

“Che speranze ho?” domandò rassegnato.

“Rukawa ha scelto te, Hana” disse a quel punto Yohei con sguardo duro.

“Te lo ha fatto capire in ogni modo, ed è talmente cocciuto che non si fermerà fino a che non ti avrà avuto, se proprio lo vuoi sapere” concluse, lanciandogli uno sguardo di fuoco.

“Sono un oggetto, ora?” cercò di scherzare l’altro per dissimulare l’imbarazzo provocatogli dall’ultima frase.

“E forse sarebbe ora che anche tu facessi qualche passo verso di lui” continuò Mito, senza calcolare le parole dell’altro.

“Dimmi, l’hai mai chiamato per nome?”.

“Perché, lui lo ha mai fatto?” si difese Hanamichi.

“No?” domandò Mito con ironia, inarcando un sopracciglio.

“Beh… sì! Ma che c’entra?” si incaponì ancora l’altro.

“C’entra Hana. Rukawa ci tiene a te almeno quanto tu tieni a lui.

E adesso tocca a te fare qualcosa” e si girò, sistemandosi meglio nel letto.

“Ehi! E mi lasci così?” domandò allargando le braccia.

“Sì! Adesso sai cosa fare!”.

“No che non lo so, Yo!”.

“E invece sì! Buonanotte Hana!”.

“Buonanotte anche a te!” gli fece il verso l’altro, ritornando anche lui a distendersi nel letto.

Non si fermerà fino a che non ti avrà avuto. 

Quelle parole gli ronzavano in testa facendolo arrossire.

Yo ha maledettamente ragione! Pensò.

Era sempre stato Rukawa a inseguire lui. Era sempre stato Rukawa a imporgli la sua presenza. Che lui lo volesse oppure no.

Se non fosse stato per la sua insistenza, quando mai sarebbero arrivati a quel punto?

Mai! La risposta la sapeva già.

Se fosse dipeso da lui, le cose sarebbero rimaste immutate.

Era per questo che Rukawa gli aveva imposto la sua presenza.

Che non si aspetti nulla da me? Si domandò a quel punto.

Ma come poteva, il numero undici, accettare una cosa del genere?

Come poteva accettare Rukawa di dare sapendo che non avrebbe ottenuto nulla in cambio?

Era per questo che faceva tutto lui, ora lo capiva. Spesso era rimasto contrariato di fronte alle imposizioni di Rukawa ma ora capiva che se l’altro non lo avesse fatto le cose non sarebbero mai cambiate.

Però… era assurdo tutto questo!

Era assurdo il comportamento di Rukawa, soprattutto se paragonato al suo.

Lui, che non aveva fatto niente, si infastidiva per delle cose sciocche, inveendo contro l’altro per delle stronzate.

Non aveva fatto niente per costruire quella specie di rapporto, se non lasciarsi andare di tanto in tanto e si lasciava pure andare alla gelosia.

In fondo, che colpa ne aveva il numero undici se mezza scuola lo idolatrava?

Invece Rukawa faceva, senza pretendere mai nulla in cambio.

Senza pretendere mai nulla da lui.

Gli lasciava tempo. Gli lasciava libertà.

Ma Rukawa cosa voleva veramente? Non lo sapeva.

Aveva capito che Rukawa lo voleva. Aveva capito che oltre a volere la sua presenza probabilmente lo desiderava anche sul piano fisico.

Eppure si tratteneva. Non faceva mai niente più del necessario. Non assecondava i suoi desideri. E tutto questo, lo faceva per lui.

Per fare una cosa del genere doveva tenerci molto a lui, ora lo capiva.

Yohei aveva ragione. 

Non lo aveva mai chiamato per nome. Aveva sempre mantenuto, inconsciamente, le distanze.

Anche lui doveva fare un passo verso l’altro.

Anche lui doveva dimostrare all’altro che ci teneva.

Non aveva fatto altro che pensare a se stesso e alle sue incoerenze.

Incoerenze che Rukawa aveva smontato, una dopo l’altra.

Ma non aveva mai pensato all’altro.

E forse, era ora di farlo.

Forse era ora di pensare anche a Rukawa.

Forse era ora di fare qualche passo verso l’altro.

Doveva buttarsi. Non aveva la certezza che sarebbe stato felice, non aveva la certezza che non avrebbe sofferto; quella nessuno poteva dargliela.

In compenso però avrebbe vissuto veramente. Sarebbe uscito dal suo mondo fittizio dove si illudeva non ci fosse sofferenza alcuna.

Avrebbe rischiato. Ma per Rukawa… ne valeva la pena.
 
 
Continua…
 
Note:

Gli avvenimenti visti in questo capitolo sono ambientati nella puntata  85 dell’anime.

Riprendo, infatti, alcuni fatti di quella giornata analizzando poi l’introspezione di Rukawa e di Hanamichi e inventando per quest’ultimo la serata con il suo amico Yohei. In realtà, questo capitolo aveva lo scopo di far capire al protagonista come fosse veramente costruito il suo rapporto con Rukawa affinché potesse poi, nei capitoli successivi,  fare degli effettivi passi avanti per un rapporto che fino a ora, come avrete notato, era stato gestito unicamente da Rukawa.

Spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto!

Mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate.

Ci vediamo domenica prossima con il nuovo capitolo!

Pandora86

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Capitolo 38
*** Strani comportamenti ***


Eccomi con il nuovo capitolo della fic.
Grazie a chi ha commentato lo scorso capitolo, e anche a chi continua a inserire la storia tra le preferite e le seguite.
Ovviamente, grazie anche a tutti i lettori silenziosi.
Ci vediamo a fine capitolo per le note e le informazioni riguardo le prossime pubblicazioni. 
Mi scuso in anticipo per eventuali errori. Leggo e rileggo ma sapete com’è… qualcosa sfugge sempre!!
Per adesso, buona lettura.
 
 
Capitolo 37. Strani comportamenti
 
In realtà, una cosa era dirlo e una cosa era farlo, pensava Hanamichi in quel momento fissando il banco con estremo interesse.

Che vuoi che sia? gli ricordò il suo Yohei mentale.

Fai come quando gli hai fatto la traduzione no?

“La fa facile lui!” sbottò rendendosi conto, solo in un secondo momento, di aver parlato ad alta voce.

I compagni di classe che avevano deciso di consumare il pasto in aula, lo guardarono come se fosse un matto.

Si prese la testa tra le mani sospirando.

Ci mancava solo che iniziasse a circolare la voce che parlava da solo.

Ovviamente, di Yohei e il resto dell’armata, manco l’ombra.

Mai che ci siano quando servono, pensò facendosi coraggio e avviandosi fuori dall’aula.

È una cosa semplice, Hana! Intervenne ancora Yohei nei suoi pensieri.

Devi solo chiedergli di passare la giornata di domani insieme.

E va bene! Pensò salendo le scale.

In fondo sono un Tensai!

Peccato che neanche questo pensiero lo aiutasse mentre si ritrovava ad aprire la porta della terrazza.

Non sapeva con precisione se Rukawa fosse o meno lì.

E se c’è? Si domandò.

No, aspetta! Si corresse.

In fondo, sono venuto perché probabilmente c’è!

Ma forse non c’è! Si disse, decidendosi ad aprire.

E invece Rukawa c’era. Come volevasi dimostrare, stava consumando il suo pasto in completa solitudine.

Il numero undici alzò lo sguardo per vedere chi fosse venuto a disturbarlo.

Si sorprese nel vedere Hanamichi ma non parlò.

Era tutta la mattina che il do’hao si comportava in modo strano.

L’aveva investito con la bici come suo solito, stavolta facendo attenzione a centrare soltanto lui.

Si era aspettato i soliti scatti d’ira ma il do’hao si era rialzato da terra come una molla rischiando, per la velocità del gesto, di cadere nuovamente.

L’aveva guardato, aprendo più volte la bocca e chiudendola poi di scatto.

Fino a che non gli aveva urlato un baka kitsune a pieni polmoni ed era corso via, entrando a scuola alla velocità della luce, manco fosse in un campo di appestati.

Aveva persino dimenticato la cartella a terra che era stata prontamente raccolta dal suo braccio destro che sghignazzava moderatamente sotto i baffi.

Poi, passando davanti alla sua classe, l’aveva visto bisbigliare con il suo amico.

La cosa strana era che Sakuragi era dello stesso colore dei suoi capelli.

Poi, Sakuragi l’aveva notato e si era trincerato dietro un libro scolastico non accorgendosi di averlo preso al contrario.

E anche adesso, lo fissava nello stesso modo in cui si fissa un alieno.

Che ha in mente il do’hao? Si domandò Rukawa.

Non era da lui prendere l’iniziativa. Non l’aveva mai fatto, se non per la traduzione.

Ma quello, era stato più un evento fortuito dettato dagli eventi, che una mossa consapevole.

E, cosa parecchio influente, in quell’occasione non erano a scuola.

Si chiese perciò con interesse cosa sarebbe avvenuto di lì a breve.

Vide Sakuragi avvicinarsi a passo felpato e già questa era di per se una cosa abbastanza comica.

Se l’avesse visto dormire avrebbe potuto capire tanta incertezza, ma era chiaro a tutti che Rukawa fosse decisamente sveglio.

Lo vide sedersi di fronte a lui e osservare con interesse il pasto che aveva in mano.

Che non abbia mangiato?  Pensò a quel punto Rukawa.

Tuttavia, il do’hao sembrava aver perso l’uso della parola e se avesse aspettato cosa volesse chiedergli probabilmente avrebbero fatto notte in quella posizione.

Perché adesso era evidente che il do’hao volesse chiedergli qualcosa.

E doveva essere una cosa positiva visto che Sakuragi non ci avrebbe pensato due volte a mandarlo al diavolo.

E di certo, non sarebbe stato così imbarazzato.

“Mi dici che vuoi?” domandò allora con tono secco.

Sakuragi alzò lo sguardo di scatto, fissandolo con aria offesa.

“Chi ti dice che voglio qualcosa, baka?” lo insultò allora.

Rukawa assottigliò gli occhi fissandolo penetrante e sfidandolo a ripetere quello che aveva appena detto.

“E va bene!” ammise Sakuragi a quel punto. “Sempre così spiccio eh, Rukawa? Tu e la pazienza siete una cosa sola!” non rinunciò a provocarlo.

“Se aspettiamo te facciamo notte!” non si scompose il numero undici.

“Scusa tanto se ho i miei tempi” sbottò allora Sakuragi alzandosi e guardando tutto fuorché il compagno di squadra.

“Non verrò più a chiederti di passare del tempo insieme” disse, diventando di un rosso acceso e avviandosi verso l’uscita.

In fondo, aveva portato a termine quanto prefisso.

Non come si era immaginato, ma comunque ci aveva provato.

“Aspetta!”.

La voce di Rukawa lo bloccò sul posto.

“Quando?” domandò ancora il numero undici.

“D-Domani.” iniziò balbettante l’altro. “Non c’è scuola e nemmeno gli allenamenti!”

Rukawa sospirò. E lui che sperava che il do’hao gli proponesse la serata insieme.

Forse doveva lavorare ma lui si sarebbe accontentato anche del dopo lavoro.

In ogni caso, ne era comunque felice. Ora capiva tutti quegli atteggiamenti strani.

E di sicuro c’entrava anche Mito.

Il do’hao che faceva un passo verso di lui aveva dell’incredibile e non avrebbe sprecato questa possibilità.

Tuttavia, lui domani doveva fare una cosa importante.

Era una persona lungimirante e quello che doveva fare aveva a che fare con il suo futuro. E anche quello del do’hao, ora.

Il fatto che Sakuragi facesse, di sua iniziativa, un passo verso di lui concretizzava ancora di più il suo progetto.

Certo, di sicuro Mito ci aveva impiegato tutta la notte per convincerlo però… sapeva bene che se Sakuragi non lo avesse voluto realmente, niente l’avrebbe fatto andare da lui a chiedergli di passare del tempo insieme.

Cercò, per questo motivo, di essere gentile nello spiegarsi, per non urtare la suscettibilità del numero dieci. Ma soprattutto, per non distruggere la poca sicurezza che aveva acquistato per fargli quella richiesta.

“Domani mattina devo fare una cosa importante” gli spiegò gentilmente.

“Eh?” lo guardò sorpreso il numero dieci.

Rukawa sembrava quasi dispiaciuto.

“Una cosa che riguarda anche te” si sbilanciò Rukawa.

Il numero dieci lo guardò ancora più perplesso.

“Ti aggiorno lunedì” continuò ancora Rukawa, sicuro del buon esito della sua uscita.

“In ogni caso” disse ancora avvicinandosi al numero dieci, “cerca di allenarti più che puoi” concluse a un soffio dalle sue labbra per poi andarsene soddisfatto.

Non gli era sfuggito, infatti, il brivido che aveva percorso il corpo di Sakuragi quando lui si era avvicinato.

Lo stesso brivido che aveva provato lui.

Fu anche per questo che quando arrivò alla porta si girò dicendo:

“L’ho apprezzato!” e se ne andò definitivamente.

 
***
 

Chissà che cosa ha in mente la kitsune! Pensò Sakuragi affiancato dalla sua armata al completo.

Non avendo niente di meglio da fare aveva deciso di girovagare con loro a zonzo ed erano finiti a fare la fila in un locale di Pachinko dove sarebbe potuto entrare solo chi avesse già compiuto diciotto anni.

Le parole di Rukawa gli ronzavano in testa.

Cerca di allenarti più che puoi.

Che voleva dire con quella frase? Sembrava quasi volesse dargli un consiglio o fargli una raccomandazione.

In effetti, anche nell’allenamento Rukawa era stato strano.

Quando era arrivato in palestra, il giorno prima, non aveva mancato di fargli notare il suo ritardo.

In realtà voleva solo provocarlo un po’.

Ripensò al discorso di una delle matricole.

In realtà ne era stato molto colpito. Non pensava che le riserve dello Shohoku avessero tanta fiducia in lui. Non pensava che lo stimassero.

Quelle parole lo avevano realmente commosso, come lo aveva spronato l’impegno che si erano ripromessi tutti per i campionati nazionali.

E poi doveva ammetterlo: si era anche un po’ imbarazzato.

Per questo aveva poi iniziato a fare le sue sparate megalomani fino a che non era intervenuto Rukawa con la sua solita finezza.

“Basta con le stronzate! Comincia a pulire, imbecille!”

Lo stesso Rukawa che lo aveva invitato, poche ore prima, ad allenarsi, ora più che mai.

Lo stesso Rukawa che in quell’allenamento sembrava intenzionato come non mai a dare il meglio di se. In effetti, era stato quasi come essere in partita.

Che avrà voluto dire? Si domandò ancora una volta Sakuragi per poi volgere lo sguardo verso qualcuno che si avvicinava a lui.

Nobu-scimmia e il nonnetto? Pensò perplesso, guardando le due figure avvicinarsi.

Che diamine ci fanno qui?  Si domandò ancora.
 

***
 

Mito osservò Hanamichi allontanarsi insieme a Maki e Nobunaga.

Il suo sguardo, mentre osservava la schiena dell’amico allontanarsi, era sereno.

“Vuoi vedere un vero campione del basket?” Era stata la domanda di Maki e Mito aveva visto gli occhi di Hanamichi farsi attenti.

Era contento per la piega presa. Era giusto che Hanamichi iniziasse anche a socializzare con altre persone. Era giusto che non uscisse sempre e solo con loro.

E lui era felice che Hanamichi stesse iniziando ad uscire dal circolo chiuso rappresentato dalla sua armata.

Un’armata che lo proteggeva certo, ma anche che non permetteva a nessuno di entrare.

Inoltre, sembrava che Hanamichi andasse abbastanza d’accordo con la scimmietta del Kainan e Maki era una brava persona.

Erano questi i suoi pensieri mentre il resto del gruppo esprimeva il suo disappunto.

“Ora Hanamichi sembra tutto preso dal basket!” sospirò Noma pensieroso.

“Beh, se è diventato famoso lo deve al basket!” intervenne Okuso.

“Sì, però noi siamo i suoi amici” intervenne Takamiya con tono lamentoso.

“E lui ci sta trascurando, uffa, uffa, uffa!” aveva concluso con lo stesso tono di un bambino delle elementari.

Mito ascoltò, alzando gli occhi al cielo. Aveva previsto le reazioni di quei tre che volevano bene a Hanamichi e di conseguenza non vedevano di buon occhio il fatto che si allontanasse con qualcuno che loro conoscevano di sfuggita.

Ecco che temevano per il loro capo e si chiudevano a riccio intorno a lui.

Evidentemente, erano rimasti perplessi sul fatto che Mito non avesse dissuaso Hanamichi.

Fu per quello che Yohei intervenne, sedando i loro animi bellicosi.

“Adesso il basket è il primo dei suoi pensieri, è normale” spiegò loro, con tono pratico.

“Già”gli aveva dato ragione Noma.

In fondo, se stava bene a Mito allora non avevano nulla di cui preoccuparsi; sicuramente era stato quello il loro pensiero.

Di conseguenza, ripresero da dove avevano interrotto, cioè prepararsi alla battaglia per l’entrata nel locale.
 

***
 

Rukawa fissava immobile il soffitto della sua camera.

Non poteva crederci… la sua visita al coach era stata un disastro più totale.

Non solo gli aveva detto che aveva ancora molto da imparare (ma questo lo sapeva già), ma aveva anche aggiunto che non era ai livelli si Sendoh.

Dannazione, pensò stringendo i pugni con rabbia.

Le sue speranze erano state frantumate in un istante.

E dire che lui aveva dei grossi progetti in ballo. Per sé e per Hanamichi.

Lui che voleva ricominciare da un'altra parte con la testa rossa.

Lui che voleva andare con Sakuragi in un posto dove potessero esclusivamente pensare al loro sogno.

Però… ripensava anche alle parole della moglie del coach.

Lo aveva raggiunto e dato un passaggio con la macchina.

“E dimmi” aveva domandato sorridente, “cosa ne pensi di Sakuragi?

Mio marito ripone molte speranze in voi. Ha detto che non ha mai visto persone con più talento”.

Gli aveva poi raccontato il motivo per cui Anzai si era ritirato dal mondo del basket professionistico.

Che in passato fosse stato severo, Rukawa lo aveva sempre saputo.

Ma che la sua severità avesse costretto uno dei suoi allievi a decidere di andare in un altro continente non lo avrebbe mai immaginato.

La signora aveva continuato a parlare spiegando come in America il ragazzo, non essendo ancora un giocatore completo, avesse visto i suoi sogni cadere uno dopo l’altro.

Quando l’aveva capito, quando aveva appreso gli insegnamenti del signor Anzai, aveva creduto che fosse troppo tardi ponendo fine a quella che credeva oramai una vita inutile.

Crede che io sia come lui? Pensò Rukawa con rabbia.

Eppure oltre alla rabbia nasceva in lui anche una nuova consapevolezza.

Il racconto della signora lo aveva colpito più di quanto avesse dato a vedere.

Lui, Kaede Rukawa, non credeva di essere come il ragazzo morto.

Non credeva di essere così fragile.

Ma Hanamichi? Poteva azzardarsi a portarlo con sé?

Ovviamente no! Non avrebbe potuto portare il do’hao allo sbaraglio.

Voleva andare con lui in America per cominciare una nuova vita.

Voleva andare via con lui per realizzare il loro sogno, lontano da un Giappone così chiuso.

In America nessuno si sarebbe sorpreso delle loro altezze.

In America i capelli di Sakuragi non sarebbero stati fuori luogo.

Però… poteva arrischiarsi ad avventurarsi con il do’hao in un’impresa simile?

La squadra non è al tuo servizio. Sei tu al servizio della squadra.

Erano questi gli insegnamenti di Anzai.

Lui ne aveva capito il senso ma Hanamichi era ancora lontano da quel tipo di comprensione.

In passato, l’aveva sentito dire al suo amico che non avere uno scopo lo destabilizzava, ed era questo il problema.

Sakuragi non aveva ancora un obiettivo; il basket non era il suo futuro.

Era questo il punto cui Kaede avrebbe dovuto porre rimedio al più presto.

Lui, dal canto suo, ora aveva come obiettivo diventare il numero uno in Giappone.

Sospirò… proprio ora che le cose stavano andando meglio con il do’hao.

Proprio ora che aveva fatto un passo avanti verso di lui.

Si prese la testa con le mani.

Si preannunciavano dei brutti momenti per lui e per il do’hao.

Ma non si sarebbe tirato indietro. L’avrebbe fatto per il suo bene.

Il loro legame avrebbe resistito. Era questa la convinzione di Kaede.

Era questa la speranza a cui si aggrappava.
 

***
 

Sakuragi si avviava sbadigliando verso la casa del suo fidato amico.

Quella sera, nonostante fosse domenica, aveva finito di lavorare un po’ prima.

Si massaggiò distrattamente la spalla sinistra.

Per tutto il giorno, il pensiero di quell’armadio che lo buttava a terra con una semplice spallata non lo aveva abbandonato.

Anzi, non gli aveva dato una spallata. Era stato lui ad avvicinarsi con l’intento di spingerlo.

Quell’armadio versione umana aveva semplicemente continuato a camminare e lui si era ritrovato a terra.

Aveva quasi creduto che gli fosse venuto un livido. E, in effetti, la parte si era leggermente arrossata.

Chi diamine è quello? Era questo il suo pensiero ricorrente.

Quella mattina l’aveva passata con la Nobu-scimmia e il nonnetto.

Erano andati a una finale di basket. E lì Sakuragi aveva incontrato quella matricola che sembrava fatta di ferro.

Cazzo, pensò frustrato.

Come avrebbero fatto a fermare un elemento del genere?

Se quel tipo aveva buttato a terra lui con una facilità estrema, cosa avrebbe fatto con gli altri componenti della squadra?

Escluso Akagi che gli si avvicinava per stazza, se considerava il fisico di Ryota o la scarsa resistenza di Mitsui, allora sapeva che con quel tipo la squadra avrebbe avuto poche speranze.

E Rukawa invece?

La kitsune era forte ma… come sarebbe finita?

Ricordava perfettamente la facilità con cui quella matricola buttava a terra i suoi avversari.

Più che una partita, sarebbe stata un incontro di lotta libera.

Tra l’altro, la cosa valeva anche per lui considerò. Era lui, infatti, a doversi occupare dell’area sotto canestro.

Ce la farò! Pensò deciso.

Inoltre valutò l’idea di riferire, l’indomani, tutto alla kitsune.

Non poteva sapere che Rukawa aveva altri obiettivi.

Non poteva sapere che Rukawa aveva altri progetti.

Non poteva sapere che l’indomani una nuova tempesta avrebbe travolto la sua vita.
 

Continua…
 
Note:

Gli avvenimenti di questo capitolo sono ambientati nelle puntate 86 – 87 – 88 dell’anime.

Come avrete notato riprendo alcuni avvenimenti del canone. Per Rukawa e Mito ne approfondisco l’introspezione.

Per Sakuragi ho praticamente inventato la sua serata dopo la giornata passata con Nobunaga e Maki.

Il dialogo tra Rukawa e Sakuragi è ambientato la mattina dopo il precedente capitolo.

Visto che il canone non ci da indicazioni precise sullo scorrimento cronologico del tempo in questa parte, ho supposto che fosse di sabato. La visita di Rukawa ad Anzai e la partita a cui assiste Sakuragi sono conseguentemente fatte di domenica.

Il prossimo capitolo invece sarà quindi il lunedì seguente a questi avvenimenti.

Spero che sia tutto chiaro e di non aver creato confusione.

Spero anche che il capitolo vi sia piaciuto; mi raccomando fatemi sapere cosa ne pensate!

Ci vediamo domenica prossima con il nuovo capitolo.

Pandora86

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Capitolo 39
*** Tempesta ***


Eccomi con il nuovo capitolo della fic.
Grazie a chi ha commentato lo scorso capitolo, e anche a chi continua a inserire la storia tra le preferite e le seguite.
Ovviamente, grazie anche a tutti i lettori silenziosi.
Ci vediamo a fine capitolo per le note e le informazioni riguardo le prossime pubblicazioni. 
Mi scuso in anticipo per eventuali errori. Leggo e rileggo ma sapete com’è… qualcosa sfugge sempre!!
Per adesso, buona lettura.
 
 
 
Capitolo 38. Tempesta
 
Ti aggiorno lunedì.

Erano state queste le parole di Rukawa il sabato precedente, pensava Hanamichi dirigendosi a passo furente verso gli spogliatoi.

E ora era lunedì.

Peccato che degli aggiornamenti di Rukawa nemmeno l’ombra.

Aveva pensato che si facesse vivo nella mattinata.

Poi aveva pensato che si degnasse di parlare prima degli allenamenti.

Ma ora era l’orario degli allenamenti e di Rukawa neanche l’ombra.

E Hanamichi era a dir poco incazzato nero.

Uscì dagli spogliatoi con la grazia da elefante fino a che non notò Rukawa che parlava con il signor Anzai.

Anzi, più che parlare si fissavano in silenzio con uno strano sguardo.

Che avranno da dirsi questi due? Pensò, avvicinandosi al coach.

Tra l’altro, Rukawa non gli aveva rivolto neppure uno sguardo di sfuggita anche se doveva essersi palesemente accorto della sua presenza.

Fu per questo che volle farsi notare nel suo solito modo.

“Dica la verità, sta sgridando Rukawa, eh nonno?” domandò, con la sua migliore faccia da demente.

“Idiota!” ecco l’immancabile insulto di Rukawa che, tuttavia, gli degnò poco più di uno sguardo tornando a fissare Anzai.

“So perfettamente come ti senti!” disse poi il signor Anzai, rivolgendosi al numero undici.

Che hanno questi due? Pensò ancora una volta Hanamichi, osservando ora il coach ora Rukawa e avendo la netta sensazione di essersi perso qualcosa.

Tra quei due regnava una strana atmosfera, quasi come se ci fosse qualcosa di irrisolto tra loro.

La voce di Anzai lo riscosse dai suoi pensieri.

“Prima devi impegnarti a diventare il miglior giocatore del torneo” disse serio, sempre rivolto a Rukawa.

“Ma lei dovrà insegnarmi tutto quello che sa. Me lo prometta!” rispose il numero undici.

Lo sguardo pieno di determinazione.

Anzai sorrise e se ne andò.

Sakuragi rimase un attimo basito dal successivo comportamento di Rukawa. Erano soli in corridoio, quindi era convinto che sicuramente ora Rukawa gli avrebbe spiegato.

Fu perciò con stupore che lo vide voltare le spalle e allontanarsi verso la palestra.

“Ehi Rukawa” non potette fare a meno di richiamarlo.

“Che vuoi?” domandò il numero undici, voltandosi appena.

Sakuragi rimase perplesso del tono freddo dell’altro ma non si fece intimorire.

“Non mi dovevi qualche spiegazione?” domandò ancora il numero dieci.

“Non ci sei già arrivato da solo, idiota?” ribatté ancora Rukawa.

Sembrava avercela con lui. Sembrava avercela con il mondo intero.

“Non ti leggo nel pensiero, Rukawa!” si infervorò allora Sakuragi afferrando l’altro per la canottiera.

“Ti devi allenare. Ci dobbiamo allenare!” ringhiò a sua volta Rukawa a bassa voce scostando le mani dell’altro con un gesto brusco e avviandosi in palestra.

Si era reso conto di essere stato duro ma non era riuscito a fare diversamente.

Ci teneva al do’hao, ci aveva sempre tenuto ma non potevano permettersi ora di fare i fidanzatini a tempo pieno.

La frustrazione del giorno prima era ancora presente.

Il primo vero fallimento della sua giovane vita.

Aveva sempre creduto di essere una persona oggettiva, soprattutto con se stesso.

E non poteva accettare l’idea di aver preso una cantonata così grossa.

Se lui non era in grado di battere Sendoh, allora il do’hao che speranze aveva?

Era questo il punto cruciale a cui doveva porre rimedio.

La relazione che si stava instaurando con il do’hao era dannosa in quel momento e non per lui ma per Sakuragi stesso che, ora come ora, non poteva perdere tempo in cose inutili.

Anche se si trattava di lui.

Avrebbero avuto tempo, era questo il ragionamento di Rukawa.

Non poteva, infatti, sapere quanto fosse sbagliato il suo pensiero.

Non poteva sapere a cosa lo avrebbe portato.

Ma del resto, non c’era da stupirsi che la pensasse così. Era un adolescente chiuso, fondamentalmente.

Era un adolescente con un grande sogno e con una grande ambizione.

Il sogno che lo aveva accompagnato per tanto tempo.

Il sogno che per lunghi anni era stato il suo solo compagno.

Non era una cima nelle relazioni interpersonali e adesso si trovava con un sogno infranto e una relazione neonata con Sakuragi.

Era normale che agisse così. Era scontato per Kaede Rukawa.

Non poteva sapere che una relazione si basava sul dialogo e sul confronto.

Non poteva sapere che una relazione non si basava su decisioni arbitrarie.

Era sempre stato lui a inseguire il do’hao. Era sempre stato lui a decidere per l’altro.

Era stato felice del passo del do’hao verso di lui ma non ne aveva compreso il significato.

 Rukawa non poteva sapere che, per la prima volta, il suo modo di fare lo avrebbe allontanato definitivamente da Sakuragi.

Non poteva sapere che il suo progettare tutto da solo, il suo non voler condividere i problemi, avrebbe spezzato il rapporto tra i due.

Non aveva capito che in quel particolare frangente avrebbe dovuto condividere e progettare insieme all’altro.

E questo, come i suoi gesti successivi, avrebbe potuto fargli perdere la cosa più importante che aveva.

Non aveva capito che il momentaneo allontanamento che aveva deciso per tutti e due avrebbe potuto essere definitivo.

Sakuragi non sarebbe stato sempre lì ad aspettarlo.

Ma questo, Rukawa, proprio non lo aveva immaginato.

 
***
 

Yohei si avviò con il resto dell’armata verso la palestra.

Rideva e scherzava con gli altri ma aveva un cipiglio scuro in volto.

Hanamichi gli aveva raccontato quello che era avvenuto con Rukawa e ne era rimasto perplesso anche lui.

Non riusciva a capire cosa aveva in mente la matricola d’oro dello Shohoku e francamente tutto si aspettava tranne che rifiutasse l’invito dell’amico.

Era convinto che non aspettasse altro. Anzi, era sicuro che fosse così.

Quello che provava per Hanamichi era fuori discussione.

Il problema era però quello che sembrava aveva in mente.

Cosa mai poteva esserci di più importante per Kaede Rukawa da costringerlo a rifiutare l’invito di Hana?

Il basket aveva poi dedotto, sentendosi uno Sherlock Holmes alle prime armi.

Ma cosa mai poteva c’entrare il basket e come poteva, questo progetto, coinvolgere Hanamichi?

Questo non l’aveva proprio capito.

Aveva intuito però che le cose sembravano non essere andate come la super matricola aveva previsto.

Bastava guardare i suoi occhi e l’umore nero quasi palpabile che aveva, costatò osservandolo in quel momento in palestra.

E forse è per questo che Hanamichi non è venuto a conoscenza di niente, considerò.

Probabilmente, aveva previsto di metterlo a conoscenza della buona notizia a cose fatte.

Ma la buona notizia non c’era stata e Rukawa non aveva condiviso la delusione con nessuno.

Ed è questo il problema, considerò ancora non incolpandolo però di nulla.

Rukawa era sempre stato solo e non poteva cambiare dall’oggi al domani.

Hanamichi stesso non l’avrebbe voluto diverso.

Però doveva imparare che i problemi andavano condivisi.

Spero che tu non lo impari a tue spese Rukawa, pensò lungimirante come sempre, osservando il suo migliore amico essere colpito in pieno da una pallonata mandata proprio dallo stesso Rukawa.

“Allora buffone, vuoi darti una mossa?” gli aveva poi intimato con tono duro.

Spero che tu non stia tirando troppo la corda, Rukawa! Pensò ancora Mito assottigliando gli occhi a quelle parole.

“È strano!” intervenne Noma riscuotendolo dai suoi pensieri.

“Tutti sono concentrati su ciò che devono fare in campo tranne lui. Però, non capisco per quale motivo non ci riesca!”.

“Non ne ho idea!” rispose Takamiya al suo fianco.

“Invece” intervenne Yohei pensieroso, “io un’idea me la sono fatta ragazzi” concluse senza aggiungere altro ma continuando a osservare il suo migliore amico.

Si preannunciano guai, considerò poi tra se sperando di sbagliarsi.

Era normale che Hanamichi non si concentrasse. Non poteva riuscirci considerando quanto lo avesse spiazzato il comportamento del numero undici.

Stai giocando con il fuoco, Rukawa! Pensò ancora Mito accigliandosi e sentendo una brutta sensazione farsi largo in lui.

Brutta sensazione che, purtroppo, fu confermata dagli avvenimenti successivi.

Si era deciso per una partita di allenamento dove Rukawa e Sakuragi avrebbero giocato come avversari.

Rukawa era spietato. Non c’era altro modo di definirlo.

Anche il resto dell’armata si era accorta del suo strano comportamento.

Loro sapevano che rapporti intercorrevano fra il loro capo e Rukawa.

Non tutto, certo. Ma comunque sapevano. Ed era per questo che non si riuscivano a spiegare la furia che metteva Kaede Rukawa nel gioco.

La furia che metteva verso tutti i suoi avversari, Hanamichi compreso.

Sopraggiunse Haruko e Yohei ebbe la conferma che anche il resto del gruppo si era accorto che qualcosa non andava.

“Non è un bello spettacolo” disse quasi balbettante Takamiya quando la ragazza si avvicinò.

Proprio in quel momento assistettero a Rukawa e Kogure schiantarsi letteralmente a terra dopo che quest’ultimo aveva cercato di bloccare la super matricola.

Il tutto, sotto lo sguardo allibito di Sakuragi che non riusciva a darsi una spiegazione su ciò che stava avvenendo.

Ma quello che venne dopo, lasciò tutti di stucco.

Hanamichi, deciso a non perdere, scartò il proprio avversario determinato come non mai ad andare a canestro.

Fu un’azione da manuale.

Ma Rukawa non ne permise la conclusione, stoppando il numero dieci con una tale violenza da mandare la palla a rimbalzare, non una ma due volte, sulla rete fuori la palestra.

Ma fu la frase successiva, che Yohei non si aspettava, a fare impallidire Hanamichi.

“Ascolta bene” disse Rukawa guardando un Sakuragi fremente di rabbia. “Ho ben altro da fare che stare a perdere tempo con te!” concluse, voltandosi per andare a recuperare la palla.

Nel farlo, all’uscita intercettò lo sguardo di Mito che stavolta non sorrideva più.

Questa me la paghi, Kaede Rukawa! Pensò stringendo i pugni infilati nelle tasche della divisa scolastica.

Non poteva sapere, infatti, che le sorprese per quella giornata non erano ancora finite.

Non poteva sapere che il peggio doveva ancora arrivare.
 

Continua….
 
Note

L’inizio del capitolo è ambientato nella fine della puntata 88.

La parte centrale e finale sono invece la prima parte della puntata 89.

Ho notato che il capitolo è un po’ più corto rispetto ai miei standard ma è una cosa che ho ritenuto necessaria dato che siamo in una fase particolare della storia dove si analizza effettivamente il rapporto attuale di Hanamichi e Rukawa.

Come avrete notato, molti dialoghi sono presi dal canone.

Inoltre compare solo la parte introspettiva di Mito e Rukawa. La cosa è voluta.

Infatti, anche la puntata 89 è stata divisa a metà essendo presente in questo capitolo solo per la prima parte.

Ho ritenuto opportuno separarle dall’introspezione del protagonista altrimenti il capitolo sarebbe potuto risultare troppo pesante.

Che altro dire… spero che il capitolo vi sia piaciuto!

Mi raccomando fatemi sapere cosa ne pensate!

Ci vediamo domenica prossima con il nuovo aggiornamento.

Pandora86.

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Capitolo 40
*** Reazione ***


Eccomi con il nuovo capitolo della fic.
Grazie a chi ha commentato lo scorso capitolo, e anche a chi continua a inserire la storia tra le preferite e le seguite.
Ovviamente, grazie anche a tutti i lettori silenziosi.
Ci vediamo a fine capitolo per le note e le informazioni riguardo le prossime pubblicazioni. 
Mi scuso in anticipo per eventuali errori. Leggo e rileggo ma sapete com’è… qualcosa sfugge sempre!!
Per adesso, buona lettura.
 
 
 
 
Capitolo 39. Reazione
 

Sakuragi camminava pensieroso al fianco del suo fidato amico.

Uno strano silenzio aleggiava tra loro.

Era palese che ognuno dei due fosse preoccupato per qualcosa.

Probabilmente per la stessa cosa, pensò Hanamichi sorridendo.

Era sicuro che anche Yohei fosse preoccupato per lo spettacolo inedito che Rukawa aveva dato in palestra, sentendo, a questa considerazione, l’affetto per il suo migliore amico crescere.

Non ho tempo da perdere con te.

Una frase dura. Brutale nella sua semplicità.

Inutile mentire a se stesso: gli aveva fatto male.

Te la farò pagare molto cara. 

Era stato questo il pensiero che lo aveva accompagnato per il resto degli allenamenti.

Allenamenti in cui Rukawa aveva dato tutto se stesso.

Allenamenti in cui Rukawa non aveva dato scampo a nessuno.

Eppure, ragionandoci a mente fredda, c’era qualcosa che non gli tornava.

Ripensò allo scambio di battute avute con Mitsui e Ryota dopo gli allenamenti.

“Sono a pezzi!” aveva detto il tiratore, mentre si rinfrescava.

“È stata una partita faticosa!” aveva poi aggiunto mentre continuava a bere.

“Che cosa aveva Rukawa? Era davvero strano oggi!” aveva poi domandato Miyagi rivolgendosi a lui.

A quel punto, a Hanamichi era andata l’acqua di traverso.

Perché diamine lo domanda a me? Aveva pensato frustrato mentre tossiva.

“Bella domanda” aveva dato il suo contributo Mitsui.

“Purtroppo, rimarrà senza risposta! Sembrava preoccupato per qualcosa” aveva concluso in tono grave.

“Ma va, sciocchezze!” era intervenuto a quel punto Hanamichi non potendone più del discorso dei due.

“Voleva soltanto mettersi in mostra. A lui piace essere compatito” aveva aggiunto pieno di rabbia, fino a che l’oggetto dei loro discorsi aveva fatto la sua comparsa.

“Scostati! Akagi vuole parlarti!”. 

È davvero preoccupato per qualcosa, era stato il pensiero di Hanamichi a quel punto.

Il tono di voce non era senza inflessione come pensavano tutti.

Era arrabbiato. Lui, che aveva in parte imparato a riconoscere gli atteggiamenti di Rukawa, poteva leggervi la rabbia, anche se solo in superficie.

Quello che era avvenuto dopo poi, non era stato altro che la conferma ai suoi pensieri.

Rukawa aveva, di sua spontanea volontà, sfidato Mitsui.

Il perché era ancora tutto da chiarire.

Però gli aveva dato fastidio.

Ed era per questo che l’aveva poi sfidato a sua volta.

Sapeva di non poterlo battere. Sapeva di non essere al suo livello.

Ma la cosa non gli importava perché forse avrebbe capito comunque qualcosa giocandoci assieme.

Il basket era il perno della vita di Rukawa.

E attraverso esso era possibile capire gli stati d’animo del numero undici.

Ovviamente, era stato battuto.

Ed era stato allora, nella palestra che Mitsui e Ryota avevano provveduto a chiudere per lasciarli soli, che aveva chiesto.

Rukawa si stava avviando verso l’uscita dopo avergli, gentilmente, fatto notare la differenza tra loro.

“Aspetta un attimo!” l’aveva richiamato.

Era stato allora che glielo aveva domandato.

“Perché?”

L’altro l’aveva guardato con uno strano cipiglio.

Sembrava sorpreso da ciò. Forse si aspettava una scazzottata. O forse si aspettava una buffonata.

Di certo, non si aspettava che Sakuragi volesse tranquillamente conversare con lui dopo che era stato battuto.

Peccato che al soggetto in questione non importasse nulla della sfida.

Quello di Sakuragi era stato solo un pretesto per capire.

“Che hai?” aveva domandato ancora il numero dieci, visto il silenzio dell’altro.

“Che ho?” si era deciso finalmente a parlare Rukawa.

“Ho che non posso perdere tempo dietro a qualcuno che non sa ancora cosa ne vuole fare della sua vita!” aveva sbottato sotto voce.

E Sakuragi aveva sorriso.

In fondo, aveva le sue risposte finalmente.

Rukawa non ce l’aveva con lui, quanto con il mondo.

Ma soprattutto, ce l’aveva con se stesso per qualcosa.

Tra l’altro, lo dimostrava quello che aveva detto prima di uscire definitivamente dalla palestra.

“Mi dispiace essere fatto così”.

Una semplice frase.

Un semplice sussurro, nulla di più.

Parole in cui Sakuragi ritrovò il Rukawa che aveva imparato a conoscere in quei mesi.

Parole che gli avevano fatto ritrovare il Rukawa di cui si era innamorato e che avevano cancellato quello rabbioso che si era trovato davanti quella giornata.

Era per questo che l’aveva sfidato: perché voleva capire.

All’inizio si era seriamente domandato se l’altro non soffrisse di qualche disturbo della personalità.

Poi, si era domandato se avesse fatto qualcosa di sbagliato.

E quella frase aveva chiarito tutto.  Mitsui aveva ragione, Rukawa era preoccupato per
qualcosa e reagiva nell’unico modo che conosceva: buttandosi anima e corpo nella sua unica ragione di vita.

Inoltre, anche se non aveva capito il perché dello stato d’animo di Rukawa, quella sfida era servita anche a lui.

Era servita a fare maturare qualcosa presente nella sua mente da un po’ di tempo.

Le parole di Rukawa avevano dato forma a quei pensieri indistinti che gli ronzavano in testa da qualche giorno.

Ancora una volta, il numero undici gli aveva mostrato la via, seppur questa volta del tutto inconsciamente.

Via che lui, stavolta, aveva deciso di percorrere.

Da qualche tempo, dopo che il rapporto con Rukawa si era evoluto, aveva iniziato a pensare al suo futuro.

Ma solo quella sera aveva visto la concretizzazione di quello che pensava.

Come aveva detto Yohei, era Rukawa che l’aveva sempre inseguito.

Era Rukawa che gli aveva sempre imposto i suoi tempi.

E lui si era, inconsciamente, adagiato.

Ma adesso era venuto il momento di fare qualcosa per se stesso, da solo.

Ripensò alle parole di Ryota.

“Adesso smettila di pensare alla sfida con Rukawa. Hai altro a cui pensare. C’è il torneo!”.

Mitsui, Miyagi e Kogure si erano preoccupati della reazione post-sconfitta e gli avevano fatto compagnia per un po’.

Erano veramente dei buoni amici.

Non sapeva, infatti, che loro avevano intuito che ci fosse qualcosa tra lui e Rukawa. Non
poteva immaginarlo visto che anche lui, fino a quel momento, aveva faticato a dare un nome al legame che li univa.

Tuttavia, anche non sapendo il reale motivo per cui avessero chiuso le porte della palestra e si fossero preoccupati di consolarlo, aveva comunque apprezzato il loro gesto.

La mia squadra! Pensò con orgoglio.

I miei amici! Pensò con affetto.

Ryota aveva ragione.

Era vero quello che aveva detto.

Lui in quel momento doveva pensare ad altro; anche lui aveva qualcosa da dire a Rukawa.

Anche lui aveva qualcosa da fare.

E finalmente, sapeva cosa.

Non si era dimenticato dell’armadio umano.

Anche lui, ora, aveva degli obiettivi.

Si fermò sotto casa senza entrare, sotto lo sguardo perplesso di Mito.

“Yo... devo fare una cosa. E devo farla io stavolta!” esordì deciso, prima di fare dietro front e allontanarsi.

Yohei acconsentì con un sorriso. Non c’era bisogno di parole.

Non c’era bisogno di risposte.

Osservò la schiena di Hanamichi sparire dalla sua visuale.

Il suo migliore amico stava maturando e lui aveva intuito la sua destinazione.

Aveva deciso di fare qualcosa. Non aveva ancora capito se il destinatario avrebbe avuto un pugno o qualcos’altro, ma comunque aveva deciso di fare qualcosa e di farla a modo suo.

Neanche a lui era piaciuto il comportamento di Rukawa.

Aveva capito, tuttavia, che doveva esserci qualcosa di grosso sotto e, facendo la strada in silenzio con un Hanamichi di fianco perso nei suoi pensieri, aveva ponderato se fosse il caso di intervenire o meno.

Tuttavia, stavolta Hanamichi l’aveva preceduto e questo lo fece sorridere sereno.

Comunque sarebbe andata, Sakuragi aveva deciso di reagire e prendere di petto il problema.

“In bocca al lupo, Hana” sussurrò, rivolto a una strada oramai vuota.

 “Io sono con te!” sussurrò ancora, prima di entrare in casa con il cuore gonfio d’aspettativa.


***

 

Rukawa fissava pensieroso il soffitto.

Quella giornata era stata snervante.

E lui era di pessimo umore.

Che poi, valutò, non era stata la giornata a essere snervante quanto le azioni dovute al suo atteggiamento.

Non ho tempo da perdere con te!

Quella frase continuava a risuonargli in testa.

Perché, dannazione, aveva dovuto prendersela con Sakuragi per sfogare il suo malumore?

Perché questo era avvenuto.

Tutti i pensieri di quella giornata, e anche di quella precedente, erano stati pensieri tanto inutili quanto logoranti.

Lui aveva progettato, lui aveva fatto e poi disfatto.

Lui voleva andare in America.

Lui voleva portare Hanamichi con sé.

Peccato che di tutto questo Hanamichi non ne sapesse nulla.

Ed era questo il problema.

Aveva montato da solo un castello di carte che si era poi abbattuto al primo soffio.

Sakuragi si era accorto che qualcosa non andava.

Adesso lo capiva.

Era per questo che lo aveva sfidato.

Lui, dal canto suo, aveva sfidato Mitsui perché inconsciamente, cercava gli occhi del do’hao su di se.

Lui, che in passato si era ripromesso di umiliare Mitsui sul campo, non aveva saputo rinunciare all’opportunità che gli veniva offerta.

E solo perché il do’hao, nonostante tutto, continuasse a guardare lui.

Come aveva potuto pensare di allontanare Hanamichi, se con tutto quel talento era la personificazione stessa dello sport che amava tanto?

Eppure l’aveva pensato.

Aveva lasciato che fosse la delusione a guidare le sue azioni.

Dannazione! Imprecò mentalmente, lanciando il cuscino contro il muro e prendendosi la testa tra le mani.

Anche lui era un essere umano. Anche lui aveva la sua sensibilità.

Peccato che adesso rischiasse di pagarne lo scotto.

Sakuragi l’aveva sfidato sapendo di perdere, per capire cosa non andasse.

E lui, quando per la seconda volta Hanamichi gli aveva domandato cos’aveva, non aveva resistito più gettandogli addossi tutta la sua rabbia.

Perché era colpa sua che non si impegnava.

Era colpa sua che perdeva tempo con tutto il talento che si ritrovava.

Era colpa sua che non prendeva in considerazione il basket come carriera futura.

Ma, nel momento in cui le parole erano uscite fuori, aveva capito che niente di tutto quello era vero.

La colpa non era di Sakuragi.

La colpa era di Kaede Rukawa.

Che aveva sopravvalutato se stesso.

Che aveva visto allontanarsi il suo sogno senza poterlo afferrare per riportarlo indietro.

Che era talmente chiuso da non riuscire neppure a rapportarsi con la persona che amava.

Ed era per questo che aveva, in parte, provato a rimediare dicendogli che gli dispiaceva.

Non sapeva se quello fosse bastato, visto che poi era immediatamente uscito dalla palestra.

Non può essere bastato! Pensò poi, valutando il suo effettivo comportamento nel corso della giornata.

Cosa avrà pensato Hanamichi? Si domandò.

Che sono uno psicopatico! Si rispose poi da solo.

Però… anche se aveva sbagliato poteva ancora rimediare.

Doveva rimediare. Non poteva buttare nel cesso tutto quello che aveva costruito con l’altro.

Fu con la determinazione che lo contraddistingueva perciò che si alzò deciso dal letto, dirigendosi svelto alla porta.

Quello che però non poteva sapere, era che quella sera non sarebbe andato da nessuna parte, considerato chi si ritrovò davanti nel momento stesso in cui la porta fu aperta.

Era stato talmente preso in contropiede che le parole gli uscirono in un sussurro.

“Tu?”
 
 

Continua…
 
Note:

Gli avvenimenti di questo capitolo sono ambientati nelle puntate 89 e 90 dell’anime.

Come avrete intuito, questo capitolo in origine era la conclusione del precedente.

Rileggendo, recentemente ho deciso di dividerli per due motivi:

Primo motivo, per non farlo risultare troppo tedioso essendo puramente introspettivo.

Secondo motivo, e anche più importante, per dare un giusto stacco temporale fra la decisione improvvisata di Rukawa e il suo successivo ripensamento.

Infatti, nella parte finale del capitolo si riprendono i pensieri di quest’ultimo alle prese con il suo primo “sbaglio”.

Ho provato a immaginare l’introspezione di Rukawa dopo la delusione ricevuta, vedendolo come un tipo molto sensibile.

Tuttavia, rimane comunque il Rukawa determinato che conosciamo, come riaffiora nell’ultima parte.

Inoltre, ho ampliato anche l’introspezione di Sakuragi che, piano piano, inizia a maturare nel corso della storia divenendo effettivamente “pensante” nella relazione con Rukawa e non più trascinato dagli eventi, considerato che per la prima volta è Kaede ad avere un problema.

Mi è sembrato giusto approfondire questa parte anche per dare equilibrio alla storia visto che è sempre stato Hanamichi a essere in difficoltà.

Tuttavia ci tengo a precisare che il problema di Kaede rimane comunque di proporzioni minori visto che tutta la fic si incentra su Hanamichi e sulla ricerca di Kaede del vero volto dell’altro.

Tutto questo, sfruttando come base i dialoghi e gli avvenimenti del canone e adattandoli secondo le mie necessità.

Che altro dire… spero che il capitolo vi sia piaciuto e di non aver fatto troppa confusione!

Mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate.

Ci vediamo domenica prossima con il nuovo aggiornamento.

Pandora86

 

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Capitolo 41
*** La tua mano ***


Eccomi con il nuovo capitolo della fic.
Grazie a chi ha commentato lo scorso capitolo, e anche a chi continua a inserire la storia tra le preferite, le ricordate e le seguite.
Ovviamente, grazie anche a tutti i lettori silenziosi.
Ci vediamo a fine capitolo per le note e le informazioni riguardo le prossime pubblicazioni. 
Mi scuso in anticipo per eventuali errori. Leggo e rileggo ma sapete com’è… qualcosa sfugge sempre!!
Per adesso, buona lettura.
 
 
Capitolo 40. La tua mano
 

Sakuragi aveva fatto la strada di corsa.

Sapeva dove abitava la kitsune e sapeva anche cosa fare.

Non era sicuro su come intavolare il discorso ma non se ne preoccupava più di tanto.

Pensa di meno e lasciati andare.

Di nuovo le parole di Yohei, dette tanto tempo prima, che gli davano coraggio.

E Sakuragi, quella sera, sentiva di non aver bisogno d’altro.

Era arrivato davanti casa di Rukawa decidendo di scavalcare il cancello d’ingresso.

Ma, proprio quando stava per bussare, ecco la kitsune che apriva la porta, quasi come se avesse sentito il suo arrivo.

Sicuramente non si aspettava la sua visita.

Ne era la prova il volto di Rukawa che, nonostante il suo invidiabile autocontrollo, non riusciva a celare l’evidente sorpresa.

“Tu?”

Un sussurro appena.

Che diamine ci faceva Hanamichi lì?

Era questo il pensiero di Rukawa, che fissava allibito la figura davanti a se, quasi come se si aspettasse che potesse scomparire da un momento all’altro.

Che sia venuto a mandarmi al diavolo? Si chiese, rifiutando poi, a priori, l’idea.

Non stava bene fasciarsi la testa prima di rompersela e lui non ne era certo il tipo.

“Hai finito?” la voce di Sakuragi lo riscosse dai suoi pensieri.

Rukawa alzò un sopracciglio con espressione scettica.

Che intendeva? Non aveva fatto e detto nulla ancora.

La sua faccia dovette però essere eloquente, visto che l’altro lo rispose con il suo solito tono allegro.

“Di pensare, Rukawa! Sei fastidioso!”.

“Mi fai entrare?” domandò poi subito dopo, non lasciandogli neanche il tempo di contro ribattere.

“O stavi uscendo?” aggiunse poi, visto che Rukawa non poteva avergli aperto la porta senza neanche farlo bussare.

“No!” rispose, forse con un po’ troppa foga, il numero undici.

Non sapeva perché Sakuragi fosse lì, ma non voleva neanche farlo andare via.

“Entra!” disse poi con il suo solito tono, cercando di darsi un contegno e scostandosi per far passare l’altro.

Ok… il primo passo è fatto! Pensò Sakuragi entrando.

Arrivare fin lì era stato facile però, una volta varcata la soglia della casa di Rukawa sentiva la sua baldanza scivolargli tra le mani senza poter fare nulla per afferrarla.

“Cosa ci fai qui?”

La voce di Rukawa lo riscosse dai suoi monologhi interiori.

Tuttavia, fu il tono a sorprenderlo.

C’era urgenza in quella voce. Su questo Sakuragi era sicuro di non essersi sbagliato.

Si girò verso l’altro con un sorriso sghembo.

Pensa di meno e lasciati andare.

Ancora le parole del suo migliore amico.

Fu allora che decise che non occorreva nessun discorso o nessuno schema.

L’impulsività del suo carattere avrebbe fatto tutto da se.

Non avrebbe dovuto fare null’altro che essere se stesso, proprio come Rukawa aveva sempre fatto con lui.

“Per questo, kitsune!”

Fu la pronta risposta che precedette il pugno che rifilò al viso dell’altro.

Rukawa, dal canto suo, si ritrovò con la guancia dolorante senza neanche sapere come.

Il pugno di Sakuragi era partito e lui neanche l’aveva visto arrivare.

“Sei venuto a casa mia per prendermi a pugni?” domandò allora, assottigliando gli occhi.

Era la rissa che voleva?

Beh… non si sarebbe tirato indietro.

“Scusa tanto, ma te lo dovevo dopo oggi” si difese Sakuragi alzando le mani in segno di resa.

“E poi” aggiunse facendosi serio, “ne avevi bisogno per darti una bella svegliata!” concluse, fissandolo intensamente.

Era certo, infatti, che Rukawa avrebbe colto il riferimento.

E, infatti, Rukawa capì cosa intendeva l’altro.

Almeno adesso mi hai fatto entrare do’hao.

Quella frase, che tempo prima aveva detto a Sakuragi, giustificando così il pugno che gli aveva dato, gli tornò alla mente strappandogli un mezzo sorriso.

“Nh… io però non ti ho fatto nessun livido in faccia!” esclamò, andando a sedersi sul divano.

 “Però mi hai quasi incrinato una costola. E comunque anche a me si è fatto un livido enorme!” si lamentò Sakuragi con tono piagnucoloso, seguendolo a ruota e accomodandosi di fianco a lui senza nessuna esitazione.

Quando poi, il pensiero di quello che c’era stato sul quel divano gli tornò alla mente, allora sì che dovette portare il suo autocontrollo al massimo per non alzarsi e sedersi ovunque tranne che lì.

Ovviamente Rukawa se ne accorse, sorridendo intenerito.

E fu per questo, in virtù di quegli stessi ricordi che anche lui ora stava rivivendo e che avrebbe fatto di tutto purché non restassero solo tali, che domandò ancora:

“Perché sei qui?”

“Per vedere come stai… Kaede!”

Fu la pronta risposta di Sakuragi.

Risposta alla quale il cuore di Rukawa aveva perso un battito.

Kaede.

Mai Sakuragi lo aveva chiamato per nome.

Quella era stata sempre una sua prerogativa, un diritto che si era arrogato sull’altro senza neanche chiedere.

Per vedere come stai.

Allora si era accorto che qualcosa non andava.

Era stato però lo sguardo di Sakuragi a colpirlo, mentre pronunciava quella frase.

Non lo guardava e le guance erano ancora leggermente rosate, segno che l’imbarazzo dei pensieri non proprio casti di pochi attimi prima era ancora presente.

Il tono… incerto, titubante… eppure al contempo deciso.

Non aveva vacillato nella sua domanda. Non aveva avuto paura di chiedere.

Non aveva paura di sapere.

Però… aveva mantenuto il tono basso, quasi come a voler rispettare un ipotetico dolore dell’altro.

Era stato rispettoso, ma anche preoccupato.

Questo era il volto di Sakuragi che tanto cercava.

La parte sensibile che l’altro si affannava tanto a nascondere.

E ora, questo volto era preoccupato.

Per colpa sua.

Era teso e triste, e sicuramente era stato anche confuso e smarrito dopo le sue uscite.

Sempre per colpa sua.

Furono questi pensieri che fecero pentire ancora di più Rukawa del suo comportamento.

Non avrebbe voluto trattarlo così e, se ci fosse stato un modo per tornare indietro, l’avrebbe fatto seduta stante.

“Mi dispiace” incominciò.

Lui non era tipo da scusarsi. Non sul suo modo di essere almeno. Non sul suo carattere.

Però… a Hanamichi lo doveva.

“Per oggi” continuò, “quello che ho detto…”

“È la verità!” lo interruppe deciso l’altro, con un cenno della mano.

Rukawa lo guardò sorpreso.

“Non dispiacerti! O almeno non farlo per quello!” continuò ancora il numero dieci.

“Che vuoi dire?” si ritrovò a domandare allora Rukawa, completamente spiazzato dalle parole dell’altro.

“Che hai ragione. Hai sempre avuto ragione!” affermò Sakuragi sicuro.

“Ma questo è un altro discorso” continuò poi.

“Perché vedi… io ora voglio solo sapere come stai e cosa è successo” concluse deciso.

Una luce determinata gli illuminava il volto.

Non avrebbe lasciato perdere, Rukawa lo sapeva.

Sakuragi in quanto a testardaggine non aveva rivali.

Era cocciuto come e quanto lui.

Ma non fu solo questo, però, che lo spinse a parlare.

Fu il volto dell’altro che, nonostante tutto, non era arrabbiato.

Il volto dell’altro che, ancora una volta, era andato oltre l’apparenza.

Solo Sakuragi poteva capirlo così bene.

Come solo lui poteva capire così bene Hanamichi.

La loro empatia era palpabile.

Fu allora che cominciò a raccontare i suoi perché.

E mentre parlava si accorgeva che, in fondo, non gli costava nessuna fatica.

E non perché all’improvviso fosse diventato un brillante oratore.

Semplicemente, perché ad ascoltarlo c’era l’unica persona che avrebbe voluto di fianco a sé.

Non aveva mai parlato con nessuno.

Si era sempre tenuto tutto dentro, sia gioie sia dolori.

Si era tenuto per sé il dolore della perdita di sua madre.

Si era tenuto per sé i successi che aveva nel basket.

Non si era mai confidato con nessuno.

Ma, allo stesso modo, non aveva neanche condiviso gioia o soddisfazione con qualcuno.

Eppure, in quel momento qualcosa era cambiato.

Non avrebbe di certo iniziato a confidarsi con il primo che capitava, questo no, ma una nuova consapevolezza si faceva strada in lui, facendogli provare qualcosa di nuovo.

Qualcosa che non aveva mai provato prima.

Non era il sentimento che provava verso Hanamichi. Quello albergava nel suo cuore da parecchio tempo.

Era la soddisfazione che solo una condivisione a livello intimo con la persona che più ti è affine può dare.

Fu in quel momento che capì il suo colossale sbaglio.

Ma non verso Hanamichi; verso se stesso.
 Verso qualcosa che si era, inconsciamente negato perché non ne aveva conoscenza.

Fu in quel momento che capì che parlare a Hanamichi non gli costava nessuno sforzo.

Era come parlare a una parte di sé.

Fu così che gli accennò del suo progetto di andare in America.

Gli raccontò delle sue illusioni.

Della sua visita al coach e della storia che gli aveva raccontato la moglie di Anzai.

Vide Sakuragi intristirsi di fronte a quella vicenda.

Del resto, Kaede sapeva che quell’argomento lo toccava da vicino.

Gli parlò del suo progetto di diventare il migliore in Giappone e del suo volerlo portare con sé.

Gli parlo delle sue paure dovute all’inesperienza di Sakuragi.

Le parole erano brevi e coincise.

Non erano racchiuse in discorsi pomposi o pieni di aggettivi.

Erano secche e oggettive.

Pur tuttavia, non erano meno importanti né meno significative.

E di sicuro non erano impersonali.

Perché Rukawa lasciava trasparire tutta la rabbia o la delusione provata a seconda dell’avvenimento.

Il suo corpo parlava da solo.

Le mani che, talvolta, si stringevano a pugno.

Talvolta, andavano a scostare la lunga frangia.

E, in tutto questo, lo sguardo di Sakuragi lo accompagnava.

Lo accompagnava anche adesso che aveva finito di parlare.

Rukawa aveva visto l’altro provare ad allungare la mano verso le sue, tirandola poi poco più indietro.

Evidentemente, avrebbe voluto stringerli la mano, come lo stesso Rukawa aveva fatto tempo addietro in quella stessa stanza, ma la sua timidezza lo aveva bloccato.

Eppure, per Rukawa era come se lo avesse fatto.

Quella mano, ferma sul divano che, a tratti avanzava per poi indietreggiare impercettibilmente, lo aveva accompagnato durante tutto il suo discorso.

Anzi, nel suo caso, sarebbe stato più appropriato dire durante tutte le sue brevi costatazioni.

Quella mano che Rukawa decise di andare a stringere di sua iniziativa e che l’altro non rifiutò, andando a intrecciare le loro dita.

Era a quella mano che Rukawa si aggrappava prima di sentire il responso di Sakuragi.

Erano quelle dita intrecciate che gli davano speranza per un buon esito del loro rapporto.

Perché adesso toccava a Sakuragi parlare.

Adesso toccava a Sakuragi decidere se quelle mani intrecciate tra loro, avevano ancora
motivo di essere tali.
 

Continua…
 

Note:
 
Questo capitolo è ambientato nella puntata 90 dell’anime.

Ho immaginato un’ipotetica serata per i nostri due protagonisti dopo la famosa sfida a porte chiuse nella palestra dello Shohoku.

Che dire… spero che questo capitolo vi sia piaciuto.

Mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate!

Ci vediamo domenica prossima con il nuovo aggiornamento!

Pandora86

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Capitolo 42
*** Rischiare di perderti per capire di volerti ***


Eccomi con il nuovo capitolo della fic.
Grazie a chi ha commentato lo scorso capitolo, e anche a chi continua a inserire la storia tra le preferite, le ricordate e le seguite.
Ovviamente, grazie anche a tutti i lettori silenziosi.
Ci vediamo a fine capitolo per le note e le informazioni riguardo le prossime pubblicazioni. 
Mi scuso in anticipo per eventuali errori. Leggo e rileggo ma sapete com’è… qualcosa sfugge sempre!!
Per adesso, buona lettura.
 
 
 
Capitolo 41. Rischiare di perderti per capire di volerti
 

Sakuragi era rimasto in silenzio durante tutte le spiegazioni di Rukawa.

Non lo aveva mai sentito parlare tanto, e la sua voce calda era stata la migliore delle melodie che avesse mai ascoltato.

Si era creata una strana atmosfera mentre il numero undici parlava.

Il tono era basso ma deciso.

Le frasi brevi ma coincise.

Sakuragi aveva sempre pensato che una delle principali caratteristiche di Rukawa fosse la sua inesistente loquacità.

Aveva sempre creduto che sentirlo parlare troppo, avrebbe stonato con il suo essere.

Eppure, quella sera aveva capito che non era così.

Rukawa aveva parlato molto per i suoi standard ma, neanche una volta, Sakuragi aveva pensato che quello stonasse con il suo essere.

E questo perché Kaede Rukawa, anche quando parlava, riusciva a essere se stesso.

Riusciva a mantenersi in linea con tutto il suo carattere.

E questa considerazione, mentre ascoltava rapito il discorso dell’altro, gli dava una marcia in più per quello che era il suo intento quella sera.

Kaede Rukawa era sempre coerente con se stesso.

Certo, era un essere umano e si lasciava andare ai sentimenti come aveva dimostrato quella giornata, anche se in maniera molto meno teatrale rispetto alla sua.

Però, quello che faceva, lo faceva non perdendo mai di vista i suoi obiettivi.

Lo faceva non scendendo a patti con se stesso.

E, se c’era un prezzo da pagare, se ne infischiava.

Perché Kaede Rukawa non scendeva a patti con la gente sul suo modo di essere.

Era per questo che, ancor prima che l’altro iniziasse a parlare, lo aveva fermato.

Non voleva che si scusasse per le frasi che gli aveva detto in palestra.

Perché erano terribilmente vere.

Rukawa, ancora una volta, gli aveva detto la pura e sacrosanta verità, senza preamboli o giri di parole.

Come quando lo provocava per fargli dare il massimo.

Sempre dritto al punto.

Era questo Kaede Rukawa.

Ed era questo che pensava di lui Sakuragi.

Lo aveva pensato quella sera, mentre correva verso la sua casa.

Lo pensava adesso, dopo averlo sentito parlare.

Rukawa non aveva mezze misure, a differenza di lui.

Se sceglieva di vivere per qualcosa o con qualcuno lo faceva con tutto se stesso.

E Sakuragi non voleva rischiare di perdere una persona del genere.

Non voleva rischiare di perdere chi sarebbe stato disposto ad amarlo con tutto se stesso.

Non voleva dargli il contentino. Anche lui voleva amare.

Anche lui voleva stare con l’altro con tutto se stesso.

Senza compromessi. Senza mezze misure.

Lo aveva capito dopo lo scontro in palestra.

Una brutta sensazione aveva iniziato a serpeggiare in lui già quando avevano iniziato l’allenamento.

Ma poi… la realtà nuda e cruda gli era stata presentata davanti dalle fredde e verissime parole di Kaede Rukawa.

E lui, mentre tornava a casa con Yohei, aveva capito che l’aveva perso.

Il pensiero lo aveva fatto tremare.

Perché, in tutti quei mesi, lui non aveva fatto altro che scendere a patti con se stesso, mentre Rukawa continuava a girargli intorno, senza che lui lo volesse o no.

E, alla fine, aveva dato per scontato che l’altro lo avrebbe rincorso per sempre.

Lui, nel frattempo, avrebbe continuato a farsi chissà quali viaggi mentali verso se stesso.

Invece no. Quella sera aveva capito che la presenza di Rukawa non era scontata.

Che, se lo voleva veramente, allora avrebbe dovuto fare qualcosa per tenerlo legato a se.

Aveva rischiato di perderlo, per capire di volerlo.

Per capire di volerlo veramente.

E ora, voleva ripagarlo di tutto quello che aveva fatto per lui.

Perché adesso lo sapeva che non c’era nulla di male in una loro ipotetica storia.

Sapeva che non avrebbe potuto avere il consenso universale in nessun caso.

Anche se, per ipotesi, si fosse trovato una ragazza, ci sarebbe sempre stato qualcuno a cui lei non sarebbe stata simpatica oppure sarebbe stato lui stesso a non piacere alle amiche di lei.

Aveva capito che non gli serviva il permesso e l’approvazione di tutti, quanto l’affetto di pochi.

E quei pochi ci sarebbero stati in ogni caso, sia che lui avesse avuto un ragazzo, sia che lui avesse avuto una ragazza.

Aveva capito che quella storia lui voleva viverla.

Senza mezzi termini. Senza mezza misure.

Con tutto se stesso.

E aveva iniziato a correre.

Perché adesso toccava a lui inseguire la kitsune.

Era questo che pensava, mentre correva.

E, finalmente, era arrivato alla sua meta.

Non aveva pensato molto a cosa fare.

Non aveva pensato affatto.

Si era lasciato guidare dai suoi sentimenti e dal suo carattere.

Proprio come Rukawa.

E, finalmente, adesso capiva.

Guardava le loro mani intrecciate e finalmente capiva tutto.

Capiva perché il compagno di squadra era stato tanto di pessimo umore.

Non tanto perché il nonno gli aveva detto che aveva ancora molta strada da fare.

Sicuramente, Rukawa stesso sapeva che aveva ancora molto da imparare.

Il problema invece era lui.

Lui, che non sapeva ancora cosa voleva fare della sua vita.

Aveva sedici anni e questo anche poteva essere normale.

Il problema vero era, però, che non ci aveva mai pensato.

Era questo a non essere normale.

Perché, tutti gli adolescenti fanno piani più o meno fattibili per il loro futuro.

Pensano e ripensano a quello che vorranno fare da grandi fino a che non imboccano la via giusta o, perlomeno, ci provano.

Alcuni riescono a realizzare i propri sogni, altri invece prendono tutt’altra strada, ma comunque, una cosa che li accomuna tutti, è proprio il pensare al futuro.

Lui, invece, non ci aveva mai neanche pensato a un domani più o meno lontano.

Lui non aveva mai pensato di fare qualcosa nella sua vita. Qualunque cosa.

Non era Rukawa a non essere normale con la sua fissazione per il basket.

Aveva un sogno e lo inseguiva mettendoci anima e corpo.

Proprio come tutti quelli della sua età.

Perché era quella l’età per sognare sul proprio futuro.

E Sakuragi invece non aveva mai sognato.

Non si ricordava neanche più come si facesse.

Per questo aveva preso una decisione.

Ora toccava a lui parlare.

Vide che le loro mani erano ancora intrecciate tra loro.

Aveva l’impressione che Rukawa non volesse lasciarlo andare.

E, in effetti, neanche lui voleva lasciare andare l’altro.

Notò che Rukawa lo fissava in silenzio.

Sicuramente, si chiedeva cosa stesse pensando ma, considerato quanto avesse parlato quella sera, non lo sollecitava a rispondere.

Doveva essere stato parecchi minuti perso nelle sue riflessioni.

Fu per questo che si decise, finalmente, a spezzare il silenzio.

“Avevo capito! Non tutto, ma avevo capito che c’era qualcosa” incominciò lentamente.

Sentì le dita di Rukawa farsi più strette intorno alle sue.

“Per questo sono qui. Per questo sono venuto!” si interruppe facendo una pausa.

Era una frana con le parole, lo era sempre stato.

Non se ne preoccupò, però. Non quella sera; non in quel momento.

Sapeva che l’altro avrebbe capito, anche se avesse iniziato a dire mezze frasi e parole balbettate.

Sapeva che l’altro avrebbe percepito quello che provava.

E fu quella consapevolezza che lo spinse a parlare.

“Io voglio stare con te!” disse, tutto d’un fiato.

Rukawa, a quella confessione sgranò gli occhi.

Tutto si era aspettato, tranne quello.

Vide che Sakuragi non lo guardava. Il volto era di un rosso acceso.

Si vedeva che era terribilmente in imbarazzo, tuttavia non si tirava indietro.

Rukawa capì, dall’atteggiamento del compagno, che c’era ancora dell’altro.

Motivo per cui, decise di andargli incontro.

“Ma?” domandò a bassa voce.

Fu la spinta che Sakuragi aspettava.

Quel discorso lo imbarazzava terribilmente, ma doveva andare avanti.

Per Rukawa ma soprattutto, per la prima volta nella sua giovane vita, per se stesso.

“Non così. Non come sono adesso!” sussurrò a bassa voce.

“Pensavo che non volessi più vedermi e ho capito” continuò, prima che l’altro potesse interromperlo.

Prima che il coraggio gli venisse meno.

“Non mi voglio nascondere. Non voglio nascondere quello che provo.

Come te! Voglio essere una persona migliore. Voglio crescere…Kaede!” si interruppe.

Pensò che fosse piacevole il nome di Rukawa, pronunciato dalle sue labbra.

Non si era mai accorto di quanto fosse musicale.

“Quello che hai detto stasera è la verità.

Le parole che mi hai detto in palestra sono la verità.

O meglio… erano la verità prima.

Io voglio giocare a basket, Rukawa!” e si interruppe ancora per guardarlo negli occhi.

“Io voglio stare con te” continuò imponendo a se stesso di non abbassare lo sguardo.

“Devo chiarire delle cose con me stesso. Devo fare chiarezza con la vita che ho scelto di fare prima di incontrarti.

Devo diventare un giocatore migliore” concluse.

Non era il discorso che si aspettava. Ma Rukawa capì comunque dove volesse andare a parare, visto che decise di intervenire.

“Ti aspetto!” affermò sicuro, stringendo ancora di più la mano dell’altro.

“Dopo i campionati nazionali. Poi non avrai più scusanti!” concluse, vedendo Sakuragi sorridere alla sua ultima affermazione.

“No! Poi non avrò più scusanti!” sorrise ancora di più il numero dieci.

“Ovviamente, smetterai anche di fare il cretino con la Akagi!” continuò Rukawa sicuro.

Perché sapeva che aveva centrato il problema.

Non la Akagi in se, quanto il ruolo che Sakuragi aveva scelto per se stesso.

Era questo il sunto del discorso.

O comunque, una parte importante.

Se sceglieva di stare con lui, come aveva affermato, allora quella era una parte che doveva lasciare andare.

Sakuragi guardò sicuro l’altro.

Quell’affermazione, che poteva essere intesa come una scenata di gelosia, rappresentava invece una delle parti più importanti del discorso.

Aveva affermato di voler essere se stesso e di voler giocare a basket.

E, adesso, Rukawa lo stava mettendo di fronte alle veridicità delle sue stesse parole.

Era a un bivio. Ma non aveva dubbi sulla strada da imboccare.

Fu per questo che fece la migliore faccia da schiaffi del suo repertorio.

“Chissà… se ne sei così geloso” rispose marcando sulla parola, “potrei approfittarmene”.

“Tz… do’hao! Nei tuoi sogni forse!” rispose Rukawa, sorridendo però di rimando.

Sakuragi aveva fatto la sua scelta.

E aveva scelto lui.

Lo aveva chiamato per nome, per la seconda volta da quando si conoscevano.

Rukawa aveva provato un brivido nel sentire il suo nome pronunciato da Sakuragi.

Era una familiarità che il do’hao, timidamente, stava cercando di instaurare tra loro.

Lo accettava. Finalmente accettava se stesso e il legame che li univa.

Ora i campionati nazionali li aspettavano.

Sapeva che Sakuragi avrebbe dato tutto se stesso, e lui non voleva essere da meno.

Il suo sogno, il loro sogno, finalmente poteva realizzarsi.

Diventare i migliori giocatori del Giappone cominciando a distinguersi nei campionati nazionali.

Ci avrebbero pensato loro a fare sì che questo avvenisse.

Poi, finalmente, avrebbero potuto vivere la loro neonata storia e farla crescere.

Non aveva intenzione di mettere manifesti a scuola o per tutta Kanagawa.

Pure lui era riservato, anche se Sakuragi gli sarebbe potuto essere utile per fare piazza pulita di tutte le sue fans.

Però… finalmente sapeva che Hanamichi non si sarebbe più nascosto a lui.

Tuttavia, aveva una richiesta da fargli.

Sapeva che l’altro voleva del tempo per sbrogliare i suoi nodi e scacciare definitivamente i suoi demoni.

Però… c’era una cosa che avrebbe voluto si realizzasse. Una cosa che bruciava nel suo animo da troppo tempo e che, sicuramente, anche Sakuragi voleva.

Strinse maggiormente la mano dell’altro avvicinandosi a lui e prendendogli la guancia con l’altra mano.

“Rimani con me, stanotte” sussurrò, esprimendo una preghiera che da troppo tempo celava nel suo cuore.

Il suo corpo era teso e carico di aspettativa.

Ancora una volta, spettava all’altro decidere.
 
 

Continua….

Note:
 
Questo capitolo è ambientato nella puntata 90 dell’anime.

È la continuazione dell’ipotetica serata, già iniziata nel capitolo precedente,  per i nostri due protagonisti dopo la famosa sfida a porte chiuse nella palestra dello Shohoku.

Che dire… spero che questo capitolo vi sia piaciuto.

Mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate!

Ci vediamo domenica prossima con il nuovo aggiornamento!

Pandora86

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Capitolo 43
*** All'unisono ***


Eccomi con il nuovo capitolo della fic.
Grazie a chi ha commentato lo scorso capitolo, e anche a chi continua a inserire la storia tra le preferite, le ricordate e le seguite.
Ovviamente grazie anche a tutti i lettori silenziosi.
Ci vediamo a fine capitolo per le note e le informazioni riguardo alle prossime pubblicazioni. 
Mi scuso in anticipo per eventuali errori. Leggo e rileggo ma sapete com’è… qualcosa sfugge sempre!!
Per adesso, buona lettura.
 
 
 
Capitolo 42. All’unisono.
 
Rimani con me stanotte.

Rimani con me stanotte.

La mente di Sakuragi sembrava essersi inceppata su quell’unica frase.

Rimani con me stanotte.

Ancora, la voce di Rukawa si faceva prepotentemente largo nella sua testa.

Non potevano esserci equivoci su quella richiesta.

Non poteva essere frainteso il sussurro roco, né lo sguardo carico di aspettative dell’altro.

Gli occhi di Rukawa sembravano volerlo bruciare ma, ancora una volta, lasciava decidere a lui.

Ancora una volta, gli dava modo di scegliere.

Non era una scelta definitiva quella che poneva l’altro.

Era una semplice richiesta.

Che Sakuragi avrebbe potuto accettare o meno.

Quello che si erano detti precedentemente non sarebbe cambiato.

Solo una richiesta. Solo una preghiera. Nulla di più.

E Sakuragi non aveva dubbi su cosa fare.

Non né aveva più oramai.

Avrebbe accontentato l’altro.

Avrebbe accontentato se stesso.

Non aveva bisogno di parlare.

Lasciò che la sua mano andasse a sfiorare la guancia pallida di Rukawa.

Con calma. Senza fretta.

Notò che la pelle di Rukawa era morbida al tatto.

L’altro era rimato fermo, socchiudendo leggermente gli occhi a quel tocco.

Fu allora che Sakuragi gli si avvicinò.

Portò le labbra a un soffio dal viso dell’altro.

“Si”.

Solo questo disse.

Solo una sillaba, sussurrata timidamente.

Solo una sillaba, che rappresentava la svolta che stava vivendo.

Che stavano vivendo.

Solo un’insignificante parola, che avrebbe portato un cambiamento definitivo nella sua vita.

Un cambiamento definitivo nella loro vita.

Perché Sakuragi non aveva più paura.

Era fondamentalmente timido e certe cose lo imbarazzavano.

Non aveva alcuna esperienza ma era comunque carico d’aspettativa.

Era titubante ma non aveva più paura. Paura d’amare.

Vide Rukawa alzarsi e prenderlo per mano.

Neanche lui aveva più proferito parola e la cosa, se si parlava della kitsune, non era affatto strana.

Lo condusse lentamente nella sua camera.

La stessa camera dove avevano dormito insieme per la prima volta.

La stessa camera in cui il loro rapporto aveva iniziato a mutare senza che loro potessero fare
niente.

Senza che loro volessero fare niente.

Rukawa strinse forte la mano di Sakuragi portandola al viso e guardandolo intensamente.

Avrebbe ancora potuto tirarsi indietro se lo preferiva.

Non voleva forzare l’altro a nulla. Voleva che tutto fosse perfetto.

E, se avesse significato aspettare ancora, lo avrebbe fatto senza problemi.

Perché non era il suo corpo che voleva. Non solo almeno.

Voleva che Sakuragi gli desse tutto se stesso, sicuro di quello che faceva.

Come avrebbe fatto lui.

Anche lui avrebbe regalato tutto se stesso all’altro, senza remore né rimpianti.

Sakuragi capì lo sguardo di Rukawa e sorrise.

L’altro gli dava la possibilità di battere in ritirata.

Del resto, nel rapporto che aveva costruito con Rukawa, ogni volta che c’era stato un contatto tra di loro, era quello che gli era riuscito meglio: tirare il sasso e poi nascondere la mano.

Ma stavolta sapeva cosa fare: sarebbe andato fino in fondo.

Avrebbe legato Rukawa a se in modo indissolubile, dandogli tutto se stesso.

Si sarebbe lui stesso unito a Rukawa in un legame che avrebbe resistito a tutto.

Fu per questo che avvicinò il viso al volto dell’altro.

Rukawa aveva usato i gesti e gli sguardi per metterlo a scelta.

Lui avrebbe usato la sua impetuosità e il linguaggio del suo corpo per fargli capire la risposta.

Un lieve bacio a fior di labbra. Un semplice tocco.

Fu questo che regalò all’altro.

Era ancora troppo timido per fare di più, ma sembrò bastare.

Fu Rukawa a lasciare che le loro bocche non si staccassero, andando a circondargli il collo con la mano libera.

Fu un gioco di lingue in quei primi istanti.

Un gioco di lingue che, a entrambi, sembrò eterno.

Poi, quel gioco sembrò non bastare più.

Mani avide, da parte di Rukawa, che andavano ad accarezzare il corpo scolpito dell’altro sotto la maglia.

Mani dapprima incerte, da parte di Sakuragi, e poi sempre più impetuose che andavano a stringere e sembravano voler accarezzare tutta la pelle a disposizione senza lasciare un solo centimetro intatto.

Baci roventi di Rukawa andarono a tormentare il collo dell’altro prima di togliergli definitivamente la maglia e toglierla anche a se stesso.

Il tempo sembrava essersi fermato.

Da quanto tempo, entrambi, desideravano quel contatto?
Rukawa era stato il primo a esserne consapevole ma Sakuragi, anche avendolo appreso appieno dopo, desiderava comunque l’altro in egual misura.

Non era stato come i loro precedenti contatti.

Non era stato come quando, sempre a casa di Rukawa, entrambi non avevano saputo frenare la passione.

Non era casuale.

Era un rapporto consapevole.

Rukawa se ne rendeva conto.

Fu per questo che sussurrò all’altro, quando capì che il suo corpo voleva di più:

“Preparami!”

Sakuragi lo guardò per un attimo perplesso.

Sembrava non aver capito appieno le parole di Rukawa.

In effetti, quello era un lato della questione che più lo frenava.

Ma mai avrebbe immaginato che l’altro se ne uscisse con una richiesta simile.

Poi capì.

Rukawa lo amava.

Ed era disposto a concedersi per primo a lui e, soprattutto, di sua iniziativa.

Ma non per questo perdeva il suo carattere dominante.

Non per questo era meno virile.

Rukawa lo amava.

E Sakuragi capì.

Capì che non c’erano dominanti o dominati ma solo amore.

E lui, ora sapeva che avrebbe fatto lo stesso per Rukawa.

Anche lui si sarebbe concesso a Rukawa senza rimpianti.

Quello non sarebbe stato il loro primo e unico contatto.

Avrebbero costruito la loro storia, mattone su mattone.

Senza mezze misure.

Solo amandosi l’un l’altro.

Era tuttavia titubante. Non aveva idea di come si facessero certe cose.

Non aveva idea neanche da dove cominciare a dire la verità.

Ma Rukawa, ancora una volta, capì i suoi tormenti.

Fu perciò con decisione che condusse l’altro al letto facendolo stendere sopra e privandolo dei vestiti.

Sakuragi guardava il corpo di Rukawa ammaliato.

Poteva esistere un altro essere più perfetto? si domandava incoerentemente in quei frangenti.

La risposta era no, ovviamente!

Fu con impeto che Rukawa si strinse sopra di lui facendo combaciare i loro piaceri pulsanti.

Fu con una carica erotica ed emotiva altissima che andò a baciare le dita del suo, oramai, compagno, conducendole poi nel suo posto inesplorato.

Fu con delicatezza che Sakuragi lo penetrò con le dita, sempre guardando gli occhi dell’altro.

Fino a che nessuno dei due resistette più.

Gli ansimi erano sempre più forti.

I gemiti erano incontrollati.

“Ora!” fu il sussurro roco di Rukawa.

Ma Hanamichi sapeva di dover fare ancora qualcosa.

Invertì le posizioni, facendo stendere l’altro sul letto e salendogli delicatamente sopra.

Si avvicinò all’altro pronto per penetrarlo ma prima lasciò che le sue labbra sussurrassero qualcosa che si teneva dentro da tempo.

“Ti amo… Kaede”.

E lo penetrò con tutta la delicatezza di cui disponeva.

Vide Rukawa sgranare gli occhi.

Non era certo, però, che la sua espressione fosse dovuta al dolore.

Sembrava più stupito della sua confessione.

Sicuramente non se lo aspettava.

Fu per questo che, quando Rukawa mosse le labbra in una risposta, Hanamichi andò a zittirlo con la mano.

Il tutto senza mai interrompere il contatto visivo tra loro.

“Lo so già” sussurrò ancora. “Non mi devi dire niente!” aggiunse, baciandolo a fior di labbra.

E seppe, dagli occhi dell’altro, che aveva capito.

Rukawa gli offriva il suo corpo.

Lui gli offriva il suo amore.

Dopo che lo aveva a lungo negato. Dopo che lo aveva a lungo scacciato.

Dopo aver cercato in tutti i modi di negare l’evidenza.

Ora lo offriva all’altro.

Senza rimpianti, senza remore. Ma soprattutto, senza vergogna.

Rukawa gli mostrava il suo amore con il suo corpo.

Lui lo ricambiava, ammettendo a voce alta quello che a lungo aveva negato.

Erano finalmente sullo stesso piano.

Nessuno inferiore all’altro, nessuno superiore.

E soprattutto… nessuno meno uomo rispetto all’altro.

Nessuno meno virile rispetto all’altro.

Nessuno meno dominante rispetto all’altro.

Né perché uno dei due si era offerto, né perché uno dei due aveva dichiarato il proprio amore.

Sakuragi adesso lo capiva. Adesso lo sapeva che non c’era nulla di sbagliato.

Non importava che fossero entrambi uomini. Non importava che fossero entrambi dello stesso sesso.

All’improvviso, tutto regrediva e acquistava una nuova luce nella mente di Sakuragi.

Due uomini.

Due ragazzi.

Due adolescenti

Due corpi.

Due anime.

Due anime che finalmente si univano senza dare peso al loro involucro corporeo.

Tutta la paura che aveva avuto quando aveva scoperto la sua sessualità era finalmente svanita.

Era scomparsa con il gesto di Rukawa che non aveva niente della sottomissione.

Non aveva niente di poco mascolino. Non aveva niente di vergognoso.

Tutta la paura per come la gente lo avrebbe potuto etichettare era sparita all’istante.

I nomignoli poco gentili che lo avevano sempre terrorizzato, e anche per colpa dei quali aveva sempre cercato di soffocare se stesso, erano spariti nell’istante stesso in cui era entrato dentro l’altro.

Era bastato lo sguardo di Rukawa, che non perdeva nulla del suo carisma e del suo carattere, a cacciarli via.

Ora, dentro il corpo di Rukawa, capiva finalmente che non aveva importanza che l’altro fosse un uomo o una donna.

Era Rukawa. Solo Rukawa e nient’altro.

Che avrebbe amato in ogni forma. E che lo avrebbe ricambiato in egual misura.

Erano solo due anime che, finalmente, avevano ritrovato la propria metà.

Erano solo due cuori che, finalmente, potevano battere all’unisono.

Sakuragi iniziò a spingere, delicatamente.

Ma poi, a Rukawa sembrò non bastare più.

Era lui, ora, a dettare il ritmo.

Era lui a inseguire il suo piacere e quello dell’altro con un ritmo frenetico.

Fino a che non arrivarono entrambi, contemporaneamente.

Si fissarono per lunghi istanti.

Istanti che sembrarono eterni.

Tutto intorno si era fermato.

O meglio, il tempo continuava a scorrere ma erano loro che si erano isolati, ancora avvolti dalla passione appena provata, e non del tutto svanita.

Sakuragi si accasciò sul corpo dell’altro, incapace di fare qualsiasi altra cosa.

Rukawa recuperò il lenzuolo, coprendoli entrambi e stringendo con possessività la schiena di Hanamichi per rimarcare qualcosa che oramai gli apparteneva.

Sapeva che stavolta sarebbe stato diverso.

Sapeva che, questa volta, Sakuragi non sarebbe più scappato.

Sakuragi si lasciò stringere sorridendo di rimando.

Sapeva che il suo compagno non temeva più una sua fuga improvvisa.

Ma la possessività di Rukawa lo faceva comunque stare bene.

Finalmente il suo volto era disteso.

Finalmente il macigno che sentiva sul cuore era scomparso.

Ed era bastato pronunciare due semplici parole. L’ammissione dei suoi sentimenti.

Anche il volto di Rukawa era sereno e rilassato.

La solitudine che lo aveva sempre accompagnato, per sua scelta, si era dissolta, senza che lui cambiasse una virgola del suo modo di essere.

Ed era bastato un solo gesto. L’offerta di se stesso a chi amava.

La sua indole individuale, che lo aveva portato a vivere da solo in quella grande e silenziosa casa, aveva finalmente trovato il suo equilibrio.

Equilibrio che stringeva fra le braccia.

Non ci furono parole. Erano entrambi troppo impegnati a controllare ancora i loro cuori che battevano all’impazzata.

Eppure, andava bene così.

Il sonno li colse e, in quel momento, non c’era nulla di più perfetto dei loro corpi che si stringevano.

Non c’era nulla di più perfetto dei loro corpi di adolescenti intrecciati tra loro in un groviglio di gambe e lenzuola che, prematuramente, erano stati privati dal tocco gentile di una persona cara.

Non c’era nulla di più perfetto dell’espressione rilassata dei loro volti che, precocemente, avevano imparato a mascherare la sofferenza per andare avanti.

Non c’era nulla di più perfetto delle loro anime tormentate che, finalmente, avevano trovato la loro oasi di pace.

Non c’era nulla di più perfetto dei loro giovani cuori, già vittime di dolori differenti eppure altrettanto lancinanti, che battevano all’unisono.
 

Continua…
 
Note:
 
Questo capitolo è ambientato nella puntata 90 dell’anime.

È la continuazione dell’ipotetica serata, già iniziata nei capitoli precedenti,  per i nostri due protagonisti dopo la famosa sfida a porte chiuse nella palestra dello Shohoku.

Che dire… spero che questo capitolo vi sia piaciuto.

Mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate!

Ci vediamo domenica prossima con il nuovo aggiornamento!

Pandora86

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Capitolo 44
*** Il tuo vero volto ***


Eccomi con il nuovo capitolo della fic.
Grazie a chi ha commentato lo scorso capitolo, e anche a chi continua a inserire la storia tra le preferite, le ricordate e le seguite.
Ovviamente, grazie anche a tutti i lettori silenziosi.
Ci vediamo a fine capitolo per le note e le informazioni riguardo le prossime pubblicazioni. 
Mi scuso in anticipo per eventuali errori. Leggo e rileggo ma sapete com’è… qualcosa sfugge sempre!!
Per adesso, buona lettura.
 
Capitolo 43. Il tuo vero volto
 
La mattina li colse ancora abbracciati e arrivò troppo presto a detta di entrambi.

Fu Sakuragi a destarsi per primo.

Si mosse delicatamente per non svegliare l’altro.

Notò che il braccio di Rukawa era ancorato saldamente alla sua vita.

Questo lato del carattere di Rukawa, la sua possessività, gli piaceva molto, anche se non l’avrebbe mai ammesso a voce alta.

Lo faceva sentire speciale e unico.

Lo faceva sentire qualcuno.

Aveva sempre sospettato che la kitsune fosse possessiva con le cose che amava.

Bastava vedere la fissazione che aveva per il basket.

Se lo immaginò a dormire abbracciato a una palla arancione e quel pensiero gli provocò un’ilarità che faticò a trattenere.

Quando poi considerò che Rukawa abbracciava lui allora non riuscì a trattenere le risate.

Che lo avesse scambiato per una palla? Considerò, visto il colore dei suoi capelli.

Forse avrebbe dovuto tingerli.

E se poi la kitsune fosse andata in crisi d’identità?

Non sapeva da dove gli venivano tutti quegli strani pensieri.

Forse era un do’hao, proprio come diceva Rukawa.

Sapeva solamente che, finalmente, dopo tanto tempo, non rimpiangeva più di aver aperto gli occhi ancora una volta.

Quei pensieri allegri erano una novità per lui.

In passato suo padre gli diceva che andava a dormire con una risata incollata al volto vista l’allegria e l’energia che sembrava non mancargli mai anche appena sveglio.

Sua madre allora scherzava dicendo che anche in questo aveva preso da lei e scoppiavano entrambi in quella risata un po’ matta e molto rumorosa che li caratterizzava.

Suo padre, in quei momenti, sospirava sconsolato e si trincerava dietro il suo giornale oramai abituato alla megalomania della moglie e del figlio.

Però sorrideva. Sorrideva sempre e dal suo sorriso traspariva tutto l’affetto per quelle creature uniche che gli erano affianco.

Poi era morto.

E la sua morte sembrava aver portato con sé anche l’allegria della madre.

Quasi come se fossero una cosa.

Suo padre, sempre pacato e rilassato, apprezzava questo lato particolare della moglie, chiassosa e battagliera.

Sua madre, sempre frenetica e vivace, apprezzava questo lato dello sposo che nel suo carattere non era incluso.

Erano diversi. Ma erano quelle diversità che li rendevano una cosa sola.

E, con la morte di una delle due parti, se ne era andata anche la vitalità dell’altra.

Hanamichi lo aveva capito subito.

Lo aveva capito quando, scendendo in cucina dopo il primo mese dalla morte del padre, il silenzio lo accolse.

Lo accoglieva da quando erano in lutto ma solo quella mattina ci aveva fatto caso.

Sua madre non rideva più. E lui, in quel momento, seppe che sua madre era morta.
Morta dentro.

Ricordava di essersi stretto di più nel suo pigiama, quasi per allontanare il gelo che regnava nella stanza, ed essere rimasto lì a osservare sua madre che gli preparava la colazione.

Poi, lei si era girata e gli aveva sorriso dolce.

Ma lui aveva capito che sua madre non avrebbe più riso perché il suo sorriso era vuoto.

Si nascondeva e fingeva per lui ma Hanamichi, anche se piccolo, aveva intuito che la sua mamma era cambiata. E non sarebbe più tornata come un tempo.

Quando, infatti, nove mesi dopo era morta, lui non aveva battuto ciglio.

E non perché non gli importasse. Ma perché sapeva che la sua adorata mamma era morta nove mesi prima.

E lui era contento. Perché forse avrebbe raggiunto la sua amata metà.

Se avesse potuto, lo avrebbe raggiunto subito ma si era sforzata di andare avanti per lui.

Ricordava quei nove mesi e il suo personale inferno.

Inferno troppo grande per un tredicenne.

Sensi di colpa che lo attanagliavano ogni volta che posava il volto su sua madre.

Ogni volta che sua madre si sforzava di sorridere per lui.

Ogni volta che affrontava i parenti di suo padre per difenderlo.

Soffriva e tirava avanti, unicamente per lui.

Però, poi aveva ceduto le armi.

E Hanamichi era rimasto solo. Solo con il suo dolore.

Solo a metabolizzare che anche sua madre non c’era più.

Ed era andato avanti, in un modo o nell’altro.

Ma non si era svegliato più con il sorriso in volto.

Non si era svegliato più con la battuta pronta.

Non si era svegliato più con pensieri divertenti.

Il suo carattere originario era diventato la sua stessa maschera, e oramai Hanamichi non sapeva più dove finisse il suo volto e cominciasse la finzione.

Eppure, quella mattina i pensieri sciocchi sulla sua kitsune avevano fatto capolino nella sua mente senza che lui facesse nulla in proposito o si sforzasse a indossare l’ennesima maschera.

Le parole che aveva detto a Rukawa si stavano avverando.

Era tornato.

Non aveva nemmeno avuto incubi quella notte ma sapeva che non dipendeva dalla luce accesa che il compagno non aveva spento.

In effetti, non si erano limitati a dormire alla luce della piccola lampada sul comodino.

La sera precedente, una volta entrati in camera, Rukawa non aveva spento la luce principale.

E Sakuragi capì che Rukawa lo aveva fatto apposta.

Il che era strano, vista la sua timidezza e visto quello che si apprestavano a fare.

Oramai Rukawa lo conosceva a menadito e aveva preferito che lo guardasse ed essere guardato preferendo metterlo a disagio, piuttosto che rischiare di farlo poi addormentare al buio scatenandogli una vera e propria paura.

Sicuramente era andata così, anche se lui non avrebbe di certo approfondito l’argomento: aveva ancora il suo orgoglio da Tensai dopotutto!

Si incantò a guardare ancora il volto di Rukawa sapendo che tra un po’ avrebbe dovuto svegliarlo se volevano andare a scuola.

Non fu però necessario visto che fu lo stesso Rukawa ad aprire gli occhi.

Il suo sguardo era appannato e Sakuragi si chiese, in quel momento, quanto tempo fosse necessario alla kitsune per tornare tra i vivi appena sveglio.

Forse, se gli metteva una palla da basket davanti, sarebbe scattato immediatamente sull’attenti pensò, non riuscendo a trattenere una risata.

“Quanto casino che fai di primo mattino, do’hao!” mugugnò Kaede insonnolito, stringendo tuttavia il braccio che circondava la vita di Sakuragi e avvicinandolo a se.

E fu allora che Kaede lo vide.

Per la prima volta, vide il volto di Hanamichi tornato al suo antico splendore.

Il suo vero volto, finalmente risorto dalle ceneri del suo passato.

Il volto che doveva essergli appartenuto anni addietro prima delle catastrofi che investissero la sua vita.

Vide il volto sorridente di un Hanamichi tredicenne.

Vide il volto sorridente di un Hanamichi sedicenne.

Vide tutto questo e molto di più.

“Lo diceva sempre anche mio padre!” sussurrò Sakuragi, e Kaede non fu in grado di quantificare quanta dolcezza trasparisse da quegli occhi.

Occhi che oramai erano suoi, come tutto il resto.

Fu per questo che avvicinò il volto dell’altro a se coinvolgendolo in un bacio casto.

Non gli importava del fatto che la notte fosse finita.

Non voleva altro, solo il buongiorno.

Solo un gesto che avrebbe fatto capire all’altro quanto era felice di trovarlo lì, tra le sue braccia, il posto a cui apparteneva.

Non era mai stato bravo con le parole, era per questo che Sakuragi lo aveva fermato la sera precedente quando avrebbe voluto rispondere alla dichiarazione dell’altro.

E quel gesto lo aveva fatto sentire a casa. Lo aveva fatto sentire se stesso.

Perché mai Sakuragi avrebbe preteso da lui parole.

Mai avrebbe preteso di cambiare il suo carattere.

Lo accettava così com’era, prendendo con sé pregi e difetti.

E Kaede, a quella considerazione, si sentì finalmente completo.

Sakuragi avrebbe letto il linguaggio del suo corpo.

E, allo stesso modo, avrebbe capito il significato di quel bacio.

Un bacio casto che però fu lesto a interrompere vista la situazione in cui erano.

Rukawa sapeva che sarebbe potuto diventare molto di più ma, nonostante desiderasse il corpo dell’altro, sapeva che quello non era il momento giusto.

Il bacio avrebbe perso il suo significato più grande sfociando in passione e Rukawa non voleva questo.

Fu perciò con decisione che staccò le loro labbra andando a rifugiarsi tra le braccia dell’altro stringendolo forte a sua volta.

Eppure, anche quel momento colmo di tenerezza finì.

Se per loro il tempo poteva essersi fermato, per il resto del mondo continuava a scorrere e fu Sakuragi il primo a ricordarsi di ciò.

“Ora devo andare kitsune!” incominciò Sakuragi parlando sottovoce.

Rukawa, in tutta risposta, si strinse ancora di più a lui.

“Così mi soffochi kitsune!” fu allora la pronta risposta di Sakuragi che oramai non distingueva più quali fossero i suoi arti e dove iniziassero quelli dell’altro.

“Nh!” mugugnò Rukawa non accennando minimamente a spostarsi.

“E dai Rukawa non fare il deficiente” sbottò allora Hanamichi.

“Facciamo tardi a scuola!”.

“Parla il secchione!” lo provocò Rukawa, non muovendosi però dal groviglio di gambe e di braccia che aveva creato con il compagno.

Doveva ammetterlo: si stava divertendo un mondo!
 
“Allora facciamo tardi agli allenamenti!” continuò allora Sakuragi sperando, con quell’argomento, di avere la sua attenzione.

“Nh… dovrei preoccuparmene io, visto che tu sei impedito!” fu la pronta risposta del numero undici.

“MA ALLORA VUOI UNA TESTATA?” urlò allora Sakuragi direttamente nell’orecchio dell’altro che, a malincuore, dovette necessariamente allontanarsi.

“Do’hao!” lo sgridò Rukawa massaggiandosi l’orecchio. “Ma allora è un vizio!”.

“A mali estremi…” gongolò allora il numero dieci, pimpante per aver ottenuto il suo scopo.

Solo allora Sakuragi notò le minuscole macchie di sangue macchiare il lenzuolo.

Rukawa vide il volto dell’altro incupirsi e, seguendo la traiettoria del suo sguardo, capì presto il perché.

“Non fare l’imbecille come tuo solito!” lo riprese con tono brusco.

Gli occhi di Sakuragi si erano fatti tristi e lui non voleva che rovinasse la notte più bella della sua vita con inutili seghe mentali.

“Eh?” domandò perplesso Hanamichi.

"È normale do’hao la prima volta. È tu sei stato fin troppo delicato!”.

“Ma…” provò a ribattere ma Rukawa non gli lasciò il tempo.

“Non sono una femminuccia!” continuò prendendogli il volto tra le mani.

“È stato bellissimo” lo rassicurò a un soffio dalle sue labbra ed ebbe la certezza di essere stato convincente quando vide l’altro sciogliersi in un bellissimo sorriso.

Lo pensava sul serio e voleva che anche al do’hao entrasse in quella zucca vuota che si ritrovava.

Era stato tutto perfetto e Sakuragi era stato fin troppo delicato.

Anche questo pensava sul serio.

Non era un esperto in quell’argomento, però dovette costatare che si muoveva senza nessuno sforzo e non aveva neanche un doloretto vago.

Quelle minuscole tracce di sangue erano l’unica prova che testimoniavano che fosse la sua prima volta.

Il dolore era stato quasi inesistente in effetti.

La sera precedente non ci aveva fatto caso, ma solo ora ricordava che il do’hao lo aveva preparato a lungo.

E anche durante la penetrazione vera e propria era stato di una lentezza esasperante.

Aveva provato un certo fastidio, ma quello che gli ritornava alla mente era solo lo stupore e la miriade di sentimenti provati quando Sakuragi aveva ammesso quello che provava.

Fu in quel momento che ebbe la certezza che aveva fatto la cosa giusta.

Sakuragi lo aveva rispettato trattandolo come la più fragile delle porcellane.

Aveva avuto cura di lui. Si era trattenuto, lasciando il suo corpo si abituasse all’intrusione.

Era stato delicato. Era stato amorevole.

E capì in quel momento che neanche lui aveva bisogno delle parole dell’altro.

I sentimenti di Sakuragi, espressi ad alta voce, erano stati solo un di più.

Lo avrebbe capito comunque che lo amava. Bastava ripensare a quella notte e vi trovava tutte le risposte che cercava.

Non potette fare a meno di sfiorare nuovamente le labbra dell’altro.

Sapeva che gli serviva tempo per affrontare le sue cose in sospeso.

E, alla luce della notte appena trascorsa, avrebbe acconsentito volentieri a quella richiesta.

Perché poi sarebbe tornato… da lui.

Anzi… era già suo e avrebbe fatto bene a precisarlo.

“Anche per me kitsune!”.

La voce di Sakuragi lo riscosse dai suoi pensieri.

“Nh…” mugugnò.

“Non amo la condivisione, do’hao!” aggiunse deciso guardandolo negli occhi.

“E che dovresti condividere?” domandò ingenuamente (e anche un po’ stupidamente) Sakuragi.

Rukawa non potette trattenere uno sbuffò, rassegandosi ad avere come ragazzo il re dei do’hao.

“Sei mio!” affermò deciso, prendendogli il mento con la mano.

E stavolta ebbe la certezza che il messaggio era arrivato forte e chiaro visto il colorito dell’altro diventare di un rosso acceso.

“Ma… io… tu… cioè” incominciò balbettante ma Rukawa fu lesto a interromperlo.

“Risolvi i tuoi dilemmi! Sappi però che sei mio in ogni caso da oggi in poi!” chiarì ancora.

“Ah…” fu la risposta esitante di Sakuragi.

“Quindi… io …. Tu… cioè… noi insomma… voglio dire…”.

“Stiamo insieme do’hao!” proruppe deciso, stanco dei balbettii incoerenti dell’altro.

“Sì, certo ed io che ho detto?” si inalberò Sakuragi punto sul vivo.

“Mh… forse quello che volevi dire… e che ti sarebbe uscito tra un decennio!” non rinunciò a provocarlo il numero undici.

“Sempre gentile, eh Rukawa?” si imbronciò Sakuragi punto sul vivo.

“Kaede!” lo corresse l’altro avvicinando, ancora una volta, i loro volti.

Sakuragi ghignò.

“Posso fartela pagare in molti modi, kitsune!” esclamò, calcando volutamente sull’ultima parola.

“Staremo a vedere, do’hao!” fu la pronta risposta dell’altro.

Sakuragi si avviò con un sorriso in volto.

Un sorriso vero, e non un artificio fasullo, accompagnava il suo umore.

Rukawa lo guardò allontanarsi non provando neanche a trattenere le sue labbra piegate all’insù.

Anche sul suo volto c’era un sorriso, uguale ma al contempo diverso.

Un sorriso di completezza e di divertimento.

Di una cosa entrambi erano certi: non si sarebbero mai stancati l’uno dell’altro.

Rukawa osservò il do’hao uscire dal cancello con la sua andatura baldanzosa e megalomane.

Di una cosa era sicuro: con il do’hao il divertimento era assicurato.

Il suo do’hao imbranato.

Sakuragi si voltò un ultima volta verso la finestra della camera di Rukawa con in testa una certezza: si sarebbe divertito un mondo a provocare la kitsune.

La sua kitsune gelosa.

Continua….
 
Note:

Questo capitolo è ambientato nella puntata 90 dell’anime.

È la mia personale interpretazione della mattinata dopo la sfida a porte chiuse fra Sakuragi e Rukawa.

Come avrete intuito dal titolo, si tratta del capitolo madre della storia.

Che dire… spero che questo capitolo vi sia piaciuto.

Mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate!

Ci vediamo domenica prossima con il nuovo aggiornamento!

Pandora86

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Capitolo 45
*** Idee assurde e provocazioni! ***


Eccomi con il nuovo capitolo della fic.
Grazie a chi ha commentato lo scorso capitolo, e anche a chi continua a inserire la storia tra le preferite, le ricordate e le seguite.
Ovviamente, grazie anche a tutti i lettori silenziosi.
Ci vediamo a fine capitolo per le note e le informazioni riguardo alle prossime pubblicazioni. 
Mi scuso in anticipo per eventuali errori. Leggo e rileggo ma sapete com’è… qualcosa sfugge sempre!!
Per adesso, buona lettura.
 
 
 
Capitolo 44. Idee assurde e provocazioni!
 
Yohei sonnecchiava sul banco durante la lezione di matematica.

Non poteva farci niente: era una noia mortale!

Osservò Hanamichi che invece dormiva alla grossa; come dargli torto dopo la notte di fuoco che aveva avuto.

Non era sceso nei particolari quella mattina, ma gli aveva comunque raccontato i fatti.

Anche se c’era voluta un’ora buona e gran parte del tragitto verso la scuola per arrivare ai fatti della questione.

Non a caso, quella di matematica era la seconda ora!

Ripensò al loro scambio di parole avvenuto su in terrazza.

“Tu e Rukawa!” aveva esclamato allegro.

“Già mettere questi due nomi in una stessa frase è utopico! Figuriamoci adesso che state insieme!” aveva concluso con un sorriso sghembo.

Non lo pensava sul serio ma si divertiva un mondo a osservare le reazioni imbarazzate di Hanamichi a quelle frasi.

“Dopo cinquanta rifiuti era ora!” aveva aggiunto, osservando tutte le tonalità di rosso comparire sul viso dell’amico.

“Vuoi una testata?” aveva domandato Hanamichi furente.

“Perché? Ho detto qualcosa di sbagliato? Mi era sembrato di capire che adesso state insieme!” aveva concluso, rimarcando apposta le ultime parole.

“Non te l’ho detto per farti fare un film a cuoricini rosa!” era sbottato ancora Hanamichi.

“Voglio i particolari sulla tua notte piccante!”.

“Chi ti ha parlato di notte piccante?” era stata la pronta risposta di Sakuragi dopo essersi ripreso dal quasi soffocamento con la sua stessa saliva.

“Beh… non credo che vi siate solo guardati, stanotte!” aveva ribattuto indifferente Yohei guardandosi le unghie.

E allora Sakuragi si era rassegnato a raccontargli, fra balbettii incoerenti e mezze affermazioni, quello che era avvenuto.

Non aveva tralasciato nulla. Né il suo discorso a Rukawa, né le parole di quest’ultimo quella mattina.

Gli aveva anche raccontato dei pensieri assurdi che aveva avuto al suo risveglio e Yohei non aveva potuto fare a meno di sorridergli complice.

“Adesso non potremo più prenderti in giro!” aveva poi detto alla fine del racconto dell’amico.

“Stai con il meglio del meglio!” aveva continuato, indifferente alle occhiate truci di Sakuragi.

“Non possiamo certo dire che sei uno sfigato!”.

“Ah, ah, ah!” gli aveva poi fatto il verso Hanamichi.

Anche se apprezzava l’ironia dell’amico. Quell’argomento lo imbarazzava terribilmente e Yohei cercava, in quel modo, di scacciare la tensione.

“Comunque” aveva ripreso Mito facendosi serio, “che hai intenzione di fare adesso per mantenere i tuoi propositi?”.

“Allenarmi fino allo sfinimento e diventare un campione!” era stata la sicura risposta di Sakuragi.

Il suo tono era carico di determinazione.

“E con Haruko?” aveva allora domandato Yohei. Sapeva, infatti, che l’amico stava tergiversando e, dalla sua espressione, capì di aver centrato il punto.

“Non posso certo cambiare di punto in bianco!” era stata la risposta di Sakuragi, accompagnata da un pesante sospiro di rassegnazione.

“Hai ragione” l’aveva provocato allora. “Per gli altri sarebbe una novità!”.

“Non me ne importa niente degli altri Yo!” aveva risposto allora Sakuragi con tono duro.

“Ed io non vedo dov’è il problema, allora!”.

“Eh?” 

“Dubito che lei si accorgerebbe se smettessi di farle la corte! È molto ingenua!”.

“Non è una stupida Yo! Ed io non voglio ferirla!”

“Ho detto ingenua, infatti, non stupida!” aveva precisato Mito. “E se continui a farle una corte fasulla, di certo la ferisci di più, considerando i fatti!”

“Sappiamo benissimo che non mi ricambierà mai!”.

“Però stavolta non vuoi perdere un’amica!” lo aveva letto nel pensiero Yohei.

“Infatti! A inizio anno è stata l’unica a vedere oltre le apparenze. È stata l’unica a credere in me, nonostante non mi conoscesse affatto”.

“Tralasciando il fatto che lo ha fatto per il fratello” lo aveva corretto Yohei non facendo caso al colpo di tosse di Hanamichi.

“Sai che è così” aveva insistito, imperterrito. “Cosa conti di fare, dunque?”.

“In effetti, un’idea l’avrei!” aveva sorriso furbo.

“E non puoi dirmi niente di questa idea?” si era preoccupato l’altro.

“Piccola anticipazione: il cinquantunesimo rifiuto!” aveva gongolato l’altro per la sua idea brillante.

“EH? MA SEI IMPAZZITO?” aveva allora urlato Yohei.

“Abbassa la voce. Di solito sono io a urlare!”.

“Hana” aveva cercato di farlo ragionare Yohei con calma, “quando Rukawa lo verrà a sapere, dovrò venire a trovarti all’ospedale!”.

“Naaa… non è come sembra. Devo chiudere questa storia assurda Yo! E devo farlo a modo mio!” aveva aggiunto facendosi serio.

“Oh Kami!” si era preso la fronte Yohei. Le idee dell’amico avevano una logica tutta loro.

Era anche vero però che Hanamichi era impelagato in una situazione assurda. Di conseguenza, come avrebbe potuto pensare di uscirne in maniera logica e coerente?


Erano questi i pensieri che aveva mentre sonnecchiava sul banco.

Non avrebbe potuto fare altro che aspettare gli sviluppi. E pregare che la pazienza di Rukawa non avesse limiti a questo punto.

Perché una cosa l’aveva capita: Hanamichi non avrebbe rinunciato a Rukawa per niente al mondo.

Questo però non gli avrebbe impedito di provocarlo.

Cosa che neanche Rukawa si sarebbe fatto mancare.

Ma del resto… era impossibile sperare che quei due avessero un rapporto normale.

Però… se il loro legame fosse stato negli standard non sarebbe stato così unico e speciale, considerò sentendo il sonno farsi sempre più prepotente.

Si sarebbe anche assopito se Hanamichi non avesse deciso di attirare l’attenzione di tutta l’aula con un urlo disumano.

“A quanto pare, stavi sognando qualcosa di piccante!” non resistette alla tentazione Mito.

“Eh?” fu la domanda perplessa di Hanamichi.

Era solo un sogno.

Solo un dannatissimo sogno.

Anzi… un ricordo per essere esatti.

Aveva sognato la micidiale batosta che Rukawa gli aveva inflitto il giorno prima.

E, se non si fosse svegliato, Sakuragi era sicuro che il sogno sarebbe continuato su sentieri non proprio casti.

Quel dannato non lo lasciava in pace neanche in sogno.

Perché poi doveva sognare il fatto di essere stato battuto?

Un momento, considerò fra sé.

Era solo un sogno. Solo in sogno Rukawa avrebbe potuto battere un genio come me!

Pensò sogghignando come un deficiente, sotto lo sguardo divertito del suo migliore amico.

Sapeva che non era così ma non poteva farci nulla. La megalomania era un lato del suo
carattere che non avrebbe potuto cambiare neanche se l’avesse voluto.

E poi c’era un motivo se aveva sognato proprio la pessima figura che aveva fatto la sera precedente: il basket.

Quella mattina, quando era uscito da casa di Rukawa, sapeva che lo attendeva un lungo percorso e un duro lavoro per diventare effettivamente un campione.

Ed era indispensabile che lui raggiungesse lo scopo; solo così poteva sperare di essere all’altezza di Rukawa. Solo così avrebbe potuto guardarlo negli occhi senza vergogna.

Solo così sarebbero stati sullo stesso piano.

Il mormorio della classe lo distolse da quei pensieri.

Lo incoraggiavano per i campionati nazionali facendogli i complimenti per la qualificazione.

Adesso i campionati nazionali lo attendevano, pensava gongolante mentre si metteva in mostra.

Peccato che le sue sparate fossero destinate a essere interrotte dalla cruda realtà.

Il professore, molto sadicamente, gli aveva fatto notare che se avesse avuto più di quattro insufficienze allora non avrebbe potuto giocare.

Merda!

Era stato solo questo il suo pensiero in quel momento.

Cazzo! 

Era stata la variazione di parola nella sua mente quando, poco dopo le lezioni, aveva contato le insufficienze: sette!

E ora si trovava lì, nella sala professori, con il resto dei titolari dello Shohoku.

“A quanto pare non sono l’unico!” aveva gongolato guardando Ryota, Mitsui e Rukawa che gli facevano compagnia mentre Akagi chiedeva, anzi pregava, per una seconda possibilità.

Possibilità che ottennero, fortunatamente.

Certo, avevano dato un po’ di spettacolo visto che Akagi gliele aveva suonate di santa ragione davanti ai professori per una piccola e innocente battuta.

Però, il tutto sembrava essersi risolto per il meglio.

In fondo, Sakuragi sapeva che avrebbe potuto recuperare le insufficienze in poco se ci avesse messo un po’ di impegno.

Di sicuro, Yohei lo avrebbe aiutato: non a caso era stato l’unico nel gruppo a non prendere insufficienze.

A Rukawa non sfuggì lo sguardo d’intesa fra Sakuragi e il suo braccio destro all’uscita dell’aula insegnanti.

Certo, il do’hao e la sua armata avevano fatto i loro teatrini e il suo gruppo non si era risparmiato in sfottò.

Anche Mito sembrava trovare la situazione particolarmente divertente.

Aveva però notato il veloce occhiolino che si erano scambiati.

Che stavano tramando quei due?

E perché Sakuragi non sembrava minimamente preoccupato dei suoi voti?

Lui e gli altri avevano ben afferrato il problema: se non avessero studiato come dei dannati avrebbero dovuto dire addio ai campionati nazionali.

Ma Sakuragi non sembrava minimamente preoccupato di ciò.

Possibile che fosse un do’hao fino a questo punto?

Dov’era l’impegno che aveva promesso se non si preoccupava minimamente della possibile e quanto mai reale non partecipazione ai campionati nazionali?

Rukawa notò che l’umore di Sakuragi peggiorò nel momento in cui il capitano aveva dato l’annuncio che avrebbe organizzato un campo studio, di una settimana, a casa sua.

Lo vide guardare perplesso il suo braccio destro e poi ancora il capitano come se stesse seguendo un’avvincente partita di tennis.

Poi incrociò il suo sguardo e un ghigno malefico gli comparve sul volto.

Che diamine aveva in mente il do’hao?
 

***
 

Sakuragi fischiettava allegro camminando verso casa dell’amico.

Le insufficienze lo avevano preoccupato solo in un primo momento e ne era stato scioccato solo perché non credeva che ne fossero così tante.

Ma poi, non si era perso d’animo.

Akagi aveva ottenuto la gentile concessione del professore di far ripetere loro la verifica e lui si era rincuorato pensando che avrebbe studiato con il suo migliore amico.

Del resto, la madre di Yohei non era una professoressa di matematica in pensione?

La donna inoltre sembrava ben preparata in tutte le materie, motivo per cui il suo posto in squadra era assicurato.

D’altro canto, c’era un perché al fatto che il figlio non fosse mai stato bocciato e non avesse mai preso un’insufficienza.

E anche lui, se l’era sempre cavata per il rotto della cuffia.

La donna insisteva che se loro lo avessero voluto, avrebbero potuto essere degli ottimi studenti.

Ma loro non se ne curavano e la donna non replicava più del dovuto.

Considerava Sakuragi come un figlio e sapeva quello che aveva passato e quello che continuava a passare.

Non se la sentiva di fargli una ramanzina per così poco.

E lo stesso discorso valeva anche per il suo di figlio.

Sapeva che era molto maturo e sapeva il legame che aveva con Hanamichi.

Era cresciuto molto, vivendo di riflesso i problemi del ragazzo e la madre non se la sentiva di condannarlo se i suoi voti erano sulla sufficienza scarsa o se ogni tanto faceva qualche rissa.

La maturità non si vedeva con i voti scolastici. Lo aveva sempre pensato e lo aveva verificato in prima persona tramite i suoi due figli.

Uno vero e l’altro acquisito.

Erano queste le testuali parole che una volta Sakuragi aveva sentito pronunciare da lei stessa.

Era con questi pensieri di affetto verso la madre del suo migliore amico che si era avviato in palestra, non mancando di fare l’occhiolino al suo fidato braccio destro.

Poi però, una notizia l’aveva ghiacciato sul posto.

Akagi aveva proposto un campo studio a casa sua per una settimana.

Ma non esiste proprio!

Questo aveva pensato contrariato, invocando l’aiuto di chissà chi e guardando perplesso Yohei.

Lui avrebbe recuperato tutte le insufficienze studiando con Mito e sua madre.

Perché sarebbe dovuto andare a casa del gorilla?

Poi un pensiero gli si fece largo nella testa.

A casa del gorilla c’era anche Haruko.

E Akagi aveva parlato di tutta la squadra.

Era vero che presto avrebbe dovuto chiarire con la ragazza (non si sapeva ancora come), però… perché non approfittarsi della sua presenza per provocare un pochino Rukawa?

Del resto, anche lui rodeva di gelosia e avrebbe scannato volentieri tutte le sue fan.

Ancora di più quelle che gridavano frasi oscene.

Di conseguenza, perché perdersi l’occasione di potersi gustare lo spettacolo della sua kitsune gelosa?

Era per questo che poi si era rivolto verso Rukawa ridendo sotto i baffi.

L’altro non doveva averci capito granché ma poco importava.

Si sentiva vivo come non mai ma soprattutto giovane.

Giovane dentro.

Tutte le cose che gli erano state precluse, tutti gli atteggiamenti tipici degli adolescenti e le loro idee matte che non aveva mai potuto assaporare stavano lentamente facendosi largo in lui.

Stava tornando alla vita e non si sarebbe perso niente di tutte quelle nuove sensazioni.

Le avrebbe custodite con cura serbandole dentro di se.

Sarà una settimana divertente! Pensò, di buon umore come non mai, entrando in casa insieme a Yohei.

L’altro, sulla sua stessa lunghezza d’onda, sorrise di rimando.

Povero Rukawa! Pensò molto divertito, guardando il volto sorridente di Hanamichi ed entrando dopo di lui.

Sarà una settimana esilarante pensò, appuntandosi poi mentalmente di farsi raccontare tutti i dettagli.
 
Continua…
 
Note:

Questo capitolo è ambientato nella puntata 91 dell’anime.

Riprende i fatti del canone (il sogno di Hanamichi e le insufficienze della squadra) ampliate con la nuova introspezione.

Ho inoltre ipotizzato una mattinata fra Hanamichi e Mito dopo quanto avvenuto nei capitoli precedenti!

Che dire…. Spero che il capitolo vi sia piaciuto!

Mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate!

Ci vediamo domenica prossima con il nuovo capitolo.

Pandora86

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Capitolo 46
*** Una nuova sfida ***


Rieccomi con il nuovo capitolo della fic.
Grazie a chi ha commentato lo scorso capitolo, e anche a chi continua ad inserire la storia tra le preferite, le ricordate e le seguite.
Ovviamente grazie anche a tutti i lettori silenziosi.
Ci vediamo a fine capitolo per le note e le informazioni riguardo le prossime pubblicazioni.
Mi scuso in anticipo per eventuali errori. Leggo e rileggo ma sapete com’è… qualcosa sfugge sempre!!
Per adesso, buona lettura.
 
Capitolo 45. Una nuova sfida
 

“Allora Hanamichi” esclamò Yohei sedutosi di fronte a lui con le mani congiunte.

Erano in cucina e, seduti uno di fronte all’altro, avevano l’aria dei grandi generali di guerra.

Sul tavolo erano sparsi i motivi di questo consulto a due improvvisato: le sette insufficienze di Hanamichi.

“Facciamo il punto!” Esclamò Yhoei con fare pratico raccogliendo le disastrose verifiche del suo amico.

“Inglese non credo proprio sia il caso di prenderlo in considerazione: arriverai senza problemi a prendere la sufficienza.”

Così dicendo mise da parte il compito dove spiccava un bel quaranta.

“Passiamo alle materie dove devi necessariamente aprire libro!” continuò nel suo monologo.

“Matematica: non credo ti sarà difficile visto che siamo nella stessa classe e il programma non è così astruso. Mia madre ti darà una mano!”

E anche questo compito fu messo da parte.

“Ho capito Yo!” lo interruppe seccato Hana.

Che senso aveva elencare tutte le sue insufficienze?

Era ovvio che sapesse quali fossero: le aveva prese lui!

“Cercavo solo di fare mente locale. Non hai mai preso così tanti brutti voti!” rigirò il coltello nella piaga.

“Dai, mettiamoci a lavoro!” si imbronciò Hanamichi sorvolando, volutamente, sulla battutina dell’altro.

“Akagi rimarrà sorpreso quando supererai la ferifica!” ghignò Yohei.

“Questo è ancora da vedere!” borbottò Hanamichi trincerandosi dietro il libro.

Se voleva giocare a basket, quello era lo scotto da pagare e lui, quell’anno, aveva dato
proprio il peggiò di se, sospirò guardando con angoscia i problemi che avrebbe dovuto risolvere.

Fortuna che c’era Yhoei, pensò guardando l’amico fargli un occhiolino incoraggiante e predendo una matita per sottolineare le parti fondamentali del programma.
 

                            ……………………………………………..
 

Rukawa era a dir poco nero.

Il giorno dopo avrebbero fatto la verifica finale.

E lui, era a casa di Akagi, con Hanamichi che faceva il buffone e con gli altri due ritardati.

Tra l’altro, sentiva gli occhi chiudersi e, il non poter appisolarsi neanche un attimo non
giovava per niente al suo umore.

Inoltre, aveva buttato un occhio sulle insufficienze del do’hao.

Certo che non si era risparmiato.

Aveva addirittura preso un brutto voto in inglese; cosa che lui aveva scampato proprio grazie alle traduzioni del do’hao.

E poi, era da giorni che andavano a casa di Akagi dopo gli allenamenti e Rukawa non lo aveva visto aprire seriamente un libro nemmeno una volta.

E ora, davanti a lui si stava scatenando un finimondo.

Quella sera sarebbero rimasti a dormire a casa di Akagi per un ripasso disperato dell’ultima
ora e il do’hao aveva consegnato, ancora una volta, un compito con delle risposte assurde.

E ora Akagi si stava preparando al linciaggio di massa.

I protagonisti, ovviamente, erano loro due.

Sakuragi, che non sembrava azzeccare un numero neanche se pregava e lui, che si era un momento appisolato sul tavolo.

E ecco, come ciliegina sulla torta, comparire la babbuina chiamata dal fratello.

E Sakuragi, tanto per cambiare, iniziava a fare il deficiente.

Che lo faccia apposta? Aveva pensato nei giorni scorsi.

E, la risposta era stata si.

Sakuragi voleva fargli saltare i nervi, ma lui non sarebbe caduto nelle sue provocazioni.

Motivo per cui, aveva scelto di ignorare le sparate dell’altro e di mettersi a dormire.

La mattina dopo si era defilato, non potendone più del rossore della sua pseudo insegnante e degli occhi a forma di cuore di Hanamichi.

E finalmente, anche il momento della famosa verifica era arrivato.

Rukawa aspettava i risultati con uno sguardo indifferente.

Sapeva che non avrebbe avuto problemi; in fondo si era messo a studiare.

Quello che lo preoccupava era il risultato di Hanamichi.

Inutile prendersi in giro, senza di lui sotto canestro avrebbero avuto delle serie difficoltà a farsi strada nei campionati nazionali.

Eppure, il do’hao non sembrava affatto preoccupato.

Ma come era possibile se non aveva aperto libro seriamente nemmeno una volta?

In quella settimana non aveva fatto altro che fare il buffone, dando il meglio di se nelle sue sparate, e far saltare i nervi a lui, corteggiando più del solito la sorella del capitano.

Rukawa era certo di una cosa: comunque fosse andata la verifica un cazzotto non glielo
avrebbe risparmiato nessuno!
 

                          ……………………………………………….
 

Yhoei era all’entrata della palestra dello Shohoku, affiancato da resto dell’armata e da Haruko.

In quel momento, Hanamichi e compagni stavano svolgendo la verifica e lui era teso come una corda di violino.

Sapeva che l’amico aveva studiato.

Era con lui che aveva passato le notti a studiare tuttavia, non poteva fare a meno di sperare che il tempo passasse in fretta e si sapessero quei dannati risultati.

Ma si sa che quando si vuole che il tempo passi alla svelta si ha l’impressione che, per dispetto, le lancette dell’orologio rallentino apposta.

Per cui, attendeva senza poter fare null’altro.

“Credo che oramai stiano per finire!” la voce di Noma lo riscosse dai suoi pensieri.

“Chissà come se la sta cavando il mentecatto dei mentecatti!” era intervenuto Takamiya.

“Sono preoccupato, per Hanamichi potrebbe essere un problema.” Aveva dato voce alla sua ansia Yhoei.

“Vedete che ce la farà! Ha studiato come un matto tutta la notte, senza mai smettere un attimo!” era intervenuta battagliera Haruko.

Un sorriso sghembo comparve sul volto di Yhoei.

Certo che se Hanamichi passava la verifica facendo credere agli altri di aver studiato solo una notte allora si che poi dovevano chiamarlo Tensai.

Tuttavia, questo ora non aveva importanza.

Tutta la palestra era concentrata su Ayako che era arrivata di corsa.

Tutti la guardavano con il fiato sospeso.

Fino a che la ragazza non alzò le braccia in segno di vittoria.

Un grosso sospiro fu la reazioni di tutti.

E bravo Hanamichi! Ce l’hai fatta anche stavolta!

Pensò Yhoei con un sorriso. Ora i campionati nazionali lo attendevano senza altre interruzioni.

O almeno, era quello che sperava. Non poteva sapere però quanto si sbagliasse.
 

                                 ……………………………………………..
 

Rukawa fissava truce il numero dieci da qualche minuto buono.

Avevano appena saputo i risultati e tutti avevano superato la prova senza problemi.

Hanamichi l’aveva passata per il rotto della cuffia.

E poi si erano diretti negli spogliatoi per cominciare gli allenamenti.

Come diamine aveva fatto se non aveva aperto libro?

“Bella verifica do’hao!” si complimentò ironico approfittando degli spogliatoi vuoti.

“Grazie kitzune” rispose Sakuragi a tono.

“Complimenti anche a te visto che sei andato meglio di me!”

“Peccato che io avessi meno insufficienze e che tu non abbia assolutamente studiato.”

“Ehi!” si difese Sakuragi alzando le mani.

“Guarda che ho studiato anche io come un dannato!”

“Mi piacerebbe sapere quando e dove!” fu la pungente risposta di Rukawa.

“Beh…” sorrise furbo il numero dieci “Yo mi ha dato una mano!” pronunciò volutamente evasivo.

“Mito?!”

“Sua madre” gli chiarì ancora Hanamichi “ è una professoressa in pensione!”

E a Rukawa fu tutto più chiaro.

“Che diamine sei venuto a fare a casa del capitano?!” imprecò sottovoce Rukawa.

“Beh… per farmi quattro risate. Sei adorabile quando fai il geloso kitsune!”

“Ripetilo e ti ammazzo!” lo fulminò Rukawa.

E quindi era venuto solo per provocarlo?

Ma che figlio di…

“E poi volevo vederti in un contesto diverso!” ammise candidamente Hanamichi con un sorriso dolce in volto.

Rukawa sentì svanire all’istante tutta la rabbia.

Il suo do’hao!

“Nh” diede voce al suo monosillabo preferito.

“Avresti anche potuto dirmelo che stavi studiando!” lo riprese in ogni caso.

Così imparava a tenerlo all’oscuro.

“Vuoi dire che eri preoccupato?” domandò allegramente Hanamichi.

“Nh!”

“Dai andiamo che altrimenti pensano che ci stiamo ammazzando!” si diede una mossa
Sakuragi.

“Grazie!” disse solamente prima di uscire definitivamente dallo spogliatoio.

Non c’è di chè! Rispose mentalmente Rukawa.

Finalmente, anche quella storia assurda dello studio matto era finita.

Ora i campionati nazionali li attendevano.

Non poteva sapere che c’era un’altra sfida che gli si prospettava all’orizzonte.
 

                         ……………………………………………
 

Oramai mancavano dieci giorni all’inizio del torneo.

Il grosso ostacolo, rapresentato dalle insufficienze, era stato aggirato e tutti si allenavano per dare il meglio di se.

Conquistare il torneo.

Era questo che diceva il cartellone appeso in palestra da Ayako, scritto da lei.

Peccato che prima della loro partenza, ancora qualcosa doveva accadere.

Nessuno lo sapeva. Solo il signor Anzai, che guardava i suoi giocatori con uno strano cipiglio in volto, sapeva cosa sarebbe accaduto nei giorni seguenti.

Akagi li aveva chiamati tutti a raccolta.

“Come sempre, anche quest’anno faremo un campo di allenamento” aveva esordito con la sua voce baritonale.

“Questa volta però lo faremo con la squadra di un’altra scuola, guidata da un vecchio allievo del signor Anzai.”

“Tenetevi forte” era intervenuto Kogure “scenderemo in campo contro lo Yuosei di Shizuoka”

“E chi saranno mai?” aveva domandato Hanamichi dopo aver visto lo stupore sui volti dei
suoi compagni di squadra.

“Ignorante” l’aveva allora ripreso il play maker.

“Rappresentano la prefettura si Shizuoka ed è una delle miogliori otto squadre che ci sono in Giappone”

È così aveva confermato Akagi.

“Quindi vi consiglio di prepararvi bene”

“Ah, di che ti preoccupi Gory” era intervenuto Sakuragi “Hai il genio in squadra! Chiunque loro siano dovranno vedersela con me!”

“Ah beh, allora…” non aveva saputo resistere Rukawa.

Ed ecco che era partito uno dei soliti teatrini fra le due matricole dello Shohoku.

Quello che però nessuno dei due poteva sapere era che avrebbero avuto, entrambi, un’amara sorpresa.

 
                    ………………………………………………….
 

“Allora, ci siete tutti?” domandò Akagi.

Il giorno della partenza per il campo scuola era arrivato.

“Ehi, come mai non sei in ritardo?” chiese Ryota ad Hanamichi che sprizzava energie da tutti i pori.

“Ehi, che vorresti dire?” si difese il numero dieci.

“Guarda che io sono in forma smagliante, mica come quello lì!” concluse additando un
Rukawa praticamente addormentato in piedi.

“Nh… Deficiente!” fu la pronta risposta del numero undici.

Fu una sorpresa generale quando il signor Anzai annunciò loro che non sarebbe partito con la squadra.

Ma ci fu uno stupore ancora più grande quando il signor Anzai annunciò il resto.

“Ma come, lei non viene con noi nonno? Ci abbandona così?” domandò Sakuragi.

“Ma tu rimani con me! Così, come vedi, non ti abbandonerò.” fu la decisa risposta del coach.

Il silenzio regnò sovrano per un minuto buono.

Che cazzo significa? Riuscì a pensare Rukawa nonostante fosse mezzo addormentato.

“Ci vediamo tra una settimana! In bocca al lupo a tutti!” salutò il coach.

Il do’hao che rimane qui? Pensò Rukawa preoccupato.

Ma, come gli altri non potette fare altro, che allontanarsi.

Che diavolo ha in mente il signor Anzai? Si domandò osservando Sakuragi essere assalito dai suoi migliori amici che chiedevano la restituzione di non si sa quale somma.

Osservò Mito che dava man forte agli altri e si sentì in parte rincuorato.

Ci sarà lui a tenerlo d’cchio per me.

E si allontanò definitivamente.


Continua…
 
Note:

Il capitolo è ambientato nella puntata 92 dell’anime.

Spero che vi sia piaciuto.

Mi raccomando fatemi sapere cosa ne pensate.

Ci vediamo domenica prossima con il nuovo capitolo.

Pandora86

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Capitolo 47
*** I 20.000 tiri ***


Rieccomi con il nuovo capitolo della fic.
Grazie a chi ha commentato lo scorso capitolo, e anche a chi continua ad inserire la storia tra le preferite, le ricordate e le seguite.
Ovviamente grazie anche a tutti i lettori silenziosi.
Ci vediamo a fine capitolo per le note e le informazioni riguardo le prossime pubblicazioni.
Mi scuso in anticipo per eventuali errori. Leggo e rileggo ma sapete com’è… qualcosa sfugge sempre!!
Anche se con un giorno in anticipo, ne approfitto inoltre per augurare una Buona Vigilia e un Buon Natale a tutti i lettori! Che siano giorni sereni per tutti!
Buona lettura
 
 
 
Capitolo 46.  I 20.000 tiri
 

“È stata una decisione del signor Anzai!” chiarì Akagi al resto della squadra.

Il treno era partito da poco e tutti si stavano lambiccando sul fatto che Sakuragi fosse rimasto a scuola.

Rukawa era seduto vicino al finestrino, di fronte a Miyagi, Mitsui e il capitano.

Aveva gli occhi chiusi ma non si perdeva una parola di quello che dicevano i suoi compagni.

“Ma perché?” domandò Kogure.

Rukawa si fece più attento.

Era quella la cosa che più gli premeva sapere.

Akagi allora raccontò loro della chiacchierata avuta con il coach.

Mancavano dieci giorni all’inizio del torneo e, secondo il coach, quei giorni erano sufficienti affinchè Sakuragi migliorasse.

Rukawa a quel punto aprì gli occhi.

Che senso aveva tutto quello?

Il coach doveva sapere meglio di loro che Sakuragi imparava più in partita che in allenamento.

E allora perché non farlo giocare contro lo Josei?

Tuttavia non disse nulla, continuando ad ascoltare.

Secondo Anzai, Sakuragi imparava in fretta, molto in fretta, però per ottenere dei risultati soddisfacenti nei giorni che rimanevano, si sarebbe dovuto concentrare sull’allenamento individuale.

Sakuragi aveva uno spirito competitivo molto marcato  e questo, alla vigilia dei nazionali, poteva diventare un problema se non si allontanava dalla squadra.

“Hai capito?” domandò a Kogure una volta riassunti i fatti.

“Se prenderà lezioni dal signor Anzai, si monterà la testa ancora di più!” intervenne Miyagi.

Rukawa non era d’accordo con il play maker ma tacque.

Sarebbe risultato strano se fosse intervenuto a favore del numero dieci e, vista la situazione delicata in cui si trovavano lui e Sakuragi, era meglio comportarsi come al solito.

Tuttavia, doveva ammettere di trovarsi in parte d’accordo con il coach.

Anzai doveva avere in serbo per lui qualcosa di speciale, qualcosa che le partite non potevano dargli.

Era sicuro che quando avrebbe fatto ritorno con la squadra, Sakuragi non sarebbe stato più lo stesso.

Ora più che mai Hanamichi aveva bisogno di imparare e non solo per i campionati nazionali ma per se stesso.

Udì vagamente quello che stava dicendo Mitsui.

Ora che il discorso di Akagi era finito non gli interessava null’altro.

Fai un buon lavoro Hanamichi pensò richiudendo gli occhi.

Gli seccava doverlo ammettere però era meglio in questo momento che Sakuragi fosse solo.

Non avrebbe avuto distrazioni di alcun genere, nemmeno quelle che riguardavano lui.

Tuttavia, ebbe il sospetto che giocare senza Hanamichi sarebbe stata una noia mortale e che la settimana sarebbe passata più lentamente del solito.

Sentirò la tua mancanza do’hao.
 

                         …………………………………………………….
 

“Che cosa devo fare? Mi dica!” domandò Sakuragi.

Il coach aveva in mente qualcosa, tanto valeva scoprire subito che cosa.

Gli aveva dato la possibilità di raggiungere gli altri a patto che lo battesse.

Purtroppo aveva fatto una pessima figura.

Il coach lo aveva sfidato ad una gara di dieci tiri fuori area. Il vincitore sarebbe stato colui che avrebbe fatto più tiri.

E Sakuragi non aveva centrato il canestro neanche per sbaglio.

Poi erano intervenuti Yhoei e il resto dell’armata muniti di videocamera e cassette.

Il coach li aveva chiamati perché registrassero i suoi allenamenti.

E Sakuragi vedendo quei video aveva associato se stesso ad una sola parola: babbeo!

Era un emerito babbeo.

Quei video facevano a dir poco spanciare dalle risate.

E lui era stato messo di fronte ai suoi limiti.

In quel momento aveva pensato a Rukawa.

Lui si che aveva stile quando tirava. Anzi, lui aveva stile in ogni singolo movimento facesse
con una palla in mano.

È questo che vede quando sono in campo? Si era domandato.

E la risposta, ovviamente, era affermativa.

Poi il signor Anzai gli aveva elencato i suoi risultati nelle partite giocate:

17 punti in sette partite.

Solo 14 punti però se si escludevano i tiri liberi così distribuiti: 6 con tiri da sotto, 4 sotto canestro, 4 con schiacciate.

Le statistiche parlavano chiaro: lui non era un elemento pericoloso nei tiri fuori area.

Ora Sakuragi incominciava a capire.

Anzai voleva trasformarlo in un tiratore sorprendendo così gli avversari.

Il tutto in una settimana.

Ed era per questo che, tornando serio, gli aveva domandato cosa avrebbe dovuto fare.

“Oh, oh, oh…” fu la risposta del coach “Ventimila tiri!”
 
                                ………………………………………….
 

Rukawa si stava riscaldando come il resto della squadra.

Come aveva previsto, Sakuragi anche se non presente fisicamente era comunque una presenza che aleggiava tra loro.

Appena arrivati, avevano conosciuto il capitano della squadra avversaria: un attaccabrighe di prima categoria.

Che strano, il Kainan non è una squadra forte quest’anno!

Li aveva provocati e Mitsui aveva fatto fatica a trattenersi.

Kogure aveva ringraziato che non ci fosse Hanamichi lì con loro altrimenti la palestra sarebbe stata messa a soquadro.

“Non vedo l’ora di giocare contro i tuoi brocchi!”

Eccolo che si avvicinava nuovamente con le sue affermazioni velenose.

“Vedremo!” fu la pratica risposta di Akagi.

Lui si che aveva i nervi adatti per non cedere alle provocazioni.

Vedremo! Si trovò a pensare Rukawa rabbioso mentre metteva facilmente a segno un altro tiro.
 
                       ……………………………………………….
 

Mito osservò pensieroso la figura di Haruko che li aveva raggiunti in palestra.

“Mio fratello mi ha detto che Hanamichi è rimasto qui e ho pensato di raggiungervi!” aveva spiegato allegra.

Successivamente Hanamichi aveva messo a segno il suo primo tiro e aveva insistito per continuare.

Tuttavia ora Mito era preoccupato.

Rukawa e la squadra erano in un’altra prefettura e la settimana di allenamento intensivo di
Sakuragi poteva essere compromessa dalla presenza della ragazza.

Ricordava perfettamente il fantomatico piano di Hanamichi per riconquistare la sua vita.

Piano di cui non sapeva nulla, ma che comunque non lo faceva stare tranquillo.

Non poteva permettere che Sakuragi si distraesse dal suo allenamento.

Da quel che aveva capito Rukawa lo avrebbe aspettato fino alla fine dei campionati nazionali.

E lui, Yhoei Mito, aveva pensato di approfittare di quel termine per saperne di più sul piano assurdo del suo migliore amico ed, eventualmente, dissuaderlo.

Tuttavia la presenza di Haruko ora complicava le cose.

Conosceva bene Hanamichi e sapeva che se l’allenamento fosse andato bene, allora si sarebbe gasato a tal punto da poter fare qualcosa di molto, ma molto stupido.

Lui era dell’idea che avrebbe semplicemente dovuto smettere di corteggiare in modo così plateale la ragazza.

Lei non si sarebbe accorta di nulla e l’amicizia sarebbe rimasta.

E Hanamichi avrebbe potuto vivere serenamente il suo rapporto con Rukawa.

Però, purtroppo, Hanamichi non la pensava così.

Dovrò tenere gli occhi aperti considerò passando un’ennesima palla al suo migliore amico.
                        

                               ……………………………………….
 

“Chissà come sta andando la partita!” si domandò Haruko ad alta voce.

Era il terzo giorno di allenamento di Hanamichi ed erano in pausa pranzo.

Quella mattina il numero dieci aveva notevolmente migliorato la media dei tiri che centravano il canestro.

Yhoei lo aveva osservato sentendosi orgoglioso di lui.

Gli erano venute in mente le parole di Rukawa:

Lui è il basket.

È, finalmente,Yhoei aveva capito cosa l’altro intendesse.

Aveva toccato con mano i miglioramenti che aveva fatto in un solo due giorni.

Aveva toccato con mano il suo incredibile talento.

Hanamichi era nato per giocare a basket.

Ora, finalmente, ne aveva la conferma.

Sarebbe stato tutto perfetto se anche quella mattina Haruko non si fosse presentata per aiutarli.

Non che a lui desse fastidio e anche Hanamichi non si era lasciato deconcentrare.

Diciamo che sperava che meno il suo amico la vedesse meno gli venisse voglia di attuare una delle sue stramberie.

E invece, eccola che faceva loro compagnia anche a pranzo offrendo i suoi panini ad un Hanamichi versione scrofa. Il tutto, senza smettere di complimentarsi con il numero dieci per i suoi allenamenti e provocando in Yhoei un moto di fastidio.

Chiariamoci, non che Mito non volesse che la ragazza non stimasse il suo amico, anzi.

Lui era il primo che in passato avrebbe voluto spaccare la faccia a tutte le galline a cui
Hanamichi si era dichiarato perché, oltre a respingerlo, lo avevano anche deriso.

Però, d’altro canto, lui sapeva bene che quei complimenti e l’affetto sincero che provava la ragazza non facevano altro che mandare Hanamichi in confusione.

Non che mettesse in discussione il suo rapporto con Rukawa.

Quello non era assolutamente in pericolo.

Lo mandavano in confusione perché non sapeva come comportasi con lei.

Il suo amico aveva il cuore molto tenero. Troppo tenero.

E Yhoei questo lo sapeva fin troppo bene.

Hanamichi stava nientemeno che con il ragazzo su cui Haruko sognava.

Yhoei era certo che, anche se non ne avevano ancora parlato, quella era una delle parti più spinose della situazione.

Tuttavia, anche se Hanamichi si sentiva (o si sarebbe sentito ) in colpa per quello, Mito sapeva che il loro legame era troppo forte per lasciarsi offuscare da queste cose.

Hanamichi era un tipo abbastanza geloso (anche se Rukawa lo batteva di gran lunga in questo) di conseguenza, nonostante volesse bene ad Haruko, Mito era sicuro che i sogni (sconci e non) della ragazza sul numero undici lo avrebbero infasidito parecchio.

L’importante era che su di loro aleggiasse sempre la figura della super matricola.

E, fortunatamente Haruko, con quella domanda gli avrebbe dato modo di nominare (casualmente) Rukawa senza destare sospetti.

“Partita?” domandò interessato dandole corda.

“Quale partita?”

“Takenori mi ha detto che dovranno disputare almeno tre amichevoli con lo Yousei in questa settimana” rispose la ragazza ben contenta di poter parlare della squadra.

E soprattutto di Rukawa si appuntò Mito mentalmente con un sorriso sghembo.

Spiegò loro che era una delle migliori otto squadre in Giappone.

“Allora forse sono un po’ troppo bravi per lo Shohoku!” intervenne Takamyia con la bocca piena.

“Non non è vero!” li difese a spada tratta Haruko.

“Ora lo Shohoku può contare un vero fuoriclasse tra le sue file!” concluse arrossendo, con gli occhi sognanti.

Bingo! Esultò Yhoei fra se guardando di sottecchi il suo amico che non si era perso nulla di quello scambio di battute.

“Ahh” esordì con le sue migliori sceneggiate “So a chi sta pensando e non lo sopporto! Come può piacerle quello lì?”

Geloso eh Hanamichi? Gongolò Mito dentro di se trattenendo a stento le risa.

“Ma questa proprio non la passa liscia” continuò Hanamichi fuori di se mentre Haruko non faceva minimamente caso a tutto ciò troppo occupata a sognare su qualcuno che non avrebbe mai avuto.

“Ora però devo continuare ad allenarmi, sempre e solo allenarmi!” concluse Hanamichi alzando le braccia verso l’alto.

Potenza di Rukawa! Pensò Mito.

Anche se l’altro era distante, bastava nominarlo affinchè Hanamichi si caricasse a dare il massimo.

E Yhoei, non poteva fare altro che gioire per questo.
 

                           …………………………………………………..
 

Josei 69 – Shohoku 54.

Era questo che segnava il tabellone quando Ayako, dietro segno di Akagi, aveva chiesto il primo time – out.

Non a caso quella era una delle migliori otto squadre del Giappone.

E loro stavano giocando con una marcia in meno, oltre che con un uomo in meno.

Queste erano le conclusioni di Rukawa.

Non potevano assolutamente tornare a casa dicendo a Sakuragi che avevano perso.

“Dobbiamo migliorare il nostro attacco!” furono le parole di Akagi in risposta ad Ayako che li incoraggiava.

“Chissà come sta procedendo l’allenamento di Hanamichi!”

Rukawa a quel punto alzò lo sguardo facendosi attento.

“Non possiamo davvero tornare a casa e dirgli che nel frattempo abbiamo perso!” concluse il capitano.

La figura del numero dieci comparve improvvisamente nelle loro menti.

Non voglio neanche pensarci!  Fu il pensiero di Rukawa a quel punto.

Non voleva assolutamente tornare a casa dicendo ad Hanamichi che avevano perso.

Ne andava del suo orgoglio, non poteva perdere davanti a quella scimmia rossa che imparava alla velocità della luce.

Anche i pensieri degli altri dovettero essere simili anche se il loro rapporto con Hanamichi era diverso dal suo.

“Dobbiamo farcela!” urlò a quel punto il capitano.

“SI!” fu la comune risposta.

Ora lo Shohoku aveva finalmente una marcia in più.
 

                               ………………………………………
 

“Basta così, l’allenamento mattutino è finito!” esclamò allegro Yhoei.

Era la mattina del quarto giorno e Hanamichi stava facendo passi da gigante.

E, ovviamente, con loro c’era anche l’onnipresente Haruko che ci tenne ad informarli che lo Shohoku il giorno precedente aveva battuto lo Josei con un punto di scarto.

E, sempre ovviamente, ci tenne a precisare che Rukawa aveva fatto un’ottima partita.

“E così Rukawa è in splendida forma eh?” le diede corda Mito

“Sia fisicamente che mentalmente” aggiunse marcando le parole e pregustandosi la reazione di Hanamichi.

“Beh, buon per lui!” concluse guardando l’amico che, stremato dalla fatica, quasi non si reggeva in piedi.

“È una grande notizia, vero Hanamichi?” lo provocò allora Takamiya seguito a ruota dagli altri.

“Ho deciso!” urlò allora il numero dieci.

“Quest’oggi farò un allenamento speciale prima di pranzo!”

Mentre parlava un solo pensiero nella testa:

Batterò Rukawa ad ogni costo!Non sarò da meno!

Anche se poi, come ebbe modo di costatare Yhoei, l’allenamento speciale si rivelò un rumoroso litigio con uno della squadra di baseball.

“Come mai è così rissoso?” domandò Okosu.

“Credo sia colpa dello stress! È troppo sotto pressione in questo periodo.” rispose sicuro Mito.

La figura di Rukawa aleggiava sempre tra loro e non permetteva ad Hanamichi di deconcentrarsi dai suoi allenamenti.

Tutto secondo i piani pensò Yhoei guardando con affetto quella testa matta del suo migliore amico.

Peccato che quel pomeriggio le cose fossero destinate a prendere una piega del tutto non prevista a cui Yhoei non avrebbe potuto porre alcun rimedio.
 

Continua…
 
Note:

Il capitolo è ambientato nelle puntate 93-94-95 dell’anime.

In pratica ripercorro gli avvenimenti di quelle puntate con una nuova introspezione, in particolare quella riguardante  Mito che, in questo capitolo, ha avuto più spazio dei protagonisti stessi.

Può sembrare un capitolo di passaggio, anche se è più che altro di preparazione per quello che avverrà successivamente.

Spero che vi sia piaciuto.

Mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate!

Ci vediamo domenica prossima con il nuovo capitolo.

Pandora86.

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Capitolo 48
*** Voltare pagina ***


Eccomi con il nuovo capitolo della fic.
Grazie a chi ha commentato lo scorso capitolo, e anche a chi continua a inserire la storia tra le preferite, le ricordate e le seguite.
Ovviamente grazie anche a tutti i lettori silenziosi.
Ci vediamo a fine capitolo per le note e le informazioni riguardo alle prossime pubblicazioni.
Mi scuso in anticipo per eventuali errori. Leggo e rileggo ma sapete com’è… qualcosa sfugge sempre!!
Auguro inoltre a tutti i lettori un Buon Capodanno e un Buon Anno Nuovo.
Buona lettura
 
Capitolo 47. Voltare pagina
 
Yhoei si osservava pensieroso allo specchio sistemando dei ciuffi ribelli.

Quella mattina e l’inizio del pomeriggio erano andati bene e Hanamichi migliorava a vista d’occhio.

Rukawa non abbandonava mai il suo pensiero e anche il coach aveva contribuito a questo.

Mito non sapeva se Anzai fosse a conoscenza del loro rapporto però, era uno dei migliori allenatori del Giappone e sapeva sempre cosa fare quando allenava i suoi ragazzi.

La rivalità tra Hanamichi e il numero undici era visibile anche ad un cieco quindi Anzai aveva fatto leva su quello per spronare ancora di più Hanamichi che già stava dando il massimo.

Aveva capito che bastava nominare Rukawa affinchè la stanchezza gli passasse.

Ripensò allo scambio di battute pomeridiane:

“Non mi dirai che sei già stanco” aveva urlato Okusu.

“Muovi quelle chiappe, mancano ancora venti tiri!” si era intromesso Noma.

“È da un po’ che va avanti così senza fermarsi!” si era intromessa Haruko.

“Non mi stupisce che sia stanco!”

“Beh, in fondo, anche Hanamichi è un essere umano!” si era aggiunto alla conversazione Yhoei.

Anzai osservava il tutto con il suo solito cipiglio pensoso.

“Fa una pausa!” decretò allora. “Prenditi qualche minuto di riposo.”

Hanamichi aveva accettato all’istante e Anzai si era voltato con un’espressione furba.

“Bene, in questo momento gli altri ragazzi staranno giocando la seconda partita amichevole contro lo Josei” aveva iniziato grattandosi il mento.

Poi, dopo una pausa d’effetto aveva aggiunto:

“Chissà se Rukawa ha già segnato!”

E, ovviamente, Hanamichi era scattato all’istante pretendendo che gli fosse passata la palla.

In quel momento Yhoei aveva gioito dentro di se.

Il coach era un buon alleato a quanto pareva.

Peccato che poi le cose fossero destinate a prendere una piega del tutto non prevista.

Yhoei si accigliò pensando allo scambio di battute avvenuto successivamente.

Hanamichi, dopo aver completato l’allenamento, sentendo che avrebbe dovuto fare i fondamentali si era accasciato a terra.

“Se stai scherzando, non è divertente!” l’aveva ripreso guardandolo preoccupato.

Anche gli altri si erano avvicinati e, con loro, l’onnipresente Haruko.

“Ascolta Hanamichi” aveva esordito la ragazza.

“Appena hai finito gli allenamenti andiamo alla festa, che ne dici?

"È stata una giornata faticosa e sarebbe un’idea carina uscire, giusto per fare qualcosa di diverso!” aveva insistito.

In quel momento una parola si era formata nella mente di Yhoei:

Merda!

Ed eccolo che ora si preparava per andare ad una stupidissima festa alla quale l’amico gli aveva, tassativamente, proibito di partecipare.

“È una cosa mia Yo!” Aveva detto sicuro prima di uscire da casa.

Figuramoci se ti sto a sentire Hana!  Pensò con un sorriso furbo aprendo la porta d’ingresso e salutando il resto dell’armata che l’aveva raggiunto.

Tutti quella sera avevano ben chiara la loro missione: evitare che Hanamichi fosse sterminato da Rukawa quando sarebbe ritornato per colpa di una delle sue cavolate.
 
                                     ……………………………………..
 
Sakuragi camminava a tre metri da terra.

Non vedeva l’ora di raggiungere il luogo dove aveva appuntamento con Haruko.

Quella settimana stava andando alla grande: lui stava migliorando a vista d’occhio e Haruko l’aveva invitato ad uscire.

Sakuragi sapeva bene che l’aveva invitato solo in qualità di amico e la cosa gli stava benissimo.

Lei era molto ingenua ma anche una buona amica e ad Hanamichi sarebbe dispiaciuto perderla.

Tra l’altro, pensò con una punta di fastidio, sapeva fin troppo bene che lei era innamoratissima di Rukawa.

Anche io Haruko! Pensò con rammarico.

E lui ha scelto me!

Fu questo pensiero a dargli coraggio.

Era sicuro che Haruko, più in là, avrebbe capito.

Lui voleva amare Rukawa con tutto se stesso.

Per questo era andato a quell’appuntamento; quell’idea, che alcuni (o forse tutti) avrebbero definito stramba, per lui invece era l’unico modo per liberarsi da tutte le sue inibizioni.

Lui non voleva stare con Rukawa perché era l’unico che lo filava.

Lui non voleva stare con Rukawa perché era un ripiego o perché la super matricola aveva scelto lui.

Lui voleva stare con Rukawa scegliendo di starci insieme.

Scegliendo il numero undici fra le varie possibilità.

Lui voleva scegliere di stare con Rukawa, non starci insieme perché non aveva scelta.

Solo così avrebbe potuto dargli tutto se stesso.

Solo così avrebbe potuto ricambiarlo allo stesso modo.

Quella sera avrebbe fatto la sua scelta.

E nessuno lo avrebbe fermato.

Il caso gli stava dando una possibilità. O forse era il destino che lo metteva alla prova porgendogli quell’occasione preziosa di fare totalmente e assolutamente chiarezza con se stesso e con il resto delle persone.

Occasione che non avrebbe sprecato.

Comprò dello zucchero filato guardandosi attorno.

Chissà se anche lei metterà il kimono! Si domandò, pensando alla ragazza con affetto.

Sua madre stava d’incanto con quell’abito tipico giapponese.

Ne indossava uno bianco con delle rose rosse che riprendevano i suoi capelli e suo padre si incantava letteralmente a guardarla.

“Hanamichi” si sentì chiamare ad un certo punto.

“Sono qui!”

La raggiunse in men che non si dica, notando però, poco dopo le immancabili amiche della ragazza comparire a loro volta.

“E loro che ci fanno qui?” domandò con disappunto vedendo andare in frantumi i suoi piani per la serata.

“Le ho invitate io. Spero che non ti dispiaccia!” gli chiarì Haruko.

“Beh ecco…”

Non è che gli dispiaceva. Diciamo non aveva preventivato la loro presenza.

Come avrebbe fatto a parlare seriamente con la ragazza davanti alle altre due galline?

O se ne vanno o devo trovare il modo di rimanere solo con lei! Pensò deciso Hanamichi iniziando ad ingurgitare apposta tutti i dolci che aveva comprato per Haruko dopo che le sue amiche avevano chiesto di assaggiarne un po’.

Non per niente aveva minacciato Mito e gli altri di non venire.

Non si sarebbe fatto rovinare la serata da quelle due!

Siete solo delle rompiscatole! Pensò rabbioso guardandole funesto.
 
                          ……………………………………………..
 
“Secondo voi dove sarà il re dei dementi?” domandò Okuso allungando il collo tra la folla alla ricerca di una nota testa rossa.

“Il luogo dell’appuntamento doveva essere questo!” puntualizzò Takamiya rovistando nel sacchetto di dolci che aveva appena comprato.

“E ora che facciamo Yo?” domandò curioso Noma.

Quella caccia all’uomo lo stava entusiasmando. A lui e a tutti gli altri.

Solo Yhoei sembrava non divertirsi e il perché era presto detto: non vedeva il lato ironico della situazione.

“Mi sembra chiaro!” intervenne Okuso precedendo Mito nel rispondere.

“Ci prepariamo ad andare a trovare Hanamichi all’ospedale quando Rukawa torna!” concluse allegro.

Anche lui, come gli altri, aveva sempre saputo degli interessi del loro capo.

E Mito, di recente, li aveva aggiornati a grandi linee sugli ultimi avvenimenti.

Tra l’altro, sapeva anche perché erano tutti lì quella serata, ovvero: evitare ad Hanamichi di risolvere le sue questioni con una delle sue stramberie.

Però lui, come gli altri, non vedeva la cosa tanto grave.

Rukawa non lo avrebbe certo mollato per quello, al massimo sarebbero finiti alle mani ma, considerati i soggetti, non era chissà quale novità.

Inoltre il capo sembrava più spensierato negli ultimi giorni quindi cosa poteva mai fare di tanto irreparabile?

Era un po’ matto ma, in fondo lo erano anche tutti loro considerato che gli stavano affianco.

Solo Yhoei, in effetti, era più razionale e pragmatico.

Il più calmo, il più serio. Ed ecco spiegato il suo atteggiamento pensieroso di quella sera.

Era un po’ il loro cervello a conti fatti.

Oltre ad essere quello che conosceva Hanamichi meglio di tutti.

“Secondo voi, Rukawa quanto lo gonfierà quando verrà a sapere che è uscito con Haruko?” domandò Noma.

“Si accettano scommesse!” intervenne Takamiya.

“Non siamo forse qui per evitare che ciò accada?” intervenne a quel punto Yhoei.

“Sì, ma dove lo andiamo a cercare Hanamichi in tutta questa folla?” domandò a sua volta Noma.

“Forse nei posti più appartati o isolati che ci sono!” rispose pratico avviandosi.

Se conosceva bene il suo amico, infatti, avrebbe fatto di tutto per parlare con Haruko in santa pace.

Lui non doveva fare altro che intervenire.

Per fortuna che non ci sono altre feste prima che Rukawa torni! Pensò sospirando, continuando a camminare seguito a ruota dagli altri.
 
                        ……………………………………………..
 
Hanamichi correva a perdifiato tra le bancarelle della festa.

Le lacrime lottavano per uscire e, quella volta, non fece niente per trattenerle.

Non pensava avrebbe fatto così male.

Si era, finalmente, trovato solo con Haruko.

Quale migliore inizio se non dichiararle il suo amore?

La ragazza lo avrebbe certamente rifiutato ma lui, questo, lo sapeva già.

Lui voleva essere rifiutato per stare con Rukawa.

E poi, non avrebbe assolutamente mentito nel parlare d’amore.

Lui le voleva bene, un bene diverso da quello che provava per Rukawa, ma comunque le era affezionato.

Non avrebbe perso un’amica preziosa e forse, più in là, le avrebbe detto di lui e del numero undici certo che lei sarebbe stata comprensiva.

Di certo, tutto si aspettava, tranne quello.

Perché lo aveva schiaffeggiato?

Non aveva neanche provato a baciarla.

Anche volendo, non ci sarebbe riuscito; era sicuro che le sue labbra non sarebbero riuscite a eccitarlo come quelle dei Rukawa.

Quando si era voltato ad osservarla, il volto di Kaede gli era comparso davanti.

Il suo tocco era comparso nella sua mente. E allora, aveva deciso di buttarsi.

Ma, tutto si aspettava tranne quello.

Non poteva crederci. Lui credeva in Haruko, credeva nella loro amicizia.

Perché aveva sentito il bisogno di schiaffeggiarlo?

Era veramente così spaventoso? Oppure, nonostante gli ultimi mesi, la sua facciata da teppista era ancora così radicata in lui?

Non lo sapeva. Sapeva soltanto che avrebbe voluto ci fosse Rukawa lì con lui.

Con la sua forza e la sua determinazione. Ma soprattutto, con il suo essere andato oltre le apparenze.

Gli era tornata alla mente persino Yoko. Addirittura lei era stata più gentile di Haruko.

Si toccò la guancia sentendo la pelle bruciare, lì dove era stato schiaffeggiato.

Oramai ne era certo: solo Rukawa ci sarebbe sempre stato per lui.

E lui, povero idiota, continuava sempre a fidarsi delle persone solo perché erano un pochino gentili nei suoi confronti.

Poi la sua mano toccò qualcosa: una zanzara.

Hanamichi osservò il minuscolo insetto al centro della sua mano.

Che diamine ci faceva una zanzara lì?

E finalmente capì!

Non si era mai sbagliato su Haruko e sulla sua gentilezza. Lei era veramente un’amica sincera.

Quello schiaffo era motivato dal voler scacciare la zanzara sul suo volto.

Sorrise. Il cuore era più leggero.

Perché, anche se una zanzara si era messa di mezzo, lui, dentro di se, aveva finalmente concluso quella storia.

Aveva capito che un altro rifiuto gli avrebbe fatto troppo male.

Aveva tentato e, anche se era andata come era andata, ora si sentiva in pace con se stesso.

Yhoei aveva ragione. Aveva sempre avuto ragione.

Forse era per questo che voleva impedirgli di essere scaricato: sapeva che ci sarebbe comunque rimasto male, trattandosi di una ragazza con il quale aveva anche stretto amicizia.

Fece dietro front. Ora doveva raggiungere nuovamente Haruko e le sue amiche; finalmente poteva godersi la festa.
 
                        ……………………………………………
 
“Vi avevo chiesto di non venire!” esclamò Sakuragi togliendosi la maglia e preparandosi ad andare a letto.

“Ammetterai che siamo stati provvidenziali!” rispose piccato Yhoei.

Perché era vero. Lui e l’armata avevano impedito a Hanamichi di cacciarsi nell’ennesima rissa.

Anche se questa volta non sarebbe stata colpa sua, visto che era intervenuto per difendere Haruko e le sue amiche da dei teppisti che le avevano avvicinate.

Per fortuna, Yhoei aveva fatto mente locale di tutti i posti più appartati o isolati, raggiungendo in tempo l’amico per intervenire e sistemare al posto suo quei balordi.

Lui poteva ancora fare a botte, Hanamichi no, o avrebbe avuto noie con il club di basket.

E, considerato che erano alla vigilia dei nazionali, non era proprio il caso.

“Avrei potuto sistemarli anche da solo!” si difese Hanamichi.

Aveva intuito dal volto di Yhoei che, quella, sarebbe stata una lunga serata.

“Oh certo,” ribattete l’altro ironico “e magari poi essere espulso dal club!”.

“Dimmi un po’” continuò e Hanamichi alzò gli occhi al cielo, o al soffitto considerando che erano nella camera da letto di Mito e, in teoria, sarebbero dovuti andare a dormire.

“Come mai ti sei allontanato dalle ragazze?”

“Chi ti dice che mi sono allontanato?” fece l’innocente Hanamichi.

“Non ci provare!” lo interruppe all’istante Yhoei.

“Quei teppisti non si sarebbero mai avvicinati se ci fossi stato tu con loro!”

“Beh… ecco…” incominciò il numero dieci.

“Hai pianto!” continuò allora Yhoei.

L’aveva notato subito. Gli era bastato guardare il volto del suo amico per sapere che, purtroppo era arrivato troppo tardi.

Hanamichi, a quell’affermazione, alzò lo sguardo.

Solo due parole, in cui Yhoei aveva lasciato trapelare tutto il suo affetto.

Solo due parole, che gli fecero capire perché il suo amico si fosse opposto così tanto alla sua idea.

E fu allora che si decise a raccontargli, per filo e per segno, tutta la sua serata.

Non tralasciò nulla. Ogni pensiero, ogni cosa che aveva provato, ora la esprimeva ad alta voce, sotto lo sguardo attento del suo amico che seduto sul letto a torso nudo, non si perdeva una parola.

“Alla fine anche Haruko se n’è accorta, mi sa! Che ci sono rimasto male intendo.” Concluse Hanamichi.

In effetti, dopo che l’armata aveva steso quei tipi, Haruko gli si era avvicinata e timidamente gli aveva fatto notare che non aveva più nessuna zanzara sul volto, giustificando così lo schiaffo.

“Sei troppo trasparente in alcuni casi!” lo riprese Yhoei che aveva comunque intuito come stavano le cose.

Non per niente, lui e l’armata gli avevano dato corda prendendolo a pugni (leggeri) dopo che Hanamichi aveva urlato a gran voce alla ragazza che poteva schiaffeggiarlo quanto voleva.

Anche se, era ancora arrabbiato per il comportamento di Hanamichi che se ne accorse immediatamente.

“Tu lo sapevi, per questo volevi fermarmi. Sapevi che ci sarei rimasto male!” disse tutto d’un fiato avvicinandosi.

“Avevi ragione Yo!” disse sicuro.

“Hai sempre avuto ragione. Credo che ora la faccenda Haruko sia finalmente risolta!”.

“Bene!” rispose Mito più rilassato.

“Lo dirò anche a Rukawa quando tornerà!” continuò Hanamichi.

“Ed io gli dirò di darti un cazzotto da parte mia!” aggiunse Yhoei avvicinandosi all’amico.

“Non voglio che tu pianga!” disse poi a bassa voce e Hanamichi si fece attento.

Mito era una persona chiusa, al pari di Rukawa, e nonostante lui sapesse di poter sempre contare su di lui, le manifestazioni d’affetto così evidenti erano comunque rare.

Per questo, erano ancora più preziose.

Mai come in quel momento si rese conto che non gli importava più del resto del mondo.

Aveva Yhoei e l’armata.

Li aveva sempre avuti. E ora si era aggiunto anche Rukawa.

E, a lui, stava bene così.

“Lo so!” gli rispose a bassa voce andando a stringerlo in un abbraccio.

E non ci fu più bisogno di parole quella sera.

L’abbraccio fraterno e colmo di affetto era la conclusione perfetta della serata.

Ci sarebbero sempre stati, l’uno per l’altro.

E, a entrambi, stava bene così.

Entrambi non avrebbero mai voluto cambiare le cose.

Finalmente erano solo due adolescenti che si godevano la vita giorno per giorno.

Uno, un po’ matto e un altro, un cupido improvvisato.

Ma, comunque due adolescenti spensierati che, dopo tanto tempo, potevano preoccuparsi di cose banali e di tutti i giorni.

In quell’abbraccio, Yhoei sentiva il peso che il suo amico portava sulle spalle sciogliersi come neve al sole.

In quell’abbraccio, Hanamichi sentiva il cuore di Yhoei, sempre troppo occupato ad assorbire i problemi del suo migliore amico, battere più leggero.

In quell’abbraccio, sia Hanamichi sia Yhoei capirono che finalmente, entrambi, avevano voltato pagina.
 

Continua…
 
Note:

Questo capitolo è ambientato nella puntata 95 dell’anime.

È un capitolo di svolta per l’amicizia tra Hanamichi e Yhoei.

Infatti, ho pensato di approfittare di questa parte del canone per approfondire meglio l’introspezione dell’armata ma soprattutto di Mito che, avendo vissuto a stretto contatto con i problemi di Hanamichi, volta finalmente pagina.

Nei precedenti capitolo Hanamichi ha dato un taglio al passato con Kaede.

In questo, lo fa con Yhoei che gli è sempre rimasto accanto.

Spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto.

Mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate!

Ci vediamo domenica prossima con il nuovo capitolo.

BUONE FESTE A TUTTI!

Pandora86

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Capitolo 49
*** Il rientro ***


Eccomi con il nuovo capitolo della fic.
Scusate il ritardo ma non riuscivo a connettermi.
Grazie a chi ha commentato lo scorso capitolo, e anche a chi continua a inserire la storia tra le preferite, le ricordate e le seguite.
Ovviamente grazie anche a tutti i lettori silenziosi.
Ci vediamo a fine capitolo per le note e le informazioni riguardo alle prossime pubblicazioni.
Mi scuso in anticipo per eventuali errori. Leggo e rileggo ma sapete com’è… qualcosa sfugge sempre!!
Auguro a tutti i lettori una Buona Epifania.
Buona lettura
 
 
Capitolo 48. Il rientro
 
“È stato un piacere! Non vediamo l’ora di giocare con voi” li salutò il capitano dello Josei.

“Sì, ma vedete di non perdere nessuna partita prima!” fu la risposta di Akagi.

“Ci vediamo ai nazionali” avevano poi urlato tutti in coro, augurandosi buona fortuna.

Il ritiro era finito.

Una vittoria, una sconfitta e un pareggio.

Questo era stato il risultato dello Shohoku.

Rukawa camminava alla destra di Akagi rimuginando sugli ultimi giorni.

Avevano battuto una delle otto squadre più forti in Giappone.

Una sola volta, ma li avevano battuti.

Il suo pensiero era a Kanagawa dove, una nota testa rossa lo aspettava.

Se erano riusciti a vincere almeno una delle tre partite e a pareggiarne un’altra con un uomo in meno, allora la possibilità di diventare campioni nazionali diveniva sempre più reale.

Perché, per quanto Kogure s’impegnasse, era noto a tutti quanto Sakuragi gli fosse nettamente superiore.

Era diventato, con il suo incredibile talento, un titolare in pochi mesi mandando definitivamente Kogure in panchina.

Lo Josei avrebbe avuto una brutta sorpresa ai nazionali.

Inoltre Rukawa non sapeva ancora quanto Sakuragi era migliorato e su cosa era basato il suo allenamento.

Avrebbe indagato non appena tornato a Kanagawa.
 

                                                ……………………………….
 

“Che settimana lunga!” esclamò Mito guardando il suo migliore amico stanco morto.

Mancava un ultimo tiro.

Solo un altro tiro, per completare la serie dei ventimila.

Hanamichi aveva compiuto un altro miracolo e sembrava su un altro pianeta.

“Caspita, l’ultimo tiro” lo sentì sussurrare forse più a se stesso che agli altri.

Haruko gli aveva passato la palla e ora erano tutti con il fiato sospeso.

Avevano vissuto quella settimana insieme, facendo loro l’obiettivo di Sakuragi, facendo loro il suo sogno di diventare un grande campione.

Soffrivano, ridevano e scherzavano con lui, tutti ben contenti di aiutare il loro capo. Tutti più che felici di essere parte del sogno di Hanamichi.

Tutti, nessuno escluso.

Anche Haruko ne era stata parte, rifletté Yhoei osservando la palla centrare perfettamente il canestro.

Dopo la sera della festa, non era cambiato quasi nulla se non che Hanamichi era sempre più concentrato.

La ragazza lo aveva incoraggiato genuinamente e poco a poco anche lei aveva inglobato il sogno di Hanamichi in quella settimana.

Ogni tiro in più, ogni giorno che passava Yhoei la vedeva trattenere sempre di più il fiato durante i tiri.

Vedeva la sua ansia crescere, segno che era sempre più partecipe.

A conti fatti erano stati uniti, erano stati legati in quella settimana come non mai e Mito era contento del fatto che, a somme tirate, Hanamichi aveva accettato se stesso non dovendo rinunciare più a nulla.

E ora invece, esultavano tutti con lui;  tutti insieme.

Erano questi i suoi pensieri quando, dopo aver gioito con il numero dieci per il compimento dell’allenamento, la porta della palestra si era spalancata ed era entrato lo Shohoku al completo.

Ora viene il bello! Pensò con un sorriso sghembo vedendo Rukawa e gli altri.

A breve, tutti avrebbero saputo dei miglioramenti di Hanamichi apprezzando ancora di più la sua presenza.

Vide Rukawa accigliarsi e capì immediatamente il perché: bastava, infatti, seguire la direzione dei suoi occhi.

Si spostavano da Haruko a Hanamichi e poi ancora da Hanamichi a Haruko.

Di certo, il numero undici aveva notato anche l’armata anche se in quel momento non sembrava interessargli.

È proprio geloso pensò ancora Yhoei facendo forza su tutto il suo autocontrollo per non scoppiare a ridere.

Anche se poi fu salvato in extremis dal pugno del gorilla che fu rifilato al suo migliore amico poiché, nonostante fosse stanco morto, aveva iniziato a declamare le sue doti di Tensai.

Ne vedrete delle belle pensò sorridendo.

Quando la squadra e un certo numero undici avrebbero visto i miglioramenti di Hanamichi, allora sì che sarebbero rimasti a bocca aperta.
 

                               ………………………………………..
 

Rukawa fissava pensieroso il soffitto.

Era stata una giornata estenuante.

La mattina avevano giocato l’ultima partita contro lo Josei guadagnando un pareggio e nel pomeriggio erano rientrati a Kanagawa.

Arrivati a scuola, ad attenderli c’era nientemeno che il do’hao con la sua armata al completo.

Poi, guardando il suo corpo sudato e il suo sguardo affaticato, Rukawa aveva capito che
Sakuragi non stava aspettando loro ma si stava allenando e anche duramente a giudicare dal suo aspetto.

Nemmeno dopo una partita Rukawa l’aveva visto così stanco.

Sakuragi era il tipo che, agli sgoccioli del secondo tempo, era fresco come una rosa e pimpante come un giocatore che è stato in panchina.

Era quello che avrebbe potuto giocare tranquillamente tre partite di fila e, forse, iniziare a stancarsi un pochino.

La sua resistenza era nota a tutti eppure Rukawa l’aveva visto stanco.

Stanco e sudato.

E, inevitabilmente, il pensiero era corso a quello che c’era stato tra loro.

Non aveva potuto fare a meno di pensare che oramai quel corpo gli apparteneva, come tutto quello che riguardava Sakuragi.

La sua mente, il suo cuore e anche (tuttavia di questo ne avrebbe fatto a meno alcune volte) tutte le sue buffonate.

Ed era stato allora che si era soffermato sulla presenza della babbuina che li aveva accolti con un bentornato caloroso e un sorriso smagliante e si era accigliato.

Che diamine ci faceva lì?

Poteva capire l’armata, ma la sorella del capitano per quale motivo era con Sakuragi in palestra?

Aveva poi notato che Mito lo osservava di sottecchi con un sorriso divertito e il suo fastidio era accresciuto maggiormente.

Si vedeva che aveva intuito i suoi pensieri e questo lo mandava fuori di testa se considerava che il ragazzo si divertisse un mondo.

Inoltre, non aveva neanche saputo in che cosa era consistito l’allenamento di Hanamichi.

Aveva sperato in una serata diversa ma, a quanto pare, doveva accontentarsi.

Il do’hao era rimasto in palestra dopo che lui e la squadra erano andati via e non l’aveva più visto.

Immaginò fosse a casa del suo migliore amico e, per adesso gli stava bene così.

In fondo, gli aveva dato del tempo.

E i campionati nazionali erano alle porte. Lui e Hanamichi si erano ripromessi di concentrarsi solo su quelli.

Chiuse gli occhi sentendo il sonno farsi strada in lui.

Una nota testa rossa lo raggiunse nella sua mente e in quel momento Rukawa si sentì certo di almeno una cosa:

Se anche lui e Sakuragi, per ora, erano concentrati sui campionati nazionali, l’indomani era comunque intenzionato a scoprire in cosa era consistito il suo allenamento.

Non poteva sapere che mai certezza sarebbe stata più vana.
 

                               ……………………………………..
 

Hanamichi osservava Haruko seduta di fronte a lui sentendosi al settimo cielo.

La sera precedente, dopo che lui e la ragazza avevano finito di pulire la palestra, lei, notando lo stato pietoso delle sue scarpe, aveva proposto di andarne a comprare delle altre insieme.

Ovviamente, Hanamichi aveva accettato subito.

Il problema era subentrato nelle ore successive.

Ripensò allo scambio di battute avuto con il suo migliore amico quella mattina.

“Hana, o esci di casa o ti prendo a pedate!” stava dicendo Yhoei spingendolo a forza fuori dalla porta.

“Ma non puoi venire anche tu?” aveva piagnucolato implorante come risposta.

“Non sono stato invitato!” aveva risposto sicuro Yhoei chiudendogli la porta in faccia.

“Neanche l’altra sera eri stato invitato!” aveva urlato allora Hanamichi rivolto alla porta certo che il suo migliore amico avrebbe sentito.

Si era poi avviato a scuola, dove aveva appuntamento con la ragazza.
 

Ora invece, seduti al tavolino di un bar, la osservava sentendo tutti i suoi dubbi svanire.

Nelle ore successive all’aver accettato l’appuntamento strani pensieri avevano cominciato ad affollargli la mente.

Lui era fondamentalmente timido e rapportarsi a una ragazza rappresentava già di per se un problema.

Se poi questa ragazza era sempre gentile con lui e innamorata del suo ragazzo (arrossiva ancora a pensare a Rukawa in quel modo!) allora la faccenda si complicava.

Lui, di conseguenza, non sapeva proprio come comportarsi.

Aveva espresso prontamente i suoi dubbi al suo fidato braccio destro e, in cambio, aveva ricevuto una scrollata di spalle.


“Come diamine vuoi comportarti Hana? Vai a scuola, la saluti e compri le scarpe. Nel frattempo chiacchierate del più e del meno!” aveva risposto pratico come sempre.

“La fai facile tu!” era sbottato Hanamichi.

“E tu la fai difficile!” era stata la pronta risposta di Yhoei.

“Ti è sempre piaciuto conoscere nuove persone e fare amicizia con la gente. Ed è ora che tu lo faccia” aveva poi ribattuto facendosi serio.

“Non puoi sempre stare con l’armata facendo scudo fra te e gli altri. Le vuoi bene e la consideri un’amica sincera, per cui passa del tempo con lei”.


E, ancora una volta, Yhoei aveva avuto ragione.

Prima di andare a comprare le scarpe aveva trovato il coraggio di invitarla a bere.

In fondo, se erano amici, era giusto che si vedessero anche fuori dalla scuola.

Osservandola bere dal suo bicchiere Hanamichi non potette fare a meno di pensare a sua madre.

Aveva la sua stessa dolcezza, anche se era molto meno ingenua di Haruko.

In quel momento, desiderò farsi conoscere di più, essere stimato da lei non solo come
componente della squadra ma soprattutto come amico.

Le ragazze (e anche i ragazzi in verità) l’avevano sempre evitato facendosi ingannare dalle voci che circolavano su di lui e dal suo aspetto losco.

Era stato in prima media che aveva scoperto che in Giappone il rosso è un colore usato dai teppisti.

E allora si era chiuso sempre più rifugiandosi in Mito prima e nell’armata dopo.

Poi alle superiori era arrivata Haruko che non era scappata e con lei Rukawa.

Non aveva mai avuto con lei il desiderio di farsi conoscere meglio e il perché era presto detto: era stato troppo concentrato su Rukawa e il cambiamento che stava avvenendo tra loro.

Ma, ora che con il numero undici filava tutto alla grande, Hanamichi aveva riscoperto una cosa che lo aveva sempre contraddistinto da piccolo e che lui credeva sopita.

Aveva riscoperto il desiderio di stringere amicizia e conoscere gente.

Aveva riscoperto il piacere di chiacchierare allegramente con qualcuno che non fosse parte dell’armata.

Fu per questo che si ripromise che, quando lei avrebbe scoperto di lui e Rukawa, avrebbe fatto di tutto per non perderla.

Quella mattina si era divertito da matti.

Il commesso del negozio gli aveva regalato delle scarpe bellissime, scarpe che richiamavano i suoi colori: rosso e nero.

Aveva poi riso come un deficiente quando gli aveva fatto i complimenti in fatto di ragazze dicendogli che aveva buon gusto.

Certo, il tipo aveva equivocato ma comunque la cosa gli metteva allegria.

Quella mattina era stato facile ridere per le cose più banali.

Finalmente si sentiva allegro e pieno di vita come non mai.

E ora, si avviava in palestra con Haruko.

Tra un po’ avrebbe rivisto la kitsune.

Osservò la ragazza al suo fianco e si domandò come sarebbe stato passeggiare con Rukawa.

Il giorno precedente era ancora troppo preso dal suo allenamento per notare altro, anche se comunque non aveva potuto fare a meno di ricercare con lo sguardo la figura del numero undici.

Non poteva negare che, nonostante fosse stremato per l’allenamento, appena il numero undici era entrato in palestra un brivido gli era corso lungo tutta la schiena.

Aveva resistito alla tentazione di fissarlo e aveva iniziato a fare il deficiente ma, non poteva fare a meno di guardarlo di sottecchi.

Per tutta la settimana il volto di Rukawa era stato nella sua mente.

Però, vederlo da vicino era un’altra cosa.

Vedere quelle fattezze perfette su quel volto quasi perennemente serio gli aveva fatto aumentare il battito cardiaco a dismisura.

Avrebbe potuto immaginarlo quanto voleva; vederlo era sempre tutto un altro effetto.

Poi, quella notte l’aveva sognato.

Inutile dire che i suoi sogni non erano stati propriamente casti.

Però, non c’erano stati solo quelli.

La stra – grande maggioranza dei suoi sogni erano concentrati sul volto del numero undici.

Un volto che lo guardava orgoglioso.

Un volto che lo sfidava perché lo riteneva un avversario degno di lui.

Un volto che lo amava.

Senza rendersene conto, accelerò il passo.

Non vedeva l’ora di arrivare, per dimostrargli quanto aveva imparato.

Non vedeva l’ora di arrivare per potersi nuovamente allenare con Rukawa.

Non avrebbe svelato subito a lui e alla squadra la sostanza del suo allenamento.

Ma era certo che la kitsune, visto quanto lo osservava, avrebbe capito che qualcosa in lui era cambiato.

 

                         …………………………………………….
 
 

Era l’una e mezzo.

Rukawa non aveva resistito e, sebbene gli allenamenti fossero per le due, lui aveva iniziato ad allenarsi con largo anticipo.

E ora, era l’una e mezzo e lui già grondava sudore.

Non era riuscito a resistere.

Non aveva idea di che allenamenti Hanamichi stava facendo con il coach ma, quella mattina, era stato quasi sicuro di trovarlo lì.

E invece, una volta arrivato in palestra, l’aveva trovata vuota.

Cosi, aveva iniziato ad allenarsi e il tempo era volato.

Eppure, quella palestra continuava a rimanere vuota.

Solo il rumore della palla che rimbalzava a ritmo cadenzato.

Come poteva essere che Hanamichi non ci fosse ancora?

Di certo in quei giorni aveva vissuto più in palestra che a casa, di questo era certo.

Non l’aveva mai visto così stanco e provato fisicamente.

Eppure, Rukawa aveva anche notato che il giorno precedente nonostante lo ricercasse con lo sguardo, Sakuragi era con la mente altrove.

Il suo volto, nonostante la stanchezza fisica, appariva sereno.

Doveva essere stata una settimana estenuante che però aveva dato i suoi risultati, altrimenti non avrebbe lasciato quell’impronta sul do’aho.

Perché lui conosceva bene quello sguardo.

Conosceva bene quel comportamento sulle nuvole.

Lo aveva provato quando, per la prima volta aveva centrato un canestro.

Quando, dopo tanti allenamenti,  era riuscito ad imparare questa o quella tecnica.

Strinse il pallone che aveva tra le mani con forza.

Non aveva importanza se ancora non sapeva cosa aveva fatto Sakuragi perché una cosa l’aveva capita:

Il do’hao si era allenato duramente e lui non avrebbe fatto di meno.

Poi, dopo l’allenamento lo avrebbe torchiato fino a fargli dire tutto.

Davanti a lui ora c’era l’immagine di Sendoh.

Questo bastò a dargli nuovamente la carica.

Questo bastò a farlo partire in un’azione impeccabile.

Dopo aver scartato il Sendoh immaginario, comparve Maki davanti a lui.

Scartò anche il capitano del Kainan andando a canestro con una schiacciata fenomenale.

Un solo pensiero nella testa:

Non mi batteranno. Non mi batteranno più!

Non poteva sapere che altre sorprese lo attendevano prima della partenza ai fatidici campionati nazionali.

Non poteva sapere che nei giorni successivi un altro giocatore lo avrebbe sbalordito a tal punto da rientrare nella lista dei suoi rivali.

Quel pomeriggio, infatti, non sarebbe venuto a conoscenza di quello che aveva fatto Hanamichi durante la settimana.

Lo avrebbe saputo solamente alla vigilia dei campionati nazionali per un fortuito quanto inaspettato avvenimento.
 

Continua…
 

Note:

Questo capitolo è ambientato nella puntata 96 dell’anime.

In realtà non succede granchè, mi sono limitata a ripercorrere gli avvenimenti del canone aggiungendoci un’introspezione che si adattasse alla mia storia e soffermandomi sui pensieri della neo coppia che affronta per la prima volta una lontananza.

Mi sono soffermata sull’introspezione per far risaltare la tipologia dei pensieri del protagonista che è totalmente diversa da quella dell’inizio della storia.

Ovviamente, anche tutti gli altri personaggi (Mito soprattutto) sentono questo cambiamento avendo un’introspezione meno cupa e più adatta a dei sedicenni.

Spero che il comunque il capitolo vi sia piaciuto e non sia risultato troppo pesante o troppo noioso.

Mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate.

Ci vediamo domenica prossima con il nuovo capitolo.

Pandora86 

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Capitolo 50
*** Il Tuo vero volto - Parte Seconda ***


Siamo arrivati all’ultimo capitolo di questa prima parte della fic.
Grazie a tutte voi che avete letto, commentato e a chi ha inserito la storia tra le preferite, le seguite e le ricordate.
Grazie a tutti, senza di voi questa storia non sarebbe arrivata fin qui.
Ci vediamo a fine capitolo per le note e per le informazioni riguardo la pubblicazione della seconda parte.
Scusate, come al solito, se ci saranno degli errori, io leggo e rileggo ma qualcosa sfugge sempre.
Buona lettura!
 

Capitolo 49. Il tuo vero volto – Parte due.
 

Era tardo pomeriggio e Rukawa era pigramente adagiato sul divano del suo salotto.

Aveva gli occhi chiusi e, all’apparenza, poteva sembrare che stesse dormendo.

In realtà, era sveglio come non mai e aveva ancora in corpo tutta l’adrenalina dovuta all’allenamento.

Il giorno dopo sarebbero partiti per i campionati nazionali ma non era questo il pensiero di Rukawa in quel momento.

Ripensava agli allenamenti del pomeriggio e alle sorprese che aveva riservato loro il suo do’hao.

Perché Rukawa, tutto si sarebbe aspettato tranne quello.

Ripercorse la giornata con la mente.

Erano andati in palestra ad allenarsi e lui, come al solito, era arrivato per primo.

In quei giorni, aveva avuto pochi contatti con Hanamichi che sembrava su un altro pianeta.

Anche quel giorno, in effetti, Hanamichi era con la testa altrove.

Più di una volta, aveva interrotto gli allenamenti dichiarando di voler giocare, e quando non li interrompeva, si estraniava, beccandosi pallonate in pieno volto.

Rukawa lo osservava con un cipiglio scuro chiedendosi cosa mai potesse frullare nella mente del do’hao.

Non aveva ancora saputo in che cosa erano consistiti i suoi allenamenti e si domandava perché Sakuragi volesse mantenere tutto quel mistero intorno a questo fatto.

Sapeva che erano andati più che bene, lo vedeva dall’aria soddisfatta del numero dieci.

Ma non pensava che, nei giorni di assenza della squadra, Hanamichi avesse compiuto l’ennesimo miracolo.

Continuò a ripercorrere con la mente il pomeriggio appena trascorso.

A un certo punto, erano apparsi sulla soglia della palestra tre giocatori dello Shoyo accompagnati da una riserva del Ryonan.

Avevano fatto loro gli auguri per l’imminente partenza ai campionati e poi a Hanamichi era venuta un’altra delle sue brillanti idee: una partita di allenamento contro di loro.

Erano solo in tre ma la riserva del Ryonan aveva dichiarato di poter provvedere agli altri due giocatori con un paio di telefonate.

Li avevano poi raggiunti Uozumi e un altro giocatore del Ryonan e, in men che non si dica, avevano cominciato a giocare.

Hanamichi all’inizio, con suo sommo dispiacere, era rimasto in panchina.

La partita era stata accesa da subito ma aveva toccato picchi d’incredibile rivalità quando avevano fatto la loro comparsa in campo Sendoh e Fukuda.

Tutti si erano resi conto di avere di fronte una squadra fortissima, composta da due registi eccezionali: Sendoh e Fushima.

Dopo un po’ di rodaggio iniziale, la squadra assortita aveva iniziato a fare delle giocate incredibili e presto lo Shohoku si era trovato in svantaggio.

Fino a che Sakuragi, con uno stratagemma,  aveva fatto il suo ingresso in campo.

Inventandosi che Kogure si era fatto male in un’ipotetica caduta, era entrato al posto suo.

E, in quel momento, erano iniziati i guai.

Se lo Shohoku era in svantaggio di poco, dopo l’ingresso di Sakuragi, la differenza punti era aumentata.

Almeno, era stato questo il pensiero di Rukawa e della squadra in generale.

Hanamichi si perdeva nei passaggi più elementari e si ostinava a provare a tirare da fuori area.

Oramai, a Rukawa era chiaro cosa avesse fatto in quella settimana.

Peccato che, essendo un principiante, Rukawa aveva capito anche che non sarebbe bastato qualche tiro d’allenamento per fare di lui una minaccia.

Di certo Anzai gli aveva spiegato come tirare ma, in una sola settimana, il numero undici era certo che Sakuragi non avesse potuto combinare granché.

Era questo che pensava e non gli si poteva neanche dare torto viste le incredibili figuracce che Sakuragi aveva regalato loro nei primi momenti di gioco.

Prima fra tutte, quando aveva provato a tirare, mandando la palla sugli spalti.

Era stato quello il momento in cui Rukawa aveva avuto la certezza che gli allenamenti di
Sakuragi avessero avuto come argomento principale i tiri da fuori.

In ogni caso, le figuracce erano continuate.

Sakuragi aveva addirittura realizzato un tiro con la testa, facendo spanciare tutti dalle risate.

Chi non rideva, lo guardava allibito.

Chi non lo guardava allibito, si disperava, e questo era il caso della sua armata che piagnucolava afflitta, blaterando qualcosa riguardante una settimana di lavoro andata persa.

Solo la babbuina esultava ma per Rukawa non faceva numero perché, da tempo, dubitava dell’effettiva sanità mentale della ragazza.

Nonostante ciò, Sakuragi continuava a ostinarsi e sembrava interessato solo a tirare per mettere in mostra la sua presunta preparazione.

Preparazioni di cui, a questo punto, Rukawa dubitava fortemente.

Era stato allora che Akagi era intervenuto spiegandogli che il suo compito era di prendere i rimbalzi e, finalmente, Hanamichi aveva iniziato a fare qualcosa di buono per la partita.

Era ora! Aveva pensato stizzito Rukawa che, a quel punto, poteva dedicarsi esclusivamente a battere Sendoh.

Non aveva, infatti, dimenticato le parole del signor Anzai che, durante quella partita gli erano ronzate spesso in testa.

Ragion per cui doveva concentrarsi solo ed esclusivamente a battere il numero sette del Ryonan.

Non aveva intenzione di perdere, né quella partita né altre.

A fine allenamento poi avrebbe parlato con il do’hao, cercando di capire che diavolo gli passasse per la testa.

Poi era avvenuto l’incredibile: Hanamichi aveva tirato in sospensione.

“Sarà questo il tiro dell’allenamento di cui parlava?” aveva domandato allibito il play maker.

“Ma che ne so! Magari è stato un colpo di fortuna!” aveva risposto Mitsui.

“Un super colpo di fortuna!” non era riuscito a trattenersi Rukawa.

Ma, come avevano capito tutti, non era stato un colpo di fortuna.

Infatti, Sakuragi aveva reso chiaro a tutti che era diventato un tiratore completo segnando ancora, dopo un bellissimo passaggio in aria di Miyagi.

Ora era evidente a tutti; Hanamichi aveva imparato a tirare in una sola settimana.

Anzai non gli aveva solo insegnato la postura o le basi per la posizione di tiro ma addirittura la tecnica completa del tiro da fuori area che, come aveva dimostrato poi in seguito,
Hanamichi aveva compreso a pieno.

Il tutto, in una sola settimana.

E Rukawa aveva incominciato a ricredersi ancora di più.

Sapeva che Hanamichi aveva del talento però, quello che aveva realizzato nella settimana trascorsa, aveva dell’incredibile.

Quello che aveva provato, guardando Hanamichi in perfetta posizione di tiro, era stata adrenalina pura.

L’eccitazione che aveva provato non era quantificabile.

La partita incominciava ad andare in loro favore finalmente e Fukuda era dovuto uscire perché, con un Sakuragi che tirava da fuori, la sua difesa era cadente.

Era stato allora che Hanamichi aveva avuto la sua prima grande vittoria: era riuscito a battere Fukuda.

Ma, la cosa incredibile era come in un giorno solo e in una sola partita Hanamichi avesse sbaragliato tutti.

Perché, quando aveva stoppato Sendoh, che era compito suo marcare, Rukawa non aveva potuto fare altro che guardarlo correre in contropiede e mettere a segno una delle sue fenomenali schiacciate.

Era stato allora che Hanamichi aveva avuto la sua seconda vittoria: aveva battuto Sendoh e di conseguenza, anche lui, perché non era riuscito a fermare il contropiede del numero sette del Ryonan.

Ancora una volta, Hanamichi era stato l’uomo chiave della squadra.

Aveva segnato i due punti che avevano portato in vantaggio la squadra allo scadere del tempo.

Rukawa aveva osservato gli altri corrergli incontro ed esultare con lui, festeggiando la vittoria, ed era rimasto in disparte con il cuore in subbuglio gonfio di emozioni, tutte rivolte verso il suo do’hao.

Orgoglio, amore, affetto, soddisfazione. Tutte sensazioni che aveva provato nello stesso momento.

Queste e molte altre, tale da creare un mix impossibile da definire.

E ora, nella tranquillità della sua casa, le sentiva ancora vibrare dentro.

Tutta la gelosia provata verso Hanamichi nel momento in cui l’aveva visto con Haruko in palestra, tutta la mancanza per l’improvvisa separazione, erano svanite.

Anche se il do’hao non era con lui in quel momento, lo sentiva vicino come non mai.

Tutto, grazie ai suoi miracoli e al suo immenso talento.

Ora, Sakuragi era diventato un giocatore completo. Gli mancava l’esperienza ma poco contava; l’avrebbe acquisita insieme a lui.

Perché Rukawa non si sarebbe fatto battere. Si sarebbero allenati insieme.

Avrebbero giocato insieme.

Finalmente, sulla stessa lunghezza d’onda.

Proprio perché immerso in questi pensieri non si accorse del suono del campanello.

Andò ad aprire svogliatamente chiedendosi chi mai potesse prendersi la briga di fargli visita.

Tutto si aspettava, tranne la persona che si trovò dinanzi.

“Tu?”
 

                                   ………………………………………………..

 

Yhoei metteva un po’ d’ordine nel suo armadio, rovistando fra il suo personale disordine e quello aggiunto del suo migliore amico.

Il giorno dopo, Hanamichi sarebbe partito per i campionati nazionali e lui, con un po’ di fortuna, insieme all’armata magari sarebbe riuscito a mettere da parte qualche soldo per andare a fare il tifo.

Gli ultimi risparmi guadagnati non erano molti se considerava le spese delle riparazioni del suo motorino, danneggiatosi proprio al ritorno da lavoro mentre scansava un gatto.

Comunque, lui era ottimista. Con il lavoretto alla spiaggia che aveva insieme all’armata forse, qualche partita, avrebbe potuto vederla.

Magari, pensò ironico, qualche altro tifone sarebbe venuto in suo aiuto.

Era stato proprio grazie a quel fenomeno atmosferico che aveva quasi recuperato le spese del motorino.

I due proprietari degli stabilimenti sulla spiaggia avevano offerto loro un guadagno extra se li avessero aiutati a mantenere in piedi le loro baracche durante la notte di cattivo tempo.

Ripensò a quella notte con un sorriso; in fondo, si era divertito un mondo.

Guardò l’armadio sconsolato. Sarebbe stata dura preparare la borsa a Hanamichi visto il disordine.

D’altro canto, era sicuro che, se non avesse provveduto lui, Hanamichi avrebbe raggiunto il luogo dei campionati senza neanche la divisa probabilmente.

Di conseguenza, toccava a lui preparargli la borsa ma, la cosa, non gli dispiaceva.

Era stata una settimana impegnativa, ripagata ampiamente dalle soddisfazioni che Hanamichi aveva avuto nel pomeriggio.

Con uno stratagemma del tutto casuale (la presenza di tre giocatori dello Shoyo in palestra) era, infatti, riuscito a far vedere a tutti quanto aveva imparato.

Era normale che dopo volesse stare un po’ con la sua volpe, Yhoei se lo aspettava.

Non appena arrivato a casa, infatti, aveva espresso il desiderio di raggiungere Rukawa e ovviamente lui, in qualità di suo fidato braccio destro, migliore amico ecc… ecc…, lo aveva
esortato ad andare, raccomandandogli solo di passare a salutarlo prima della fatidica partenza.

Mito era, infatti, sicuro che Hanamichi non sarebbe tornato tanto presto.

Tuttavia, anche lui aveva un grande lavoro da fare, perciò si era messo a lavoro fischiettando allegramente e pensando che finalmente anche la tempesta più brutta della vita di Hanamichi era passata.

Anche se, visti quei due, di certo i teatrini comici e gli equivoci non sarebbero mai mancati.
 

                                 ………………………………………………..
 

Se Sakuragi avesse saputo quello che lo aspettava, forse avrebbe riconsiderato l’idea di andare a trovare il suo, ormai, ragazzo.

Tutto aveva pensato, e conoscendo la kitsune di cose strampalate ne aveva pensate molte, tranne quella di avere un pugno, una volta entrato in casa e aver detto qualche innocente frase.

Perché erano innocenti; su questo non aveva alcun dubbio, pensava massaggiandosi lo stomaco e guardando in cagnesco l’altro.

In fondo, lo aveva solo aggiornato a grandi linee della sua settimana e delle sue decisioni.

Forse era stato un po’ troppo striminzito e frettoloso nel parlare ma comunque, le cose erano tante e, per una persona esagitata come lui, era improponibile che uscisse fuori un racconto
calmo e coerente.

Eppure tutto filava, pensava con ostinazione massaggiandosi lo stomaco, trovando impeccabili le sue mosse e i suoi ragionamenti.

A quanto pareva invece, per Rukawa, non era così.

Anche se Hanamichi dubitava che avesse sentito il resto giacché il pugno era partito
immediatamente dopo che aveva nominato le sue uscite con Haruko.

Che cacchio! Non gli aveva fatto spiegare un bel niente.

“Vuoi rogne Rukawa?” domandò velenoso visto che l’altro continuava a guardarlo fisso.

“No!” esclamò secco l’altro. “Ora mi sento meglio!”

“Eh?” domandò Hanamichi esibendosi in tutta la sua perplessità.

“Argomento chiuso!” continuò il numero undici.

“Ma se lo rifai, ti ammazzo!” concluse, andando a sedersi con noncuranza.

Hanamichi capì immediatamente cosa voleva dire.

Non voleva che fra lui e Rukawa ci fossero ombre perciò provò, ancora una volta, o forse per la prima volta con una discreta coerenza, a spiegare le sue ragioni.

“È comunque una persona importante per me, Kaede!” cominciò, andando a sedersi accanto a lui e chiamandolo per nome con dolcezza.

“Lo so!” lo stupì l’altro.

“Intendo provare a dichiararti” concluse facendosi più vicino a Hanamichi che, a sua volta, sorrise di rimando.

Rukawa, infatti, aveva perfettamente capito i motivi dell’altro.

E, se non giustificava la prima uscita con la ragazza, trovava logica la seconda.

Hanamichi era una persona allegra, aperta e solare; socievole di natura insomma, al contrario di lui.

A Hanamichi piaceva avere amici ed era legato alla ragazza.

Rukawa sapeva che Sakuragi tendeva a legarsi molto alle persone e di conseguenza, da un lato era contento che sorella del capitano fosse sua amica.

In fondo, rimaneva comunque innamoratissima della super matricola, quindi, finché Hanamichi era suo, non vedeva il problema.

Certo, un po’ di gelosia, anzi molta in verità, c’era sempre, ma era rivolta di più verso gli eventuali amici maschi (viste le tendenze di Hanamichi) che verso la ragazza.

Motivo per cui, l’argomento era chiuso.

Non intendeva privare Hanamichi delle persone che gli stavano intorno, purché questi rimanesse suo.

Fu per questo che si fece sempre più vicino alla bocca dell’altro.

Gli era mancato e, visto che Sakuragi era andato a trovarlo di sua spontanea volontà, non scacciò la tentazione di avere un contatto più intimo con lui.

“Sei stato bravo” gli sussurrò a un soffio di labbra, riferendosi alla partita del pomeriggio e osservando l’altro sgranare gli occhi per lo stupore.

“Ai campionati nazionali, faremo grandi cose!” dichiarò con il tono di una grande e solenne promessa.

Promessa che Hanamichi ci tenne a rimarcare prontamente.

Era la prima volta che Rukawa gli faceva un complimento, riferito al basket, così intenso e questo, insieme alla vicinanza dell’altro, bastò a scaldargli il cuore e a desiderare una vicinanza sempre più immediata con il numero undici.

“Contaci kitsune!” sussurrò, prima di lasciarsi travolgere dalle labbra di Rukawa.

Ora non c’era più bisogno di parole.

In fondo, tra loro che avevano comunicato per lo più a pugni e insulti, non ce ne era mai stato bisogno.

Si spogliarono con intensità, toccandosi impetuosi.

Si baciarono con voracità, mai sazi delle labbra dell’altro.

Gesti vecchi come il mondo, eppure sempre nuovi per loro, carichi ogni volta di un’emozione diversa e sempre più grande.

Entrambi sentivano di avere bisogno di quel contatto. Entrambi sentivano che non ne avrebbero più potuto fare a meno.

Fu un ritrovarsi dopo tempo, con una nuova speranza per il futuro.

Fu  un accarezzarsi dolce, dopo un periodo di attesa.

Fu  un amarsi con rispetto, dopo essersi cercati a lungo.

Fu questo ma, al contempo, molto altro ancora.

L’indomani, sarebbero partiti per i campionati nazionali ma al momento, mentre si toccavano scoprendo i loro corpi con la stessa intensità della prima volta, nessuno dei due ci pensava.

Al momento, erano solo due giovani innamorati, non il teppista e la super matricola di ghiaccio.

Solo due ragazzi con un grande sogno nel cassetto. Solo due ragazzi con un brillante avvenire.

Le difficoltà ci sarebbero state.

Di certo, i campionati sarebbero stati più difficili del previsto.

Di certo, il futuro avrebbe riservato loro sorprese che neanche immaginavano.

Ma, in quel momento, mentre si baciavano con ardore, non aveva importanza.

Niente aveva importanza.

Erano solo due giovani, in pace con se stessi, che osservavano dolcemente l’uno il volto dell’altro.

Senza più maschere e sotterfugi. Senza pagliacciate e spacconate.

Solo due volti che si mostravano l’uno all’altro.

I loro veri volti.
 

                                ………………………………………..
 

Yhoei osservò la schiena di Hanamichi farsi sempre più piccola fino a che non lo vide svoltare l’angolo.

Ovviamente, Hanamichi era in un ritardo immenso ma era certo che la squadra gli avrebbe perdonato questa piccola svista.

Di certo Akagi lo avrebbe accolto alla stazione con un sonoro pugno in testa.

Ayako, probabilmente, avrebbe dato aria al suo ventaglio.

Rukawa l’avrebbe accolto con un idiota in piena regola e Mitsui e Miyagi l’avrebbero preso in giro.

Kogure, dal canto suo, avrebbe cercato di calmare gli animi fin troppo infuocati già dalle prime ore mattutine.

Lui, invece, sarebbe rimasto per il momento a Kanagawa ma non aveva importanza.

Era certo che presto avrebbe raggiunto Hanamichi per andare a fare il tifo e, nel frattempo, lo lasciava in buone mani.

Hanamichi quella mattina era entrato di corsa abbracciandolo stretto.

In fondo, era la prima volta che prevedevano di stare separati per un periodo così lungo.

Ma a nessuno dei due importava in quel momento.

Erano intenzionati a vivere finalmente la vita attimo per attimo e Yhoei era sicuro che non avrebbe sentito la mancanza di Hanamichi.

Questo perché avrebbe conservato, fino a quando la squadra non fosse ritornata a Kanagawa,
il ricordo del volto di Hanamichi di quella mattina.

Un volto sereno, un volto gioioso e pieno di vita.

Un volto carico d’aspettativa per l’avvenire.

Un volto che, anche avendo a disposizione molte maschere, sceglie finalmente di mostrarsi per quello che è.

Il  suo vero volto.

E lui, Yhoei Mito, aveva mantenuto la sua promessa.
 
 
 

Fine prima parte.
 

Note:
 

Il capitolo è ambientato dalla puntata 97 alla puntata 101.

La prima parte della storia, tutta anime, si è conclusa.

Presto pubblicherò la seconda parte che prenderà interamente spunto dal manga e, probabilmente, ci sarà anche una terza parte che partirà dalla fine del manga e sarà tutta di mia invenzione.

Nel frattempo, visto che ho bisogno di ancora un po’ di tempo per finire di scrivere la seconda parte, domenica prossima pubblicherò una nuova fic intitolata “Il mare di notte”.

Non si collega assolutamente a questa ed è una fic molto leggera, di appena quattro capitoli.

Al termine di questa, pubblicherò la seconda parte de “Il tuo vero volto”.
 
Che altro dire… innanzitutto grazie a tutte voi che avete recensito e seguito la mia storia. Non vi cito perché, distratta come sono, rischierei di dimenticare qualcuno e non voglio.

GRAZIE MILLE! È  merito vostro se la storia è arrivata fino a qui.

Spero che vi sia piaciuta e che mi seguirete anche nella seconda parte.

Nel frattempo… vi saluto qui, sperando di ritrovarvi domenica prossima con la fic che farà da intramezzo fra la prima e la seconda parte di questa.

Un grande abbraccio e grazie ancora.

Pandora86

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