Breve raccolta del superfluo.

di Betta3x9
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** Patronus ***
Capitolo 3: *** Cluedo ***
Capitolo 4: *** Trentanove settimane. ***
Capitolo 5: *** San Valentino. ***
Capitolo 6: *** Coinquilino cercasi ***
Capitolo 7: *** 7. ***
Capitolo 8: *** . ***
Capitolo 9: *** Il perfetto coinquilino ***
Capitolo 10: *** . ***
Capitolo 11: *** Thè e veritaserum. ***
Capitolo 12: *** Il Dottore a domicilio. ***
Capitolo 13: *** . ***



Capitolo 1
*** 1. ***


John prese troppa velocità - almeno per i suoi gusti -, si sbilanciò e finì col rotolare malamente a terra, per la sesta volta da quella mattina. La neve gli finì fin dentro i calzini.

Sherlock lo aggirò con grazia e frenò, poco più giù. Si girò a guardarlo con aria annoiata.

"Vorrei proprio sapere come diavolo fai". Ringhiò Watson, strattonando uno sci che non voleva proprio saperne di staccarsi dallo scarpone.
"Semplicemente non c'era nessun motivo razionale per cui sarei dovuto cadere. Bastava spostare il peso a destra, proprio - " "Non voglio più saperlo".
Sherlock aggrottò le sopracciglia e riprese a sciare, un po' offeso.

Quello che John non riusciva proprio a digerire era il fatto che quella mattina nemmeno sapeva sciare, quel sociopatico del suo coinquilino. Anzi, a dirla tutta, aveva trovato l'idea di attaccarsi due stecche piatte ai piedi per poi gettarsi da una montagna, qualcosa di semplicemente ridicolo. (*)
...Almeno fino a quando non aveva deciso che era proprio quello che gli serviva per capire le dinamiche di quello che i giornali avevano soprannominato: "Omicidio ad alta quota".
Interessante, aveva detto Sherlock. Come il film, aveva pensato John.

Lo sci si staccò dallo scarpone di scatto, facendolo finire disteso nella neve. Di nuovo. Cosa diavolo ci faccio, qui? Si chiese, con una punta di disperazione.
Decise di scendere a piedi.



Sherlock era seduto ad uno dei tavolini esterni del rifugio, perfettamente rilassato, con l'aria di uno che non abbia fatto nient'altro per tutta la mattina. John - sudato,  senza fiato e con i vestiti bagnati - si sentì incredilmente stanco e oltremodo irritato.
"Finalmente, John".  
Si lasciò cadare sulla panca, accanto a Sherlock, senza dire nulla.
"I vostri the". Annunciò il cameriere, posandoli sul tavolo. John li guardò un po' perlesso.
"Ho calcolato il momento esatto in cui saresti arrivato". Chiarì Sherlock, soddisfatto di sé.
John sorrise dentro la sua tazza di Earl Grey - tanto limone e niente zucchero - e per la prima volta da quella mattina pensò che la montagna non fosse poi così male.

Fine.



* " (...)Hermione sarebbe andata a sciare con i suoi genitori, idea che divertì moltissimo Ron, che non aveva mai sentito di Babbani che si legavano assi di legno ai piedi per scivolare giù dalle montagne" ("Harry Potter e l'Ordine della Fenice" - Rowling).
Mi era rimasto in testa questo pezzetto, e ho sfogliato quasi tutti i libri di HP, prima di trovarlo. Povera me.

N.B. Ho messo "slash" tra gli avvertimenti, perché alcuni capitoli lo saranno.
Per il resto, non so cosa mi sia venuto in mente, visto che pensavo (mi ero detta) di non scrivere mai più. Staremo a vedere. Ah, e vi prego di notare la mia penosa mancanza di fantasia per i titoli: è inutile, inutile. Tanto vale arrendersi.

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Capitolo 2
*** Patronus ***


Note:  Cross-over. (E' ambientata nell'universo di Harry Potter, per capirci)





"Un cane, John?"

Watson si voltò di scatto, la bacchetta alzata e il patronus che scompariva in rivoli di fumo argentei alle sue spalle.
Sherlock lo osservava pigramente, appoggiato alla porta dell'aula vuota che John aveva scelto per esercitarsi - quando diavolo era entrato?

"Ti si addice".
"Ehm. Grazie". John aggrottò le sopracciglia: non era affatto sicuro di dover ringraziare.
"I cani sono fedeli. Ubbidienti".
Forse non avrebbe dovuto ringraziare, no. "Vorrei proprio sapere che forma ha il tuo patronus, invece".
"Non lo so. Sarà sicuramente qualcosa di dinamico. Pieno di risorse, enigmatico".
Le sopracciglia di John schizzarono verso l'alto. "I M.A.G.O. sono la prossima settimana, Sherlock. E' un incantesimo difficile".
"Sciocchezze, John. Fammi vedere come si fa".

Il golden retriever zampettò nuovamente per la stanza, prima di dissolversi.

Sherlock alzò la bacchetta con un gesto elegante - per un istante, John si ritrovò a chiedersi che razza di animale avrebbe potuto rappresentare il bizzarro ragazzo con cui da un paio d'anni divideva un appartamento a Diagon Alley. Un gatto, pensò, ricordandolo acciambellato in poltrona.

"Expecto patronum"

Sherlock s'impietrì alla vista della minuscola ape argentea che ronzava sotto al suo naso.

"Dinamico, Sherlock, dinamico". John scoppiò a ridere.

Fine




N.B. Sì, un'ape. Un'operosa, instancabile ape - di quelle che continuano a ronzare tutto il tempo senza farti riposare, se ce l'hai attorno. Potrebbe prenderci, in effetti. In realtà l'ho scelta pensando allo Sherlock Holmes canonico - quello che Conan Doyle manda in pensione nel Sussex, a studiare l'apicoltura. (Apicoltore, seriamente. Non ce la posso fare).

Se dovessi scegliere una casa per Holmes e Watson penserei a Corvonero per il primo e Grifondoro per il secondo. Così, per farvelo sapere.

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Capitolo 3
*** Cluedo ***


Note: Non posso nemmeno dire di averci provato, perché è OOC, questo (perdonatemi). Si fa per ridere, diciamo.
 Per il resto, ho trovato terribilmente divertente l'idea di Sherlock che gioca a Cluedo e perde. L'assassino è la vittima - geniale.

§




Sherlock sbuffò - era uno dei suoi versi da che caso stupido. Non c'è nulla di più divertente?
John cercò d'ignorarlo con tutte le sue forze.

"Oh, andiamo! Questo caso è semplicissimo! Guarda le sue orecchie: è ovvio che sia la figlia del fantino in cerca di vendetta! E le persiane blu, non le ha viste? Che idiota - che completo branco d'idioti! Come fanno a non capire che il colpevole sia la fidanzata di quel tipo?"

John allungò la mano sul telecomando e spense il televisore. La faccia di Jessica Fletcher sparì dallo schermo.

"John? Perché hai spento?"
"Non guarderò più nessun film con te"
"Perché?". Sherlock aveva un'aria perplessa, come se davvero non capisse.
"Certe volte penso che tu non sia umano".
"Mi annoio".
"Appunto".
"E cosa fa la gente normale, allora, quando si annoia?"

La gente normale guarda la tv senza dedurre il colpevole di un giallo dal colore delle persiane, Sherlock - John si limitò a pensarlo. Andava molto fiero del suo autocontrollo.

"Potremo giocare a Cluedo. Scommetto che ti piacerà". Harry andava pazza per quel gioco, da piccola. John l'aveva conservato: era tutto rovinato, ma le pedine e le carte erano complete. Ricordava di averlo infilato distrattamente sotto il letto, il giorno che aveva disfatto le valige nella sua nuova stanza al 221B.

"Perché no?".

John ancora non sapeva di essersi fregato con le sue stesse mani.


Mrs Hudson stava placidamente bevendo la sua tazza di the, con Mrs Peacock tra le dita. Aveva detto qualcosa sul fatto che il colore blu le donasse particolarmente.

(John l'aveva invitata ad unirsi a loro, visto che il gioco prevedeva un minimo di tre giocatori, e la donna aveva accettato subito. Sospettava che anche lei non volesse perdersi lo spettacolo di Sherlock che fingeva di essere una persona normale, giocando a Cluedo).

John constatò che Sherlock aveva un'aria terribilmente perplessa, davanti al tabellone aperto - nei limiti in cui il celebre Sherlock Holmes potesse avere un'aria terribilmente perplessa, certo.

"Spiega". Si limitò a dire, e poi prese a fissare John con attenzione: era John quello che gli leggeva i giornali o i messaggi, e sarebbe stato lui a leggergli le regole. Era così che funzionava.

John afferrò il colonnello Mustard, la sua pedina preferita, ed iniziò a spiegare. Quando finì l'espressione dell'altro non era cambiata granché.

"Tieni". Si limitò a dirgli, passandogli il reverendo Green. Lui e Harry l'avevano sempre considerato la pedina più sfigata. Lui e Mrs White - che, ora che la guardava bene, somigliava un po' a Mrs Hudson. Cercò di non ridacchiare come il cretino che sospettava di essere, guardandola sottecchi.
"Perché proprio questa?". Protestò Sherlock. "Non mi piace il verde. Non c'è rossa?"
"La pedina rossa è Miss Scarlet. Se non ricordo male, gestisce un bordello illegale". (*)
"Interessante. E in che rapporti era con la vittima?"
"Io... Non lo so. Ma che c'entra?". Era John quello con l'aria terribilmente perplessa, ora. Lanciò un'occhiata a Mrs Hudson, in cerca d'aiuto, ma lei si limitò a sorseggiare il the.
"I dettagli sono essenziali. Parlami della vittima. Dov'è stato rinvenuto il corpo? E da chi?"
"Sherlock, io non..."
"E dove? Non c'è un'immagine di questo dottor Black? Come posso risolvere il caso senza indizi?".  
"... Tira i dadi, Sherlock"

Nel giro di cinque minuti, Mrs Hudson pareva in vantaggio, la pedina di John aveva preso residenza in sala da biliardo e Sherlock avanzava dei sospetti su una presunta relazione tra il professor Plum e la procace Miss Scarlett. John aveva sempre sospettato fosse una donna poco raccomandabile.

In capo ad un paio di minuti, Sherlock si era messo in testa d'indovinare che carte avessero in mano gli altri due. Quando Mrs Hudson era sbottata in un: "Sherlock caro, non si gioca così!" -  aveva borbottato qualcosa sul fatto che lui non barava, si limitava ad osservare, ma aveva smesso. O, quantomeno, aveva smesso di farlo a voce alta.

Subito dopo, Sherlock se n'era uscito dicendo che aveva bisogno di una testimonianza del Colonnello Mustard. John si sentì un po' offeso che sospettasse proprio della sua pedina.

"Come diavolo posso dedurre i moventi di pezzi di ferro?". Ringhiò Sherlock, più irritato di quanto fosse ragionevole aspettarsi.

John aveva seppellito la faccia tra le mani e aveva provato a spiegargli - per la sesta volta o giù di lì - che non era così che funzionava il gioco. Sherlock l'aveva guardato con un'espressione incolore e, senza aggiungere nulla, aveva iniziato una meticolosa osservazione del tabellone.

Mrs Hudson, un po' divertita, si era limitata a chiamare Miss Scarlet e la corda in cucina.

"E' altamente improbabile che Miss Scarlet possa aver sopraffatto un uomo robusto come pare essere il dottor Black con una corda! In una stanza così piena di attrezzi e coltelli in vista come la cucina, poi!"

John l'aveva ignorato e aveva passato la carta raffigurante la corda a Ms Hudon. Ovviamente Sherlock aveva subito indovinato che carta fosse.

Al giro successivo Sherlock aveva annunciato trionfante di aver capito tutto. "E' stato un suicidio". John pensò che il suo coinquilino non fosse un genio, ma un cretino; il diretto interessato glielo lesse in faccia e si offese.

"Un suicidio, Sherlock caro?". Mrs Hudson aveva l'aria di qualcuno che pensa di non aver sentito bene.
"Un suicidio, certo. Non c'è altra spiegazione. Il tocco di classe è stato radunare tutte queste persone poco raccomandabili per concentrare le indagini su di loro. Dovrei indagare sul Sir Hugh Black, lo zio, per essere sicuro di alcuni particolari".
"... Non può essere un suicidio. Non è previsto dalle regole!".
"Bhè, allora le regole sono sbagliate". Sbottò Sherlock.

John decise che fosse ampiamente ora di metter fine a tutta quella storia ridicola.

"Bene. Tu indaga pure sullo zio. Io, intanto, dò la soluzione. Vediamo... Per me è stato il Reverendo Green, nell'anticamera, con il tubo di piombo".
"Ridicolo". Borbottò Sherlock. "Commettere un delitto nell'ingresso. Con un tubo di piombo che viene dalla serra. Andiamo. E' una delle cose più stupide che io - "  "Ho vinto".  John fece un sorrisino trionfante, mentre la loro padrona di casa iniziava a mettere a posto le varie carte e pedine.

"Tutto questo è ridicolo. Non ha alcun senso. La gente normale fa giochi senza senso!"

John lo ignorò e andò in cucina a fare il the per tutti. Si ripromise di non giocare mai più a nessun gioco da tavolo con Sherlock Holmes.
Si ricordò di avere anche l'Erede misterioso, sepolto in qualche cassetto; decise che, alla prima occasione, l'avrebbe regalato alla biblioteca.

Quando tornò in sala, il tabellone del suo povero Cluedo faceva bella mostra di sé al lato del caminetto, infilzato con un coltello alla parete. Era troppo emotivamente provato per lamentarsene.
Mrs Hudson doveva essere scesa - altrimenti avrebbe certo protestato per il trattamento riservato al suo muro - anche se questo era certamente un notevole passo avanti per qualcuno abituato a piantare proiettili nelle pareti. Sherlock aveva una strana concezione di arredamento.

Incredibile come una semplice partita a Cluedo possa stancare così tanto, considerò John, spalmandosi sul divano. Vivere con Sherlock Holmes era senza dubbio un lavoro sottovalutato.

Sorseggiò il the e si guardò intorno, cercando di vedere l'appartamento come l'avrebbe visto un estraneo: il teschio sul camino, la posta infilzata sulla mensola con un coltello, libri e fascicoli sparsi con noncuranza sul pavimento, pezzi di cadavere in frigo e ora il tabellone di Cluedo infilzato sul muro. Certe volte trovava francamente preoccupante la naturalezza con cui riusciva a considerare casa un posto simile.

Poi Lestrade si attaccò al citofono del 221B di Baker Street per offrir loro una partita al Cluedo dei sociopatici - e John smise di pensare a simili sciocchezze.

Fine.







* Mi riferisco al film tratto da Cluedo: "Signori, il delitto è servito". (Mi piace un sacco!)


Anche a voi succede sempre che le partite a Cluedo degenerino in una sottospecie di soap opera piena di tresche? (La coppia più quotata è sempre il Colonnello Mustard/Miss Scarlett. Oppure Il Professor Plum, certo).
Per il resto, scusatemi ancora. :/

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Capitolo 4
*** Trentanove settimane. ***


Note: Un po' di slash e un po' di angst. (Si poteva fare a meno di un capitolo con un pizzico di angst? Bhè, sì, effettivamente sì. D'altra parte, ho chiamato questa raccolta "raccolta del superfluo", quindi...!)

*


Sherlock è seduto sul divano - a una distanza piccolissima da lui - e indossa solo la sua vestaglia blu un po' sbiadita. John non ricorda esattamente come abbia fatto a finire lì, ma, dopotutto, non gl'interessa affatto.

Nonostante i bordi aperti della vestaglia lascino scoperti sprazzi di pelle bianchissima, il corpo di Sherlock  è qualcosa di ancora indistinto - tutto ciò che riesce a vedere sono degli occhi trasparenti che lo fissano senza ritegno.

John si sente paralizzato - Come una lepre che resta immobile davanti ai fari di una macchina che sta per travolgerla, così resta John. Gli occhi di Sherlock come fari che cancellano ogni fuga - tutto quello che riesce a fare è allungare una mano verso l'altro per accarezzare la piega morbida tra il collo e la mascella -la pelle è fredda e liscia - Sherlock piega appena la testa, mentre John fa scorrere la punta delle dita fino alla spalla - è una sensazione lievissima - e si fa ancora più vicino.

Non sa bene chi si sia sporto per primo a reclamare un bacio inevitabile - John è troppo confuso e eccitato e spaventato anche solo per chiederselo.

Impazzirò, pensa John, quando la lingua di Sherlock trova la sua - sente la mani dell'altro infilarsi sotto la sua camicia, stringendolo forte - le mani di Sherlock sono fredde; John rabbrividisce e sospira.

Il viso di Sherlock è schiacciato sulla sua spalla, quando comincia a sbottonargli i jeans.  John sente che andrebbe a fuoco, se non fosse per la pelle fredda di Sherlock a contatto con la sua.

Le mani da violinista di Sherlock - così affusolate e bianche e fredde - lo stanno accarezzando sotto i boxer - John geme forte e cerca disperatamente la bocca dell'altro.

Sherlock lo capisce - riesce sempre a capire cosa stai pensando, prima ancora che tu abbia il tempo di pensarlo, maledetto - e si limita a storcere le labbra in un ghigno soddisfatto, senza avvicinarsi. John lo pregherebbe, se solo avesse un po' di voce, vorrebbe che lo baciasse, mentre la sua mano continua ad accarezzarlo tra le gambe - allora le apre ancora un po' e lo guarda fisso negli occhi. Deduci questo, Sherlock - pensa divertito.

Ma Sherlock si limita a fissarlo e John non distoglie lo sguardo - fissa quegli occhi così caldi e scuri - le labbra pallide sono ancora piegate in un ghigno divertito.

Non nota subito il colore sbagliato degli occhi o la piega aguzza che le labbra di Sherlock non hanno mai avuto - lo guarda, semplicemente, senza riuscire a pensare a nulla.

"Ti stai divertendo, Johnny-boy?" sussurra Moriarty, le mani tra le sue gambe e la bocca appiccicata al suo orecchio. "Cosa ne penserebbe Sherlock di tutto questo?". E' la risata di Moriarty che terrorizza John, più di tutto il resto.

E' elegantissimo nei suo completo westwood, mentre John è nudo - nemmeno si domanda dove diavolo siano finiti i suoi vestiti: inizia a perdersi i pezzi - Moriarty lo schiaccia contro il divano e si sistema tra le sue gambe aperte. In un attimo, John decide di smettere di avere paura - strattona Moriarty e riesce a rifilargli un pugno ben assestato sul naso.

Ma la faccia che inizia a sanguinare è quella di Sherlock - sanguina nei posti sbagliati, negli stessi dove sanguinava quando si è schiantato a terra dopo avergli chiesto di guardare.

John è terrorizzato - vorrebbe urlare, fare qualsiasi cosa, mentre Sherlock gli sanguina addosso ed è così freddo - freddo come il marmo, e John non riesce a toccarlo nemmeno con la punta delle dita.

"Cosa hai fatto?" Sussurra Moriarty, nella sua testa - e per un attimo John pensa che sia Sherlock a muovere le labbra - come se avessero la stessa faccia. Ma è solo un'idea folle e cerca di non pensarci affatto.

"E' morto, Johnny-boy". Vorrebbe urlare, scrollarselo di dosso, soccorrerlo - qualsiasi cosa - ma tutto quello che riesce a fare è fissare Sherlock - il corpo morto di Sherlock - che gli è addosso.

Quando il sangue lo ricopre, inzia ad urlare - Moriarty ride nell'oscurità.






Quando John si sveglia, i particolari sono già sfumati. Affonda la faccia nel cuscino e pensa che tutta questa situzione è troppo per lui, che non può farcela senza Sherlock e che finirà per impazzire. Forse è già pazzo.

Poi la sveglia suona e John scende a prepararsi un the.

Sono già trentanove settimane che aspetta che Sherlock si decida a tornare.





*

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Capitolo 5
*** San Valentino. ***


Note: ... Fluff, per lo più.
Flashfic di San Valentino - buona lettura.

*

John Watson non sapeva esattamente cosa fossero diventati, lui e Sherlock.

Se il suo coinquilino fosse stato una persona normale, avrebbe detto senza esitazioni di essere fidanzato. O qualcosa del genere. O, almeno, avrebbe potuto chiederlo senza aspettarsi uno sguardo in bilico tra lo sprezzante e il divertito e quello che avrebbe riconosciuto come un palese tentativo di cambiare il discorso, se non avesse avuto davanti il famoso Sherlock Holmes. John, dov'è la busta con i pollici che avevo messo in frigo? John, mi passi il cellulare che ho in tasca? John, andiamo a stanare questo maniaco omicida prima che arrivi la polizia, che vuoi  che sia.  Non avrebbe mai avuto una risposta chiara.

Per questo continuava a fissare indeciso la vetrina della pasticceria. Probabilmente, la commessa penserà che io sia pazzo. Si disse, notando che la ragazza lo guardava sottecchi.

Era il giorno di San Valentino e sarebbe dovuto essere a casa già da una ventina di minuti. Sherlock l'avrebbe notato, e probabilmente avrebbe anche dedotto il perché: si sarebbe sentito stupido in tutti i casi.
Sbuffò, continuando a guardare dubbioso la grossa scatola di cioccolatini. Era davvero enorme e a forma di cuore. Forse a Sherlock non sarebbe piaciuta. O l'avrebbe usata per qualche esperimento; o, magari, l'avrebbe infilzata sul muro (accanto al tabellone di Cluedo, chissà). Ma poi, a Sherlock piaceva, il cioccolato? Non lo sapeva assolutamente. L'avrebbe sicuramente deriso. Ma era San Valentino e... John prese la sua decisione e spinse la porta della pasticceria con decisione. La commessa lo accolse un po' sollevata.

Quando uscì dal negozio stringeva tra le mani la grossa scatola di stoffa rossa sentendosi incredibilmente stupido. Per un attimo pensò di buttarla in un cassonetto e dimenticare tutto. Sentì chiaramente la voce di Sherlock nella sua testa sussurargli qualcosa come: John, non fare l'idiota. Solo perché andiamo a letto insieme non vuol dire che siamo fidanzati.

John si fermò improvvisamente nel bel mezzo del marciapiede sudando freddo. Ma perché doveva essere sempre tutto così difficile, con Sherlock?
Facendosi coraggio, riprese a camminare a passi veloci. Se gli avesse detto qualcosa del genere, avrebbe cercato un altro appartamento, ecco tutto. Non ce l'avrebbe fatta a far finta di niente.

Quando varcò la soglia del 221B di Baker Street, aveva ormai la certezza che, prima ancora d'incrociare il suo coinquilino (o qualsiasi cosa fosse, ormai), avrebbe avuto un collasso cardiaco e sarebbe morto come un cretino. Contro ogni sua aspettativa, sopravvisse.

Sherlock era in piedi, di fronte alla finestra, e stava suonando il violino.

"Ci hai messo ventisette minuti più del solito, John. Problemi in ambulatorio? Oh, aspetta, non dirmelo: lo deduco io". Posò il violino sulla poltrona e si voltò - ma prima ancora di qualsiasi deduzione, si trovò sotto al naso una grossa scatola di cioccolatini assortiti.

"Ehm. Sai, oggi è San Valentino e così ho pensato...  Uh. Cioè, sì, insomma ti ho preso questa. Spe - spero ti piaccia. Non so se ti piace il cioccolato, in effetti".

John stava guardando qualsiasi cosa nell'appartamento, tranne Sherlock. Stava lì, con la scatola in mano, guardando altrove, come se non fosse una cosa importante. Mi ci sono imbattuto e non so nemmeno perché te l'ho comprato, diceva il suo gesto.

Il problema è che dall'altra parte non c'era una persona qualsiasi, ma Sherlock Holmes, a cui di certo non sfuggì il nervosismo di John - e il non secondario dettaglio che quella scatola fosse a forma di cuore. Rosso.

Sherlock capì l'intera situazione in quattro secondi netti - l'avrebbe senz'altro capita prima, se non ci fossero stati di mezzo i sentimenti.

"Grazie" disse semplicemente, afferrando la scatola e rifilandogli un bacio sulle labbra. John aveva l'aria di uno rimasto in apnea per troppo tempo e lo stesso colore della scatola di cioccolatini.

"Figurati - è solo che non sapevo se - se, ecco, vedi, noi - "

"Era ovvio, John"

"Oh. Veramente, no"

"Pensavo non ci fosse bisogno di dirlo."

"Ah"

"Ceniamo da Angelo, stasera". Non aveva il tono di una domanda, ma John annuì, sorridendo sollevato.

"Va bene, Sherlock. Allora mi vado a cambiare e... Sherlock?"

"Che c'è John?". Aveva ripreso tra le mani il violino e aveva un'aria imbarazzata che sorprese l'altro.

"Ti amo anch'io". Chiuse la porta dietro di sé, sentendosi incredibilmente felice.



*

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Capitolo 6
*** Coinquilino cercasi ***


Note: Forse un po' OOC in alcuni punti - ma... Mi sono divertita a scriverlo. Pazienza. XD

*

Il primo era stato Mark. Uno e novanta, capelli scuri, tradito dalla fidanzata, cameriere in un pub, QI ridicolmente nella media. Noioso.

Aveva trascinato per le scale di Baker Street una quantità assurda di valigie e scatoloni - Sherlock lo aveva osservato pigramente mentre si dava da fare per sistemare tutto. Ovviamente, non aveva alzato un dito per aiutarlo: era troppo impegnato ad ignorarlo.

Esattamente una settimana dopo, tutte le cose del suo nuovo coinquilino erano di nuovo ammassate nelle scatole pronte per essere portate via. Sherlock non ritenne di doversi scusare per aver lasciato un'interessante collezione di mani morte - a diversi stadi di decomposizione - nella confezione vuota dei biscotti. Era un esperimento, aveva chiarito - eppure avrebbe dovuto trovare qualcun altro con cui dividere l'affitto.




Irving (uno e ottantatrè, capelli scuri, nonna - materna, probabilmente - asiatica, leggera scoliosi, complesso di Edipo irrisolto) era risultato, a conti fatti, ben più irritante.

Il nuovo coinquilino aveva la pessima abitudine di portare delle ragazze a casa.

Le prime due non le aveva incrociate - gli era stato sufficente dare un'occhiata alle scale. Una deduzione da principianti. Alla terza si era limitato a far notare l'inutilità di sfilarsi ogni volta la fede, se poi non la si toglie sotto le lampadi abbronzanti. Non l'aveva più vista - e nemmeno Irving, ne era certo. Alla quarta aveva solo detto che trovava stupido mettere tutto quel rossetto e quei vestiti ridicolmente attillati con l'ovvio intento di compensare la quasi totale mancanza di seno. Se n'era andata strillando qualcosa che Sherlock era troppo annoiato per stare a sentire.

Anche Irving uscì di scena quasi allo stesso modo. Sherlock non aveva nessuna voglia di ascoltare quelle patetiche accuse. Non aveva niente di cui rimproverarsi.




Il terzo coinquilino durò poco meno di quarantott'ore - e riuscì ad essere il più scocciante di tutti. Si chiamava Vincent - uno e settantasette, capelli chiari, allergico al cipresso e fidanzato da tre mesi circa con una ragazza proprietaria di un gatto rosso molto socievole- ed era stato l'indubbia causa di una mattinata molto noiosa a Scotland Yard.

Sherlock era a conoscenza del fatto che potesse essere effettivamente un po' strano , per la gente comune e limitata come Vincent, tenere un cadavere nella vasca da bagno, ma pensava di aver chiuso la faccenda dopo aver chiarito che si trattava di un innoquo esperimento.

Il suo coinquilino aveva avuto la pessima idea di chiamare Scotland Yard.

Quando gli avevano messo le manette, Vincent era ancora in preda ad un assolutamente ingiustificato attacco isterico.

Dopo qualche ora necessaria a chiarire l'equivoco (e che aveva fatto saltare uno degli infruttuosi appuntamenti di Molly Hooper), aveva trovato l'appartamento vuoto e senza alcuna traccia delle cose del suo coinquilino.




Colin, poi era stato una vera spina nel fianco. Uno e settantanove, capelli rossi, dipendenza da caffeina, lavoro d'ufficio e uno spiccato interesse per gli esponenti del suo stesso sesso.

Sherlock aveva subito chiarito di essere sposato con il suo lavoro. Colin aveva riso e commentato qualcosa sul fatto che il lavoro non ti s'infila sotto le lenzuola - più qualcos'altro di volgare che non aveva ben capito. E poi aveva sorriso in un modo che aveva indotto Sherlock a riempire il frigo di pezzi di cadavere a caso - non aveva un'idea precisa di che dati avrebbe tratto da quei resti. Certamente ne trasse una notevole soddisfazione quando Colin svenne proprio davanti al frigo. Cinque giorni in tutto. Non male.




Alan non si era mai davvero trasferito. (Uno e sessantanove, capelli scuri, lenti a contatto colorate e graduate - certamente miope - genitori con un cane di taglia media e da pochi giorni fidanzato con un'insegnate elementare).

Aveva visto l'appartamento e ne era sembrato entusiasta (certo, la contentezza si era un po' smorzata quando aveva notato il teschio, ma poi aveva scelto di credere fosse un arredo di Halloween un po' fuori stagione. Sherlock non l'aveva distolto dalle sue illusioni).

Si sarebbe dovuto trasferire il giorno successivo, ma alla fine aveva chiamato Mrs Hudson per dire che aveva cambiato idea. Eppure Sherlock aveva soltanto evidenziato un'ovvietà, suggerendogli d'inginocchiarsi su qualcosa di morbido - tipo un cuscino - la prossima volta che si fosse dilettato in simili pratiche con il suo amante, oppure la sua cara maestrina l'avrebbe scoperto presto dallo stato dei suoi pantaloni. Era stato gentile, gli aveva dato un suggerimento amichevole.





Quando persino Frank (uno e novantuno, capelli chiari, lieve soffio al cuore, orfano di padre, ex fumatore) se n'era andato dopo ben tre settimane - un vero record: aveva pensato fosse quello giusto - si era detto che, evidentemente, non avrebbe mai trovato un coinquilino adatto a lui.

Non che pensasse di avere qualcosa di sbagliato: evidentemente gli altri erano troppo stupidi o impiccioni o qualsiasi altra cosa fossero per lasciare in pace lui e i suoi esperimenti. Parlavano quando avrebbero dovuto tacere e lasciarlo pensare, chiamavano la polizia se sparava a qualcosa e strillavano davanti ad innocue parti anatomiche. Che scocciatura.

(Per la cronaca, Frank se n'era andato via una mattina presto sbraitando qualcosa sul violino suonato all'alba. Come se ci fosse qualcosa di male, nella musica).



Sherlock si era sentito così stufo dell'intera faccenda da ritrovarsi a lamentarsi con Mike Stamford di non trovare un coinquilino. Penso di essere un coinquilino difficile - aveva aggiunto, non volendo entrare nel dettaglio.

Mike aveva fatto qualche battuta sul frustare cadaveri a cui Sherlock non aveva prestato attenzione e poi era andato a pranzo.


Quando Mike era tornato con quel John Watson, Sherlock non si era illuso granché.
Si era trovato, però, a considerare che forse un medico militare non avrebbe avuto problemi con i suoi esperimenti. Quantomeno, non avrebbe urlato come un donna. (O come Vincent).

Quando l'aveva invitato sulla scena dell'omicidio di quella giornalista con una passione per il rosa, aveva solo pensato che gli servisse un aiutante - era stato un caso fortuito che avesse avuto John sottomano.

Dopo qualche giorno si era trovato a considerare che, tutto sommato, John era un coinquilino quasi perfetto. Si lamentava un po' troppo, certe volte, per inezie come fare la spesa e cose simili, ma gli passava sempre tutti gli oggetti che gli chiedeva e non si lamentava per il violino. Sherlock era certo, anzi, che gli piacesse, quando lo suonava.

Quando John aveva iniziato a trovare parti anatomiche sparse per il frigo, un po' se l'era presa, certo, ma non aveva chiamato Scotland Yard e alla fine ci aveva fatto l'abitudine.
(Giusto per la faccenda della testa, tempo dopo, aveva fatto un po' di storie, ma aveva lasciato perdere quasi subito).

E poi gli preparava il the e diceva cose come "incredibile" alle sue deduzioni.


Poi John uccise quel serial killer per salvarlo (con un colpo decisamente notevole, doveva ammetterlo) e Sherlock si sentì pienamente soddisfatto di dividere la casa, le spese, le tazze e le giornate con il suo nuovo amico.

*





 

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Capitolo 7
*** 7. ***


Era un sabato mattina perfettamente tranquillo, anche per gli standard del 221B di Baker Street: niente cadaveri in bagno, nessun intruglio dall'odore pestilenziale in cucina, il violino riposava in silenzio sul pavimento e in frigorifero c'era solo un polmone umano con cui John aveva già preso confidenza da un paio di giorni. A coronare il tutto, il meteo aveva promesso pioggia intensa e così quella mattina c'era un sole splendente e un cielo assolutamente terso.

John, perfettamente in pace con il mondo, afferrò la giacca e andò in cucina per prendere i post-it che Sherlock puntualmente attaccava sul frigo, aspettandosi che John comprasse tutto quello che ci scriveva sopra, perché, semplicemente, i sociopatici ad alta funzionalità non fanno la spesa.

Solo che quella mattina non c'era nessun post-it. John aggrottò le sopracciglia. Solitamente Sherlock lasciava tonnellate di post-it con scarabbocchiata sopra roba improbabile. Tipo la formaldeide. O proiettili. Era quantomeno strano che non ci fosse nessun appunto in giro.  John decise di andare ad indagare.

"Non serve indagare, John, vengo anch'io a fare la spesa".

John si prese un dannato accidente, sentendo la voce di Sherlock a venti centimetri da sé - come diavolo aveva fatto ad arrivare lì senza che sentisse niente? Cos'era, un gatto?
Poi i suoi neuroni iniziarono  a fare qualche collegamento.

"Come hai fatto a capire quello che stavo pensando? Ero anche di spalle!"
"Oh, è semplicissimo" iniziò, sornione "Vedi, tu - "
"No, non volevo dire questo! Quello che volevo dire è - tu non fai la spesa!"
"... E' un esperimento"
"Di che genere?" Chiese John, in tono allarmato.
"Andiamo John"
"Di che genere??" Gli urlò dietro, un po' spaventato.
Sherlock si limitò a spalancare la porta e a scendere le scale due a due.

John sospirò e si arrese tristemente al suo destino. Prima di uscire afferrò un ombrello: meglio non fidarsi di quelle che promettono di essere belle giornate.





"Joooooohn, vieni!"

John mollò lì il sacchetto di plastica con le banane e - ignorando un paio di occhiate infastidite - corse nella direzione della voce lamentosa di Sherlock.

"Ecco. Sono qui. Che c'è? E' successo qualcosa?"
"I biscotti".
"I biscotti cosa?". Era decisamente perplesso. Fissò il pacco di biscotti che Sherlock stava indicando. Erano a circa cinque centimetri dalla sua faccia.
"Li voglio. Prendili."  John gli lanciò l'occhiata che riservava per i pazzi.
"In che senso?"
"Non essere idiota, John. Voglio che tu li prenda e li metta nel carrello, non è difficile"
John pensò di non aver capito bene: succedeva spesso, con Sherlock. Nel dubbio, però, gli lanciò un'occhiata che lo accusava di aver bevuto prima di pranzo.
"Non essere ridicolo, John. Io sono astemio".

John afferò il pacco di biscotti e lo scaraventò con una punta di sadismo nel carrello.

"Non scordarti il the. E non prendere quello verde, fa schifo". John ringhiò qualcosa tra i denti e prese una scatola di the nero dallo scaffale proprio dietro Sherlock. Era semplicemente ridicolo.






Era intento a confrontare i vari prezzi dei detersivi per piatti, quando la suoneria del cellulare lo fece sobbalzare. Un messaggio. Di Sherlock, sicuramente. Erano nello stesso supermercato, per quale cavolo di motivo avrebbe dovuto mandargli messaggi?

Prendi quello verde, diceva l'sms.

John  prese il detersivo con la confezione verde e lo ficcò nel carrello. Il cellulare squillò nuovamente.

Vieni subito, diceva il secondo sms.

Ma dove cavolo è, si chiese John, con una punta di disperazione.

Reparto saponi, chiarì prontamente un terzo messaggio.




Quando John riuscì  a trovare il corridoio giusto, Sherlock lo accolse con un "Finalmente".
"Prendi tutti i tipi di shampoo". Aggiunse, poi.
"Cosa?"
"Gli shampoo. Prendine uno per tipo"
"No! Perché"
"E' per un esperimento. Voglio testarli. Potrei scrivere una monografia su come riconoscere le varie marche di shampoo. Potrebbe essere importante, per le indagini".
"Perché, conti di risolvere omicidi in dei saloni di bellezza?"
"Non c'entra nulla. E comunque, non si può mai sapere. Prendili, John"
"Ma comprateli tu. Io ne prenderò solo uno, per uso domestico. Capito, Sherlock? Non farci niente di strano!". John afferrò una confezione a caso, senza stare a controllare se fosse per capelli tinti, ricci, lunghi, corti, grassi, secchi, alieni o per calvi.
Sherlock aggrottò le sopracciglia. "Prendi quello con il balsamo, almeno", aggiunse.




Arrivati al reparto affettati, John era ormai pacificamente rassegnato all'idea di cambiare supermercato, per le spese future. Perché di certo non avrebbe avuto la faccia di tornare lì.

"John! Il salumiere ha accarezzato il suo cane prima di uscire di casa!"
"E allora?". Chiese, cercando di non guardare il pover'uomo in questione.
"Non si è lavato le mani! Non voglio che tocchi quello che mangio, John".

Un'anziana signora al loro fianco non riuscì a trattenere un gridolino scandalizzato.

"A pelo lungo, chiaro, di taglia grande. Un golden retriever, direi".

John lo trascinò via.





Nel reparto della frutta e verdura, rischiarono di essere aggrediti da una folla di agguerrite ed infuriate casalinghe. Era stato tutto uno stupido equivoco, in realtà.

Sherlock un attimo prima era innocentemente appoggiato ad una parete e poi - John aveva girato gli occhi soltanto un attimo - stava discutendo animatamente con una commessa sull'orlo delle lacrime.

"Che vuol dire che sta pensando di lasciarmi?" Stava urlando la poveretta.
"Oh, come si può essere così stupidi! E' evidente che il suo fidanzato voglia lasciarla!".
"E lei chi è?? Un suo amico? L'ha mandata perché non ha il coraggio di dirmelo in faccia?".

Sherlock aprì la bocca per ribattere, ma l'altra scelse proprio quel momento per svenire. L'afferrò al volo e fissò John, che gli lesse in faccia tutta l'irritazione per non essere riuscito a spiegare la sua brillante deduzione. John avvertì il forte impulso di dargli un pugno; tuttavia, corse a soccorrere la poveretta.

"Che cos'è successo?". Chiese allarmata una signora con una grossa busta di cavoli in mano.
"Non si preoccupi, sono un dottore!"
"E' tutta colpa di quello lì! L'ha lasciata, l'ho sentito!". Intervenne un'altra cliente, abbandonando la busta di pere sulla bilancia: "Che maleducato! Lasciare una così bella ragazza con così poco tatto! E sul lavoro, per giunta!". Era assolutamente indignata.
"Ci dev'essere un equivoco". Iniziò John, ormai rassicurato sulle condizioni della commessa. "Si dovrebbe riprendere da un momento all'altro, ma qualcuno chiami un'ambulanza, per sicurezza". Meglio stare tranquilli, decise.
"Nessun equivoco, giovanotto! Ho sentito anch'io! Poverina!". Si intromise una terza cliente.
"No, mi creda, il mio amico - "
"Ah, è suo amico! Tolga subito le mani da quella povera ragazza!"
"Ma io sono un medico!"
"Con quella faccia lì? Qualcuno chiami la sicurezza!". Strillò la prima signora che si era avvicinata, agitando minacciosamente la busta di cavoli.

"Che branco di stupide che sono, John. Perché non ascoltano?". S'intromise tranquillamente Sherlock.

A posteriori, John considerò un po' preoccupante l'impulso omicida che aveva avvertito verso Sherlock, ma poi gli ritornava in mente il modo in cui erano diventati il bersaglio di sacchetti di cavoli, pere e persino di un paio di meloni.

Fortunatamente la sicurezza intervenne prontamente, sedando gli animi  e mettendo fine al lancio di frutta e verdura (che, tra l'altro, John dovette pagare di tasca propria).

Spiegare le dinamiche della vicenda fu un altro paio di maniche: il tipo della sicurezza si fece delle gran risate, quando John cercò di chiarire come fossero andate le cose. Poi, la ragazza, pensò bene di rinvenire e tutto divenne una specie di teatrino. Però saltò fuori che, dopotutto, Sherlock non era il fidanzato della bella commessa e la giuria delle casalinghe lo lasciò andare - lanciandogli, comunque, qualche occhiata sospettosa, tanto per andare sul sicuro.

"John, io - "
"Lascia stare. Andiamo alla cassa".





Quando John vide la fila alla cassa sentì un intenso senso di sconforto.

Solo due casse aperte ed una fila interminabile. In quel momento avrebbe voluto soltanto essere a casa, sul divano, a sorseggiare un the. Poi si ricordò che a casa non avevano più the, nè biscotti, ne nient'altro di commestibile; a meno che non volessero darsi al cannibalismo, cibandosi dei resti umani nel frigo. A quel pensiero John si mise pazientemente in coda.
Sherlock sembrava tutt'altro che entusiasta della faccenda.

Dopo pochi minuti, John decise di cambiare fila, avendo l'impressione che l'altra fosse più veloce, salvo poi accorgersi che sarebbe stato ben più avanti se fosse rimasto dov'era. Era un classico intramontabile, quello. Ma perché diavolo succedeva sempre?

"E' lampante, John. Se tutti vanno verso la fila più veloce, questa diventa più lenta, perché c'è gente in più. Come fai a non arrivarci?"
"Oh, come hai fatto a sapere cosa - no, aspetta, non voglio saperlo".

Sherlock lo guardò un po' infastidito, poi prese a fissare le altre persone in fila.

Nel giro di cinque minuti esatti aveva rivelato l'esistenza di un'amante del marito alla loro vicina di fila, evidenziato come fosse ridicolo continuare a provarci con la propria segretaria se questa ha una netta preferenza per il genere femmile - lo disse a voce alta, ammiccando verso un signore dall'aria irreprensibile ed imbarazzata- poi, fissando con aria sprezzante il contenuto del carrello di una giovane ragazza, aveva commentato l'inutilità d'iscriversi in palestra con l'idea di dimagrire, se poi si comprava simile robaccia. Disse proprio "simile robaccia". Fissando il carrello in questione.

John gli rivolse uno sguardo che era furioso, triste e supplichevole tutto insieme. Fu un bello sforzo per i suoi muscoli facciali, ma ci riuscì. Sherlock ne sembrò discretamente colpito, e per un po' stette in silenzo. Sette secondi esatti di silenzio, per essere precisi. Poi si voltò verso un tipo alto e nervoso dietro di loro per chiedergli se, alla fine, aveva deciso se tradire la sua fidanzata con la ragazza incontrata al pub la settimana prima.

Quando arrivò il loro turno alla cassa, l'intera clientela del supermercato (più qualche dipendente dello stesso) nutriva insani propositi di vendetta nei loro confronti.

Fortunatamente, John riuscì a pagare e ad imbustare tutto senza grossi problemi, complice l'improvviso silenzio di Sherlock.




Quando le porte automatiche si aprirono, John iniziò a respirare meglio.

"Sherlock, vuoi dirmi perché sei venuto a fare la spesa, stamani?". John si sentì fiero di come la sua voce suonasse perfettamente calma e controllata.
"Mi annoiavo".
"Pensavo sparassi al muro, quando sei annoiato. Non avrei mai pensato che fare la spesa fosse un'attività più dannosa del tiro al bersaglio con pallottole vere tra le mura di casa, ma, dopotutto, sembra esserlo".
"Ho finito i proiettili, John"
"Avrei potuto prenderteli io, come sempre"
"Era un esperimento"
"Un esperimento?"
"Sì, un esperimento sociale"
Il sopracciglio destro di John scattò in alto: "E a che conclusioni sei giunto? Oltre al fatto che non metterò più piede in quel supermercato?"

L'angolo della bocca di Sherlock scattò per un attimo verso l'alto - e John riconobbe quel gesto per quello che era: un sorrisino di trionfo.

Non poteva certo indovinare come la sua decisione di non mettere più piede nel solito supermercato  rendesse praticamente inesistente la possibilità d'incontrare la graziosa commessa che da qualche giorno a quella parte gli rivolgeva delle attenzioni speciali - che Sherlock aveva prontamente dedotto da una busta di prosciutto.

"Oh, non posso dire nulla: influenzerei le conclusioni". Lo disse in tono soddisfatto.

John si rassegnò a tornare a casa senza una risposta. Avrebbe affogato l'infelicità in una tazza di the nero bollente, poco latte e niente zucchero. Poi gli venne in mente una cosa.

"Sherlock, ci siamo dimenticati di comprare il latte!"

In quel momento, iniziò a piovere.

*



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Capitolo 8
*** . ***


*




Sherlock lo sta schiacciando contro il muro esterno di una casa brulicante di poliziotti. John non ha nessuna voglia di farsi trovare in quella situazione; si morde le labbra, cercando di non farsi scappare nemmeno un sospiro - cosa che sembra assolutamente impossibile, quando Sherlock inizia a strofinare lentamente il bacino contro il suo - John si morde le labbra e geme pianissimo, la fronte appoggiata sulla spalla dell'altro.

All'interno della casa, a pochi metri da loro, c'è un uomo con la testa spappolata sul pavimento. John, per un attimo, pensa ci sia qualcosa di profondamente sbagliato in tutto quello. Poi, le dita di Sherlock gli slacciano piano i jeans e John getta la morale alle ortiche.



Non che inizialmente non avesse provato a fare almeno un po' di resistenza, va detto.


Era semplimente stato tutto un po' troppo veloce per mettersi a disquisire di etica con lo stesso sociopatico che adesso sembra avere tutte le intenzioni di scoparlo contro il muro poco illuminato che dà sul giardino.






Era stata tutta colpa della poca fantasia dell'assassino, in verità.

Sherlock, appena entrato nella stanza, aveva lanciato uno sguardo speranzoso al corpo steso a terra ma un istante dopo era sembrato nuovamente infastidito ed annoiato.

"Noioso", aveva infatti cantilenato.

John era sicuro che il tizio morto, con il cervello sparpagliato sul tappeto, avrebbe avuto qualche parolina in merito alla definizione di "noioso" di Sherlock.

"Sarà un caso da... Due, John! Persino Scotland Yard dovrebbe riuscire a risolverlo! Dove si è cacciato Lestrade?"
"E' laggiù, al telefono".
"Oh". Sherlock lo osservò un attimo: "Al telefono con la moglie, vedo".

John decise di non chiedergli nulla.

"Mi annoio, John"
"E io cosa posso farci?"

A quel punto Sherlock gli aveva lanciato un'occhiata che non sembrava affatto la solita occhiata che avrebbe potuto lanciargli su una scena del crimine, con un cadavere sotto i loro nasi e Scotland Yard che pullulava nella stanza. John considerò per un istante che quell'occhiata sembrava spaventosamente simile a quella della sera prima, che aveva avuto come sfondo una stanza dalla porta ben chiusa, un letto e Sherlock con la vestaglia blu e nient'altro.

Lestrade era ancora al telefono - e gesticolava in modo plateale. Non sembrava che avrebbe finito tanto presto. Sherlock lo stava ancora guardando, con un angolo della bocca piegato all'insù. Anderson e Donovan parlavano fitto, dall'altro lato della stanza. Sherlock gli aveva fatto quel segno che gli faceva sempre quando voleva dire seguimi.
Seguimi, John, andiamo a stanare l'assassino! Seguimi, John, voglio che tu venga a Scotland Yard con me! Seguimi, John, e coprimi le spalle! Seguimi, John, e fatti schiacciare contro un muro, a tre passi da qualche decina di persone che in capo a pochi minuti verranno a cercarci!

John lo seguì.






"Sei più interessante di qualsiasi cadavere" gli sussurra Sherlock, nell'orecchio.

Chiunque si sarebbe offeso a sentirsi paragonato ad un cadavere, ma John pensa che sia uno splendido complimento - e qualcosa di terribilmente simile ad una dichiarazione d'amore, detto da Sherlock. Il battito del suo cuore aumenta ancora un po'.


Per un attimo John si chiede se Lestrade sia ancora al telefono - lo spera, mentre sente la mano pallida e affusolata di Sherlock insinuarsi nei suoi slip. Socchiude gli occhi e trema un poco. La possibilità che qualcuno si affacci alla porta-finestra e li veda, lo eccita. E' una cosa che lo preoccupa ancora più della faccenda del cadavere a tre passi. Avrà modo di sentirsi una persona orribile più tardi, decide, cercando la bocca di Sherlock con una punta di disperazione. L'altro fa un sorriso storto e divertito, mentre rimane fuori dalla portata delle labbra di John - e continua ad accarezzarlo decisamente troppo piano. John, con un verso a metà tra un ringhio e un gemito, se lo tira più vicino; le mani, strette sui fianchi di Sherlock, scendono in un attimo sulla stoffa tesa dei pantaloni scuri - basta una pressione leggera a cancellare il sorrisino di Sherlock.

Il rumore della zip che si apre è un suono fortissimo nel cono d'ombra che li avvolge - John non pensa più a tutta la gente nell'altra stanza, mentre gli abbassa lentamente gli slip.

"Ti amo" sussurra John, afferrando l'erezione di Sherlock.
"Che diavolo!" esclama Lestrade, spalancando la porta-finestra.


John si sente rizzare i capelli e, senza pensarci, s'infila nel cappotto di Sherlock, grande abbastanza da nasconderli entrambi a sufficienza.
Lo sapevo che sarebbe successo, pensa. (John non ha mai tenuto in grande considerazione i consigli del suo cervello, in certi ambiti).
Sherlock se lo stringe un po' addosso, allungando le falde del cappotto; il tutto con un'espressione placida e tranquilla.

"Ma co-come..!" Balbetta John.
"Oh, andiamo!" Sbuffa Lestrade, alzando teatralmente gli occhi al cielo: "Sono almeno cinque... No, sei scene del crimine che voi due v'infrattate da qualche parte! Non insultate la nostra intelligenza!".
"Sai la novità". Borbotta Anderson, da qualche parte.

John lo cerca con lo sguardo - quando cavolo è arrivata tutta quella gente? - e nota, con un certo sgomento, che sta passando diverse banconote ad una Donovan piuttosto soddisfatta. Decide di non approfondire l'argomento.

"Bene. Quando vi sarete ricomposti - uhm, Sherlock, mi servi di là"
"Noioso". Sbuffa Sherlock.  Lestrade fa finta di non sentirlo, per il bene della salute mentale di tutti.
"Di là, Sherlock. E voi due non pensiate che non parleremo di tutto questo per mesi". Il tono di Lestrade più che minaccioso è divertito. (John non ci trova niente di divertente).  

E' il tono soddisfatto di qualcuno che ha trovato il modo di vendicarsi delle frecciatine sulla propria intelligenza da parte dell'unico consulente investigativo del mondo. John avrebbe preferito un modo che non comprendesse farsi sorprendere mezzo nudo su una scena del crimine; sospetta che i loro agenti preferiti di Scotland Yard abbiano qualche rotella fuori posto. Poi si ricorda che nell'altra stanza -a tre passi da lui e Sherlock mezzi nudi - c'è un cadavere con le cervella sparpagliate sul tappeto del salotto e arriva alla conclusione che  c'è qualcosa che non va in tutti i presenti. 
(Aveva iniziato a sospettarlo quel lontano giorno in cui aveva trovato un saccheto di dita umane nel frigo e non si era sentito particolarmente turbato dalla cosa).






Sei minuti dopo, Sherlock spiega con aria annoiata a Lestrade che dovrà arrestare il fratello della vittima, che troverà l'arma del delitto (un trofeo sportivo, probabilmente) sul fondo di un cassonetto ad almeno tre isolati. In direzione est, quasi certamente.  Lestrade si appunta tutto e cerca di non ridere. John non vede l'ora di tornare a casa per farsi un thé. Sherlock non vede l'ora di tornare a casa per controllare l'andamento della decomposizione del fegato che ha lasciato in frigo e per trascinare John in camera da letto (deve ancora decidere in che ordine).



Quarantotto minuti dopo, al 221B di Baker Street, Mrs Hudson apre incautamente la porta della stanza da letto di Sherlock.

Quarantanove minuti dopo, Mrs Hudson rinnova, ai suoi affittuari, la proposta di prendere una sola camera da letto.

*

 

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Capitolo 9
*** Il perfetto coinquilino ***


*

 

Quando John aveva preso in considerazione l'idea di dividere le spese dell'affitto con un coinquilino, aveva in mente una persona ordinata e rispettosa degli spazi altrui, qualcuno con cui dividere i turni per la spesa e per il lavaggio dei piatti (il suo cervello non riusciva nemmeno ad elaborare l'idea di Sherlock con i guanti di gomma intento a strofinare le superfici della cucina. Come cercare d'immaginare l'infinito o un colore che non esiste. Impossibile).

Il coinquilino che aveva in mente non si sarebbe dimenticato di comprare il latte (perché, sì, avrebbe fatto la spesa) e la cosa più discutibile che avrebbe messo in frigo sarebbero stati gli avanzi del take away cinese del giorno prima - e non certo resti umani a vari stadi di decomposizione, Cristo santo.

Il suo perfetto coinquilino immaginario avrebbe fatto un lavoro un po' noioso, ma rispettabile, forse un po' scontato rispetto ad essere l'unico consulente investigativo al mondo, ma non avrebbe rischiato di morire di morte violenta un giorno sì e l'altro pure; l'appartamento non sarebbe di certo esploso e John avrebbe corso un rischio considerevolmente minore di ritrovarsi a giocare al ventriloquo dei pazzi, con addosso abbastanza esplosivo da far saltare in aria un isolato.

Il suo rispettabile coinquilino immaginario e immaginato non si sarebbe mai permesso di usare il suo computer; ma, anche se ci avesse provato, non avrebbe certamente indovinato la password (John aveva gettato la spugna quando neppure usare il nome del pesce rosso che aveva avuto a quattro anni era servito a tenere Sherlock lontano dal suo portatile).

Il banale coinquilino dei suoi sogni se si fosse annoiato avrebbe letto un libro. O avrebbe guardato un po' di tv (a volume non troppo alto). Al suo ideale coinquilino non sarebbe nemmeno passata per l'anticamera del cervello l'idea di disegnare smile con dei proiettili, sul muro di casa loro. E avrebbe trovato quantomeno bizzarra l'idea di dialogare con un teschio.

Se anche, per un'altamente improbabile successione di eventi, fosse finito a letto con il suo perfetto coinquilino immaginario, questi non si sarebbe mai sognato di scrivergli addosso il proprio nome. (John ci aveva messo un paio di giorni a far venir via quel proprietà di Sherlock Holmes dal braccio. Era stato costretto a girare a maniche lunghe in pieno agosto. Non solo Sherlock aveva preso in considerazione l'idea di usarlo come lavagna, ma l'aveva anche giudicata un'ottima idea. E aveva usato un pennarello indelebile).



Il suo ordinario e irreale coinquilino non sarebbe stato una calamita per criminali pazzi e annoiati, non avrebbe tentato di avvelenargli il caffè e non avrebbe suonato il violino a notte fonda.

Se avesse vissuto con il suo coinquilino immaginario, la sua pistola si sarebbe arrugginita in fondo a qualche cassetto e di certo non avrebbe ucciso nessun'altro, dopo l'Afghanistan.


Se avesse vissuto con il perfetto e immaginario e banale coinquilino dei suoi sogni, John si appoggerebbe ancora ad un bastone, rifilerebbe patetiche scuse alla sua analista e cercherebbe di non far tremare troppo la mano sinistra.



A John era andata meglio di quanto potesse sperare.

*
 

 
N.B. Capitolo scemo e breve - ma starò via dei giorni e volevo aggiornare. (Senza contare che questo capitolo è talmente superfluo che dovevo per forza metterlo in una raccolta del superfluo!).
Buone vacanze di Pasqua a tutti! 

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Capitolo 10
*** . ***


Note: Avevo iniziato a scrivere questa one-short per il compleanno di John. Sfortunatamente, non ho fatto in tempo a pubblicarla... Ben dieci giorni fa. Bhè, spero solo che non vi dispiaccia troppo se la pubblico lo stesso (/solo oggi).

*



"Attento!" sta urlando Sebastian da una distanza infinita, da pochi metri, dall'altro capo del deserto - la sabbia tra le lettere di un grido sempre più lento di qualsiasi gesto che potrebbe anche solo abbozzare, prima che il proiettile gli perfori la spalla sinistra.

E' il ricordo del dolore, a farlo svegliare di scatto, con il cuore in corsa.

Fissa il soffitto per una manciata di minuti, dandosi dello stupido per aver di nuovo sognato l'Afghanistan, dopo così tanto tempo.

La sveglia sul comodino segna quasi le otto. John si alza, scende distrattamente le scale e apre sbadigliando la porta della cucina.

E lì si pietrifica.

Sherlock, con la camicia sporca di farina e le maniche arrotolate sta svolgendo una serie di azioni riassumibili nella definzione di "cucinare". Più o meno. Se solo non fosse Sherlock Holmes.

John lo guarda per un istante e poi fa dietro-front per cercare di scoprire in che punto del tragitto tra la sua stanza e la cucina ha attraversato una frattura spazio-dimensionale. Spera solo di riuscire a tornare nel suo universo.

"John?". Lo chiama perplesso Sherlock.

Sherlock perplesso. Che terribile universo è, questo? Pensa John, con una punta di ansia.

"Sì?" Si volta, interrogativo. "Buongiorno, Sherlock". Aggiunge, perché bisogna essere educati, quale che sia l'universo in cui ci si trovi.
"Avevo calcolato che non ti saresti alzato prima di altri trentasette minuti. Almeno". Sherlock sembra un po' infastidito dal fatto che il suo coinquilino si alzi all'ora che preferisce. O, magari, è solo imbarazzato dal fatto di essere stato sorpreso a fare qualcosa che non avrebbe dovuto trovare spazio nel suo hard disk mentale.
"Oh, ma certo, hai sognato l'Afghanistan". Non è una domanda: è una constatazione.
"Ma come-?"
"La gamba. Zoppichi impercettibilmente dalla gamba destra, quando hai un incubo sull'Afghanistan. E' per questo che ti sei alzato prima del previsto".

John sente che dovrebbe essere almeno un po' infastidito dal fatto che il suo coinquilino non si limiti a leggergli addosso tutto quello che fa, ma anche quello che sogna. In realtà, sente solo l'impulso di dire qualcosa come "incredibile" e fissarlo ammirato. Non lo fa solo perché si sta pian piano rendendo conto che potrebbe anche non esserci nessun universo parallelo e che Sherlock stia davvero trafficando un cucina, alle prese con... Con cosa esattamente?

"Ehm, Sherlock - cosa stai facendo?"
"Cosa ti sembra che stia facendo, John? Anche un'intelligenza trascurabile ci arriverebbe". Lo dice come fosse una semplice constatazione, e non un insulto.
"... Stai facendo... Una torta? Credo. Cioè, è cioccolato, quello?"
"Tanti auguri, John". Borbotta Sherlock, sbrigandosi ad afferrare il pentolino con il cioccolato sul fornello, un pelo prima che si bruci.
"Oh. Oh, sì, grazie". Non se l'era dimenticato, ovviamente; nessuno si dimentica il proprio compleanno, semplicemente si aspettava una giornata normale.

Per un attimo si chiede da quando abbia iniziato a considerare la normalità trovare pezzi di cadaveri in frigo, pallottole nella tappezzeria e esperimenti chimici sparsi per casa - e da quando, soprattutto, trovi strano che qualcuno gli prepari una torta per il suo compleanno. Un attimo dopo, si dà dell'idiota per esserselo chiesto.

Sherlock, intanto, gli dà le spalle e continua a girare quella che nei progetti originali sarebbe dovuta essere la cioccolata per la farcitura, ma che si ostina a sembrare tutto tranne che cioccolata. Per cominciare, non ha il colore che avrebbe dovuto avere. O la consistenza.

"Ehm, Sherlock, pensavo che non avessi sufficiente spazio nel tuo hark disk, per la cucina"
"Andiamo, John, quanto può essere difficile? Sono pur sempre elementi che si combinano per dar luogo ad un composto. E' chimica". John, solo in quel momento, nota con orrore che i vari recipienti per gli esperimenti chimici sono stati usati da contenitori per una qualche sostanza che - se dovesse azzardare un'ipotesi - direbbe sia crema. Una crema tendente al marroncino. "E poi" sta continuando Sherlock "Sei tu che dici che non so fare nulla in cucina"

"E hai deciso di darmene la conferma?"

Sherlock fa finta di non sentirlo e inizia a spalmare quella che nelle intenzioni originali sarebbe dovuto essere cioccolato tra due fette di un pan di spagna dall'aria malaticcia.

"Ti saresti dovuto alzare tra più di trenta minuti, però". Commenta apparentemente senza senso Sherlock. Quello che vorrebbe dire è chiaramente qualcosa come Non avresti dovuto trovarmi qui. Avresti dovuto trovare la torta finita. Io sarei stato in salotto e non in cucina a rendermi ridicolo. John può quasi sentirlo mentre pensa qualcosa del genere.
"Sei stato gentile a farmi una torta di compleanno. E' un bel gesto". Borbotta imbarazzato, non sapendo bene dove poggiare lo sguardo.
"Mh". E' l'unica risposta che ottiene.

John lo guarda e pensa che è la prima volta che Sherlock gli prepara qualcosa, qualsiasi cosa; poi pensa che potrebbe essere la prima volta che Sherlock prepara qualcosa a qualcuno e si sente straordinariamente contento e imbarazzato. ...Certo, una volta gli ha preparato un caffé. Più che un caffé, però, era stato un tentativo di avvelenamento. John guarda la torta - quasi finita, ormai - con una punta di sospetto. Solo un poco.

"Ehm - Sherlock? Perché ha questo colore?"

Sherlock sembra essere, per un attimo, a corto di parole. Strano.

"Ho deciso di mischiare varie ricette che ho trovato sul web. Ma erano tutte decisamente inesatte. Certe volte ho dovuto improvvisare."
"Inesatte?"
"Per esempio, che diavolo significa sale quanto basta? Come faccio a sapere quanto sale basta? Non potrebbero scrivere una quantità specifica?"

John pensa di voler tranquillamente ignorare qualsiasi altra cosa riguardo quella torta.

"Bhè, io penso sia finita". Sherlock sembra essere abbastanza soddisfatto della sua opera. (La sua opera, invece, non sembra affatto soddisfatta di se stessa; dà, più che altro, l'impressione di qualcosa che si sia accasciato a morire sul tavolo della cucina).

John cerca di non pensare all'aspetto della torta, ma di concentrarsi sul gesto assolutamente inaspettato e piacevole del suo conquilino. "Grazie", sorride imbarazzato.

Per un attimo Sherlock sembra non sapere bene cosa dire, o fare. "Non sto lavorando a nessun caso. Immagino, bhé, che tu possa scegliere il programma di oggi". Il tono della sua voce non è molto convinto. John inizia a sospettare che l'altro abbia cercato su internet, non solo ricette di torte, ma anche le usanze dei compleanni. "Sempre che non chiami Lestrade". Conclude Sherlock, con voce un po' più sicura.

"Va bene, sì". John si sente straordinariamente felice - si sentirebbe felice anche se chiamasse Lestrade di lì a cinque minuti, perché andrebbe bene comunque, anche se dovesse rincorrere qualche maniaco assassino per mezza Londra, perché Sherlock gli ha fatto una torta di compleanno personalmente e vuole passare la giornata insieme e gli ha chiesto cosa vuole fare e non avrebbe davvero potuto chiedere di più.

Sherlock gli passa un coltello per tagliare la torta. "Auguri, John", ripete.

John pensa che potrebbe essere il miglior compleanno della sua vita.






Fu una fortuna che, alla fine, non avessero programmato nulla per la giornata: le lavande gastriche durarono più del previsto.
In osservazione gli diedero due letti vicini.

*

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Capitolo 11
*** Thè e veritaserum. ***


Note: Crossover. Ambientata nell'universo di Harry Potter.

 
********* 



John sale stancamente i diciassette gradini che lo separano dal divano del suo appartamento al 221B di Baker Street, Diagon Alley, a due passi dal Paiolo Magico.

Fruga per un attimo nella tasca del mantello e recupera la sua bacchetta (rigida, 9  pollici e un quarto, legno di  cedro, crine di unicorno) e la picchietta sulla porta chiusa. L'incantesimo di riconoscimento fa scattare la serratura che si apre con un click.

Sherlock sta pizzicando distrattamente le corde del violino, gli occhi fissi fuori dalla finestra.

"Ciao, Sherlock". Borbotta John, lasciandosi cadere sul divano. Finalmente a casa.
"John. Vedo che hai avuto problemi in ambulatorio. E hai sostituito Sarah".
"... Certe volte sospetto che tu non sia altro che un ottimo Legilimens"
"Non dire sciocchezze, John: te ne accorgeresti se io stessi frugando nella tua testa. Non è una faccenda indolore".
"Oh, certo, dicevo per dire. In realtà avrei dovuto dire qualcosa come incredibile. Bhè, in effetti lo è. Ma sono distrutto, stasera. Girano delle passaporte non autorizzate difettose: oggi il pronto soccorso era pieno di gente spaccata. E non tutti avevano tutti i pezzi appresso". Si lamenta, sfilandosi la giacca senza muoversi dal divano. "Ma non ti aveva chiamato Lestrade, stamani?"
Sherlock sbuffa infastidito. "Un'idiozia. Una noiosa lite in famiglia. Sarebbe bastato osservare il calderone non ripulito. Ma sembra che reclutino gli auror tra i peggiori idioti in circolazione, perciò ho dovuto sottolineare l'ovvio".

John sorride divertito. Certe volte prova compassione per Lestrade e la sua squadra di auror.

"Nient'altro d'interessante? Nessun gufo?"
"Solo una sciocca richiesta d'indagini su una presunta infedeltà coniugale". Borbotta, distrattamente. "Infedeltà talmente lampante da non avere bisogno di nessun accertamento".

John sbircia il muro con un pizzico di ansia aspettandosi di trovarci i segni di qualche incantesimo esplosivo; ma la carta da parati sembra essere perfettamente apposto. Strano.

"Thé, John?"

John ha sentito perfettamente, ma quello che ha sentito sembra non avere nessun senso. I sociopatici ad alta funzionalità non fanno il thé, soprattutto ai loro coinquilini.

"Cosa?"
"Ti ho chiesto se vuoi del thé. Non hai sentito?"
"Allora l'hai detto davvero". Lo guarda stupito per un attimo. "Comunque, sì, grazie, Sherlock"

Incredibilmente, Sherlock si alza sul serio e s'infila in cucina.

John può vederlo trafficare con le tazze e battere la bacchetta (flessibile, 14 pollici, legno di sicomoro, piuma di fenice) sulla teiera per scaldare l'acqua. Non sapeva che l'archivio mentale di Sherlock contenesse simili incantesimi domestici.
John cerca di non pensare a tutto quello che può andare storto con Sherlock in cucina e cerca di rilassarsi e distendere un po' la spalla dolorante, simpatico ricordo della prima guerra magica.

"Niente zucchero, per me. Solo latte!". Chiarisce, per andare sul sicuro.
"Lo so". Borbotta Sherlock, trafficando più del necessario con contenitori, barattoli e simili.




"Grazie". John guarda Sherlock versare il thé nelle uniche due tazze sopravvissute del servizio delle grandi occasioni. "Ehm. Festeggiamo qualcosa?"
"Ancora no".
"Oh?"

John si sente troppo stanco per qualsiasi giochetto deduttivo o qualunque cosa abbia in mente Sherlock. Si limita a sorseggiare il thé.

Un attimo dopo aver mandato giù il primo grosso sorso bollente, si rende conto del retrogusto un po' amaro. Sherlock fa un sorrisino soddisfatto e riappoggia la sua tazza di thé sul piattino, senza neppure assaggiarlo. In cucina, accanto ai barattoli, c'è un'anonima bottiglietta vuota che John ha già visto.

Si lascia sfuggire un gemito di sconforto. Vorrebbe dirgli che detesta vivere con un sociopatico che lo usa come cavia, ma sa che il veritaserum non glielo lascerebbe dire.

"Perché?". Si limita a chiedere.
"E' un esperimento, John".

John odia gli esperimenti su se stesso ancora più dell'avere l'armadio babbano freddo pieno di dita o teste mozzate. Glielo dice.

"Si chiama frigorifero, John".
"Non m'importa come si chiama, vorrei solo sapere perché hai drogato il mio thé!"
"Tecnicamente non ti ho drogato. E poi non ci sono effetti collaterali"
"Non posso crederci. Comunque, non starò qui a farti da cavia. Anche se vorrei proprio sapere che diavolo te ne fai del veritaserum, visto che sai dedurre la vita di chiunque con uno sguardo".
"E' ora di rendere le cose un po' più chiare, John. Ho bisogno di ordine".
"Non capisco niente di quello che dici. Non che sia una novità". Borbotta John, per metà imbronciato e per metà rassegnato.

Ormai il danno è fatto, pensa, mentre riprende a sorseggiare il suo thè dal retrogusto un po' amaro.

"Potresti capire, se solo ragionassi per un attimo".
"Oh. Questo era un po' come John, tu guardi ma non osservi, vero?"

Sherlock aggrotta le sopracciglia. "Non farmi il verso, John".

"Oh, scusa tanto, sai. Io non posso farti il verso, ma tu puoi avvelenarmi il thé? Non mi sembra equo".
"Stiamo litigando?". La voce di Sherlock più che preoccupata o dispiaciuta, suona interessata. Come se non fosse del tutto certo di come funzioni un litigio, ma vagamente interessato a scoprirlo.
"No, non credo. Mrs Hudson lo chiamerebbe bisticcio di coppia. O qualcosa del genere". Passa una manciata di secondi, prima che John realizzi quello che ha detto. "Cioè, suonerebbe come un bisticcio di coppia. Se noi fossimo una coppia, ecco". Precisa, imbarazzato.

"...E non lo siamo?"

Per un attimo, Sherlock lo guarda in modo così intenso che John quasi si strozza con il thè. Cerca disperatamente di non pensare a quello che ha appena domandato l'altro.

Ma poi, un vecchio pezzo di Celestina Warbeck passa attraverso le mura sottili dell'appartamento, riempiendo il silenzio e il momento sembra finire. John, per una volta, non è infastidito dal volume troppo altro della radio dei vicini.

La voce un po' gracchiante di Celestina sta cantando qualcosa riguardo un calderone pieno di forte amor bollente, quando Sherlock lo esorta a confessare la sua attrazione verso di lui.

John sbatte le ciglia, ripassa mentalmente la formula dell'incantesimo di pietrificazione, tanto per sicurezza, e poi gli chiede di ripetere.

"Ho detto che dovresti ammettere una volta per tutte che sei attratto da me". A Sherlock non piace ripetere.

Il verso che fa John, prima di affondare un poco nel divano dà l'impressione di qualcosa che stia agonizzando.

"Scusa, puoi ripetere? Continuo a sentire la cosa sbagliata".

Per un attimo, si chiede cosa diavolo stia succedendo. Nemmeno mezz'ora fa stava cercando di risistemare un tizio che si era materializzato a quattrocento chilometri da dove aveva effettivamente intenzione di andare e senza un orecchio e tre dita della mano sinistra. E ora sta sorseggiando thé e veritaserum insieme al suo coinquilino sociopatico e apparentemente asessuale che cerca di farlo confessare di essere gay. Se c'è un qualche senso, a John sfugge completamente.

"Hai capito perfettamente. Non farmelo ripetere". Sherlock rotea gli occhi un po' infastidito. "...Oppure è una qualche sorta di modo di dire che non conosco?". Aggiunge lentamente, come quando non capisce come dovrebbe comportarsi, secondo qualche misteriosa regola sociale.
"No. Non c'è nessun modo di dire. E' solo che spero che, sentendola per la terza volta, la cosa abbia improvvisamente senso".

John sente istintivamente che il sorriso da predatore di Sherlock non lascia presagire nulla di buono.

"Bhè, allora nega pure, John. Se non è vero che mi trovi attraente, il veritaserum te lo lascerà dire".

Per un istante, John, pensa che, dopotutto, non ci sia nessun esperimento dietro al suo thé drogato. Ma poi, considera che potrebbe sempre essere un esperimento sulle confessioni sentimentali, sullo shock da eterosessualità distrutta o chissà che altro.
Preferisce non pensare a cosa significherebbe, se non ci fosse nessun esperimento in ballo.

In ogni caso, qualunque cosa sia, sa perfettamente di non poter dire che no, non trova affatto attraente Sherlock Holmes e i suoi zigomi. Sherlock Holmes e le sue dita lunghissime e affusolate. Sherlock Holmes e il suo collo bianchissimo e - al diavolo, è la fine, considera, con una punta di terrore.

"Che cosa stai cercando di fare, Sherlock?"
"Questa non è una risposta. Dillo: sei attratto da me, o sbaglio?"

John ha un principio di emicrania, è esausto e sa perfettamente che Sherlock ha ormai dedotto tutto quello che c'è da dedurre dal suo silenzio. Al diavolo, tanto ormai lo sa sicuramente.

"Dannazione, sì. Sei contento, ora?". Ringhia John, posando bruscamente la tazza sul piattino.
"Oh. Immensamente". Sherlock sembra davvero contento e stranamente a suo agio, constata.
"E come mai, se posso chiedertelo?". La voce di John è fredda e piatta.
"Perché non c'è niente che non vada nel tuo thé. Niente veritaserum".

"Cosa?!". John sgrana gli occhi e s'immobilizza.

"No. Altrimenti sarebbe stato così noioso".
"... Noioso".
"Già. Ho testato fino a che punto posso manipolare una mente comune. Ho alterato lievemente il sapore del thè con un incantesimo". La voce di Sherlock suona soddisfatta. Recupera la sua tazza  ancora piena dimenticata sul tavolo e se la porta alle labbra. "Oh. Si è freddato". Riappoggia la bevanda, infastidito.
"...Tu hai testato".
"Sì. ... John, ti senti bene? I tuoi processi mentali sembrano essere ancora più lenti del solito"
"Sherlock, questo è veramente troppo!" La voce che, inizialmente, cercava di essere calma e controllata, si alza di tono una parola dopo l'altra. "Prima mi fai credere di avermi avvelenato il thè - "  
"... Il veritaserum non è veleno".
"- Poi mi metti in ridicolo facendomi confessare la cosa più imbarazzante che poteva venirti in mente di farmi confessare -"
"John, ti assicuro che non era mia intenzione -"
"...Poi stai lì a parlare di esperimenti e Dio solo sa cosa -"
"Non era proprio un esperimento che - "
"...E, oltretutto, continui ad interrompermi!"
"Sto solo correggendo le tue affermazioni errate"
"... E, casomai te lo stessi chiedendo: sì, adesso stiamo litigando!". John è in piedi, le mani strette a pugno e l'aria terribilmente delusa. "Spero che tu sia contento, ora".

La risposta di Sherlock arriva un secondo dopo che gli ha voltato le spalle. E' poco più di un sussurro. Dice solo - "Mi dispiace".
John rimane immobile.

"Immagino di aver commesso uno sbaglio". Sherlock sembra rimproverarsi di qualcosa. E' un tono di voce che John non conosce. "Tu avevi una visione parziale delle premesse, hai analizzato i fatti e sei giunto, come sempre, alla conclusione errata. Lo scopo di questo innocuo inganno non era un test".

John si volta di scatto. Sherlock continua come se niente fosse: "Cioè, il test è stato un valore aggiuntivo, un dettaglio inessenziale".
"Sherlock, il punto. Qual è il punto?".
"John, nutro dei sentimenti romantici nei tuoi confronti". L'impressione complessiva è di qualcuno che stia confessando di avere una qualche malattia grave.
"-Tu COSA?!"
"Mi era chiaro, fin da principio, che anche tu nutrissi un interesse analogo, nei miei confronti. Lo stratagemma di questa sera serviva a sbloccare la situazione".

Se qualcuno gli chiedesse, in quel preciso momento, di descrivere come appare Sherlock, John direbbe che sembra un tipo caduto giù da una scopa che cerca disperatamente di imparare a volare, nella manciata di secondi prima di sfracellarsi al suolo. Decisamente, non sembra essere nel suo elemento.

"Aspetta. In pratica, sono io ad aver sbloccato la situazione, confessando di trovarti - ehm, fisicamente molto piacevole".
"Ti ringrazio. Anche se, se non fosse stato per la convinzione di avere del veritaserum nella tazza, non l'avresti ammesso. E' proprio per questo che ho dovuto fare qualcosa".

John tentenna un po', indeciso se tornare a sedersi, oppure rimanere in piedi. Si sente imbarazzato, inadeguato e confuso.

"In effetti, mi piaci molto. Io - io, credo proprio, di ricambiare il tuo - com'è che hai detto? Interesse romantico".
"Sì, esattamente".
"Ecco, io ricambio il tuo interesse romantico, Sherlock". John sposta il peso da un piede all'altro. Sente le orecchie andargli a fuoco. "Oddio, mi sento così ridicolo".
"Credo di capirti. In ogni caso, anche se tutto questo è molto strano, sono felice".

John si immobilizza, guarda Sherlock, seduto nella sua solita poltrona, e pensa all'assurdità di tutto quello. Scoppia a ridere.

"...John?"

Ride, e si sente incredibilmente euforico e felice.

Quando riesce a riprendere fiato, tra un singulto di risa e l'altro, John lo guarda, sembra indeciso per un attimo, e poi aggiunge, con voce divertita: "Non credi che dovremo baciarci, ora?"

Sherlock piega le labbra in un sorriso tutto storto e soddisfatto.



Dietro il muro che li divide dall'appartamento accanto, la voce, un po' distorta dalla radio, di Celestina canta qualcosa riguardo ad un uomo che le ha  stregato il cuor.

***********************





Note: E' moltissimo tempo che non aggiorno - e, in effetti, pensavo di non aggiornare più. Poi, ho cambiato idea. (Questo è il preciso motivo per cui non sono davvero un'autrice). Ma questo non c'entra niente.
In ogni caso, ci saranno altri capitoli. Con aggiornamenti del tutto irregolari.


Bene.
Piccola nota riguardo alle bacchette scelte.
Ho frugato un po' l'elenco dei nuclei e dei legni da bacchetta che ho trovato su Pottermore, e, alla fine, per Sherlock ho scelto una combinazione di legno di sicomoro e piuma di fenice.

Riporto le qualità del legno, direttamente dall'elenco:

Il sicomoro produce bacchette con sete di ricerca, desiderose di nuove esperienze, e che perdono il loro lustro se impiegate in banali attività. Uno svantaggio di queste bacchette è che prendono fuoco se lasciate ad 'annoiarsi'; molte streghe e maghi di mezza età rimangono sconcertati quando la loro fedele bacchetta gli s'incendia in mano proprio quando, per l'ennesima volta, le chiedono di portar loro le pantofole. Come si può ben dedurre, il proprietario ideale di una bacchetta di sicomoro è curioso, pieno di vita e avventuroso. Quando si accompagna a un padrone di tal fatta, il sicomoro dimostra una capacità di adattamento e apprendimento tali da farne uno dei legni da bacchetta più apprezzati nel mondo.

..."Prendono fuoco se lasciate ad annoiarsi". Perfetto per Sherlock, no?

Ho scelto la piuma di fenice perché, leggo, è un nucleo raro, in grado di produrre una vasta gamma di magie. Schizzinose in fatto di proprietari, la loro feldeltà si conquista con fatica.



Quanto a John, ha una bacchetta composta di legno di  cedro e crine di unicorno.

Questo è quanto si dice del legno di cedro:

Ogni volta che incontro qualcuno con una bacchetta di cedro noto in lui una forza di carattere e una lealtà fuori dal comune. Mio padre Gervaise Olivander diceva sempre 'non potrai mai ingannare chi possiede una bacchetta di cedro' e non posso che essere d'accordo: la bacchetta di cedro trova il suo habitat naturale dove albergano intuito e perspicacia. Ma dirò di più: non ho mai tenuto a oppormi a un mago con una bacchetta di cedro, specialmente nel caso in cui qualcuno abbia fatto del male a un suo caro. La strega o il mago correttamente abbinati a una bacchetta di cedro sono potenzialmente temibili avversari, e spesso chi li sfida con leggerezza ne rimane sconvolto.

E' un legno più "normale" e apparentemente senza nulla di speciale; tuttavia, mi ha colpito l'idea di qualcosa di apparentemente innocuo che si rivela essere un avversario formidabile.

Quanto al nucleo, ho scelto il crine di unicorno perché è il materiale più difficile da convertire alle arti oscure (John, dopotutto, ha un senso di giustizia molto forte). Sono bacchette molto fedeli, anche se non sono le più potenti.

Alla prossima! ;D







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Capitolo 12
*** Il Dottore a domicilio. ***


Questa è più una prova che altro. E' un piccolissimo e molto scemo crossover tra Sherlock e il Doctor Who
(Sherlock è il Dottore e John è il compagno di turno rimorchiato su due piedi).



**********************

Un giorno qualsiasi John era uscito a comprare il latte e quando era tornato, proprio in mezzo al suo salotto, c'era una cabina della polizia. Blu.

"Le coordinate erano errate". Aveva detto uno strano tizio, uscendone.

Fantastico, le allucinazioni. Proprio quello che ci voleva, pensò John. Il suo cervello decideva di avere le allucinazioni e cosa gli faceva apparire davanti agli occhi? Una cabina della polizia dentro casa sua. Più un tizio alto, tutto cappotto e zigomi. Non si poteva dire che non avesse fantasia.

"Chi sei? Cosa ci fai qui?". Chiese, ancora prima di pensare che fosse inutile dialogare con qualcuno che non poteva assolutamente esistere.
"Sono il Dottore". Aveva detto l'individuo misterioso, come se così si chiarisse ogni cosa.
"Oh. Un dottore? Anch'io sono un medico".
"No, non un dottore. Io sono il Dottore".
"... E io cos'ho detto?"
"L'anno. In che anno siamo? Siamo sicuramente a Londra e in un periodo compreso tra il 2010 e il 2017, è evidente. Ma il TARDIS ha incontrato una tempesta e ionio e deve ancora terminare di rigenerarsi e non sono nel posto giusto".

John pensò che nessuno potesse parlare così velocemente senza riprendere fiato, nemmeno le allucinazioni.

"E' il 2012". Rispose, fingendo di non aver sentito il resto.
"Il 2012! Ma certo! ... Che anno noioso. Come fate voi a sopportare tutta questa noia?"

John fissò quel tipo che continuava ad agitarsi nel bel mezzo del suo salotto, e poi la danatissima cabina della polizia parcheggiata sul suo tappeto e sentì un pizzico di disperazione; tuttavia era inglese e gli inglesi sanno sempre come affrontare qualsiasi situazione.

"Thé?". Propose.
"Oh. Ottimo. Certo". Il Dottore con la "d" maiuscola sembrò soddisfatto dell'offerta e si accomodò su una delle due poltrone del salotto di John - sulla poltrona evidentemente meno usata.
John tirò fuori la teiera e mise l'acqua sul bollitore.

"Come hai detto che ti chiami?".
"Puoi chiamarmi Dottore".
"E cosa ci fai nel mio salotto?"
"Sono un viaggiatore".
"Un viaggiatore?"
"Il TARDIS può viaggiare nel tempo e nello spazio". Il tono della sua voce era perfettamente tranquillo - un tono generalmente usato per chiedere di passare lo zucchero, più che per informare uno sconosciuto di possedere una macchina del tempo.
"Sembra divertente". Convenì John tirando fuori delle tazze spaiate.
"Non mi credi". Constatò il Dottore, con voce piatta.
"Andiamo. E' una cabina della polizia, non una nave spaziale! Non dico che avrei voluto trovare l'Enterprise parcheggiata nel salotto - "
"Il tuo salotto è troppo piccolo per parcheggiarci un qualsiasi modello di nave spaziale che possa venirti in mente"
"Non dicevo sul serio". Chiarì John, versando tranquillamente il thè come se non stesse discutendo con uno sconosciuto riguardo al modello più adatto di nave spaziale da parcheggiare dentro la sua casa. "Una Delorean. Che ne dici di una Delorean?"

John intuì dall'espressione del Dottore che non avesse idea di cosa stesse parlando.

"La Delorean. La macchina del tempo. Andiamo, tutti hanno visto quel film...!"
"Viaggia solo nel tempo? Noioso". Borbottò il Dottore afferrando la tazza di thè che gli porgeva l'altro.
"Oh, maddai! Come fai a non aver visto quel film! Non è possibile! E comunque, una Delorean ci starebbe nel mio salotto. Magari tra il tavolo e il divano..."

Il Dottore mandò giù un grosso sorso di thè e diede un'occhiata soddisfatta alla sua tazza.

"Che ne dici di dare un'occhiata al TARDIS?".
John sembrò un po' sorpreso. "Il TARDIS, eh? Perché no?" Disse, scrollando le spalle.






Quando il Dottore aprì la porta, John rimase sulla soglia e gettò un'occhiata all'interno. E si paralizzò lì.
Dopo qualche istante, fece un passo indietro e girò attorno alla cabina.

"Incredibile". Sussurrò.
"Fa sempre questo effetto". La voce del Dottore sembrava annoiata ma John avrebbe scommesso che si stesse divertendo. "Stai per dire che è più grande dentro, giusto?"
John fissò quella cosa - quel TARDIS - che non poteva essere vero con gli occhi spalancati. "Veramente, volevo dire che è più piccolo fuori, ma immagino che il concetto sia quello". Borbottò.

Il Dottore fece un sorrisino - non sembrava un tipo abituato a sorridere, considerò distrattamente John.

"Vuoi dire - " Iniziò, lentamente, come se stesse iniziando a capire l'enormità di quello che aveva davanti: "Vuoi dire, che con questo puoi girare l'intero Sistema Solare?"
"Oh, andiamo! Il punto non è il Sistema Solare! Come fai a non capire! Posso andare in infiniti universi - in qualsiasi tempo di qualsiasi universo! Ho infiniti delitti da risolvere!"
"Cosa?". Non era esattamente quello che si aspettava di sentire.
"Pensaci. Potrei fare un salto indietro nel tempo e risolvere il mistero di Jack Lo Squartatore"
"Oh. E perché non l'hai fatto?"
"Veramente l'ho fatto. Era un caso da sei. Solo che non potendo cambiare il tempo...".
"Ah. Delle regole. Avrei dovuto immaginarlo. Ma perché lo fai?"
"Mi annoio".

John guardò quel tipo avvolto nel suo fin troppo scenografico cappotto, sulla soglia di una nave spaziale a forma di cabina telefonica blu, che diceva di annoiarsi. Scoppiò a ridere.
Il Dottore, evidentemente, non colse l'ironia di tutto quello e si limitò ad aspettare che John  smettesse di ridere.

"Potresti venire con me".
John si strozzò con la sua stessa saliva. "Cosa?!"
"Potresti venire con me. Cos'è, non ci senti?"
"Con te. Su una nave spaziale? Ma non so nemmeno il tuo nome!".
"Come ho detto, puoi chiamarmi Dottore". Non sembrava molto felice di ripetersi. "Sul TARDIS c'è spazio. E io ho bisogno di un assistente e tu sei un ottimo candidato. Un medico militare mi sarebbe utile. E poi fai un ottimo thè".
"Aspetta -" John  sussultò "Come sai che ero nell'esercito?"
"Ora non ha importanza. Poi mi dirai dell'Afghanistan". Tagliò corto l'altro. Poi si bloccò, sembrò rimugiare per un istante su qualcosa e infine aggiunse: "O dell'Iraq. E' questa la domanda: Afghanistan o Iraq?"
"Afghanistan, ma come - ?"
"Non ha importanza. Entra e chiudi la porta"
"Ma non ho ancora accettato e -"
"Oh, non vorrai tornare in mezzo a quella gente, con quei loro buffi cervellini ad annoiarti! Svegliarti alla stessa ora, fare sempre lo stesso lavoro - come fai a non morire di noia? Davanti a noi ci sono intere galassie di crimini irrisolti!".

John fece un passo avanti e chiuse la porta dietro di sé.

"Come ti chiami?". Chiese, improvvisamente, il Dottore, smettendo per un attimo di schiacciare pulsanti e tirare chissà che leve.
"John. John Watson".

Il Dottore sollevò per un istante un angolo della bocca in un sorriso storto.

"Bene, John. Dove vuoi andare? E non far caso al teschio sulla console".


**************

Note: Ovviamente, l'Enterprise è la nave spaziale del telefilm Star Trek, mentre la Delorean è un riferimento alla trilogia di "Ritorno al futuro".

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Capitolo 13
*** . ***


Note: Wholock su Reichenbach. Più o meno. (con un paio di citazioni canoniche. In pratica, è un minestrone)


*
 

Quando John sente il fracasso del Tardis che atterra proprio dietro di sé, smette di respirare.

Non ricorda di aver lasciato la presa, ma le buste del supermercato sono sul marciapiede, con la spesa mezza rovesciata. Qualche barattolo di cibo in scatola sta rotolando verso un tombino e il sugo di pomodoro imbratta l'asfalto. John fissa quel disastro e riesce solo a pensare al suono che sente alle sue spalle; si concentra sul quel meraviglioso rumore senza girarsi. Tiene lo sguardo fisso sulla lattina di birra ammaccata accanto al suo piede sinistro - è paralizzato dal pensiero che se si girasse potrebbe scoprire che non c'è nessun Tardis lì dietro da qualche parte; il dubbio che possa essere tutto nella sua testa lo blocca.

Quando non sente più nulla, si volta, finalmente.

A pochi metri da lui c'è una cabina blu della polizia.
John la guarda e sente che dai suoi piedi immobili sull'asfalto a quelle porte di legno c'è una distanza infinita. Non può percorrerla, non può. Quindi se ne resta lì, con gli occhi spalancati sull'impossibile e un nodo di emozioni che non prova nemmeno a districare.

Poi, il Dottore apre le porte del Tardis ed esce nella luce di un autunno quasi passato, su un qualsiasi marciapiede di Londra dell'anno 2017.

"Tu - " Ringhia John, percorrendo in pochi passi un percorso che un istante prima gli era sembrato interminabile. In un attimo è davanti al Dottore, che non è cambiato nemmeno un po', mentre John ha passato anni a sentirsi stanco e inutile.
Ma ora tutto quello a cui pensa è la figura mai dimenticata del Dottore, col suo cappotto e la sua stupida sciarpa blu - ed è proprio lì.

"John", lo saluta il Dottore, con voce bassa e vibrante.
"Bastardo!", ringhia John, prima di sferrargli un pugno su uno zigomo.

Il Dottore sembra un po' sorpreso, ma non fa in tempo a dire nulla, perché John l'ha afferrato per le falde del cappotto e l'ha attirato in un abbraccio inaspettato per entrambi.

"Tu - " ripete, e la sua voce è spezzata e roca, ma riesce a trattenere le lacrime, "Tu - Maledetto - Credevo - credevo fossi morto. Mi hai detto addio - ", sente la gola andare a fuoco, ma riesce a tirar fuori le parole, con fatica, "Tre anni, Dottore, tre anni - capisci?"

Il Dottore lo guarda, le mani lungo i fianchi come se non fosse sicuro di dover ricambiare l'abbraccio; sta per farlo, ma poi John si allontana e il momento finisce.

"Credevo fossi morto tre anni fa, alla Cascata della Medusa". Mormora John, in piedi in mezzo al marciapiede di una strada qualsiasi, con persone qualsiasi a pochi passi da loro. "Come hai potuto - ". Come hai potuto farmi questo, Dottore? ," Sulla Terra. Mi hai abbandonato sulla Terra e io pensavo fossi morto. Mio, Dio". John seppellisce il volto tra le mani. Non si fida di me, pensa con infinita amarezza.

"Mi dispiace". Mormora il Dottore.
"A te dispiace?". Il tono è rabbioso, "Hai una minima idea di quello che io ho passato? Tre anni bloccato sulla Terra - pensavo fossi morto! E tu - cosa hai fatto? Un bel viaggio? Hai visto qualche pianeta interessante?"
"Per me sono passate solo tre ore, John"
"Cosa-?"
"Tre ore. La Cascata della Medusa è il centro di un varco spazio-temporale"
"Cosa?" Ripete John, allibito.
“E poi devo aver impostato male le coordinate temporali. Anche se più che un mio errore, penso che ci sia qualcosa che non va nel regolatore temporale del Tardis. Non è la prima volta che succede. Dovrò ricontrollare”.

John ascolta la voce del Dottore cercare di giustificare i suoi tre anni di sofferenza con un semplice malfunzionamento del Tardis.
“Pensavo fossero passate solo tre ore, John”. Quello che vorrebbe dire è solo: mi dispiace.

John non riesce a decidere se può e se vuole perdonarlo, quindi non dice nulla.
E' arrabbiato, confuso, ma, soprattutto, felice. Non è sicuro di volerlo essere, in quel momento.

Il Dottore sembra più umano che mai.
"Verrai?" Chiede esistante, come se per la prima volta non fosse sicuro della risposta.

John guarda il Tardis - pensa alla straordinaria sensazione di avere tutto il tempo e lo spazio a portata di mano, pensa agli ultimi tre anni passati tra la clinica e il suo appartamento minuscolo - pensa alla spesa il martedì e il venerdì, al turno di notte, alla gamba che fa male anche se non dovrebbe. Pensa al Dottore.
E capisce di aver sempre saputo la risposta a quella domanda.

"Verrò" dice, "ma non significa che ti abbia perdonato, però", aggiunge, caparbio.
"C'è un caso da otto che ci aspetta". Annuncia il Dottore, con il tono di chi stia porgendo il regalo perfetto per scusarsi.
"Ottimo. Di cosa si tratta?". John, senza degnare di uno sguardo la spesa sparsa sul marciapiedi, supera il Dottore e sfiora le porte del Tardis.
"Oh, sono stato contattato da Churchill. Di nuovo. Ci aspetta il classico enigma della stanza chiusa. A Downing Street".
"Ma non sei tu che dici sempre che negli enigmi delle stanze chiuse le stanze non sono mai chiuse?"
"Sì, ma in questo caso l'aspetto interessante è la vittima: è un siluriano"
"Cosa?!"


John, ora, è nel Tardis; sente di essere a casa come mai prima di allora.
Non se n'è ancora accorto, ma la gamba non gli fa più male.
Ci vorrà del tempo prima che riesca a perdonare il Dottore, ma sa che lo farà, alla fine - perché  è quello che fa sempre - quello che ha sempre fatto-  e quasi non riesce a ricordare una vita che non fosse spesa a perdonare continuamente il Dottore.

Il rumore del Tardis è il più bel suono dell'universo, pensa.
 













Alla fine, il caso da otto si rivelò un po' più deludente del previsto, a detta del Dottore, visto che, dopotutto, la vittima non era davvero un siluriano, ma un semplice essere umano sottoposto al processo di riscrittura del DNA.
Il Dottore riuscì a risolvere il mistero in mezz'ora scarsa, calcolando la velocità con cui il prezzemolo era penetrato nel burro mezzo sciolto dal caldo che si trovava sul vassoio della colazione di Winston Churchill, appoggiata sulla scrivania accanto alla vittima.
(Sempre grazie al burro fuso, dedusse anche che il primo ministro inglese fosse, in realtà, un impostore siluriano. Rintrovarono il vero Churchill ad un paio di galassie di distanza, un po' spaesato, ma in salute).







Quando John chiude le porte del Tardis sull'anno 1946, si ferma pigramente ad osservere il Dottore destreggiarsi tra le leve e i pulsanti della consolle lucida.
Vorrebbe andare a farsi una doccia e cambiarsi, ma non ha voglia di perderlo di vista, almeno per quel giorno.

Sul suo volto campeggia in grosso livido, risultato del bentornato di John (non che John si senta veramente in colpa per quello).
Quasi il Dottore gli avesse letto nei pensieri, si sfiora lo zigomo colpito.

"Novecento anni di spazio e di tempo e non ero mai stato preso a pugni da nessuno", mormora.
 Più che infastidito o dolorante sembra vagamente incuriosito dall'esperienza.

"Allora devi aver sempre viaggiato da solo", borbotta John, divertito.

Il Dottore, per un attimo, lo guarda in modo strano - come se stesse prendendo una decisione. Poi, con un tono leggero, chiede:
"Ti ho mai parlato di Victor Trevor?"


*




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