Bright Lights di itsjjoy (/viewuser.php?uid=118631)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prick of Conscience ***
Capitolo 2: *** Open Prison ***
Capitolo 3: *** Hang On ***
Capitolo 4: *** Faraway ***
Capitolo 5: *** Paraklausìthyron ***
Capitolo 6: *** Pick Up Off The Floor ***
Capitolo 7: *** A Loaded Smile ***
Capitolo 8: *** Goodbye ***
Capitolo 9: *** Broken Hearts (pt.1) ***
Capitolo 1 *** Prick of Conscience ***
Riassunto: 2018. Adam è sposato
con Sauli, abita a New York e sta per adottare un bambino. Ma dopo 5
anni, Isaac torna a bussare alla sua porta e gli dice solo 3 parole:
‘è per Tommy’. Questo basta per far
correre Adam a Burbank da quel ragazzo che già una volta gli
aveva fatto riconsiderare tutte le proprie convinzioni e l'aveva
cambiato da cima a fondo, e chissà che non
l’avrebbe fatto ancora. La storia di due anime gemelle che la
vita ha portato ad incontrarsi per poi separarsi ancora e di quel loro
legame irrimediabilmente indissolubile che li porta, dopo essersi
rivisti, ad un percorso di riscoperta di sé stessi, dei
propri sentimenti, delle proprie passioni e delle proprie
priorità. Un percorso difficile fatto di debolezza,
ostinazione, rifiuto, fiducia, speranza, pentimento, affetto, perdono e
accettazione; un percorso che forse non li porterà a tornare
quelli di prima, a riavere indietro ciò che avevano, ma
certamente li cambierà nel profondo.
"Isaac lo
vedeva rannicchiarsi in un angolo, ansimante, pallido, gli occhi
sgranati con il terrore dipinto dentro e quando provava ad
avvicinarsi Tommy lo mandava via, e lui non si sarebbe mai perdonato
se davvero l’amico avesse ceduto alla malattia. Se Adam era
il
morbo, lui sarebbe stato la cura, doveva esserlo, o non ce
l’avrebbe fatta mai più a guardarsi allo specchio."
Note: Ho perso le
mie bellissime noticine, quindi vi dovrete accontentare di questi
ringraziamenti un po' meno appassionati. Grazie alla volenterosa Stefania che si è offerta di
betare la storia, a tutti quelli che leggono, seguono e recensiscono le
mie storie e a quelli che sono qui per caso ma soprattutto un grazie
alle bellissime personcine a cui è dedicata questa long,
ovvero alla mia Frankie
e alle ragazze della
C.A.S.A! :D
Bright Lights
“Io
ti ho amato, André, e non saprei immaginare come si possa
amare di
più. Avevo una vita, che mi rendeva felice, e ho lasciato
che
andasse in pezzi pur di stare con te. Non ti ho amato per noia, o per
solitudine, o per capriccio. Ti ho amato perché il desiderio
di te
era più forte di qualsiasi felicità. E lo sapevo
che poi la vita
non è abbastanza grande per tenere insieme tutto quello che
riesce
ad immaginarsi il desiderio. Ma non ho cercato di fermarmi,
né di
fermarti. Sapevo che lo avrebbe fatto lei. E lo ha fatto. E'
scoppiata tutto d'un colpo. C'erano cocci ovunque, e tagliavano come
lame.”
Alessandro
Baricco
01 Prick of
Conscience
Silenzio.
Quanto diamine era
straziante quel silenzio?
Mentre dentro di
sé il cuore pareva gemere di dolore ad ogni lacerante
battito, senza che lui stesso riuscisse a spiegarsene il motivo,
pregava silenziosamente il ragazzo seduto accanto a lui di fare
qualcosa, di rompere quel terribile mutismo. Lo vedeva per la prima
volta dopo cinque lunghi anni, e tutto ciò che aveva saputo
dirgli era stato ‘È per Tommy’: tre
parole che erano bastate perché lui acconsentisse a seguirlo
subito a Los Angeles, lasciando New York, in cui abitava.
Cinque lunghissimi
anni: la sua vita era cambiata dall’ultima volta che lo aveva
visto, e dall’ultima volta che aveva visto Tommy. Era sposato
adesso, era un cantante di grande successo, stava lavorando al suo
quarto album che già gli prometteva introiti per milioni e
milioni di dollari, e stava per adottare un bambino assieme a suo
marito. Aveva messo la testa a posto ed era felice, davvero!
Però gli
mancavano i suoi amici: senza Isaac, senza Cam, senza Ash, senza
Taylor, Terrance, Sasha, senza
Tommy, senza la sua glamily
la fama non era più la stessa cosa. Aveva ancora quei
periodi bui, sempre più frequentemente e non aveva nessuno
da cui andare se non Sauli, o suo fratello, o sua madre. Perfino il
rapporto con suo padre non era più lo stesso; per quanto
Eber negasse e ripetesse che non era cambiato nulla, Adam poteva
chiaramente percepire che qualcosa si era infranto dopo quel fatidico
addio. Un addio che aveva cambiato totalmente la sua vita.
Credeva di avere degli
amici fedeli, che non l’avrebbero abbandonato mai, ma dopo
che ebbe messo fine a quel malsano
rapporto che c’era tra lui e Tommy, e il biondo se
n’era andato, tutti gli altri lo avevano seguito un
po’ alla volta, l’uno dopo l’altro.
“Dimmi
qualcosa, Isaac.”
Gli occhi verdi
dell’altro lo fulminarono.
“Cosa vuoi
che ti dica?” rispose, stizzoso, guardando fuori dal
finestrino con una smorfia infastidita.
“Perché
siamo su un aereo per LA, magari? Cos’ha Tommy e cosa
c’entro io?” replicò lui, senza
preoccuparsi di abbassare la voce. Si sistemò la giacca con
un gesto nervoso.
Isaac era stato il
primo ad andarsene. Non gli aveva mai perdonato di aver allontanato
Tommy, gli aveva detto che non voleva passare un secondo in
più assieme ad un ingrato come lui, aveva dato le dimissioni
ed era sparito dalla sua vita. Cinque anni dopo bussava alla sua porta
perché a Tommy era successo chissà che cosa, lo
trascinava con sé e lo trattava anche male. Che poi, a lui
cosa importava di Tommy? Dopo cinque anni in cui non si erano visti
né sentiti, dopo averlo invitato al proprio matrimonio e
aver sperato che si presentasse fino all’ultimo istante,
inutilmente, perché avrebbe dovuto fregargliene qualcosa?
“Siamo su un
aereo per LA perché è ora che tu ti assuma le tue
responsabilità per quello che hai fatto al mio migliore
amico.” rispose il suo ex-batterista, freddamente.
Adam
sbuffò. “Io non gli ho fatto nulla.”
Ed era vero: insomma,
aveva 30 anni e non sapeva accettare di essere stato mollato? Capitava
a tutti, ci si riprendeva, era impossibile che dopo cinque anni ci
stesse ancora male!
Gli si strinse lo
stomaco all’idea e per un istante ebbe una folle, quanto
fortissima, voglia di abbracciare il suo biondino. Fu un
flash, un’immagine del ragazzo di cui si era innamorato con
una tale intensità che nulla aveva più avuto
senso. Poi era passato, e si era sentito stupido: era finita, ed andava
bene così.
Se Adam non fosse
stato perso nei propri pensieri nostalgici e incoerenti, avrebbe
certamente notato il viso del suo interlocutore contratto nello sforzo
di non prenderlo a pugni fino a che di lui non fosse rimasta che
un’inerme poltiglia. Non si rendeva conto di quello che aveva
fatto?!
“Nulla? Non
hai fatto nulla?!”
Isaac sibilò, rabbioso. “Se solo tu potessi vedere
cosa ha passato... se solo tu fossi stato lì! Due anni. Due
anni ci sono voluti perché si riprendesse almeno un
po’ da ciò che gli hai fatto passare!”
la voce di Isaac era divenuta praticamente un ringhio e il ragazzo lo
guardava negli occhi, il dito puntato contro di lui. “Solo
dopo due anni è stato capace di lavorare di nuovo, ti rendi
conto? Dopo nove mesi di antidepressivi ed un anno e mezzo di terapia
era a stento capace di fare un dannatissimo scontrino!”
Adam ascoltava le
parole dell’altro, ma non le capiva. Tommy, lo stesso Tommy
che aveva conosciuto lui? Quello che nulla avrebbe mai fermato, quello
che sapeva sorridere anche nei momenti più bui, quello
inaffondabile? Stavano parlando della stessa persona? I suoi occhi
vacui vagavano sul viso di Isaac e coglievano piccole rughe che non
erano lì l’ultima volta che l’aveva
visto e tanti più capelli bianchi di quanti ne ricordasse,
che a quanto pareva l’ex batterista non si preoccupava di
coprire. Ma ciò che lo colpì maggiormente fu il
viso stanco di Isaac.
Il suo viso sembrava
quello logoro e triste di un impiegato scontento del proprio lavoro e
della propria vita, che va avanti per forza di inerzia. Ma, in tutto
ciò, nulla nel suo viso gli lasciava intuire che stesse
mentendo. Possibile che fosse vero quello che gli raccontava?
Sentiva una sensazione
terribile, di vuoto, di impotenza, crescergli nello stomaco e gonfiarsi
come una bolla colma d’aria. Tommy si era ripreso, vero? Le
lacrime che Isaac insisteva a trattenere raccontavano
un’altra storia, ma Adam pose lo stesso quella domanda, per
la prima volta parlando senza essere brusco o scortese.
“Ora sta
bene, non è così?” domandò
con un tono speranzoso ma poco convinto.
Isaac sorrise senza
traccia di gioia negli occhi. Pareva che i muscoli del suo viso si
muovessero per un fatto abitudinario, come se fosse costretto a
sorridere sempre e, col tempo, avesse imparato a farlo con naturalezza
in risposta a qualunque domanda.
“Tu cosa
pensi?”
Nulla. Adam non
pensava proprio nulla.
–
– –
–
Scese
dall’aereo con mille domande che gli riecheggiavano nella
testa. Tommy era lì ad aspettarlo? Era cambiato? Era davvero
così grave come Isaac gli aveva lasciato intendere? Cosa
avrebbe provato quando l’avrebbe rivisto? Perché
lo aveva mandato via cinque anni prima? Perché adesso era
tornato da lui?
“Perché
mi hai fatto venire qui?”
Isaac finse di non
aver sentito, mentre tirava giù la valigia dal nastro
trasportatore con quello che sembrò uno sforzo enorme. Adam
fece lo stesso col proprio bagaglio e fu mentre si dirigevano fuori che
finalmente Isaac gli rispose.
“Vuole
vederti. Non so come mai, è raro che parli di te a me o a
Sophie, lo fa solo con lo psicoterapeuta. Ma è oramai un
mese che si sveglia dicendo il tuo nome, e ripete che vuole vederti, ci
chiede di portarlo a New York.”
Isaac aveva gli occhi
spenti. Quando parlava di Tommy lo faceva con delicatezza, con un tono
piatto e triste, gli occhi bassi e con parole morbide, innocue, come un
abbraccio caldo e materno, quasi fosse certo che termini troppo duri lo
avrebbero spezzato. Sembrava parlasse di un bambino per la dolcezza e
l’affetto profondo di cui riempiva quelle frasi.
“Lo
psicoterapeuta ci ha sconsigliato di venire lì, non sappiamo
come potrebbe reagire ad un viaggio né a te, e poi non
può interrompere le sedute; ci ha sconsigliato proprio di
farvi incontrare, a dire la verità, ma non sono riuscito a
dire di no a Tommy.”
Sembrava che il
racconto dovesse continuare ma Isaac non aggiunse più nulla.
Serrò le labbra e restò in silenzio.
Vide la prima ombra di
sorriso in quegli occhi tanto familiari quanto estranei quando, in
lontananza, scorsero la figura di Sophie. Quando si avvicinarono, Adam
notò che era dimagrita e che sembrava molto più
vecchia. Anche il suo viso appariva stanco, sfibrato, sebbene
decisamente meno di quello del suo consorte; ciò che la
tradiva era l’espressione, le labbra serrate e contratte in
una smorfia preoccupata, che le conferiva di certo qualche anno in
più.
Non erano
più le stesse persone che aveva conosciuto e si
domandò se non sarebbe stato lo stesso per Tommy. Il senso
di colpa gli attanagliò lo stomaco: era causa sua? Era stato
quello che aveva fatto a Tommy a ridurli tutti in quello stato?
Cercò di
scacciare via quel terribile pensiero sostituendolo con la propria
impazienza di vedere il biondo, di capire come stesse. Forse vederlo
gli avrebbe fatto bene, forse sarebbe finalmente stato capace di
lasciarselo alle spalle una volta per tutte, di smettere sinceramente di
provare nostalgia per quello che avevano avuto.
“L’hai
lasciato solo?!” Isaac mormorò spaventato, ma non
a voce abbastanza bassa da impedire ad Adam di sentirlo e di
riscuotersi dai propri pensieri. L’ex batterista si era
rivolto a Sophie guardandola negli occhi, e lei scosse la testa.
“Psicoterapeuta.” rispose telegraficamente per poi
rivolgergli un sorriso affettuoso. Isaac ricambiò con un
abbraccio avvolgente, che scaldò il cuore di Adam per quanti
sentimenti fu capace di trasmettergli. Chissà se lui e Sauli
facevano lo stesso effetto a chi li guardava.
Sophie rivolse ad Adam
uno sguardo freddo e lo salutò con un cenno. No, non era
decisamente il benvenuto, lì. La donna gli si
avvicinò e gli ficcò in mano un foglio.
“Qui ci sono
i nostri numeri di cellulare e l’indirizzo
dell’albergo dove sarebbe opprtuno tu restassi. Ci
vediamo.”
Si voltò e
chiuse la stretta della mano attorno al polso del marito, tirandolo
delicatamente con sé e facendogli segno di andare. Isaac
esitò, restando indietro a guardare Adam che aveva
un’aria avvilita quanto sconvolta: lo avevano portato
lì di fretta e furia per poi lasciarlo solo in una camera
d’albergo, senza sapere cosa fare, ad aspettare loro?! Ebbe
l’impulso improvviso di tornare immediatamente a casa, nel
suo salone profumato e colorato, luminoso e allegro, a godersi la vita
che meritava
e che si era guadagnato,
senza quegli ingiustificati sensi di colpa che lo assalivano a minuti
alterni. Ma qualcosa, qualcosa in quel foglio che stringeva in mano,
qualcosa nello sguardo di Isaac e soprattutto quella sensazione di
insistente nostalgia che si dimenava nel suo stomaco, gli fece capire
che non ne sarebbe più stato capace: ogni singola volta che
la vita di Tommy incontrava la sua, anche solo per caso, qualcosa
cambiava. E una volta che era cambiata non si tornava indietro.
“Poi ti
chiamiamo.”
Isaac lo
guardò negli occhi per assicurarsi che avesse capito, poi
cedette alla moglie e la seguì, senza più
voltarsi.
Adam si sentiva solo,
perso, non sapeva cosa fare né dove andare, non
perché non conoscesse il posto, piuttosto perché
non riusciva a pensare, lì, in piedi, a guardarli andare
via. Tutto ciò a cui riusciva a pensare era il suo ex
ragazzo, il suo ex migliore amico. Era una situazione tremendamente
familiare, ma gli ci volle qualche minuto perché ricordasse
quando qualcosa di simile si era verificato. In un flash,
l’espressione di shock che Tommy aveva sul viso
l’ultima volta che l’aveva visto gli si
presentò davanti, quasi come se lui fosse lì, e
si sentì perso. Era così che si era sentito lui
quando Adam lo aveva lasciato? Smarrito? Vuoto?
Come aveva potuto
trattarlo a quel modo? Lo aveva mandato via come se non gli importasse
nulla di lui, ma non era affatto così! Era solo che
c’erano dei momenti nella vita in cui bisognava scegliere, e
quella scelta era stata così difficile per lui... Aveva
deciso di sentirsi al sicuro, di lasciarlo andare e di continuare per
la propria strada, perché credeva che fosse quella la cosa
migliore per entrambi. Ed ancora ci credeva. Lui era nato per cantare,
non per mandare tutto a puttane per amore.
Ma quando si era reso
conto che non riusciva a lasciarlo andare in alcun modo, aveva dovuto
sbattergli una porta in faccia con violenza inaudita per assicurarsi
che fosse Tommy a non tornare mai più indietro o lui avrebbe
ceduto. Cos’altro poteva fare?
–
– –
–
Il telefono
squillò mentre era in taxi. Adam lo estrasse di scatto,
pensando si trattasse di Isaac, ma il numero sul display era quello di
Sauli, sicuramente preoccupato di non aver ancora ricevuto sue notizie
dopo un’ora dal previsto atterraggio. Sospirò. Se
non fosse stato per Sauli, Adam avrebbe spesso dimenticato anche di
vestirsi.
Rispose con un sorriso
sereno, già figurandosi cosa l’altro gli avrebbe
detto. “Pronto?”
“Amore, ma
Isaac ti ha rapito o cosa?”
Adam
scoppiò a ridere. Dall’altro capo del telefono
c’era il solito Sauli, sempre accomodante e gentile, sempre
affettuoso ma mai sdolcinato.
“No,
macché rapito, mi ha già scaricato nel primo
albergo!” rise Adam gettando un'occhiata al guidatore del
taxi che pareva particolarmente interessato alla conversazione.
“Uhm,
capisco... Sicuro che hai voglia di stare lì solo soletto?
Vuoi che venga a farti compagnia?” il sorriso malizioso di
Sauli si poteva ben percepire anche senza vederlo, ma Adam sapeva che
se da un lato il ragazzo voleva provocarlo, lo avrebbe raggiunto
davvero se solo lui glielo avesse chiesto. Era così, cercava
di passare quanto più tempo possibile con lui, ma si era
più volte dimostrato capace anche di concedergli i suoi
spazi. Ad esempio, non era stato particolarmente d’accordo
con la sua decisione di partire per Los Angeles da un giorno
all’altro per via del suo ex, ma alla fine glielo aveva
permesso, ovviamente con le dovute raccomandazioni. Era o non era
quella una grande dimostrazione di fiducia e d’amore?
Esitò per
un secondo. Si rese conto che desiderava averlo lì con
sé tanto quanto avrebbe desiderato un tumore, ed era una
cosa terribile da pensare del proprio marito. Provò
improvvisamente disagio, sentì di non meritare nulla di
ciò che aveva.
Per dissimulare quelle
sensazioni – che Sauli era fin troppo abile a cogliere
– scoppiò a ridere, tentando di tenere la
conversazione su quel tono poco serio con cui era cominciata.
“Sauli, sono
capace di passare qualche notte senza scopare!”
esclamò, fingendosi offeso e scatenando
l’indignazione dell’autista che sembrò
finalmente tornare a porre l’attenzione sulla strada.
Dall’altro
capo del telefono, suo marito ridacchiò. “Lo so,
lo so...” mormorò, e poi fece una breve
pausa, come se stesse riflettendo su qualcosa. “Hai visto
Tommy? Come sta?”
Non era su quello che
stava riflettendo, e non era quello che gli interessava, il cantante lo
sapeva. Ma rispose lo stesso, gli resse il gioco, sapeva che non ci
avrebbe messo molto ad arrivare al punto. E probabilmente Adam sapeva
anche quale fosse, quel punto.
“No, non
l’ho visto, ma sembra stia proprio male...” Adam
non aggiunse altro, avvertendo un po’ di tensione. Sapeva che
a Sauli non interessava minimamente come stesse Tommy –
d’altronde non è che tra i due scorresse proprio
buon sangue – e forse sentir nominare il suo nome con affetto
non era stata una cosa piacevole. Ma erano passati anni, ormai, pensava
fosse acqua passata!
“Non vorrei
sembrare scortese, ma a te cosa importa di lui? Cioè... Non
è neppure venuto al nostro matrimonio, non gliene frega
più nulla di te!”
Adam scosse la testa e
sospirò. Se lo chiedeva anche lui, ad essere sinceri.
“Eravamo
migliori amici, Sauli... Gli voglio ancora bene, nonostante
tutto.”
“Eravate
amanti, Adam.” sbottò l’altro.
“Da dove
spunta fuori tutta questa gelosia, mh?” scherzò
Adam, anche se quell’ultima frase lo aveva particolarmente
infastidito. Cosa ne voleva sapere lui di ciò che erano
stati lui e Tommy?
“Torna a
casa, Adam... Mi manchi già...”
borbottò Sauli in risposta, aggirando la domanda, che per
quanto posta in maniera scherzosa non era affatto retorica.
“Mi manchi
anche tu...” mormorò Adam dolcemente. Nonostante
la sua gelosia fosse esasperante, Adam si riteneva fortunato ad aver
trovato un ragazzo come lui con cui passare il resto della vita.
Avrebbe potuto chiedere di meglio?
“Tornerò
presto, okay? Domani mattina ti chiamo, promesso.”
Sauli
sospirò e fece un mugolio di assenso. Per quanto restio a
chiudere lì la discussione, capì che
l’altro non aveva intenzione di assecondarlo oltre.
“D’accordo. Ti amo, buonanotte.”
“Anche io!
‘Notte...”
Adam
terminò la chiamata, passandosi una mano sul viso. Era
stanchissimo, diamine. Intravide l’albergo e tirò
un sospiro di sollievo. Non vedeva l’ora di farsi una bella
dormita.
–
– –
–
Magari fosse riuscito
a dormire.
Guardava il soffitto
della camera, pensieroso, e rifletteva. In realtà le uniche
frasi di senso compiuto che riuscisse a formulare il suo cervello erano
domande, domande e ancora domande, quando il senso di colpa non lo
assaliva fino a diventare soffocante. Non sapeva da quanto era
lì steso immobile, ma doveva essere qualche ora. Non voleva
disfare la valigia, né muoversi da quel letto, voleva solo
ricordare un motivo valido – almeno uno che non sembrasse una
scusa – per il quale aveva chiuso con Tommy in quella
maniera. Ma non riusciva a trovarne nessuno.
Le
labbra del biondo si incresparono in un sorriso. “Bugiardo!
Io so a cosa stai pensando adesso, e non è il
concerto...” mormorò Tommy malizioso, mentre le
sue mani accarezzavano delicate il corpo dell’altro che
giaceva al suo fianco.
“Hai
ragione... In realtà pensavo alle tue labbra...”
replicò Adam, baciandogli la bocca con passione,
abbeverandosi di quel sorriso come l’assetato fa con
l’acqua fresca di una fonte.
Tommy
rise malizioso. “Sì, pensavi alle mie labbra da
qualche parte lì sotto...”
Adam si premette le
mani sulla faccia, lamentandosi flebilmente mentre cercava con tutto se
stesso di scacciare quei ricordi così terribilmente vividi,
nascosti nei recessi della sua mente per tutto quel tempo, e che ora
ritornavano vivi come se non fossero mai andati via. Come se una diga
fosse crollata giù e avesse permesso al fiume di memorie
indesiderate di invadergli la mente.
Si mise supino e si
frugò nelle tasche, tirando fuori il foglietto stropicciato
su cui la grafia ordinata e femminile di Sophie aveva annotato
l’indirizzo dell’albergo e i due numeri di
telefono. Se lo girò tra le mani con l’intenzione
di salvare i recapiti in rubrica quando, sul retro, notò una
grafia che non era di certo quella della donna.
Era vagamente
familiare, ma la riconobbe solo grazie a quella T dalla forma
inconfondibile. Per il resto la grafia di Tommy era cambiata, era
più appiattita, spigolosa e calcata. Ci mise un attimo a
riconoscerla, e qualche secondo in più a decifrarla.
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Capitolo 2 *** Open Prison ***
Note: In
questo momento sono
occupata a scrivere il capitolo 5 e dovrò rallentare
perché l'introspezione di Sauli sta risultando essere la
cosa più difficile e scomoda che io abbia mai scritto... Ma
questo ancora non vi interessa, quindi torniamo a noi.
Questo capitolo
è molto intenso e mi piace davvero tanto. È stato
difficile scriverlo e c'è voluta davvero una
quantità impensabile di ricerche per comprendere come debba
sentirsi Tommy e per non scrivere stupidaggini. Mi scuso in anticipo se
ho sbagliato qualcosa, in ogni caso.
Non vedo l'ora di
postare il prossimo capitolo, anche quello è di un
intensità tremenda... *-*
Nel frattempo godetevi
questo, e non dimenticate di farmi sapere che ne pensate :)
02 Open Prison
“L’avete
portato qui? È qui?!
A Los Angeles?”
Isaac non vedeva il
suo amico sorridere in quel modo da tanto, troppo tempo.
Annuì lentamente, sorridendo a sua volta, sebbene fosse
decisamente contrariato dal fatto che il solo pensiero di Adam gli
facesse ancora quell’effetto dopo tutto quello che aveva
passato a causa sua. Sophie scosse la testa. “Io continuo a
pensare che sia una cattiva idea...” mormorò
rassegnata, mentre preparava una cena che sapeva che Tommy non avrebbe
mangiato.
“Voglio
vederlo.”
Il tono del biondo era
risoluto e quella sicurezza si rifletté nei suoi occhi,
anche se solo per pochi istanti, prima che il suo sguardo si
annebbiasse ancora, il cuore oscurato da chissà quali
pensieri.
“Ne sei
certo?” Isaac esitò, avvicinandoglisi lentamente,
e quando l'altro annuì, allungò una mano ad
accarezzargli il braccio, delicatamente per paura di essere respinto:
Tommy repelleva i contatti fisici da molto tempo ormai. C’era
stato solo un breve periodo, due anni prima, durante il quale il
ragazzo sembrava ormai guarito: aveva interrotto i farmaci e ridotto al
minimo le visite dallo psicoterapeuta, usciva spesso e volentieri di
casa per il suo lavoro part-time come cassiere ed aveva iniziato
persino a socializzare di propria volontà, nonché
a lasciarsi abbracciare volentieri da Isaac e Sophie, che speravano che
quell’incubo fosse finalmente finito. Ma a quanto pareva
quella situazione non stava bene ad Adam, che aveva ben pensato di
divenire la causa di un secondo crollo di nervi dell’ex
musicista – da quant’era che non prendeva in mano
le sue chitarre? – persino più forte dei
precedenti. Isaac ricordava che in quella prima settimana di
‘ricaduta’ gli attacchi di panico avevano raggiunto
addirittura l’impressionante quota di tre o quattro al
giorno, e rammentava di aver avuto sinceramente paura che quella volta
l’amico non avrebbe retto. Lo vedeva rannicchiarsi in un
angolo, ansimante, pallido, gli occhi sgranati con il terrore dipinto
dentro e quando provava ad avvicinarsi Tommy lo mandava via, e lui non
si sarebbe mai perdonato se davvero l’amico avesse ceduto
alla malattia. Se Adam era il morbo, lui sarebbe stato la cura, doveva esserlo, o
non ce l’avrebbe fatta mai più a guardarsi allo
specchio.
Cinse con le braccia
il corpo magro del biondo, stringendolo delicatamente in un abbraccio
leggero, mentre il cuore gli si stringeva alla reazione rigida di
Tommy, che restava immobile e impacciato nell’abbraccio,
senza rispondere ad esso, mentre si teneva un labbro tra i denti e
sembrava perso tra i propri pensieri.
“Ti va di
mangiare?”
Sophie
servì una frittata e guardò Tommy con il sorriso
incoraggiante di una madre. Il ragazzo ricambiò lo sguardo
con gli occhi persi e l’aria un po’ smarrita,
sciolse l’abbraccio di Isaac e si sedette composto a tavola,
guardando il cibo nel piatto con un'espressione a metà tra
il disgusto e l'astio. Gli altri due si guardarono negli occhi, con
aria preoccupata, prima di sedersi quasi contemporaneamente,
l’uno accanto all’altra. Tommy li
osservò e le labbra gli si distesero in un debole sorriso.
Li amava, li amava con tutto se stesso e non c’era nulla che
potesse farci. Ed era solo peggio: se loro se ne fossero andati? Se
fossero morti? Non sarebbe sopravvissuto un giorno solo senza di loro.
Se soltanto fosse stato capace di esprimere quei sentimenti... Invece
non serviva a nulla. Era incapace di fare anche una cosa semplice come
mangiare, figurarsi esprimere i propri sentimenti. Tutto lo annoiava,
persino suonare non aveva più alcun significato per lui. A
cosa serviva?
Non era già
morto perché non voleva ferire Sophie ed Isaac che si
dedicavano a lui con tanto affetto e tanto amore, o forse,
più probabilmente, era troppo codardo anche per il suicidio.
“C’è
qualcosa che non va, Tommy?”
Tommy scosse la testa
in risposta, mentre si chiedeva se ci fosse qualcosa che andasse. Si
sforzò di ricordare ciò che gli ripeteva sempre
lo psicoterapeuta: trova i lati positivi. Ecco, un lato positivo era
che Adam era lì per lui. Anche se avesse fatto una figura
terribile, anche se lo avesse trovato brutto, inguardabile, o gli
avesse confermato quanto poco gli importasse di lui, almeno Tommy era
stato abbastanza importante da portarlo lì. Si
sforzò ancora, ma altri lati positivi non ne
trovò. Anzi, più vi indugiava col pensiero, e
meno desiderava vedere il cantante. Non sarebbe mai stato come nei suoi
sogni, Adam sarebbe stato un uomo diverso, come lo erano Tommy ed
Isaac, come diversa era Sophie.
Adam era sposato
adesso, e gli sembrò di aver inghiottito un bicchiere di
aghi nell’istante in cui ebbe formulato il pensiero. Si
visualizzò un uomo del tutto diverso da quello che aveva
conosciuto – o creduto
di conoscere – e si domandò se una volta visto il
‘nuovo Adam’ l’avrebbe amato ancora. E se
non fosse stato più così? Sarebbe finita davvero?
Percepì a
stento Sophie che mormorava un “Ci penso io” in
direzione del marito e si sedeva accanto a lui, passandogli
affettuosamente un braccio attorno alle spalle, mentre con
l’altra mano lo aiutava a tagliare la frittata.
La paura iniziava
già ad entrargli dentro, per quanto cercasse di scacciarla.
Finita? Per sempre? Non voleva che finisse. La sua vita aveva senso
solo grazie a quel tormento interiore, aveva senso solo
perché era vuota e insensata, ed era su quella antitesi che
si basava la sua esistenza adesso. Viveva della certezza che avrebbe
amato quell’uomo per sempre, anche se lui non ricambiava, e
perdere quella sicurezza, l’unica che gli era rimasta,
avrebbe significato rompersi di nuovo. Non ce l’avrebbe fatta
a sopravvivere quella volta, lo sapeva! Era prosciugato da ogni forza,
andava avanti con quel poco che gli restava e ogni minimo avvenimento
negativo minacciava di succhiargli via tutto e di lasciare di lui
soltanto un guscio vuoto.
Mentre il panico lo
assaliva lentamente, senza che lui potesse fare più nulla,
il filo dei suoi pensieri lo riportò a qualcosa a cui non
pensava da tempo, lo riportò a quella sera, a
quell’addio.
“Tommy,
voglio che tu te ne vada.”
Il
ragazzo non capiva, non aveva senso. Il respiro si faceva affannoso e
lo stomaco si contorceva, ma aveva capito male, era impossibile, non
poteva essere.
“Siamo
a casa mia, Adam.” replicò, fingendo una risata e
fallendo miseramente. Si arrese allo sguardo duro che gli
scoccò il moro, chiudendo gli occhi e passandosi una mano
sul viso.
“Che...
che problema c’è?” domandò a
bassa voce, avvicinandoglisi lentamente e poggiando una mano sul suo
fianco, cercando il contatto con lui, perché era convinto
che se l’avesse abbracciato tutto si sarebbe sistemato. Ma
Adam lo spinse via. Aveva lo sguardo basso e sembrava cercare di
trattenere le lacrime. Tommy semplicemente non capiva, o non voleva
capire, tutto se stesso si rifiutava di accettare la realtà
che gli veniva posta davanti agli occhi e quelle parole. Ancora
desiderava ardentemente di avvicinarsi, ma il suo corpo non pareva
volersi muovere.
Poi
arrivò il colpo di grazia.
“Dalla
band... voglio che tu vada via dalla band. E dalla mia vita.”
Adam lo mormorò freddamente, gli occhi puntati da
un’altra parte. Esitò, prima di continuare, e gli
scoccò uno sguardo; “Sei... licenziato. Non voglio
vederti mai più.”
Quello
che Tommy provò fu all’incirca la stessa
sensazione che prova qualcuno il cui cuore viene strappato via a mani
nude. Stava mentendo, Adam stava mentendo, non credeva alle sue parole,
non era possibile. Era solo un orribile scherzo di cattivo gusto, una
vendetta per qualcosa di sbagliato che aveva fatto.
“Stai...
Stai scherzando, vero?”
Nessuna
risposta. Il biondo alzò la voce. “Stai
scherzando, Adam?!”
Sentì
gli occhi bagnarsi di lacrime, ma non pianse, non lo avrebbe fatto, non
doveva farlo. “Qualunque cosa sia successa, qualunque cosa io
abbia fatto, possiamo risolvere, possiamo-”
Fu
interrotto da un urlo furioso del moro: “Tu non sei nulla per
me, okay?! Sei stato capace solo di crearmi problemi! Quale parte della
frase ‘non voglio vederti mai più’ non
ti è chiara?”
Tommy
si ammutolì, e tutti i suoi pensieri, tutto ciò
che conosceva, tutte le sensazioni e quella matassa di emozioni che
aveva nel petto scivolarono via da lui. Gli sembrò di
collassare, si sentiva come un foglio accartocciato su sé
stesso e buttato via, inutile, insensato, senza alcun valore.
Guardò l’altro che andava via chiedendosi come
potesse il suo cuore battere ancora se lui si sentiva morto dentro.
La
prima sensazione fu la rabbia. Tirò giù quadri e
strappò poster dalle pareti, ruppe bottiglie e bicchieri
poggiati sulla penisola della cucina, gettandoli a terra con tutta la
forza che aveva nelle braccia, urlando, piangendo, maledicendosi e
maledicendo Adam; tagli sulle mani, sulle dita e sulle braccia
comparvero senza che lui si accorgesse di causarseli, ma non gli
importava. Odiava Adam, odiava sé stesso, odiava il giorno
che aveva deciso di partecipare a quel maledetto provino, odiava il
modo in cui Adam l’aveva guardato dal primo istante, odiava
il fatto che fosse stato preso, odiava avergli permesso di baciarlo, e
odiava quelle labbra, Dio quanto le odiava, le odiava con ogni dannata
fibra di sé, e odiava anche il suo odore, e la sua pelle
così piacevole al tatto, e le sue grandi mani calde, e
odiava ogni singolo istante passato con lui, ogni singolo orgasmo, ogni
singola notte passata insieme, e ogni volta che avevano fatto
l’amore.
Un
pensiero stranamente lucido gli attraversò la mente,
all’improvviso: non lo avrebbe rivisto mai più.
Bastò quella consapevolezza a farlo cadere in ginocchio tra
i cocci di vetro, mentre si sentiva soffocare, e il respiro si faceva
sempre più affannato, mentre il cuore batteva fortissimo,
tanto che sembrava dovesse vomitarlo fuori a momenti. E non passava,
non riusciva a pensare, a parlare, a gestire il proprio corpo. Le mani
insanguinate, tra le quali si prese la testa, sembravano quelle di un
altro – o forse lo erano? Non sapeva più nulla,
non era più nulla, si era totalmente annullato, sapeva solo
che sarebbe svanito ben presto, si sarebbe dissolto, sarebbe morto, lo
sapeva come sapeva che il cielo era blu, e l’acqua insapore,
esattamente come sapeva che amava Adam e l’avrebbe amato per
sempre sapeva che sarebbe morto soffocato dal proprio dolore. Eppure
non riusciva a incolpare quell’uomo. Era propria, la colpa,
aveva sbagliato, aveva sbagliato e si pentiva, se solo avesse potuto
glielo avrebbe detto: “Scusami, Adam, scusami,
scusami.”
Rifiutò il
boccone che Sophie tentava inutilmente di fargli mangiare, sentiva un
nodo allo stomaco, ed era certo che se avesse aperto la bocca avrebbe
vomitato. La allontanò, spingendola via, mentre tra i propri
pensieri riusciva a distinguere solo dei ‘no!’ che
sembravano urlati senza sosta. Non un altro attacco di panico, non in
quel momento! Non avrebbe visto mai Adam, sarebbe morto lì,
quella volta sarebbe morto, e non lo aveva rivisto, e non gli aveva mai
chiesto scusa. Il battito accelerato del cuore, il respiro affannato,
gli impedivano di sentire quello che Sophie diceva, ma gli parve di
cogliere il nome di Isaac. Non riuscì a distinguere
l’espressione negli occhi di lei perché la vista
gli si era annebbiata, mentre gli sembrava che qualcuno gli stesse
stringendo le costole in una morsa. Era così che finiva? Non
sarebbe neanche riuscito a ringraziarli? Tremava, e
d’improvviso non vide più nulla, voleva parlare,
ma la bocca secca non rispondeva ai suoi comandi. Almeno avrebbe smesso
di essere loro di peso, li avrebbe liberati della propria presenza.
Ogni attimo durava quanto un minuto, ed ogni minuto pareva un ora, e
giunse persino a desiderare
di morire. Tutto, tutto purché quelle torture finissero,
tutto purché quella paura smettesse di coglierlo
inavvertitamente e senza ragione, tutto purché dovesse
smetterla di vergognarsi di sé, tutto purché
quella malattia andasse via o almeno mettesse fine alla sua misera
esistenza che era vergognoso chiamare vita.
E proprio quando
pensava di essere spacciato, quando sperava di esserlo,
quando credeva di sapere che quello era il suo ultimo respiro, proprio
in quell’istante tutto finì. Come sempre.
A volte si sentiva un
peso anche per se stesso. Quando quegli attacchi di panico finivano,
non si sentiva più sollevato di non essere morto.
All’inizio di tutto quello, anni prima, lo spaventava
l’idea di diventare pazzo, di perdere il controllo, e alla
fine di quelle crisi era contento che non fosse successo nulla. Ma
adesso che già era pazzo, che aveva perso anche la
dignità, che senso aveva preoccuparsi di quelle cose? Che
senso aveva continuare a vivere? Cosa voleva dimostrare, che lo avrebbe
amato tutta la vita? Ad Adam non importava, a nessuno importava. Poteva
anche morire. E probabilmente sarebbe stato sotto terra da un pezzo, se
non fosse stato per Sophie ed Isaac.
Quando la respirazione
tornò regolare e aprì gli occhi, vide
l’amico che tranquillizzava la moglie, sussurrandole
qualcosa. Si vergognò tremendamente della propria
condizione, delle proprie crisi, del proprio essere irrimediabilmente
guasto. I suoni smisero di arrivargli ovattati solo dopo qualche altro
secondo, e Isaac era già inginocchiato davanti a lui. Gli
aveva preso le mani tra le proprie ed aveva mormorato il suo nome.
Lo guardava con i suoi
occhioni verdi, e Tommy non poteva né voleva fare altro che
starlo a sentire, che aggrapparsi a lui e non lasciarlo mai
più. Strinse forte la presa sulle sue mani.
“Non
lasciarmi...” mormorò il biondo. “Ti
prego, non lasciarmi...”
Lo disse con le
lacrime agli occhi, cercando di non piangere, di non sbattere le
palpebre e di continuare a guardare quegli occhi. Non ne poteva
più, voleva solo tornare ad essere ciò che era
una volta, tornare ad essere felice, ma più provava a
riaffiorare da quel baratro e più quello si faceva profondo
e buio, e lui trascinava giù con sé anche quelle
poche persone che lo amavano.
“Non ti
lascio, Tommy... Non ti lascio.” Mormorò Isaac
mentre sentiva il cuore spezzarsi per l’ennesima volta di
fronte alla fragilità dell’amico, di fronte a
quegli occhi svuotati del luccichio che li rendeva unici un tempo e
trasformati in un baratro oscuro e senza fine. Lui non avrebbe fatto
come Adam, lui sarebbe stato con Tommy per sempre, per davvero. Lui
sarebbe riuscito a restituire la speranza a quegli occhi, fosse stata
l’ultima cosa che faceva.
“Andrà
tutto bene. Te lo prometto. Ti fidi di me, Tommy?”
Il biondo
annuì piano. Sì, si fidava di lui. Sapeva che non
avrebbe dovuto, sapeva che prima o poi se ne sarebbe andato anche lui,
lo sapeva, ma si fidava, e quel sentimento era più forte di
qualunque altra cosa. Si fidava di lui, dei suoi occhi, della sua
stretta: erano tutto ciò che lo manteneva in vita.
“Allora non
devi preoccuparti. Non permetterò che nessuno ti faccia del
male. Mai. Capito?”
Tommy annuì
ancora, abbozzando un sorriso di gratitudine.
– –
– –
“Te
l’avevo detto di non portarlo qui! L’hai solo fatto
peggiorare!” il sussurro di Sophie sembrava quasi un lamento.
Si sentiva impotente davanti a quegli attacchi, quando vedeva Tommy in
quelle condizioni, pallido e tremante, stava così male che
avrebbe potuto averli lei, gli attacchi di panico, e il suo stato
d’animo non sarebbe cambiato di una virgola.
“Soph,
amore, dimmi con quale coraggio potevo dirgli di no. Sai che io non
sopporto Adam, ma è l’unica cosa che gli fa
brillare gli occhi...” Isaac sussurrò a voce
bassissima, tanto che Sophie dovette avvicinarglisi per sentirlo. Lo
guardò malissimo.
“E quindi
lui deve sopportare tutto ciò perché a te piace vedergli brillare gli occhi?!”
la donna alzò la voce più del dovuto, troppo
arrabbiata per curarsene. “Ti rendi conto che Adam gli fa
solo male, Isaac?!”
L’uomo la
guardò senza rispondere per alcuni secondi, poi
sospirò rivolgendo lo sguardo verso il corridoio, dal quale
proveniva il suono dei passi di Tommy che si avvicinavano.
“Anche la
cioccolata fa venire le carie.” disse poi, avvicinandosi a
Tommy, che li guardò entrambi, chiedendosi perché
parlassero di cioccolata e carie e perché Sophie guardasse
Isaac a quella maniera. Ma non ebbe il tempo di formulare la domanda.
“Hey, Tj,
possiamo parlare un minuto?”
Il biondo fece cenno
di assenso e aspettò che l’altro parlasse,
osservandolo tormentarsi nervosamente le mani e mordicchiarsi il labbro
inferiore.
Cosa aveva combinato
adesso? Volevano dirgli che non potevano più mantenerlo,
nonostante l’aiuto economico di sua madre, e che era giunto
il momento di imparare a cavarsela da solo? L’ansia gli
assalì lo stomaco. Ancora.
“Tu vuoi
vedere Adam.” Non era una domanda, sembrava più
che altro l’inizio do un ragionamento. Tommy si
rilassò. Si diede qualche istante per scacciare via le
proprie ansie e focalizzare la mente sulle parole di Isaac. Le sue
parole e null’altro. Annuì con un piccolo sorriso
sollevato e aggiunse un ‘sì’ mormorato.
“Che ne dici
se facciamo un patto, io e te? Una piccola sfida.” Isaac gli
sorrise, cercando di apparire più incoraggiante possibile,
mentre l’amico si sentiva più che altro trattato
un po’ come un bambino – come sempre,
d’altronde. Ma capiva che Isaac aveva soltanto paura di osare
troppo e ferirlo. Annuì ancora, curioso di sapere in cosa
doveva fallire miseramente quella volta.
“Io ti porto
da Adam se tu accetti di sostenere un colloquio di lavoro.”
Tommy
impallidì all’istante. Scherzava? Non lo avrebbero
mai preso, mai e poi mai, aveva l’aspetto malaticcio, era
silenzioso e triste, e non era bravo a trattare con la gente. Lo
avrebbero cacciato fuori a calci!
“Non devi
superarlo!” Isaac alzò il tono di voce
improvvisamente, e sembrava lo stesse supplicando. Inspirò
profondamente e continuò, più calmo.
“Non c’è bisogno che tu lo superi.
Voglio... Vorrei solo che tu sostenessi un colloquio di lavoro. E anche
se sarà il peggiore della storia, io sarò fiero
di te.”
Quelle parole
scaldarono il cuore dolorante di Tommy. Fiero di lui. Anche se era un
fallimento, anche se dava solo problemi, Isaac sarebbe stato fiero di
lui. Provò verso l’amico un moto d’amore
tanto profondo da farlo rabbrividire.
“Siamo
d’accordo allora?” gli occhi verdi
dell’uomo erano tanto colmi di speranza che Tommy non avrebbe
mai desiderato deluderli.
“Sì,
d’accordo.” rispose flebilmente.
– –
– –
“Soph, posso
farti una domanda?”
Gli occhi castani
della donna incontrarono i suoi per qualche secondo, come a voler
prevedere la domanda che stava per esserle posta; Tommy non fece in
tempo ad abbassarli per evitare quello sguardo, ma comunque
l’occhiata durò pochi istanti, poi Sophie si
spostò un ciuffo castano dietro l’orecchio,
annuì e tornò a guardare la strada. Il suo
malessere si leggeva chiaramente nella sua posizione tesa e
nell’espressione pensosa del suo viso, ma soprattutto nei
suoi occhi. Tommy si sentiva in colpa: sapeva che, qualunque cosa fosse
accaduta, era per causa sua.
“Tu ed Isaac
avete litigato?” domandò esitante.
Aveva capito che
parlavano di lui. Sarà stato depresso e malato, ma non era
stupido. Forse c’entrava Adam, o il colloquio di lavoro, o il
fatto che non metteva nulla sotto i denti da due interi giorni, o forse
ancora l’aumento di frequenza improvviso dei suoi attacchi di
panico, proprio ora che pareva stesse migliorando. Qualunque cosa
fosse, non voleva che litigassero. Vederli stringersi ed abbracciarsi
gli dava speranza, lo faceva sentire in pace col mondo, anche solo per
qualche istante. Avrebbero meritato la vita più felice che
si potesse immaginare, una bella casa, grande, in riva al mare, e dei
figli, magari anche un cane. Invece dovevano occuparsi di lui.
“Abbiamo
discusso.” rispose lei con una smorfia, e Tommy
impiegò qualche secondo a ricordare a che domanda stesse
rispondendo. Tentò di sorriderle, ma rinunciò
quasi subito e si limitò ad inumidirsi le labbra secche con
la lingua, spostando lo sguardo fuori dalla finestra.
“Ti ama
tanto. Davvero tanto.” mormorò, come se ricordarle
di quei sentimenti risolvesse tutto. E in fondo era proprio
così, era grazie a quei sentimenti che loro erano andati
avanti, che avevano superato ogni difficoltà insieme,
facendosi forza l’uno con l’altro.
L’amore bastava. O almeno, per loro tre era così.
Sophie sorrise
intenerita. Parve soppesare le parole di Tommy, come se stesse
decidendo se perdonare o meno il marito. Infine sospirò, e
sembrava stare meglio.
“Ama tanto
anche te.” replicò, guardandolo con affetto e
accarezzandogli il braccio, prima di prendergli dolcemente la mano
nella propria e stringerla forte. “Ti amiamo
entrambi.” aggiunse poi, quando i loro sguardi si
incontrarono di nuovo.
Tommy
ricambiò debolmente la stretta, e annuì, mentre
il cuore accelerava. Se solo avesse potuto renderli fieri di lui per
davvero...
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Capitolo 3 *** Hang On ***
Note: Tanto dolore,
in questo capitolo, spero di averlo reso al meglio.
Conosceremo meglio Adam
e Tommy - come sono cambiati e in cosa sono
invece rimasti come prima.
Il famoso "incontro"
tanto atteso dal primo capitolo, è
finalmente qui! Ho concluso in un modo che vi avrebbe lasciato bene e
dolcemente, e spero
che Adam avrà guadagnato qualche punto in più per
quando sarete arrivati/e alla fine, perché qui è
effettivamente abbastanza tenero *-*
Ci vediamo con il
prossimo aggiornamento, quando torno da New York
(dopo il 4 Aprile). Auguratemi buon viaggio!
E ovviamente... enjoy!
03
Hang
on
Quando
uscì dall’ufficio nel quale si era tenuto il
colloquio – a opera di un uomo borioso sulla cinquantina che
pareva convinto che quel supermercato fosse il centro del mondo
– Tommy si sentiva ancora più inutile di prima.
Aveva portato il
proprio curriculum
vitae al responsabile con l’impressione che
sarebbe stato totalmente inutile. Sophie lo aveva vestito e sistemato
al meglio per l’occasione: indossava gli abiti più
belli che aveva, una camicia nera, dei pantaloni scuri ed una giacca
che gli andava un po’ larga – era di Isaac, lui non
aveva mai avuto giacche e si rifiutava di comprarne. Aveva i capelli
stranamente in ordine e si era messo un po’ di fondotinta per
restituire calore alla faccia pallida e nascondere le occhiaie, eppure
era perfettamente consapevole di avere un aspetto malato. Non era la
prima volta che sosteneva un colloquio di lavoro per un posto simile,
sapeva cosa dire e soprattutto cosa non dire: Isaac e
Sophie gli
avevano insegnato per filo e per segno ogni risposta ed ogni
espressione che era opportuno mimare e lui le ricordava perfettamente.
Aveva preso le pillole in modo da essere certo che facessero il loro
effetto mentre sosteneva il colloquio, eppure era nervosissimo, gli ci
voleva una forte concentrazione per non pensare alla paura che sembrava
provenire da dentro – dalle ossa, dal cuore, dallo stomaco e
dai polmoni – e non poteva fare a meno di pensare che sarebbe
andato malissimo.
In effetti la sua
impressione, una volta fuori da quella stanza
soffocante, era di essere stato pessimo. A Isaac forse non importava,
ma a lui sì. Non era neanche capace di essere preso a
lavorare in un maledetto supermercato, neanche per il turno di notte?
Si sentiva in dovere di portare soldi a casa, soldi da usare per
pagarsi lo psicoterapeuta e quelle maledette pillole, così
da non pesare sulle finanze di sua madre, o peggio ancora di Isaac e
Sophie che non avevano alcun legame di sangue con lui e lo stesso si
prodigavano a quel modo per farlo stare bene. Si sentiva un ingrato,
uno sfruttatore, e le sedute dallo strizzacervelli non servivano a
nulla, o comunque servivano a poco contro il suo perenne pessimismo e
la sua costante autocommiserazione. Lo stesso dottore gli aveva detto
che non potevano avere veri risultati se non era lui a voler guarire.
Ma lui lo voleva!
Isaac gli si
avvicinò e lo abbracciò,
riscuotendolo a forza dai suoi pensieri.
“Allora,
com’è andata?”
domandò, con un tono di voce eccitato. Tommy rispose facendo
spallucce e smorzando il suo entusiasmo.
“Possiamo
andare a casa?” mormorò,
sentendosi un po’ in colpa, mentre l’altro
sospirava spazientito. Ma era stanco e aveva solo voglia di mettere
fine a quella terribile giornata e dimenticare quella disastrosa
esperienza.
“Pensavo
volessi vedere Adam, ma può aspettare
anche fino a domani...”
A quel nome Tommy
parve tornare immediatamente lucido e
sull’attenti. Si voltò di scatto verso Isaac e gli
sorrise, guardandolo speranzoso, come un bambino che aspetta una
risposta affermativa per scartare i propri regali.
“Posso
vederlo? Adesso?”
Isaac annuì
e gli fece cenno di salire in auto.
Tommy
ubbidì, mentre l’ansia iniziava a
diffondersi come un veleno nel sangue. Poteva sentirla dal cuore fino
alla punta delle dita, ma non gli importava, non in
quell’istante. In quel momento pensava solo ad una cosa:
avrebbe rivisto Adam.
–
– – –
Fu per puro orgoglio
che Adam non esclamò un
‘finalmente!’ quando Isaac lo chiamò per
informarlo che poteva vedere Tommy. Diamine, gli sembrava di avere
aspettato millenni, ed era giunto a desiderare così
ardentemente quell’incontro da sognarlo la notte. Inoltre,
non sapeva più cosa raccontare a Sauli che continuava a
insistere per raggiungerlo lì, o meglio ancora,
perché lui tornasse a casa.
In quel momento un
taxi l’aveva appena portato davanti al
cancello di un condominio nella periferia di Burbank dove pareva
abitasse la famiglia Carpenter assieme a Tommy Joe. Pagò la
corsa mentre le solite domande, che non lo avevano lasciato per un
istante durante quei tre giorni, tornavano a farsi rumorose nella sua
mente. Più di tutto lo preoccupava ciò che
sarebbe successo dopo
averlo visto: già sapere che lui stava male aveva turbato
irrimediabilmente la sua serenità ed era certo che, dopo
averlo guardato negli occhi, non sarebbe stato capace di continuare ad
infischiarsene. Anzi, dubitava di aver mai avuto quella
capacità.
Citofonò e
la voce di Sophie non chiese neanche chi fosse,
informandolo brevemente che l’appartamento era il numero 12,
al terzo piano. Si guardò furtivamente intorno,
inforcò gli occhiali da sole, perfettamente consapevole
della loro inutilità, e semplicemente sperò di
non incontrare nessuno. Erano le sette di sera, ora di cena, doveva
percorrere pochi metri e non c’erano molte persone in giro,
quindi poteva sinceramente sperare di essere fortunato.
Di certo lo sarebbe
stato più che in quegli ultimi giorni:
le sue foto assieme ad Isaac e Sophie all’aeroporto di LA,
scattate da qualche fan appostata chissà dove, erano finite
su Twitter prima che lui potesse anche solo considerare la
possibilità che succedesse. Ormai i tweet che gli chiedevano
che ci facesse di nuovo a Los Angeles non si contavano più,
e lui non aggiornava il proprio profilo sul social network da quando
aveva lasciato New York. Il suo manager l'aveva chiamato una decina di
volte già per quelle foto, e poi ancora il giorno dopo
quando non si era presentato in studio, prima che lui si decidesse a
rispondere spiegandogli che doveva dare una mano ad Isaac per una cosa che
avevano in sospeso, senza scendere ulteriormente nei particolari e
chiedendogli gentilmente di lasciargli la possibilità di
'risolvere quella situazione'; era riuscito ad ottenere una settimana
di pace e di agenda vuota ma se non avesse ricevuto quella telefonata
da Isaac avrebbe probabilmente fatto in modo di liberarsi per altro
tempo ancora: era troppo importante.
Non aveva intenzione
di spiegarsi con nessuno, non erano affari loro,
non erano neppure affari di Sauli, era qualcosa che riguardava lui e i
suoi vecchi amici. Non voleva mettere Isaac, Sophie e soprattutto Tommy
ancora una volta sotto i riflettori, non era certo che avrebbero retto.
L’ex-chitarrista non ce l’avrebbe fatta di sicuro,
era per quello che aveva cancellato ogni account dai social network un
mese dopo che avevano smesso di vedersi; da allora, nessuno aveva
più avuto sue notizie, neanche lui.
Chiuse gli occhi e
prese un profondo respiro, prima di suonare il
campanello. Sentiva il suono di un televisore acceso, probabilmente
sintonizzato sul telegiornale, e null’altro. Un lieve rumore
di passi precedette quello della porta che si aprì. Si
trovò davanti l’espressione astiosa di Sophie.
“Entra
pure.”
Tommy, che era sul
divano, impallidì nel vederlo entrare.
Adam non sapeva quale
fosse la propria espressione, sapeva solo che non
era capace di muovere un altro passo; desiderava voltarsi, iniziare a
scappare per non tornare indietro mai più, fuggire da quella
casa, da quel condominio, da quella città, persino da quella
nazione, pur di non correre il rischio di avere
quell’immagine davanti agli occhi per un secondo di
più. Ma non riusciva a muoversi di lì,
né a staccare gli occhi da quello che una volta era Tommy
Joe Ratliff.
Indossava un pigiama
che gli calzava assurdamente largo, e si stingeva
le gambe al petto, come se avesse freddo, o paura. I suoi capelli
biondo scuro erano stati tagliati corti: ora portava un ordinario
taglio scalato, tenuto un po’ lungo, ma che sembrava
così assurdo e surreale su di lui. I ciuffi più
lunghi gli ricadevano sulla fronte, mentre gli altri erano arruffati e
mostravano evidentemente la scarsa cura che vi dedicava. Incorniciavano
un viso pallido e scavato ed un paio di enormi occhi marroni cerchiati
da occhiaie scure, che apparivano stanchi e completamente svuotati:
furono quelli che lo colpirono di più, come una coltellata
dritta nello stomaco. Quando la porta si era aperta, gli occhi di Tommy
erano saettati incontro a quelli azzurri di Adam, le pupille si erano
dilatate e il ragazzo era rimasto immobile, come se avesse smesso di
respirare. Nell’incontrare quello sguardo, il moro si era
sentito risucchiato dalla voragine che erano quegli occhi, che
– ci mise poco ad accorgersene – ti portavano via
ogni voglia di sorridere a poco a poco, proprio come i buchi neri
risucchiano la luce. Improvvisamente non aveva bisogno di chiedere
più nulla di quei cinque anni appena trascorsi: poteva
immaginare com'era stato. Conosceva finalmente quello sguardo e gli
bastava per colmare quel lungo periodo, riempirlo di quel baratro, di
quel nulla senza inizio né fine che aveva il sapore di amara
nostalgia.
Un addio perpetuo:
ecco cosa leggeva sul viso e nel corpo di Tommy. La
vita di una persona che si sveglia ogni mattina chiedendosi
perché è ancora in vita, e che con ogni gesto che
fa saluta un pezzo di ciò che era e di ciò che
sarà. La vita di qualcuno che non ha un presente, ha solo il
passato, ed è lì che vive, struggendosi
perché è finito, e non ha futuro,
perché non sa neanche se ha voglia di arrivare alla fine
della giornata.
Dopo quelli che gli
sembrarono millenni, riuscì finalmente a
muovere qualche passo. Entrò nella casa, avvicinandosi
lentamente al divano. Non si era mai sentito così osservato
e così a disagio.
Si rese conto che
doveva dire qualcosa.
“Ciao...”
mormorò, e non aveva ancora
staccato lo sguardo da quegli occhi da quando li aveva rivisti. Saranno
stati anche buchi neri, ma si rese conto che non desiderava smettere di
guardarli per nessuna ragione. Si sedette accanto a lui, non troppo
vicino, solo quel che bastava per essere certo di poterlo sfiorare se
desiderava farlo.
Tommy non gli rispose,
si allontanò appena da lui, e
improvvisamente sembrò distante anni luce. Adam non poteva
saperlo, ma sebbene l'altro volesse essere lì con tutto
sé stesso, allo stesso tempo desiderava fuggire dal suo
corpo, dal suo cuore e dal suo cervello di cui aveva
un’improvvisa e tremenda consapevolezza: ogni singola cellula
di lui faceva male come non mai. Voleva essere lì
perché voleva Adam, voleva stringerlo, abbracciarlo,
inspirare il suo odore ed addormentarsi tra le sue braccia, non voleva
lasciarlo mai più; ma allo stesso tempo, c'era una parte di
sé che lo rifiutava, una parte di sé che voleva
mandarlo via all'istante, che voleva urlargli contro quanto dolore gli
aveva causato.
Sophie li osservava
dalla porta della cucina.
“Non
parlano?” domandò, a nessuno in
particolare. Isaac, che era lì accanto a lei e guardava la
TV, le tirò una gomitata. “Cristo, Soph, lasciali
stare!”
“Lasciarli
stare?! Devo sorvegliarli! Se Adam si permette anche solo
di guardarlo in un modo che non mi piace gli spezzo ogni singolo
disgustoso osso che riesco a rompergli.” sibilò,
senza staccare gli occhi dal cantante seduto sul loro divano.
“E non permetterti di dire che sono cattiva con lui,
intesi?!” lo anticipò quando lui prese fiato per
parlare.
“Non volevo
dirlo.” Isaac sorrise, voltandosi a
guardarla.
“E che
volevi dire, sentiamo?” replicò
lei, incrociando le braccia al petto e guardandolo con aria di sfida.
Isaac
allungò una mano ad accarezzarle il viso.
“Che ti amo da impazzire quando fai la leonessa
arrabbiata...” mormorò ridacchiando, prima di
stamparle un bacio sulle labbra. “E che puoi anche
sorvegliarli un po' meno, sono nella camera accanto, se succede
qualcosa lo sentiamo. Rilassati.”
Dopo quelle che gli
erano sembrate ore passate a guardare i magnifici
occhi azzurri dell’uomo che amava più di ogni
altra cosa al mondo, Tommy si rese conto che non aveva ancora proferito
parola. Provò a dire qualcosa, ma riuscì solo a
schiudere le labbra e probabilmente a fare la figura del fesso.
Richiuse la bocca e prese un profondo sospiro, poi tentò
un’altra volta.
“Mi sei
mancato...” le parole gli uscirono in una
sorta di sibilo strozzato.
Provò un
desiderio profondo di premere le labbra su quelle
dell’altro finché i loro visi non si fossero fusi
assieme.
Adam scosse la testa.
Ogni fibra del suo essere pareva urlare che gli
era mancato anche lui, gli era mancato tanto, per quanto fingesse il
contrario, ma non riuscì a pronunciare quelle parole.
Stavolta toccò a lui stare in silenzio e per dissimulare
l’imbarazzo gli sorrise dolcemente.
“Da
impazzire... impazzire
sul serio...” continuò lentamente il biondo, con
un sorriso che non aveva niente di allegro. La sua mente sembrava fare
un percorso tutto suo, sembrava lavorare ad interminabili ragionamenti
che poi restavano segreti a tutti, se non a Tommy stesso.
Eppure Adam poteva
vedere, poteva intuire
in qualche modo che quel suo flebile sussurro, quelle sue parole
mormorate, erano già un’enorme sforzo e che quello
che vedeva non era nulla – nulla – in
confronto alla realtà, a quello che Isaac e Sophie
affrontavano quotidianamente da cinque anni a quella parte. Doveva
essere orribile guardare una persona che si ama autodistruggersi a poco
a poco senza poter fare nulla per impedirlo, vederla precipitare
nell’abisso della depressione e fare di tutto per riportarla
su, senza concludere alcunché.
Riuscì a
separare gli occhi da quelli dell’altro,
ad abbassarli, e quando lo fece, in quell’esatto istante,
seppe che non importava cosa gli sarebbe costato, quanto avrebbe dovuto
sacrificare: lo avrebbe aiutato.
“Non sapevo
che tu fossi-” il tentativo di Adam di
formulare una frase con un significato vagamente più sensato
di ‘ciao’ fu bruscamente interrotto dalle parole di
Tommy, proferite con un tono di voce decisamente più alto di
quanto si sarebbe aspettato da lui.
“Cosa? Che
fossi pazzo?”
Il sorriso sulle
labbra del biondo era così falso e forzato
da fare male. Era una violenza, una violenza terribile, ed era stato
lui ad infliggergliela, era stato lui a distruggerlo a quel modo. Adam
si chiese come avrebbe fatto a guardarsi allo specchio, da quel momento
in poi.
Sophie e Isaac
accorsero all’istante, appena percepirono il
brusco cambiamento dei toni, e probabilmente lei si sarebbe
già scagliata addosso ad Adam per sradicargli ogni singolo
capello dalla testa se il marito non l’avesse mantenuta. Pazzo?! Come poteva
permettersi di usare quella parola? Gli avrebbe cavato gli occhi, oh
sì, lo avrebbe fatto!
Ma non era quella la
parola che Adam intendeva.
‘Pazzo’ era l’ultima parola che avrebbe
usato, l’ultima! Rialzò lo sguardo verso il
biondo, e cercò di parlargli con gli occhi, come faceva un
tempo, di fargli capire quello che intendeva senza proferir parola. E
forse l’altro lo capì, perché
sembrò tranquillizzarsi.
“No. Tu non
sei pazzo.” sussurrò
dolcemente Adam, allungando una mano esitante, per posarla su quella
troppo magra del biondo. Tommy la ritrasse di scatto, come bruciato, e
si rannicchiò nel proprio lato del divano, ma non
abbassò lo sguardo.
Adam
sospirò. “Volevo dire che non immaginavo che
mi amassi così tanto.”
A quel punto il biondo
cedette e, semplicemente, pianse. Senza
singhiozzi, senza sospiri, semplicemente lasciò che le
lacrime gli scivolassero sulle guance. Adam fece per avvicinarsi, per
abbracciarlo, Dio quanto desiderava abbracciarlo, ma l’altro
si alzò, scivolò via da lui e praticamente
fuggì in camera.
Se lo sguardo avesse
potuto uccidere, Sophie lo avrebbe fatto fuori
già da giorni: era odio puro quello che saettava dai suoi
occhi verso il cantante, un augurio delle peggiori sofferenze. Ma
ciò che colpì Adam, paradossalmente, non fu
questo: furono gli occhi delusi di Isaac. Lo guardavano come un
ragazzino potrebbe guardare il proprio idolo fallire, con
quell'amarezza a cui di solito si accompagna la frase mi fidavo di te. Lo
ferirono tremendamente.
“Sei
contento, Adam, uh? Ti senti bene adesso che gli hai
detto le tue belle paroline? Credi che servirà a
qualcosa?!” Sophie sibilava, per evitare che Tommy sentisse,
mentre cercava di sfogare tutto il risentimento che aveva accumulato
nei suoi confronti durante gli ultimi anni e tentava, con grande
frustrazione, di riversarlo in quelle parole cariche di astio.
All'inizio non odiava
Adam, era solo tremendamente delusa dal suo
comportamento. Adesso, invece lo odiava proprio, odiava il suo
atteggiamento, la sua bella faccia, i suoi occhi, le sue mani, i suoi
costosi vestiti e la sua splendida voce. Eppure, sebbene non volesse
ammetterlo, sapeva anche che Adam teneva ancora a Tommy ed era grazie a
quello che sperava almeno di riuscire a ferirlo, di farlo stare male.
Voleva che il comportamento che aveva avuto e che ancora aveva gli
pesasse. Voleva che imparasse ad apprezzare e ad amare la persona che
più meritava la sua considerazione ed i suoi sentimenti.
Tommy, quelle cose, se le era davvero guadagnate: avrebbero potuto
cercare fino in capo al mondo e mai e poi mai avrebbero trovato
qualcuno che meritasse l’amore di Adam più di
quanto non lo facesse lui. Perché quel cretino del cantante
non lo capiva, diamine?
Il moro scosse la
testa e chiuse gli occhi, rilassandosi contro la
spalliera del divano.
“Non sapevo
stesse così. Se vi foste preoccupati
di farmelo sapere, magari tutto questo non sarebbe successo.”
sbottò in risposta, cercando di scacciare via un
po’ di quei sensi di colpa che gli gravavano sul petto.
Perché era sempre così dannatamente
inadatto? Perché sbagliava sempre tutto?
“Fartelo
sapere?” Fu Isaac a parlare stavolta.
“Hai detto che non volevi vederlo mai più.
Di solito se non vuoi vedere più una persona non ti importa
nemmeno delle sue condizioni di salute.” lo disse in tono
piatto e ironico, quasi volesse sfidarlo.
Adam scosse ancora la
testa. Perché poi prendevano
così sul serio le sue parole quando era evidente che erano
state pronunciate in un momento di rabbia e senza riflettere?
“Non
intendevo quello che ho detto...”
mormorò, mordicchiandosi il labbro e guardando verso i due
vecchi amici, come a cercare approvazione.
Isaac roteò
gli occhi e si scambiò uno sguardo
con la moglie; scosse la testa, per poi voltarsi e andare da Tommy in
camera, senza dimenticarsi di scoccare al cantante uno sguardo scettico.
Sophie fece una
smorfia. “Beh, sai
qual’è l’ultima, Adam? Lo hai detto. E te
ne sei andato e non ti sei mai preoccupato di tornare, di chiedere
scusa, di ammettere che avevi sbagliato. Perché la
verità è che sei uno stronzetto egoista ipocrita
e tutto ciò di cui ti importa sono i tuoi schifosi soldi ed
il tuo successo di merda! Beh, tieniteli! Quando sarai vecchio, solo, e
scontento della tua vita ci saranno loro a consolarti, i tuoi soldi,
non è così?! Tommy invece avrà noi. E
ci avrà sempre, perché noi siamo la sua famiglia.
Noi lo amiamo. Lo hai mai almeno amato, Adam? Sai almeno cosa vuol
dire?”
Tutto gli crollava
addosso, pezzo dopo pezzo, ogni frammento di
quell’armatura dietro la quale si era protetto da
sé stesso e dai propri errori. Ogni parola di Sophie era
così vera da penetrargli sottopelle e restare lì,
come l’inchiostro di un tatuaggio.
In quel momento
sentiva che doveva odiarla, per tutto ciò
che gli stava rinfacciando, invece la verità era che sentiva
di volerle bene più di quanto avesse mai fatto in tutta la
sua vita.
La guardò
ed annuì, come se fosse una risposta,
ma la realtà era che non sapeva cosa rispondere: non era
più certo di nulla. Credeva di averlo amato, ma credeva
anche di non aver mai smesso, e credeva di amare Sauli e di essersi
dimenticato di chiunque altro. Credeva tante, troppe cose, e questo
loro sbucar fuori tutte assieme all'improvviso lo spaventava.
Lei sbuffò.
“Sai che non ti ho ancora rotto il
naso solo perché so che Tommy si arrabbierebbe? E sai che
devi solo provare a guardarlo storto che-”
Adam la interruppe.
“Meriterei di peggio di un naso rotto,
Sophie.” giunse le mani e la guardò con aria quasi
supplicante. “Dimmi solo cosa posso fare perché
lui stia meglio – qualsiasi cosa di cui lui abbia bisogno:
soldi, medicine, cliniche private...”
Sophie lo
guardò severamente.
“Ha bisogno
di amore, Adam.”
–
– – –
“Credo che
sia meglio che io vada.”
Adam si
alzò dal divano e si avvicinò ad Isaac
per salutarlo, ma lui lo scostò e lo costrinse a limitarsi
ad un cenno. Con Sophie neanche tentò. Arrivato a Tommy gli
sorrise, mormorando un saluto, e si avviò verso la porta.
Quando lo vide
voltarsi ed andare via, Tommy sentì un
familiare senso di soffocamento alla gola. Se ne stava di nuovo
lì in piedi, immobile, a guardare Adam che se ne andava.
Avrebbe dovuto aspettare altri cinque anni per vederlo ancora?
Perché non poteva semplicemente restare? Il battito cardiaco
accelerò e lui iniziò a respirare affannosamente.
Non gli aveva ancora chiesto scusa! Non poteva aspettare ancora ed Adam
non poteva andare via, non poteva essere già finita. Tremava
e la nausea già gli attanagliava lo stomaco, ma
riuscì sorprendentemente a fare qualche passo barcollante
verso Adam. Lo chiamò flebilmente, la gola secca e la testa
che gli girava. Lo abbracciò con tutte le forze che aveva,
aggrappandosi alla sua camicia come se fosse l’unica cosa che
gli avrebbe impedito di morire. Chiuse gli occhi. Le braccia forti di
Adam lo sorreggevano e sentiva la sua voce agitata, ma non
gl’importava cosa stesse dicendo. Era solo un altro
dannatissimo attacco di panico, sarebbe passato. E anche se fosse morto
lì, tra le sue braccia, sarebbe morto felice.
L’importante era che Adam non andasse via.
L’importante era non lasciare la presa.
Probabilmente
mormorò qualche ‘scusa’ e
qualche ‘non andare’, non ne era certo, ma gli
sembrò di farlo prima di accorgersi di avere le labbra
serrate. Sentì Isaac intimare ad Adam di mantenerlo forte e
qualche minaccia non meglio identificata, mentre lui semplicemente
stringeva più forte la presa su quella camicia che profumava
di casa, tremava sebbene avesse caldo e cercava disperatamente di
riprendere fiato e di calmarsi.
Alla fine, quando
tutto passò, era sudatissimo.
Iniziò improvvisamente a sentire freddo. Si strinse
più forte al moro, affondando il viso nel suo petto, mentre
lui lo stringeva in un abbraccio caldo.
“Non te ne
andare, Adam... Non te ne andare...”
mormorò, il fiato corto e i tremiti di freddo che lo
scuotevano tutto. “Resta, ti prego...”
Il cantante ebbe un
secondo di esitazione durante il quale
guardò Isaac e Sophie, cercando di capire cosa si
aspettassero da lui. Il biondo non se ne accorse, aggiunse solo qualche
flebile supplica che unicamente Adam sentì, ed il suo
abbraccio disperato e tremante si fece ancora più stretto.
“Sono qui.
Non vado da nessuna parte, Tommy, sono
qui.”
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Capitolo 4 *** Faraway ***
Note: Eccomiii! Dopo
un bel po', lo so, capisco, ma abbiate pietà di me. Almeno
non ho abbandonato la storia, no? :3
La mia vita da vuota e
priva di senso che era è diventata
fin troppo piena e stressante e ho avuto troppo poco tempo da dedicare
alla depressione di questa storia... Ma ora sono quii! :3
La mia beta Stefania
mi ha fatto i complimenti per questo capitolo, e spero voi lo
apprezzerete quanto ha fatto lei. Non odiatemi troppo Adam, pensate a
quanto è bello Matthew, sì? *-*
Vi amo!
04
Faraway
Scappare.
L'unica cosa che
desiderava era scappare.
Anche mentre diceva a
Tommy che era lì con lui, mentre
quello si stringeva ai suoi vestiti tanto forte che le sue nocche erano
sbiancate più di quanto non lo fosse lui, Adam voleva essere
ovunque tranne che lì. Il biondo si era categoricamente
rifiutato di lasciarlo e lui l'aveva trattato dolcemente, come si
tratta un bambino o un'animale. Con amore, si potrebbe dire. Ma
ciò che provava per lui assomigliava vagamente alla
repulsione, corredata da tantissima paura. Non lo dava a vedere, non lo
avrebbe fatto mai, ma non voleva essere toccato, non voleva guardarlo,
non voleva vedere il suo viso scavato, le occhiaie scure, gli occhi
vuoti, le mani deboli e i polsi magri, quella fragilità
così sincera ed evidente che aveva paura che anche solo
guardandolo avrebbe potuto farlo a pezzi. Non voleva ascoltare la sua
voce flebile, le sue parole soffiate delicatamente da labbra
terribilmente pallide e screpolate, non voleva vederlo rifiutarsi di
mangiare neanche una volta ancora, per non parlare di quegli attacchi
di panico: lo terrorizzavano!
Persino in
quell'istante, mentre Tommy dormiva stringendogli la mano,
la parte più razionale di Adam sembrava urlargli di fuggire
via e non tornare mai più, di divincolarsi da quella presa
calda, lasciarlo lì addormentato, voltarsi e scappare senza
guardare mai più indietro. Voleva tornare a casa, avrebbe
dovuto farlo, invece se ne stava lì e lo
fissava, angosciato
come non lo era mai stato in tutta la sua vita. Aveva dato un'occhiata
alla vita di Isaac e Sophie, aveva avuto un assaggio di ciò
che loro provavano ogni giorno, e non voleva saperne oltre. Faceva
troppo male. Sperava che fuggendo sarebbe stato capace di dimenticare
tutto quello, la rabbia e l'odio di Sophie, la delusione di Isaac, la
terribile tristezza – e allo stesso tempo l'infinito amore
– che si respirava in quella casa. Tentava di persuadersi che
non gliene importasse nulla, ma suo malgrado non era così,
non sapeva perché. Qualche parte di lui – la sua
coscienza, sospettava – continuava a ripetergli che doveva
restare, che doveva dare una mano. Non c'era un motivo preciso, era
come un suo compito,
come se dovesse loro qualcosa. Magari
perché gli avevano voluto bene (e forse gliene volevano
ancora): okay, non erano più quelli che erano stati un
tempo, erano cambiati ed assieme a loro, forse, lo erano anche i
sentimenti che provavano per lui, ma ad Adam non era successo lo
stesso. Forse per il modo in cui li aveva persi, forse
perché di amici veri non ne aveva mai avuti tanti, forse
perché dopo di loro non aveva mai più legato con
nessuno allo stesso modo, ma gli mancava tutto quello che per un breve
quanto magnifico periodo aveva avuto e che poi aveva gettato via. O
forse perché... forse perché Tommy voleva dire
ancora tanto per lui e non poteva vederlo così,
semplicemente non poteva.
Era proprio vero che
il valore di ciò che si ha lo si
capisce quando lo si perde. Solo adesso capiva a cosa aveva rinunciato
cinque anni prima, di quanti sentimenti si era privato per seguire i
propri sogni. E (forse) un po' se ne pentiva.
Nonostante tutto
ciò, nonostante conoscesse perfettamente il
valore di ciò che aveva lì, in quell'istante,
continuava a non voler restare nella stanza. A dire la
verità, non voleva neanche guardare Tommy un
secondo di
più, oppure – ne era certo – ne sarebbe
stato distrutto. Forse, se fosse andato via subito, l'altro non avrebbe
sofferto così tanto. Forse Sophie aveva ragione a
disprezzarlo, perché era un codardo ed in quell'istante
avrebbe anche ucciso Tommy nel sonno se in cambio avesse ricevuto
indietro la propria serenità. Sì, gli importava
di se stesso e no, non si sentiva in colpa per questo. Non doveva
sentirsi in colpa perché cercava di essere felice. Si
sentiva in colpa perché Tommy non lo era, ma sapeva anche
che la responsabilità non era prropria: la
felicità va cercata in sé stessi e Tommy
sbagliava ad affidare la propria nelle mani di altri; i suoi genitori,
la sua ragazza, la sua band, la musica, Adam, ed ora Isaac e Sophie:
mai una volta che fosse stato felice per se stesso, senza motivo,
semplicemente per
sé.
Guardò
Tommy, anche se non voleva, anche se faceva male, lo
guardò e desiderò dirgli addio. Non lo aveva mai
fatto. Avrebbe preferito uno di quegli addii agrodolci, quelli in cui
ci si abbraccia e ci si promette che no, non è finita
lì, ma in fondo si sa che è proprio
così. Provò a mormorarlo, ma qualcosa lo
fermò (forse il fatto che stesse per scoppiare a piangere?).
Sospirò. Non ce la faceva. Forse non era un addio quello,
forse l'addio c'era stato tanti anni prima, e non si poteva far
più nulla ormai per cambiarlo, era troppo tardi.
Divincolò
delicatamente la mano dalla stretta di Tommy ed
uscì in silenzio dalla camera. Attraversò il
corridoio consolato dal pensiero che presto sarebbe stato a casa, da
Sauli, dov'era il suo posto.
“Devo
tornare a New York.” Annunciò
pacatamente a Sophie che se ne stava accoccolata sul divano, guardando
la TV senza davvero vederla.
La donna
annuì. Aveva i capelli raccolti in una morbida
coda, ma molti ciuffi castani erano sfuggiti all'elastico e le
ricadevano sul viso. Prima che Adam parlasse sembrava allegra, come se
avesse ricevuto una buona notizia, e nonostante si fosse voltata verso
di lui con l'aria neanche minimamente interessata, era evidente che un
po' dell'effimera felicità che le si poteva leggere sul viso
qualche istante prima, stava già scomparendo mentre lei
distendeva le labbra in un sorriso ironico.
“Lo
so.” rispose semplicemente.
“Lo
sai?”
“Lo
sospettavo. Tranquillo, Tommy sopravviverà
anche a questo, me ne assicurerò personalmente. Non che ti
interessi, era per dire.” fece spallucce e ritornò
a fissare il televisore, anche se apparentemente sembrava
più impegnata a cercare di recuperare quella flebile gioia
da qualche parte nella propria mente.
“Ancora
convinta che non mi interessi? Perché ne
sei così sicura?”
Quelle frasi lo
ferivano nell'orgoglio, non c'era nulla da fare.
Neanche lui aveva le idee chiare su che cosa provasse in quel momento o
sul perché stesse scappando, cosa diamine voleva saperne
lei? Gli era sempre importato degli altri, e solo perché in
quel momento era confuso e aveva bisogno di schiarirsi le idee non
significava certo che per lui la cosa non avesse importanza.
“Perché
stai andando via. Lo stai lasciando, di
nuovo. Preferisco pensare che non ti interessi, piuttosto che pensare a
te come ad un misero codardo che non sa neppure affrontare le
conseguenze delle proprie azioni.”
Adam la
guardò duramente, poi uscì sbattendosi la
porta dietro.
–
– – –
“Cosa
gli diciamo adesso? Dimmelo tu cosa gli
diciamo!”
Isaac roteò
gli occhi e incrociò le braccia.
“La verità. Cosa dovremmo dirgli?”
Sophie era furiosa.
Aveva gli occhi rossi di lacrime, ma non lacrime di
tristezza, lacrime di rabbia, di impotenza: non era giusto che quella
cosa accadesse di nuovo, che Adam distruggesse la vita di Tommy ancora
una volta senza neanche accorgersene, trattandolo con la stessa cura
che si riserva ad uno straccio vecchio. Non ne poteva più di
vedere quella vita che tanto le era cara distrutta da uno stupido
errore, quello di aver concesso la propria fiducia alla persona
sbagliata: era straziante. In più, non aveva idea di cosa
pensasse Tommy, di cosa dirgli per farlo stare meglio, e le sue parole
sembravano sempre inutili e stupide, confrontate con il dolore che
Tommy si trovava a dover affrontare.
“Sai che ti
dico, Isaac? L'idea è stata tua e io
ne ho abbastanza di dover affrontare le conseguenze della
stupidità degli altri! Assumiti la responsabilità
delle tue azioni e vai tu a dirglielo!” urlò,
arrabbiata come suo marito l'aveva vista poche volte. Isaac sapeva che
non ce l'aveva con lui, che desiderava solo che il loro migliore amico
la smettesse di soffrire senza ragione, che ricominciasse a vivere per
davvero, ma non poté evitare di sentirsi tremendamente in
colpa: era vero, era colpa sua. Aveva pensato di far contento Tommy
facendogli rivedere Adam, senza tenere in considerazione il carattere
del cantante, che era sempre stato un po' instabile e complesso. Si era
fidato di Adam, ed aveva sbagliato. Prima che tutto quello accadesse,
Tommy era sempre stato l'unico a sapere come comportarsi con lui e come
conviverci a stretto contatto senza litigarci mai (o quasi).
“Dirmi
cosa...?”
Tommy
sembrò spuntare dal nulla ed Isaac e Sophie sgranarono
gli occhi per qualche istante, giusto il tempo di scambiarsi uno
sguardo sorpreso e spaventato, prima di tentare di fingere che stessero
parlando di qualcun altro. Nessuno dei due poteva fare a meno di
pensare che se avessero detto la verità, il loro amico ne
sarebbe rimasto distrutto; ma d'altro canto, Tommy li scrutava con
attenzione, ad assicurarsi che non gli raccontassero bugie, quindi si
sarebbe quasi sicuramente accorto che mentivano.
Sophie fece lo stesso
un tentativo: “Non parlavamo di
te..”
Il biondo neanche la
lasciò parlare.
“Cos'è
che dovete dirmi?”
ripeté. Conosceva già la risposta e sapeva quella
che credevano saprebbe stata la sua reazione. Ma non era certo che
avrebbe reagito; probabilmente sarebbe stato lì a fissare il
vuoto per qualche settimana, prima che la concretezza di tutto quello
lo investisse.
In ogni caso, gli
interessava che gli rispondessero sinceramente
perché voleva che la smettessero di trattarlo come un
bambino traumatizzato: aveva trentasette anni, poteva affrontare la
realtà, non dovevano prendersi loro il peso dei suoi guai!
“Adam
è tornato a casa.”
sussurrò Isaac, dopo essersi scambiato un'occhiata
rassegnata con Sophie, interrompendo il corso dei pensieri di Tommy.
“Lo
so.” annuì il biondo, facendo
spallucce. “Sapevo che sarebbe andato via da quando ieri sera
mi ha baciato la fronte, mentre pensava che dormissi.”
aggiunse con voce piatta, per poi fare spallucce e poggiarsi al tavolo.
“E...
come... come ti senti?” balbettò
Sophie, sgomenta. Come Tommy riuscisse, certe volte, a decifrare Adam
con la stessa facilità con cui avrebbe letto un cartellone
pubblicitario era sempre stato un mistero per tutti.
Il biondo
alzò lo sguardo e puntò gli occhi in
quelli castani della donna. Come si sentiva? Devastato era un
eufemismo. Quando le labbra di Adam si erano allontanate dalla propria
fronte aveva iniziato a tremare violentemente, e aveva dovuto ingoiare
le lacrime. Ogni volta che per caso ritornava in contatto con Adam, era
come rivivere ancora quell'addio. Bastava anche solo sognarlo, o
ricordarlo, e tornare alla realtà significava sprofondare un
po' più in basso nel baratro, ed essere sfiorato da lui era
una spinta giù fino al fondo.
Guardò
Isaac: i suoi occhi verdi lo scrutavano preoccupato,
con quell'espressione sofferente – Tommy odiava essere la
causa di quel dolore. I suoi due amici desideravano solo che lui stesse
bene. Era tutto quello che volevano. Perché non soddisfarli,
allora?
“Come mi
sento? Non sento più nulla... Mi sento
quasi bene.”
–
– – –
“Come ti
senti, Tommy?”
Matthew, o meglio il
dottor Davis, lo psicoterapeuta, lo guardava con
una tale intensità e concentrazione da far sembrare che
volesse leggergli il pensiero. Teneva la penna sospesa ad un centimetro
dal blocco degli appunti ed ogni tanto scriveva qualcosa, senza mai
abbassare lo sguardo. Era la seconda volta che gli poneva la stessa
domanda, con quella voce pacata e rassicurante che era sempre stata una
sua caratteristica, ma Tommy non pareva avere neanche la vaga
intenzione di rispondere; si tormentava le mani e si guardava intorno,
senza mai rivolgere gli occhi verso l'uomo nonostante sentisse il suo
sguardo bruciargli sul viso.
Non riuscì
a sopportare a lungo quel silenzio e quello
sguardo insistente che gli pesava addosso – le gare di
resistenza non erano mai state il suo forte – e fu solo per
quello che si decise ad aprire bocca.
“Possiamo
parlarne la prossima volta?”
Matthew scosse la
testa e sospirò con aria esasperata.
Doveva ammettere che dopo quatto anni e mezzo era molto affezionato a
quel paziente ed al suo caso, tanto che era uno dei pochi che non
avrebbe mai lasciato a qualcun altro, ma a volte Tommy era davvero
impossibile.
“Perfetto.
Allora di cosa parliamo nei prossimi-”
Matthew lanciò un'occhiata all'orologio
“-quarantatré minuti?”
Il biondo
scivolò ancora nel silenzio e il suo
psicoterapeuta non staccò un secondo gli occhi da lui,
mentre annotava qualcosa sul foglio.
Tommy lo ammirava
profondamente: per tutte le cose che gli aveva
spiegato, per via di tutti i consigli che gli aveva dato, Tommy se lo
era figurato come una persona forte ma sensibile, risoluta ma non
prepotente, solare nei momenti giusti ma mai distrutta in quelli
difficili. Avrebbe voluto avere la stessa forza d'animo. Avrebbe voluto
essere meno vulnerabile all'amore di Adam.
“Dillo, ti
sentirai meglio. Come ti senti?” lo
incoraggiò ancora il dottore.
Tommy fece un lungo
sospiro e raccolse tutta la forza di
volontà che aveva per decidersi a parlare. Non voleva
perché sapeva che avrebbe reso tutto più reale,
ed era già abbastanza vero e tangibile così.
“Usato.”
mormorò, con quel suo modo di
parlare telegrafico e quel suo tono di voce sempre troppo basso.
“Perché?”
lo incitò ancora
Matthew.
Il biondo si
passò una mano tra i capelli, mordicchiandosi
nervosamente le labbra. Era ovvio il perché. Come si sarebbe
sentito chiunque altro, in una situazione simile? Però c'era
anche quella sensazione, quel presentimento che non fosse finita
lì, che lui sarebbe tornato. E sebbene ci avesse messo un
po' a sopraggiungere – all'inizio era semplicemente troppo
devastato per accorgersi di essere ancora capace di provare qualcosa
– era una sensazione forte, che non gli aveva ancora permesso
di assimilare ciò che era successo. Era come se fossero
ancora ai bei vecchi tempi, ed Adam fosse andato via per un'intervista,
o per un photoshoot.
Ma non voleva parlarne
con nessuno: voleva tenere ciò che
sentiva per sé, perché proprio non ne poteva
più di vedere gli altri soffrire per lui o compatirlo. Forse
stavolta sarebbe riuscito a riconquistarsi una vita normale anche senza
di lui, pensava, ma nel suo profondo sapeva perfettamente che nulla
sarebbe mai finito se il suo presentimento fosse stato sbagliato, se
Adam non fosse tornato.
“Non devi
dire nulla ad Isaac e a Sophie.”
mormorò Tommy, tornando a forza alla realtà e
scambiandosi un breve sguardo con l'uomo seduto sulla poltrona davanti
a lui.
“Ho la bocca
cucita.” Gli rispose il dottore,
chiudendo la penna con uno scatto e posandola sulla scrivania,
rivolgendo a lui piena attenzione, come a conferma di ciò
che diceva.
Tommy annuì
un paio di volte, si convinse che era la cosa
giusta da fare. Osservò con attenzione le dita della propria
mano destra, che battevano ritmicamente sul polso sinistro. Si rese
improvvisamente conto che aveva voglia di ascoltare musica e magari di
riprendere la chitarra. Aveva voglia di qualcosa ed era un enorme passo
avanti: non gli succedeva da anni!
Sebbene fosse felice
di ciò che aveva appena realizzato,
aveva anche la terribile paura che significasse che stava guarendo e
che, assieme alla malattia, anche i sentimenti che provava sarebbero
andati via, come se fossero stati la stessa cosa. Temeva che quella
sensazione che Adam fosse tornato, quel proprio non realizzare che
invece era andato via e probabilmente non l'avrebbe visto mai
più, non fosse che il primo passo verso l'addio definitivo,
verso il momento in cui non gli sarebbe più importato nulla.
“Ha
preferito lui a me, per l'ennesima volta.”
Iniziò Tommy, prima di serrare le labbra in un sorriso
amaro, continuando a guardarsi le mani. Sospirò.
“E io mi sento un po' meglio.”
Sì, si
sentiva meglio e poi si sentiva peggio
perché aveva promesso che l'avrebbe amato tutta la vita e se
non avesse mantenuto la promessa, si sarebbe sentito in colpa una vita
intera, con Adam, ma soprattutto con sé stesso e con il
mondo.
“Ti senti
meglio?” il dottor Davis lo guardava con
un'espressione stranita, come Tommy non gliene aveva mai viste. Lo
osservò per un po', poi annuì lentamente.
“So che
tornerà.” ammise, arrossendo
appena.
“Lo
sai?” ripeté l'uomo, passandosi una
mano tra i capelli e sospirando. Aveva un'aria esasperata, ma in quel
momento Tommy si rese conto che non gli importava del suo giudizio
né di quello di chiunque altro. Ricordava il modo in cui
Adam gli aveva premuto le labbra sulla fronte: aveva esitato, e ci
aveva ripensato subito, tirandosi indietro dopo avergliela sfiorata;
eppure in quegli istanti Tommy aveva capito qual'era il conflitto
interiore che scorreva nelle vene dell'altro, che lo faceva sembrare
così tormentato: andare o restare? Giusto o sbagliato? Lo
amo o non l'amo? La vita che mi sono conquistato o il passato che mi
sono obbligato a lasciare indietro? La luce o questo baratro?
Sapeva che sarebbe
tornato perché quando aveva deciso di
baciargli la fronte, aveva deciso di restare e di buttarsi in quel
baratro. Poi aveva avuto paura, ma quello che non sapeva era che una
volta che ci si è gettati, si cade, è
inevitabile. E una volta caduti, non si risale così in
fretta.
Sarebbe tornato, Adam,
perché solo insieme potevano
risalire: era sempre stato così.
“Sai che ti
stai illudendo, Tommy?”
Il biondo non rispose,
ma non ce n'era davvero bisogno. Non era stato
difficile per Matthew capire che no, non lo sapeva.
–
– – –
“Perché
non me ne parli?”
Isaac era andato a
prenderlo. Di solito era Sophie a farlo, un po'
perché lui aveva da lavorare, un po' perché
odiava avere a che fare con il dottor Davis: all'inizio sosteneva che
era inutile mandare Tommy lì, non era pazzo, diamine, era
solo ferito, poteva uscirne da solo e non aveva bisogno di
psicofarmaci; ma quando la realtà lo aveva contraddetto e il
suo amico era peggiorato sempre di più, si era trovato
costretto a cedere e aveva automaticamente sviluppato un odio mal
celato per qualunque cosa c'entrasse con le “cure”
per la “malattia” dell'amico. Accettava le sue
crisi, accettava la depressione, poteva accettare persino che si
rifiutasse di mangiare, ma mai e poi mai avrebbe accettato
completamente quelle pillole né tanto meno le visite da uno
psicoterapeuta evidentemente incapace che si succhiava i loro soldi da
cinque anni senza risultati – o meglio, con risultati
più o meno evidenti ogni volta vanificati da Adam, in
qualche modo.
In quel momento stava
guidando verso casa, gli occhi che dalla strada
saettavano verso Tommy a intervalli quasi regolari, mentre rifletteva.
Aveva deciso di andare a prenderlo perché dovevano parlare e
sapeva che il ragazzo si sarebbe aperto con lui molto più
facilmente di quanto avrebbe fatto con Sophie.
“Non
c'è nulla da dire.” Tommy
impiegò un po' a rispondere, come sempre. Ma stavolta la sua
mente sembrava più tranquilla, meno frenetica dietro la sua
espressione impassibile e un po' triste. Forse era vero che stava
meglio? Forse alla fine aveva deciso che non valeva la pena di correre
dietro a quel cretino che tanto amava?
“C'è
sempre qualcosa. Noi ci siamo sempre detti
tutto, non devi aver paura di parlare di ciò che
provi...” lo incoraggiò Isaac. Accostò
l'auto per voltarsi a guardarlo e rivolgergli la sua completa
attenzione. Lo scrutò cercando i suoi occhi, tentando di
capire cosa stesse pensando.
“Sto
bene.” mormorò il biondo dopo
qualche istante. Non alzò lo sguardo, teneva gli occhi
testardamente puntati sulle proprie mani, che si tormentava
nervosamente.
Isaac
sbuffò. Stava bene, certo. Era miracolosamente
guarito, non era così? Ora avrebbe ripreso a suonare e a
lavorare, avrebbe iniziato una qualche carriera e la loro vita sarebbe
finalmente tornata alla normalità, giusto? Magari fosse
stato così facile.
“Okay,
facciamo che non ne vuoi parlare. Posso dirti qualcosa
io?” domandò, aspettando il suo cenno d'assenso
prima di continuare. Fece una breve pausa e sospirò:
“Non ti merita. E so che te l'ho detto mille volte, ma
davvero, non merita un briciolo dell'amore che provi per lui. Sei una
persona magnifica, una di quelle che non si può non amare.
Dai tutto te stesso a chiunque e lo so che non riesci ad accettare
quello che è successo... ma è successo cinque
anni fa...”
Il biondo fu
attraversato da diverse sensazioni. All'inizio non voleva
neanche ascoltare, ancora una volta quel discorso, ancora una volta
quelle stupidaggini sul come dovesse smetterla di amare Adam
– come se fosse persino possibile
decidere di smettere di
amare qualcuno – ma poi, un grande senso di gratitudine e
tanto affetto gli avevano riempito il cuore, perché era da
tempo che qualcuno non gli faceva complimenti – che Isaac non
gliene faceva. E per quel motivo riuscì a perdonargli anche
il fatto che gli stava ripetendo per la milionesima volta un discorso
inutile che non avrebbe portato a nulla.
“Non voglio
dire che non ha importanza...”
continuò il moro, probabilmente resosi conto che non era una
buona idea sminuire la causa di tutto quel dolore. “Voglio
dire che hai un cuore grande e così tanto amore da dare, e
quando dai, dai, dai e non ti torna indietro nulla e finisci per
svuotarti. Questo è quello che ti sta accadendo, da quando
lui è andato via.” Un brivido rotolò
giù per la schiena di entrambi gli uomini, quella del biondo
perché quelle parole erano spaventosamente vere, e quella
del moro perché oltre che vere, erano terribili.
“Perché invece di rivolgere tutti questi
sentimenti a lui che non li vuole e non li merita e a cui non importa,
non provi a dare il tuo amore a qualcuno che ti ricambi?”
concluse Isaac, esprimendo un concetto che sebbene fosse sempre stato
sottinteso nei loro discorsi, non era mai uscito fuori per davvero,
perché tutti loro sapevano che era stupido, che non si
può decidere di punto in bianco di amare qualcuno o di non
farlo. Ma – Isaac pensava – dopo tutto quel tempo,
'di punto in bianco' non era certo un'espressione che si poteva usare.
Ci sarebbe riuscito a mettere la parola fine a quel maledetto
sentimento unilaterale che provava l'amico, si ripromise. Fosse stata
anche l'ultima cosa che avrebbe fatto, ci sarebbe riuscito.
“Lo faccio
già, Isaac, amo te.”
ribatté Tommy, facendo spallucce. Gli sembrava ovvio. Forse
non sapeva dimostrarlo, forse non era evidente, ma era il suo amico
l'unica cosa che lo manteneva ancorato alla realtà, che lo
costringeva ad andare avanti, che lo faceva sentire importante anche
negli istanti più cupi: era il suo punto fermo, la sua
roccia, l'unica persona di cui si fidava ciecamente; se gli avesse
detto di suicidarsi, Tommy l'avrebbe fatto – probabilmente
anche volentieri – ma Isaac gli aveva detto di non andarsene,
che valeva la pena di vivere, ne valeva la pena davvero, e Tommy gli
aveva creduto. Ed ora eccolo lì, che ancora tentava
disperatamente di rimettere insieme i cocci di una vita che sapeva non
poteva essere più ricomposta senza il pezzo più
importante, l'unico che mancava.
“Me?”
La naturalezza con cui Tommy aveva
pronunciato quelle parole sconvolse un po' Isaac – cosa
voleva dire che lo amava? E poi, era davvero così facile per
il suo amico, l'amore? Dopo tutto quello che aveva passato, era ancora
così, bianco o nero, vero o falso, amore o odio?
“Non quanto
amo lui, ovvio, ma quasi.” rispose il
biondo, sicuro. Non aveva mai fatto mistero dei propri sentimenti con
nessuno e lo sgomento di Isaac lo lasciava un po' stranito. Qual'era il
problema? Era così semplice amare, così facile
affezionarsi a qualcuno, così naturale avere fiducia in una
persona. I sentimenti sono la cosa più facile del mondo:
sono le persone ad essere complicate.
“Vuoi dire
che tu vorresti... stare... cioè... con
me?” mormorò il moro, esitante, guardandolo un po'
spaventato. Era qualcosa di assurdo per lui, totalmente inaspettato:
mai era arrivato a pensare ad una cosa del genere. Era possibile che il
suo amico provasse per lui qualcosa di così intenso?
Tommy roteò
gli occhi.
“Perché
devi sempre essere malizioso?”
borbottò. “È amore platonico,
ecco.” continuò, incrociando le braccia ed
arrossendo teneramente.
Isaac sorrise, non
poté farne a meno vedendo le guance
dell'altro colorarsi di rosso e lui abbassare lo sguardo imbarazzato.
Allungò una mano a prendere la sua e gli rivolse un sorriso
tra i più sinceri da mesi e mesi a quella parte. E quando
Tommy gli rivolse lo sguardo, ciò che Isaac vide lo
riempì di così tanta gioia che si sarebbe messo a
cantare: anche Tommy stava
sorridendo.
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Capitolo 5 *** Paraklausìthyron ***
Titolo: Bright Light
Autore: itsjjoy
Fandom: RPF Adam
Lambert
Genere: Angst,
Introspettivo, Romantico
Tipologia: Long Fic
Conteggio Parole:
(capitolo) 3517
Pairing/Personaggi: Adam
Lambert/Tommy Joe Ratliff; Adam Lambert/Sauli Koskinen; Isaac
Carpenter
Rating: Giallo
Avvertimenti: Slash,
Het, What if?, OOC
Note: Eccomiii! In
super-mega-extra ritardo bestiale, ma per fortuna la scuola
è finita u.u
Un capitolo che io ho trovato abbastanza difficile da scrivere, una
vera sfida, il POV di Sauli è qualcosa di stressante e
difficile T__T Ma se sono riuscita in questo, riuscirò in
tutto u.u
Sta storia è troppo depressa comunque .__. Non scopa
nessuno, alla lunga annoia u.u
LOL
Scusate, davvero, vi lascio alla storia che è meglio
T_______T
P.S.: ditelo che il titolo è un tocco di classe u.ù
05
Paraklausìthyron
Aperta la
porta di casa a mezzanotte, dopo un volo passato a tormentarsi e un
lunghissimo viaggio in taxi nella trafficata New York delle undici di
un venerdì sera, in compagnia di un autista invadente e
chiacchierone, Adam non si aspettava certo suo marito seduto in salotto
ad aspettarlo a braccia aperte, né men che meno in cucina a
preparargli la cena, anche perché non lo aveva avvertito che
sarebbe tornato; si aspettava, però, di trovarlo a letto a
dormire o perlomeno di trovarlo in casa. Dopo aver controllato in tutte
le camere, invece, dovette appurare che no, a casa proprio non c'era,
non era da nessuna parte e non c'era neanche la sua macchina.
Probabilmente era da qualche amica a dormire: gli aveva accennato che
non gli piaceva dormire da solo – la casa era enorme ed era
sinceramente molto triste stare lì senza una compagnia
– e che quindi probabilmente avrebbe passato le notti dalla
loro amica Karen. Adam avrebbe chiamato per controllare se era
lì, ma era tardi e non voleva disturbare.
Posò la valigia in un angolo della camera, si
sfilò le scarpe e i vestiti, lasciando tutto sul pavimento,
e si infilò sotto le coperte. Avrebbe voluto addormentarsi
subito, ma sapeva che era una pretesa assurda. Il viso scavato e gli
occhi vuoti di Tommy continuavano a balenargli davanti agli occhi non
appena li chiudeva e lui continuava a chiedersi per quale assurdo e
insensato motivo fosse andato a Burbank, perché avesse
aspettato tutto quel tempo solo per vedere il suo ex sapendo che
– ammise finalmente a se stesso – non aveva mai
smesso di provare quei sentimenti strani e complicati per lui; gli
stessi sentimenti che li avvicinavano e li allontanavano neanche
fossero calamite impazzite che cambiano polo a proprio piacimento, gli
stessi sentimenti che in tutto quel tempo che erano stati lontani ogni
tanto gli assalivano il cuore e gli facevano passare ore intere a
fissare le loro foto (che conservava con gelosia, nascoste in un
libro), che gli ispiravano canzoni tristi e strappalacrime sugli amori
perduti e qualche volta lo facevano anche piangere. Se ne vergognava e
con quella visita forse voleva dimostrare a sé stesso che
davvero non gli importava nulla di Tommy, un
“ex-ragazzo” che non era mai stato davvero il suo
ragazzo ma non era neanche davvero il suo ex, che non era niente eppure
era tutto e che aveva così tanto potere su di lui che aveva
dovuto allontanarlo, perché sentiva che altrimenti avrebbe
perso il controllo della propria vita.
All'una e mezza era ancora sveglio a fissare il soffitto, mentre le
coperte erano un vero e proprio disastro: attorcigliate attorno alle
gambe, gli scoprivano le spalle ed aveva freddo. Aveva il cellulare
stretto in mano ed ogni tanto guardava l'orario, pensando a quanto
lentamente stesse passando il tempo e a quanto fosse stato stupido ad
andare di nuovo via.
Ad un certo punto una folle idea lo fulminò e lui non
esitò a metterla in pratica finché era ancora
troppo poco lucido per ripensarci. Sbloccò lo schermo del
suo nuovo iPhone ultimo modello (l'aveva comprato il mese prima) e in
pochi minuti scrisse e cancellò lo stesso sms una decina di
volte, prima di decidersi a inviarlo.
A: Isaac
Probabilmente
non mi risponderai, ma posso restare in contatto con Tommy in qualche
modo? Vederlo così mi ha fatto davvero stare male e vorrei
fare qualcosa. So che non ci crederete mai, ma ci tengo a lui. Tanto.
Mi
dispiace di essere andato via così, ma faceva troppo male.
Vi prego di perdonarmi...
Vi
voglio bene.
Adam
Non lo aiutò a dormire meglio, ma chissà, magari
sarebbe servito a qualcosa.
–
– –
–
Quando Sauli rientrò a casa, la mattina dopo, si accorse
subito che Adam era tornato: come non notare che il suo uragano
personale era entrato in casa? Il cappotto era stato buttato in malo
modo sul divano, sul tavolo della cucina c'era un bicchiere mezzo pieno
e una bottiglia d'acqua ancora aperta (fortunatamente almeno il frigo
era chiuso!), due sedie erano state allontanate dal tavolo e la tenda
della finestra era scostata. Sauli sorrise tra sé e
sé, sistemando in pochi minuti il caos che aveva trovato
prima di dirigersi al piano di sopra a cercare Adam che a quell'ora di
certo dormiva.
Infatti fu in camera che lo trovò. Riposava attorcigliato
nelle lenzuola, con l'espressione crucciata e il cellulare stretto in
una mano. Finalmente era tornato. La sensazione che Sauli
provò nel rivederlo gli attorcigliò le budella
finché non gli venne da vomitare, eppure desiderava che non
passasse mai. Probabilmente Adam era arrabbiato con lui: non l'aveva
trattato molto bene in quell'ultima settimana che era stato lontano e
non si era neanche fatto trovare a casa quando era tornato. Ma le
ragioni di Sauli erano precise: si era comportato in quella maniera
perché era geloso, come lo era sempre stato, geloso marcio
di quello sguardo, quella luce negli occhi e quel tono strano della
voce che Adam assumeva all'istante solo ed esclusivamente quando si
parlava di Tommy. Qualche anno prima non si trattava solo di uno
scintillio strano negli occhi: bastava nominare il suo chitarrista e
tutto il suo corpo pareva illuminarsi e sorridere; l'espressione di
gioia che aveva quando era in compagnia di Tommy era così
pura e sincera, quasi infantile, che era addirittura contagiosa e da
quando Adam aveva piantato il musicista, Sauli non gliel'aveva mai
più vista. A dire la verità non gli aveva
più visto neanche quello sguardo perso che aveva sempre
significato solo una cosa: Tommy
– e che a suo parere lo faceva sembrare un po' stupido.
Con la scomparsa del motivo per cui essere geloso, Sauli aveva smesso
di essere così assillante e invadente... almeno
finché Tommy non era tornato: Isaac era arrivato a parlare
di lui e quella dannata gelosia giustificata
che lo rendeva insopportabilmente paranoico era tornata. Cosa poteva
farci se era evidente che Adam era pazzo di quello stupido biondo
finto? Lo era sempre stato e continuava ad esserlo, e nessuno poteva
cambiarlo se non lo stesso Adam.
Era stato per quella ragione, per via di quei sentimenti
così forti ed evidenti che univano suo marito al suo ex
chitarrista, che inizialmente non sperava né desiderava di
essere null'altro che una storiella di passaggio per Adam –
sapeva di non poter chiedere di più. Ma dopo un paio di mesi
con il cantante, aveva cambiato idea: avrebbe combattuto per lui,
l'avrebbe fatto finché non ci sarebbe stata più
nessuna speranza a spronarlo, perché ne valeva la pena; ed
alla fine era stato ricompensato.
E dopo cinque anni di felicità, Isaac era tornato come un
fantasma dal passato a vanificare i suoi sforzi. Aveva bussato alla
porta di casa loro e aveva preteso di trovare ciò che aveva
lasciato cinque anni prima.
La cosa peggiore era che, almeno per quanto riguardava Adam,
ciò che cercava era proprio lì.
–
– –
–
Gli preparò la colazione. Lo fece perché c'era
qualcosa che sentiva di doversi far perdonare e perché
sapeva che ci sarebbe riuscito, con dolcezza, un bacio e una bella
notizia. Già, perché mentre Adam era a Burbank ad
interessarsi di persone di cui non gli sarebbe dovuto importare nulla,
Sauli aveva ricevuto una chiamata dall'agenzia a cui si erano rivolti
per adottare un bambino (o una bambina, lo correggeva sempre Adam): la
loro documentazione era stata letta e l'agenzia voleva fissare un
colloquio. Sauli si era fatto lasciare il recapito, con l'intenzione di
concordare la data prima con Adam. Quando aveva ricevuto la chiamata,
la sua reazione era stata entusiasta: l'avrebbe urlato al mondo tanto
era felice! Voleva dare la risposta in quello stesso momento, ma sapeva
di doverne palare con Adam prima, è così che
funziona. Così aveva provato a parlargli subito, ma invano:
quando lo aveva chiamato per annunciargli la notizia, Adam non lo aveva
lasciato neppure parlare; aveva risposto che era di fretta e non poteva
perdere tempo e che qualunque cosa fosse poteva attendere. Quella
risposta lo aveva infastidito (lo innervosiva solo ricordare quanto
aveva odiato il proprio marito in quel momento) ma sapeva che se Adam
avesse avuto una vaga idea della notizia che voleva dargli si sarebbe
comportato in modo diverso: era stato lui ad insistere per adottare un
bambino, lui che lo aveva convinto a prendersi un impegno
così serio, sempre lui che aveva portato a casa brochures a
non finire di tutte le agenzie di adozioni che era riuscito a trovare,
aveva fatto ricerche, stampato statistiche e materiale informativo dai
siti più svariati e scelto anche la nazionalità
del bambino in caso avessero optato per l'adozione internazionale.
Insomma, davanti alla millesima ricerca sulle differenze tra adozione
chiusa e adozione aperta, Sauli aveva finalmente ceduto ed insieme
avevano contattato una agenzia – si erano fatti consigliare
da alcuni amici su quale fosse la migliore – ed avevano
inviato la documentazione richiesta, con l'aiuto di un avvocato.
Alla fine anche lui, che all'inizio era restio a fare una scelta
così importante, era rimasto irrimediabilmente coinvolto ed
era emozionatissimo all'idea che avrebbero cresciuto un figlio insieme,
che sarebbero stati una famiglia! Di conseguenza, era certo che Adam
sarebbe stato mille volte più entusiasta di lui, ed era per
questo che voleva dargli la notizia nel più dolce dei modi,
per godersi a pieno il suo buonumore.
Così si era diretto verso la loro camera da letto con le
migliori intenzioni, un vassoio per la colazione, biscotti, un muffin
al cioccolato e un bicchiere di succo d'arancia. Voleva svegliarlo nel
modo più amorevole che conoscesse e fargli iniziare la
giornata al meglio, ma, quando entrò in camera, Adam non
stava dormendo.
Lo trovò che stringeva il cuscino e singhiozzava in
silenzio, probabilmente convinto di essere solo. Piangeva come Sauli
non l'aveva mai visto piangere, versava lacrime a fiotti come un
bambino, tirava su col naso, aveva il viso premuto nel cuscino, ed ogni
tanto un singhiozzo lo scuoteva tutto.
Era lacerante,
Sauli non trovò altre parole per definirlo. Gli spezzava il
cuore, faceva male, come se ognuno di quei singhiozzi fosse una
coltellata violenta, decisa, dritta al cuore. Poggiò il
vassoio dove capitava e si avvicinò subito ad Adam, si
inginocchiò accanto al letto, passandogli una mano tra i
capelli delicatamente. Lui sussultò a quel contatto, lo
guardò per un'istante, con gli occhi sgranati per la
sorpresa, e tentò di smettere di piangere, di darsi un
contegno: si mise seduto di scatto, tirò su col naso,
singhiozzò un paio di volte e si asciugò gli
occhi; lo guardò per qualche secondo tentando di dire
qualcosa e fallendo miseramente, alla fine si arrese e riprese a
piangere, però in silenzio, lasciando semplicemente che le
gocce salate gli solcassero il viso.
“Cosa c'è? Adam, cosa c'è?”
“Solo... solo un sogno.” borbottò
l'altro.
Un sogno.
Un dannatissimo sogno lo faceva stare così? Ma con chi
credeva di avere a che fare, con un cretino? Ovviamente non era un
sogno – e ovviamente non era neanche il momento di insistere,
lo sapeva. Ma, anche se in quel momento non gli importava tanto se Adam
gli stesse mentendo o meno – gli interessava invece che non
stesse più così – dall'altro lato
voleva dirgli che non doveva mentirgli, non poteva farlo, erano
sposati, si amavano, e ci sarebbero stati sempre l'uno per l'altro, nel
bene e nel male, no?
Sauli si mise seduto accanto a lui e avvicinò cautamente la
mano al suo viso, prima di accarezzarlo dolcemente, preoccupato per una
possibile reazione simile a quella di poco prima; ma Adam chiuse gli
occhi e si rilassò leggermente, permettendo che l'altro gli
sfiorasse le labbra con le sue e gliele lasciasse umide e profumate di
lui.
“Va tutto bene, era un sogno, solo uno stupido
sogno...” sussurrò Sauli, ma Adam a quelle parole
ritornò a piangere silenziosamente e, senza neanche
schiudere gli occhi, cercò le sue labbra annaspando. Lo
baciò in un modo disperato, come se cercasse di riemergere
dall'acqua per respirare e non ci riuscisse, e continuasse a tentare,
sperando di trovare la superficie prima che le forze lo abbandonassero.
Sauli non poteva saperlo e Adam non glielo avrebbe mai confessato, ma
era davvero un sogno che l'aveva ridotto così, o meglio, era
stato quello che il suddetto sogno gli aveva fatto capire. Riguardava
Tommy, e chi se non lui avrebbe mai potuto farlo piangere
così? Lo odiava, odiava il potere che quel ragazzo
esercitava su di lui, lo odiava anche se poi non lo odiava proprio per
nulla.
Lo aveva sognato, e non era stato uno di quei sogni belli, luminosi,
né malinconici o vagamente tristi com'era capitato in
passato: aveva rivisto i suoi occhi nocciola, vuoti da far male, lo
aveva sentito dirgli addio. Ricordava solo brevi flash, istanti di
quell'incubo così vivido da sembrare reale: vedeva Tommy,
pallido e freddo, riverso nell'oceano rosso del suo stesso sangue,
vedeva se stesso inginocchiato accanto a lui, a fissare i suoi occhi
privi di vita e baciare quelle labbra fredde e a gemere dolorosamente,
stringendogli le mani ormai inerti. Sapeva che era propria, la colpa,
propria e di nessun altro. Sapeva di averlo ucciso. E quando si
era svegliato, si era guardato le mani, aspettandosele sporche di
sangue, e aveva capito che lo erano anche se le macchie rosse non si
vedevano, perché aveva strappato il cuore di Tommy dal suo
petto cinque anni prima e da allora non l'aveva mai lasciato: era
ancora lì da qualche parte, a battere con l'ostinazione e la
caparbietà di chi non vuole morire in alcun modo. E lui, lui
che era riuscito ad ignorare quella pulsazione insistente per tutto
quel tempo, adesso sapeva
e non riusciva più a fingere di essere all'oscuro del dolore
che aveva causato. Alla fine quei pensieri lo avevano portato alle
lacrime, non per esasperazione, ma in un modo strano, quasi inconscio:
era scoppiato a piangere così, senza deciderlo, senza
neanche rendersene conto, senza combattere per trattenersi
né decidere di liberarsi di un peso; semplicemente, le
lacrime avevano iniziato a scivolargli lungo le guance e non avevano
smesso, perché il dolore acuto all'altezza dello stomaco non
si era placato e pareva non volerlo fare più.
Il fatto era che fino a quando Isaac non si era presentato alla soglia
di casa sua, Adam pensava a Tommy come un uomo felice, un uomo che
è andato avanti, sperava addirittura che si fosse sposato,
che avesse un figlio. Pensava ad una persona viva per davvero, a quel
ragazzo che aveva conosciuto, che brillava come una stella, che aveva
degli occhi che privavano Adam di ogni genere di autocontrollo. Non
immaginava il fragile corpo stremato ed il cuore distrutto e spolpato
che aveva trovato quando lo aveva rivisto. E quella visione non faceva
che tormentarlo.
Riconobbe di aver fatto un grande errore; quella mattina si rese conto
– cinque anni, tre mesi e dodici giorni dopo averlo compiuto
– dell'enorme sbaglio che era stato sottovalutare i
sentimenti di Tommy. Non sapeva se fosse stato per via del proprio
pessimismo eccessivo o della disillusione causata dalle relazioni da
cui era uscito, se fosse stato per via di qualche
comportamento di Tommy che aveva frainteso o di qualche sua incertezza
che aveva scambiato per rifiuto, ma Adam era certo di essersi
innamorato di qualcuno che lo considerava come un passatempo, come
qualcosa che sarebbe passato. Tommy era etero, lo era sempre stato, e
quando erano insieme Adam non capiva come potesse dirgli, sorridendo
con tutta naturalezza, che era innamorato di lui e il resto non aveva
importanza. Il resto aveva
importanza. Il resto contava e avrebbe contato sempre, ed
Adam non si fidava delle sue parole. Era stata curiosità
quella che aveva avvicinato i loro cuori e la curiosità, una
volta soddisfatta, scompare. Si sottovalutava, non credeva di essere
granché importante, pensava che Tommy si sarebbe stancato di
lui, che si sarebbe innamorato di una bella donna e lo avrebbe
lasciato, ne era convinto, e stava aspettando che quel giorno
arrivasse, limitandosi a godere di tutte le ore che avrebbero preceduto
la fine, in una muta e malinconica accettazione. Perciò
quando era arrivato il momento di scegliere tra Tommy e Sauli, tra
l'amore ed il suo lavoro – era così che
considerava Sauli, all'inizio – aveva semplicemente
anticipato quel giorno in cui Tommy gli avrebbe annunciato che era
finita.
O almeno era questo che pensava. Pensava di aver preso la decisione
giusta, dato che Tommy non era mai tornato da lui, nonostante i suoi
vani e ridicoli tentativi di rivederlo prima di sposarsi
(come chiedere di lui a sua madre, lasciare ridicoli messaggi
sulla sua segreteria telefonica implorandola di lasciarli ascoltare al
figlio, andare a Burbank e vagare per la città giorni interi
sperando di vederlo, e alla fine invitarlo al proprio matrimonio) che
lo avevano portato a concludere che non solo il ragazzo era andato
avanti, ma che di lui non voleva saperne proprio niente.
Pensarlo felice da qualche parte era bello, lo faceva star bene sapere
che almeno Tommy fosse riuscito a lasciarsi indietro ciò che
c'era stato – perché lui non c'era mai riuscito
completamente né voleva farlo, gli stava bene
così, gli piaceva quel sentimento amaro fine a sé
stesso. Invece no, ora scopriva che nessuno dei due era riuscito a
dimenticare l'altro, ed il dolore per la mancanza del rapporto che
avevano avuto tornava forte come i primi mesi, forte come quando
cantava quelle vecchie canzoni, forte come quando guardava quelle foto
o come quando ripensava a quei momenti dolci e spensierati in cui tutto
pareva facile – in cui tutto era facile.
E nel baciare ancora una volta Sauli cercava un conforto che non
trovò, perché era nel posto sbagliato che andava
a cercarlo.
–
– –
–
“Sauli... mi dispiace, ma ci ho ripensato.”
Se fino a quel momento il finlandese era stato bendisposto nei
confronti del marito, tutta la sua accondiscendenza scomparve come per
magia davanti a quella frase. Ci aveva ripensato. Dopo un
anno passato a giurare di essere pronto, di desiderare sinceramente di
crescere un bambino, ora aveva cambiato idea?
“Ci hai ripensato.”
Sauli fece una breve pausa e lo guardò negli occhi con un
espressione delusa che non impiegò molto a diventare
irritata.
“Non sono più sicuro di nulla, mi
capisci?” Adam lo guardò mortificato, gli occhi
ancora scavati e rossi dal pianto puntati nei suoi.
“Sì...” annuì Sauli,
“capisco che hai visto Tommy ed ora non fai altro che pensare
a lui, non è così? Stai riconsiderando tutto,
perché lui è lui, ed io non valgo
nulla.” constatò amaramente, con un sorriso falso.
Era così, ora per colpa di quell'uomo si trovava nuovamente
a combattere per qualcosa che gli spettava – prima aveva
dovuto battersi per tenersi il suo ragazzo, adesso per tenersi suo marito, ma in
ogni caso Tommy era sempre stato e sarebbe sempre rimasto un intruso,
seppure uno di quelli particolarmente bravi a mettere i bastoni tra le
ruote. Non ci credeva neanche tanto a quella sua malattia,
probabilmente si era inventato tutto solo per far fesso Adam
(chissà, forse aveva finito i soldi e non aveva trovato
nessuna ragazzina milionaria da trombarsi e a cui scroccare soldi e
aveva deciso di tornare da Adam, sapendo quanto lui fosse ingenuo).
Ciò a cui credeva erano le lacrime che aveva visto, era il
fatto che l'uomo che amava stava soffrendo per qualcuno che avrebbe
dovuto essere uscito dalla sua vita già da tempo e che
invece Adam aveva lasciato stupidamente tornare.
“Diamine, Sauli, che c'entra adesso lui?”
borbottò Adam, “Non voglio prendermi questa
responsabilità, non voglio che la bambina o il bambino che
adotteremo debba vivere senza un genitore perché sono un
cantante e passo nove mesi all'anno in tour!”
ribatté, senza alzare troppo la voce perché la
gola gli faceva male, ma, oh, quanto avrebbe voluto urlare contro la
presunzione di Sauli di sapere sempre tutto di lui.
“Avevi detto che per qualche anno ti saresti ritirato dalle
scene!” replicò il biondo, roteando gli occhi:
ciò che sentiva erano solo scuse, scuse, scuse, scuse per
nascondere quella che davvero era la motivazione di quel ripensamento.
“Per qualche anno, non per tutta la vita!”
replicò subito Adam, quasi in un ringhio; odiava doversi
difendere dalla critiche di colui che avrebbe dovuto essere al suo
fianco e dalla sua parte sempre e comunque, perché erano le
poche critiche che davvero lo colpivano sul vivo, che davvero gli
facevano male.
“Va bene, Adam, lasciamo perdere.” Il biondo fece
un cenno con la testa che stava a significare che la discussione per
lui era chiusa, e semplicemente uscì dalla camera. Nessuna
possibilità di replica. Nulla di nuovo, insomma.
Sul comò, i biscotti al cioccolato ed il succo di frutta
(arancia rossa, il suo preferito!) che Sauli gli aveva portato per la
colazione restarono lì a ricordargli in un muto grido quanto
suo marito lo amasse, quanto lo conoscesse, e a sottolineare quanto
avesse ragione su tutto ciò che aveva detto. Ma Adam non lo
avrebbe ammesso mai.
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Capitolo 6 *** Pick Up Off The Floor ***
Titolo: Bright Light
Autore: itsjjoy
Fandom: RPF Adam
Lambert
Genere: Angst,
Introspettivo, Romantico
Tipologia: Long Fic
Conteggio Parole:
(capitolo) 3517
Pairing/Personaggi: Adam
Lambert/Tommy Joe Ratliff; Tommy Joe Ratliff/ Isaac Carpenter; Isaac
Carpenter/Sophie Carpenter; diversi personaggi originali
Rating: Giallo
Avvertimenti: Slash,
Het, What if?, OOC
05
Pick
Up Off The Floor
Incredibile
constatare quanto caos e quante discussioni era stato capace di causare
un semplice sms a casa Carpenter. Se Isaac, subito dopo averlo
ricevuto, era corso da Sophie raggiante per dimostrarle che in fondo
lui aveva ragione, ad Adam importava di Tommy, la reazione della donna
era stata categorica: no, non gli avrebbero risposto, né gli
avrebbero fatto avere il numero di Tommy per alcun motivo al mondo.
Sophie non concepiva come potesse il loro amico soprassedere a tutto
quello che Adam gli aveva fatto passare, come facesse ad amarlo ancora,
ma soprattutto non capiva come riuscisse suo marito a
perdonare Adam a quella maniera; non si capacitava di come potessero
quei due assolverlo dalle sue colpe solo per due paroline dolci e
perché manifestava interesse per una situazione –
quella di Tommy – che aveva causato lui e per la quale
l'interesse avrebbe dovuto essere ovvio
fin dal principio. Erano stupidi? Non avevano ancora
capito che Adam era un codardo e tale sarebbe rimasto? Non avevano
capito che fidarsi di lui significava essere delusi ancora?
Non passava un giorno senza che Sophie riflettesse su quanto fosse
assurdo quel sentimento, quanto fosse distruttivo e potente e
soprattutto quanto fosse imbattibile, perché Tommy non
poteva liberarsene, non ci riusciva, era come se andasse contro la sua
stessa natura. Era arrivata a chiedersi seriamente se quella faccenda
delle anime gemelle fosse vera: forse l'anima gemella esisteva, forse
Tommy ed Adam erano fatti per stare l'uno con l'altro ed era per questo
che nessuno riusciva a rompere il loro legame, perché
semplicemente non si
poteva. Ma poi finiva sempre per convincersi che quella
storia era una stupidaggine, che le anime gemelle non esistevano e che
Tommy era semplicemente molto sensibile, che aveva fatto un grosso
sbaglio quando, dopo la morte del padre, aveva affidato la propria vita
nelle mani della persona che più amava e di cui
più si fidava: Adam. Aveva commesso un grande errore
perché non avrebbe mai dovuto mettersi nelle mani di nessuno
che non fosse sé stesso; infatti, quando poi Adam l'aveva
lasciato, tutto gli era crollato addosso – quell'uomo era la
sua unica sicurezza, l'unica colonna portante, l'unico punto fermo
anche nelle peggiori tempeste: non aveva resistito neanche un giorno
senza lui.
Quando tornava con la mente a quei pensieri la prendeva sempre una
profonda malinconia, e non a caso le capitava sempre di finire a
rifletterci di notte, quando era a letto e Isaac riposava in silenzio
accanto a lei.
Ma quella sera suo marito era sveglio, perché ad un certo
punto lo sentì che le accarezzava la schiena dolcemente. Le
mani dell'uomo seguivano, attraverso il cotone del pigiama, la linea
della spina dorsale, dalla base del collo fino al fondo schiena, e
Sophie rabbrividì piacevolmente a quel tocco. Da quanto era
che non si prendevano una serata per loro? E da quanto era che non
facevano l'amore senza altri pensieri ad appesantir loro gli animi?
L'abbraccio di Isaac profumava di buono, e il bacio che lui le
schioccò sulla guancia fu morbido e dolce e le
strappò un sorriso sincero.
“Forse sta migliorando davvero, sai?”
mormorò Isaac, le labbra ad un soffio dall'orecchio di lei.
Non ci fu bisogno di dire nomi, né tanto meno che Sophie
rispondesse: strinse le mani del marito tra le proprie e le
baciò, e questo bastava.
“Ricordi quando la settimana scorsa mi ha detto che mi
amava?” domandò l'uomo in un mormorio.
“È stato dolcissimo, e sorrideva, mi sono
commosso...”
Sophie sorrise e annuì piano, baciandogli dolcemente le
dita, una alla volta, solo perché non le andava di parlare e
desiderava dirgli che lo amava anche lei, davvero tanto, e non aveva
mai smesso da quando si erano conosciuti. Isaac inspirò il
suo odore, premendo le labbra sul suo collo.
“Stamattina l'ho visto riprendere la chitarra in garage,
mentre mi aiutava a mettere in ordine. Ha anche suonato
qualcosa.”
Fu a quelle parole che Sophie si fermò e si voltò
a guardarlo. “Ha ripreso la chitarra?”
mormorò incredula. Il cuore aveva iniziato a correre senza
sosta per l'emozione, così, improvvisamente, e lei non ne
era sorpresa, non riceveva una così bella notizia da anni
ormai. Isaac le rivolse un sorrisone soddisfatto e aggiunse:
“E... oggi hanno chiamato dal supermercato: è
stato preso per il turno di notte. Comincia
lunedì!”
Sophie dovette trattenere un urletto e si gettò tra le
braccia di Isaac, stringendolo forte a sé per la gioia.
Stava davvero andando tutto così bene? Tutte le altre volte
l'intrusione di Adam aveva portato solo a cose negative: possibile che
quella fosse la volta buona? Possibile che Tommy avesse finalmente
capito che non valeva la pena perdere la propria vita dietro uno
stronzo come quello?
“Ma è magnifico, Isaac! Ti rendi conto?”
esclamò incredula, “Sta migliorando!”
Isaac annuì, raggiante, stringendo tra le braccia la donna
migliore che avesse mai potuto scegliere, quella che amava e con cui
era felice, sentendosi schifosamente fortunato perché aveva
qualcosa che tanti altri – Tommy per primo – non
avevano. Entrambi avevano finalmente la reale speranza che tutto
sarebbe andato per il meglio, quella volta: sapevano che il processo di
guarigione di Tommy sarebbe stato ancora lungo e che spesso avrebbero
pensato di essersi illusi, ma avevano una speranza forte e insistente a
riempir loro il cuore, una speranza che era quasi una certezza, e vi si
aggrapparono con la stessa forza, quasi disperata, con cui si strinsero
tra loro sotto le coperte, con una nuova fiducia nel domani.
–
– –
–
'Il giorno più importante della tua vita': così
Isaac e Sophie avevano definito il suo primo giorno di lavoro, con
l'orgoglio e la speranza negli occhi e con quegli abbracci caldi ed
affettuosi a salutarlo prima che uscisse dall'auto. Credevano davvero
che quello fosse l'inizio della sua guarigione? Credevano davvero che
si stesse risolvendo tutto?
Tommy non la pensava allo stesso modo. Se avesse dovuto stilare una
classifica dei giorni più importanti della sua
vita, quel lunedì neanche vi sarebbe entrato: non aveva
nulla di importante.
Sarebbe andato a lavorare in quel posto fin quando non avrebbero deciso
che anche i pochi clienti notturni venivano allontanati dalla sua
presenza triste e malata, simile a quella di un fantasma un po'
denutrito e lo avrebbero licenziato. Se non se ne fosse andato prima
lui, o se, peggio ancora, non avesse avuto qualche crisi di panico sul
lavoro.
Per quanto riguardava le altre vane speranze dei suoi amici, cosa
voleva mai dire che quel week-end aveva tentato di riprendere la
chitarra dopo cinque anni? Non aveva fatto altro che farlo stare
peggio. Non riusciva a fare neanche un accordo ed i corsi da
autodidatta on-line non lo aiutavano certo a far uscire un Do decente.
Gli dicevano solo cose che ricordava già perfettamente da
solo. Si sentiva soltanto frustrato, stupido, e più inutile
di quanto lo fosse mai stato nella sua intera vita.
Non gli sembrava di aver fatto passi avanti in nessun senso.
Perché tutta quella sofferenza avrebbe dovuto finire? Per
quei futili motivi? Era quello
che meritava, quella la pena che doveva scontare al mondo per essere
stato felice, l'Inferno che meritava chiunque avesse vissuto in
Paradiso prima del tempo. Cosa poteva farci, era andata
così, era stato felice, i primi trent'anni della sua vita
erano stati tanto belli che c'era chi avrebbe venduto l'anima al
diavolo per averli, e certo non sarebbe stato lui, Tommy Joe Ratliff, a
lamentarsene. In particolare non avrebbe barattato i momenti passati
assieme ad Adam con nulla al mondo, perché nulla per lui
valeva tanto. Né serenità, né amore,
né la sua felicità presente, neppure la vita di
suo padre, nulla valeva quanto quello che aveva vissuto prima che il
baratro della depressione si aprisse sotto i suoi piedi. Non l'avrebbe
scambiato neanche per riavere Adam con sé – senza
quei ricordi non sarebbe mai stato lo stesso. E forse era per questo
che non guariva, perché si rifiutava di dimenticare, si
rifiutava di lasciare andare, si rifiutava di vivere un solo giorno
privato dal peso di quel ricordo, voleva
soffrire perché voleva continuare ad amare.
Entrare nel dannato supermercato non gli causò alcun genere
di aumento di autostima, nessun miglioramento di alcun tipo, piuttosto
una forte ansia lo prese allo stomaco e iniziò davvero ad
avere paura. Se qualcosa poteva andare male, sarebbe andata male, lo
sapeva, e non sapeva se desiderare o meno che invece tutto andasse per
il meglio.
Una donna dal viso gentile e la corporatura tozza e pasciuta lo accolse
e lo guidò nell'edificio, chiamandolo 'ragazzo nuovo' e
blaterando qualcosa su quanto si sarebbe trovato bene. Chiuse le dita
grassocce con lunghe unghie smaltate di rosso attorno al braccio magro
di Tommy e gli fece fare un giro del posto, elencandogli i nomi di
tutti i locali dell'edificio come se non avesse mai fatto altro nella
vita. Sorrideva e farciva le sue spiegazioni di dettagli stupidi e di
scarso interesse, ciarlando un po' di quanto fosse malmessa la
fotocopiatrice e un po' di quanto poco le piacesse il caffè
in quel posto, finché – dopo quella che
sembrò un'eternità – si
fermò davanti ad una porta e gli lasciò il
braccio (che lui sospettava essere diventato ormai viola).
“E questo è lo spogliatoio degli uomini, tesoro
bello. Ci vediamo in servizio! In bocca al lupo!”
Tommy fece un cenno con la testa per rispondere al saluto e
restò qualche secondo ad osservare la donna che si
allontanava con quella sua andatura malferma, prima di entrare negli
spogliatoi. Era forte.
Questa era l'unica cosa che gli veniva in mente per definirla. Lo si
capiva dalle sue occhiaie, mal coperte da uno strato di correttore, dai
gesti permeati di una stanchezza nascosta, eppure decisi, che avevano
un che di estremamente materno. Era gentile, apprensiva ed un po'
frivola, ma pareva simpatica. Una bella persona. Immaginò
che avesse dei figli, forse adolescenti, dedusse dall'età
che dimostrava (non più di quarant'anni): la
immaginò sola, divorziata probabilmente. Non sapeva
perché, i suoi occhi sembravano rivelarlo al suo posto. Non
se ne rese conto, ma le aveva già ritagliato un posto nel
suo cuore, da qualche parte.
Gli spogliatoi in cui Tommy entrò erano vuoti e l'atmosfera
era angosciante, quasi da film dell'orrore: con i vari armadietti
semichiusi e qualche maglietta appesa in malo modo sugli sportelli
sembrava qualcosa che era stato lasciato a metà, come una
scuola durante le vacanze estive, vuota seppur piena di banchi e sedie
impolverati e sfiorati pigramente dalla luce del sole. Lì
però il sole non c'era, c'erano le lampade a neon e il loro
ronzio nel silenzio di una notte che notte proprio non sembrava.
“Anche tu in ritardo?”
Tommy si voltò di scatto, con un'espressione leggermente
spaventata, verso un ragazzo (avrà avuto poco più
di vent'anni) con capelli castani e mossi che gli incorniciavano il
viso ancora morbido d'innocenza e due enormi occhi verdi fiduciosi e
speranzosi in un modo così assurdo da sembrare irreale.
Stupido esattamente come era stato lui in passato, insomma.
“No, in realtà sarei... nuovo...”
mormorò Tommy con fare esitante.
Il ragazzo gli rivolse un sorriso e annuì.
“Oh, sì. Tommy, giusto?”
Allungò la mano verso la sua senza abbandonare quel sorriso
ampio e accogliente che lo faceva apparire in pace col mondo.
“Io sono Josh!” aggiunse poi, sempre tendendogli la
mano. Voleva stringergliela?
Tommy ritrasse il braccio e nascose entrambe le mani in tasca, annuendo
e cercando di abbozzare un sorriso, mentre i suoi occhi spaventati
raccontavano un'altra storia.
Il ragazzo lo guardò con attenzione, un po' confuso. Lo
squadrò da capo a piedi un paio di volte, poi fece spallucce
e aprì il proprio sportello. Si cambiò la maglia
in pochi secondi, infilando la divisa da lavoro, che poi consisteva in
una T-shirt verde troppo larga con il logo del supermercato stampato
sopra, un po' consumato, e la targhetta con il nome del ragazzo
appiccicata sul petto. Anche Tommy ne aveva una, appallottolata nella
sua tracolla, ma si vergognava a cambiarsi lì, davanti a
quel tipo che neanche conosceva.
“Ti conviene cambiarti in fretta, tanto poi il ritardo te lo
fanno recuperare alla fine del turno... Ci vediamo in giro!”
E se ne andò anche lui.
Lo avevano messo a riordinare il reparto dei detersivi. C'era un odore
terribile, che bruciava le narici, la laringe e la trachea, fino ai
polmoni. Aveva sempre odiato l'odore di quel reparto e non poteva
pensare ad una sfortuna peggiore che essere costretto a lavorarci
dentro. Ma in quell'istante non se ne curava molto: era molto
più occupato ad odiare le grosse taniche di detersivo
– quelle formato 'maxi-convenienza' da cinque litri
– che era costretto a sollevare ed a ordinare sul terzo
scaffale. Gli tremavano le braccia e le ginocchia per lo sforzo e si
sentiva stanchissimo, anche perché non mangiava dal giorno
prima. E sì, era consapevole di quanto poco fosse salutare,
ma era nervoso e non aveva fame, cosa poteva farci?
Sollevò l’ennesimo, pesantissimo flacone di
detersivo ma non riuscì ad alzarlo fino al terzo scaffale:
gli sfuggì rovinosamente di mano, facendo un rumore che
rimbombò nelle orecchie.
Quell'insopportabile odore, perché non poteva sparire?
Voleva chinarsi a raccoglierlo, ma la testa iniziò a
girargli vorticosamente appena si abbassò. Gli fischiavano
le orecchie e il cuore batteva così forte che sentiva anche
le vene delle mani pulsare a ritmo. Iniziò a sudare freddo,
ed ebbe seriamente paura di perdere il controllo. Non poteva venirgli
un attacco, non il primo giorno, non così, non in quel
momento. Ma poi le ginocchia cedettero e prima che potesse accorgersene
il buio gli invase gli occhi e non sentì più
nulla.
Come una fitta, il pensiero di Adam lo colpì prima di
qualunque sensazione. Così, all'improvviso, con la stessa
immediatezza con cui percepì il dolore alla nuca e al
gomito, pensò a lui. Non a qualcosa di particolare, a nessun
ricordo nello specifico, semplicemente ricordò il suo viso,
il suo odore, il suono della sua voce. Era come se si fosse sentito
chiamare. Adam lo stava pensando?
Si rese conto di essere steso a terra, supino, e che qualcuno chiamava
il suo nome, ma non era Adam. Schiuse gli occhi: davanti a lui c'era
Josh che lo scuoteva, lo sguardo spaventato ed il viso pallido; lo vide
sospirare di sollievo quando si mosse e cercò di
sorridergli. Ma come diamine poteva essere svenuto? Era stato
perché non mangiava? Maledetto cibo!
Cercò di tirarsi a sedere. Adam non era lì: erano
passate due settimane, tre giorni, ventuno ore e probabilmente una
trentina di minuti e non si era neanche fatto sentire. Neanche un sms,
una chiamata, una lettera, un biglietto, nulla. Adam non era
lì e non sarebbe tornato. Lo pensò mentre si
alzava, e la fitta alla pancia fu tanto forte da piegarlo in due.
“Sicuro di stare bene?” Josh aveva il terrore negli
occhi. “Devo chiamare un medico?”
Tommy scosse la testa, in un confuso gesto di dissenso, e
tornò a sistemare i detersivi, mentre cercava di non
piegarsi in due per il dolore (uno dei tanti). Se ne stava in silenzio.
Non aveva la forza di schiudere le labbra, perché avrebbe
vomitato, o sarebbe scoppiato a piangere. In verità si
sentiva improvvisamente privato della forza di vivere, che
chissà come fino a quel momento aveva (quasi) sempre
conservato; era pervaso dalla consapevolezza di quanto fosse vana la
sua esistenza di illusioni e speranze. Era come se aprendo gli occhi
non avesse solo ripreso i sensi, ma si fosse anche reso conto che le
sue speranze erano inutili, le sue convinzioni solo mere bugie che
raccontava a se stesso e che quegli occhi blu che sognava ogni notte li
avrebbe rivisti solo nei propri ricordi. Non provava neanche il
desiderio di morire, non ne valeva neanche la pena. Voleva dormire. Chiudere
gli occhi e invecchiare dormendo, perché magari nei sogni
avrebbe avuto quello che nella realtà non aveva mai potuto
possedere.
Josh si arrese presto al suo silenzio e ai suoi ringraziamenti
mormorati muovendo appena le labbra e tornò al proprio
lavoro, mentre Tommy ordinava meticolosamente i detersivi per i piatti:
forse ordinando loro avrebbe potuto mettere un po' d'ordine anche in
sé stesso.
Il turno volgeva ormai al termine, così come la notte.
Albeggiava ormai, Tommy non aveva ancora detto neanche una parola da
quando si era ripreso e continuò a chiudersi nel suo
silenzio e ad osservare chi lo circondava. Cercava di capire gli altri,
semplicemente per capire il modo migliore di evitare la loro compagnia,
ma soprattutto sperava di potersi distrarre almeno un po', in attesa di
tornare a letto.
Beth, la donna che lo aveva accolto, era una signora sulla quarantina,
grassoccia e buffa, che pareva perennemente allegra seppure, a ben
vedere, fosse piuttosto triste. Josh, il ragazzo ritardatario che lo
aveva aiutato quando era svenuto, aveva ventun anni e l'aria
perennemente preoccupata; scappò via allo scattare delle
sette e mezza, borbottando che doveva accompagnare il figlio a scuola.
Rose, gentile quanto bella, era una diciannovenne all'apparenza ingenua
e timida, lavorava alla cassa e accoglieva chiunque con un sorriso;
diverse volte sorrise dolcemente anche a Tommy, che, silenzioso e
triste, si aggirava da quelle parti. Nonostante lui la considerasse
adorabile, molti non erano della stessa opinione. Aveva sentito alcuni
dei suoi nuovi colleghi darle della puttana spettegolando di come fosse
incinta di diversi mesi e non avesse idea di chi fosse il padre.
Secondo Tommy i suoi problemi non la rendevano peggiore, anzi, ai suoi
occhi la rendevano ancora più simpatica.
Degli altri non conosceva ancora il nome: c'era un uomo calvo ed alto,
con la pancia da birra e i modi un po' bruschi, un giovane magrolino
che portava un paio di occhiali spessi come fondi di bottiglia, che il
minuto prima piangeva e quello dopo rideva da solo, una ragazza con i
capelli verdi, corti, diversi piercing ed un tatuaggio sulla mano (un
nome) che faceva di tutto per nascondere e che evitava di guardare.
Si sentiva catapultato in uno strano circo, di quelli pieni di fenomeni
da baraccone che andavano così di moda nei secoli passati.
C'era un che di divertente in ognuna di quelle persone, una sorta di
ridicola disgrazia, proprio come quella di coloro che viaggiavano col
circo perché non avevano molta altra scelta,
perché erano malformati, mutilati, bassi, brutti, pelosi,
avevano quattro gambe e tre braccia o un gemello attaccato a
sé con qualche parte del corpo: sapevano che non avrebbero
mai avuto una vita normale perché erano fatti
così, e non è che la cosa a loro piacesse, ma
dovevano accettarla. Così andavano in giro a sbandierarla,
perché era l'unico modo che conoscevano per sentirsi amati
ed avere ciò che tutti gli altri davano per scontato. Quelle
persone avevano qualcosa che non non le faceva sentire degne di avere
un lavoro migliore, o qualcosa che rendeva loro troppo difficile
trovare un qualunque altro impiego. Avevano qualcosa di diverso, di
guasto, in qualche modo, e invece di nasconderlo come tutti, loro lo
accettavano, lo tenevano ben stretto come parte di sé. Solo
che probabilmente non lo facevano consapevolmente, o forse fingevano di
non esserne consapevoli, e risultavano ancora più
tristemente ridicoli.
–
– –
–
“Allora? Com'è andata?” Sophie era
entusiasta, e si voltò a guardarlo con gli occhi fiduciosi
di qualcuno che aveva appena avuto indietro la propria gioia di vivere,
anche se solo per un istante. Tornò a portare attenzione
alla strada, scrutandolo attraverso lo specchietto retrovisore, mentre
anche Isaac, seduto sul sedile posteriore accanto a lui, gli sorrideva
sereno.
Tommy non si voltò a guardarli, nessuno dei due, avrebbe
potuto piangere, o peggio ancora mostrare il suo stato d'animo. Si
limitò ad annuire e a guadare fuori dal finestrino.
“Tommy...?”
La strada scorreva davanti ai suoi occhi e il senso di abbandono si
faceva più forte. Se avesse creduto in un potere superiore o
anche solo nel destino si sarebbe chiesto a che scopo dovesse
sopportare tutta quella sofferenza, ma dato che non credeva in nulla
del genere si chiese quando:
quando era diventato così esageratamente dipendente
dall'amore di qualcun altro? Quando aveva smesso di essere quel ragazzo
forte ed autosufficiente con tanto senso dell'umorismo e voglia di far
vedere a tutti di cosa era capace? Quando si era lasciato alle spalle
tutto ciò che la vita gli aveva insegnato e si era lasciato
cadere giù? E si rispose, anche: era stato quando si era
innamorato di Adam che era cambiato tutto. E non se ne pentiva, non
sentiva rimpianti ripensando a ciò che aveva prima di
quell'amore senza speranze.
“Tommy, stai bene?”
Non stava bene, no, non lo era da tanto tempo e non lo sarebbe stato
mai più. Neanche Adam voleva salvarlo, o forse voleva ma
riconosceva che non si poteva più fare nulla per lui,
chissà. Non lo avrebbe saputo mai. E non voleva saperlo,
voleva illudersi, illudersi di essere ancora amato, illudersi che Adam
pensasse a lui, illudersi che tutto il suo soffrire valesse qualcosa,
illudersi che il mondo si sarebbe fermato per lui e solo per lui e poi
avrebbe iniziato a girare al contrario e gli avrebbe restituito tutti
gli anni che aveva perso, tutto ciò che non aveva avuto.
Voleva crogiolarsi in quelle bugie, e soffrirne, perché no,
e attribuirsi la colpa se qualcosa non andava per il verso giusto,
perché era così, era colpa sua: lo amava.
“Tommy... dicci qualcosa, ti prego...” La voce di
Isaac lo riscosse dai propri pensieri, era l'unica cosa che potesse
farlo, lui era l'unico che riusciva sempre a fermare la sua caduta
libera nel vuoto, anche solo per un'istante. Se solo Adam fosse stato
lì, forse avrebbe potuto trasformare quella caduta in
faticosa risalita. O forse avrebbe potuto accompagnarlo giù,
verso il fondo di quel precipizio senza fine, e mano nella mano
sarebbero caduti all'infinito, perché il peggio non ha mai
fine. Ma anche il peggio sarebbe stato un paradiso, con Adam al suo
fianco.
Tommy alzò gli occhi verso Isaac e li puntò nei
suoi, e anche se erano altri occhi che desiderava vedere, non
abbassò lo sguardo, perché voleva che Isaac
capisse, voleva che lo aiutasse a non soffrire più, che gli
desse uno di quegli abbracci che erano come un'anestesia, e non sentire
più i mali del cuore.
Isaac gli si gettò letteralmente addosso e lo strinse in un
abbraccio morbido e rassicurante, che profumava di lui e aveva il
sapore di una preghiera: stavolta era Isaac a chiedergli di non
lasciarlo, con un semplice gesto, e Tommy non sapeva se avrebbe potuto
esaudirlo. Non sapeva quanta voglia avesse di affrontare ancora il
mondo, la vita, il dolore, e l'assenza di Adam. Stava lentamente
morendo un po' alla volta, ogni giorno, era quello che stava facendo,
perché nessuno (sano di mente o pazzo che fosse) avrebbe mai
pensato di definire la sua 'vita', in quanto assomigliava molto di
più ad un lento stillicidio, allo stadio terminale di un
tumore, a quei lenti giorni bui che precedono la morte di qualcuno che
l'ha tanto attesa da arrivare ad agognarla. Tommy sapeva come sarebbe
finita la sua vita, solo che, come tutti non sapeva quando. Sentiva
solo il momento avvicinarsi inesorabilmente, mentre lo torturava l'idea
che sarebbe successo, presto o tardi, e avrebbe probabilmente fatto
male.
“Noi siamo qui, Tommy, lo sai, vero? Noi non ce ne andiamo,
non ce ne andremo mai.”
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Capitolo 7 *** A Loaded Smile ***
Titolo: Bright Light
Autore: itsjjoy
Fandom: RPF Adam
Lambert
Genere: Angst,
Introspettivo, Romantico
Tipologia: Long Fic
Conteggio Parole:
(capitolo) 3151
Pairing/Personaggi: Adam
Lambert/Tommy Joe Ratliff; Adam Lambert/Sauli Koskinen
Rating: Giallo
Avvertimenti: Slash,
Het, What if?, OOC
Note: Ehm,
ecco, chiedo umilmente perdono per l'infinito ritardo :(
Spero che il capitolo vi piaccia lo stesso :(
07
A
Loaded Smile
Adam chiuse
gli occhi e fece un respiro profondo.
Doveva solo smettere di piangere; solo respirare con un ritmo regolare,
aprire gli occhi e fingere che tutto andasse bene. Bastava non pensarci.
Stupido, stupido,
stupido, stupido.
Quegli occhi vuoti e bui, quei polsi troppo magri, quella stretta
calda... perché era andata così? Aveva sbagliato,
tutta colpa sua, sua e dei suoi schifosissimi dubbi. Aveva un terrore
folle di soffrire, ecco cosa, e invece di affrontare la paura era
scappato come chi rinuncia a vedere il mondo perché ha paura
dell'aereo. Aveva combattuto per chiudere una porta destinata a stare
aperta ancora a lungo e nel tentativo vano di serrarla brandelli di
ciò che c'era dall'altro lato erano rimasti lì
con lui, ad aumentare il senso di nostalgia. Perché? Sarebbe
bastato correre da Tommy e dirgli tutto, e lui l'avrebbe abbracciato e
gli avrebbe detto che non aveva nulla da temere, perché il
loro amore non sarebbe finito mai. Non ci credeva, Adam. 'Stronzate',
pensava. E moriva dentro.
Era arrivato a quel punto in cui non riusciva più ad
ascoltare una sola parola di Tommy senza sentirsi irrimediabilmente
irritato all'idea che lo stesse prendendo in giro. Quasi odiava quella
sua espressione serena e felice quando erano insieme, quello stronzo
credeva di poter giocare con i suoi sentimenti a quella maniera? Si
capiva che di lui non gliene fregava nulla, non era geloso, non gli
faceva scenate, accettava di buon grado le sue stranezze, i suoi
difetti e le sue stupidaggini e non faceva una piega quando Adam lo
ignorava per prestare attenzione ad uno stupido qualsiasi che aveva
appena incontrato. Il cantante ci aveva riflettuto a lungo e le ragioni
di quel comportamento potevano essere solo due: la prima, a Tommy di
lui non importava proprio nulla, non nutriva nessun tipo di interesse
nei suoi confronti e stava solo aspettando di trovare qualcuno di
interessante con cui sostituirlo; la seconda, lo amava così
tanto che accettava qualunque prezzo pur di poter stare con lui. Dato
che nessuno è così masochista da amare a quella
maniera, Adam aveva considerato impossibile la seconda opzione. Aveva sbagliato.
Continuava a pensare a quanto si fosse comportato male il giorno in cui
l’aveva lasciato, a quante bugie e cattiverie gli aveva
detto. Voleva far pagare a Tommy qualcosa che lui non aveva mai fatto o
pensato, qualcosa che era accaduto solo nella sua testa, figlio della
paranoia. E gliel'aveva fatto pagare per bene, questo era certo, lo
aveva fatto pentire di averlo mai amato. Questo soltanto
perché pensava troppo, perché insisteva a fidarsi
solo del proprio cervello, perché ignorava gli strepiti di
quel cuore impotente, che se ne stava lì e si dibatteva
nella gabbia naturale che era il suo petto, cercando di far udire la
propria voce ad un padrone sordo ai propri sentimenti e ad un
raziocinio che valutava inutile il suo contributo.
Negli occhi chiusi vide ancora una volta le labbra screpolate e pallide
di Tommy che si muovevano esitanti, mormorando una supplica: 'Non te ne andare...'
Ancora una volta era stato sordo, sordo a quella voce quasi
impercettibile che proveniva dritta dal baratro dal quale Tommy guadava
la vita; forse era per questo che era un sussurro tanto flebile,
perché arrivava da lontano, dal fondo di quell'abisso e
sebbene Tommy urlasse con tutta l'aria che aveva nei polmoni, spesso
ciò che diceva non arrivava neanche all'orecchio
dell'ascoltatore più attento. Si era sforzato di farglielo
sentire, Tommy, dal fondo del burrone aveva urlato fino a restare senza
voce, eppure lui l'aveva ignorato, non aveva capito, non aveva voluto
vedere.
Ma adesso, volente o nolente, comprendeva perfettamente Tommy. Adesso
sentiva il pavimento sprofondare sotto di sé e non poteva
scappare, perché il pavimento non si stava muovendo, era lui
a precipitare in sé stesso.
Aveva smesso di piangere, adesso c'era solo il dolore sordo e amaro
dentro di sé, a morderlo e consumarlo, a scavarsi la strada
attraverso le sue interiora, dai polmoni al cuore, allo stomaco, fin
nelle gambe.
Guardò lo schermo del cellulare nella vana speranza di
vederlo illuminarsi per un sms di risposta da parte di Isaac. Anche un
'vaffanculo' sarebbe bastato, anche sapere che Tommy adesso di lui non
voleva saperne più nulla, sarebbe bastata qualunque cosa, ma
non arrivava nulla. Perché? Toccava a lui soffrire adesso? E
se toccava a lui, significava che almeno Tommy stava bene? Anche senza
di lui? E se lo era, a lui faceva piacere?
No, non era contento. Non sarebbe mai stato felice della
serenità di Tommy, non se quella serenità
esisteva senza di lui: non lo era mai stato e non lo sarebbe stato mai.
Mentiva a se stesso se credeva di essere mai stato davvero bene senza
di lui. Mentiva a se stesso come aveva sempre fatto, per non affrontare
le proprie paure, per sentirsi padrone della propria vita. Ed era
lì che aveva sbagliato, ed errore dopo errore, bivio dopo
bivio, si era allontanato sempre di più dalla propria
felicità.
La rabbia contro se stesso gli ruggiva nello stomaco troppo vuoto, e
tutto quello che voleva era provare dolore, dolore fisico, intenso e
persistente, così forte da farlo urlare, e voleva provarlo
fin quando non avesse sentito più nulla, fin quando non ne
fosse morto.
La pioggia iniziò lentamente a battere contro i vetri e il
vento prese a soffiare più forte. L'autunno era arrivato
davvero, pensò Adam, di soppiatto durante la notte, mentre
la città dormiva, quasi non volesse essere colto sul fatto.
Ma lui l'aveva visto: portava con sé la pioggia,
il vento, il freddo e la malinconia. E lui non aveva fatto nulla per
impedirgli di entrare nella sua vita e di lavare via il sole estivo
dalla sua pelle; anzi, l'aveva accolto con un silenzioso sorriso
complice, e lo aveva accompagnato con le proprie lacrime.
–
– –
–
“Avevi ragione, papà. Su di me, su Tommy, su
Sauli, su tutto. Avevi ragione.”
Fu per puro caso che il finlandese passò davanti la porta di
Adam e lo sentì pronunciare quelle parole, in lacrime.
Il dolore e la rabbia assalirono il suo corpo prima ancora che ne
avesse la consapevolezza, prima ancora che realizzasse cosa significava
ciò che aveva sentito. Ma quando il suo cervello
elaborò il senso di quelle frasi, quando lo stupore
lasciò definitivamente spazio a dolore e rabbia, la sua
reazione fu così violenta, così disperata che
dovette praticamente ficcarsi un pugno in bocca per non mettersi ad
urlare e per non buttare giù una parete a mani nude. Sapeva
cosa ne pensava Eber di lui, sapeva che suo suocero non lo odiava, ma
sapeva anche che era convinto che Adam avesse sbagliato anche solo a
considerare l'idea di stare con lui. Aveva finito per accettarlo,
perché lui aveva torto, e se non voleva accettare il loro
amore non erano certo affari suoi! Lui ed Adam erano fatti l'uno per
l'altro, o almeno ne era convinto fino a pochi istanti prima.
Si fermò ad ascoltare ancora, per masochismo, o forse
perché quel miscuglio amaro di collera e amarezza lo teneva
inchiodato a terra e lo privava di qualunque sforzo di
lucidità.
“Sì... sì, sono un codardo, lo so. Non
avrei mai dovuto sposare Sauli, non lo amo, non l'ho mai amato. Gli
voglio solo tanto bene. Ho solo fatto sì che soffrissero
entrambi. E Tommy... è... è distrutto. Mi sento
così in colpa, papà...”
Non volle ascoltare oltre, il suo cuore non avrebbe retto e il suo
stesso corpo già non reggeva più. Voleva prendere
a pugni il muro finché le nocche non gli si fossero
consumate, voleva piangere, urlare, ed insultarlo; invece, corse
semplicemente via, in silenzio, quasi alla cieca, fuori dalla porta,
dalla casa, dal giardino, dalla strada, e poi continuò a
correre, e se Dio fosse esistito neanche lui avrebbe saputo dove era
diretto.
Dolore, dolore cieco. Lacrime su lacrime, e singhiozzi, e disperazione
nera. Aveva buttato la propria vita, gli anni migliori, i
più felici, li aveva passati accanto a qualcuno che non
aveva fatto altro che mentirgli. Come aveva potuto essere
così stupido? Aveva rinunciato a tutto, famiglia, amici, la
sua casa, i suoi ricordi, i posti a cui più era legato, la
sua camera, i suoi vestiti, il suo giardino, si era privato di tutto, e
perché? Per chi?
Uno stronzo che non lo amava, che gli voleva solo “tanto
bene”? Vomitò in un vicolo buio, non sapeva
dov'era, né quanto tempo fosse passato, e pareva si stesse
preparando un altro temporale, ma che importava? Cosa importava
più?
Adam, Adam, Adam, lo amava e lo odiava così tanto. No, non
lo odiava, odiava Tommy. Se lo avesse avuto tra le mani, se solo
l'avesse avuto tra le mani! Avrebbe scontato anche l'ergastolo per
essere sicuro che quell'essere non avesse mai più suo
marito. Perché era suo
marito, non di quel bugiardo scroccone.
Chi c'era stato accanto ad Adam, sempre e comunque, con la pioggia e
con il sole, quando era felice e quando era triste? Certo non Tommy.
Lui era a casa propria a deprimersi, a quanto pareva. Sauli, invece,
era sempre stato lì. Aveva rinunciato alla propria vita per
lui, ed ora scopriva che Adam non l'aveva mai amato? L'aveva preso in
giro? Tutto quel tempo?!
Pianse, pianse, pianse, e quando ebbe finito pianse ancora. Di rabbia,
di tristezza, di dolore, di nostalgia per la sua amata Finlandia, di
rimpianto per non aver mandato a fanculo Adam quando era ancora in
tempo, pianse e prese a pugni il muro. Diede un calcio ad un cestino e
lo rovesciò, inciampò e si tagliò
sulla gamba con una bottiglia rotta; lasciò che il sangue
scorresse a macchiare l'asfalto ancora bagnato di pioggia. Avrebbe
portato profonde cicatrici per tutta la vita, non fuori ma di certo nel
cuore. E in fondo le desiderava, quelle maledette cicatrici, le voleva
tutte, dentro e fuori, e voleva che anche Adam le avesse, ovunque, e
che le ferite di Tommy, se vere, non si rimarginassero mai.
Ma alla fine qualcuno passò da quelle parti. Gli chiesero
come si fosse ferito, che ci facesse lì, perché
non avesse chiamato un ambulanza, se aspettava qualcuno, ma lui non
rispose. Non voleva che facessero nulla, e provò a dirlo, ma
pensarono che fosse delirante; provarono a vedere se aveva la febbre,
poi chiamarono il 911. Qualcuno gli portò della stoffa in
cui stringere la gamba per contenere l'emorragia. La tenne stretta come
gli dissero ed aspettò l'ambulanza. Si fece tirare su e
collaborò con i medici. Raccontò cosa era
successo. Ma gli sembrava di osservare se stesso compiere quelle azioni
dall'esterno, come se fosse un altro. Non gli importava. Non importava
ad Adam, non importava a nessuno, perché avrebbe dovuto
importare a lui?
–
–
– –
Stavano tornando a casa.
Adam guidava, le mani salde sul volante, gli occhi fissi sulla strada e
una fredda espressione concentrata. Non aveva detto una parola da
quando si erano visti.
Lo avevano chiamato dall'ospedale appena Sauli era entrato al pronto
soccorso e si era recato lì in fretta. Aveva parlato con i
dottori, ascoltato le loro raccomandazioni e preoccupazioni e si era
preso la responsabilità di portarlo di nuovo lì
quando sarebbe dovuto tornare a rimuovere i punti. Era stato gentile,
disponibile e sorridente, ma con Sauli non aveva parlato affatto;
l'aveva a stento guardato in faccia.
Sembrava avercela con lui. Il suo risentimento, la sua rabbia
– o qualsiasi cosa lo spingesse a non parlargli e a trattarlo
freddamente – era così intensa che Sauli poteva
sentirla semplicemente standogli accanto; e non era piacevole. C'erano
centinaia di cose non dette nello spazio tra loro, tutte stipate in
quello stretto abitacolo, e poi c'era la propria rabbia a rendere il
tutto ancora più soffocante, insopportabile. Adam ce l'aveva
con lui? E cos'avrebbe dovuto dire Sauli? Come avrebbe dovuto stare
lui? Chi aveva maggior diritto di essere arrabbiato lì?
Il biondo abbassò il finestrino affinché l'aria
gli soffiasse direttamente sul viso, fredda e tagliente, un vero
sollievo. Con gli occhi socchiusi osservò la strada che
scorreva, le auto che andavano nel senso opposto, la gente che
passeggiava sui marciapiedi, un uomo d'affari che saliva in un taxi,
una madre che teneva per mano le sue due bambine, dei turisti che
scattavano fotografie a tutto, una giovane coppia che girava tenendosi
la mano.
Ma, tempo alcuni secondi, ed Adam chiuse il finestrino sbuffando
infastidito.
“C'è l'aria condizionata accesa.”
borbottò, senza guardarlo e senza staccare lo sguardo dalla
strada neanche per un secondo. Sauli spostò il proprio
sguardo su di lui, lentamente. Prese un respiro profondo, poi due, poi
tre. Non doveva attaccarlo. Doveva stare calmo.
Adam strinse il volante sempre più forte, fino a che le sue
nocche sbiancarono, e la sua espressione si fece sempre più
contratta, innaturale. Le mani iniziarono a tremargli, e sembrava
pronto ad urlare, o in alternativa a piangere, ma non
rallentò.
“Si può sapere che cazzo ti è passato
per la testa?!” sbottò, il tono di voce alto ma
controllato, con uno sforzo evidente di cui Sauli si rese conto solo
sentendolo parlare. Iniziò ad avere paura e, non sentendolo
rispondere, Adam accelerò, tremando appena più
intensamente.
“Adam, rallenta, ti prego...” mormorò
Sauli, sempre più spaventato, mantenendosi al sedile e
guardando davanti a sé con gli occhi sgranati.
“'ADAM RALLENTA' UN CAZZO! SPIEGAMI COSA DIAMINE TI PASSAVA
PER LA TESTA, COSA CI FACEVI FUORI CASA, QUANDO SEI USCITO,
PERCHÈ E PER QUALE MOTIVO NON MI HAI AVVERTITO!”
Sauli si strinse ancora più forte al sedile, chiudendo gli
occhi, e sperando solo che si calmasse. Cos'era quello? Senso di colpa,
paura, gelosia, preoccupazione, ansia...? Da cosa dipendeva tutta
quella rabbia? Perché Adam ce l'aveva con lui?
“Io... stavo facendo jogging...” iniziò,
sussurrando, sperando che se gli avesse risposto forse sarebbe riuscito
a farlo calmare; si sbagliava. Adam non rallentò,
scoppiò invece in una risata senza allegria.
“Ha piovuto, la strada era scivolosa e faceva freddo, non fai
mai jogging con giornate così. Non mi hai avvertito prima di
uscire, ma cosa ancora più rilevante, Sauli... indossavi i jeans.
Mi hai preso per stupido?!”
Erano oramai quasi arrivati a casa. Sauli fece un respiro profondo,
mentre la sua mente lavorava velocemente per trovare una scusa
plausibile.
“Ero nervoso e preoccupato per te, sono uscito a prendere una
boccata d'aria. Pensavo a te e mi sono perso, non sapevo dove fossi.
Poi sono inciampato su quella bottiglia. È stata solo
sfortuna...”
Adam continuava a tremare, ma stavolta sembrava decisamente
più vicino alle lacrime che ad uno scatto d'ira, e lui
voleva semplicemente che tutto finisse. Non aveva alcuna intenzione di
dirgli la verità. Non voleva parlare di ciò che
aveva sentito, né confessare di averlo fatto,
perché non voleva affrontarlo, non aveva la forza per farlo.
Non voleva lasciarlo, ma gli faceva schifo l'idea di restare con lui.
Lo amava, non aveva mai smesso, ma odiava quello che gli stava facendo.
Lo amava e soffriva, e non sapeva fare altro che soffrire. Avrebbe
potuto capire Tommy, se solo avesse voluto.
Invece ciò che Sauli avrebbe voluto era semplicemente
smettere di provare sentimenti per lui. Solo quello. Cancellare tutto
quell'amore che gli stringeva il cuore in una morsa, sfuggirgli,
ucciderlo per non esserne ucciso. Ma non si può smettere
d'amare una persona perché ti ferisce: magari fosse
così semplice. Una persona la si ama e basta, e spesso non
si smette mai di farlo. Si continua a provare amore nonostante tutto,
anche quando ogni cosa è finita, andata, marcita. E si muore
dentro.
–
–
– –
“Cosa hai sentito?”
Fu un mormorio, quello di Adam, a stento udibile nel silenzio della
stanza.
Sauli si voltò a guadarlo: gli dava le spalle, sommerso
dalle coperte fino alla testa, e probabilmente fissava quelle poche
schegge di luce che filtravano dagli infissi chiusi. Probabilmente
stava piangendo, di nuovo.
“Di che stai parlando, Adam?” Sauli
mormorò piano. Non aveva sentito nulla, non voleva aver
sentito nulla, e fin quando non avrebbe fatto chiarezza dentro di
sé avrebbe finto di non aver sentito nulla. Se ne avessero
parlato ora, Sauli non era sicuro di riuscire a prendere la cosa con la
giusta razionalità. Anche perché dubitava
esistesse un modo razionale di prendere la cosa.
Ma a quanto pare ad Adam l'idea di aspettare non piaceva.
“Mi hai sentito parlare con mio padre, non è
così?” gli domandò, voltandosi a
guardarlo. Aveva gli occhi gonfi ed arrossati di pianto ed il dolore
negli occhi.
Sauli non riuscì a mentirgli. Annuì. Forse
avrebbe chiesto scusa, chissà, avrebbe invano tentato di
smentire quelle parole, almeno ci avrebbe provato.
“Mi dispiace per quello che ho detto, ma è la
verità.” mormorò invece Adam, chiudendo
gli occhi e sospirando di sollievo, come privato di un grosso peso.
Sauli perse il controllo. Lui ci aveva provato a tenerselo dentro, ad
aspettare che tutta quella rabbia si raffreddasse, che il dolore
scemasse, ma Adam, lui non gliene aveva dato il tempo.
“Vaffanculo.” sibilò.
“Vaffanculo.”
Cosa ne voleva sapere lui della sofferenza? Cosa aveva lui da piangere?
Aveva solo distrutto la sua vita. Gli aveva solo dato un'illusione di
cui vivere e poi gliel'aveva sottratta brutalmente. Cosa credeva? Che
tutti fossero delle merde insensibili come lui?
“Mi hai mentito su tutto, Adam. In tutti questi anni, non hai
fatto altro che illudermi, te ne rendi conto? Non una sola parola che
mi hai detto era vera. Sai cosa vuol dire per me?”
iniziò Sauli, cercando inutilmente di trattenere la furia, e
quasi ringhiando le sue parole, seduto sul bordo del letto, la testa
tra le mani.
“Ti ho detto delle cose che per me erano vere, Sauli, le
pensavo davvero mentre te le dicevo! Solo che adesso ho capito... ho
capito che mi sbagliavo...” si giustificò il moro,
mettendosi seduto, allungando una mano a sfiorargli la spalla. Voleva consolarlo?
Sauli sfuggì al suo tocco e si alzò in piedi di
scatto, come bruciato.
“E credi che per me voglia dire qualcosa?”
urlò, praticamente in lacrime. “Credi che mi
faccia stare meglio? Ho vissuto in un'illusione! Tu mi hai illuso!
Adam, so che non riesci a capire, ma io ho abbandonato la mia vita per
te, per ciò che provavamo, per la nostra storia insieme, per
la nostra vita insieme. Ho sopportato tutti i tuoi difetti, ho
accettato tutte le tue stranezze, mi sono fatto forza da solo quando tu
non c'eri al mio fianco e non te l'ho mai rinfacciato. Non ti ho mai
rinfacciato nulla. Ti amo, Adam, o almeno credevo di farlo. Credevo in
noi. È questo quello che ottengono le persone che ti amano? Merda?
Mi hai rovinato la vita, Adam. Non
te lo perdonerò mai.”
Con questo, semplicemente andò via. Si chiuse dietro quelle
maledette porte, si chiuse dietro quella maledetta vita.
Non voleva vedere Adam.
Mai più.
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Capitolo 8 *** Goodbye ***
Titolo: Bright Light
Autore: itsjjoy
Fandom: RPF Adam
Lambert
Genere: Angst,
Introspettivo, Romantico
Tipologia: Long Fic
Conteggio Parole:
(capitolo) 3151
Pairing/Personaggi: Adam
Lambert/Tommy Joe Ratliff; Tommy Joe Ratliff/Isaac Capenter; Isaac
Carpenter/Sophie Carpenter; Dia Ratliff; Matthew Davis;
Rating: Giallo
Avvertimenti: Slash,
Het, What if?, OOC
Note: Questo
capitolo mi piace molto, davvero molto *-*
Vi mando un abbraccio!
08 Goodbye
Isaac lo
stringeva tra le braccia, mentre era in ginocchio sul pavimento.
Tommy singhiozzava, disperato come non era da tempo, e lacrime su
lacrime bagnavano i vestiti dell'amico mentre lui vi si aggrappava con
tutta la forza che aveva. Era peggio di quanto non fosse mai stato.
Peggio di tutto, peggio di quella volta che aveva ingurgitato
dieci di quelle sue pillole insapore, sua madre l'aveva trovato e lui
aveva implorato di morire.
Era peggio perché Isaac piangeva con lui e non per lui,
piangeva per il proprio dolore.
–
– –
–
“Non ce la
faccio più.
Lo so che non
è colpa tua, lo so che non è colpa sua, non
è colpa di nessuno se non la mia, ma è
così che stanno le cose: non ce la faccio più.
Isaac, io volevo una
vita per noi. Volevo che fossimo felici. Volevo un figlio da te. Volevo
la felicità che meritiamo. Volevo i nostri sogni. E lo so
che la vita non va mai come uno vuole che vada, che bisogna prenderla
così come viene, e che basta stare insieme e farsi forza...
Ma, vedi Isaac, io mi
sto logorando dentro. Non vivo più. È tutto buio,
è tutto insensato, è tutto stancante. Non ricordo
neanche più come sia essere felici.
Tommy, io non riesco
più a guardarlo negli occhi. Anche solo vederlo mi... mi
priva della voglia di vivere.
Non fraintendermi,
Isaac, io gli voglio bene, sai quanto gli voglio bene. Lo amo come un
amico, come un fratello, come un figlio. Tommy è... ha una
forza incredibile. Ma da quando quel dannato giorno, Adam è
andato via, riesce a mantenere quella forza solo se ci sei tu. Vive
grazie a te, Isaac. E io non posso chiederti di stare via da lui
neanche per un giorno, perché so che ha bisogno di te.
Ma io, io ho bisogno di
una pausa.
Andrò via per
un po', starò da mia cugina Susie a San Francisco.”
Questo gli aveva detto Sophie, in lacrime, prima di prendere le sue
cose ed andare via, ed a nulla erano valse le sue suppliche, le sue
preghiere, i suoi pianti. Era forte, Sophie, e quando decideva
qualcosa, nessuno le faceva cambiare idea. Era forte ed Isaac sapeva
che poteva farcela ad esserlo anche per Tommy.
Il fatto era che non poteva essere forte per tutti e tre.
Ed era quello che aveva fatto, invece, per cinque lunghi anni: aveva
trovato, da qualche parte, la forza per tutti; si era consumata per
loro, aveva dato tutto e ora non ne poteva più.
Isaac comprendeva. Capiva che prendersi una pausa era la cosa giusta
per lei, ma non riusciva ad accettarlo. Non riusciva a vedere il letto
vuoto, non riusciva ad affrontare la sua vita senza gli occhi di lei a
fargli coraggio – quei magnifici occhi castani –,
non riusciva a fare tutte quelle cose di cui lei si prendeva cura da
tanto tempo, perché lei era più brava, lei le
faceva meglio. Sophie era perfetta, la sua personale isola di bellezza
e di felicità, la sua ancora, la sua vela, il suo tutto. E
quando scendeva la notte, quando c'era vento, quando le tende
– quelle che lei aveva amorevolmente scelto –
fendevano l'aria al ritmo della brezza, le porte sbattevano e la stanza
era buia, tutto sembrava più freddo senza Sophie, la sua
Sophie. In quei momenti, solo, ripensava alla sua giornata: un
alzataccia per prendere Tommy a lavoro, preparargli la colazione,
aspettare sua madre – era Dia a stare col figlio quando Isaac
non c'era – e poi via a lavoro, tutto di corsa, tornare a
casa, far mangiare Tommy e fissare quel posto sul divano, vuoto di lei,
e crogiolasi nella propria solitudine mentre Tommy si cullava nella
propria. A volte lo invidiava, invidiava quel suo sguardo vacuo ed
assente, come se non sentisse il tempo passare e la vita correre via
mentre lui la guardava, inerme, inutile, perso in se stesso. Ma poi
Tommy parlava – sussurrava flebilmente, le sue labbra
accarezzavano le parole con l'eleganza di qualcuno che sta per spirare,
con la composta e impeccabile disperazione di un uomo che sa di essere
condannato a morte ma non gl'importa. Parlava della sua giornata, di
una certa Rose che lavorava al supermercato ed insisteva per
socializzare con lui, poi si zittiva all'improvviso e Isaac glielo
leggeva negli occhi il motivo. Adam, Adam, Adam, voleva lui, gli
mancava lui. “Oggi l'ho pensato” oppure
“Hai notizie di lui?”.
“Mi manca Sophie” diceva ogni tanto, e Isaac sapeva
che era vero, e sapeva anche che Tommy poteva capirlo quando replicava
semplicemente “Anche a me” con gli occhi spenti.
Tommy, anzi, conosceva un dolore peggiore del suo. Tommy non chiamava
Adam ogni sera; Tommy non si sentiva mormorare 'ti amo' o 'buonanotte'
da lui, neanche da una fredda cornetta; e chissà quanto e da
quanto desiderava lasciarsi cullare dalla sue braccia finché
tutto il resto non avesse perso importanza. Solo in quel momento Isaac
capì quanto Tommy fosse terribilmente forte: lui si sarebbe
spezzato. Lui si sarebbe piegato sotto il peso di un'esistenza
svuotata, e avrebbe lasciato il suo cuore infranto collassare ed
abbandonarlo; si sarebbe lasciato morire.
Faceva quei pensieri, di notte, rannicchiandosi sotto le coperte e
cercando invano un calore che non trovava, perché era
terribilmente solo e si sa che la solitudine è fredda.
Sentiva più che mai la mancanza della pelle chiara, morbida
e calda di sua moglie, delle sue labbra rosse e saporite, delle sue
mani delicate, della sua stretta dolce ma decisa; gli mancavano il suo
corpo nudo che giaceva accanto al proprio, le sue gambe flessuose, il
suo fondoschiena aggraziato e i seni sinuosi, e soprattutto quel ventre
caldo ed accogliente in cui si rifugiava ogni volta. Non era lussuria,
era un istinto ancestrale, il desiderio di vivere quella sensazione di
sicurezza e di pace che provava ogni volta che facevano l'amore, la
voglia di restare per sempre lì, al sicuro e al caldo,
dentro di lei.
La sua Sophie non se n'era andata, ricordava a se stesso, si era solo
presa una pausa. Sarebbe tornata presto: fino ad allora doveva andare
avanti senza di lei. Doveva farlo per se stesso e per Tommy, doveva
farlo per non deluderla. Stavolta, toccava a lui essere forte.
–
– –
–
Prima di andare via, Sophie era entrata nella sua stanza, si era messa
seduta sul bordo del letto e gli aveva baciato la fronte.
“Ricordati che ti voglio bene. Mi prometti che non ne
dubiterai mai?”
Tommy non capì. Annuì, ovvio che non ne avrebbe
dubitato, Sophie era stata come una seconda madre per lui e come tale
lo amava.
E fu come una madre che capisce che il suo bambino è ormai
grande che Sophie affrontò il discorso, senza bugie, senza
inutili omissioni. Gli spiegò le cose come stavano. Gli
spiegò che soffriva a stare lì. Gli
spiegò che quella vita stava diventando una gabbia per lei,
un tormento a cui non voleva sfuggire perché li amava troppo
entrambi, ma da cui doveva proteggersi in qualche modo.
Tentò di fargli capire come si sentiva, ma non ci
riuscì, perché lui la bloccò. Fece un
gesto, e scosse la testa, poi la guardò negli occhi e le
sorrise.
Non c'era traccia d'allegria nel suo sguardo, solo un sorriso meccanico
e rigido incollato sulla faccia. Eppure, per quanto forzato, non aveva
nulla di freddo. Tra quelle labbra curve si potevano scorgere migliaia
di parole mai dette perché la persona a cui erano rivolte
non le avrebbe ascoltate. Guardando i suoi occhi spenti ed infossati,
lividi di sonno, si poteva sentire tutta la sua sofferenza. E nel suo
viso scavato dai lunghi giorni di digiuno e dalla fatica di vivere,
c'era l'immagine del suo tormento, urla mute scolpite nelle pieghe
della sua magrezza. Era terrificante, e contemporaneamente doloroso. In
quel momento, Sophie si rese conto di stare scappando da lui, di stare
facendo proprio ciò che rimproverava ad Adam, ed anche di
comprenderlo. Capiva perché era corso via ed anche
perché e quanto dovesse sentirsi in colpa: terrore e dolore;
ciò che sentivano tutti quelli che guardavano con attenzione
Tommy, anche solo per pochi secondi.
“Ti capisco, Sophie. Se potessi, anche io fuggirei da me
stesso.” disse semplicemente, e poi non aggiunse
più nulla. La abbracciò forte, tanto che a Sophie
venne da piangere, perché tutto quello aveva il sapore di un
addio.
“Io... Non starò via troppo a lungo, Tommy. Non
sto scappando da te.” mormorò lei, guardandolo
negli occhi ed accarezzandogli il viso. “Tornerò
presto. E prima, vi verrò a trovare.”
Tommy indossò di nuovo quel sorriso triste e
annuì.
“Proverò ad aspettarti.” disse, e Sophie
non capì subito quella frase (o forse non volle capirla), ma
fu in qualche modo consapevole che quel momento non aveva solo il
sapore di un addio, era un addio.
“Grazie, Sophie... Grazie davvero.” aggiunse Tommy,
in un flebile sussurro che aveva però un che di solenne,
confermando le sue paure. Lei stava uscendo dalla sua camera, e quelle
parole la fecero voltare un'ultima volta. Lo guardò, forte e
fragile, eroe e vittima, amico, fratello e figlio.
Non gli chiese mai con precisione di cosa la stesse ringraziando.
–
– –
–
Sophie l'aveva avvertito, e giorno dopo giorno Isaac ne aveva avuto
conferma. Aveva notato quelle piccole cose – sguardi, parole,
gesti – che Tommy faceva, ed ognuna di loro sembrava il
tassello di un puzzle che stava per finire. Improvvisamente sembrava
che nella sua mente ogni cosa avesse trovato la propria sistemazione,
che la sua vita avesse trovato un proprio ordine, e che giorno dopo
giorno stesse per arrivare a qualcosa. Meticolosamente, con
un'attenzione ed una precisione quasi ossessiva e persino un po'
d'affetto, Tommy stava facendo tutte quelle cose che ci si dimentica
sempre di fare, che si trascurano perché si sa che si
avrà sempre tempo per farlo. Pulì le sue
chitarre, una per una, le accordò e le sistemò in
camera, prendendosene cura ogni giorno, ma senza mai suonarle, quasi
fossero soprammobili; sistemò i fiori che tenevano nei vasi
sul balcone, li concimò e li aiutò a tornare
belli e pieni di vita; andò a tagliarsi i capelli, e la
barba, ed iniziò a prendersi cura del suo aspetto, facendone
un rito; ricominciò a mangiare regolarmente, e a leggere
alcuni libri che andava in biblioteca a prendere in prestito ogni
lunedì. Diventò taciturno e solitario,
più di quanto lo fosse mai stato, ma ogni tanto, quando
Isaac lo guardava, gli sembrava quasi soddisfatto – non
felice, solo soddisfatto
– come se avesse capito qualcosa, qualcosa di importante, e
adesso sapesse cosa fare.
“Presto la smetterò di pesarvi così
tanto.” disse un giorno ad Isaac, con quella smorfia
soddisfatta, mentre lui finiva di fare colazione. Tommy si era infilato
il pigiama e se ne stava seduto su una sedia fissando il piatto vuoto
della propria colazione. Aspettavano insieme Dia. La madre di Tommy,
infatti, da quando Sophie era andata via, dava una mano in casa. Era
lei a tenere d'occhio il figlio mentre dormiva, dopo il suo turno di
notte: lo svegliava poco dopo le quattro e lo faceva pranzare, poi lo
salutava dopo appena un'ora, quando Isaac ritornava da lavoro, la
ringraziava ed ogni giorno – ogni singolo giorno –
la invitava a restare per un caffé o persino per cena. Ma
ogni volta Dia reclinava l'offerta.
Quella mattina, la frase di Tommy spezzò il silenzio e
colpì Isaac. Lo inquietò non poco e lui non
voleva razionalmente accettare il dolore inspiegabile che
provò a sentirla.
“Intendi perché adesso hai uno
stipendio?” replicò, forzando un sorriso nervoso e
voltandosi a guardarlo.
Il biondo lo guardò con una strana espressione.
“Certo. Non sei contento?”, rispose pacatamente,
abbassando lentamente le palpebre con l'aria stanca, come se parlare
gli costasse un'enorme fatica.
Finì lì.
Isaac rimuginò su quelle parole per tutto il giorno. Lo
avevano lasciato freddo dentro. Sembrava più che Tommy
intendesse che presto se ne sarebbe andato e li avrebbe lasciati in
pace. Ma Isaac non voleva essere lasciato in pace. Isaac amava Tommy.
Dia bussò e lui andò ad aprirle senza pensarci,
senza neanche chiedere chi fosse. La salutò a stento, poi le
diede le spalle e tornò da Tommy. Non voleva salutarlo. Non
voleva perderlo d'occhio neanche un'istante. Non voleva separarsi da
lui, ma lo fece lo stesso. Come ogni volta gli baciò la
fronte e lo abbracciò senza aspettarsi da lui alcuna
reazione che non fosse disagio. Ma poi, prima di sciogliere la stretta
ed andarsene, lo guardò negli occhi e lo supplicò.
“Non lasciarmi.”
Una stupida lacrima gli sfuggì, ma non aveva importanza.
L'importante era non perderlo, mai. Tommy era la sua forza, e Isaac
voleva essere lo stesso per lui. Era quello che aveva cercato di fare
da quando lo conosceva, eppure in tutti quegli anni non aveva mai avuto
l'impressione di esservi riuscito.
–
– –
–
“Come va il lavoro?”
“Mhhh...” le labbra di Tommy si contrassero in una
smorfia. Ogni volta era la stessa storia. Sapeva che sua madre sarebbe
stata felicissima se si fosse confidato con lei, ma odiava parlare. E
soprattutto non voleva farlo perché lei cercava sempre di
deviare la discussione su Adam, per dire la sua. Non perdeva mai
l'occasione di ricordargli come lei l'avesse capito fin dall'inizio che
qualcosa non andava e che non avrebbe mai funzionato con quel ragazzo
che voleva sempre tutto e non dava nulla in cambio. Adam, che voleva
mettere un piede in due scarpe e farci una scalata, Adam che non
rispettava la sensibilità altrui, Adam che aveva fatto male
a lei quanto a lui, perché Dia amava suo figlio. Tommy non
riusciva a sopportare il peso di quelle conversazioni che risvegliavano
dolori passati e rancori quasi dimenticati. Odiava parlarle
perché Dia soffriva anche solo a vederlo e lui non poteva
sopportare l'espressione triste nei suoi occhi. Sapeva di averla
delusa, sapeva che non le aveva mai dato molte ragioni per essere fiera
di lui, non un lavoro ben remunerato, non il successo che sognava di
avere, non la grande casa in campagna che le aveva promesso per la
vecchiaia. Non era indipendente, non le aveva dato nipotini
né la soddisfazione di vederlo sistemato. Non poteva neanche
dirle di essere felice. L'aveva delusa, una volta e poi mille ancora, e
l'avrebbe delusa per sempre. E glielo aveva detto, le aveva detto che
sapeva di essere una delusione, ma Dia si era limitata a stringerlo in
un abbraccio profumato d'infanzia e di malinconia, e Tommy aveva
pianto. “Non sei una delusione...” aveva tentato di
consolarlo Dia, ma le lacrime cadevano e le ragioni per versarle si
accumulavano nella sua testa fino a farla scoppiare.
Quel giorno Tommy non voleva piangere. Non voleva cedere un'altra
volta. Ma forse Dia l'aveva capito, come una madre fa sempre, aveva
capito il suo bambino. Gli porse il proprio cellulare per fargli
leggere un messaggio. Aveva un'espressione indecifrabile, e disse solo:
“Se gli do un'altra possibilità è
perché tu ne hai bisogno, non perché lui se la
meriti.”
Tommy non ebbe bisogno di leggere il destinatario per capire chi fosse.
Era lui, chi altri? Il suo tormento, la sua ossessione e l'unico che
avesse mai meritato il suo amore. L'sms non conteneva altro che il
numero di Tommy, preceduto dal suo nome e seguito da un
“fanne buon uso”. Non era firmato.
“L'ho inviato dieci minuti fa. Isaac e Sophie non sanno
nulla, né devono saperlo.” gli spiegò
la donna, sussurrando in tono complice, e Tommy si sentì
tanto un bambino. Per la prima volta dopo tanto tempo sentì
il bisogno di un abbraccio, un bisogno che sua madre non era preparata
a capire e che non riuscì a cogliere. Ma d'altronde
è sempre così con gli abbracci, mancano sempre
quando ne hai bisogno, un po' come le persone che scappano via nei
momenti peggiori.
Fu un dovere per quella madre distrutta dalla malattia del figlio
assecondarne i bisogni e alimentarne le illusioni. Le persone sono come
le cose, si rompono e non ritornano più come prima, non
importa quanta colla si utilizzi, né quanto tempo vi si
dedichi, né l'attenzione e la cura che vi s'impieghi. E come
Tommy, anche Dia si era rotta e non aveva più la forza di
fare quel che credeva giusto, ma solo di fare ciò che le
imponeva il cuore. Diede una speranza a Tommy per darla a sé
stessa, perché le preghiere non bastavano più.
Gli diede una speranza perché voleva aggrapparcisi con lui e
tenerlo stretto e pregare che li riportasse entrambi a galla. Lo fece
perché voleva crederci nelle persone, voleva credere
nell'amore e voleva credere che per Tommy ci fosse ancora tempo, ci
fosse una vita, ci fosse un flebile Sole. Lo fece perché per
una volta voleva fidarsi di quella buffa cosa chiamata destino e
dimostrare a sé stessa che quello di suo figlio non era
morire così, non era una palude d'oscurità, non
era il dolore. Sapeva meglio di chiunque altro quanto il suo bambino
meritasse di essere felice e non poteva vivere senza credere che prima
o poi sarebbe arrivato il suo momento.
La speranza sa essere una cosa strana, e fu strano il modo in cui
riuscì a distruggere Tommy, fu peculiare il modo in cui un
soffio di nostalgia riuscì a causare un incredibile disastro
in mezzo ai cristalli del suo dolore. Il baratro si spalancò
per l'ennesima volta, infinito e senza pietà, proprio sotto
di lui. Che stupido che era stato, a pensare di aver raggiunto il
fondo! Si era tranquillizzato e aveva messo a posto la sua vita, aveva
pensato che si sarebbe stabilito lì, si sarebbe abituato a
quel freddo, tutto sommato lo aiutava ad anestetizzare il dolore, e
forse sarebbe vissuto così, ad aspettare il nulla, svuotato
da tutto, ma avrebbe vissuto. Quella sistemazione aveva anche iniziato
a piacergli... ma doveva saperlo, doveva immaginare che la depressione
è infinita come l'universo. Lui la conosceva bene, quella
pozza buia e densa in cui puoi affondare senza fine, senza mai vedere
la luce. E, anche se gli piaceva raccontarsi tutta un'altra storia,
quelle stupide stelle che gli sembrava di vedere non erano nulla se non
dolore così pungente da provocargli le allucinazioni, e
quelle labbra che sognava di notte erano solo le briciole di
un'illusione ormai vecchia, sfumata dal tempo e dalle lacrime. Non
poteva continuare così, non poteva combattere per respirare
in ogni istante della propria vita, non poteva aggrapparsi al fumo di
inutili speranze, non poteva fingere che quello che ormai si prolungava
da cinque anni non fosse che un lento, lentissimo omicidio e non poteva
più fingere di non sapere che, come tutti gli omicidi, si
sarebbe potuto concludere solo con una cosa: la morte.
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Capitolo 9 *** Broken Hearts (pt.1) ***
Note: Ci ho messo un
po', ma ecco il nuovo capitolo. Ho iniziato anche una revisione
dell'HTML dei vecchi, che finirò in brevissimo tempo. Non
cambierà molto, ma credo che questo modo di gestire i
capitoli risulterà più ordinato.
Se pensate che questo capitolo sia triste allora per il prossimo
preparate i fazzoletti, perché sarà orribile :D
Fatemi sapere che ne pensate! Enjoy!
09 Broken hearts
(pt. 1)
“Non lo
facciamo da un po', ricordi come funziona?”
Tommy
annuì, mentre la rabbia ed il dolore già
iniziavano a gonfiarsi nella gola, ma il dottor Davis decise che gli
avrebbe spiegato lo stesso cosa doveva fare. Non sapeva cos'altro dire,
d'altronde. Aveva un nodo in gola e le lacrime premevano per bagnargli
il viso, e glielo avevano detto che ai clienti non ci si può
affezionare, gliel'avevano anticipato che quel caso sarebbe stato un
fallimento, ma Matthew non aveva voluto crederci. Poi era successo, poi
aveva realizzato la verità. Aveva ascoltato le poche parole
che intramezzavano i lunghi silenzi di Tommy e aveva capito che non
c'era più speranza. Aveva fallito. Thomas non sarebbe
guarito, il dolore l'aveva sommerso da troppo tempo, l'aveva soffocato
e l'unica persona capace di salvarlo non l'avrebbe mai fatto.
È macabro ed incredibile pensare a come una malattia
invisibile a qualunque macchinario possa distruggere ed uccidere una
persona nel peggiore dei modi.
Tommy Joe Ratliff era
sempre stato una persona ordinariamente fantastica. Matthew adesso
sapeva tutto di lui. Conosceva piccoli dettagli della sua infanzia
serena, le pene e la gioia della sua adolescenza complicata esattamente
come quella di ogni ragazzo; sapeva capire la sua
sensibilità da artista e apprezzare la gentilezza e la
pacatezza che lo caratterizzavano; lo amava, il suo essere un eterno
ribelle, un bambino che non crescerà mai e soprattutto
ammirava la forza con cui, anche dopo tutto quello che era successo,
era capace, nel profondo del suo cuore, di essere fiero di quello che
era, di non pentirsi, di non giudicarsi e di accettare pacatamente le
sua vita per ciò che era, nonostante fosse una pozza di
dolore nero e soffocante. Una persona magnifica in ogni sua
sfaccettatura, distrutta da un male invisibile e incurabile, da un
sentimento, da qualcosa di astratto eppure eccessivamente reale.
E lui, Matthew Davis,
che aveva studiato medicina per far del bene al mondo, lui che aveva
scoperto grazie a suo padre che i mali peggiori sono quelli che stanno
nella testa delle persone, la stessa persona che non aveva potuto
accettarlo e perciò aveva deciso di diventare
psicoterapeuta, ora doveva restare impassibile, doveva guardare negli
occhi un paziente ed amico e doveva fingere che tutto andasse bene,
mentre dentro di sé sapeva di aver fallito. Un amico,
già, perché Tommy ormai era anche quello per lui,
e forse era per questo che faceva così male sapere di essere
stato incapace di salvarlo.
Fino a quel giorno era
sempre riuscito a mantenere un comportamento professionale durante le
sedute, ma quella volta, quella volta si lasciò andare al
sentimentalismo.
“Chiudi gli
occhi e immagina di parlare ad Adam.” lo istruì,
come tutte le altre volte che aveva provato a farlo parlare in quella
maniera. Ma poi, dopo un profondo sospiro, proseguì
diversamente. “So che pensi che sia inutile, che lui non
può sentirti, lo hai sempre pensato ed io l'ho sempre
saputo. Ma, Tommy, oggi voglio dirti che non lo è. Non
è inutile perché se è vero quello che
sai, se è vero che ti ama e non vuole accettarlo, se
è vero che siete fatti l'uno per l'altro, se è
vero che il vostro amore non finirà mai, allora nulla
è inutile. Ogni tuo respiro vale, ogni secondo che combatti
per vivere, ogni attimo in cui ti sforzi di portare il fardello del tuo
dolore, ogni momento serve a non farlo morire. A non farvi morire. Come
hai detto una volta, il vostro è l'amore più
bello del mondo, la fiaba che nessuno si stancherebbe mai di
raccontare. È vostro ed è di tutti gli innamorati
del mondo. È la canzone senza fine che fa muovere
l'universo. È per questo che cinque anni dopo sei qui,
ancora pronto a morire per lui, ed è per questo che non puoi
arrenderti. Lo sai che se anche solo uno di voi due si arrendesse per
davvero, se solo uno di voi due morisse, allora neanche l'altro
potrebbe sopravvivere, perché siete una cosa sola. Le sai
queste cose, Tommy. Me le hai fatte capire tu. Ora, ti prego, non
mollare. Non farlo, perché non può finire
così. Non smettere di sperare, Tommy. Digli quanto male ti
ha fatto, urlamelo, e anche lui lo sentirà,
perché siete legati indissolubilmente. Credici, Tommy.
Credici perché è l'unica cosa a cui valga la pena
di credere.”
Nessuno gli aveva mai
parlato in quel modo di loro, nessuno era mai stato così
partecipe, nessuno lo aveva mai davvero capito come Matt era riuscito a
fare. Adam era stato per tanto tempo il malvagio della
situazione, la causa dei suoi mali, l'essere orrendo che l'aveva
ferito, e lo era stato per tutti tranne che per Tommy stesso. In quel
momento si rese conto di quanto gli facesse male dover nascondere come
in realtà – nonostante tutto – lui
pensasse ad Adam come ad una persona magnifica, come ogni notte
sognasse il suo sorriso gentile, come gli avesse già
perdonato ogni istante di dolore passato e come, alla fine della
giornata, spendesse sempre qualche minuto a sussurrare a sé
stesso cosa gli stesse perdonando quella volta. Per la prima volta da
tanto tempo si sentiva compreso, sentiva di poter dire qualunque cosa
su Adam senza essere attaccato o giudicato. Finalmente poteva amarlo
senza doversene vergognare.
Così chiuse
gli occhi ed iniziò a parlare.
“Sai, Adam,
quando ti ho conosciuto pensavo tu fossi perfetto. Dolce, comprensivo,
altruista, gentile, sincero. Il cuore mi batte ancora tanto forte da
farmi male quando ripenso al giorno in cui ti ho incontrato e la mia
mia vita è cambiata per sempre.” Tommy, gli occhi
ancora chiusi, rilassò il viso in un breve sorriso, che per
una volta sembrava sereno. “Mi sono innamorato di te quando
ti ho visto, e lo so che non l'ho mai ammesso, ma sei diventato il
centro della mia vita in quell'istante. Poco importa che ti sei
rivelato essere il contrario di ciò che credevo. Poco
importa che dolce non lo sei quasi per nulla, che dici bugie su bugie,
che spesso mi hai trattato male, che sei egoista, che vuoi sempre tutto
e non dai mai niente in cambio. Ti amo così, esattamente
come sei. E vorrei tanto capire come è possibile. Mi
piacerebbe spiegarti perché, mi piacerebbe elencarti una
serie di aspetti del tuo carattere che ti rendono così
amabile ai miei occhi, ma non ne conosco. So solo che quando non ci sei
sono un guscio vuoto, un corpo senz'anima, un sorriso senza allegria.
Vorrei poter 'andare
avanti'. Quando mi dicono che devo dimenticarti, che dopo tutto questo
tempo dovrei farmene una ragione, che ti ho perso ormai e non
c'è nulla che io possa fare se non voltare pagina, vorrei
chiedere loro cosa pensano di me. Credono che io sia felice di non
esserne capace? No, non è felice la parola giusta. Vorrei
non riuscire a perdonarti, vorrei odiarti
per tutte quelle volte che mi hai ferito, per tutte le
volte che ho pianto per te, perché hai distrutto la mia
vita, mi hai tolto sogni, speranze, amore. Dovrei odiarti
perché tutto ciò che volevo era starti accanto,
non importava quale fosse il prezzo, ma tu non me l'hai permesso. Non
volevo possederti, sapevo che non potevi essere mio, l'ho sempre
saputo. Semplicemente, non volevo neanche respirare se non nella tua
stessa stanza. Mi sarebbe bastato poterti essere amico, poterci essere
per te, invece tu mi hai dato tutto ciò che potevi darmi ed
io mi sono illuso di poter essere felice per sempre, con te; e poi, poi
mi hai tolto tutto ciò che mi avevi dato e tutto
ciò che ti avevo dato io in cambio. Ti sei preso tutto e mi
hai privato di persino di me stesso.
Eppure, Adam, io non
ti odio.
Ogni sera ti perdono
per ogni lacrima che ho versato, ogni giorno mi sveglio pensando a te,
in ogni istante spero di vederti tornare. Puoi immaginare quanto male
mi fa, Adam? Puoi capire quanto soffro ad essere sempre pronto ad
accoglierti anche se sono consapevole che tu di me non hai alcun
bisogno? Ti rendi conto di che tortura sia per me accorgermi ogni
giorno che non posso fare altro che sceglierti, nonostante
tutto?”
A quel punto Tommy si
fermò per qualche momento, quasi come se volesse solo
riprendere fiato, ma poi si nascose il viso tra le mani ed
iniziò a singhiozzare sommessamente. Piccoli tremiti lo
scuotevano ogni tanto, e si strofinava le dita sulla faccia quasi
tentando disperatamente di nascondere quelle lacrime, di eliminarle, di
cancellarle per poi far finta che non fossero mai esistite. Ma persino
dalla sua postura si evinceva il dolore che portava dentro, ed era
più grande ed oscuro che mai. Matt aveva quasi freddo, si
sentiva come se quelle lacrime stessero gelando il mondo, e voleva
correre da lui e stringerlo forte, voleva dirgli che sarebbe andato
tutto bene, voleva giurarglielo e poi mantenere la promessa, voleva
dirgli che andava bene così, che non doveva parlare ancora,
non se faceva così male. E stava per farlo, ognuna di quelle
cose, ma il biondo aprì gli occhi a fissare la moquette e
tra le lacrime riprese a parlare e lui non ebbe il coraggio di muovere
un dito. Restò ad ascoltarlo pietrificato, stregato,
sopraffatto da tutte le emozioni contrastanti che provava nel guardarlo.
“Perché
hai scelto me? Tra tutte quelle puttane che volevano darti il culo e
suonavano da Dio, Adam, perché quel giorno all'audizione hai
scelto me? Perché mi hai voluto, mi hai amato? Ci deve
essere una ragione, deve esserci un perché, deve esistere
qualcosa in cui io possa credere!” La sua voce si era alzata
di volume, e si era fatta disperata. Matthew non l'aveva mai sentito
parlare con un tono così alto. La cosa lo spaventava, quasi.
“Credevo in
mio padre, ma poi è andato via. Credevo in te, ma mi hai
lasciato anche tu. Come hai potuto farlo? Mi avevi promesso che non
sarebbe accaduto, che non sarebbe successo mai! Perché mi
hai fatto questo? Ti giuro...” Tommy smise all'improvviso di
parlare. Riprese fiato, tirò su col naso e pareva si stesse
calmando, ma alla fine si abbandonò ad una nuova serie di
singhiozzi. “Ti giuro, ci sto provando a credere in
qualcos'altro! Ma so che non può funzionare,
perché sei l'unico: ci sei solo tu, il resto non importa, il
resto non vale, il resto non esiste. Ci sono io che cado nel vuoto e
poi ci sei tu, solo tu puoi salvarmi, e lo so che verrai.
Verrai...”
Tommy
sospirò, asciugandosi ancora le lacrime che non smettevano
di scorrergli lungo le guance pallide. Sembrava riflettere su quello
che aveva appena detto, e tra le labbra sussurrava quella parola, in
continuazione. 'Verrai'.
Era il ritmo che scandiva il suo respiro, il suo mantra, la sua unica
speranza, la forza che lo spingeva a tentare di vincere la sua guerra.
A guardarlo in quegli istanti sembrava davvero pazzo, ma
d'altronde cosa sono i pazzi se non persone sconfitte dalla vita?
“Ti
supplico...” mormorò piano il biondo. Si
interruppe per alcuni istanti, stringendo il lembo della felpa tra le
dita sottili e fissando il dottore quasi fosse lui Adam. “Non
lo voglio questo cuore spezzato, questo corpo distrutto, questa vita
insensata. Non ho mai chiesto al tuo ricordo di farmi impazzire. Ma
è così che va, ed io ti amo, e non posso farne a
meno, non ce la faccio, non sono così forte, non adesso, non
più, non con te.”
Un bastardo, piccolo
pensiero si insinuò nella mente di Matthew Davis.
Più che un pensiero, una vocina, una stupida vocina convinta
e stronza che era tornata a dimostrargli di aver ragione. 'Che ti avevo detto? Sapevi che
sarebbe finita così, Matt!'
Già, lui
aveva sempre saputo che Tommy avrebbe perso la sua guerra con la vita,
eppure ci aveva provato lo stesso ad aiutarlo. Che stupido che era
stato a sperare di poter essere lui a cambiare quel terribile destino.
L'unico uomo al mondo che poteva farlo era stato la causa di tutto.
“Sai
qual'è la cosa più divertente, Adam?
Io non me ne pento.
Ancora oggi, anche adesso che so come andrebbe a finire, rifarei tutto
da capo. Tutto. Da quando sono nato fino ad oggi, ripeterei ogni
scelta, ogni errore, ogni successo ed ogni fallimento, ogni pianto ed
ogni risata. Rivivrei ogni istante, meticolosamente, perché
so che mi porterebbe da te. Capisci? Non voglio altro che poter vivere
ancora un giorno in quel passato così bello e
così lontano, con te, prima di morire. Mi accontenterei di
un giorno solo. E se esiste un'altra vita, quando la vivrò
cercherò te. Solamente te. Perché ne vale la
pena.”
Tommy
sospirò con aria sfinita, si prese la testa tra le mani e
restò lì, in silenzio, a pregare che quel giorno
arrivasse, che Adam riuscisse finalmente a restituirgli quel paradiso
che da cinque anni gli chiedeva. Si sentiva svuotato, senza forze
neanche per abbandonarsi al proprio dolore. Quando un cupo Matthew gli
diede il permesso di andare via, un permesso che pareva quasi una
supplica, Tommy eseguì senza fare domande. Uscì,
in silenzio, con una lentezza esasperante, e chiuse la porta dietro di
sé senza neanche rendersene conto. Si stava muovendo o era
qualcuno a muovere lui?
Fuori trovò
Isaac ad aspettarlo, un sorriso nervoso sul volto. Gli si
trovò vicino senza neanche accorgersi di essersi spostato e
poi, in una muta e quasi inconsapevole richiesta d'aiuto, gli strinse
la mano.
–
– –
–
Matthew si concesse di
piangere solo quando fu sicuro che nessuno l'avrebbe sentito. Non era
un pianto disperato, non era doloroso, erano solo leggere lacrime che
gli solcavano le guance perché piangere fa bene. Piangeva
perché aveva perso le speranze, piangeva perché
quel pensiero gli grattava il cervello nel disperato tentativo di non
essere buttato via. Avrebbe voluto essere lui Adam. Avrebbe voluto
essere l'oggetto di quell'amore così grande, appassionato e
forte, avrebbe voluto essere lui ad amare Tommy, curare le ferite del
suo cuore con una parola sola e poi cullarlo in quell'abbraccio che
tanto bramava e cercava.
Matthew
Davis, perché fai questo a te stesso? Perché non
l'hai lasciato andare quando ti sei accorto di provare affetto?
Perché pensavi di poter gestire questa cosa? I sentimenti
non si gestiscono, Matt, si provano, e tu lo sai bene!
Questo gli diceva il
raziocinio, questo gli avrebbero detto amici, colleghi, parenti. Ma
Tommy, lui gli avrebbe detto che l'amore era bello lo stesso. Era
quello che in cinque anni gli aveva insegnato quel ragazzo biondo, ed
era uno degli insegnamenti più belli e toccanti che avrebbe
ricevuto nella sua vita. Lo avrebbe sempre ricordato, che amare non
è mai inutile, che finché ce la fai devi giocarti
tutto ciò che hai, non solo i tuoi sentimenti, ma tutto te
stesso. Che devi buttarti a capofitto nelle emozioni e amare con corpo
e anima, offrire più di quello che hai e non desiderare
nulla indietro. Devi essere te stesso, e seguire i desideri del cuore.
Ed era quello che Matt aveva fatto. Eppure in quel momento si trovava
distrutto dall'idea che forse non avrebbe mai avuto il coraggio di
confessare a Tommy quanto bene gli volesse, quanto quei suoi occhi
vuoti e quei suoi silenzi eloquenti lo attraessero e lo affascinassero.
Ci aveva riflettuto molto, e a lungo, e c'è chi dice che con
il tempo i sentimenti, come le fotografie, passano e sbiadiscono, ma
era una stronzata e lo stesso Tommy ne era prova vivente. Neppure per
Matt era stato così.
Non sapeva cosa fosse
esattamente quello che provava, ma era certo che era un desiderio. Un
desiderio forte, profondo e quasi incontrollabile di dare a Tommy tutto
quello che nella vita gli era mancato, tutto quello che desiderava,
tutto quello che gli avrebbe chiesto ed anche di più. Era
certamente affetto, paura di perderlo, preoccupazione per lui, per come
stava, per come andava la sua vita. Era interesse nei suoi confronti,
voglia di starlo ad ascoltare, qualunque cosa dicesse. Ed era
– di questo era certo – disprezzo nei confronti di
Adam, quell'uomo che lui non conosceva ma che tanto aveva fatto
soffrire Tommy; disprezzo ma allo stesso tempo curiosità di
conoscerlo, di capire le sue ragioni, il suo punto di vista –
tutto ciò non prima di averlo pestato diligentemente a
sangue, ovviamente.
Si asciugò
le lacrime e si guardò allo specchio, fissando con amarezza
i suoi stessi occhi verdi tutti arrossati e rivolgendosi uno sguardo
quasi sprezzante: quarant'anni e ancora piangeva così.
Quarant'anni, una moglie, un figlio, una famiglia che amava e ancora si
comportava come l'adolescente illuso che era una volta, con quella sua
utopica speranza e fiducia in futuro che non faceva che deludere le sue
aspettative.
–
– –
–
Isaac chiuse la porta
dietro di sé e si abbandonò alle lacrime.
Finalmente era solo, finalmente poteva ammettere a se stesso quanto
male gli facesse il cuore, quanto si odiasse per aver scaricato il
fardello della sua esistenza e di quella di Tommy su Sophie e averla
costretta a fuggire. Non sopportava più quella vita, ed in
quel periodo era giunto al punto di desiderare egoisticamente di non
dover più avere a che fare con Tommy. Sentiva che si stava
piegando alla depressione, giorno dopo giorno, ed ora che Sophie non
c'era, nessuna forza gli avrebbe impedito di farlo: sarebbe
sprofondato. Aveva paura, era questa la verità. Aveva paura
che sua moglie non sarebbe tornata, che anche la sua vita sarebbe
precipitata nel nulla di un errore non suo, nella frustrazione, nella
nostalgia. E non voleva, non voleva finire come Tommy. Si sentiva
crudele a pensare quelle cose, una parte di sé scaricava
tutta la responsabilità sul suo amico e sulla sua
incapacità di reagire, e il senso di colpa lo divorava. Il
fatto era che lui capiva perfettamente Tommy, si immedesimava in lui,
sapeva che in fondo non erano così diversi e ciò
scatenava in lui il terrore di precipitare nello stesso baratro.
“Salvami....”
disse all'assenza di Sophie, o forse a se stesso, affondando la faccia
nel cuscino che ancora profumava di lei. “Mi
trascinerà giù con lui se tu non torni. Io ci sto
provando ad essere forte, ma non ce la faccio... Ti prego, Soph, non
lasciarmi.”
Sapeva che era stupido
parlare al nulla, ma erano cose che nessuno gli avrebbe mai sentito
dire, o almeno così credeva. In quel momento doveva essere
forte, ed essere forti è difficile: ogni tanto era bello
sfogarsi. Sospirò, si asciugò il viso dalle
lacrime, prese il telefono e compose il numero di sua moglie. Alle sue
spalle, Tommy decise che aveva ascoltato abbastanza. Non era sua
intenzione origliare, era accaduto per caso, ma non si poteva tornare
indietro, purtroppo. Raccolse l'ultima briciola di autocontrollo che
gli restava per socchiudere la porta e tornare in camera, cercando di
far finta di nulla.
–
– –
–
Sauli entrò
nella casa che era stata sua già con le lacrime agli occhi.
Erano passate quasi tre settimane da quando se n'era andato da
lì, da quando aveva messo un punto a quella relazione tanto
importante per lui quanto insignificante per Adam. Ormai la notizia
della loro separazione era su tutti i giornali, completa di intervista
al povero Sauli, brutalmente abbandonato per una 'vecchia fiamma'. Lui
avrebbe volentieri fatto il nome di Tommy, ma il management di suo
marito gliel'aveva proibito; si era quindi accontentato di farlo capire
ai fan tramite delle frecciatine su Twitter.
Posò le
chiavi sul tavolo della cucina, pensando con malinconia che non avrebbe
mai più visto quella casa. Non aveva più nulla,
la sua vita era in pezzi, e l'unico piacere che poteva concedersi,
l'unico che gli era rimasto, era tentare di rovinare la
felicità di Adam, come lui aveva rovinato la sua. Ma la
vendetta era un'amara consolazione: non avrebbe mai recuperato gli anni
persi, non avrebbe mai dimenticato quell'umiliazione. Eppure poteva
fargliela pagare e aveva intenzione di farlo con ogni mezzo a propria
disposizione, non solo in tribunale, nella speranza che già
sapeva essere vana che i soldi e il dolore di Adam potessero in qualche
modo guarirlo dalla propria sofferenza. Lo avrebbero fatto stare
meglio, sì, ma quanto? E per quanto?
Aveva passato le sue
serate senza lui ad ubriacarsi e ad andare per locali, non ottenendo
nulla che non fossero orribili risvegli in preda al mal di testa o ai
ricordi della nottata trascorsa. Si rendeva ridicolo, ma che gli
importava? Voleva solo che Adam sapesse che lui poteva divertirsi da
solo, che tutti dicessero che l'aveva presa davvero bene, quella
separazione, che era forte. Già, era forte.
Trattenne le lacrime e si diresse in camera da letto, dove suo marito
gli aveva lasciato alcune scatole già pronte e delle valige
ancora da riempire con tutte le sue cose, buttate sul letto in caotici
ammassi. Si sentiva umiliato. Avrebbe dovuto cacciare Adam di casa,
piuttosto che andarsene, sarebbe dovuto essere lui a raccogliere la sua
roba a testa bassa e a chiedere ospitalità a qualcuno. Ma a
che scopo prendersi la loro casa? Non voleva restare in America ancora
a lungo, voleva tornare in Finlandia al più presto.
Mentre rifletteva
prendeva i suoi vestiti sparsi disordinatamente sul letto, li piegava e
li riponeva in una delle valige. Pensava all'appartamento in cui era
cresciuto, ai suoi amici, alla sua famiglia, a come sarebbe stato
tornare finalmente a casa. Col pensiero stava già
assaggiando uno dei manicaretti di sua madre, o guardando un programma
stupido stravaccato sul divano con suo padre. Immaginava di tornare ad
uscire con i suoi vecchi amici, si chiedeva se la sua vecchia e adorata
felpona grigia gli calzasse ancora bene, e gli mancava persino il suo
giardino sempre infestato dai corvi.
I suoi pensieri
nostalgici si interruppero quando, ad un certo punto, sotto la matassa
di panni trovò l'iPhone di Adam. Era spento e il retro era
rotto, probabilmente in seguito ad una caduta alquanto violenta. Sauli
sorrise, fulminato dall'eccitazione per quella fantastica occasione di
farla pagare al marito ed anche a Tommy che gliel'aveva portato via.
Una mossa davvero stupida, quella di lasciare lì il
cellulare, anche se probabilmente non era stata una cosa voluta. Sauli
lo accese e subito aprì i messaggi: sapeva cosa doveva fare.
La sua vendetta sarebbe stata molto più soddisfacente di
quanto avrebbe mai potuto immaginare.
Gli ultimi SMS inviati
erano poco interessanti. Adam aveva scritto a suo padre, a sua madre, a
suo fratello, a Brad... Sempre le stesse persone. Sauli ne lesse
qualcuno – non riuscì a resistere alla tentazione
– e scoprì che in quel momento Adam era da suo
padre e che vi era andato proprio per evitare lui. Lesse che aveva
scritto a Brad di come si sentisse in colpa ad aver lasciato Tommy
cinque anni prima. Ma di sensi di colpa per come aveva trattato suo
marito non ne aveva, eh? Un brivido di rabbia lo scosse quando si rese
conto che il suo cuore spezzato e torturato aveva però
ancora la forza di sperare, di credere nel buon cuore di colui che
aveva amato e che in fondo amava ancora. Era sconcertato al pensiero di
quello che Adam si era rivelato essere. Nessuno al mondo si era mai
comportato con lui in una maniera così ignobile, nessuno
aveva mai dimostrato di possedere una natura tanto egoista e vile. Adam
meritava la sua vendetta ancor più di quel verme del suo ex.
Meritava di soffrire perché faceva soffrire tutti quelli
attorno a sé. Persino Tommy si aggiudicò un po'
della sua solidarietà, quando comprese quella
realtà, perché era stato una vittima prima ancora
di essere un carnefice, proprio come Sauli. Ma questo non
cambiò le intenzioni del finlandese, né
impedì che la sua vendetta si compisse. Scorrendo tra i
messaggi ecco che finalmente Sauli trovò ciò che
gli interessava: un sms della madre di Tommy con il numero del figlio;
diceva 'fanne buon uso'.
“Oh,
tranquilla signora Ratliff, ne farò un uso più
che buono” sussurrò, un sorriso soddisfatto
stampato sul volto. I suoi presentimenti erano stati giusti, ed ora che
aveva tutti gli strumenti non avrebbe mai sprecato quell'occasione,
come invece sembrava aver fatto Adam, che ancora non aveva inviato a
quel numero alcun messaggio.
A: Tommy
Lasciami in pace.
Lasciami vivere la mia vita. Fattene una ragione, Tommy: non ti amo,
non ti ho mai amato, non ti amerò mai.
Adam.
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