Bright Lights

di itsjjoy
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prick of Conscience ***
Capitolo 2: *** Open Prison ***
Capitolo 3: *** Hang On ***
Capitolo 4: *** Faraway ***
Capitolo 5: *** Paraklausìthyron ***
Capitolo 6: *** Pick Up Off The Floor ***
Capitolo 7: *** A Loaded Smile ***
Capitolo 8: *** Goodbye ***
Capitolo 9: *** Broken Hearts (pt.1) ***



Capitolo 1
*** Prick of Conscience ***



Riassunto:
2018. Adam è sposato con Sauli, abita a New York e sta per adottare un bambino. Ma dopo 5 anni, Isaac torna a bussare alla sua porta e gli dice solo 3 parole: ‘è per Tommy’. Questo basta per far correre Adam a Burbank da quel ragazzo che già una volta gli aveva fatto riconsiderare tutte le proprie convinzioni e l'aveva cambiato da cima a fondo, e chissà che non l’avrebbe fatto ancora. La storia di due anime gemelle che la vita ha portato ad incontrarsi per poi separarsi ancora e di quel loro legame irrimediabilmente indissolubile che li porta, dopo essersi rivisti, ad un percorso di riscoperta di sé stessi, dei propri sentimenti, delle proprie passioni e delle proprie priorità. Un percorso difficile fatto di debolezza, ostinazione, rifiuto, fiducia, speranza, pentimento, affetto, perdono e accettazione; un percorso che forse non li porterà a tornare quelli di prima, a riavere indietro ciò che avevano, ma certamente li cambierà nel profondo.

"Isaac lo vedeva rannicchiarsi in un angolo, ansimante, pallido, gli occhi sgranati con il terrore dipinto dentro e quando provava ad avvicinarsi Tommy lo mandava via, e lui non si sarebbe mai perdonato se davvero l’amico avesse ceduto alla malattia. Se Adam era il morbo, lui sarebbe stato la cura, doveva esserlo, o non ce l’avrebbe fatta mai più a guardarsi allo specchio."


Note: Ho perso le mie bellissime noticine, quindi vi dovrete accontentare di questi ringraziamenti un po' meno appassionati. Grazie alla volenterosa Stefania che si è offerta di betare la storia, a tutti quelli che leggono, seguono e recensiscono le mie storie e a quelli che sono qui per caso ma soprattutto un grazie alle bellissime personcine a cui è dedicata questa long, ovvero alla mia Frankie e alle ragazze della C.A.S.A! :D






Bright Lights

Io ti ho amato, André, e non saprei immaginare come si possa amare di più. Avevo una vita, che mi rendeva felice, e ho lasciato che andasse in pezzi pur di stare con te. Non ti ho amato per noia, o per solitudine, o per capriccio. Ti ho amato perché il desiderio di te era più forte di qualsiasi felicità. E lo sapevo che poi la vita non è abbastanza grande per tenere insieme tutto quello che riesce ad immaginarsi il desiderio. Ma non ho cercato di fermarmi, né di fermarti. Sapevo che lo avrebbe fatto lei. E lo ha fatto. E' scoppiata tutto d'un colpo. C'erano cocci ovunque, e tagliavano come lame.”

Alessandro Baricco




01 Prick of Conscience



Silenzio.
Quanto diamine era straziante quel silenzio?
Mentre dentro di sé il cuore pareva gemere di dolore ad ogni lacerante battito, senza che lui stesso riuscisse a spiegarsene il motivo, pregava silenziosamente il ragazzo seduto accanto a lui di fare qualcosa, di rompere quel terribile mutismo. Lo vedeva per la prima volta dopo cinque lunghi anni, e tutto ciò che aveva saputo dirgli era stato ‘È per Tommy’: tre parole che erano bastate perché lui acconsentisse a seguirlo subito a Los Angeles, lasciando New York, in cui abitava.
Cinque lunghissimi anni: la sua vita era cambiata dall’ultima volta che lo aveva visto, e dall’ultima volta che aveva visto Tommy. Era sposato adesso, era un cantante di grande successo, stava lavorando al suo quarto album che già gli prometteva introiti per milioni e milioni di dollari, e stava per adottare un bambino assieme a suo marito. Aveva messo la testa a posto ed era felice, davvero!
Però gli mancavano i suoi amici: senza Isaac, senza Cam, senza Ash, senza Taylor, Terrance, Sasha, senza Tommy, senza la sua glamily la fama non era più la stessa cosa. Aveva ancora quei periodi bui, sempre più frequentemente e non aveva nessuno da cui andare se non Sauli, o suo fratello, o sua madre. Perfino il rapporto con suo padre non era più lo stesso; per quanto Eber negasse e ripetesse che non era cambiato nulla, Adam poteva chiaramente percepire che qualcosa si era infranto dopo quel fatidico addio. Un addio che aveva cambiato totalmente la sua vita.
Credeva di avere degli amici fedeli, che non l’avrebbero abbandonato mai, ma dopo che ebbe messo fine a quel malsano rapporto che c’era tra lui e Tommy, e il biondo se n’era andato, tutti gli altri lo avevano seguito un po’ alla volta, l’uno dopo l’altro.
“Dimmi qualcosa, Isaac.”
Gli occhi verdi dell’altro lo fulminarono.
“Cosa vuoi che ti dica?” rispose, stizzoso, guardando fuori dal finestrino con una smorfia infastidita.
“Perché siamo su un aereo per LA, magari? Cos’ha Tommy e cosa c’entro io?” replicò lui, senza preoccuparsi di abbassare la voce. Si sistemò la giacca con un gesto nervoso.
Isaac era stato il primo ad andarsene. Non gli aveva mai perdonato di aver allontanato Tommy, gli aveva detto che non voleva passare un secondo in più assieme ad un ingrato come lui, aveva dato le dimissioni ed era sparito dalla sua vita. Cinque anni dopo bussava alla sua porta perché a Tommy era successo chissà che cosa, lo trascinava con sé e lo trattava anche male. Che poi, a lui cosa importava di Tommy? Dopo cinque anni in cui non si erano visti né sentiti, dopo averlo invitato al proprio matrimonio e aver sperato che si presentasse fino all’ultimo istante, inutilmente, perché avrebbe dovuto fregargliene qualcosa?
“Siamo su un aereo per LA perché è ora che tu ti assuma le tue responsabilità per quello che hai fatto al mio migliore amico.” rispose il suo ex-batterista, freddamente.
Adam sbuffò. “Io non gli ho fatto nulla.”
Ed era vero: insomma, aveva 30 anni e non sapeva accettare di essere stato mollato? Capitava a tutti, ci si riprendeva, era impossibile che dopo cinque anni ci stesse ancora male!
Gli si strinse lo stomaco all’idea e per un istante ebbe una folle, quanto fortissima, voglia di abbracciare il suo biondino. Fu un flash, un’immagine del ragazzo di cui si era innamorato con una tale intensità che nulla aveva più avuto senso. Poi era passato, e si era sentito stupido: era finita, ed andava bene così.
Se Adam non fosse stato perso nei propri pensieri nostalgici e incoerenti, avrebbe certamente notato il viso del suo interlocutore contratto nello sforzo di non prenderlo a pugni fino a che di lui non fosse rimasta che un’inerme poltiglia. Non si rendeva conto di quello che aveva fatto?!
“Nulla? Non hai fatto nulla?!” Isaac sibilò, rabbioso. “Se solo tu potessi vedere cosa ha passato... se solo tu fossi stato lì! Due anni. Due anni ci sono voluti perché si riprendesse almeno un po’ da ciò che gli hai fatto passare!” la voce di Isaac era divenuta praticamente un ringhio e il ragazzo lo guardava negli occhi, il dito puntato contro di lui. “Solo dopo due anni è stato capace di lavorare di nuovo, ti rendi conto? Dopo nove mesi di antidepressivi ed un anno e mezzo di terapia era a stento capace di fare un dannatissimo scontrino!”
Adam ascoltava le parole dell’altro, ma non le capiva. Tommy, lo stesso Tommy che aveva conosciuto lui? Quello che nulla avrebbe mai fermato, quello che sapeva sorridere anche nei momenti più bui, quello inaffondabile? Stavano parlando della stessa persona? I suoi occhi vacui vagavano sul viso di Isaac e coglievano piccole rughe che non erano lì l’ultima volta che l’aveva visto e tanti più capelli bianchi di quanti ne ricordasse, che a quanto pareva l’ex batterista non si preoccupava di coprire. Ma ciò che lo colpì maggiormente fu il viso stanco di Isaac.

Il suo viso sembrava quello logoro e triste di un impiegato scontento del proprio lavoro e della propria vita, che va avanti per forza di inerzia. Ma, in tutto ciò, nulla nel suo viso gli lasciava intuire che stesse mentendo. Possibile che fosse vero quello che gli raccontava?
Sentiva una sensazione terribile, di vuoto, di impotenza, crescergli nello stomaco e gonfiarsi come una bolla colma d’aria. Tommy si era ripreso, vero? Le lacrime che Isaac insisteva a trattenere raccontavano un’altra storia, ma Adam pose lo stesso quella domanda, per la prima volta parlando senza essere brusco o scortese.
“Ora sta bene, non è così?” domandò con un tono speranzoso ma poco convinto.
Isaac sorrise senza traccia di gioia negli occhi. Pareva che i muscoli del suo viso si muovessero per un fatto abitudinario, come se fosse costretto a sorridere sempre e, col tempo, avesse imparato a farlo con naturalezza in risposta a qualunque domanda.
“Tu cosa pensi?”
Nulla. Adam non pensava proprio nulla.

–   –   –   –

Scese dall’aereo con mille domande che gli riecheggiavano nella testa. Tommy era lì ad aspettarlo? Era cambiato? Era davvero così grave come Isaac gli aveva lasciato intendere? Cosa avrebbe provato quando l’avrebbe rivisto? Perché lo aveva mandato via cinque anni prima? Perché adesso era tornato da lui?
“Perché mi hai fatto venire qui?”
Isaac finse di non aver sentito, mentre tirava giù la valigia dal nastro trasportatore con quello che sembrò uno sforzo enorme. Adam fece lo stesso col proprio bagaglio e fu mentre si dirigevano fuori che finalmente Isaac gli rispose.
“Vuole vederti. Non so come mai, è raro che parli di te a me o a Sophie, lo fa solo con lo psicoterapeuta. Ma è oramai un mese che si sveglia dicendo il tuo nome, e ripete che vuole vederti, ci chiede di portarlo a New York.”
Isaac aveva gli occhi spenti. Quando parlava di Tommy lo faceva con delicatezza, con un tono piatto e triste, gli occhi bassi e con parole morbide, innocue, come un abbraccio caldo e materno, quasi fosse certo che termini troppo duri lo avrebbero spezzato. Sembrava parlasse di un bambino per la dolcezza e l’affetto profondo di cui riempiva quelle frasi.
“Lo psicoterapeuta ci ha sconsigliato di venire lì, non sappiamo come potrebbe reagire ad un viaggio né a te, e poi non può interrompere le sedute; ci ha sconsigliato proprio di farvi incontrare, a dire la verità, ma non sono riuscito a dire di no a Tommy.”
Sembrava che il racconto dovesse continuare ma Isaac non aggiunse più nulla. Serrò le labbra e restò in silenzio.
Vide la prima ombra di sorriso in quegli occhi tanto familiari quanto estranei quando, in lontananza, scorsero la figura di Sophie. Quando si avvicinarono, Adam notò che era dimagrita e che sembrava molto più vecchia. Anche il suo viso appariva stanco, sfibrato, sebbene decisamente meno di quello del suo consorte; ciò che la tradiva era l’espressione, le labbra serrate e contratte in una smorfia preoccupata, che le conferiva di certo qualche anno in più.
Non erano più le stesse persone che aveva conosciuto e si domandò se non sarebbe stato lo stesso per Tommy. Il senso di colpa gli attanagliò lo stomaco: era causa sua? Era stato quello che aveva fatto a Tommy a ridurli tutti in quello stato?
Cercò di scacciare via quel terribile pensiero sostituendolo con la propria impazienza di vedere il biondo, di capire come stesse. Forse vederlo gli avrebbe fatto bene, forse sarebbe finalmente stato capace di lasciarselo alle spalle una volta per tutte, di smettere sinceramente di provare nostalgia per quello che avevano avuto.
“L’hai lasciato solo?!” Isaac mormorò spaventato, ma non a voce abbastanza bassa da impedire ad Adam di sentirlo e di riscuotersi dai propri pensieri. L’ex batterista si era rivolto a Sophie guardandola negli occhi, e lei scosse la testa. “Psicoterapeuta.” rispose telegraficamente per poi rivolgergli un sorriso affettuoso. Isaac ricambiò con un abbraccio avvolgente, che scaldò il cuore di Adam per quanti sentimenti fu capace di trasmettergli. Chissà se lui e Sauli facevano lo stesso effetto a chi li guardava.
Sophie rivolse ad Adam uno sguardo freddo e lo salutò con un cenno. No, non era decisamente il benvenuto, lì. La donna gli si avvicinò e gli ficcò in mano un foglio.
“Qui ci sono i nostri numeri di cellulare e l’indirizzo dell’albergo dove sarebbe opprtuno tu restassi. Ci vediamo.”
Si voltò e chiuse la stretta della mano attorno al polso del marito, tirandolo delicatamente con sé e facendogli segno di andare. Isaac esitò, restando indietro a guardare Adam che aveva un’aria avvilita quanto sconvolta: lo avevano portato lì di fretta e furia per poi lasciarlo solo in una camera d’albergo, senza sapere cosa fare, ad aspettare loro?! Ebbe l’impulso improvviso di tornare immediatamente a casa, nel suo salone profumato e colorato, luminoso e allegro, a godersi la vita che meritava e che si era guadagnato, senza quegli ingiustificati sensi di colpa che lo assalivano a minuti alterni. Ma qualcosa, qualcosa in quel foglio che stringeva in mano, qualcosa nello sguardo di Isaac e soprattutto quella sensazione di insistente nostalgia che si dimenava nel suo stomaco, gli fece capire che non ne sarebbe più stato capace: ogni singola volta che la vita di Tommy incontrava la sua, anche solo per caso, qualcosa cambiava. E una volta che era cambiata non si tornava indietro.
“Poi ti chiamiamo.”
Isaac lo guardò negli occhi per assicurarsi che avesse capito, poi cedette alla moglie e la seguì, senza più voltarsi.
Adam si sentiva solo, perso, non sapeva cosa fare né dove andare, non perché non conoscesse il posto, piuttosto perché non riusciva a pensare, lì, in piedi, a guardarli andare via. Tutto ciò a cui riusciva a pensare era il suo ex ragazzo, il suo ex migliore amico. Era una situazione tremendamente familiare, ma gli ci volle qualche minuto perché ricordasse quando qualcosa di simile si era verificato. In un flash, l’espressione di shock che Tommy aveva sul viso l’ultima volta che l’aveva visto gli si presentò davanti, quasi come se lui fosse lì, e si sentì perso. Era così che si era sentito lui quando Adam lo aveva lasciato? Smarrito? Vuoto?
Come aveva potuto trattarlo a quel modo? Lo aveva mandato via come se non gli importasse nulla di lui, ma non era affatto così! Era solo che c’erano dei momenti nella vita in cui bisognava scegliere, e quella scelta era stata così difficile per lui... Aveva deciso di sentirsi al sicuro, di lasciarlo andare e di continuare per la propria strada, perché credeva che fosse quella la cosa migliore per entrambi. Ed ancora ci credeva. Lui era nato per cantare, non per mandare tutto a puttane per amore.
Ma quando si era reso conto che non riusciva a lasciarlo andare in alcun modo, aveva dovuto sbattergli una porta in faccia con violenza inaudita per assicurarsi che fosse Tommy a non tornare mai più indietro o lui avrebbe ceduto. Cos’altro poteva fare?

–   –   –   –

Il telefono squillò mentre era in taxi. Adam lo estrasse di scatto, pensando si trattasse di Isaac, ma il numero sul display era quello di Sauli, sicuramente preoccupato di non aver ancora ricevuto sue notizie dopo un’ora dal previsto atterraggio. Sospirò. Se non fosse stato per Sauli, Adam avrebbe spesso dimenticato anche di vestirsi.
Rispose con un sorriso sereno, già figurandosi cosa l’altro gli avrebbe detto. “Pronto?”
“Amore, ma Isaac ti ha rapito o cosa?”
Adam scoppiò a ridere. Dall’altro capo del telefono c’era il solito Sauli, sempre accomodante e gentile, sempre affettuoso ma mai sdolcinato.
“No, macché rapito, mi ha già scaricato nel primo albergo!” rise Adam gettando un'occhiata al guidatore del taxi che pareva particolarmente interessato alla conversazione.
“Uhm, capisco... Sicuro che hai voglia di stare lì solo soletto? Vuoi che venga a farti compagnia?” il sorriso malizioso di Sauli si poteva ben percepire anche senza vederlo, ma Adam sapeva che se da un lato il ragazzo voleva provocarlo, lo avrebbe raggiunto davvero se solo lui glielo avesse chiesto. Era così, cercava di passare quanto più tempo possibile con lui, ma si era più volte dimostrato capace anche di concedergli i suoi spazi. Ad esempio, non era stato particolarmente d’accordo con la sua decisione di partire per Los Angeles da un giorno all’altro per via del suo ex, ma alla fine glielo aveva permesso, ovviamente con le dovute raccomandazioni. Era o non era quella una grande dimostrazione di fiducia e d’amore?
Esitò per un secondo. Si rese conto che desiderava averlo lì con sé tanto quanto avrebbe desiderato un tumore, ed era una cosa terribile da pensare del proprio marito. Provò improvvisamente disagio, sentì di non meritare nulla di ciò che aveva.
Per dissimulare quelle sensazioni – che Sauli era fin troppo abile a cogliere – scoppiò a ridere, tentando di tenere la conversazione su quel tono poco serio con cui era cominciata.
“Sauli, sono capace di passare qualche notte senza scopare!” esclamò, fingendosi offeso e scatenando l’indignazione dell’autista che sembrò finalmente tornare a porre l’attenzione sulla strada.
Dall’altro capo del telefono, suo marito ridacchiò. “Lo so, lo so...”  mormorò, e poi fece una breve pausa, come se stesse riflettendo su qualcosa. “Hai visto Tommy? Come sta?”
Non era su quello che stava riflettendo, e non era quello che gli interessava, il cantante lo sapeva. Ma rispose lo stesso, gli resse il gioco, sapeva che non ci avrebbe messo molto ad arrivare al punto. E probabilmente Adam sapeva anche quale fosse, quel punto.
“No, non l’ho visto, ma sembra stia proprio male...” Adam non aggiunse altro, avvertendo un po’ di tensione. Sapeva che a Sauli non interessava minimamente come stesse Tommy – d’altronde non è che tra i due scorresse proprio buon sangue – e forse sentir nominare il suo nome con affetto non era stata una cosa piacevole. Ma erano passati anni, ormai, pensava fosse acqua passata!
“Non vorrei sembrare scortese, ma a te cosa importa di lui? Cioè... Non è neppure venuto al nostro matrimonio, non gliene frega più nulla di te!”
Adam scosse la testa e sospirò. Se lo chiedeva anche lui, ad essere sinceri.
“Eravamo migliori amici, Sauli... Gli voglio ancora bene, nonostante tutto.”
“Eravate amanti, Adam.” sbottò l’altro.
“Da dove spunta fuori tutta questa gelosia, mh?” scherzò Adam, anche se quell’ultima frase lo aveva particolarmente infastidito. Cosa ne voleva sapere lui di ciò che erano stati lui e Tommy?
“Torna a casa, Adam... Mi manchi già...” borbottò Sauli in risposta, aggirando la domanda, che per quanto posta in maniera scherzosa non era affatto retorica.
“Mi manchi anche tu...” mormorò Adam dolcemente. Nonostante la sua gelosia fosse esasperante, Adam si riteneva fortunato ad aver trovato un ragazzo come lui con cui passare il resto della vita. Avrebbe potuto chiedere di meglio?
“Tornerò presto, okay? Domani mattina ti chiamo, promesso.”
Sauli sospirò e fece un mugolio di assenso. Per quanto restio a chiudere lì la discussione, capì che l’altro non aveva intenzione di assecondarlo oltre. “D’accordo. Ti amo, buonanotte.”
“Anche io! ‘Notte...”
Adam terminò la chiamata, passandosi una mano sul viso. Era stanchissimo, diamine. Intravide l’albergo e tirò un sospiro di sollievo. Non vedeva l’ora di farsi una bella dormita.

–   –   –   –

Magari fosse riuscito a dormire.
Guardava il soffitto della camera, pensieroso, e rifletteva. In realtà le uniche frasi di senso compiuto che riuscisse a formulare il suo cervello erano domande, domande e ancora domande, quando il senso di colpa non lo assaliva fino a diventare soffocante. Non sapeva da quanto era lì steso immobile, ma doveva essere qualche ora. Non voleva disfare la valigia, né muoversi da quel letto, voleva solo ricordare un motivo valido – almeno uno che non sembrasse una scusa – per il quale aveva chiuso con Tommy in quella maniera. Ma non riusciva a trovarne nessuno.

Le labbra del biondo si incresparono in un sorriso. “Bugiardo! Io so a cosa stai pensando adesso, e non è il concerto...” mormorò Tommy malizioso, mentre le sue mani accarezzavano delicate il corpo dell’altro che giaceva al suo fianco.
“Hai ragione... In realtà pensavo alle tue labbra...” replicò Adam, baciandogli la bocca con passione, abbeverandosi di quel sorriso come l’assetato fa con l’acqua fresca di una fonte.
Tommy rise malizioso. “Sì, pensavi alle mie labbra da qualche parte lì sotto...”

Adam si premette le mani sulla faccia, lamentandosi flebilmente mentre cercava con tutto se stesso di scacciare quei ricordi così terribilmente vividi, nascosti nei recessi della sua mente per tutto quel tempo, e che ora ritornavano vivi come se non fossero mai andati via. Come se una diga fosse crollata giù e avesse permesso al fiume di memorie indesiderate di invadergli la mente.
Si mise supino e si frugò nelle tasche, tirando fuori il foglietto stropicciato su cui la grafia ordinata e femminile di Sophie aveva annotato l’indirizzo dell’albergo e i due numeri di telefono. Se lo girò tra le mani con l’intenzione di salvare i recapiti in rubrica quando, sul retro, notò una grafia che non era di certo quella della donna.
Era vagamente familiare, ma la riconobbe solo grazie a quella T dalla forma inconfondibile. Per il resto la grafia di Tommy era cambiata, era più appiattita, spigolosa e calcata. Ci mise un attimo a riconoscerla, e qualche secondo in più a decifrarla.

Ti amo









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Capitolo 2
*** Open Prison ***



Note: In questo momento sono occupata a scrivere il capitolo 5 e dovrò rallentare perché l'introspezione di Sauli sta risultando essere la cosa più difficile e scomoda che io abbia mai scritto... Ma questo ancora non vi interessa, quindi torniamo a noi.
Questo capitolo è molto intenso e mi piace davvero tanto. È stato difficile scriverlo e c'è voluta davvero una quantità impensabile di ricerche per comprendere come debba sentirsi Tommy e per non scrivere stupidaggini. Mi scuso in anticipo se ho sbagliato qualcosa, in ogni caso.
Non vedo l'ora di postare il prossimo capitolo, anche quello è di un intensità tremenda... *-*
Nel frattempo godetevi questo, e non dimenticate di farmi sapere che ne pensate :)









02 Open Prison


“L’avete portato qui? È qui?! A Los Angeles?”
Isaac non vedeva il suo amico sorridere in quel modo da tanto, troppo tempo. Annuì lentamente, sorridendo a sua volta, sebbene fosse decisamente contrariato dal fatto che il solo pensiero di Adam gli facesse ancora quell’effetto dopo tutto quello che aveva passato a causa sua. Sophie scosse la testa. “Io continuo a pensare che sia una cattiva idea...” mormorò rassegnata, mentre preparava una cena che sapeva che Tommy non avrebbe mangiato.
“Voglio vederlo.”
Il tono del biondo era risoluto e quella sicurezza si rifletté nei suoi occhi, anche se solo per pochi istanti, prima che il suo sguardo si annebbiasse ancora, il cuore oscurato da chissà quali pensieri.
“Ne sei certo?” Isaac esitò, avvicinandoglisi lentamente, e quando l'altro annuì, allungò una mano ad accarezzargli il braccio, delicatamente per paura di essere respinto: Tommy repelleva i contatti fisici da molto tempo ormai. C’era stato solo un breve periodo, due anni prima, durante il quale il ragazzo sembrava ormai guarito: aveva interrotto i farmaci e ridotto al minimo le visite dallo psicoterapeuta, usciva spesso e volentieri di casa per il suo lavoro part-time come cassiere ed aveva iniziato persino a socializzare di propria volontà, nonché a lasciarsi abbracciare volentieri da Isaac e Sophie, che speravano che quell’incubo fosse finalmente finito. Ma a quanto pareva quella situazione non stava bene ad Adam, che aveva ben pensato di divenire la causa di un secondo crollo di nervi dell’ex musicista – da quant’era che non prendeva in mano le sue chitarre? – persino più forte dei precedenti. Isaac ricordava che in quella prima settimana di ‘ricaduta’ gli attacchi di panico avevano raggiunto addirittura l’impressionante quota di tre o quattro al giorno, e rammentava di aver avuto sinceramente paura che quella volta l’amico non avrebbe retto. Lo vedeva rannicchiarsi in un angolo, ansimante, pallido, gli occhi sgranati con il terrore dipinto dentro e quando provava ad avvicinarsi Tommy lo mandava via, e lui non si sarebbe mai perdonato se davvero l’amico avesse ceduto alla malattia. Se Adam era il morbo, lui sarebbe stato la cura, doveva esserlo, o non ce l’avrebbe fatta mai più a guardarsi allo specchio.
Cinse con le braccia il corpo magro del biondo, stringendolo delicatamente in un abbraccio leggero, mentre il cuore gli si stringeva alla reazione rigida di Tommy, che restava immobile e impacciato nell’abbraccio, senza rispondere ad esso, mentre si teneva un labbro tra i denti e sembrava perso tra i propri pensieri.
“Ti va di mangiare?”
Sophie servì una frittata e guardò Tommy con il sorriso incoraggiante di una madre. Il ragazzo ricambiò lo sguardo con gli occhi persi e l’aria un po’ smarrita, sciolse l’abbraccio di Isaac e si sedette composto a tavola, guardando il cibo nel piatto con un'espressione a metà tra il disgusto e l'astio. Gli altri due si guardarono negli occhi, con aria preoccupata, prima di sedersi quasi contemporaneamente, l’uno accanto all’altra. Tommy li osservò e le labbra gli si distesero in un debole sorriso. Li amava, li amava con tutto se stesso e non c’era nulla che potesse farci. Ed era solo peggio: se loro se ne fossero andati? Se fossero morti? Non sarebbe sopravvissuto un giorno solo senza di loro. Se soltanto fosse stato capace di esprimere quei sentimenti... Invece non serviva a nulla. Era incapace di fare anche una cosa semplice come mangiare, figurarsi esprimere i propri sentimenti. Tutto lo annoiava, persino suonare non aveva più alcun significato per lui. A cosa serviva?
Non era già morto perché non voleva ferire Sophie ed Isaac che si dedicavano a lui con tanto affetto e tanto amore, o forse, più probabilmente, era troppo codardo anche per il suicidio.
“C’è qualcosa che non va, Tommy?”
Tommy scosse la testa in risposta, mentre si chiedeva se ci fosse qualcosa che andasse. Si sforzò di ricordare ciò che gli ripeteva sempre lo psicoterapeuta: trova i lati positivi. Ecco, un lato positivo era che Adam era lì per lui. Anche se avesse fatto una figura terribile, anche se lo avesse trovato brutto, inguardabile, o gli avesse confermato quanto poco gli importasse di lui, almeno Tommy era stato abbastanza importante da portarlo lì. Si sforzò ancora, ma altri lati positivi non ne trovò. Anzi, più vi indugiava col pensiero, e meno desiderava vedere il cantante. Non sarebbe mai stato come nei suoi sogni, Adam sarebbe stato un uomo diverso, come lo erano Tommy ed Isaac, come diversa era Sophie.
Adam era sposato adesso, e gli sembrò di aver inghiottito un bicchiere di aghi nell’istante in cui ebbe formulato il pensiero. Si visualizzò un uomo del tutto diverso da quello che aveva conosciuto – o creduto di conoscere – e si domandò se una volta visto il ‘nuovo Adam’ l’avrebbe amato ancora. E se non fosse stato più così? Sarebbe finita davvero?
Percepì a stento Sophie che mormorava un “Ci penso io” in direzione del marito e si sedeva accanto a lui, passandogli affettuosamente un braccio attorno alle spalle, mentre con l’altra mano lo aiutava a tagliare la frittata.
La paura iniziava già ad entrargli dentro, per quanto cercasse di scacciarla. Finita? Per sempre? Non voleva che finisse. La sua vita aveva senso solo grazie a quel tormento interiore, aveva senso solo perché era vuota e insensata, ed era su quella antitesi che si basava la sua esistenza adesso. Viveva della certezza che avrebbe amato quell’uomo per sempre, anche se lui non ricambiava, e perdere quella sicurezza, l’unica che gli era rimasta, avrebbe significato rompersi di nuovo. Non ce l’avrebbe fatta a sopravvivere quella volta, lo sapeva! Era prosciugato da ogni forza, andava avanti con quel poco che gli restava e ogni minimo avvenimento negativo minacciava di succhiargli via tutto e di lasciare di lui soltanto un guscio vuoto.
Mentre il panico lo assaliva lentamente, senza che lui potesse fare più nulla, il filo dei suoi pensieri lo riportò a qualcosa a cui non pensava da tempo, lo riportò a quella sera, a quell’addio.

“Tommy, voglio che tu te ne vada.”
Il ragazzo non capiva, non aveva senso. Il respiro si faceva affannoso e lo stomaco si contorceva, ma aveva capito male, era impossibile, non poteva essere.
“Siamo a casa mia, Adam.” replicò, fingendo una risata e fallendo miseramente. Si arrese allo sguardo duro che gli scoccò il moro, chiudendo gli occhi e passandosi una mano sul viso.
“Che... che problema c’è?” domandò a bassa voce, avvicinandoglisi lentamente e poggiando una mano sul suo fianco, cercando il contatto con lui, perché era convinto che se l’avesse abbracciato tutto si sarebbe sistemato. Ma Adam lo spinse via. Aveva lo sguardo basso e sembrava cercare di trattenere le lacrime. Tommy semplicemente non capiva, o non voleva capire, tutto se stesso si rifiutava di accettare la realtà che gli veniva posta davanti agli occhi e quelle parole. Ancora desiderava ardentemente di avvicinarsi, ma il suo corpo non pareva volersi muovere.
Poi arrivò il colpo di grazia.
“Dalla band... voglio che tu vada via dalla band. E dalla mia vita.” Adam lo mormorò freddamente, gli occhi puntati da un’altra parte. Esitò, prima di continuare, e gli scoccò uno sguardo; “Sei... licenziato. Non voglio vederti mai più.”
Quello che Tommy provò fu all’incirca la stessa sensazione che prova qualcuno il cui cuore viene strappato via a mani nude. Stava mentendo, Adam stava mentendo, non credeva alle sue parole, non era possibile. Era solo un orribile scherzo di cattivo gusto, una vendetta per qualcosa di sbagliato che aveva fatto.
“Stai... Stai scherzando, vero?”
Nessuna risposta. Il biondo alzò la voce. “Stai scherzando, Adam?!”
Sentì gli occhi bagnarsi di lacrime, ma non pianse, non lo avrebbe fatto, non doveva farlo. “Qualunque cosa sia successa, qualunque cosa io abbia fatto, possiamo risolvere, possiamo-”
Fu interrotto da un urlo furioso del moro: “Tu non sei nulla per me, okay?! Sei stato capace solo di crearmi problemi! Quale parte della frase ‘non voglio vederti mai più’ non ti è chiara?”
Tommy si ammutolì, e tutti i suoi pensieri, tutto ciò che conosceva, tutte le sensazioni e quella matassa di emozioni che aveva nel petto scivolarono via da lui. Gli sembrò di collassare, si sentiva come un foglio accartocciato su sé stesso e buttato via, inutile, insensato, senza alcun valore. Guardò l’altro che andava via chiedendosi come potesse il suo cuore battere ancora se lui si sentiva morto dentro.
La prima sensazione fu la rabbia. Tirò giù quadri e strappò poster dalle pareti, ruppe bottiglie e bicchieri poggiati sulla penisola della cucina, gettandoli a terra con tutta la forza che aveva nelle braccia, urlando, piangendo, maledicendosi e maledicendo Adam; tagli sulle mani, sulle dita e sulle braccia comparvero senza che lui si accorgesse di causarseli, ma non gli importava. Odiava Adam, odiava sé stesso, odiava il giorno che aveva deciso di partecipare a quel maledetto provino, odiava il modo in cui Adam l’aveva guardato dal primo istante, odiava il fatto che fosse stato preso, odiava avergli permesso di baciarlo, e odiava quelle labbra, Dio quanto le odiava, le odiava con ogni dannata fibra di sé, e odiava anche il suo odore, e la sua pelle così piacevole al tatto, e le sue grandi mani calde, e odiava ogni singolo istante passato con lui, ogni singolo orgasmo, ogni singola notte passata insieme, e ogni volta che avevano fatto l’amore.
Un pensiero stranamente lucido gli attraversò la mente, all’improvviso: non lo avrebbe rivisto mai più. Bastò quella consapevolezza a farlo cadere in ginocchio tra i cocci di vetro, mentre si sentiva soffocare, e il respiro si faceva sempre più affannato, mentre il cuore batteva fortissimo, tanto che sembrava dovesse vomitarlo fuori a momenti. E non passava, non riusciva a pensare, a parlare, a gestire il proprio corpo. Le mani insanguinate, tra le quali si prese la testa, sembravano quelle di un altro – o forse lo erano? Non sapeva più nulla, non era più nulla, si era totalmente annullato, sapeva solo che sarebbe svanito ben presto, si sarebbe dissolto, sarebbe morto, lo sapeva come sapeva che il cielo era blu, e l’acqua insapore, esattamente come sapeva che amava Adam e l’avrebbe amato per sempre sapeva che sarebbe morto soffocato dal proprio dolore. Eppure non riusciva a incolpare quell’uomo. Era propria, la colpa, aveva sbagliato, aveva sbagliato e si pentiva, se solo avesse potuto glielo avrebbe detto: “Scusami, Adam, scusami, scusami.”

Rifiutò il boccone che Sophie tentava inutilmente di fargli mangiare, sentiva un nodo allo stomaco, ed era certo che se avesse aperto la bocca avrebbe vomitato. La allontanò, spingendola via, mentre tra i propri pensieri riusciva a distinguere solo dei ‘no!’ che sembravano urlati senza sosta. Non un altro attacco di panico, non in quel momento! Non avrebbe visto mai Adam, sarebbe morto lì, quella volta sarebbe morto, e non lo aveva rivisto, e non gli aveva mai chiesto scusa. Il battito accelerato del cuore, il respiro affannato, gli impedivano di sentire quello che Sophie diceva, ma gli parve di cogliere il nome di Isaac. Non riuscì a distinguere l’espressione negli occhi di lei perché la vista gli si era annebbiata, mentre gli sembrava che qualcuno gli stesse stringendo le costole in una morsa. Era così che finiva? Non sarebbe neanche riuscito a ringraziarli? Tremava, e d’improvviso non vide più nulla, voleva parlare, ma la bocca secca non rispondeva ai suoi comandi. Almeno avrebbe smesso di essere loro di peso, li avrebbe liberati della propria presenza. Ogni attimo durava quanto un minuto, ed ogni minuto pareva un ora, e giunse persino a desiderare di morire. Tutto, tutto purché quelle torture finissero, tutto purché quella paura smettesse di coglierlo inavvertitamente e senza ragione, tutto purché dovesse smetterla di vergognarsi di sé, tutto purché quella malattia andasse via o almeno mettesse fine alla sua misera esistenza che era vergognoso chiamare vita.
E proprio quando pensava di essere spacciato, quando sperava di esserlo, quando credeva di sapere che quello era il suo ultimo respiro, proprio in quell’istante tutto finì. Come sempre.
A volte si sentiva un peso anche per se stesso. Quando quegli attacchi di panico finivano, non si sentiva più sollevato di non essere morto. All’inizio di tutto quello, anni prima, lo spaventava l’idea di diventare pazzo, di perdere il controllo, e alla fine di quelle crisi era contento che non fosse successo nulla. Ma adesso che già era pazzo, che aveva perso anche la dignità, che senso aveva preoccuparsi di quelle cose? Che senso aveva continuare a vivere? Cosa voleva dimostrare, che lo avrebbe amato tutta la vita? Ad Adam non importava, a nessuno importava. Poteva anche morire. E probabilmente sarebbe stato sotto terra da un pezzo, se non fosse stato per Sophie ed Isaac.
Quando la respirazione tornò regolare e aprì gli occhi, vide l’amico che tranquillizzava la moglie, sussurrandole qualcosa. Si vergognò tremendamente della propria condizione, delle proprie crisi, del proprio essere irrimediabilmente guasto. I suoni smisero di arrivargli ovattati solo dopo qualche altro secondo, e Isaac era già inginocchiato davanti a lui. Gli aveva preso le mani tra le proprie ed aveva mormorato il suo nome.
Lo guardava con i suoi occhioni verdi, e Tommy non poteva né voleva fare altro che starlo a sentire, che aggrapparsi a lui e non lasciarlo mai più. Strinse forte la presa sulle sue mani.
“Non lasciarmi...” mormorò il biondo. “Ti prego, non lasciarmi...”
Lo disse con le lacrime agli occhi, cercando di non piangere, di non sbattere le palpebre e di continuare a guardare quegli occhi. Non ne poteva più, voleva solo tornare ad essere ciò che era una volta, tornare ad essere felice, ma più provava a riaffiorare da quel baratro e più quello si faceva profondo e buio, e lui trascinava giù con sé anche quelle poche persone che lo amavano.
“Non ti lascio, Tommy... Non ti lascio.” Mormorò Isaac mentre sentiva il cuore spezzarsi per l’ennesima volta di fronte alla fragilità dell’amico, di fronte a quegli occhi svuotati del luccichio che li rendeva unici un tempo e trasformati in un baratro oscuro e senza fine. Lui non avrebbe fatto come Adam, lui sarebbe stato con Tommy per sempre, per davvero. Lui sarebbe riuscito a restituire la speranza a quegli occhi, fosse stata l’ultima cosa che faceva.
“Andrà tutto bene. Te lo prometto. Ti fidi di me, Tommy?”
Il biondo annuì piano. Sì, si fidava di lui. Sapeva che non avrebbe dovuto, sapeva che prima o poi se ne sarebbe andato anche lui, lo sapeva, ma si fidava, e quel sentimento era più forte di qualunque altra cosa. Si fidava di lui, dei suoi occhi, della sua stretta: erano tutto ciò che lo manteneva in vita.
“Allora non devi preoccuparti. Non permetterò che nessuno ti faccia del male. Mai. Capito?”
Tommy annuì ancora, abbozzando un sorriso di gratitudine.

– – – –

“Te l’avevo detto di non portarlo qui! L’hai solo fatto peggiorare!” il sussurro di Sophie sembrava quasi un lamento. Si sentiva impotente davanti a quegli attacchi, quando vedeva Tommy in quelle condizioni, pallido e tremante, stava così male che avrebbe potuto averli lei, gli attacchi di panico, e il suo stato d’animo non sarebbe cambiato di una virgola.
“Soph, amore, dimmi con quale coraggio potevo dirgli di no. Sai che io non sopporto Adam, ma è l’unica cosa che gli fa brillare gli occhi...” Isaac sussurrò a voce bassissima, tanto che Sophie dovette avvicinarglisi per sentirlo. Lo guardò malissimo.
“E quindi lui deve sopportare tutto ciò perché a te piace vedergli brillare gli occhi?!” la donna alzò la voce più del dovuto, troppo arrabbiata per curarsene. “Ti rendi conto che Adam gli fa solo male, Isaac?!”
L’uomo la guardò senza rispondere per alcuni secondi, poi sospirò rivolgendo lo sguardo verso il corridoio, dal quale proveniva il suono dei passi di Tommy che si avvicinavano.
“Anche la cioccolata fa venire le carie.” disse poi, avvicinandosi a Tommy, che li guardò entrambi, chiedendosi perché parlassero di cioccolata e carie e perché Sophie guardasse Isaac a quella maniera. Ma non ebbe il tempo di formulare la domanda.
“Hey, Tj, possiamo parlare un minuto?”
Il biondo fece cenno di assenso e aspettò che l’altro parlasse, osservandolo tormentarsi nervosamente le mani e mordicchiarsi il labbro inferiore.
Cosa aveva combinato adesso? Volevano dirgli che non potevano più mantenerlo, nonostante l’aiuto economico di sua madre, e che era giunto il momento di imparare a cavarsela da solo? L’ansia gli assalì lo stomaco. Ancora.
“Tu vuoi vedere Adam.” Non era una domanda, sembrava più che altro l’inizio do un ragionamento. Tommy si rilassò. Si diede qualche istante per scacciare via le proprie ansie e focalizzare la mente sulle parole di Isaac. Le sue parole e null’altro. Annuì con un piccolo sorriso sollevato e aggiunse un ‘sì’ mormorato.
“Che ne dici se facciamo un patto, io e te? Una piccola sfida.” Isaac gli sorrise, cercando di apparire più incoraggiante possibile, mentre l’amico si sentiva più che altro trattato un po’ come un bambino – come sempre, d’altronde. Ma capiva che Isaac aveva soltanto paura di osare troppo e ferirlo. Annuì ancora, curioso di sapere in cosa doveva fallire miseramente quella volta.
“Io ti porto da Adam se tu accetti di sostenere un colloquio di lavoro.”
Tommy impallidì all’istante. Scherzava? Non lo avrebbero mai preso, mai e poi mai, aveva l’aspetto malaticcio, era silenzioso e triste, e non era bravo a trattare con la gente. Lo avrebbero cacciato fuori a calci!
“Non devi superarlo!” Isaac alzò il tono di voce improvvisamente, e sembrava lo stesse supplicando. Inspirò profondamente e continuò, più calmo. “Non c’è bisogno che tu lo superi. Voglio... Vorrei solo che tu sostenessi un colloquio di lavoro. E anche se sarà il peggiore della storia, io sarò fiero di te.”
Quelle parole scaldarono il cuore dolorante di Tommy. Fiero di lui. Anche se era un fallimento, anche se dava solo problemi, Isaac sarebbe stato fiero di lui. Provò verso l’amico un moto d’amore tanto profondo da farlo rabbrividire.
“Siamo d’accordo allora?” gli occhi verdi dell’uomo erano tanto colmi di speranza che Tommy non avrebbe mai desiderato deluderli.
“Sì, d’accordo.” rispose flebilmente.

– – – –

“Soph, posso farti una domanda?”
Gli occhi castani della donna incontrarono i suoi per qualche secondo, come a voler prevedere la domanda che stava per esserle posta; Tommy non fece in tempo ad abbassarli per evitare quello sguardo, ma comunque l’occhiata durò pochi istanti, poi Sophie si spostò un ciuffo castano dietro l’orecchio, annuì e tornò a guardare la strada. Il suo malessere si leggeva chiaramente nella sua posizione tesa e nell’espressione pensosa del suo viso, ma soprattutto nei suoi occhi. Tommy si sentiva in colpa: sapeva che, qualunque cosa fosse accaduta, era per causa sua.
“Tu ed Isaac avete litigato?” domandò esitante.
Aveva capito che parlavano di lui. Sarà stato depresso e malato, ma non era stupido. Forse c’entrava Adam, o il colloquio di lavoro, o il fatto che non metteva nulla sotto i denti da due interi giorni, o forse ancora l’aumento di frequenza improvviso dei suoi attacchi di panico, proprio ora che pareva stesse migliorando. Qualunque cosa fosse, non voleva che litigassero. Vederli stringersi ed abbracciarsi gli dava speranza, lo faceva sentire in pace col mondo, anche solo per qualche istante. Avrebbero meritato la vita più felice che si potesse immaginare, una bella casa, grande, in riva al mare, e dei figli, magari anche un cane. Invece dovevano occuparsi di lui.
“Abbiamo discusso.” rispose lei con una smorfia, e Tommy impiegò qualche secondo a ricordare a che domanda stesse rispondendo. Tentò di sorriderle, ma rinunciò quasi subito e si limitò ad inumidirsi le labbra secche con la lingua, spostando lo sguardo fuori dalla finestra.
“Ti ama tanto. Davvero tanto.” mormorò, come se ricordarle di quei sentimenti risolvesse tutto. E in fondo era proprio così, era grazie a quei sentimenti che loro erano andati avanti, che avevano superato ogni difficoltà insieme, facendosi forza l’uno con l’altro. L’amore bastava. O almeno, per loro tre era così.
Sophie sorrise intenerita. Parve soppesare le parole di Tommy, come se stesse decidendo se perdonare o meno il marito. Infine sospirò, e sembrava stare meglio.
“Ama tanto anche te.” replicò, guardandolo con affetto e accarezzandogli il braccio, prima di prendergli dolcemente la mano nella propria e stringerla forte. “Ti amiamo entrambi.” aggiunse poi, quando i loro sguardi si incontrarono di nuovo.
Tommy ricambiò debolmente la stretta, e annuì, mentre il cuore accelerava. Se solo avesse potuto renderli fieri di lui per davvero...









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Capitolo 3
*** Hang On ***



Note: Tanto dolore, in questo capitolo, spero di averlo reso al meglio.
Conosceremo meglio Adam e Tommy - come sono cambiati e in cosa sono invece rimasti come prima.
Il famoso "incontro" tanto atteso dal primo capitolo, è finalmente qui! Ho concluso in un modo che vi avrebbe lasciato bene e dolcemente, e spero che Adam avrà guadagnato qualche punto in più per quando sarete arrivati/e alla fine, perché qui è effettivamente abbastanza tenero *-*
Ci vediamo con il prossimo aggiornamento, quando torno da New York (dopo il 4 Aprile). Auguratemi buon viaggio!
E ovviamente... enjoy!










03 Hang on


Quando uscì dall’ufficio nel quale si era tenuto il colloquio – a opera di un uomo borioso sulla cinquantina che pareva convinto che quel supermercato fosse il centro del mondo – Tommy si sentiva ancora più inutile di prima.
Aveva portato il proprio curriculum vitae al responsabile con l’impressione che sarebbe stato totalmente inutile. Sophie lo aveva vestito e sistemato al meglio per l’occasione: indossava gli abiti più belli che aveva, una camicia nera, dei pantaloni scuri ed una giacca che gli andava un po’ larga – era di Isaac, lui non aveva mai avuto giacche e si rifiutava di comprarne. Aveva i capelli stranamente in ordine e si era messo un po’ di fondotinta per restituire calore alla faccia pallida e nascondere le occhiaie, eppure era perfettamente consapevole di avere un aspetto malato. Non era la prima volta che sosteneva un colloquio di lavoro per un posto simile, sapeva cosa dire e soprattutto cosa non dire: Isaac e Sophie gli avevano insegnato per filo e per segno ogni risposta ed ogni espressione che era opportuno mimare e lui le ricordava perfettamente. Aveva preso le pillole in modo da essere certo che facessero il loro effetto mentre sosteneva il colloquio, eppure era nervosissimo, gli ci voleva una forte concentrazione per non pensare alla paura che sembrava provenire da dentro – dalle ossa, dal cuore, dallo stomaco e dai polmoni – e non poteva fare a meno di pensare che sarebbe andato malissimo.
In effetti la sua impressione, una volta fuori da quella stanza soffocante, era di essere stato pessimo. A Isaac forse non importava, ma a lui sì. Non era neanche capace di essere preso a lavorare in un maledetto supermercato, neanche per il turno di notte? Si sentiva in dovere di portare soldi a casa, soldi da usare per pagarsi lo psicoterapeuta e quelle maledette pillole, così da non pesare sulle finanze di sua madre, o peggio ancora di Isaac e Sophie che non avevano alcun legame di sangue con lui e lo stesso si prodigavano a quel modo per farlo stare bene. Si sentiva un ingrato, uno sfruttatore, e le sedute dallo strizzacervelli non servivano a nulla, o comunque servivano a poco contro il suo perenne pessimismo e la sua costante autocommiserazione. Lo stesso dottore gli aveva detto che non potevano avere veri risultati se non era lui a voler guarire. Ma lui lo voleva!
Isaac gli si avvicinò e lo abbracciò, riscuotendolo a forza dai suoi pensieri.
“Allora, com’è andata?” domandò, con un tono di voce eccitato. Tommy rispose facendo spallucce e smorzando il suo entusiasmo.
“Possiamo andare a casa?” mormorò, sentendosi un po’ in colpa, mentre l’altro sospirava spazientito. Ma era stanco e aveva solo voglia di mettere fine a quella terribile giornata e dimenticare quella disastrosa esperienza.
“Pensavo volessi vedere Adam, ma può aspettare anche fino a domani...”
A quel nome Tommy parve tornare immediatamente lucido e sull’attenti. Si voltò di scatto verso Isaac e gli sorrise, guardandolo speranzoso, come un bambino che aspetta una risposta affermativa per scartare i propri regali.
“Posso vederlo? Adesso?”
Isaac annuì e gli fece cenno di salire in auto.
Tommy ubbidì, mentre l’ansia iniziava a diffondersi come un veleno nel sangue. Poteva sentirla dal cuore fino alla punta delle dita, ma non gli importava, non in quell’istante. In quel momento pensava solo ad una cosa: avrebbe rivisto Adam.

– – – –

Fu per puro orgoglio che Adam non esclamò un ‘finalmente!’ quando Isaac lo chiamò per informarlo che poteva vedere Tommy. Diamine, gli sembrava di avere aspettato millenni, ed era giunto a desiderare così ardentemente quell’incontro da sognarlo la notte. Inoltre, non sapeva più cosa raccontare a Sauli che continuava a insistere per raggiungerlo lì, o meglio ancora, perché lui tornasse a casa.
In quel momento un taxi l’aveva appena portato davanti al cancello di un condominio nella periferia di Burbank dove pareva abitasse la famiglia Carpenter assieme a Tommy Joe. Pagò la corsa mentre le solite domande, che non lo avevano lasciato per un istante durante quei tre giorni, tornavano a farsi rumorose nella sua mente. Più di tutto lo preoccupava ciò che sarebbe successo dopo averlo visto: già sapere che lui stava male aveva turbato irrimediabilmente la sua serenità ed era certo che, dopo averlo guardato negli occhi, non sarebbe stato capace di continuare ad infischiarsene. Anzi, dubitava di aver mai avuto quella capacità.
Citofonò e la voce di Sophie non chiese neanche chi fosse, informandolo brevemente che l’appartamento era il numero 12, al terzo piano. Si guardò furtivamente intorno, inforcò gli occhiali da sole, perfettamente consapevole della loro inutilità, e semplicemente sperò di non incontrare nessuno. Erano le sette di sera, ora di cena, doveva percorrere pochi metri e non c’erano molte persone in giro, quindi poteva sinceramente sperare di essere fortunato.
Di certo lo sarebbe stato più che in quegli ultimi giorni: le sue foto assieme ad Isaac e Sophie all’aeroporto di LA, scattate da qualche fan appostata chissà dove, erano finite su Twitter prima che lui potesse anche solo considerare la possibilità che succedesse. Ormai i tweet che gli chiedevano che ci facesse di nuovo a Los Angeles non si contavano più, e lui non aggiornava il proprio profilo sul social network da quando aveva lasciato New York. Il suo manager l'aveva chiamato una decina di volte già per quelle foto, e poi ancora il giorno dopo quando non si era presentato in studio, prima che lui si decidesse a rispondere spiegandogli che doveva dare una mano ad Isaac per una cosa che avevano in sospeso, senza scendere ulteriormente nei particolari e chiedendogli gentilmente di lasciargli la possibilità di 'risolvere quella situazione'; era riuscito ad ottenere una settimana di pace e di agenda vuota ma se non avesse ricevuto quella telefonata da Isaac avrebbe probabilmente fatto in modo di liberarsi per altro tempo ancora: era troppo importante.
Non aveva intenzione di spiegarsi con nessuno, non erano affari loro, non erano neppure affari di Sauli, era qualcosa che riguardava lui e i suoi vecchi amici. Non voleva mettere Isaac, Sophie e soprattutto Tommy ancora una volta sotto i riflettori, non era certo che avrebbero retto. L’ex-chitarrista non ce l’avrebbe fatta di sicuro, era per quello che aveva cancellato ogni account dai social network un mese dopo che avevano smesso di vedersi; da allora, nessuno aveva più avuto sue notizie, neanche lui.
Chiuse gli occhi e prese un profondo respiro, prima di suonare il campanello. Sentiva il suono di un televisore acceso, probabilmente sintonizzato sul telegiornale, e null’altro. Un lieve rumore di passi precedette quello della porta che si aprì. Si trovò davanti l’espressione astiosa di Sophie.
“Entra pure.”
Tommy, che era sul divano, impallidì nel vederlo entrare.
Adam non sapeva quale fosse la propria espressione, sapeva solo che non era capace di muovere un altro passo; desiderava voltarsi, iniziare a scappare per non tornare indietro mai più, fuggire da quella casa, da quel condominio, da quella città, persino da quella nazione, pur di non correre il rischio di avere quell’immagine davanti agli occhi per un secondo di più. Ma non riusciva a muoversi di lì, né a staccare gli occhi da quello che una volta era Tommy Joe Ratliff.
Indossava un pigiama che gli calzava assurdamente largo, e si stingeva le gambe al petto, come se avesse freddo, o paura. I suoi capelli biondo scuro erano stati tagliati corti: ora portava un ordinario taglio scalato, tenuto un po’ lungo, ma che sembrava così assurdo e surreale su di lui. I ciuffi più lunghi gli ricadevano sulla fronte, mentre gli altri erano arruffati e mostravano evidentemente la scarsa cura che vi dedicava. Incorniciavano un viso pallido e scavato ed un paio di enormi occhi marroni cerchiati da occhiaie scure, che apparivano stanchi e completamente svuotati: furono quelli che lo colpirono di più, come una coltellata dritta nello stomaco. Quando la porta si era aperta, gli occhi di Tommy erano saettati incontro a quelli azzurri di Adam, le pupille si erano dilatate e il ragazzo era rimasto immobile, come se avesse smesso di respirare. Nell’incontrare quello sguardo, il moro si era sentito risucchiato dalla voragine che erano quegli occhi, che – ci mise poco ad accorgersene – ti portavano via ogni voglia di sorridere a poco a poco, proprio come i buchi neri risucchiano la luce. Improvvisamente non aveva bisogno di chiedere più nulla di quei cinque anni appena trascorsi: poteva immaginare com'era stato. Conosceva finalmente quello sguardo e gli bastava per colmare quel lungo periodo, riempirlo di quel baratro, di quel nulla senza inizio né fine che aveva il sapore di amara nostalgia.
Un addio perpetuo: ecco cosa leggeva sul viso e nel corpo di Tommy. La vita di una persona che si sveglia ogni mattina chiedendosi perché è ancora in vita, e che con ogni gesto che fa saluta un pezzo di ciò che era e di ciò che sarà. La vita di qualcuno che non ha un presente, ha solo il passato, ed è lì che vive, struggendosi perché è finito, e non ha futuro, perché non sa neanche se ha voglia di arrivare alla fine della giornata.
Dopo quelli che gli sembrarono millenni, riuscì finalmente a muovere qualche passo. Entrò nella casa, avvicinandosi lentamente al divano. Non si era mai sentito così osservato e così a disagio.
Si rese conto che doveva dire qualcosa.
“Ciao...” mormorò, e non aveva ancora staccato lo sguardo da quegli occhi da quando li aveva rivisti. Saranno stati anche buchi neri, ma si rese conto che non desiderava smettere di guardarli per nessuna ragione. Si sedette accanto a lui, non troppo vicino, solo quel che bastava per essere certo di poterlo sfiorare se desiderava farlo.
Tommy non gli rispose, si allontanò appena da lui, e improvvisamente sembrò distante anni luce. Adam non poteva saperlo, ma sebbene l'altro volesse essere lì con tutto sé stesso, allo stesso tempo desiderava fuggire dal suo corpo, dal suo cuore e dal suo cervello di cui aveva un’improvvisa e tremenda consapevolezza: ogni singola cellula di lui faceva male come non mai. Voleva essere lì perché voleva Adam, voleva stringerlo, abbracciarlo, inspirare il suo odore ed addormentarsi tra le sue braccia, non voleva lasciarlo mai più; ma allo stesso tempo, c'era una parte di sé che lo rifiutava, una parte di sé che voleva mandarlo via all'istante, che voleva urlargli contro quanto dolore gli aveva causato.

Sophie li osservava dalla porta della cucina.
“Non parlano?” domandò, a nessuno in particolare. Isaac, che era lì accanto a lei e guardava la TV, le tirò una gomitata. “Cristo, Soph, lasciali stare!”
Lasciarli stare?! Devo sorvegliarli! Se Adam si permette anche solo di guardarlo in un modo che non mi piace gli spezzo ogni singolo disgustoso osso che riesco a rompergli.” sibilò, senza staccare gli occhi dal cantante seduto sul loro divano. “E non permetterti di dire che sono cattiva con lui, intesi?!” lo anticipò quando lui prese fiato per parlare.
“Non volevo dirlo.” Isaac sorrise, voltandosi a guardarla.
“E che volevi dire, sentiamo?” replicò lei, incrociando le braccia al petto e guardandolo con aria di sfida.
Isaac allungò una mano ad accarezzarle il viso. “Che ti amo da impazzire quando fai la leonessa arrabbiata...” mormorò ridacchiando, prima di stamparle un bacio sulle labbra. “E che puoi anche sorvegliarli un po' meno, sono nella camera accanto, se succede qualcosa lo sentiamo. Rilassati.”

Dopo quelle che gli erano sembrate ore passate a guardare i magnifici occhi azzurri dell’uomo che amava più di ogni altra cosa al mondo, Tommy si rese conto che non aveva ancora proferito parola. Provò a dire qualcosa, ma riuscì solo a schiudere le labbra e probabilmente a fare la figura del fesso. Richiuse la bocca e prese un profondo sospiro, poi tentò un’altra volta.
“Mi sei mancato...” le parole gli uscirono in una sorta di sibilo strozzato.
Provò un desiderio profondo di premere le labbra su quelle dell’altro finché i loro visi non si fossero fusi assieme.
Adam scosse la testa. Ogni fibra del suo essere pareva urlare che gli era mancato anche lui, gli era mancato tanto, per quanto fingesse il contrario, ma non riuscì a pronunciare quelle parole. Stavolta toccò a lui stare in silenzio e per dissimulare l’imbarazzo gli sorrise dolcemente.
“Da impazzire... impazzire sul serio...” continuò lentamente il biondo, con un sorriso che non aveva niente di allegro. La sua mente sembrava fare un percorso tutto suo, sembrava lavorare ad interminabili ragionamenti che poi restavano segreti a tutti, se non a Tommy stesso.
Eppure Adam poteva vedere, poteva intuire in qualche modo che quel suo flebile sussurro, quelle sue parole mormorate, erano già un’enorme sforzo e che quello che vedeva non era nulla – nulla – in confronto alla realtà, a quello che Isaac e Sophie affrontavano quotidianamente da cinque anni a quella parte. Doveva essere orribile guardare una persona che si ama autodistruggersi a poco a poco senza poter fare nulla per impedirlo, vederla precipitare nell’abisso della depressione e fare di tutto per riportarla su, senza concludere alcunché.
Riuscì a separare gli occhi da quelli dell’altro, ad abbassarli, e quando lo fece, in quell’esatto istante, seppe che non importava cosa gli sarebbe costato, quanto avrebbe dovuto sacrificare: lo avrebbe aiutato.
“Non sapevo che tu fossi-” il tentativo di Adam di formulare una frase con un significato vagamente più sensato di ‘ciao’ fu bruscamente interrotto dalle parole di Tommy, proferite con un tono di voce decisamente più alto di quanto si sarebbe aspettato da lui.
“Cosa? Che fossi pazzo?”
Il sorriso sulle labbra del biondo era così falso e forzato da fare male. Era una violenza, una violenza terribile, ed era stato lui ad infliggergliela, era stato lui a distruggerlo a quel modo. Adam si chiese come avrebbe fatto a guardarsi allo specchio, da quel momento in poi.
Sophie e Isaac accorsero all’istante, appena percepirono il brusco cambiamento dei toni, e probabilmente lei si sarebbe già scagliata addosso ad Adam per sradicargli ogni singolo capello dalla testa se il marito non l’avesse mantenuta. Pazzo?! Come poteva permettersi di usare quella parola? Gli avrebbe cavato gli occhi, oh sì, lo avrebbe fatto!
Ma non era quella la parola che Adam intendeva. ‘Pazzo’ era l’ultima parola che avrebbe usato, l’ultima! Rialzò lo sguardo verso il biondo, e cercò di parlargli con gli occhi, come faceva un tempo, di fargli capire quello che intendeva senza proferir parola. E forse l’altro lo capì, perché sembrò tranquillizzarsi.
“No. Tu non sei pazzo.” sussurrò dolcemente Adam, allungando una mano esitante, per posarla su quella troppo magra del biondo. Tommy la ritrasse di scatto, come bruciato, e si rannicchiò nel proprio lato del divano, ma non abbassò lo sguardo.
Adam sospirò. “Volevo dire che non immaginavo che mi amassi così tanto.”
A quel punto il biondo cedette e, semplicemente, pianse. Senza singhiozzi, senza sospiri, semplicemente lasciò che le lacrime gli scivolassero sulle guance. Adam fece per avvicinarsi, per abbracciarlo, Dio quanto desiderava abbracciarlo, ma l’altro si alzò, scivolò via da lui e praticamente fuggì in camera.
Se lo sguardo avesse potuto uccidere, Sophie lo avrebbe fatto fuori già da giorni: era odio puro quello che saettava dai suoi occhi verso il cantante, un augurio delle peggiori sofferenze. Ma ciò che colpì Adam, paradossalmente, non fu questo: furono gli occhi delusi di Isaac. Lo guardavano come un ragazzino potrebbe guardare il proprio idolo fallire, con quell'amarezza a cui di solito si accompagna la frase mi fidavo di te. Lo ferirono tremendamente.
“Sei contento, Adam, uh? Ti senti bene adesso che gli hai detto le tue belle paroline? Credi che servirà a qualcosa?!” Sophie sibilava, per evitare che Tommy sentisse, mentre cercava di sfogare tutto il risentimento che aveva accumulato nei suoi confronti durante gli ultimi anni e tentava, con grande frustrazione, di riversarlo in quelle parole cariche di astio.
All'inizio non odiava Adam, era solo tremendamente delusa dal suo comportamento. Adesso, invece lo odiava proprio, odiava il suo atteggiamento, la sua bella faccia, i suoi occhi, le sue mani, i suoi costosi vestiti e la sua splendida voce. Eppure, sebbene non volesse ammetterlo, sapeva anche che Adam teneva ancora a Tommy ed era grazie a quello che sperava almeno di riuscire a ferirlo, di farlo stare male. Voleva che il comportamento che aveva avuto e che ancora aveva gli pesasse. Voleva che imparasse ad apprezzare e ad amare la persona che più meritava la sua considerazione ed i suoi sentimenti. Tommy, quelle cose, se le era davvero guadagnate: avrebbero potuto cercare fino in capo al mondo e mai e poi mai avrebbero trovato qualcuno che meritasse l’amore di Adam più di quanto non lo facesse lui. Perché quel cretino del cantante non lo capiva, diamine?
Il moro scosse la testa e chiuse gli occhi, rilassandosi contro la spalliera del divano.
“Non sapevo stesse così. Se vi foste preoccupati di farmelo sapere, magari tutto questo non sarebbe successo.” sbottò in risposta, cercando di scacciare via un po’ di quei sensi di colpa che gli gravavano sul petto. Perché era sempre così dannatamente inadatto? Perché sbagliava sempre tutto?
“Fartelo sapere?” Fu Isaac a parlare stavolta. “Hai detto che non volevi vederlo mai più. Di solito se non vuoi vedere più una persona non ti importa nemmeno delle sue condizioni di salute.” lo disse in tono piatto e ironico, quasi volesse sfidarlo.
Adam scosse ancora la testa. Perché poi prendevano così sul serio le sue parole quando era evidente che erano state pronunciate in un momento di rabbia e senza riflettere?
“Non intendevo quello che ho detto...” mormorò, mordicchiandosi il labbro e guardando verso i due vecchi amici, come a cercare approvazione.
Isaac roteò gli occhi e si scambiò uno sguardo con la moglie; scosse la testa, per poi voltarsi e andare da Tommy in camera, senza dimenticarsi di scoccare al cantante uno sguardo scettico.
Sophie fece una smorfia. “Beh, sai qual’è l’ultima, Adam? Lo hai detto. E te ne sei andato e non ti sei mai preoccupato di tornare, di chiedere scusa, di ammettere che avevi sbagliato. Perché la verità è che sei uno stronzetto egoista ipocrita e tutto ciò di cui ti importa sono i tuoi schifosi soldi ed il tuo successo di merda! Beh, tieniteli! Quando sarai vecchio, solo, e scontento della tua vita ci saranno loro a consolarti, i tuoi soldi, non è così?! Tommy invece avrà noi. E ci avrà sempre, perché noi siamo la sua famiglia. Noi lo amiamo. Lo hai mai almeno amato, Adam? Sai almeno cosa vuol dire?”
Tutto gli crollava addosso, pezzo dopo pezzo, ogni frammento di quell’armatura dietro la quale si era protetto da sé stesso e dai propri errori. Ogni parola di Sophie era così vera da penetrargli sottopelle e restare lì, come l’inchiostro di un tatuaggio.
In quel momento sentiva che doveva odiarla, per tutto ciò che gli stava rinfacciando, invece la verità era che sentiva di volerle bene più di quanto avesse mai fatto in tutta la sua vita.
La guardò ed annuì, come se fosse una risposta, ma la realtà era che non sapeva cosa rispondere: non era più certo di nulla. Credeva di averlo amato, ma credeva anche di non aver mai smesso, e credeva di amare Sauli e di essersi dimenticato di chiunque altro. Credeva tante, troppe cose, e questo loro sbucar fuori tutte assieme all'improvviso lo spaventava.
Lei sbuffò. “Sai che non ti ho ancora rotto il naso solo perché so che Tommy si arrabbierebbe? E sai che devi solo provare a guardarlo storto che-”
Adam la interruppe. “Meriterei di peggio di un naso rotto, Sophie.” giunse le mani e la guardò con aria quasi supplicante. “Dimmi solo cosa posso fare perché lui stia meglio – qualsiasi cosa di cui lui abbia bisogno: soldi, medicine, cliniche private...”
Sophie lo guardò severamente.
“Ha bisogno di amore, Adam.”

– – – –

“Credo che sia meglio che io vada.”
Adam si alzò dal divano e si avvicinò ad Isaac per salutarlo, ma lui lo scostò e lo costrinse a limitarsi ad un cenno. Con Sophie neanche tentò. Arrivato a Tommy gli sorrise, mormorando un saluto, e si avviò verso la porta.
Quando lo vide voltarsi ed andare via, Tommy sentì un familiare senso di soffocamento alla gola. Se ne stava di nuovo lì in piedi, immobile, a guardare Adam che se ne andava. Avrebbe dovuto aspettare altri cinque anni per vederlo ancora? Perché non poteva semplicemente restare? Il battito cardiaco accelerò e lui iniziò a respirare affannosamente. Non gli aveva ancora chiesto scusa! Non poteva aspettare ancora ed Adam non poteva andare via, non poteva essere già finita. Tremava e la nausea già gli attanagliava lo stomaco, ma riuscì sorprendentemente a fare qualche passo barcollante verso Adam. Lo chiamò flebilmente, la gola secca e la testa che gli girava. Lo abbracciò con tutte le forze che aveva, aggrappandosi alla sua camicia come se fosse l’unica cosa che gli avrebbe impedito di morire. Chiuse gli occhi. Le braccia forti di Adam lo sorreggevano e sentiva la sua voce agitata, ma non gl’importava cosa stesse dicendo. Era solo un altro dannatissimo attacco di panico, sarebbe passato. E anche se fosse morto lì, tra le sue braccia, sarebbe morto felice. L’importante era che Adam non andasse via. L’importante era non lasciare la presa.
Probabilmente mormorò qualche ‘scusa’ e qualche ‘non andare’, non ne era certo, ma gli sembrò di farlo prima di accorgersi di avere le labbra serrate. Sentì Isaac intimare ad Adam di mantenerlo forte e qualche minaccia non meglio identificata, mentre lui semplicemente stringeva più forte la presa su quella camicia che profumava di casa, tremava sebbene avesse caldo e cercava disperatamente di riprendere fiato e di calmarsi.
Alla fine, quando tutto passò, era sudatissimo. Iniziò improvvisamente a sentire freddo. Si strinse più forte al moro, affondando il viso nel suo petto, mentre lui lo stringeva in un abbraccio caldo.
“Non te ne andare, Adam... Non te ne andare...” mormorò, il fiato corto e i tremiti di freddo che lo scuotevano tutto. “Resta, ti prego...”
Il cantante ebbe un secondo di esitazione durante il quale guardò Isaac e Sophie, cercando di capire cosa si aspettassero da lui. Il biondo non se ne accorse, aggiunse solo qualche flebile supplica che unicamente Adam sentì, ed il suo abbraccio disperato e tremante si fece ancora più stretto.
“Sono qui. Non vado da nessuna parte, Tommy, sono qui.”










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Capitolo 4
*** Faraway ***



Note: Eccomiii! Dopo un bel po', lo so, capisco, ma abbiate pietà di me. Almeno non ho abbandonato la storia, no? :3
La mia vita da vuota e priva di senso che era è diventata fin troppo piena e stressante e ho avuto troppo poco tempo da dedicare alla depressione di questa storia... Ma ora sono quii! :3
La mia beta Stefania mi ha fatto i complimenti per questo capitolo, e spero voi lo apprezzerete quanto ha fatto lei. Non odiatemi troppo Adam, pensate a quanto è bello Matthew, sì? *-*
Vi amo!







04 Faraway


Scappare.
L'unica cosa che desiderava era scappare.
Anche mentre diceva a Tommy che era lì con lui, mentre quello si stringeva ai suoi vestiti tanto forte che le sue nocche erano sbiancate più di quanto non lo fosse lui, Adam voleva essere ovunque tranne che lì. Il biondo si era categoricamente rifiutato di lasciarlo e lui l'aveva trattato dolcemente, come si tratta un bambino o un'animale. Con amore, si potrebbe dire. Ma ciò che provava per lui assomigliava vagamente alla repulsione, corredata da tantissima paura. Non lo dava a vedere, non lo avrebbe fatto mai, ma non voleva essere toccato, non voleva guardarlo, non voleva vedere il suo viso scavato, le occhiaie scure, gli occhi vuoti, le mani deboli e i polsi magri, quella fragilità così sincera ed evidente che aveva paura che anche solo guardandolo avrebbe potuto farlo a pezzi. Non voleva ascoltare la sua voce flebile, le sue parole soffiate delicatamente da labbra terribilmente pallide e screpolate, non voleva vederlo rifiutarsi di mangiare neanche una volta ancora, per non parlare di quegli attacchi di panico: lo terrorizzavano!
Persino in quell'istante, mentre Tommy dormiva stringendogli la mano, la parte più razionale di Adam sembrava urlargli di fuggire via e non tornare mai più, di divincolarsi da quella presa calda, lasciarlo lì addormentato, voltarsi e scappare senza guardare mai più indietro. Voleva tornare a casa, avrebbe dovuto farlo, invece se ne stava lì e lo fissava, angosciato come non lo era mai stato in tutta la sua vita. Aveva dato un'occhiata alla vita di Isaac e Sophie, aveva avuto un assaggio di ciò che loro provavano ogni giorno, e non voleva saperne oltre. Faceva troppo male. Sperava che fuggendo sarebbe stato capace di dimenticare tutto quello, la rabbia e l'odio di Sophie, la delusione di Isaac, la terribile tristezza – e allo stesso tempo l'infinito amore – che si respirava in quella casa. Tentava di persuadersi che non gliene importasse nulla, ma suo malgrado non era così, non sapeva perché. Qualche parte di lui – la sua coscienza, sospettava – continuava a ripetergli che doveva restare, che doveva dare una mano. Non c'era un motivo preciso, era come un suo compito, come se dovesse loro qualcosa. Magari perché gli avevano voluto bene (e forse gliene volevano ancora): okay, non erano più quelli che erano stati un tempo, erano cambiati ed assieme a loro, forse, lo erano anche i sentimenti che provavano per lui, ma ad Adam non era successo lo stesso. Forse per il modo in cui li aveva persi, forse perché di amici veri non ne aveva mai avuti tanti, forse perché dopo di loro non aveva mai più legato con nessuno allo stesso modo, ma gli mancava tutto quello che per un breve quanto magnifico periodo aveva avuto e che poi aveva gettato via. O forse perché... forse perché Tommy voleva dire ancora tanto per lui e non poteva vederlo così, semplicemente non poteva.
Era proprio vero che il valore di ciò che si ha lo si capisce quando lo si perde. Solo adesso capiva a cosa aveva rinunciato cinque anni prima, di quanti sentimenti si era privato per seguire i propri sogni. E (forse) un po' se ne pentiva.
Nonostante tutto ciò, nonostante conoscesse perfettamente il valore di ciò che aveva lì, in quell'istante, continuava a non voler restare nella stanza. A dire la verità, non voleva neanche guardare Tommy un secondo di più, oppure – ne era certo – ne sarebbe stato distrutto. Forse, se fosse andato via subito, l'altro non avrebbe sofferto così tanto. Forse Sophie aveva ragione a disprezzarlo, perché era un codardo ed in quell'istante avrebbe anche ucciso Tommy nel sonno se in cambio avesse ricevuto indietro la propria serenità. Sì, gli importava di se stesso e no, non si sentiva in colpa per questo. Non doveva sentirsi in colpa perché cercava di essere felice. Si sentiva in colpa perché Tommy non lo era, ma sapeva anche che la responsabilità non era prropria: la felicità va cercata in sé stessi e Tommy sbagliava ad affidare la propria nelle mani di altri; i suoi genitori, la sua ragazza, la sua band, la musica, Adam, ed ora Isaac e Sophie: mai una volta che fosse stato felice per se stesso, senza motivo, semplicemente per sé.
Guardò Tommy, anche se non voleva, anche se faceva male, lo guardò e desiderò dirgli addio. Non lo aveva mai fatto. Avrebbe preferito uno di quegli addii agrodolci, quelli in cui ci si abbraccia e ci si promette che no, non è finita lì, ma in fondo si sa che è proprio così. Provò a mormorarlo, ma qualcosa lo fermò (forse il fatto che stesse per scoppiare a piangere?). Sospirò. Non ce la faceva. Forse non era un addio quello, forse l'addio c'era stato tanti anni prima, e non si poteva far più nulla ormai per cambiarlo, era troppo tardi.
Divincolò delicatamente la mano dalla stretta di Tommy ed uscì in silenzio dalla camera. Attraversò il corridoio consolato dal pensiero che presto sarebbe stato a casa, da Sauli, dov'era il suo posto.
“Devo tornare a New York.” Annunciò pacatamente a Sophie che se ne stava accoccolata sul divano, guardando la TV senza davvero vederla.
La donna annuì. Aveva i capelli raccolti in una morbida coda, ma molti ciuffi castani erano sfuggiti all'elastico e le ricadevano sul viso. Prima che Adam parlasse sembrava allegra, come se avesse ricevuto una buona notizia, e nonostante si fosse voltata verso di lui con l'aria neanche minimamente interessata, era evidente che un po' dell'effimera felicità che le si poteva leggere sul viso qualche istante prima, stava già scomparendo mentre lei distendeva le labbra in un sorriso ironico.
“Lo so.” rispose semplicemente.
“Lo sai?”
“Lo sospettavo. Tranquillo, Tommy sopravviverà anche a questo, me ne assicurerò personalmente. Non che ti interessi, era per dire.” fece spallucce e ritornò a fissare il televisore, anche se apparentemente sembrava più impegnata a cercare di recuperare quella flebile gioia da qualche parte nella propria mente.
“Ancora convinta che non mi interessi? Perché ne sei così sicura?”
Quelle frasi lo ferivano nell'orgoglio, non c'era nulla da fare. Neanche lui aveva le idee chiare su che cosa provasse in quel momento o sul perché stesse scappando, cosa diamine voleva saperne lei? Gli era sempre importato degli altri, e solo perché in quel momento era confuso e aveva bisogno di schiarirsi le idee non significava certo che per lui la cosa non avesse importanza.
“Perché stai andando via. Lo stai lasciando, di nuovo. Preferisco pensare che non ti interessi, piuttosto che pensare a te come ad un misero codardo che non sa neppure affrontare le conseguenze delle proprie azioni.”
Adam la guardò duramente, poi uscì sbattendosi la porta dietro.

– – – –

“Cosa gli diciamo adesso? Dimmelo tu cosa gli diciamo!”
Isaac roteò gli occhi e incrociò le braccia. “La verità. Cosa dovremmo dirgli?”
Sophie era furiosa. Aveva gli occhi rossi di lacrime, ma non lacrime di tristezza, lacrime di rabbia, di impotenza: non era giusto che quella cosa accadesse di nuovo, che Adam distruggesse la vita di Tommy ancora una volta senza neanche accorgersene, trattandolo con la stessa cura che si riserva ad uno straccio vecchio. Non ne poteva più di vedere quella vita che tanto le era cara distrutta da uno stupido errore, quello di aver concesso la propria fiducia alla persona sbagliata: era straziante. In più, non aveva idea di cosa pensasse Tommy, di cosa dirgli per farlo stare meglio, e le sue parole sembravano sempre inutili e stupide, confrontate con il dolore che Tommy si trovava a dover affrontare.
“Sai che ti dico, Isaac? L'idea è stata tua e io ne ho abbastanza di dover affrontare le conseguenze della stupidità degli altri! Assumiti la responsabilità delle tue azioni e vai tu a dirglielo!” urlò, arrabbiata come suo marito l'aveva vista poche volte. Isaac sapeva che non ce l'aveva con lui, che desiderava solo che il loro migliore amico la smettesse di soffrire senza ragione, che ricominciasse a vivere per davvero, ma non poté evitare di sentirsi tremendamente in colpa: era vero, era colpa sua. Aveva pensato di far contento Tommy facendogli rivedere Adam, senza tenere in considerazione il carattere del cantante, che era sempre stato un po' instabile e complesso. Si era fidato di Adam, ed aveva sbagliato. Prima che tutto quello accadesse, Tommy era sempre stato l'unico a sapere come comportarsi con lui e come conviverci a stretto contatto senza litigarci mai (o quasi).
“Dirmi cosa...?”
Tommy sembrò spuntare dal nulla ed Isaac e Sophie sgranarono gli occhi per qualche istante, giusto il tempo di scambiarsi uno sguardo sorpreso e spaventato, prima di tentare di fingere che stessero parlando di qualcun altro. Nessuno dei due poteva fare a meno di pensare che se avessero detto la verità, il loro amico ne sarebbe rimasto distrutto; ma d'altro canto, Tommy li scrutava con attenzione, ad assicurarsi che non gli raccontassero bugie, quindi si sarebbe quasi sicuramente accorto che mentivano.
Sophie fece lo stesso un tentativo: “Non parlavamo di te..”
Il biondo neanche la lasciò parlare.
“Cos'è che dovete dirmi?” ripeté. Conosceva già la risposta e sapeva quella che credevano saprebbe stata la sua reazione. Ma non era certo che avrebbe reagito; probabilmente sarebbe stato lì a fissare il vuoto per qualche settimana, prima che la concretezza di tutto quello lo investisse.
In ogni caso, gli interessava che gli rispondessero sinceramente perché voleva che la smettessero di trattarlo come un bambino traumatizzato: aveva trentasette anni, poteva affrontare la realtà, non dovevano prendersi loro il peso dei suoi guai!
“Adam è tornato a casa.” sussurrò Isaac, dopo essersi scambiato un'occhiata rassegnata con Sophie, interrompendo il corso dei pensieri di Tommy.
“Lo so.” annuì il biondo, facendo spallucce. “Sapevo che sarebbe andato via da quando ieri sera mi ha baciato la fronte, mentre pensava che dormissi.” aggiunse con voce piatta, per poi fare spallucce e poggiarsi al tavolo.
“E... come... come ti senti?” balbettò Sophie, sgomenta. Come Tommy riuscisse, certe volte, a decifrare Adam con la stessa facilità con cui avrebbe letto un cartellone pubblicitario era sempre stato un mistero per tutti.
Il biondo alzò lo sguardo e puntò gli occhi in quelli castani della donna. Come si sentiva? Devastato era un eufemismo. Quando le labbra di Adam si erano allontanate dalla propria fronte aveva iniziato a tremare violentemente, e aveva dovuto ingoiare le lacrime. Ogni volta che per caso ritornava in contatto con Adam, era come rivivere ancora quell'addio. Bastava anche solo sognarlo, o ricordarlo, e tornare alla realtà significava sprofondare un po' più in basso nel baratro, ed essere sfiorato da lui era una spinta giù fino al fondo.
Guardò Isaac: i suoi occhi verdi lo scrutavano preoccupato, con quell'espressione sofferente – Tommy odiava essere la causa di quel dolore. I suoi due amici desideravano solo che lui stesse bene. Era tutto quello che volevano. Perché non soddisfarli, allora?
“Come mi sento? Non sento più nulla... Mi sento quasi bene.”

– – – –

“Come ti senti, Tommy?”
Matthew, o meglio il dottor Davis, lo psicoterapeuta, lo guardava con una tale intensità e concentrazione da far sembrare che volesse leggergli il pensiero. Teneva la penna sospesa ad un centimetro dal blocco degli appunti ed ogni tanto scriveva qualcosa, senza mai abbassare lo sguardo. Era la seconda volta che gli poneva la stessa domanda, con quella voce pacata e rassicurante che era sempre stata una sua caratteristica, ma Tommy non pareva avere neanche la vaga intenzione di rispondere; si tormentava le mani e si guardava intorno, senza mai rivolgere gli occhi verso l'uomo nonostante sentisse il suo sguardo bruciargli sul viso.
Non riuscì a sopportare a lungo quel silenzio e quello sguardo insistente che gli pesava addosso – le gare di resistenza non erano mai state il suo forte – e fu solo per quello che si decise ad aprire bocca.
“Possiamo parlarne la prossima volta?”
Matthew scosse la testa e sospirò con aria esasperata. Doveva ammettere che dopo quatto anni e mezzo era molto affezionato a quel paziente ed al suo caso, tanto che era uno dei pochi che non avrebbe mai lasciato a qualcun altro, ma a volte Tommy era davvero impossibile.
“Perfetto. Allora di cosa parliamo nei prossimi-” Matthew lanciò un'occhiata all'orologio “-quarantatré minuti?”
Il biondo scivolò ancora nel silenzio e il suo psicoterapeuta non staccò un secondo gli occhi da lui, mentre annotava qualcosa sul foglio.
Tommy lo ammirava profondamente: per tutte le cose che gli aveva spiegato, per via di tutti i consigli che gli aveva dato, Tommy se lo era figurato come una persona forte ma sensibile, risoluta ma non prepotente, solare nei momenti giusti ma mai distrutta in quelli difficili. Avrebbe voluto avere la stessa forza d'animo. Avrebbe voluto essere meno vulnerabile all'amore di Adam.
“Dillo, ti sentirai meglio. Come ti senti?” lo incoraggiò ancora il dottore.
Tommy fece un lungo sospiro e raccolse tutta la forza di volontà che aveva per decidersi a parlare. Non voleva perché sapeva che avrebbe reso tutto più reale, ed era già abbastanza vero e tangibile così.
“Usato.” mormorò, con quel suo modo di parlare telegrafico e quel suo tono di voce sempre troppo basso.
“Perché?” lo incitò ancora Matthew.
Il biondo si passò una mano tra i capelli, mordicchiandosi nervosamente le labbra. Era ovvio il perché. Come si sarebbe sentito chiunque altro, in una situazione simile? Però c'era anche quella sensazione, quel presentimento che non fosse finita lì, che lui sarebbe tornato. E sebbene ci avesse messo un po' a sopraggiungere – all'inizio era semplicemente troppo devastato per accorgersi di essere ancora capace di provare qualcosa – era una sensazione forte, che non gli aveva ancora permesso di assimilare ciò che era successo. Era come se fossero ancora ai bei vecchi tempi, ed Adam fosse andato via per un'intervista, o per un photoshoot.
Ma non voleva parlarne con nessuno: voleva tenere ciò che sentiva per sé, perché proprio non ne poteva più di vedere gli altri soffrire per lui o compatirlo. Forse stavolta sarebbe riuscito a riconquistarsi una vita normale anche senza di lui, pensava, ma nel suo profondo sapeva perfettamente che nulla sarebbe mai finito se il suo presentimento fosse stato sbagliato, se Adam non fosse tornato.
“Non devi dire nulla ad Isaac e a Sophie.” mormorò Tommy, tornando a forza alla realtà e scambiandosi un breve sguardo con l'uomo seduto sulla poltrona davanti a lui.
“Ho la bocca cucita.” Gli rispose il dottore, chiudendo la penna con uno scatto e posandola sulla scrivania, rivolgendo a lui piena attenzione, come a conferma di ciò che diceva.
Tommy annuì un paio di volte, si convinse che era la cosa giusta da fare. Osservò con attenzione le dita della propria mano destra, che battevano ritmicamente sul polso sinistro. Si rese improvvisamente conto che aveva voglia di ascoltare musica e magari di riprendere la chitarra. Aveva voglia di qualcosa ed era un enorme passo avanti: non gli succedeva da anni!
Sebbene fosse felice di ciò che aveva appena realizzato, aveva anche la terribile paura che significasse che stava guarendo e che, assieme alla malattia, anche i sentimenti che provava sarebbero andati via, come se fossero stati la stessa cosa. Temeva che quella sensazione che Adam fosse tornato, quel proprio non realizzare che invece era andato via e probabilmente non l'avrebbe visto mai più, non fosse che il primo passo verso l'addio definitivo, verso il momento in cui non gli sarebbe più importato nulla.

“Ha preferito lui a me, per l'ennesima volta.” Iniziò Tommy, prima di serrare le labbra in un sorriso amaro, continuando a guardarsi le mani. Sospirò. “E io mi sento un po' meglio.”
Sì, si sentiva meglio e poi si sentiva peggio perché aveva promesso che l'avrebbe amato tutta la vita e se non avesse mantenuto la promessa, si sarebbe sentito in colpa una vita intera, con Adam, ma soprattutto con sé stesso e con il mondo.
“Ti senti meglio?” il dottor Davis lo guardava con un'espressione stranita, come Tommy non gliene aveva mai viste. Lo osservò per un po', poi annuì lentamente.
“So che tornerà.” ammise, arrossendo appena.
“Lo sai?” ripeté l'uomo, passandosi una mano tra i capelli e sospirando. Aveva un'aria esasperata, ma in quel momento Tommy si rese conto che non gli importava del suo giudizio né di quello di chiunque altro. Ricordava il modo in cui Adam gli aveva premuto le labbra sulla fronte: aveva esitato, e ci aveva ripensato subito, tirandosi indietro dopo avergliela sfiorata; eppure in quegli istanti Tommy aveva capito qual'era il conflitto interiore che scorreva nelle vene dell'altro, che lo faceva sembrare così tormentato: andare o restare? Giusto o sbagliato? Lo amo o non l'amo? La vita che mi sono conquistato o il passato che mi sono obbligato a lasciare indietro? La luce o questo baratro?
Sapeva che sarebbe tornato perché quando aveva deciso di baciargli la fronte, aveva deciso di restare e di buttarsi in quel baratro. Poi aveva avuto paura, ma quello che non sapeva era che una volta che ci si è gettati, si cade, è inevitabile. E una volta caduti, non si risale così in fretta.

Sarebbe tornato, Adam, perché solo insieme potevano risalire: era sempre stato così.
“Sai che ti stai illudendo, Tommy?”
Il biondo non rispose, ma non ce n'era davvero bisogno. Non era stato difficile per Matthew capire che no, non lo sapeva.

– – – –

“Perché non me ne parli?”
Isaac era andato a prenderlo. Di solito era Sophie a farlo, un po' perché lui aveva da lavorare, un po' perché odiava avere a che fare con il dottor Davis: all'inizio sosteneva che era inutile mandare Tommy lì, non era pazzo, diamine, era solo ferito, poteva uscirne da solo e non aveva bisogno di psicofarmaci; ma quando la realtà lo aveva contraddetto e il suo amico era peggiorato sempre di più, si era trovato costretto a cedere e aveva automaticamente sviluppato un odio mal celato per qualunque cosa c'entrasse con le “cure” per la “malattia” dell'amico. Accettava le sue crisi, accettava la depressione, poteva accettare persino che si rifiutasse di mangiare, ma mai e poi mai avrebbe accettato completamente quelle pillole né tanto meno le visite da uno psicoterapeuta evidentemente incapace che si succhiava i loro soldi da cinque anni senza risultati – o meglio, con risultati più o meno evidenti ogni volta vanificati da Adam, in qualche modo.
In quel momento stava guidando verso casa, gli occhi che dalla strada saettavano verso Tommy a intervalli quasi regolari, mentre rifletteva. Aveva deciso di andare a prenderlo perché dovevano parlare e sapeva che il ragazzo si sarebbe aperto con lui molto più facilmente di quanto avrebbe fatto con Sophie.
“Non c'è nulla da dire.” Tommy impiegò un po' a rispondere, come sempre. Ma stavolta la sua mente sembrava più tranquilla, meno frenetica dietro la sua espressione impassibile e un po' triste. Forse era vero che stava meglio? Forse alla fine aveva deciso che non valeva la pena di correre dietro a quel cretino che tanto amava?
“C'è sempre qualcosa. Noi ci siamo sempre detti tutto, non devi aver paura di parlare di ciò che provi...” lo incoraggiò Isaac. Accostò l'auto per voltarsi a guardarlo e rivolgergli la sua completa attenzione. Lo scrutò cercando i suoi occhi, tentando di capire cosa stesse pensando.
“Sto bene.” mormorò il biondo dopo qualche istante. Non alzò lo sguardo, teneva gli occhi testardamente puntati sulle proprie mani, che si tormentava nervosamente.
Isaac sbuffò. Stava bene, certo. Era miracolosamente guarito, non era così? Ora avrebbe ripreso a suonare e a lavorare, avrebbe iniziato una qualche carriera e la loro vita sarebbe finalmente tornata alla normalità, giusto? Magari fosse stato così facile.
“Okay, facciamo che non ne vuoi parlare. Posso dirti qualcosa io?” domandò, aspettando il suo cenno d'assenso prima di continuare. Fece una breve pausa e sospirò: “Non ti merita. E so che te l'ho detto mille volte, ma davvero, non merita un briciolo dell'amore che provi per lui. Sei una persona magnifica, una di quelle che non si può non amare. Dai tutto te stesso a chiunque e lo so che non riesci ad accettare quello che è successo... ma è successo cinque anni fa...”
Il biondo fu attraversato da diverse sensazioni. All'inizio non voleva neanche ascoltare, ancora una volta quel discorso, ancora una volta quelle stupidaggini sul come dovesse smetterla di amare Adam – come se fosse persino possibile decidere di smettere di amare qualcuno – ma poi, un grande senso di gratitudine e tanto affetto gli avevano riempito il cuore, perché era da tempo che qualcuno non gli faceva complimenti – che Isaac non gliene faceva. E per quel motivo riuscì a perdonargli anche il fatto che gli stava ripetendo per la milionesima volta un discorso inutile che non avrebbe portato a nulla.
“Non voglio dire che non ha importanza...” continuò il moro, probabilmente resosi conto che non era una buona idea sminuire la causa di tutto quel dolore. “Voglio dire che hai un cuore grande e così tanto amore da dare, e quando dai, dai, dai e non ti torna indietro nulla e finisci per svuotarti. Questo è quello che ti sta accadendo, da quando lui è andato via.” Un brivido rotolò giù per la schiena di entrambi gli uomini, quella del biondo perché quelle parole erano spaventosamente vere, e quella del moro perché oltre che vere, erano terribili. “Perché invece di rivolgere tutti questi sentimenti a lui che non li vuole e non li merita e a cui non importa, non provi a dare il tuo amore a qualcuno che ti ricambi?” concluse Isaac, esprimendo un concetto che sebbene fosse sempre stato sottinteso nei loro discorsi, non era mai uscito fuori per davvero, perché tutti loro sapevano che era stupido, che non si può decidere di punto in bianco di amare qualcuno o di non farlo. Ma – Isaac pensava – dopo tutto quel tempo, 'di punto in bianco' non era certo un'espressione che si poteva usare. Ci sarebbe riuscito a mettere la parola fine a quel maledetto sentimento unilaterale che provava l'amico, si ripromise. Fosse stata anche l'ultima cosa che avrebbe fatto, ci sarebbe riuscito.
“Lo faccio già, Isaac, amo te.” ribatté Tommy, facendo spallucce. Gli sembrava ovvio. Forse non sapeva dimostrarlo, forse non era evidente, ma era il suo amico l'unica cosa che lo manteneva ancorato alla realtà, che lo costringeva ad andare avanti, che lo faceva sentire importante anche negli istanti più cupi: era il suo punto fermo, la sua roccia, l'unica persona di cui si fidava ciecamente; se gli avesse detto di suicidarsi, Tommy l'avrebbe fatto – probabilmente anche volentieri – ma Isaac gli aveva detto di non andarsene, che valeva la pena di vivere, ne valeva la pena davvero, e Tommy gli aveva creduto. Ed ora eccolo lì, che ancora tentava disperatamente di rimettere insieme i cocci di una vita che sapeva non poteva essere più ricomposta senza il pezzo più importante, l'unico che mancava.
“Me?” La naturalezza con cui Tommy aveva pronunciato quelle parole sconvolse un po' Isaac – cosa voleva dire che lo amava? E poi, era davvero così facile per il suo amico, l'amore? Dopo tutto quello che aveva passato, era ancora così, bianco o nero, vero o falso, amore o odio?
“Non quanto amo lui, ovvio, ma quasi.” rispose il biondo, sicuro. Non aveva mai fatto mistero dei propri sentimenti con nessuno e lo sgomento di Isaac lo lasciava un po' stranito. Qual'era il problema? Era così semplice amare, così facile affezionarsi a qualcuno, così naturale avere fiducia in una persona. I sentimenti sono la cosa più facile del mondo: sono le persone ad essere complicate.
“Vuoi dire che tu vorresti... stare... cioè... con me?” mormorò il moro, esitante, guardandolo un po' spaventato. Era qualcosa di assurdo per lui, totalmente inaspettato: mai era arrivato a pensare ad una cosa del genere. Era possibile che il suo amico provasse per lui qualcosa di così intenso?
Tommy roteò gli occhi.
“Perché devi sempre essere malizioso?” borbottò. “È amore platonico, ecco.” continuò, incrociando le braccia ed arrossendo teneramente.
Isaac sorrise, non poté farne a meno vedendo le guance dell'altro colorarsi di rosso e lui abbassare lo sguardo imbarazzato. Allungò una mano a prendere la sua e gli rivolse un sorriso tra i più sinceri da mesi e mesi a quella parte. E quando Tommy gli rivolse lo sguardo, ciò che Isaac vide lo riempì di così tanta gioia che si sarebbe messo a cantare: anche Tommy stava sorridendo.









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Capitolo 5
*** Paraklausìthyron ***


Titolo: Bright Light
Autore: itsjjoy
Fandom: RPF Adam Lambert
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico
Tipologia: Long Fic
Conteggio Parole: (capitolo) 3517
Pairing/Personaggi: Adam Lambert/Tommy Joe Ratliff; Adam Lambert/Sauli Koskinen; Isaac Carpenter
Rating: Giallo
Avvertimenti: Slash, Het, What if?, OOC
Note: Eccomiii! In super-mega-extra ritardo bestiale, ma per fortuna la scuola è finita u.u
Un capitolo che io ho trovato abbastanza difficile da scrivere, una vera sfida, il POV di Sauli è qualcosa di stressante e difficile T__T Ma se sono riuscita in questo, riuscirò in tutto u.u
Sta storia è troppo depressa comunque .__. Non scopa nessuno, alla lunga annoia u.u
LOL
Scusate, davvero, vi lascio alla storia che è meglio T_______T
P.S.: ditelo che il titolo è un tocco di classe u.ù









05 Paraklausìthyron






Aperta la porta di casa a mezzanotte, dopo un volo passato a tormentarsi e un lunghissimo viaggio in taxi nella trafficata New York delle undici di un venerdì sera, in compagnia di un autista invadente e chiacchierone, Adam non si aspettava certo suo marito seduto in salotto ad aspettarlo a braccia aperte, né men che meno in cucina a preparargli la cena, anche perché non lo aveva avvertito che sarebbe tornato; si aspettava, però, di trovarlo a letto a dormire o perlomeno di trovarlo in casa. Dopo aver controllato in tutte le camere, invece, dovette appurare che no, a casa proprio non c'era, non era da nessuna parte e non c'era neanche la sua macchina. Probabilmente era da qualche amica a dormire: gli aveva accennato che non gli piaceva dormire da solo – la casa era enorme ed era sinceramente molto triste stare lì senza una compagnia – e che quindi probabilmente avrebbe passato le notti dalla loro amica Karen. Adam avrebbe chiamato per controllare se era lì, ma era tardi e non voleva disturbare.
Posò la valigia in un angolo della camera, si sfilò le scarpe e i vestiti, lasciando tutto sul pavimento, e si infilò sotto le coperte. Avrebbe voluto addormentarsi subito, ma sapeva che era una pretesa assurda. Il viso scavato e gli occhi vuoti di Tommy continuavano a balenargli davanti agli occhi non appena li chiudeva e lui continuava a chiedersi per quale assurdo e insensato motivo fosse andato a Burbank, perché avesse aspettato tutto quel tempo solo per vedere il suo ex sapendo che – ammise finalmente a se stesso – non aveva mai smesso di provare quei sentimenti strani e complicati per lui; gli stessi sentimenti che li avvicinavano e li allontanavano neanche fossero calamite impazzite che cambiano polo a proprio piacimento, gli stessi sentimenti che in tutto quel tempo che erano stati lontani ogni tanto gli assalivano il cuore e gli facevano passare ore intere a fissare le loro foto (che conservava con gelosia, nascoste in un libro), che gli ispiravano canzoni tristi e strappalacrime sugli amori perduti e qualche volta lo facevano anche piangere. Se ne vergognava e con quella visita forse voleva dimostrare a sé stesso che davvero non gli importava nulla di Tommy, un “ex-ragazzo” che non era mai stato davvero il suo ragazzo ma non era neanche davvero il suo ex, che non era niente eppure era tutto e che aveva così tanto potere su di lui che aveva dovuto allontanarlo, perché sentiva che altrimenti avrebbe perso il controllo della propria vita.
All'una e mezza era ancora sveglio a fissare il soffitto, mentre le coperte erano un vero e proprio disastro: attorcigliate attorno alle gambe, gli scoprivano le spalle ed aveva freddo. Aveva il cellulare stretto in mano ed ogni tanto guardava l'orario, pensando a quanto lentamente stesse passando il tempo e a quanto fosse stato stupido ad andare di nuovo via.
Ad un certo punto una folle idea lo fulminò e lui non esitò a metterla in pratica finché era ancora troppo poco lucido per ripensarci. Sbloccò lo schermo del suo nuovo iPhone ultimo modello (l'aveva comprato il mese prima) e in pochi minuti scrisse e cancellò lo stesso sms una decina di volte, prima di decidersi a inviarlo.

A: Isaac
Probabilmente non mi risponderai, ma posso restare in contatto con Tommy in qualche modo? Vederlo così mi ha fatto davvero stare male e vorrei fare qualcosa. So che non ci crederete mai, ma ci tengo a lui. Tanto.
Mi dispiace di essere andato via così, ma faceva troppo male. Vi prego di perdonarmi...
Vi voglio bene.
Adam

Non lo aiutò a dormire meglio, ma chissà, magari sarebbe servito a qualcosa.

–   –   –   –

Quando Sauli rientrò a casa, la mattina dopo, si accorse subito che Adam era tornato: come non notare che il suo uragano personale era entrato in casa? Il cappotto era stato buttato in malo modo sul divano, sul tavolo della cucina c'era un bicchiere mezzo pieno e una bottiglia d'acqua ancora aperta (fortunatamente almeno il frigo era chiuso!), due sedie erano state allontanate dal tavolo e la tenda della finestra era scostata. Sauli sorrise tra sé e sé, sistemando in pochi minuti il caos che aveva trovato prima di dirigersi al piano di sopra a cercare Adam che a quell'ora di certo dormiva.
Infatti fu in camera che lo trovò. Riposava attorcigliato nelle lenzuola, con l'espressione crucciata e il cellulare stretto in una mano. Finalmente era tornato. La sensazione che Sauli provò nel rivederlo gli attorcigliò le budella finché non gli venne da vomitare, eppure desiderava che non passasse mai. Probabilmente Adam era arrabbiato con lui: non l'aveva trattato molto bene in quell'ultima settimana che era stato lontano e non si era neanche fatto trovare a casa quando era tornato. Ma le ragioni di Sauli erano precise: si era comportato in quella maniera perché era geloso, come lo era sempre stato, geloso marcio di quello sguardo, quella luce negli occhi e quel tono strano della voce che Adam assumeva all'istante solo ed esclusivamente quando si parlava di Tommy. Qualche anno prima non si trattava solo di uno scintillio strano negli occhi: bastava nominare il suo chitarrista e tutto il suo corpo pareva illuminarsi e sorridere; l'espressione di gioia che aveva quando era in compagnia di Tommy era così pura e sincera, quasi infantile, che era addirittura contagiosa e da quando Adam aveva piantato il musicista, Sauli non gliel'aveva mai più vista. A dire la verità non gli aveva più visto neanche quello sguardo perso che aveva sempre significato solo una cosa: Tommy – e che a suo parere lo faceva sembrare un po' stupido.
Con la scomparsa del motivo per cui essere geloso, Sauli aveva smesso di essere così assillante e invadente... almeno finché Tommy non era tornato: Isaac era arrivato a parlare di lui e quella dannata gelosia giustificata che lo rendeva insopportabilmente paranoico era tornata. Cosa poteva farci se era evidente che Adam era pazzo di quello stupido biondo finto? Lo era sempre stato e continuava ad esserlo, e nessuno poteva cambiarlo se non lo stesso Adam.
Era stato per quella ragione, per via di quei sentimenti così forti ed evidenti che univano suo marito al suo ex chitarrista, che inizialmente non sperava né desiderava di essere null'altro che una storiella di passaggio per Adam – sapeva di non poter chiedere di più. Ma dopo un paio di mesi con il cantante, aveva cambiato idea: avrebbe combattuto per lui, l'avrebbe fatto finché non ci sarebbe stata più nessuna speranza a spronarlo, perché ne valeva la pena; ed alla fine era stato ricompensato.
E dopo cinque anni di felicità, Isaac era tornato come un fantasma dal passato a vanificare i suoi sforzi. Aveva bussato alla porta di casa loro e aveva preteso di trovare ciò che aveva lasciato cinque anni prima.
La cosa peggiore era che, almeno per quanto riguardava Adam, ciò che cercava era proprio lì.

–   –   –   –

Gli preparò la colazione. Lo fece perché c'era qualcosa che sentiva di doversi far perdonare e perché sapeva che ci sarebbe riuscito, con dolcezza, un bacio e una bella notizia. Già, perché mentre Adam era a Burbank ad interessarsi di persone di cui non gli sarebbe dovuto importare nulla, Sauli aveva ricevuto una chiamata dall'agenzia a cui si erano rivolti per adottare un bambino (o una bambina, lo correggeva sempre Adam): la loro documentazione era stata letta e l'agenzia voleva fissare un colloquio. Sauli si era fatto lasciare il recapito, con l'intenzione di concordare la data prima con Adam. Quando aveva ricevuto la chiamata, la sua reazione era stata entusiasta: l'avrebbe urlato al mondo tanto era felice! Voleva dare la risposta in quello stesso momento, ma sapeva di doverne palare con Adam prima, è così che funziona. Così aveva provato a parlargli subito, ma invano: quando lo aveva chiamato per annunciargli la notizia, Adam non lo aveva lasciato neppure parlare; aveva risposto che era di fretta e non poteva perdere tempo e che qualunque cosa fosse poteva attendere. Quella risposta lo aveva infastidito (lo innervosiva solo ricordare quanto aveva odiato il proprio marito in quel momento) ma sapeva che se Adam avesse avuto una vaga idea della notizia che voleva dargli si sarebbe comportato in modo diverso: era stato lui ad insistere per adottare un bambino, lui che lo aveva convinto a prendersi un impegno così serio, sempre lui che aveva portato a casa brochures a non finire di tutte le agenzie di adozioni che era riuscito a trovare, aveva fatto ricerche, stampato statistiche e materiale informativo dai siti più svariati e scelto anche la nazionalità del bambino in caso avessero optato per l'adozione internazionale. Insomma, davanti alla millesima ricerca sulle differenze tra adozione chiusa e adozione aperta, Sauli aveva finalmente ceduto ed insieme avevano contattato una agenzia – si erano fatti consigliare da alcuni amici su quale fosse la migliore – ed avevano inviato la documentazione richiesta, con l'aiuto di un avvocato.
Alla fine anche lui, che all'inizio era restio a fare una scelta così importante, era rimasto irrimediabilmente coinvolto ed era emozionatissimo all'idea che avrebbero cresciuto un figlio insieme, che sarebbero stati una famiglia! Di conseguenza, era certo che Adam sarebbe stato mille volte più entusiasta di lui, ed era per questo che voleva dargli la notizia nel più dolce dei modi, per godersi a pieno il suo buonumore.
Così si era diretto verso la loro camera da letto con le migliori intenzioni, un vassoio per la colazione, biscotti, un muffin al cioccolato e un bicchiere di succo d'arancia. Voleva svegliarlo nel modo più amorevole che conoscesse e fargli iniziare la giornata al meglio, ma, quando entrò in camera, Adam non stava dormendo.
Lo trovò che stringeva il cuscino e singhiozzava in silenzio, probabilmente convinto di essere solo. Piangeva come Sauli non l'aveva mai visto piangere, versava lacrime a fiotti come un bambino, tirava su col naso, aveva il viso premuto nel cuscino, ed ogni tanto un singhiozzo lo scuoteva tutto.
Era lacerante, Sauli non trovò altre parole per definirlo. Gli spezzava il cuore, faceva male, come se ognuno di quei singhiozzi fosse una coltellata violenta, decisa, dritta al cuore. Poggiò il vassoio dove capitava e si avvicinò subito ad Adam, si inginocchiò accanto al letto, passandogli una mano tra i capelli delicatamente. Lui sussultò a quel contatto, lo guardò per un'istante, con gli occhi sgranati per la sorpresa, e tentò di smettere di piangere, di darsi un contegno: si mise seduto di scatto, tirò su col naso, singhiozzò un paio di volte e si asciugò gli occhi; lo guardò per qualche secondo tentando di dire qualcosa e fallendo miseramente, alla fine si arrese e riprese a piangere, però in silenzio, lasciando semplicemente che le gocce salate gli solcassero il viso.
“Cosa c'è? Adam, cosa c'è?”
“Solo... solo un sogno.” borbottò l'altro.
Un sogno. Un dannatissimo sogno lo faceva stare così? Ma con chi credeva di avere a che fare, con un cretino? Ovviamente non era un sogno – e ovviamente non era neanche il momento di insistere, lo sapeva. Ma, anche se in quel momento non gli importava tanto se Adam gli stesse mentendo o meno – gli interessava invece che non stesse più così – dall'altro lato voleva dirgli che non doveva mentirgli, non poteva farlo, erano sposati, si amavano, e ci sarebbero stati sempre l'uno per l'altro, nel bene e nel male, no?
Sauli si mise seduto accanto a lui e avvicinò cautamente la mano al suo viso, prima di accarezzarlo dolcemente, preoccupato per una possibile reazione simile a quella di poco prima; ma Adam chiuse gli occhi e si rilassò leggermente, permettendo che l'altro gli sfiorasse le labbra con le sue e gliele lasciasse umide e profumate di lui.
“Va tutto bene, era un sogno, solo uno stupido sogno...” sussurrò Sauli, ma Adam a quelle parole ritornò a piangere silenziosamente e, senza neanche schiudere gli occhi, cercò le sue labbra annaspando. Lo baciò in un modo disperato, come se cercasse di riemergere dall'acqua per respirare e non ci riuscisse, e continuasse a tentare, sperando di trovare la superficie prima che le forze lo abbandonassero.
Sauli non poteva saperlo e Adam non glielo avrebbe mai confessato, ma era davvero un sogno che l'aveva ridotto così, o meglio, era stato quello che il suddetto sogno gli aveva fatto capire. Riguardava Tommy, e chi se non lui avrebbe mai potuto farlo piangere così? Lo odiava, odiava il potere che quel ragazzo esercitava su di lui, lo odiava anche se poi non lo odiava proprio per nulla.
Lo aveva sognato, e non era stato uno di quei sogni belli, luminosi, né malinconici o vagamente tristi com'era capitato in passato: aveva rivisto i suoi occhi nocciola, vuoti da far male, lo aveva sentito dirgli addio. Ricordava solo brevi flash, istanti di quell'incubo così vivido da sembrare reale: vedeva Tommy, pallido e freddo, riverso nell'oceano rosso del suo stesso sangue, vedeva se stesso inginocchiato accanto a lui, a fissare i suoi occhi privi di vita e baciare quelle labbra fredde e a gemere dolorosamente, stringendogli le mani ormai inerti. Sapeva che era propria, la colpa, propria e di nessun altro. Sapeva di averlo ucciso. E quando si era svegliato, si era guardato le mani, aspettandosele sporche di sangue, e aveva capito che lo erano anche se le macchie rosse non si vedevano, perché aveva strappato il cuore di Tommy dal suo petto cinque anni prima e da allora non l'aveva mai lasciato: era ancora lì da qualche parte, a battere con l'ostinazione e la caparbietà di chi non vuole morire in alcun modo. E lui, lui che era riuscito ad ignorare quella pulsazione insistente per tutto quel tempo, adesso sapeva e non riusciva più a fingere di essere all'oscuro del dolore che aveva causato. Alla fine quei pensieri lo avevano portato alle lacrime, non per esasperazione, ma in un modo strano, quasi inconscio: era scoppiato a piangere così, senza deciderlo, senza neanche rendersene conto, senza combattere per trattenersi né decidere di liberarsi di un peso; semplicemente, le lacrime avevano iniziato a scivolargli lungo le guance e non avevano smesso, perché il dolore acuto all'altezza dello stomaco non si era placato e pareva non volerlo fare più.
Il fatto era che fino a quando Isaac non si era presentato alla soglia di casa sua, Adam pensava a Tommy come un uomo felice, un uomo che è andato avanti, sperava addirittura che si fosse sposato, che avesse un figlio. Pensava ad una persona viva per davvero, a quel ragazzo che aveva conosciuto, che brillava come una stella, che aveva degli occhi che privavano Adam di ogni genere di autocontrollo. Non immaginava il fragile corpo stremato ed il cuore distrutto e spolpato che aveva trovato quando lo aveva rivisto. E quella visione non faceva che tormentarlo.
Riconobbe di aver fatto un grande errore; quella mattina si rese conto – cinque anni, tre mesi e dodici giorni dopo averlo compiuto – dell'enorme sbaglio che era stato sottovalutare i sentimenti di Tommy. Non sapeva se fosse stato per via del proprio pessimismo eccessivo o della disillusione causata dalle relazioni da cui era uscito, se  fosse stato per via di qualche comportamento di Tommy che aveva frainteso o di qualche sua incertezza che aveva scambiato per rifiuto, ma Adam era certo di essersi innamorato di qualcuno che lo considerava come un passatempo, come qualcosa che sarebbe passato. Tommy era etero, lo era sempre stato, e quando erano insieme Adam non capiva come potesse dirgli, sorridendo con tutta naturalezza, che era innamorato di lui e il resto non aveva importanza. Il resto aveva importanza. Il resto contava e avrebbe contato sempre, ed Adam non si fidava delle sue parole. Era stata curiosità quella che aveva avvicinato i loro cuori e la curiosità, una volta soddisfatta, scompare. Si sottovalutava, non credeva di essere granché importante, pensava che Tommy si sarebbe stancato di lui, che si sarebbe innamorato di una bella donna e lo avrebbe lasciato, ne era convinto, e stava aspettando che quel giorno arrivasse, limitandosi a godere di tutte le ore che avrebbero preceduto la fine, in una muta e malinconica accettazione. Perciò quando era arrivato il momento di scegliere tra Tommy e Sauli, tra l'amore ed il suo lavoro – era così che considerava Sauli, all'inizio – aveva semplicemente anticipato quel giorno in cui Tommy gli avrebbe annunciato che era finita.
O almeno era questo che pensava. Pensava di aver preso la decisione giusta, dato che Tommy non era mai tornato da lui, nonostante i suoi vani e ridicoli tentativi di rivederlo prima di sposarsi (come  chiedere di lui a sua madre, lasciare ridicoli messaggi sulla sua segreteria telefonica implorandola di lasciarli ascoltare al figlio, andare a Burbank e vagare per la città giorni interi sperando di vederlo, e alla fine invitarlo al proprio matrimonio) che lo avevano portato a concludere che non solo il ragazzo era andato avanti, ma che di lui non voleva saperne proprio niente.
Pensarlo felice da qualche parte era bello, lo faceva star bene sapere che almeno Tommy fosse riuscito a lasciarsi indietro ciò che c'era stato – perché lui non c'era mai riuscito completamente né voleva farlo, gli stava bene così, gli piaceva quel sentimento amaro fine a sé stesso. Invece no, ora scopriva che nessuno dei due era riuscito a dimenticare l'altro, ed il dolore per la mancanza del rapporto che avevano avuto tornava forte come i primi mesi, forte come quando cantava quelle vecchie canzoni, forte come quando guardava quelle foto o come quando ripensava a quei momenti dolci e spensierati in cui tutto pareva facile – in cui tutto era facile.
E nel baciare ancora una volta Sauli cercava un conforto che non trovò, perché era nel posto sbagliato che andava a cercarlo.

–   –   –   –

“Sauli... mi dispiace, ma ci ho ripensato.”
Se fino a quel momento il finlandese era stato bendisposto nei confronti del marito, tutta la sua accondiscendenza scomparve come per magia davanti a quella frase. Ci aveva ripensato. Dopo un anno passato a giurare di essere pronto, di desiderare sinceramente di crescere un bambino, ora aveva cambiato idea?
“Ci hai ripensato.” Sauli fece una breve pausa e lo guardò negli occhi con un espressione delusa che non impiegò molto a diventare irritata.
“Non sono più sicuro di nulla, mi capisci?” Adam lo guardò mortificato, gli occhi ancora scavati e rossi dal pianto puntati nei suoi.
“Sì...” annuì Sauli, “capisco che hai visto Tommy ed ora non fai altro che pensare a lui, non è così? Stai riconsiderando tutto, perché lui è lui, ed io non valgo nulla.” constatò amaramente, con un sorriso falso. Era così, ora per colpa di quell'uomo si trovava nuovamente a combattere per qualcosa che gli spettava – prima aveva dovuto battersi per tenersi il suo ragazzo, adesso per tenersi suo marito, ma in ogni caso Tommy era sempre stato e sarebbe sempre rimasto un intruso, seppure uno di quelli particolarmente bravi a mettere i bastoni tra le ruote. Non ci credeva neanche tanto a quella sua malattia, probabilmente si era inventato tutto solo per far fesso Adam (chissà, forse aveva finito i soldi e non aveva trovato nessuna ragazzina milionaria da trombarsi e a cui scroccare soldi e aveva deciso di tornare da Adam, sapendo quanto lui fosse ingenuo). Ciò a cui credeva erano le lacrime che aveva visto, era il fatto che l'uomo che amava stava soffrendo per qualcuno che avrebbe dovuto essere uscito dalla sua vita già da tempo e che invece Adam aveva lasciato stupidamente tornare.
“Diamine, Sauli, che c'entra adesso lui?” borbottò Adam, “Non voglio prendermi questa responsabilità, non voglio che la bambina o il bambino che adotteremo debba vivere senza un genitore perché sono un cantante e passo nove mesi all'anno in tour!” ribatté, senza alzare troppo la voce perché la gola gli faceva male, ma, oh, quanto avrebbe voluto urlare contro la presunzione di Sauli di sapere sempre tutto di lui.
“Avevi detto che per qualche anno ti saresti ritirato dalle scene!” replicò il biondo, roteando gli occhi: ciò che sentiva erano solo scuse, scuse, scuse, scuse per nascondere quella che davvero era la motivazione di quel ripensamento.
“Per qualche anno, non per tutta la vita!” replicò subito Adam, quasi in un ringhio; odiava doversi difendere dalla critiche di colui che avrebbe dovuto essere al suo fianco e dalla sua parte sempre e comunque, perché erano le poche critiche che davvero lo colpivano sul vivo, che davvero gli facevano male.
“Va bene, Adam, lasciamo perdere.” Il biondo fece un cenno con la testa che stava a significare che la discussione per lui era chiusa, e semplicemente uscì dalla camera. Nessuna possibilità di replica. Nulla di nuovo, insomma.
Sul comò, i biscotti al cioccolato ed il succo di frutta (arancia rossa, il suo preferito!) che Sauli gli aveva portato per la colazione restarono lì a ricordargli in un muto grido quanto suo marito lo amasse, quanto lo conoscesse, e a sottolineare quanto avesse ragione su tutto ciò che aveva detto. Ma Adam non lo avrebbe ammesso mai.






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Capitolo 6
*** Pick Up Off The Floor ***


Titolo: Bright Light
Autore: itsjjoy
Fandom: RPF Adam Lambert
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico
Tipologia: Long Fic
Conteggio Parole: (capitolo) 3517
Pairing/Personaggi: Adam Lambert/Tommy Joe Ratliff; Tommy Joe Ratliff/ Isaac Carpenter; Isaac Carpenter/Sophie Carpenter; diversi personaggi originali
Rating: Giallo
Avvertimenti: Slash, Het, What if?, OOC









05 Pick Up Off The Floor






Incredibile constatare quanto caos e quante discussioni era stato capace di causare un semplice sms a casa Carpenter. Se Isaac, subito dopo averlo ricevuto, era corso da Sophie raggiante per dimostrarle che in fondo lui aveva ragione, ad Adam importava di Tommy, la reazione della donna era stata categorica: no, non gli avrebbero risposto, né gli avrebbero fatto avere il numero di Tommy per alcun motivo al mondo. Sophie non concepiva come potesse il loro amico soprassedere a tutto quello che Adam gli aveva fatto passare, come facesse ad amarlo ancora, ma soprattutto non capiva come riuscisse suo marito a perdonare Adam a quella maniera; non si capacitava di come potessero quei due assolverlo dalle sue colpe solo per due paroline dolci e perché manifestava interesse per una situazione – quella di Tommy – che aveva causato lui e per la quale l'interesse avrebbe dovuto essere ovvio fin dal principio. Erano stupidi? Non avevano ancora capito che Adam era un codardo e tale sarebbe rimasto? Non avevano capito che fidarsi di lui significava essere delusi ancora?
Non passava un giorno senza che Sophie riflettesse su quanto fosse assurdo quel sentimento, quanto fosse distruttivo e potente e soprattutto quanto fosse imbattibile, perché Tommy non poteva liberarsene, non ci riusciva, era come se andasse contro la sua stessa natura. Era arrivata a chiedersi seriamente se quella faccenda delle anime gemelle fosse vera: forse l'anima gemella esisteva, forse Tommy ed Adam erano fatti per stare l'uno con l'altro ed era per questo che nessuno riusciva a rompere il loro legame, perché semplicemente non si poteva. Ma poi finiva sempre per convincersi che quella storia era una stupidaggine, che le anime gemelle non esistevano e che Tommy era semplicemente molto sensibile, che aveva fatto un grosso sbaglio quando, dopo la morte del padre, aveva affidato la propria vita nelle mani della persona che più amava e di cui più si fidava: Adam. Aveva commesso un grande errore perché non avrebbe mai dovuto mettersi nelle mani di nessuno che non fosse sé stesso; infatti, quando poi Adam l'aveva lasciato, tutto gli era crollato addosso – quell'uomo era la sua unica sicurezza, l'unica colonna portante, l'unico punto fermo anche nelle peggiori tempeste: non aveva resistito neanche un giorno senza lui.
Quando tornava con la mente a quei pensieri la prendeva sempre una profonda malinconia, e non a caso le capitava sempre di finire a rifletterci di notte, quando era a letto e Isaac riposava in silenzio accanto a lei.
Ma quella sera suo marito era sveglio, perché ad un certo punto lo sentì che le accarezzava la schiena dolcemente. Le mani dell'uomo seguivano, attraverso il cotone del pigiama, la linea della spina dorsale, dalla base del collo fino al fondo schiena, e Sophie rabbrividì piacevolmente a quel tocco. Da quanto era che non si prendevano una serata per loro? E da quanto era che non facevano l'amore senza altri pensieri ad appesantir loro gli animi?
L'abbraccio di Isaac profumava di buono, e il bacio che lui le schioccò sulla guancia fu morbido e dolce e le strappò un sorriso sincero.
“Forse sta migliorando davvero, sai?” mormorò Isaac, le labbra ad un soffio dall'orecchio di lei. Non ci fu bisogno di dire nomi, né tanto meno che Sophie rispondesse: strinse le mani del marito tra le proprie e le baciò, e questo bastava.
“Ricordi quando la settimana scorsa mi ha detto che mi amava?” domandò l'uomo in un mormorio. “È stato dolcissimo, e sorrideva, mi sono commosso...”
Sophie sorrise e annuì piano, baciandogli dolcemente le dita, una alla volta, solo perché non le andava di parlare e desiderava dirgli che lo amava anche lei, davvero tanto, e non aveva mai smesso da quando si erano conosciuti. Isaac inspirò il suo odore, premendo le labbra sul suo collo.
“Stamattina l'ho visto riprendere la chitarra in garage, mentre mi aiutava a mettere in ordine. Ha anche suonato qualcosa.”
Fu a quelle parole che Sophie si fermò e si voltò a guardarlo. “Ha ripreso la chitarra?” mormorò incredula. Il cuore aveva iniziato a correre senza sosta per l'emozione, così, improvvisamente, e lei non ne era sorpresa, non riceveva una così bella notizia da anni ormai. Isaac le rivolse un sorrisone soddisfatto e aggiunse: “E... oggi hanno chiamato dal supermercato: è stato preso per il turno di notte. Comincia lunedì!”
Sophie dovette trattenere un urletto e si gettò tra le braccia di Isaac, stringendolo forte a sé per la gioia. Stava davvero andando tutto così bene? Tutte le altre volte l'intrusione di Adam aveva portato solo a cose negative: possibile che quella fosse la volta buona? Possibile che Tommy avesse finalmente capito che non valeva la pena perdere la propria vita dietro uno stronzo come quello?
“Ma è magnifico, Isaac! Ti rendi conto?” esclamò incredula, “Sta migliorando!”
Isaac annuì, raggiante, stringendo tra le braccia la donna migliore che avesse mai potuto scegliere, quella che amava e con cui era felice, sentendosi schifosamente fortunato perché aveva qualcosa che tanti altri – Tommy per primo – non avevano. Entrambi avevano finalmente la reale speranza che tutto sarebbe andato per il meglio, quella volta: sapevano che il processo di guarigione di Tommy sarebbe stato ancora lungo e che spesso avrebbero pensato di essersi illusi, ma avevano una speranza forte e insistente a riempir loro il cuore, una speranza che era quasi una certezza, e vi si aggrapparono con la stessa forza, quasi disperata, con cui si strinsero tra loro sotto le coperte, con una nuova fiducia nel domani.

–   –   –   –

'Il giorno più importante della tua vita': così Isaac e Sophie avevano definito il suo primo giorno di lavoro, con l'orgoglio e la speranza negli occhi e con quegli abbracci caldi ed affettuosi a salutarlo prima che uscisse dall'auto. Credevano davvero che quello fosse l'inizio della sua guarigione? Credevano davvero che si stesse risolvendo tutto?
Tommy non la pensava allo stesso modo. Se avesse dovuto stilare una classifica dei  giorni più importanti della sua vita, quel lunedì neanche vi sarebbe entrato: non aveva nulla di importante. Sarebbe andato a lavorare in quel posto fin quando non avrebbero deciso che anche i pochi clienti notturni venivano allontanati dalla sua presenza triste e malata, simile a quella di un fantasma un po' denutrito e lo avrebbero licenziato. Se non se ne fosse andato prima lui, o se, peggio ancora, non avesse avuto qualche crisi di panico sul lavoro.
Per quanto riguardava le altre vane speranze dei suoi amici, cosa voleva mai dire che quel week-end aveva tentato di riprendere la chitarra dopo cinque anni? Non aveva fatto altro che farlo stare peggio. Non riusciva a fare neanche un accordo ed i corsi da autodidatta on-line non lo aiutavano certo a far uscire un Do decente. Gli dicevano solo cose che ricordava già perfettamente da solo. Si sentiva soltanto frustrato, stupido, e più inutile di quanto lo fosse mai stato nella sua intera vita.
Non gli sembrava di aver fatto passi avanti in nessun senso. Perché tutta quella sofferenza avrebbe dovuto finire? Per quei futili motivi? Era quello che meritava, quella la pena che doveva scontare al mondo per essere stato felice, l'Inferno che meritava chiunque avesse vissuto in Paradiso prima del tempo. Cosa poteva farci, era andata così, era stato felice, i primi trent'anni della sua vita erano stati tanto belli che c'era chi avrebbe venduto l'anima al diavolo per averli, e certo non sarebbe stato lui, Tommy Joe Ratliff, a lamentarsene. In particolare non avrebbe barattato i momenti passati assieme ad Adam con nulla al mondo, perché nulla per lui valeva tanto. Né serenità, né amore, né la sua felicità presente, neppure la vita di suo padre, nulla valeva quanto quello che aveva vissuto prima che il baratro della depressione si aprisse sotto i suoi piedi. Non l'avrebbe scambiato neanche per riavere Adam con sé – senza quei ricordi non sarebbe mai stato lo stesso. E forse era per questo che non guariva, perché si rifiutava di dimenticare, si rifiutava di lasciare andare, si rifiutava di vivere un solo giorno privato dal peso di quel ricordo, voleva soffrire perché voleva continuare ad amare.
Entrare nel dannato supermercato non gli causò alcun genere di aumento di autostima, nessun miglioramento di alcun tipo, piuttosto una forte ansia lo prese allo stomaco e iniziò davvero ad avere paura. Se qualcosa poteva andare male, sarebbe andata male, lo sapeva, e non sapeva se desiderare o meno che invece tutto andasse per il meglio.
Una donna dal viso gentile e la corporatura tozza e pasciuta lo accolse e lo guidò nell'edificio, chiamandolo 'ragazzo nuovo' e blaterando qualcosa su quanto si sarebbe trovato bene. Chiuse le dita grassocce con lunghe unghie smaltate di rosso attorno al braccio magro di Tommy e gli fece fare un giro del posto, elencandogli i nomi di tutti i locali dell'edificio come se non avesse mai fatto altro nella vita. Sorrideva e farciva le sue spiegazioni di dettagli stupidi e di scarso interesse, ciarlando un po' di quanto fosse malmessa la fotocopiatrice e un po' di quanto poco le piacesse il caffè in quel posto, finché – dopo quella che sembrò un'eternità – si fermò davanti ad una porta e gli lasciò il braccio (che lui sospettava essere diventato ormai viola).
“E questo è lo spogliatoio degli uomini, tesoro bello. Ci vediamo in servizio! In bocca al lupo!”
Tommy fece un cenno con la testa per rispondere al saluto e restò qualche secondo ad osservare la donna che si allontanava con quella sua andatura malferma, prima di entrare negli spogliatoi. Era forte. Questa era l'unica cosa che gli veniva in mente per definirla. Lo si capiva dalle sue occhiaie, mal coperte da uno strato di correttore, dai gesti permeati di una stanchezza nascosta, eppure decisi, che avevano un che di estremamente materno. Era gentile, apprensiva ed un po' frivola, ma pareva simpatica. Una bella persona. Immaginò che avesse dei figli, forse adolescenti, dedusse dall'età che dimostrava (non più di quarant'anni): la immaginò sola, divorziata probabilmente. Non sapeva perché, i suoi occhi sembravano rivelarlo al suo posto. Non se ne rese conto, ma le aveva già ritagliato un posto nel suo cuore, da qualche parte.
Gli spogliatoi in cui Tommy entrò erano vuoti e l'atmosfera era angosciante, quasi da film dell'orrore: con i vari armadietti semichiusi e qualche maglietta appesa in malo modo sugli sportelli sembrava qualcosa che era stato lasciato a metà, come una scuola durante le vacanze estive, vuota seppur piena di banchi e sedie impolverati e sfiorati pigramente dalla luce del sole. Lì però il sole non c'era, c'erano le lampade a neon e il loro ronzio nel silenzio di una notte che notte proprio non sembrava.
“Anche tu in ritardo?”
Tommy si voltò di scatto, con un'espressione leggermente spaventata, verso un ragazzo (avrà avuto poco più di vent'anni) con capelli castani e mossi che gli incorniciavano il viso ancora morbido d'innocenza e due enormi occhi verdi fiduciosi e speranzosi in un modo così assurdo da sembrare irreale. Stupido esattamente come era stato lui in passato, insomma.
“No, in realtà sarei... nuovo...” mormorò Tommy con fare esitante.
Il ragazzo gli rivolse un sorriso e annuì.
“Oh, sì. Tommy, giusto?” Allungò la mano verso la sua senza abbandonare quel sorriso ampio e accogliente che lo faceva apparire in pace col mondo. “Io sono Josh!” aggiunse poi, sempre tendendogli la mano. Voleva stringergliela? Tommy ritrasse il braccio e nascose entrambe le mani in tasca, annuendo e cercando di abbozzare un sorriso, mentre i suoi occhi spaventati raccontavano un'altra storia.
Il ragazzo lo guardò con attenzione, un po' confuso. Lo squadrò da capo a piedi un paio di volte, poi fece spallucce e aprì il proprio sportello. Si cambiò la maglia in pochi secondi, infilando la divisa da lavoro, che poi consisteva in una T-shirt verde troppo larga con il logo del supermercato stampato sopra, un po' consumato, e la targhetta con il nome del ragazzo appiccicata sul petto. Anche Tommy ne aveva una, appallottolata nella sua tracolla, ma si vergognava a cambiarsi lì, davanti a quel tipo che neanche conosceva.
“Ti conviene cambiarti in fretta, tanto poi il ritardo te lo fanno recuperare alla fine del turno... Ci vediamo in giro!”
E se ne andò anche lui.

Lo avevano messo a riordinare il reparto dei detersivi. C'era un odore terribile, che bruciava le narici, la laringe e la trachea, fino ai polmoni. Aveva sempre odiato l'odore di quel reparto e non poteva pensare ad una sfortuna peggiore che essere costretto a lavorarci dentro. Ma in quell'istante non se ne curava molto: era molto più occupato ad odiare le grosse taniche di detersivo – quelle formato 'maxi-convenienza' da cinque litri – che era costretto a sollevare ed a ordinare sul terzo scaffale. Gli tremavano le braccia e le ginocchia per lo sforzo e si sentiva stanchissimo, anche perché non mangiava dal giorno prima. E sì, era consapevole di quanto poco fosse salutare, ma era nervoso e non aveva fame, cosa poteva farci?
Sollevò l’ennesimo, pesantissimo flacone di detersivo ma non riuscì ad alzarlo fino al terzo scaffale: gli sfuggì rovinosamente di mano, facendo un rumore che rimbombò nelle orecchie.
Quell'insopportabile odore, perché non poteva sparire?
Voleva chinarsi a raccoglierlo, ma la testa iniziò a girargli vorticosamente appena si abbassò. Gli fischiavano le orecchie e il cuore batteva così forte che sentiva anche le vene delle mani pulsare a ritmo. Iniziò a sudare freddo, ed ebbe seriamente paura di perdere il controllo. Non poteva venirgli un attacco, non il primo giorno, non così, non in quel momento. Ma poi le ginocchia cedettero e prima che potesse accorgersene il buio gli invase gli occhi e non sentì più nulla.

Come una fitta, il pensiero di Adam lo colpì prima di qualunque sensazione. Così, all'improvviso, con la stessa immediatezza con cui percepì il dolore alla nuca e al gomito, pensò a lui. Non a qualcosa di particolare, a nessun ricordo nello specifico, semplicemente ricordò il suo viso, il suo odore, il suono della sua voce. Era come se si fosse sentito chiamare. Adam lo stava pensando?
Si rese conto di essere steso a terra, supino, e che qualcuno chiamava il suo nome, ma non era Adam. Schiuse gli occhi: davanti a lui c'era Josh che lo scuoteva, lo sguardo spaventato ed il viso pallido; lo vide sospirare di sollievo quando si mosse e cercò di sorridergli. Ma come diamine poteva essere svenuto? Era stato perché non mangiava? Maledetto cibo!
Cercò di tirarsi a sedere. Adam non era lì: erano passate due settimane, tre giorni, ventuno ore e probabilmente una trentina di minuti e non si era neanche fatto sentire. Neanche un sms, una chiamata, una lettera, un biglietto, nulla. Adam non era lì e non sarebbe tornato. Lo pensò mentre si alzava, e la fitta alla pancia fu tanto forte da piegarlo in due.
“Sicuro di stare bene?” Josh aveva il terrore negli occhi. “Devo chiamare un medico?”
Tommy scosse la testa, in un confuso gesto di dissenso, e tornò a sistemare i detersivi, mentre cercava di non piegarsi in due per il dolore (uno dei tanti). Se ne stava in silenzio. Non aveva la forza di schiudere le labbra, perché avrebbe vomitato, o sarebbe scoppiato a piangere. In verità si sentiva improvvisamente privato della forza di vivere, che chissà come fino a quel momento aveva (quasi) sempre conservato; era pervaso dalla consapevolezza di quanto fosse vana la sua esistenza di illusioni e speranze. Era come se aprendo gli occhi non avesse solo ripreso i sensi, ma si fosse anche reso conto che le sue speranze erano inutili, le sue convinzioni solo mere bugie che raccontava a se stesso e che quegli occhi blu che sognava ogni notte li avrebbe rivisti solo nei propri ricordi. Non provava neanche il desiderio di morire, non ne valeva neanche la pena. Voleva dormire. Chiudere gli occhi e invecchiare dormendo, perché magari nei sogni avrebbe avuto quello che nella realtà non aveva mai potuto possedere.
Josh si arrese presto al suo silenzio e ai suoi ringraziamenti mormorati muovendo appena le labbra e tornò al proprio lavoro, mentre Tommy ordinava meticolosamente i detersivi per i piatti: forse ordinando loro avrebbe potuto mettere un po' d'ordine anche in sé stesso.

Il turno volgeva ormai al termine, così come la notte. Albeggiava ormai, Tommy non aveva ancora detto neanche una parola da quando si era ripreso e continuò a chiudersi nel suo silenzio e ad osservare chi lo circondava. Cercava di capire gli altri, semplicemente per capire il modo migliore di evitare la loro compagnia, ma soprattutto sperava di potersi distrarre almeno un po', in attesa di tornare a letto.
Beth, la donna che lo aveva accolto, era una signora sulla quarantina, grassoccia e buffa, che pareva perennemente allegra seppure, a ben vedere, fosse piuttosto triste. Josh, il ragazzo ritardatario che lo aveva aiutato quando era svenuto, aveva ventun anni e l'aria perennemente preoccupata; scappò via allo scattare delle sette e mezza, borbottando che doveva accompagnare il figlio a scuola. Rose, gentile quanto bella, era una diciannovenne all'apparenza ingenua e timida, lavorava alla cassa e accoglieva chiunque con un sorriso; diverse volte sorrise dolcemente anche a Tommy, che, silenzioso e triste, si aggirava da quelle parti. Nonostante lui la considerasse adorabile, molti non erano della stessa opinione. Aveva sentito alcuni dei suoi nuovi colleghi darle della puttana spettegolando di come fosse incinta di diversi mesi e non avesse idea di chi fosse il padre. Secondo Tommy i suoi problemi non la rendevano peggiore, anzi, ai suoi occhi la rendevano ancora più simpatica.
Degli altri non conosceva ancora il nome: c'era un uomo calvo ed alto, con la pancia da birra e i modi un po' bruschi, un giovane magrolino che portava un paio di occhiali spessi come fondi di bottiglia, che il minuto prima piangeva e quello dopo rideva da solo, una ragazza con i capelli verdi, corti, diversi piercing ed un tatuaggio sulla mano (un nome) che faceva di tutto per nascondere e che evitava di guardare.
Si sentiva catapultato in uno strano circo, di quelli pieni di fenomeni da baraccone che andavano così di moda nei secoli passati. C'era un che di divertente in ognuna di quelle persone, una sorta di ridicola disgrazia, proprio come quella di coloro che viaggiavano col circo perché non avevano molta altra scelta, perché erano malformati, mutilati, bassi, brutti, pelosi, avevano quattro gambe e tre braccia o un gemello attaccato a sé con qualche parte del corpo: sapevano che non avrebbero mai avuto una vita normale perché erano fatti così, e non è che la cosa a loro piacesse, ma dovevano accettarla. Così andavano in giro a sbandierarla, perché era l'unico modo che conoscevano per sentirsi amati ed avere ciò che tutti gli altri davano per scontato. Quelle persone avevano qualcosa che non non le faceva sentire degne di avere un lavoro migliore, o qualcosa che rendeva loro troppo difficile trovare un qualunque altro impiego. Avevano qualcosa di diverso, di guasto, in qualche modo, e invece di nasconderlo come tutti, loro lo accettavano, lo tenevano ben stretto come parte di sé. Solo che probabilmente non lo facevano consapevolmente, o forse fingevano di non esserne consapevoli, e risultavano ancora più tristemente ridicoli.

–   –   –   –

“Allora? Com'è andata?” Sophie era entusiasta, e si voltò a guardarlo con gli occhi fiduciosi di qualcuno che aveva appena avuto indietro la propria gioia di vivere, anche se solo per un istante. Tornò a portare attenzione alla strada, scrutandolo attraverso lo specchietto retrovisore, mentre anche Isaac, seduto sul sedile posteriore accanto a lui, gli sorrideva sereno.
Tommy non si voltò a guardarli, nessuno dei due, avrebbe potuto piangere, o peggio ancora mostrare il suo stato d'animo. Si limitò ad annuire e a guadare fuori dal finestrino.
“Tommy...?”
La strada scorreva davanti ai suoi occhi e il senso di abbandono si faceva più forte. Se avesse creduto in un potere superiore o anche solo nel destino si sarebbe chiesto a che scopo dovesse sopportare tutta quella sofferenza, ma dato che non credeva in nulla del genere si chiese quando: quando era diventato così esageratamente dipendente dall'amore di qualcun altro? Quando aveva smesso di essere quel ragazzo forte ed autosufficiente con tanto senso dell'umorismo e voglia di far vedere a tutti di cosa era capace? Quando si era lasciato alle spalle tutto ciò che la vita gli aveva insegnato e si era lasciato cadere giù? E si rispose, anche: era stato quando si era innamorato di Adam che era cambiato tutto. E non se ne pentiva, non sentiva rimpianti ripensando a ciò che aveva prima di quell'amore senza speranze.
“Tommy, stai bene?”
Non stava bene, no, non lo era da tanto tempo e non lo sarebbe stato mai più. Neanche Adam voleva salvarlo, o forse voleva ma riconosceva che non si poteva più fare nulla per lui, chissà. Non lo avrebbe saputo mai. E non voleva saperlo, voleva illudersi, illudersi di essere ancora amato, illudersi che Adam pensasse a lui, illudersi che tutto il suo soffrire valesse qualcosa, illudersi che il mondo si sarebbe fermato per lui e solo per lui e poi avrebbe iniziato a girare al contrario e gli avrebbe restituito tutti gli anni che aveva perso, tutto ciò che non aveva avuto. Voleva crogiolarsi in quelle bugie, e soffrirne, perché no, e attribuirsi la colpa se qualcosa non andava per il verso giusto, perché era così, era colpa sua: lo amava.
“Tommy... dicci qualcosa, ti prego...” La voce di Isaac lo riscosse dai propri pensieri, era l'unica cosa che potesse farlo, lui era l'unico che riusciva sempre a fermare la sua caduta libera nel vuoto, anche solo per un'istante. Se solo Adam fosse stato lì, forse avrebbe potuto trasformare quella caduta in faticosa risalita. O forse avrebbe potuto accompagnarlo giù, verso il fondo di quel precipizio senza fine, e mano nella mano sarebbero caduti all'infinito, perché il peggio non ha mai fine. Ma anche il peggio sarebbe stato un paradiso, con Adam al suo fianco.
Tommy alzò gli occhi verso Isaac e li puntò nei suoi, e anche se erano altri occhi che desiderava vedere, non abbassò lo sguardo, perché voleva che Isaac capisse, voleva che lo aiutasse a non soffrire più, che gli desse uno di quegli abbracci che erano come un'anestesia, e non sentire più i mali del cuore.
Isaac gli si gettò letteralmente addosso e lo strinse in un abbraccio morbido e rassicurante, che profumava di lui e aveva il sapore di una preghiera: stavolta era Isaac a chiedergli di non lasciarlo, con un semplice gesto, e Tommy non sapeva se avrebbe potuto esaudirlo. Non sapeva quanta voglia avesse di affrontare ancora il mondo, la vita, il dolore, e l'assenza di Adam. Stava lentamente morendo un po' alla volta, ogni giorno, era quello che stava facendo, perché nessuno (sano di mente o pazzo che fosse) avrebbe mai pensato di definire la sua 'vita', in quanto assomigliava molto di più ad un lento stillicidio, allo stadio terminale di un tumore, a quei lenti giorni bui che precedono la morte di qualcuno che l'ha tanto attesa da arrivare ad agognarla. Tommy sapeva come sarebbe finita la sua vita, solo che, come tutti non sapeva quando. Sentiva solo il momento avvicinarsi inesorabilmente, mentre lo torturava l'idea che sarebbe successo, presto o tardi, e avrebbe probabilmente fatto male.
“Noi siamo qui, Tommy, lo sai, vero? Noi non ce ne andiamo, non ce ne andremo mai.”







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Capitolo 7
*** A Loaded Smile ***


Titolo: Bright Light
Autore: itsjjoy
Fandom: RPF Adam Lambert
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico
Tipologia: Long Fic
Conteggio Parole: (capitolo) 3151
Pairing/Personaggi: Adam Lambert/Tommy Joe Ratliff; Adam Lambert/Sauli Koskinen
Rating: Giallo
Avvertimenti: Slash, Het, What if?, OOC
Note: Ehm, ecco, chiedo umilmente perdono per l'infinito ritardo :(
Spero che il capitolo vi piaccia lo stesso :(










07 A Loaded Smile






Adam chiuse gli occhi e fece un respiro profondo.
Doveva solo smettere di piangere; solo respirare con un ritmo regolare, aprire gli occhi e fingere che tutto andasse bene. Bastava non pensarci.
Stupido, stupido, stupido, stupido.
Quegli occhi vuoti e bui, quei polsi troppo magri, quella stretta calda... perché era andata così? Aveva sbagliato, tutta colpa sua, sua e dei suoi schifosissimi dubbi. Aveva un terrore folle di soffrire, ecco cosa, e invece di affrontare la paura era scappato come chi rinuncia a vedere il mondo perché ha paura dell'aereo. Aveva combattuto per chiudere una porta destinata a stare aperta ancora a lungo e nel tentativo vano di serrarla brandelli di ciò che c'era dall'altro lato erano rimasti lì con lui, ad aumentare il senso di nostalgia. Perché? Sarebbe bastato correre da Tommy e dirgli tutto, e lui l'avrebbe abbracciato e gli avrebbe detto che non aveva nulla da temere, perché il loro amore non sarebbe finito mai. Non ci credeva, Adam. 'Stronzate', pensava. E moriva dentro.
Era arrivato a quel punto in cui non riusciva più ad ascoltare una sola parola di Tommy senza sentirsi irrimediabilmente irritato all'idea che lo stesse prendendo in giro. Quasi odiava quella sua espressione serena e felice quando erano insieme, quello stronzo credeva di poter giocare con i suoi sentimenti a quella maniera? Si capiva che di lui non gliene fregava nulla, non era geloso, non gli faceva scenate, accettava di buon grado le sue stranezze, i suoi difetti e le sue stupidaggini e non faceva una piega quando Adam lo ignorava per prestare attenzione ad uno stupido qualsiasi che aveva appena incontrato. Il cantante ci aveva riflettuto a lungo e le ragioni di quel comportamento potevano essere solo due: la prima, a Tommy di lui non importava proprio nulla, non nutriva nessun tipo di interesse nei suoi confronti e stava solo aspettando di trovare qualcuno di interessante con cui sostituirlo; la seconda, lo amava così tanto che accettava qualunque prezzo pur di poter stare con lui. Dato che nessuno è così masochista da amare a quella maniera, Adam aveva considerato impossibile la seconda opzione. Aveva sbagliato.
Continuava a pensare a quanto si fosse comportato male il giorno in cui l’aveva lasciato, a quante bugie e cattiverie gli aveva detto. Voleva far pagare a Tommy qualcosa che lui non aveva mai fatto o pensato, qualcosa che era accaduto solo nella sua testa, figlio della paranoia. E gliel'aveva fatto pagare per bene, questo era certo, lo aveva fatto pentire di averlo mai amato. Questo soltanto perché pensava troppo, perché insisteva a fidarsi solo del proprio cervello, perché ignorava gli strepiti di quel cuore impotente, che se ne stava lì e si dibatteva nella gabbia naturale che era il suo petto, cercando di far udire la propria voce ad un padrone sordo ai propri sentimenti e ad un raziocinio che valutava inutile il suo contributo.
Negli occhi chiusi vide ancora una volta le labbra screpolate e pallide di Tommy che si muovevano esitanti, mormorando una supplica: 'Non te ne andare...'
Ancora una volta era stato sordo, sordo a quella voce quasi impercettibile che proveniva dritta dal baratro dal quale Tommy guadava la vita; forse era per questo che era un sussurro tanto flebile, perché arrivava da lontano, dal fondo di quell'abisso e sebbene Tommy urlasse con tutta l'aria che aveva nei polmoni, spesso ciò che diceva non arrivava neanche all'orecchio dell'ascoltatore più attento. Si era sforzato di farglielo sentire, Tommy, dal fondo del burrone aveva urlato fino a restare senza voce, eppure lui l'aveva ignorato, non aveva capito, non aveva voluto vedere.
Ma adesso, volente o nolente, comprendeva perfettamente Tommy. Adesso sentiva il pavimento sprofondare sotto di sé e non poteva scappare, perché il pavimento non si stava muovendo, era lui a precipitare in sé stesso.
Aveva smesso di piangere, adesso c'era solo il dolore sordo e amaro dentro di sé, a morderlo e consumarlo, a scavarsi la strada attraverso le sue interiora, dai polmoni al cuore, allo stomaco, fin nelle gambe.
Guardò lo schermo del cellulare nella vana speranza di vederlo illuminarsi per un sms di risposta da parte di Isaac. Anche un 'vaffanculo' sarebbe bastato, anche sapere che Tommy adesso di lui non voleva saperne più nulla, sarebbe bastata qualunque cosa, ma non arrivava nulla. Perché? Toccava a lui soffrire adesso? E se toccava a lui, significava che almeno Tommy stava bene? Anche senza di lui? E se lo era, a lui faceva piacere?
No, non era contento. Non sarebbe mai stato felice della serenità di Tommy, non se quella serenità esisteva senza di lui: non lo era mai stato e non lo sarebbe stato mai. Mentiva a se stesso se credeva di essere mai stato davvero bene senza di lui. Mentiva a se stesso come aveva sempre fatto, per non affrontare le proprie paure, per sentirsi padrone della propria vita. Ed era lì che aveva sbagliato, ed errore dopo errore, bivio dopo bivio, si era allontanato sempre di più dalla propria felicità.
La rabbia contro se stesso gli ruggiva nello stomaco troppo vuoto, e tutto quello che voleva era provare dolore, dolore fisico, intenso e persistente, così forte da farlo urlare, e voleva provarlo fin quando non avesse sentito più nulla, fin quando non ne fosse morto.
La pioggia iniziò lentamente a battere contro i vetri e il vento prese a soffiare più forte. L'autunno era arrivato davvero, pensò Adam, di soppiatto durante la notte, mentre la città dormiva, quasi non volesse essere colto sul fatto. Ma lui l'aveva visto:  portava con sé la pioggia, il vento, il freddo e la malinconia. E lui non aveva fatto nulla per impedirgli di entrare nella sua vita e di lavare via il sole estivo dalla sua pelle; anzi, l'aveva accolto con un silenzioso sorriso complice, e lo aveva accompagnato con le proprie lacrime.

–   –   –   –

“Avevi ragione, papà. Su di me, su Tommy, su Sauli, su tutto. Avevi ragione.”
Fu per puro caso che il finlandese passò davanti la porta di Adam e lo sentì pronunciare quelle parole, in lacrime.
Il dolore e la rabbia assalirono il suo corpo prima ancora che ne avesse la consapevolezza, prima ancora che realizzasse cosa significava ciò che aveva sentito. Ma quando il suo cervello elaborò il senso di quelle frasi, quando lo stupore lasciò definitivamente spazio a dolore e rabbia, la sua reazione fu così violenta, così disperata che dovette praticamente ficcarsi un pugno in bocca per non mettersi ad urlare e per non buttare giù una parete a mani nude. Sapeva cosa ne pensava Eber di lui, sapeva che suo suocero non lo odiava, ma sapeva anche che era convinto che Adam avesse sbagliato anche solo a considerare l'idea di stare con lui. Aveva finito per accettarlo, perché lui aveva torto, e se non voleva accettare il loro amore non erano certo affari suoi! Lui ed Adam erano fatti l'uno per l'altro, o almeno ne era convinto fino a pochi istanti prima.
Si fermò ad ascoltare ancora, per masochismo, o forse perché quel miscuglio amaro di collera e amarezza lo teneva inchiodato a terra e lo privava di qualunque sforzo di lucidità.
“Sì... sì, sono un codardo, lo so. Non avrei mai dovuto sposare Sauli, non lo amo, non l'ho mai amato. Gli voglio solo tanto bene. Ho solo fatto sì che soffrissero entrambi. E Tommy... è... è distrutto. Mi sento così in colpa, papà...”
Non volle ascoltare oltre, il suo cuore non avrebbe retto e il suo stesso corpo già non reggeva più. Voleva prendere a pugni il muro finché le nocche non gli si fossero consumate, voleva piangere, urlare, ed insultarlo; invece, corse semplicemente via, in silenzio, quasi alla cieca, fuori dalla porta, dalla casa, dal giardino, dalla strada, e poi continuò a correre, e se Dio fosse esistito neanche lui avrebbe saputo dove era diretto.
Dolore, dolore cieco. Lacrime su lacrime, e singhiozzi, e disperazione nera. Aveva buttato la propria vita, gli anni migliori, i più felici, li aveva passati accanto a qualcuno che non aveva fatto altro che mentirgli. Come aveva potuto essere così stupido? Aveva rinunciato a tutto, famiglia, amici, la sua casa, i suoi ricordi, i posti a cui più era legato, la sua camera, i suoi vestiti, il suo giardino, si era privato di tutto, e perché? Per chi? Uno stronzo che non lo amava, che gli voleva solo “tanto bene”? Vomitò in un vicolo buio, non sapeva dov'era, né quanto tempo fosse passato, e pareva si stesse preparando un altro temporale, ma che importava? Cosa importava più?
Adam, Adam, Adam, lo amava e lo odiava così tanto. No, non lo odiava, odiava Tommy. Se lo avesse avuto tra le mani, se solo l'avesse avuto tra le mani! Avrebbe scontato anche l'ergastolo per essere sicuro che quell'essere non avesse mai più suo marito. Perché era suo marito, non di quel bugiardo scroccone.
Chi c'era stato accanto ad Adam, sempre e comunque, con la pioggia e con il sole, quando era felice e quando era triste? Certo non Tommy. Lui era a casa propria a deprimersi, a quanto pareva. Sauli, invece, era sempre stato lì. Aveva rinunciato alla propria vita per lui, ed ora scopriva che Adam non l'aveva mai amato? L'aveva preso in giro? Tutto quel tempo?!
Pianse, pianse, pianse, e quando ebbe finito pianse ancora. Di rabbia, di tristezza, di dolore, di nostalgia per la sua amata Finlandia, di rimpianto per non aver mandato a fanculo Adam quando era ancora in tempo, pianse e prese a pugni il muro. Diede un calcio ad un cestino e lo rovesciò, inciampò e si tagliò sulla gamba con una bottiglia rotta; lasciò che il sangue scorresse a macchiare l'asfalto ancora bagnato di pioggia. Avrebbe portato profonde cicatrici per tutta la vita, non fuori ma di certo nel cuore. E in fondo le desiderava, quelle maledette cicatrici, le voleva tutte, dentro e fuori, e voleva che anche Adam le avesse, ovunque, e che le ferite di Tommy, se vere, non si rimarginassero mai.
Ma alla fine qualcuno passò da quelle parti. Gli chiesero come si fosse ferito, che ci facesse lì, perché non avesse chiamato un ambulanza, se aspettava qualcuno, ma lui non rispose. Non voleva che facessero nulla, e provò a dirlo, ma pensarono che fosse delirante; provarono a vedere se aveva la febbre, poi chiamarono il 911. Qualcuno gli portò della stoffa in cui stringere la gamba per contenere l'emorragia. La tenne stretta come gli dissero ed aspettò l'ambulanza. Si fece tirare su e collaborò con i medici. Raccontò cosa era successo. Ma gli sembrava di osservare se stesso compiere quelle azioni dall'esterno, come se fosse un altro. Non gli importava. Non importava ad Adam, non importava a nessuno, perché avrebbe dovuto importare a lui?

–   –   –   –

Stavano tornando a casa.
Adam guidava, le mani salde sul volante, gli occhi fissi sulla strada e una fredda espressione concentrata. Non aveva detto una parola da quando si erano visti.
Lo avevano chiamato dall'ospedale appena Sauli era entrato al pronto soccorso e si era recato lì in fretta. Aveva parlato con i dottori, ascoltato le loro raccomandazioni e preoccupazioni e si era preso la responsabilità di portarlo di nuovo lì quando sarebbe dovuto tornare a rimuovere i punti. Era stato gentile, disponibile e sorridente, ma con Sauli non aveva parlato affatto; l'aveva a stento guardato in faccia.
Sembrava avercela con lui. Il suo risentimento, la sua rabbia – o qualsiasi cosa lo spingesse a non parlargli e a trattarlo freddamente – era così intensa che Sauli poteva sentirla semplicemente standogli accanto; e non era piacevole. C'erano centinaia di cose non dette nello spazio tra loro, tutte stipate in quello stretto abitacolo, e poi c'era la propria rabbia a rendere il tutto ancora più soffocante, insopportabile. Adam ce l'aveva con lui? E cos'avrebbe dovuto dire Sauli? Come avrebbe dovuto stare lui? Chi aveva maggior diritto di essere arrabbiato lì?
Il biondo abbassò il finestrino affinché l'aria gli soffiasse direttamente sul viso, fredda e tagliente, un vero sollievo. Con gli occhi socchiusi osservò la strada che scorreva, le auto che andavano nel senso opposto, la gente che passeggiava sui marciapiedi, un uomo d'affari che saliva in un taxi, una madre che teneva per mano le sue due bambine, dei turisti che scattavano fotografie a tutto, una giovane coppia che girava tenendosi la mano.
Ma, tempo alcuni secondi, ed Adam chiuse il finestrino sbuffando infastidito.
“C'è l'aria condizionata accesa.” borbottò, senza guardarlo e senza staccare lo sguardo dalla strada neanche per un secondo. Sauli spostò il proprio sguardo su di lui, lentamente. Prese un respiro profondo, poi due, poi tre. Non doveva attaccarlo. Doveva stare calmo.
Adam strinse il volante sempre più forte, fino a che le sue nocche sbiancarono, e la sua espressione si fece sempre più contratta, innaturale. Le mani iniziarono a tremargli, e sembrava pronto ad urlare, o in alternativa a piangere, ma non rallentò.
“Si può sapere che cazzo ti è passato per la testa?!” sbottò, il tono di voce alto ma controllato, con uno sforzo evidente di cui Sauli si rese conto solo sentendolo parlare. Iniziò ad avere paura e, non sentendolo rispondere, Adam accelerò, tremando appena più intensamente.
“Adam, rallenta, ti prego...” mormorò Sauli, sempre più spaventato, mantenendosi al sedile e guardando davanti a sé con gli occhi sgranati.
“'ADAM RALLENTA' UN CAZZO! SPIEGAMI COSA DIAMINE TI PASSAVA PER LA TESTA, COSA CI FACEVI FUORI CASA, QUANDO SEI USCITO, PERCHÈ E PER QUALE MOTIVO NON MI HAI AVVERTITO!”
Sauli si strinse ancora più forte al sedile, chiudendo gli occhi, e sperando solo che si calmasse. Cos'era quello? Senso di colpa, paura, gelosia, preoccupazione, ansia...? Da cosa dipendeva tutta quella rabbia? Perché Adam ce l'aveva con lui?
“Io... stavo facendo jogging...” iniziò, sussurrando, sperando che se gli avesse risposto forse sarebbe riuscito a farlo calmare; si sbagliava. Adam non rallentò, scoppiò invece in una risata senza allegria.
“Ha piovuto, la strada era scivolosa e faceva freddo, non fai mai jogging con giornate così. Non mi hai avvertito prima di uscire, ma cosa ancora più rilevante, Sauli... indossavi i jeans. Mi hai preso per stupido?!”
Erano oramai quasi arrivati a casa. Sauli fece un respiro profondo, mentre la sua mente lavorava velocemente per trovare una scusa plausibile.
“Ero nervoso e preoccupato per te, sono uscito a prendere una boccata d'aria. Pensavo a te e mi sono perso, non sapevo dove fossi. Poi sono inciampato su quella bottiglia. È stata solo sfortuna...”
Adam continuava a tremare, ma stavolta sembrava decisamente più vicino alle lacrime che ad uno scatto d'ira, e lui voleva semplicemente che tutto finisse. Non aveva alcuna intenzione di dirgli la verità. Non voleva parlare di ciò che aveva sentito, né confessare di averlo fatto, perché non voleva affrontarlo, non aveva la forza per farlo. Non voleva lasciarlo, ma gli faceva schifo l'idea di restare con lui. Lo amava, non aveva mai smesso, ma odiava quello che gli stava facendo. Lo amava e soffriva, e non sapeva fare altro che soffrire. Avrebbe potuto capire Tommy, se solo avesse voluto.
Invece ciò che Sauli avrebbe voluto era semplicemente smettere di provare sentimenti per lui. Solo quello. Cancellare tutto quell'amore che gli stringeva il cuore in una morsa, sfuggirgli, ucciderlo per non esserne ucciso. Ma non si può smettere d'amare una persona perché ti ferisce: magari fosse così semplice. Una persona la si ama e basta, e spesso non si smette mai di farlo. Si continua a provare amore nonostante tutto, anche quando ogni cosa è finita, andata, marcita. E si muore dentro.

–   –   –   –

“Cosa hai sentito?”
Fu un mormorio, quello di Adam, a stento udibile nel silenzio della stanza.
Sauli si voltò a guadarlo: gli dava le spalle, sommerso dalle coperte fino alla testa, e probabilmente fissava quelle poche schegge di luce che filtravano dagli infissi chiusi. Probabilmente stava piangendo, di nuovo.
“Di che stai parlando, Adam?” Sauli mormorò piano. Non aveva sentito nulla, non voleva aver sentito nulla, e fin quando non avrebbe fatto chiarezza dentro di sé avrebbe finto di non aver sentito nulla. Se ne avessero parlato ora, Sauli non era sicuro di riuscire a prendere la cosa con la giusta razionalità. Anche perché dubitava esistesse un modo razionale di prendere la cosa.
Ma a quanto pare ad Adam l'idea di aspettare non piaceva.
“Mi hai sentito parlare con mio padre, non è così?” gli domandò, voltandosi a guardarlo. Aveva gli occhi gonfi ed arrossati di pianto ed il dolore negli occhi.
Sauli non riuscì a mentirgli. Annuì. Forse avrebbe chiesto scusa, chissà, avrebbe invano tentato di smentire quelle parole, almeno ci avrebbe provato.
“Mi dispiace per quello che ho detto, ma è la verità.” mormorò invece Adam, chiudendo gli occhi e sospirando di sollievo, come privato di un grosso peso.
Sauli perse il controllo. Lui ci aveva provato a tenerselo dentro, ad aspettare che tutta quella rabbia si raffreddasse, che il dolore scemasse, ma Adam, lui non gliene aveva dato il tempo.
“Vaffanculo.” sibilò. “Vaffanculo.”
Cosa ne voleva sapere lui della sofferenza? Cosa aveva lui da piangere? Aveva solo distrutto la sua vita. Gli aveva solo dato un'illusione di cui vivere e poi gliel'aveva sottratta brutalmente. Cosa credeva? Che tutti fossero delle merde insensibili come lui?
“Mi hai mentito su tutto, Adam. In tutti questi anni, non hai fatto altro che illudermi, te ne rendi conto? Non una sola parola che mi hai detto era vera. Sai cosa vuol dire per me?” iniziò Sauli, cercando inutilmente di trattenere la furia, e quasi ringhiando le sue parole, seduto sul bordo del letto, la testa tra le mani.
“Ti ho detto delle cose che per me erano vere, Sauli, le pensavo davvero mentre te le dicevo! Solo che adesso ho capito... ho capito che mi sbagliavo...” si giustificò il moro, mettendosi seduto, allungando una mano a sfiorargli la spalla. Voleva consolarlo?
Sauli sfuggì al suo tocco e si alzò in piedi di scatto, come bruciato.
“E credi che per me voglia dire qualcosa?” urlò, praticamente in lacrime. “Credi che mi faccia stare meglio? Ho vissuto in un'illusione! Tu mi hai illuso! Adam, so che non riesci a capire, ma io ho abbandonato la mia vita per te, per ciò che provavamo, per la nostra storia insieme, per la nostra vita insieme. Ho sopportato tutti i tuoi difetti, ho accettato tutte le tue stranezze, mi sono fatto forza da solo quando tu non c'eri al mio fianco e non te l'ho mai rinfacciato. Non ti ho mai rinfacciato nulla. Ti amo, Adam, o almeno credevo di farlo. Credevo in noi. È questo quello che ottengono le persone che ti amano? Merda?
Mi hai rovinato la vita, Adam. Non te lo perdonerò mai.”
Con questo, semplicemente andò via. Si chiuse dietro quelle maledette porte, si chiuse dietro quella maledetta vita.
Non voleva vedere Adam.
Mai più.













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Capitolo 8
*** Goodbye ***


Titolo: Bright Light
Autore: itsjjoy
Fandom: RPF Adam Lambert
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico
Tipologia: Long Fic
Conteggio Parole: (capitolo) 3151
Pairing/Personaggi: Adam Lambert/Tommy Joe Ratliff; Tommy Joe Ratliff/Isaac Capenter; Isaac Carpenter/Sophie Carpenter; Dia Ratliff; Matthew Davis;
Rating: Giallo
Avvertimenti: Slash, Het, What if?, OOC
Note: Questo capitolo mi piace molto, davvero molto *-*
Vi mando un abbraccio!










08 Goodbye






Isaac lo stringeva tra le braccia, mentre era in ginocchio sul pavimento.
Tommy singhiozzava, disperato come non era da tempo, e lacrime su lacrime bagnavano i vestiti dell'amico mentre lui vi si aggrappava con tutta la forza che aveva. Era peggio di quanto non fosse mai stato. Peggio di tutto, peggio di quella volta che  aveva ingurgitato dieci di quelle sue pillole insapore, sua madre l'aveva trovato e lui aveva implorato di morire.
Era peggio perché Isaac piangeva con lui e non per lui, piangeva per il proprio dolore.

–   –   –   –

“Non ce la faccio più.
Lo so che non è colpa tua, lo so che non è colpa sua, non è colpa di nessuno se non la mia, ma è così che stanno le cose: non ce la faccio più.
Isaac, io volevo una vita per noi. Volevo che fossimo felici. Volevo un figlio da te. Volevo la felicità che meritiamo. Volevo i nostri sogni. E lo so che la vita non va mai come uno vuole che vada, che bisogna prenderla così come viene, e che basta stare insieme e farsi forza...
Ma, vedi Isaac, io mi sto logorando dentro. Non vivo più. È tutto buio, è tutto insensato, è tutto stancante. Non ricordo neanche più come sia essere felici.
Tommy, io non riesco più a guardarlo negli occhi. Anche solo vederlo mi... mi priva della voglia di vivere.
Non fraintendermi, Isaac, io gli voglio bene, sai quanto gli voglio bene. Lo amo come un amico, come un fratello, come un figlio. Tommy è... ha una forza incredibile. Ma da quando quel dannato giorno, Adam è andato via, riesce a mantenere quella forza solo se ci sei tu. Vive grazie a te, Isaac. E io non posso chiederti di stare via da lui neanche per un giorno, perché so che ha bisogno di te.
Ma io, io ho bisogno di una pausa.
Andrò via per un po', starò da mia cugina Susie a San Francisco.”
Questo gli aveva detto Sophie, in lacrime, prima di prendere le sue cose ed andare via, ed a nulla erano valse le sue suppliche, le sue preghiere, i suoi pianti. Era forte, Sophie, e quando decideva qualcosa, nessuno le faceva cambiare idea. Era forte ed Isaac sapeva che poteva farcela ad esserlo anche per Tommy.
Il fatto era che non poteva essere forte per tutti e tre.
Ed era quello che aveva fatto, invece, per cinque lunghi anni: aveva trovato, da qualche parte, la forza per tutti; si era consumata per loro, aveva dato tutto e ora non ne poteva più.
Isaac comprendeva. Capiva che prendersi una pausa era la cosa giusta per lei, ma non riusciva ad accettarlo. Non riusciva a vedere il letto vuoto, non riusciva ad affrontare la sua vita senza gli occhi di lei a fargli coraggio – quei magnifici occhi castani –, non riusciva a fare tutte quelle cose di cui lei si prendeva cura da tanto tempo, perché lei era più brava, lei le faceva meglio. Sophie era perfetta, la sua personale isola di bellezza e di felicità, la sua ancora, la sua vela, il suo tutto. E quando scendeva la notte, quando c'era vento, quando le tende – quelle che lei aveva amorevolmente scelto – fendevano l'aria al ritmo della brezza, le porte sbattevano e la stanza era buia, tutto sembrava più freddo senza Sophie, la sua Sophie. In quei momenti, solo, ripensava alla sua giornata: un alzataccia per prendere Tommy a lavoro, preparargli la colazione, aspettare sua madre – era Dia a stare col figlio quando Isaac non c'era – e poi via a lavoro, tutto di corsa, tornare a casa, far mangiare Tommy e fissare quel posto sul divano, vuoto di lei, e crogiolasi nella propria solitudine mentre Tommy si cullava nella propria. A volte lo invidiava, invidiava quel suo sguardo vacuo ed assente, come se non sentisse il tempo passare e la vita correre via mentre lui la guardava, inerme, inutile, perso in se stesso. Ma poi Tommy parlava – sussurrava flebilmente, le sue labbra accarezzavano le parole con l'eleganza di qualcuno che sta per spirare, con la composta e impeccabile disperazione di un uomo che sa di essere condannato a morte ma non gl'importa. Parlava della sua giornata, di una certa Rose che lavorava al supermercato ed insisteva per socializzare con lui, poi si zittiva all'improvviso e Isaac glielo leggeva negli occhi il motivo. Adam, Adam, Adam, voleva lui, gli mancava lui. “Oggi l'ho pensato” oppure “Hai notizie di lui?”.
“Mi manca Sophie” diceva ogni tanto, e Isaac sapeva che era vero, e sapeva anche che Tommy poteva capirlo quando replicava semplicemente “Anche a me” con gli occhi spenti. Tommy, anzi, conosceva un dolore peggiore del suo. Tommy non chiamava Adam ogni sera; Tommy non si sentiva mormorare 'ti amo' o 'buonanotte' da lui, neanche da una fredda cornetta; e chissà quanto e da quanto desiderava lasciarsi cullare dalla sue braccia finché tutto il resto non avesse perso importanza. Solo in quel momento Isaac capì quanto Tommy fosse terribilmente forte: lui si sarebbe spezzato. Lui si sarebbe piegato sotto il peso di un'esistenza svuotata, e avrebbe lasciato il suo cuore infranto collassare ed abbandonarlo; si sarebbe lasciato morire.
Faceva quei pensieri, di notte, rannicchiandosi sotto le coperte e cercando invano un calore che non trovava, perché era terribilmente solo e si sa che la solitudine è fredda. Sentiva più che mai la mancanza della pelle chiara, morbida e calda di sua moglie, delle sue labbra rosse e saporite, delle sue mani delicate, della sua stretta dolce ma decisa; gli mancavano il suo corpo nudo che giaceva accanto al proprio, le sue gambe flessuose, il suo fondoschiena aggraziato e i seni sinuosi, e soprattutto quel ventre caldo ed accogliente in cui si rifugiava ogni volta. Non era lussuria, era un istinto ancestrale, il desiderio di vivere quella sensazione di sicurezza e di pace che provava ogni volta che facevano l'amore, la voglia di restare per sempre lì, al sicuro e al caldo, dentro di lei.
La sua Sophie non se n'era andata, ricordava a se stesso, si era solo presa una pausa. Sarebbe tornata presto: fino ad allora doveva andare avanti senza di lei. Doveva farlo per se stesso e per Tommy, doveva farlo per non deluderla. Stavolta, toccava a lui essere forte.

–   –   –   –

Prima di andare via, Sophie era entrata nella sua stanza, si era messa seduta sul bordo del letto e gli aveva baciato la fronte.
“Ricordati che ti voglio bene. Mi prometti che non ne dubiterai mai?”
Tommy non capì. Annuì, ovvio che non ne avrebbe dubitato, Sophie era stata come una seconda madre per lui e come tale lo amava.
E fu come una madre che capisce che il suo bambino è ormai grande che Sophie affrontò il discorso, senza bugie, senza inutili omissioni. Gli spiegò le cose come stavano. Gli spiegò che soffriva a stare lì. Gli spiegò che quella vita stava diventando una gabbia per lei, un tormento a cui non voleva sfuggire perché li amava troppo entrambi, ma da cui doveva proteggersi in qualche modo. Tentò di fargli capire come si sentiva, ma non ci riuscì, perché lui la bloccò. Fece un gesto, e scosse la testa, poi la guardò negli occhi e le sorrise.
Non c'era traccia d'allegria nel suo sguardo, solo un sorriso meccanico e rigido incollato sulla faccia. Eppure, per quanto forzato, non aveva nulla di freddo. Tra quelle labbra curve si potevano scorgere migliaia di parole mai dette perché la persona a cui erano rivolte non le avrebbe ascoltate. Guardando i suoi occhi spenti ed infossati, lividi di sonno, si poteva sentire tutta la sua sofferenza. E nel suo viso scavato dai lunghi giorni di digiuno e dalla fatica di vivere, c'era l'immagine del suo tormento, urla mute scolpite nelle pieghe della sua magrezza. Era terrificante, e contemporaneamente doloroso. In quel momento, Sophie si rese conto di stare scappando da lui, di stare facendo proprio ciò che rimproverava ad Adam, ed anche di comprenderlo. Capiva perché era corso via ed anche perché e quanto dovesse sentirsi in colpa: terrore e dolore; ciò che sentivano tutti quelli che guardavano con attenzione Tommy, anche solo per pochi secondi.
“Ti capisco, Sophie. Se potessi, anche io fuggirei da me stesso.” disse semplicemente, e poi non aggiunse più nulla. La abbracciò forte, tanto che a Sophie venne da piangere, perché tutto quello aveva il sapore di un addio.
“Io... Non starò via troppo a lungo, Tommy. Non sto scappando da te.” mormorò lei, guardandolo negli occhi ed accarezzandogli il viso. “Tornerò presto. E prima, vi verrò a trovare.”
Tommy indossò di nuovo quel sorriso triste e annuì.
“Proverò ad aspettarti.” disse, e Sophie non capì subito quella frase (o forse non volle capirla), ma fu in qualche modo consapevole che quel momento non aveva solo il sapore di un addio, era un addio.
“Grazie, Sophie... Grazie davvero.” aggiunse Tommy, in un flebile sussurro che aveva però un che di solenne, confermando le sue paure. Lei stava uscendo dalla sua camera, e quelle parole la fecero voltare un'ultima volta. Lo guardò, forte e fragile, eroe e vittima, amico, fratello e figlio.
Non gli chiese mai con precisione di cosa la stesse ringraziando.

–   –   –   –

Sophie l'aveva avvertito, e giorno dopo giorno Isaac ne aveva avuto conferma. Aveva notato quelle piccole cose – sguardi, parole, gesti – che Tommy faceva, ed ognuna di loro sembrava il tassello di un puzzle che stava per finire. Improvvisamente sembrava che nella sua mente ogni cosa avesse trovato la propria sistemazione, che la sua vita avesse trovato un proprio ordine, e che giorno dopo giorno stesse per arrivare a qualcosa. Meticolosamente, con un'attenzione ed una precisione quasi ossessiva e persino un po' d'affetto, Tommy stava facendo tutte quelle cose che ci si dimentica sempre di fare, che si trascurano perché si sa che si avrà sempre tempo per farlo. Pulì le sue chitarre, una per una, le accordò e le sistemò in camera, prendendosene cura ogni giorno, ma senza mai suonarle, quasi fossero soprammobili; sistemò i fiori che tenevano nei vasi sul balcone, li concimò e li aiutò a tornare belli e pieni di vita; andò a tagliarsi i capelli, e la barba, ed iniziò a prendersi cura del suo aspetto, facendone un rito; ricominciò a mangiare regolarmente, e a leggere alcuni libri che andava in biblioteca a prendere in prestito ogni lunedì. Diventò  taciturno e solitario, più di quanto lo fosse mai stato, ma ogni tanto, quando Isaac lo guardava, gli sembrava quasi soddisfatto – non felice, solo soddisfatto – come se avesse capito qualcosa, qualcosa di importante, e adesso sapesse cosa fare.
“Presto la smetterò di pesarvi così tanto.” disse un giorno ad Isaac, con quella smorfia soddisfatta, mentre lui finiva di fare colazione. Tommy si era infilato il pigiama e se ne stava seduto su una sedia fissando il piatto vuoto della propria colazione. Aspettavano insieme Dia. La madre di Tommy, infatti, da quando Sophie era andata via, dava una mano in casa. Era lei a tenere d'occhio il figlio mentre dormiva, dopo il suo turno di notte: lo svegliava poco dopo le quattro e lo faceva pranzare, poi lo salutava dopo appena un'ora, quando Isaac ritornava da lavoro, la ringraziava ed ogni giorno – ogni singolo giorno – la invitava a restare per un caffé o persino per cena. Ma ogni volta Dia reclinava l'offerta.
Quella mattina, la frase di Tommy spezzò il silenzio e colpì Isaac. Lo inquietò non poco e lui non voleva razionalmente accettare il dolore inspiegabile che provò a sentirla.
“Intendi perché adesso hai uno stipendio?” replicò, forzando un sorriso nervoso e voltandosi a guardarlo.
Il biondo lo guardò con una strana espressione. “Certo. Non sei contento?”, rispose pacatamente, abbassando lentamente le palpebre con l'aria stanca, come se parlare gli costasse un'enorme fatica.
Finì lì.
Isaac rimuginò su quelle parole per tutto il giorno. Lo avevano lasciato freddo dentro. Sembrava più che Tommy intendesse che presto se ne sarebbe andato e li avrebbe lasciati in pace. Ma Isaac non voleva essere lasciato in pace. Isaac amava Tommy.
Dia bussò e lui andò ad aprirle senza pensarci, senza neanche chiedere chi fosse. La salutò a stento, poi le diede le spalle e tornò da Tommy. Non voleva salutarlo. Non voleva perderlo d'occhio neanche un'istante. Non voleva separarsi da lui, ma lo fece lo stesso. Come ogni volta gli baciò la fronte e lo abbracciò senza aspettarsi da lui alcuna reazione che non fosse disagio. Ma poi, prima di sciogliere la stretta ed andarsene, lo guardò negli occhi e lo supplicò.
“Non lasciarmi.”
Una stupida lacrima gli sfuggì, ma non aveva importanza. L'importante era non perderlo, mai. Tommy era la sua forza, e Isaac voleva essere lo stesso per lui. Era quello che aveva cercato di fare da quando lo conosceva, eppure in tutti quegli anni non aveva mai avuto l'impressione di esservi riuscito.

–   –   –   –

“Come va il lavoro?”
“Mhhh...” le labbra di Tommy si contrassero in una smorfia. Ogni volta era la stessa storia. Sapeva che sua madre sarebbe stata felicissima se si fosse confidato con lei, ma odiava parlare. E soprattutto non voleva farlo perché lei cercava sempre di deviare la discussione su Adam, per dire la sua. Non perdeva mai l'occasione di ricordargli come lei l'avesse capito fin dall'inizio che qualcosa non andava e che non avrebbe mai funzionato con quel ragazzo che voleva sempre tutto e non dava nulla in cambio. Adam, che voleva mettere un piede in due scarpe e farci una scalata, Adam che non rispettava la sensibilità altrui, Adam che aveva fatto male a lei quanto a lui, perché Dia amava suo figlio. Tommy non riusciva a sopportare il peso di quelle conversazioni che risvegliavano dolori passati e rancori quasi dimenticati. Odiava parlarle perché Dia soffriva anche solo a vederlo e lui non poteva sopportare l'espressione triste nei suoi occhi. Sapeva di averla delusa, sapeva che non le aveva mai dato molte ragioni per essere fiera di lui, non un lavoro ben remunerato, non il successo che sognava di avere, non la grande casa in campagna che le aveva promesso per la vecchiaia. Non era indipendente, non le aveva dato nipotini né la soddisfazione di vederlo sistemato. Non poteva neanche dirle di essere felice. L'aveva delusa, una volta e poi mille ancora, e l'avrebbe delusa per sempre. E glielo aveva detto, le aveva detto che sapeva di essere una delusione, ma Dia si era limitata a stringerlo in un abbraccio profumato d'infanzia e di malinconia, e Tommy aveva pianto. “Non sei una delusione...” aveva tentato di consolarlo Dia, ma le lacrime cadevano e le ragioni per versarle si accumulavano nella sua testa fino a farla scoppiare.
Quel giorno Tommy non voleva piangere. Non voleva cedere un'altra volta. Ma forse Dia l'aveva capito, come una madre fa sempre, aveva capito il suo bambino. Gli porse il proprio cellulare per fargli leggere un messaggio. Aveva un'espressione indecifrabile, e disse solo: “Se gli do un'altra possibilità è perché tu ne hai bisogno, non perché lui se la meriti.”
Tommy non ebbe bisogno di leggere il destinatario per capire chi fosse. Era lui, chi altri? Il suo tormento, la sua ossessione e l'unico che avesse mai meritato il suo amore. L'sms non conteneva altro che il numero di Tommy, preceduto dal suo nome e seguito da un “fanne buon uso”. Non era firmato.
“L'ho inviato dieci minuti fa. Isaac e Sophie non sanno nulla, né devono saperlo.” gli spiegò la donna, sussurrando in tono complice, e Tommy si sentì tanto un bambino. Per la prima volta dopo tanto tempo sentì il bisogno di un abbraccio, un bisogno che sua madre non era preparata a capire e che non riuscì a cogliere. Ma d'altronde è sempre così con gli abbracci, mancano sempre quando ne hai bisogno, un po' come le persone che scappano via nei momenti peggiori.
Fu un dovere per quella madre distrutta dalla malattia del figlio assecondarne i bisogni e alimentarne le illusioni. Le persone sono come le cose, si rompono e non ritornano più come prima, non importa quanta colla si utilizzi, né quanto tempo vi si dedichi, né l'attenzione e la cura che vi s'impieghi. E come Tommy, anche Dia si era rotta e non aveva più la forza di fare quel che credeva giusto, ma solo di fare ciò che le imponeva il cuore. Diede una speranza a Tommy per darla a sé stessa, perché le preghiere non bastavano più. Gli diede una speranza perché voleva aggrapparcisi con lui e tenerlo stretto e pregare che li riportasse entrambi a galla. Lo fece perché voleva crederci nelle persone, voleva credere nell'amore e voleva credere che per Tommy ci fosse ancora tempo, ci fosse una vita, ci fosse un flebile Sole. Lo fece perché per una volta voleva fidarsi di quella buffa cosa chiamata destino e dimostrare a sé stessa che quello di suo figlio non era morire così, non era una palude d'oscurità, non era il dolore. Sapeva meglio di chiunque altro quanto il suo bambino meritasse di essere felice e non poteva vivere senza credere che prima o poi sarebbe arrivato il suo momento.
La speranza sa essere una cosa strana, e fu strano il modo in cui riuscì a distruggere Tommy, fu peculiare il modo in cui un soffio di nostalgia riuscì a causare un incredibile disastro in mezzo ai cristalli del suo dolore. Il baratro si spalancò per l'ennesima volta, infinito e senza pietà, proprio sotto di lui. Che stupido che era stato, a pensare di aver raggiunto il fondo! Si era tranquillizzato e aveva messo a posto la sua vita, aveva pensato che si sarebbe stabilito lì, si sarebbe abituato a quel freddo, tutto sommato lo aiutava ad anestetizzare il dolore, e forse sarebbe vissuto così, ad aspettare il nulla, svuotato da tutto, ma avrebbe vissuto. Quella sistemazione aveva anche iniziato a piacergli... ma doveva saperlo, doveva immaginare che la depressione è infinita come l'universo. Lui la conosceva bene, quella pozza buia e densa in cui puoi affondare senza fine, senza mai vedere la luce. E, anche se gli piaceva raccontarsi tutta un'altra storia, quelle stupide stelle che gli sembrava di vedere non erano nulla se non dolore così pungente da provocargli le allucinazioni, e quelle labbra che sognava di notte erano solo le briciole di un'illusione ormai vecchia, sfumata dal tempo e dalle lacrime. Non poteva continuare così, non poteva combattere per respirare in ogni istante della propria vita, non poteva aggrapparsi al fumo di inutili speranze, non poteva fingere che quello che ormai si prolungava da cinque anni non fosse che un lento, lentissimo omicidio e non poteva più fingere di non sapere che, come tutti gli omicidi, si sarebbe potuto concludere solo con una cosa: la morte.













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Capitolo 9
*** Broken Hearts (pt.1) ***



Note: Ci ho messo un po', ma ecco il nuovo capitolo. Ho iniziato anche una revisione dell'HTML dei vecchi, che finirò in brevissimo tempo. Non cambierà molto, ma credo che questo modo di gestire i capitoli risulterà più ordinato.
Se pensate che questo capitolo sia triste allora per il prossimo preparate i fazzoletti, perché sarà orribile :D
Fatemi sapere che ne pensate! Enjoy!









09 Broken hearts (pt. 1)


“Non lo facciamo da un po', ricordi come funziona?”
Tommy annuì, mentre la rabbia ed il dolore già iniziavano a gonfiarsi nella gola, ma il dottor Davis decise che gli avrebbe spiegato lo stesso cosa doveva fare. Non sapeva cos'altro dire, d'altronde. Aveva un nodo in gola e le lacrime premevano per bagnargli il viso, e glielo avevano detto che ai clienti non ci si può affezionare, gliel'avevano anticipato che quel caso sarebbe stato un fallimento, ma Matthew non aveva voluto crederci. Poi era successo, poi aveva realizzato la verità. Aveva ascoltato le poche parole che intramezzavano i lunghi silenzi di Tommy e aveva capito che non c'era più speranza. Aveva fallito. Thomas non sarebbe guarito, il dolore l'aveva sommerso da troppo tempo, l'aveva soffocato e l'unica persona capace di salvarlo non l'avrebbe mai fatto. È macabro ed incredibile pensare a come una malattia invisibile a qualunque macchinario possa distruggere ed uccidere una persona nel peggiore dei modi.
Tommy Joe Ratliff era sempre stato una persona ordinariamente fantastica. Matthew adesso sapeva tutto di lui. Conosceva piccoli dettagli della sua infanzia serena, le pene e la gioia della sua adolescenza complicata esattamente come quella di ogni ragazzo; sapeva capire la sua sensibilità da artista e apprezzare la gentilezza e la pacatezza che lo caratterizzavano; lo amava, il suo essere un eterno ribelle, un bambino che non crescerà mai e soprattutto ammirava la forza con cui, anche dopo tutto quello che era successo, era capace, nel profondo del suo cuore, di essere fiero di quello che era, di non pentirsi, di non giudicarsi e di accettare pacatamente le sua vita per ciò che era, nonostante fosse una pozza di dolore nero e soffocante. Una persona magnifica in ogni sua sfaccettatura, distrutta da un male invisibile e incurabile, da un sentimento, da qualcosa di astratto eppure eccessivamente reale.
E lui, Matthew Davis, che aveva studiato medicina per far del bene al mondo, lui che aveva scoperto grazie a suo padre che i mali peggiori sono quelli che stanno nella testa delle persone, la stessa persona che non aveva potuto accettarlo e perciò aveva deciso di diventare psicoterapeuta, ora doveva restare impassibile, doveva guardare negli occhi un paziente ed amico e doveva fingere che tutto andasse bene, mentre dentro di sé sapeva di aver fallito. Un amico, già, perché Tommy ormai era anche quello per lui, e forse era per questo che faceva così male sapere di essere stato incapace di salvarlo.
Fino a quel giorno era sempre riuscito a mantenere un comportamento professionale durante le sedute, ma quella volta, quella volta si lasciò andare al sentimentalismo.
“Chiudi gli occhi e immagina di parlare ad Adam.” lo istruì, come tutte le altre volte che aveva provato a farlo parlare in quella maniera. Ma poi, dopo un profondo sospiro, proseguì diversamente. “So che pensi che sia inutile, che lui non può sentirti, lo hai sempre pensato ed io l'ho sempre saputo. Ma, Tommy, oggi voglio dirti che non lo è. Non è inutile perché se è vero quello che sai, se è vero che ti ama e non vuole accettarlo, se è vero che siete fatti l'uno per l'altro, se è vero che il vostro amore non finirà mai, allora nulla è inutile. Ogni tuo respiro vale, ogni secondo che combatti per vivere, ogni attimo in cui ti sforzi di portare il fardello del tuo dolore, ogni momento serve a non farlo morire. A non farvi morire. Come hai detto una volta, il vostro è l'amore più bello del mondo, la fiaba che nessuno si stancherebbe mai di raccontare. È vostro ed è di tutti gli innamorati del mondo. È la canzone senza fine che fa muovere l'universo. È per questo che cinque anni dopo sei qui, ancora pronto a morire per lui, ed è per questo che non puoi arrenderti. Lo sai che se anche solo uno di voi due si arrendesse per davvero, se solo uno di voi due morisse, allora neanche l'altro potrebbe sopravvivere, perché siete una cosa sola. Le sai queste cose, Tommy. Me le hai fatte capire tu. Ora, ti prego, non mollare. Non farlo, perché non può finire così. Non smettere di sperare, Tommy. Digli quanto male ti ha fatto, urlamelo, e anche lui lo sentirà, perché siete legati indissolubilmente. Credici, Tommy. Credici perché è l'unica cosa a cui valga la pena di credere.”
Nessuno gli aveva mai parlato in quel modo di loro, nessuno era mai stato così partecipe, nessuno lo aveva mai davvero capito come Matt era riuscito a fare. Adam era stato per tanto tempo il malvagio della situazione, la causa dei suoi mali, l'essere orrendo che l'aveva ferito, e lo era stato per tutti tranne che per Tommy stesso. In quel momento si rese conto di quanto gli facesse male dover nascondere come in realtà – nonostante tutto – lui pensasse ad Adam come ad una persona magnifica, come ogni notte sognasse il suo sorriso gentile, come gli avesse già perdonato ogni istante di dolore passato e come, alla fine della giornata, spendesse sempre qualche minuto a sussurrare a sé stesso cosa gli stesse perdonando quella volta. Per la prima volta da tanto tempo si sentiva compreso, sentiva di poter dire qualunque cosa su Adam senza essere attaccato o giudicato. Finalmente poteva amarlo senza doversene vergognare.
Così chiuse gli occhi ed iniziò a parlare.
“Sai, Adam, quando ti ho conosciuto pensavo tu fossi perfetto. Dolce, comprensivo, altruista, gentile, sincero. Il cuore mi batte ancora tanto forte da farmi male quando ripenso al giorno in cui ti ho incontrato e la mia mia vita è cambiata per sempre.” Tommy, gli occhi ancora chiusi, rilassò il viso in un breve sorriso, che per una volta sembrava sereno. “Mi sono innamorato di te quando ti ho visto, e lo so che non l'ho mai ammesso, ma sei diventato il centro della mia vita in quell'istante. Poco importa che ti sei rivelato essere il contrario di ciò che credevo. Poco importa che dolce non lo sei quasi per nulla, che dici bugie su bugie, che spesso mi hai trattato male, che sei egoista, che vuoi sempre tutto e non dai mai niente in cambio. Ti amo così, esattamente come sei. E vorrei tanto capire come è possibile. Mi piacerebbe spiegarti perché, mi piacerebbe elencarti una serie di aspetti del tuo carattere che ti rendono così amabile ai miei occhi, ma non ne conosco. So solo che quando non ci sei sono un guscio vuoto, un corpo senz'anima, un sorriso senza allegria.
Vorrei poter 'andare avanti'. Quando mi dicono che devo dimenticarti, che dopo tutto questo tempo dovrei farmene una ragione, che ti ho perso ormai e non c'è nulla che io possa fare se non voltare pagina, vorrei chiedere loro cosa pensano di me. Credono che io sia felice di non esserne capace? No, non è felice la parola giusta. Vorrei non riuscire a perdonarti, vorrei odiarti per tutte quelle volte che mi hai ferito, per tutte le volte che ho pianto per te, perché hai distrutto la mia vita, mi hai tolto sogni, speranze, amore. Dovrei odiarti perché tutto ciò che volevo era starti accanto, non importava quale fosse il prezzo, ma tu non me l'hai permesso. Non volevo possederti, sapevo che non potevi essere mio, l'ho sempre saputo. Semplicemente, non volevo neanche respirare se non nella tua stessa stanza. Mi sarebbe bastato poterti essere amico, poterci essere per te, invece tu mi hai dato tutto ciò che potevi darmi ed io mi sono illuso di poter essere felice per sempre, con te; e poi, poi mi hai tolto tutto ciò che mi avevi dato e tutto ciò che ti avevo dato io in cambio. Ti sei preso tutto e mi hai privato di persino di me stesso.
Eppure, Adam, io non ti odio.
Ogni sera ti perdono per ogni lacrima che ho versato, ogni giorno mi sveglio pensando a te, in ogni istante spero di vederti tornare. Puoi immaginare quanto male mi fa, Adam? Puoi capire quanto soffro ad essere sempre pronto ad accoglierti anche se sono consapevole che tu di me non hai alcun bisogno? Ti rendi conto di che tortura sia per me accorgermi ogni giorno che non posso fare altro che sceglierti, nonostante tutto?”
A quel punto Tommy si fermò per qualche momento, quasi come se volesse solo riprendere fiato, ma poi si nascose il viso tra le mani ed iniziò a singhiozzare sommessamente. Piccoli tremiti lo scuotevano ogni tanto, e si strofinava le dita sulla faccia quasi tentando disperatamente di nascondere quelle lacrime, di eliminarle, di cancellarle per poi far finta che non fossero mai esistite. Ma persino dalla sua postura si evinceva il dolore che portava dentro, ed era più grande ed oscuro che mai. Matt aveva quasi freddo, si sentiva come se quelle lacrime stessero gelando il mondo, e voleva correre da lui e stringerlo forte, voleva dirgli che sarebbe andato tutto bene, voleva giurarglielo e poi mantenere la promessa, voleva dirgli che andava bene così, che non doveva parlare ancora, non se faceva così male. E stava per farlo, ognuna di quelle cose, ma il biondo aprì gli occhi a fissare la moquette e tra le lacrime riprese a parlare e lui non ebbe il coraggio di muovere un dito. Restò ad ascoltarlo pietrificato, stregato, sopraffatto da tutte le emozioni contrastanti che provava nel guardarlo.
“Perché hai scelto me? Tra tutte quelle puttane che volevano darti il culo e suonavano da Dio, Adam, perché quel giorno all'audizione hai scelto me? Perché mi hai voluto, mi hai amato? Ci deve essere una ragione, deve esserci un perché, deve esistere qualcosa in cui io possa credere!” La sua voce si era alzata di volume, e si era fatta disperata. Matthew non l'aveva mai sentito parlare con un tono così alto. La cosa lo spaventava, quasi.
“Credevo in mio padre, ma poi è andato via. Credevo in te, ma mi hai lasciato anche tu. Come hai potuto farlo? Mi avevi promesso che non sarebbe accaduto, che non sarebbe successo mai! Perché mi hai fatto questo? Ti giuro...” Tommy smise all'improvviso di parlare. Riprese fiato, tirò su col naso e pareva si stesse calmando, ma alla fine si abbandonò ad una nuova serie di singhiozzi. “Ti giuro, ci sto provando a credere in qualcos'altro! Ma so che non può funzionare, perché sei l'unico: ci sei solo tu, il resto non importa, il resto non vale, il resto non esiste. Ci sono io che cado nel vuoto e poi ci sei tu, solo tu puoi salvarmi, e lo so che verrai. Verrai...”
Tommy sospirò, asciugandosi ancora le lacrime che non smettevano di scorrergli lungo le guance pallide. Sembrava riflettere su quello che aveva appena detto, e tra le labbra sussurrava quella parola, in continuazione. 'Verrai'. Era il ritmo che scandiva il suo respiro, il suo mantra, la sua unica speranza, la forza che lo spingeva a tentare di vincere la sua guerra. A guardarlo in quegli istanti sembrava davvero pazzo, ma d'altronde cosa sono i pazzi se non persone sconfitte dalla vita?
“Ti supplico...” mormorò piano il biondo. Si interruppe per alcuni istanti, stringendo il lembo della felpa tra le dita sottili e fissando il dottore quasi fosse lui Adam. “Non lo voglio questo cuore spezzato, questo corpo distrutto, questa vita insensata. Non ho mai chiesto al tuo ricordo di farmi impazzire. Ma è così che va, ed io ti amo, e non posso farne a meno, non ce la faccio, non sono così forte, non adesso, non più, non con te.”
Un bastardo, piccolo pensiero si insinuò nella mente di Matthew Davis. Più che un pensiero, una vocina, una stupida vocina convinta e stronza che era tornata a dimostrargli di aver ragione. 'Che ti avevo detto? Sapevi che sarebbe finita così, Matt!'
Già, lui aveva sempre saputo che Tommy avrebbe perso la sua guerra con la vita, eppure ci aveva provato lo stesso ad aiutarlo. Che stupido che era stato a sperare di poter essere lui a cambiare quel terribile destino. L'unico uomo al mondo che poteva farlo era stato la causa di tutto.
“Sai qual'è la cosa più divertente, Adam?
Io non me ne pento. Ancora oggi, anche adesso che so come andrebbe a finire, rifarei tutto da capo. Tutto. Da quando sono nato fino ad oggi, ripeterei ogni scelta, ogni errore, ogni successo ed ogni fallimento, ogni pianto ed ogni risata. Rivivrei ogni istante, meticolosamente, perché so che mi porterebbe da te. Capisci? Non voglio altro che poter vivere ancora un giorno in quel passato così bello e così lontano, con te, prima di morire. Mi accontenterei di un giorno solo. E se esiste un'altra vita, quando la vivrò cercherò te. Solamente te. Perché ne vale la pena.”
Tommy sospirò con aria sfinita, si prese la testa tra le mani e restò lì, in silenzio, a pregare che quel giorno arrivasse, che Adam riuscisse finalmente a restituirgli quel paradiso che da cinque anni gli chiedeva. Si sentiva svuotato, senza forze neanche per abbandonarsi al proprio dolore. Quando un cupo Matthew gli diede il permesso di andare via, un permesso che pareva quasi una supplica, Tommy eseguì senza fare domande. Uscì, in silenzio, con una lentezza esasperante, e chiuse la porta dietro di sé senza neanche rendersene conto. Si stava muovendo o era qualcuno a muovere lui?
Fuori trovò Isaac ad aspettarlo, un sorriso nervoso sul volto. Gli si trovò vicino senza neanche accorgersi di essersi spostato e poi, in una muta e quasi inconsapevole richiesta d'aiuto, gli strinse la mano.

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Matthew si concesse di piangere solo quando fu sicuro che nessuno l'avrebbe sentito. Non era un pianto disperato, non era doloroso, erano solo leggere lacrime che gli solcavano le guance perché piangere fa bene. Piangeva perché aveva perso le speranze, piangeva perché quel pensiero gli grattava il cervello nel disperato tentativo di non essere buttato via. Avrebbe voluto essere lui Adam. Avrebbe voluto essere l'oggetto di quell'amore così grande, appassionato e forte, avrebbe voluto essere lui ad amare Tommy, curare le ferite del suo cuore con una parola sola e poi cullarlo in quell'abbraccio che tanto bramava e cercava.
Matthew Davis, perché fai questo a te stesso? Perché non l'hai lasciato andare quando ti sei accorto di provare affetto? Perché pensavi di poter gestire questa cosa? I sentimenti non si gestiscono, Matt, si provano, e tu lo sai bene!
Questo gli diceva il raziocinio, questo gli avrebbero detto amici, colleghi, parenti. Ma Tommy, lui gli avrebbe detto che l'amore era bello lo stesso. Era quello che in cinque anni gli aveva insegnato quel ragazzo biondo, ed era uno degli insegnamenti più belli e toccanti che avrebbe ricevuto nella sua vita. Lo avrebbe sempre ricordato, che amare non è mai inutile, che finché ce la fai devi giocarti tutto ciò che hai, non solo i tuoi sentimenti, ma tutto te stesso. Che devi buttarti a capofitto nelle emozioni e amare con corpo e anima, offrire più di quello che hai e non desiderare nulla indietro. Devi essere te stesso, e seguire i desideri del cuore. Ed era quello che Matt aveva fatto. Eppure in quel momento si trovava distrutto dall'idea che forse non avrebbe mai avuto il coraggio di confessare a Tommy quanto bene gli volesse, quanto quei suoi occhi vuoti e quei suoi silenzi eloquenti lo attraessero e lo affascinassero. Ci aveva riflettuto molto, e a lungo, e c'è chi dice che con il tempo i sentimenti, come le fotografie, passano e sbiadiscono, ma era una stronzata e lo stesso Tommy ne era prova vivente. Neppure per Matt era stato così.
Non sapeva cosa fosse esattamente quello che provava, ma era certo che era un desiderio. Un desiderio forte, profondo e quasi incontrollabile di dare a Tommy tutto quello che nella vita gli era mancato, tutto quello che desiderava, tutto quello che gli avrebbe chiesto ed anche di più. Era certamente affetto, paura di perderlo, preoccupazione per lui, per come stava, per come andava la sua vita. Era interesse nei suoi confronti, voglia di starlo ad ascoltare, qualunque cosa dicesse. Ed era – di questo era certo – disprezzo nei confronti di Adam, quell'uomo che lui non conosceva ma che tanto aveva fatto soffrire Tommy; disprezzo ma allo stesso tempo curiosità di conoscerlo, di capire le sue ragioni, il suo punto di vista – tutto ciò non prima di averlo pestato diligentemente a sangue, ovviamente.
Si asciugò le lacrime e si guardò allo specchio, fissando con amarezza i suoi stessi occhi verdi tutti arrossati e rivolgendosi uno sguardo quasi sprezzante: quarant'anni e ancora piangeva così. Quarant'anni, una moglie, un figlio, una famiglia che amava e ancora si comportava come l'adolescente illuso che era una volta, con quella sua utopica speranza e fiducia in futuro che non faceva che deludere le sue aspettative.

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Isaac chiuse la porta dietro di sé e si abbandonò alle lacrime. Finalmente era solo, finalmente poteva ammettere a se stesso quanto male gli facesse il cuore, quanto si odiasse per aver scaricato il fardello della sua esistenza e di quella di Tommy su Sophie e averla costretta a fuggire. Non sopportava più quella vita, ed in quel periodo era giunto al punto di desiderare egoisticamente di non dover più avere a che fare con Tommy. Sentiva che si stava piegando alla depressione, giorno dopo giorno, ed ora che Sophie non c'era, nessuna forza gli avrebbe impedito di farlo: sarebbe sprofondato. Aveva paura, era questa la verità. Aveva paura che sua moglie non sarebbe tornata, che anche la sua vita sarebbe precipitata nel nulla di un errore non suo, nella frustrazione, nella nostalgia. E non voleva, non voleva finire come Tommy. Si sentiva crudele a pensare quelle cose, una parte di sé scaricava tutta la responsabilità sul suo amico e sulla sua incapacità di reagire, e il senso di colpa lo divorava. Il fatto era che lui capiva perfettamente Tommy, si immedesimava in lui, sapeva che in fondo non erano così diversi e ciò scatenava in lui il terrore di precipitare nello stesso baratro.
“Salvami....” disse all'assenza di Sophie, o forse a se stesso, affondando la faccia nel cuscino che ancora profumava di lei. “Mi trascinerà giù con lui se tu non torni. Io ci sto provando ad essere forte, ma non ce la faccio... Ti prego, Soph, non lasciarmi.”
Sapeva che era stupido parlare al nulla, ma erano cose che nessuno gli avrebbe mai sentito dire, o almeno così credeva. In quel momento doveva essere forte, ed essere forti è difficile: ogni tanto era bello sfogarsi. Sospirò, si asciugò il viso dalle lacrime, prese il telefono e compose il numero di sua moglie. Alle sue spalle, Tommy decise che aveva ascoltato abbastanza. Non era sua intenzione origliare, era accaduto per caso, ma non si poteva tornare indietro, purtroppo. Raccolse l'ultima briciola di autocontrollo che gli restava per socchiudere la porta e tornare in camera, cercando di far finta di nulla.

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Sauli entrò nella casa che era stata sua già con le lacrime agli occhi. Erano passate quasi tre settimane da quando se n'era andato da lì, da quando aveva messo un punto a quella relazione tanto importante per lui quanto insignificante per Adam. Ormai la notizia della loro separazione era su tutti i giornali, completa di intervista al povero Sauli, brutalmente abbandonato per una 'vecchia fiamma'. Lui avrebbe volentieri fatto il nome di Tommy, ma il management di suo marito gliel'aveva proibito; si era quindi accontentato di farlo capire ai fan tramite delle frecciatine su Twitter.
Posò le chiavi sul tavolo della cucina, pensando con malinconia che non avrebbe mai più visto quella casa. Non aveva più nulla, la sua vita era in pezzi, e l'unico piacere che poteva concedersi, l'unico che gli era rimasto, era tentare di rovinare la felicità di Adam, come lui aveva rovinato la sua. Ma la vendetta era un'amara consolazione: non avrebbe mai recuperato gli anni persi, non avrebbe mai dimenticato quell'umiliazione. Eppure poteva fargliela pagare e aveva intenzione di farlo con ogni mezzo a propria disposizione, non solo in tribunale, nella speranza che già sapeva essere vana che i soldi e il dolore di Adam potessero in qualche modo guarirlo dalla propria sofferenza. Lo avrebbero fatto stare meglio, sì, ma quanto? E per quanto?
Aveva passato le sue serate senza lui ad ubriacarsi e ad andare per locali, non ottenendo nulla che non fossero orribili risvegli in preda al mal di testa o ai ricordi della nottata trascorsa. Si rendeva ridicolo, ma che gli importava? Voleva solo che Adam sapesse che lui poteva divertirsi da solo, che tutti dicessero che l'aveva presa davvero bene, quella separazione, che era forte. Già, era forte. Trattenne le lacrime e si diresse in camera da letto, dove suo marito gli aveva lasciato alcune scatole già pronte e delle valige ancora da riempire con tutte le sue cose, buttate sul letto in caotici ammassi. Si sentiva umiliato. Avrebbe dovuto cacciare Adam di casa, piuttosto che andarsene, sarebbe dovuto essere lui a raccogliere la sua roba a testa bassa e a chiedere ospitalità a qualcuno. Ma a che scopo prendersi la loro casa? Non voleva restare in America ancora a lungo, voleva tornare in Finlandia al più presto.
Mentre rifletteva prendeva i suoi vestiti sparsi disordinatamente sul letto, li piegava e li riponeva in una delle valige. Pensava all'appartamento in cui era cresciuto, ai suoi amici, alla sua famiglia, a come sarebbe stato tornare finalmente a casa. Col pensiero stava già assaggiando uno dei manicaretti di sua madre, o guardando un programma stupido stravaccato sul divano con suo padre. Immaginava di tornare ad uscire con i suoi vecchi amici, si chiedeva se la sua vecchia e adorata felpona grigia gli calzasse ancora bene, e gli mancava persino il suo giardino sempre infestato dai corvi.
I suoi pensieri nostalgici si interruppero quando, ad un certo punto, sotto la matassa di panni trovò l'iPhone di Adam. Era spento e il retro era rotto, probabilmente in seguito ad una caduta alquanto violenta. Sauli sorrise, fulminato dall'eccitazione per quella fantastica occasione di farla pagare al marito ed anche a Tommy che gliel'aveva portato via. Una mossa davvero stupida, quella di lasciare lì il cellulare, anche se probabilmente non era stata una cosa voluta. Sauli lo accese e subito aprì i messaggi: sapeva cosa doveva fare. La sua vendetta sarebbe stata molto più soddisfacente di quanto avrebbe mai potuto immaginare.
Gli ultimi SMS inviati erano poco interessanti. Adam aveva scritto a suo padre, a sua madre, a suo fratello, a Brad... Sempre le stesse persone. Sauli ne lesse qualcuno – non riuscì a resistere alla tentazione – e scoprì che in quel momento Adam era da suo padre e che vi era andato proprio per evitare lui. Lesse che aveva scritto a Brad di come si sentisse in colpa ad aver lasciato Tommy cinque anni prima. Ma di sensi di colpa per come aveva trattato suo marito non ne aveva, eh? Un brivido di rabbia lo scosse quando si rese conto che il suo cuore spezzato e torturato aveva però ancora la forza di sperare, di credere nel buon cuore di colui che aveva amato e che in fondo amava ancora. Era sconcertato al pensiero di quello che Adam si era rivelato essere. Nessuno al mondo si era mai comportato con lui in una maniera così ignobile, nessuno aveva mai dimostrato di possedere una natura tanto egoista e vile. Adam meritava la sua vendetta ancor più di quel verme del suo ex. Meritava di soffrire perché faceva soffrire tutti quelli attorno a sé. Persino Tommy si aggiudicò un po' della sua solidarietà, quando comprese quella realtà, perché era stato una vittima prima ancora di essere un carnefice, proprio come Sauli. Ma questo non cambiò le intenzioni del finlandese, né impedì che la sua vendetta si compisse. Scorrendo tra i messaggi ecco che finalmente Sauli trovò ciò che gli interessava: un sms della madre di Tommy con il numero del figlio; diceva 'fanne buon uso'.
“Oh, tranquilla signora Ratliff, ne farò un uso più che buono” sussurrò, un sorriso soddisfatto stampato sul volto. I suoi presentimenti erano stati giusti, ed ora che aveva tutti gli strumenti non avrebbe mai sprecato quell'occasione, come invece sembrava aver fatto Adam, che ancora non aveva inviato a quel numero alcun messaggio.

A: Tommy
Lasciami in pace. Lasciami vivere la mia vita. Fattene una ragione, Tommy: non ti amo, non ti ho mai amato, non ti amerò mai.
Adam.







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