Le impronte degli dei.

di Dave1994
(/viewuser.php?uid=144747)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Napoleone Bonaparte. ***
Capitolo 2: *** La volontà di Dio. ***
Capitolo 3: *** La punta dell'iceberg. ***



Capitolo 1
*** Napoleone Bonaparte. ***


-Scommetto che avete una storia da raccontare, ve lo si legge dalla faccia- bofonchiò
Gioacchino, sistemandosi la divisa sul petto. Al fianco portava una sciabola
elegantemente riposta nel fodero, sul quale erano ricamate una G ed una M color
oro. Dai suoi baffetti si intravedeva appartenesse al ceto nobile della società, e la stessa
impressione la davano i suoi abiti. Lui e il suo interlocutore, un uomo basso e leggermente stempiato, stavano seduti nello studio degli Ufficiali: quella particolare domenica tutti erano via, dalle famiglie, per affari o semplicemente per divertimento: bordelli e osterie prosperavano grazie ai soldi della nobiltà.
-Oh,ci potete scommettere- disse Napoleone, mostrando un sorriso tutto soddisfatto -solo, dovete giurare.-
-Giurare che cosa?-
-Sulla vostra vita, sul sangue della vostra famiglia e sulla vostra assoluta fedeltà alla Francia che non riferirete nulla di ciò che vi racconterò all‘infuori di queste mura.-
-Sta bene. Cosa c’è di tanto urgente?- rispose Gioacchino, incrociando le braccia spazientito. Se non si fosse trattato del grandioso Napoleone, lo avrebbe già sbattuto fuori dallo studio.
-Giurate.-
Tra i due cadde il silenzio, interrotto soltanto dai rintocchi dell’orologio da camera appeso alla parete: con ogni ticchettio delle lancette, sembrava fare a fette il tempo implacabilmente.
L’uomo dai baffetti corti si portò una mano sul cuore e in francese pronunciò un giuramento solenne: morte l’avesse colto, se avesse trasgredito alla promessa!
-Così va meglio?-
-Direi di sì.- rispose Napoleone e con un cenno invitò Gioacchino ad avvicinarsi al suo orecchio.
-Se solo qualcuno sentisse quello che sto per dirti, credo non vivremmo fino a vedere sorgere il sole domani- sussurrò -è della massima importanza che questa conversazione rimanga davvero tra noi.-
-Ma insomma, volete arrivare al punto o mi tocca attendere ancora a lungo?-
-Ci sto arrivando!- esclamò Napoleone. Nonostante il tono impaziente, mostrava sul suo volto il sorriso più luminoso che Gioacchino avesse mai visto: nulla a che fare con quello che avrebbe avuto diversi anni dopo sull’isola di Sant’Elena, prigioniero e disperato.

***


-Ecco. Vedete, mio caro Murat, la mia campagna in Egitto ha dato…riscontri inaspettati. In particolare, è in Siria che ho trovato qualcosa che mai uomo sulla terra ha anche solo sognato o immaginato.-
-Cosa avete trovato là?- chiese Gioacchino, ora incuriosito dal fare dell’amico: sembrava davvero che fosse sul punto di esplodere, da tanto era ansioso di vuotare il sacco.
Napoleone non rispose. Si infilò la mano destra sotto l’elegante giacca da generale e ne estrasse un piccolo fagotto, gonfio e legato con uno spago. Una fioca luce dorata pulsava al suo interno, come se una candela stesse bruciando da dentro.
Napoleone Bonaparte lo aprì e ne prese una sfera metallica, la cui superficie era incisa da strane linee e curve sconosciute. Gioacchino giurò sotto confessione forzata, anni dopo, che la prima cosa a cui quell’oggetto così strano era…una mela.
Una mela d’oro.
-Bella,vero?- domandò Napoleone, forse più a sé stesso che al suo interlocutore: i suoi occhi erano totalmente posseduti da quel manufatto, come se la sua anima fosse stata rapita da quella luce dorata così calda e fioca.
Come se la sua mente ne fosse stregata.
-Di..di che cosa si tratta? Dove l’avete trovata?- chiese Gioacchino, intento a combattere il fascino che stava ora esercitando su di lui ciò che un giorno sarebbe stato classificato come Mela dell’Eden N. 1, il segreto del successo del futuro e arcinoto illusionista Harry Houdini.
-A San Giovanni d’Acri, durante un assedio che condussi personalmente contro il governatore Ahmed. Purtroppo quell’arabo aveva fortificato bene la città e il suo esercito era ben addestrato, forse anche più del mio- sentenziò Napoleone,con una punta di invidia - comunque sia, fu un assalto inutile. Persi due mesi di tempo e disperato stavo per dare l’ordine di ritirarsi, quand’ecco che arriva questo mendicante al nostro accampamento, sporco e quasi senza vestiti, e mi chiede del cibo e dell’acqua. Ancora mi chiedo come abbia fatto a superare le nostre sentinelle.-
-“Ma come, non avete di che sostentarvi nella città?” gli chiesi, stupefatto “i vostri soldati mi sembrano in gran forma”. Invece lui mi dice in un francese rozzo e scadente che dentro le mura si fa la fame e il grande Ahmed non gli concede che le briciole, mentre alla sua tavola si mangia a tutte le ore del giorno. Disperato mi chiede qualcosa con cui sfamarsi e io chiamo l’artigliere in seconda, così che possa procurargli un pasto decente. E lui mi da questa- disse Napoleone, indicando la Mela -dicendo che l’ha trovata in una tomba mentre scavavano o qualcosa del genere. Mi dice di fare attenzione, perché è maledetta: tutti gli oggetti nelle tombe sono maledetti, per loro.-
-Incredibile- sussurrò Gioacchino, sfiorandone la superficie attraversata da quei motivi così misteriosi e antichi - e cosa ha a che fare tutto questo con questo incontro?-
-Questo, Murat- esclamò solenne Napoleone, sollevando la Mela al cielo -questo è il segreto del mio successo. Ho scoperto di poter piegare le menti delle persone al mio controllo, se lo voglio. Posso fare cose meravigliose, amico mio, e ho grandi progetti per la Francia.-
E Gioacchino gli credette, perché vide nei suoi occhi una luce che non aveva mai visto prima: era la follia, la follia che proviene dalla detenzione di un potere al di là della nostra comprensione. Solo che lui non lo sapeva.
Non sapeva che quella piccola sfera d’oro, quella Mela, avrebbe sconvolto prima la Francia, e poi il mondo intero.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** La volontà di Dio. ***


-Sparate!- urlò LaFayette agli uomini posti ai suoi lati. Una salva di proiettili attraversarono l’aria, mirando ai soldati britannici intenti schierati lungo le mura della città di Yorktown: per ben quattro ore, l’inferno scese sul campo di battaglia. Nessuna delle due fazioni sembrava disposta ad arrendersi, ma George Washington non aveva fretta. Sapeva che avrebbe vinto, lo aveva visto. Dio lo guidava dall’alto dei cieli, posandogli sulla spalla una mano onnipotente. Il futuro primo presidente degli Stati Uniti conosceva ogni mossa avversaria, ogni schieramento nemico messo a punto durante le afose notti d’estate e qualsiasi strategia capace anche in minima parte di metterlo in difficoltà.
Dalla collina più alta all’infuori della città, Washington dirigeva le sue diciassettemila truppe all’assedio di Yorktown, ultimo caposaldo delle forze britanniche. Allearsi con i francesi era stato determinante, nell’abile piano del generale americano: gli uomini di LaFayette e quelli di Rochambeau avevano enormemente aumentato il numero totale dei soldati a disposizione della resistenza indipendentista.
-Generale Washington- disse un uomo alla sua destra, che si rivelo essere appunto Rocheambeau -Lord Cornwallis richiede un incontro con lei. Vuole patteggiare un armistizio.-
-Si arrendono, dunque? Hanno capito che opporsi alla volontà del Signore è inutile, allora. Dite ai soldati di interrompere l’attacco.-
Vimeur annuì, anche se non potè trattenersi dal riservare a Washington uno sguardo strano e dubbioso: in quegli ultimi giorni il generale gli era sembrato distante e freddo, come se un’altra entità avesse preso controllo del suo corpo. Non sembrava quasi più mangiare e passava tutto il tempo chiuso nella sua tenda. Vimeur giurò di averlo sentito parlare da solo, una notte,riguardo alla volontà di Dio che tutto osserva e dispone, ma aveva liquidato la questione dando la colpa all’ansia.
Lo guardò attentamente e notò che ora gli occhi di Washington brillavano di una luce dirompente.
-Andiamo,Vimeur- disse, con voce atona -andiamo a concludere questa guerra.-

***

-Siamo disposti a cedervi il controllo di metà delle colonie- disse Lord Cornwallis, lisciandosi i lunghi baffi -direi che è una proposta ragionevole, non trovate?-
I tre generali e il Lord sedevano alla tavola dell’ambasciata britannica, mentre fuori ancora aleggiava l’odore della polvere da sparo consumata durante la battaglia. Dieci guardie,armate di baionetta, stavano in piedi, ritte e solenni. Pronte a intervenire al minimo disguido.
-Metà delle colonie? E’ un insulto, Lord Cornwallis. E lo sapete.- disse Washington, alzandosi in piedi. I soldati ai lati della stanza imbracciarono le armi, all’erta. Lui vide nei loro occhi la stanchezza che li logorava: questa guerra aveva stancato tutti.
Tranne lui.
Perché George Washington aveva il Signore al suo fianco. Lui rappresentava la volontà di Dio sulla terra e doveva occuparsi che tutto andasse fatto come si doveva.
-Mi dispiace, ma queste sono le condizioni della Corona- esclamò Lord Cornwallis, per nulla turbato -se proprio non siete d’accordo, temo dovremo…-
Improvvisamente il generale americano che, un giorno molto vicino avrebbe preso il comando dell’America, ficcò una mano sotto la giacca: gesto che fece scattare sull’attenti le guardie, perché si ritrovò puntati addosso una decina di fucili Kentucky dall’impugnatura logora.
-Washington, ma cosa fa?! Non faccia sciocchezze, la prego!- lo implorò LaFayette, mentre Vimeur osservava la scena con occhi attoniti. Che diavolo, gli avevano offerto la resa su un piatto d’argento e aveva anche di cui lamentarsi?
-Suvvia, non siamo avventati. Venga, forse possiamo discuterne assieme.- Ora Lord Cornwallis sembrava spaventato, perché aveva visto…aveva visto la mano del generale americano muoversi sotto la giacca e…
D’un tratto, George Washington estrasse dalla sua elegante divisa un oggetto dalla forma sferica, dalla superficie dorata. Ma nessuno ebbe modo di esaminarlo più a fondo, perché una luce splendente invase la stanza pulsando come un cuore e paralizzando ogni persona presente. Le guardie fecero cadere a terra i fucili e stramazzarono al suolo, mentre una schiuma bianca colava loro dalla bocca.
-La mia volontà è la volontà di Dio, Lord Cornwallis- esclamò il generale, con una voce rimbombante e terribile. Gli occhi del povero Lord erano vacui, assenti, in mezzo a quel giallo accecante: sembrava essere ben lungi dal poter udire o dal riverire il suo interlocutore, che stava ora misurando la stanza coi propri passi.
-Ma poiché sono misericordioso, come Lui ci ha spesso insegnato ad essere, vi lascerò vivere. Ma voglio che l’Inghilterra non ficchi più il naso negli affari del popolo americano: d’ora in poi,vivremo secondo le nostre leggi. Andate a riferire questo alla Corona e portategli i miei saluti.-
La luce tornò da dove era venuta, e tutto tornò alla normalità.
Salvo che nessuno dei presenti si ricordò l’avvenimento. Al massimo, rimase loro la vaga consapevolezza di un’accecante luce dorata e di una piccola Mela gialla.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** La punta dell'iceberg. ***


Nella sua gelida follia, Adolf Hitler aveva tuttavia intravisto la prova tangibile dell'esistenza di Dio in quel manufatto così simile a una mela dorata. Poteva sentire pulsare la Sua essenza, la Sua coscienza, mentre faceva scorrere le tozze e grosse dita sugli indecifrabili simboli in rilievo lungo la superficie dell'oggetto.
Oh, aveva già potuto assaggiarne l'immenso potere. Gobbels e Himmler erano già sotto la sua influenza, affascinati dall'aura di mistero e potere che ora il Fuhrer emanava. Gli bastava sollevare la Mela dell'Eden per essere glorificato e servito.
E quell'ometto basso e baffuto aveva intenzione di non sprecare quell'opportunità, neanche per un attimo.
Hitler aveva scorto Dio in quella Mela, e ora avrebbe piegato quel potere al suo volere.
Il mondo era già suo. Bastava soltanto chiedere.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=972908