Cinque giorni nel Limbo

di GATTOSILVESTRO85
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Sofferenza ***
Capitolo 3: *** Direzione vendetta ***
Capitolo 4: *** L'antro oscuro del mostro ***
Capitolo 5: *** L'essenza del passato ***
Capitolo 6: *** Conto alla rovescia ***
Capitolo 7: *** Superpoteri ***
Capitolo 8: *** Il Ragnarock ***
Capitolo 9: *** L'involucro del dolore ***
Capitolo 10: *** Il vortice ***
Capitolo 11: *** Il Limbo ***
Capitolo 12: *** Il reale valore del tempo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Sindel galoppava da un’ora ormai, instancabile. Il sentiero sterrato, colmo di erbacce e pietre, proseguiva a spirale in un cilindro di rocce e terra che conduceva verso un baratro senza fine. Tutt’intorno, una miriade di gemme arcobaleno incastonate in pareti di terra e roccia, proiettavano schegge di luce ovunque.
 Tutto era perfettamente illuminato.
 Eppure Cloud non riusciva a scorgere nulla affacciandosi verso il basso, verso il fondo di quell’antro gelido e oscuro.
Aveva come la sensazione che fosse infinito.
Mentre si districava tra un’infinità di rocce sempre più alte si chiese quanto ancora avrebbero dovuto camminare per toccarne il fondo. Un’ altra ora? O forse più? In fondo non gli importava. Era preparato ad affrontare qualunque insidia, qualsiasi difficoltà si fosse trovato davanti. Perché adesso, costretto a vagare chissà ancora per quanto in quella bizzarra caverna , non aveva intenzione di sprecare di nuovo il suo tempo.
Aveva imparato a fidarsi, aveva imparato a dare valore al tempo che aveva.
Tuttavia, erano giorni che Seth non si faceva sentire e questo lo preoccupava.
 
26 Ottobre 2011,
ore 15:30,
Manhattan -Central Park.
 
 
“Jennifer…Jennifer noooooo!”
Quell’urlo squarciò il cielo settembrino scuotendo l’intensa coltre di nubi sopra la sua testa.
 Stava per piovere.
Cloud giaceva a terra, in ginocchio. Il corpo di lei, esile e pallido, avvolto in un fazzoletto d’erba rossastro.
La guardava con uno sguardo assente mentre una lacrima gli attraversava il viso lentamente. La prima lacrima di quel pomeriggio.
Poi l’urlo straziante delle sirene del 911, distrusse in un lampo quel silenzio perfetto. Perfetto perché Cloud potesse ricordarla in tutta la sua perfezione, perfetto per ricordare meglio il volto del bastardo che aveva premuto il grilletto. Era trascorso un quarto d’ora da quando Jennifer cadde al suolo priva di vita, e già le mancava infinitamente, come a una farfalla manca il suo ultimo e preziosissimo volo.
“Jennifer respira…Jennifer ti pregoooooo!”
La stringeva al petto più forte che poteva mentre urlava al cielo quelle parole disperate, sperando che riprendesse a respirare, che gli desse qualche segno di vita, ma niente. Il parco nel frattempo, si era trasformato in un teatro di urla e rumori del peggior film drammatico che avesse mai visto, il suo petto infuocato di rabbia e dolore.
In quel marasma di emozioni che stava provando, la vendetta prevalse su tutte. Era radicata nel groviglio impercettibile di sensazioni che divideva la soglia del dolore da quella della disperazione. Fu in quell’istante che comprese di non aver mai provato nulla di così forte e accecante al tempo stesso. Tuttavia era l’unica emozione capace di tenere ancora acceso quel barlume di vita che lo alimentava ancora.
L’ambulanza partì sgommando tra la folla di curiosi e passanti, la sirena, dall’interno, ancora più straziante. Cloud era inginocchiato al suo fianco, non l’aveva lasciata un attimo, le cingeva la mano più forte che poteva. Voleva fargli sentire che c’era. Non sapeva in che modo, ma sperava l’avrebbe aiutata.
Le lacrime continuavano a scivolare insistenti sul suo volto sporco di sangue e terra, le luci della città lo illuminavano a tratti attraverso il vetro dell’ambulanza scattando decine di fotografie indelebili nella sua mente folgorata da quello strazio. Fotografie di una Jennifer esanime, pallida, immobile, nonostante l’inutile tentativo dei paramedici di bloccare l’emorragia; le garze sterili zuppe di sangue premute sulla ferita.
Quando giunsero all’ospedale più vicino, Jennifer non c’era più, era già morta.
Fu in quell’istante, dove il tempo sembrò fermarsi e il mondo girare vorticosamente su se stesso, che Cloud comprese di essere morto con lei. Che quel bossolo maledetto avrebbe dovuto colpire lui, non lei. Avrebbe dovuto ascoltare le folli pretese del biondo bastardo invece di dargli contro e sbraitare e inveire contro di lui. Forse lei sarebbe ancora viva. Forse.
 E per cosa poi? Per cento dollari e qualche spiccio? Il solo pensiero lo stava già uccidendo.
Perché non lo aveva ascoltato? Perché?
Il senso di colpa non fece che aumentare in lui il groppo in gola. Iniziava a mancargli l’aria. Il respiro affannato e tremante.
Il bianchissimo corridoio in cui si trovava si fece sempre più lungo e sbiadito. La sagoma del dottor Clark iniziò a sfumare nei contorni, la testa a vorticare sempre più velocemente.
Poi il nulla.
Era svenuto.
 
 
La pioggia stava cadendo insistente al suo risveglio, come migliaia di aghi finissimi colpiva con forza l’ampia vetrata della sala d’attesa. L’aria era intrisa di alcool e sangue. A pochi metri dal divano su cui era disteso, giaceva la sagoma sofferente di un bambino con abrasioni sparse su ogni parte del corpo. Le sue urla lo riportarono immediatamente a quel tragico pomeriggio che aveva appena vissuto. Così si alzò di scatto levandosi di dosso la coperta di cotone che gli copriva le gambe fradice di sudore. Anche se era già settembre inoltrato, un caldo afoso e anomalo si faceva largo anche tra quelle mura, nonostante il condizionatore fosse ancora acceso dalla sera prima.
Prese il telefono dallo zaino, scorse i numeri della rubrica fino a fermarsi sulla lettera C: Clark Meson. Come avrebbe fatto a chiamare suo padre? A dirgli che sua figlia era morta e soprattutto che lui non era stato in grado di fare nulla per salvarla? Restò immobile sul nome, fissandolo e rifissandolo; sembrava sempre più calcato e vicino ai suoi occhi impregnati di lacrime.
Poi il display si spense, le palpebre si chiusero, l’ennesima lacrima solcò il suo viso, mentre un fulmine squarciò il cielo alle sue spalle illuminando il corridoio con un’intensa tonalità blu fluorescente.
 La sua ombra si spalmò per una frazione di secondo sul muro di fronte ai suoi occhi, ricordandogli quanto il mondo fosse privo di luce adesso che lei non c’era.
Il lampo che seguì racchiudeva in sé tutta la rabbia che Cloud aveva accumulato in quelle ore.
Pareva l’emblema di quella giornata. Come se anche il cielo, in qualche modo, stesse soffrendo, piangendo e urlando insieme a lui, al suo dolore.
Poi il volto dell’assassino si materializzò davanti ai suoi occhi, con la stessa espressione turbata di quel pomeriggio, quando in preda al panico, stava scappando verso uno Shakespeare Garden troppo bello per fare da sfondo a quell’orribile mostro: era il segno evidente che doveva trovarlo.
Trovarlo per lei, trovarlo prima che versasse altro sangue innocente.
Eppure c’era una voce dentro di lui che gli sussurrava dolcemente di non farlo, che dargli la caccia avrebbe soltanto peggiorato le cose. Era quasi tangibile nella sua testa, come se l’avesse già ascoltata prima. Divenne man mano più chiara, apparteneva alla donna che avrebbe amato per il resto della sua vita, apparteneva a Jennifer.
Tuttavia scosse la testa,  non perché non volesse concedersi al suo prezioso ascolto, ma perché non voleva carpirne il consiglio. L’ultima cosa di cui aveva bisogno in quel momento, era che il suo senso morale lo guidasse di nuovo verso la cosa giusta da fare. Non voleva essere guidato, semplicemente perché non voleva fare la cosa giusta. Questa volta aveva bisogno di sbagliare, di rompere i suoi stessi schemi morali che per anni lo avevano guidato.
Non sapeva se fosse la scelta giusta, sicuramente non lo era, ma in quel momento era l’unica cosa che lo faceva stare meglio.
I suoi occhi bramavano vendetta.

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Capitolo 2
*** Sofferenza ***


Merilyn varcò per prima la soglia dell’ampia porta di vetro scorrevole. Il suo volto racchiudeva un dolore che Cloud era riuscito solo lontanamente ad immaginare. Il signor Mason la seguiva in silenzio, l’impermeabile zuppo di pioggia.
Qualcun altro li aveva chiamati al posto suo.
Non sapeva cosa fare, se andargli incontro o restarsene lì, immobile. Ma in quel momento ogni scelta sembrava sbagliata e inappropriata, lui si sentiva inappropriato.
I tacchi della signora Merylin si facevano sempre più vicini, rimbombavano nella sua testa come il frastuono incessante di un martello pneumatico.
Per tutto il tempo, mentre li sentiva attraversare lentamente il lungo corridoio, Cloud aveva tenuto lo sguardo basso, non capiva bene il perché, ma forse per evitare di incrociare di nuovo quegl’occhi colmi di lacrime e rabbia.
Faceva troppo male.
Pochi secondi più tardi il signor Mason appese l’impermeabile verde cinabro all’appendiabiti vicino all’ingresso del pronto soccorso. Anche se aveva il viso grondante di pioggia e non poteva certo distinguere le lacrime dalle gocce d’acqua piovana, Cloud era certo che il signor Clark non stesse piangendo.
La sua espressione era quella di un uomo assente e rassegnato, ma allo stesso tempo consapevole di
aver perso tutto, o quasi.
Marylin lo seguiva disperata, il naso avvolto in un fazzoletto rosso cremisi, il viso deformato da una smorfia di dolore.
“Mi dispiace”, disse Cloud in un sussurro quasi impercettibile.
Mary – Cloud amava chiamarla in quel modo, lo faceva sentire uno di famiglia – alzò lo sguardo nella sua direzione guardandolo con un’ intensità tale da trasmettergli tutto il dolore che stava provando, un’ intensità che racchiudeva tutti i perché che non riusciva ad esprimere e ai quali  Cloud non avrebbe saputo rispondere.
Il signor Meson invece non lo degnò di uno sguardo passandogli accanto; camminava spedito verso la sagoma del dottor Clark che nel frattempo stava attraversando il corridoio dal lato opposto. In quell’istante Cloud comprese perfettamente chi aveva fatto quella telefonata che lui non ebbe il coraggio di fare un’ora prima.
Sentì un’altra lacrima, l’ennesima, graffiargli il viso mentre sguardo a terra ascoltava Merylin urlare alle sue spalle, i suoi pugni premuti contro il petto del dottor Clark. Le labbra presero a tremare, finalmente Cloud si mosse, ma non per raggiungere Merylin ma per scappare via il più lontano possibile.
L’aria all’interno dell’ospedale era divenuta irrespirabile.

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Capitolo 3
*** Direzione vendetta ***


Quindici giorni dopo
Manhattan – Yotel Hotel
Ore 15:30
 
 
Dieci minuti e cinquanta secondi, quarantanove, quarantotto, quarantasette.
Il timer del suo orologio digitale scandiva i secondi inesorabile, mentre Cloud, attento al suo lento incedere, teneva ben salda nella sua mano destra una quarantaquattro Magnum del 2001 tenuta in perfette condizioni. L’aveva comprata la settimana prima da Westside Rifle & Pistol Range, ma già sentiva di padroneggiarla come un Navy Seals esperto in ricognizioni e missioni di ogni genere.
Be’, quasi.
A dire il vero sembrava più un poliziotto alla sua prima settimana di addestramento: tutta teoria, zero pratica.
Ma Cloud di pratica ne avrebbe fatta eccome.; doveva solo attendere altri nove minuti esatti e si sarebbe finalmente reso conto di quanto aveva realmente appreso in quelle due settimane. Mancavano pochi minuti ormai, l’arma era stata caricata e scaricata più volte, la sicura azionata con cura, la fondina allacciata stretta sotto il giubbotto nero di pelle. Tutto era pronto.
Tutto tranne l’identikit di James Brown.
Sì, era quello il nome del biondo infame che aveva distrutto la sua vita per sempre. Ma aveva giurato a se stesso che la sua sarebbe stata l’ultima e che non avrebbe fatto più del male a nessuno, e quando Cloud aveva in mente qualcosa non c’era niente e nessuno che lo avrebbe distolto dal suo obiettivo, dalla sua preda.
Uno dei privilegi di avere uno zio in polizia era quello di poter accedere liberamente al database di tutti i pregiudicati lasciati a piede libero a New York.
 E se l’assassino di Jennifer abitava in zona, molto probabile, non ci sarebbe voluto molto a trovarlo.
Sarebbe bastato confrontare l’immagine che il ritrattista del New York Police Department aveva accuratamente abbozzato per lui seguendo le sue indicazioni, con quelli presenti nel database; prima o poi l’immagine del profilo che cercava sarebbe saltata fuori.
E con lui anche l’assassino…be’, lui nel vero senso della parola
 
 
27 Ottobre 2011
New York Police Department
Ufficio di Jack Offman
Ore16:00
 
 
MATRICOLA AXJ44482 – JERRY ROT – PRECEDENTI PENALI PER SPACCIO DI STUPEFACENTI, PROSTITUZIONE E VIOLENZA SU MINORI.
 
MATRICOLA AXJ443831 – ROBERT CAMERON – PRECEDENTI PER POSSESSO DI MATERIALE ILLECITO E FURTO D’ AUTO.
 
MATRICOLA AXJ44283 – CHRIS REINOLD – PRECEDENTI PER TRAFFICO D’ARMI, RAPINA A MANO ARMATA E PROSTITUZIONE MINORILE.
 
Chiunque avesse ammazzato Jennifer, doveva trovarsi in quell’ interminabile elenco, ne era certo. Tuttavia, per il momento, nessuno dei profili corrispondeva a quello che cercava, nessuno possedeva quei tratti somatici che ancora lo tormentavano dopo giorni. Quaranta minuti se n’erano andati tra una ricerca e l’altra. Nessun risultato. Il click frenetico del mouse faceva scorrere foto di criminali di ogni tipo: lupi feroci che mettevano paura solo a guardarli, altri travestiti da agnelli, truccati e cerati a dovere, ma a leggerne i profili forse anche più feroci e spaventosi dei lupi stessi. Una gabbia di mostruosità di cui aveva sentito parlare soltanto in televisione fino a quel momento.
“Torna indietro Jack” disse Cloud in un lampo, la sua infallibile memoria fotografica aveva captato qualcosa in quelle immagini che vedeva scorrere confuse sul monitor.
“Dimmi tu quando posso fermarmi, Cloud”, disse suo zio cliccando sempre più lentamente.
Pochi click più tardi, il lupo feroce dalla folta criniera bionda era finalmente spuntato fuori, e gli occhi di Cloud, assetati di vendetta, si accesero di una rabbia inumana che non lasciava presagire nulla di buono.
Persino Jack ebbe paura di quello sguardo.
 
10 Novembre 2011
Manhattan– Yotel Hotel
Ore15:39
 
Un minuto e quarantacinque secondi, quarantaquattro, quarantatre, quarantadue.
Mancava poco ormai allo scadere del conto alla rovescia. La borsa stracolma di munizioni.
Il fucile a pompa e gli uzi sistemati a puzzle dentro la custodia rigida della sua chitarra acustica.
Cliccò sull’immagine dell’identikit di James Brown per stamparla.
Adesso tutto era pronto.
Dieci, nove, otto, sette, sei, le due settimane stavano per giungere al termine ormai, ma Cloud aveva già riconsegnato la chiave della camera centosei quando il timer dell’orologio esaurì il suo lento countdown.
Dov’era diretto?
Non lo sapeva neanche lui con certezza. La bestia non aveva una tana, o almeno non trovò indirizzi nel database che aveva più volte analizzato.
Chi stava cercando?
James Brown. Alias: La Bestia.

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Capitolo 4
*** L'antro oscuro del mostro ***


Il motore della sua Mustang GT 500 del ’67 urlava al cielo tutta la rabbia sopita che Cloud aveva accumulato in quel breve periodo. Destinazione: Philadelphia per il momento.
È vero, la bestia non aveva una tana , ma i suoi cuccioli sì, e se James Brown possedeva ancora un briciolo di umanità, quanto meno per i suoi figli, sarebbe corso da loro il prima possibile.
E Cloud si sarebbe fatto trovare lì, ad attenderlo. Mossa scorretta, lo sapeva, ma se voleva catturare un mostro doveva imparare a ragionare come lui.
L’appartamento che cercava si trovava a nord di Philadelphia, nel quartiere Brewerytown, sulla 25th Street, sfondo del maggior numero di crimini mai registrato in quel breve periodo.
Ne aveva sentito parlare più volte nei notiziari:
Brewerytown: donna assassinata per poche centinaia di dollari;
Scoppia una guerra tra gang sulla Cecil B.Moore Avenue. Perde la vita un ragazzo coinvolto nella sparatoria.
Furto con scasso sulla 28th Street: rubati gioielli in una residenza privata.
Insomma, l’antro oscuro in cui il mostro abitava, e nel quale Cloud avrebbe dovuto addentrarsi, non era in fondo così diverso dalla grotta gelida che aveva sognato più volte in quelle notti.
Il sogno era ricorrente, nitido, quasi reale per l’intensità di sensazioni che sapeva lasciargli il giorno dopo, al suo risveglio.
Nel sogno c’è lui che cammina a spirale nell’antro di una grotta priva di luce e rumori. All’inizio i suoi passi sono lenti, cauti, come chi ha paura di un posto nuovo, inesplorato; prende coraggio ed inizia a districarsi tra le rocce di un sentiero stretto e buio. Ma poi un rumore alle sue spalle lo distrae, costringendolo a voltarsi di scatto in preda ad un improvviso attacco di panico. I suoi passi si fanno più veloci adesso, inizia quasi a correre.
Soltanto il calpestio della terra umida sotto i suoi stivali riecheggia in quell’insopportabile silenzio, un silenzio fatto di sensazioni di vuoto e paura che non aveva mai provato prima d’allora.
In alto solo un fioco spiraglio di luce gli da speranza, unico punto di riferimento al quale aggrapparsi, unica direzione possibile se non fosse riuscito a trovare nulla proseguendo verso quel baratro così attraente. Perché se c’era una cosa che riusciva a sentire quasi tangibile nonostante stesse sognando, era quell’irrefrenabile attrazione che lo spingeva, ogni passo di più, a proseguire verso quel vuoto senza fine.
Ma il sogno poi finiva, tutte le notti allo stesso modo, lasciando Cloud  con l’amara sensazione che quella grotta avrebbe avuto in serbo per lui qualcosa di diverso, di speciale in qualche modo.
 

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Capitolo 5
*** L'essenza del passato ***


Dopo due ore di traffico, era finalmente giunto a destinazione. La tana della bestia non era poi così piccola come pensava.
Fin da quando ne trovò l’indirizzo se l’era immaginata diversa: oscura, piena di ragnatele qua e là e con crepe ovunque. Non la casa di James Brown insomma, ma la tana della bestia. Tuttavia la piccola casetta a schiera che aveva davanti, incorniciata da un meraviglioso giardino in erba inglese perfettamente curato in ogni dettaglio, lo lasciò di stucco. Quella non poteva essere la casa di James Brown. Nel torpore di grigi e bianchi sporcati di fango e terra che facevano da sfondo al quartiere, quella casa si distingueva dalle altre per via dell’accesa tinta rossastra con la quale erano state dipinte tutte le pareti esterne. Le finestre incorniciate da frammenti di pietra grezza, le balconate stracolme di fiori e piante rampicanti. Era insolita per quel quartiere, insolita per il mostro che vi abitava.
Come poteva permettersi un tale lusso? Quante vite distrutte per colpa sua? Sicuramente quella di Jennifer sarebbe stata l’ultima. Sogghignò tra sé e sé pensando all’attimo in cui avrebbe stretto tra la mani il suo collo tozzo e peloso. Ebbe paura dei suoi stessi pensieri in quell’istante.
La grondaia in rame che volgeva sul lato destro della casa saliva dritta al secondo piano, su una delle balconate in ferro battuto lavorate a motivi floreali. L’avrebbe usata per salire sul tetto, sbirciare attraverso l’ampio lucernaio semi aperto ed osservare la bestia non appena fosse rientrata.
In ogni caso non lo stava aspettando per ucciderlo – almeno non per ora – ma solamente per accertarsi che fosse lui, che non avesse sbagliato indirizzo. Non gli avrebbe torto un capello davanti ai suoi figli, perché se da un lato aveva imparato a pensare come lui, dall’altro sapeva perfettamente di non dover mai varcare la soglia che lo avrebbe trasformato di fatto nel mostro che stava cercando. Prima di arrampicarsi si guardò attorno, furtivo, voleva accertarsi che nessuno lo stesse guardando. Sembrava tutto tranquillo a quell’ora, a parte il lamento di un cane a pochi isolati di distanza. Erano da poco passate le nove di sera.
Il cielo era terso, l’orizzonte bluastro sporcato soltanto da sottilissimi lembi di nuvole.
Due minuti dopo, Cloud era sul tetto, sdraiato, l’aria frizzante della sera gli accarezzava dolcemente il viso e sfiorava i capelli, il suo sguardo fisso sulla camera da letto sottostante. Nessuno sembrò essersi accorto della sua presenza.
L’aria calda che fuoriusciva dalla fessura del lucernaio era piacevole e profumata, ma c’era qualcosa di strano in quell’odore. Ebbe come la sensazione di non aver mai annusato nulla di simile in vita sua, come se l’essenza di un fiore, di una candela appena spenta, del miele, del mare, di una giornata di pioggia, di menta e fragola, d’arancia e limone, pesca e albicocca, e centinaia di altri odori familiari, fossero concentrati in un unico elisir inebriante capace di riempire i suoi sensi di tutto ciò di cui aveva avuto bisogno nella sua vita.
Ogni volta che ne inalava una dose i suoi pensieri correvano al passato, al caminetto del piccolo appartamento a Manhattan che lui e Jennifer avevano acquistato due mesi prima, alla sua famiglia nel New Jersey che sicuramente era in pensiero per lui, al suo carissimo amico Adam al quale non aveva detto nulla. Tutto era così nitido da far paura, tutto attraversò i suoi pensieri nel battito d’ali di una farfalla, ma con la forza di un uragano.
Quando espirò, invece, si ritrovò di nuovo sul tetto, nel mondo reale, nel mondo costruito soltanto con i mattoni del suo immenso dolore. Ogni volta stava più male della precedente, fin quando il rombo di un auto riportò la sua attenzione al vero motivo che lo aveva spinto a scalare quella grondaia. Il dolore era scomparso. La rabbia no.
Forse era James che stava finalmente tornando casa, o magari si trattava soltanto dell’ennesima auto che aveva visto passare quella sera.
Ancora pochi istanti e lo avrebbe scoperto.
 

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Capitolo 6
*** Conto alla rovescia ***


Da quell’altezza non poteva distinguere chiaramente il volto dell’uomo che aveva appena attraversato la strada, ma il suo andamento era confuso, frenetico, agitato, come chi sta scappando da qualcosa, o da qualcuno. L’uomo si stava dirigendo proprio verso la sua direzione, le mani in tasca, il viso coperto dalla visiera di un cappello da baseball. Trenta secondi dopo, il trillo del campanello di casa Brown fece strisciare nuovamente Cloud verso il lucernaio.
Doveva essere pronto, vigile, perché se quell’uomo era James, e se quella che stava osservando era la sua camera, di lì a poco avrebbe di nuovo guardato in faccia l’assassino della sua amata Jennifer.
Stava aspettando quel momento da giorni. Lo bramava ardentemente.
Ma erano già trascorsi venti minuti e la luce della camera era ancora spenta.” Magari non si trattava di James, ma di una semplice visita” , pensò Cloud mentre osservava il riflesso del suo viso sul vetro lucido del lucernaio. Qualche istante dopo, lo vide svanire sotto i suoi occhi ondeggiando sempre più e deformando il suo viso fino a svanire quasi del tutto; strizzò le palpebre, pensando che forse la stanchezza stava giocandogli brutti scherzi – non dormiva da giorni ormai – ma l’immagine restò così com’era, ondulata, imprecisa nei contorni. Non era quasi più lui, ma bensì uno schizzo di colori deboli e pallidi sporcati dal riflesso di un insegna al neon alle sue spalle.
Fu in quell’istante, in cui il tempo sembrò fermarsi e uno strano silenzio piombare su tutto il quartiere, che Cloud udì per la prima volta quella voce. Una voce sibilante e sinistra che non lasciava presagire nulla di buono, una voce in grado di imporsi prepotente e assordante sui suoi pensieri reclamando la sua attenzione.
 
Quattro giorniiii, due oreee, ventisssette minutiiiiii, il tempo sssta per giungere al termine Cloud!”, disse lentamente, quasi sogghignando.
Costrinse Cloud a massaggiarsi le tempie con i pollici per tentare di alleviare quel dolore pungente che lo costringeva a starsene lì, rannicchiato a terra. Era come ascoltare il rumore acuto e infernale di centinaia di unghie graffianti su un vetro. Faceva troppo male. Stranamente, anche se aveva smesso di parlare, quel frastuono continuò a ondeggiare nella sua testa per minuti, interminabili, spietati, pungenti.
Poi d’improvviso cessò, ogni cosa stava iniziando a tornare normale, il suo riflesso a ricomporsi, i suoi pensieri a tormentarlo, ogni piccolo rumore al suo posto, e quando il mal di testa si affievolì Cloud non poté specchiarsi di nuovo sul vetro del lucernaio perchè la luce della camera era accesa.
Non sapeva esattamente da quando, ma era accesa. La stanza però era vuota. Una maglia dei New York Yenkees e un paio di jeans poggiati disordinatamente sul letto, il rumore dell’acqua della doccia appena udibile.
Poi un bambino dai folti capelli biondi attraversò di corsa la stanza tuffandosi nell’ampio letto matrimoniale come un delfino.
“ David, vieni subito giù, quante volte ti ho detto di non alzarti da tavola prima di aver finito!”, disse una donna urlando.
“ Ma mamma…ho quasi finito tutto!” disse il bimbo in un lamento.
“ Appunto, quasi…vieni subito giù, forza!”
“Lascia stare cara, ci penso io. David sta aspettando me, vero?” replicò una voce maschile, dolce e familiare al tempo stesso.
“ Sìììììììììì, papàààà!” disse il piccolo in un urlo di gioia. Poi corse veloce ad abbracciarlo.
“ David no, l’accappatoio e zuppo!”.
“ Non ti preoccupare papà…mi sei mancato”, sussurrò David.
“ Mi sei mancato anche tu piccolo mio”, l’uomo si tolse il cappuccio, i lunghi capelli neri legati con un elastico verde.
 Cloud era sempre fermo lì, guardava la scena commosso, ma allo stesso tempo sorpreso e irritato. Com’era possibile? Eppure era certo che l’appartamento fosse quello, non poteva aver sbagliato indirizzo.
James doveva abitare lì, punto, semplicemente perché non sapeva dove altro cercarlo.
Tuttavia quell’uomo aveva i capelli neri, e questo “piccolissimo” particolare stava rovinando tutti i suoi piani per il momento.
Sconsolato prese il suo borsone, se lo mise in spalla e si alzò furtivo per cercare un altro appiglio dove scendere. Dal balcone non poteva, non adesso che c’erano loro, lo avrebbero visto di sicuro.
Niente lì attorno, soltanto un albero, ma troppo distante. L’unica soluzione era aspettare che se ne andassero e scendere dalla stessa grondaia che gli aveva permesso di arrampicarsi. Doveva chiamare suo zio Jack in fretta per accertarsi che l’indirizzo fosse quello. C’era una cabina telefonica sull’altro lato della strada: doveva raggiungerla.
 
Da quando Jennifer era morta, aveva imparato ad essere paziente, ad attendere il naturale corso degli eventi senza forzarne il flusso. Un grande passo avanti per lui, una passo quasi forzato, dettato dal destino,  perché se voleva avere qualche chance di catturare la bestia doveva esserlo per forza, come un cacciatore lo è con la sua preda. Ma purtroppo per lui, la sua preda non era lì.
Di nuovo sdraiato si ritrovò ad osservare la stanza. L’uomo adesso era quasi vestito, sdraiato sul letto. Il piccolo David, a cavalcioni sulla sua pancia ricoperta di tatuaggi, giocava con i lunghi capelli del padre. Fece per sistemarli all’indietro, quando la bocca di Cloud si contrasse all’improvviso in un orribile ghigno.
Di nuovo quell’espressione eccitata stampata sul volto, era la stessa ogni volta che lo vedeva, nei suoi sogni, nella realtà.
Perché nascosta tra quella folta pelliccia, che James aveva pensato bene di tingere, era nascosta la prova indelebile che stava cercando da giorni: la bestia poteva cambiare look, potava cambiare il colore dei suoi capelli, ma non il suo volto, non quell’indimenticabile cicatrice che dall’estremità dell’occhio destro attraversava tutto il suo viso diafano fino a raggiungere la base del collo.
Cloud aveva appena ritrovato la bestia, e questa volta non se la serebbe fatta scappare per nulla al mondo.
 

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Capitolo 7
*** Superpoteri ***


Finalmente la luce della camera si spense. Adesso poteva tranquillamente aspettarlo in macchina e schiacciare un pisolino, aveva bisogno di riposare. Ma non scese subito dal tetto perché in qualche modo, stare lì,  a soli venti metri da terra, lo faceva sentire un po’ più vicino a lei, a quel cielo stellato che certamente aveva riservato un pochino di spazio anche per Jennifer. Stette ad osservare il cielo per mezz’ora, assorto nei suoi pensieri, nei suoi ricordi, nella sua vita passata che ogni tanto tornava a fargli visita regalandogli chimerici sprazzi di felicità.
Prese il suo zaino e lo adagiò sulle tegole a mo’ di cuscino; non sapeva quanto ancora sarebbe rimasto ma voleva starsene comodo, almeno per un po’, a guardare le stelle pulsare, a guardare lei.
Ma non appena poggiò la testa a terra rendendosi conto di quanto fosse scomodo quello zaino, un tonfo improvviso lo fece sobbalzare costringendolo d’istinto ad affacciarsi lungo il bordo del tetto.
Era James, con il suo solito cappello da baseball, che si apprestava a grandi passi a raggiungere la sua auto.
 
 
Ma dove diamine stava andando a quell’ora di notte?  Addio il suo pisolino. Addio cielo stellato.
James aveva già acceso l’auto e ingranato la prima mentre Cloud, colto di sorpresa, stava cercando di rialzarsi da terra inciampando tra una tegola e l’altra. Non poteva permettersi di perderlo ancora, non adesso che era così vicino; raccolse di corsa lo zaino, fece un respiro profondo e senza pensarci minimamente saltò giù dal tetto piombando nel giardino sull’estremità opposta dell’appartamento. Nella frazione di secondo che precedette il lungo salto Cloud riusciva a pensare soltanto alla sua preda, che non ce l’avrebbe mai fatta a raggiungere James se si fosse calato dalla grondaia. Ci avrebbe impiegato troppo tempo. Tutte le sue paure e insicurezze erano improvvisamente scomparse.
Ma come diavolo gli era venuto in mente? Saltare da quel altezza, poi.
Il giardino nel quale piombò fu ridotto ad un cumulo di terra e fili d’erba sparsi qua e là, al centro l’enorme fossa nella quale giaceva non fece altro che ricordargli la pericolosità del suo gesto.
Chino a terra, con fili d’erba tra i capelli e terra sui vestiti, pensò che non ce l’avrebbe mai fatta a rialzarsi, che la bestia sarebbe scappata per sempre portandosi via l’unica occasione che aveva avuto di vendicare una volta per sempre Jennifer.
Contro ogni probabilità invece,  si alzò da terra con la stessa facilità di un atleta che aveva appena effettuato il suo salto: sporco sì, ma senza neanche un graffio. Non accusava dolori da nessuna parte, le ossa perfettamente intatte. Si sentì invincibile in quell’istante, come un supereroe pronto a salvare chiunque da qualsiasi pericolo; e questa sensazione, quasi eterea, non fece altro che aumentare in lui la consapevolezza che dopotutto, dopo ogni difficoltà, avrebbe finalmente messo la parola fine a questa triste vicenda.
Ma doveva sbrigarsi, James aveva appena svoltato l’angolo.

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Capitolo 8
*** Il Ragnarock ***


L’auto partì al primo colpo, era stato fortunato. Spesso faceva fatica a mettersi in moto. Ma non adesso, perché la sua Mustang non lo aveva mai tradito nelle occasioni importanti. Come poteva abbandonarlo adesso?
Quando svoltò l’angolo, la muscle car rosso porpora di James si trovava a una ventina di metri dalla sua, bloccata nel traffico. Si avvicinò lentamente, per non dare troppo nell’occhio, la prima ancora ingranata. Sapeva che James era al corrente di essere seguito, magari non immaginava fosse proprio lui a seguirlo ma qualcosa intuiva, quindi doveva porgere maggiormente attenzione se voleva prenderlo.
Così mantenne distanza e velocità costanti mimetizzandosi perfettamente tra le auto che lo precedevano.
Quella notte, la ventottesima era stracolma di taxi, ne aveva cinque davanti e due dietro, per non parlare di quelli che precedevano la macchina di James, tanto che il grigio canna di fucile della sua Mustang  stonava in quel trionfo splendente di gialli.
Ma c’era un'altra tonalità di giallo che non doveva assolutamente trascurare: quella della spia fissa della riserva.
Autonomia: cinquanta miglia o poco più.
Frizionando come stava facendo da oltre dieci minuti: anche meno.
 James era cauto nella guida, sembrava quasi rilassato a vederlo da quella distanza, quasi una persona normale.
Quasi.
“ Chissà se la sua famiglia sapeva. Se conosceva soltanto James o anche la bestia che albergava nella sua anima”, si chiese Cloud tra sé e sé mentre guidava. Sicuramente suo figlio David conosceva soltanto il suo dolce e caro papà James. Altrimenti come avrebbe potuto abbracciarlo in quel modo? Povero piccolo.
Da quando suo padre aveva commesso quell’atroce delitto, Cloud aveva sperato con tutte le sue forze che James non avesse una famiglia, né tantomeno dei figli, perché non era giusto che loro soffrissero come stava soffrendo lui adesso.
Purtroppo per loro però, non poteva garantirgli nulla, perché non era più il Cloud di un mese prima; francamente non sapeva neanche come avrebbe reagito quando se lo sarebbe trovato davanti.
Lo avrebbe ucciso? Torturato? Consegnato alle autorità? Non sapeva dare una risposta a nessuna di queste domande, e questo lo spaventava.
L’unica cosa che poteva dire con certezza era che ogni volta che ci pensava, una parte della sua anima si trasformava in qualcosa di diverso e orribile piombando in un oscurità così tetra da oscurare qualunque altra emozione stesse provando.
James svoltò nuovamente a destra, all’incrocio. Cloud lo seguiva attento, pochi isolati dopo accostò sulla destra e scese dall’auto.
Il locale verso cui era diretto aveva un nome singolare e sinistro rimarcato da un insegna al neon verde lampeggiante con alcune lettere fulminate: Il Ragnarock.
Che nome singolare!”, pensò.
Cloud non sapeva cosa fare, se seguirlo o starsene lì ad aspettare.
Immobile, nascosto tra le ombre, restò semplicemente lì ad ascoltare.
Era mezzanotte e tutto sembrava tranquillo.

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Capitolo 9
*** L'involucro del dolore ***


James si avvicinò di soppiatto verso l’entrata del Ragnarock bussando più volte alla porta principale ma senza ottenere risposta, così si intrufolò nel vicolo sulla destra, che correva perpendicolare alla strada principale.
Qualcuno lo stava già aspettando lì, i fari di un auto di lusso puntati dritti verso di lui.
L’ombra di James era spalmata in direzione di Cloud che, nascosto dietro un albero, stava osservando tutto.
“James, James,James…vedo che il lupo perde il pelo ma non il vizio, così sfidi la mia pazienza, e sai quanto è rischioso, vero?”, disse l’uomo pacatamente, un forte accento siculo temprava la sua voce rauca.
“Ho avuto un contrattempo Phil, mezzo dipartimento di New York mi è alle costole”, biascicò James in un sussurro appena udibile.
“ Che cosa hai combinato stavolta Jam, non vorrai dirmi che….?”, i suoi scagnozzi lo fissavano in cagnesco, armati fino al collo.
“ No Phil, la tua roba è al sicuro, consegnata tre giorni fa”.
“ Bene, allora cosa c’è che non va, a parte il tuo PICCOLO debito da saldare ovviamente?”, il tizio fumava un sigaro con disinvoltura, indossava un abito gessato nero e una bombetta stile Charlie Chaplin piegata su un lato. Un tipo singolare.
“L’ho combinata grossa Phil…”, James si asciugò la fronte con la manica della felpa, con l’altra sistemava nervosamente la visiera del suo cappello.
“Vai avanti James, non ho tutta la notte”, disse l’uomo soffiando via una nuvola di fumo.
“ Ti ricordi dei cinquemila dollari che ti dovevo?”.
“ Certo, mi ricordo, ma vedo che sei ancora a mani vuote. Come devo fare con te Jam? ”.
“ Te li porterò Phil, ti chiedo solo altro tempo, la polizia mi sta cercando e se mi prende, addio denaro, giusto?”.
“ Giusto Jam, ma cosa ci guadagno io ad aspettare?”, con uno schiocco veloce di dita gli scagnozzi alzarono di colpo i fucili.
“  Cinquemila in più, che ne dici, Phil? Mi sembra onesto”.
“  Onestissimo James, ma la prossima volta vedi di non deludermi, ok?”, disse l’uomo puntando il suo bastone appuntito contro James.
“ No Phil, non ti deluderò”.
“ A proposito, che cosa hai combinato stavolta per far incazzare gli sbirri in quel modo?”, disse l’uomo quasi divertito mentre si apprestava a salire in macchina.
“ Ho ammazzato due ragazzi un mese fa Phil, una coppietta indifesa che passeggiava vicino lo Shakespeare Garden, a Central Park”, disse con tono disperato.
“ Pessima mossa Phil…pessima…vedi di non farti beccare è!….Almeno, prima di avermi restituito i dieci mila”.
“ Parola d’onore Phil”.
“ Per quello che vale…”, sussurrò il tizio prima di rientrare in macchina e allontanarsi in retro marcia verso la strada parallela.
Quindi la bestia aveva ammazzato altri due poveri innocenti oltre la sua amata Jennifer?”, dedusse Cloud ancora nascosto dov’era. Se prima era indeciso se ucciderlo oppure no adesso ne era certo, doveva eliminarlo, ne valeva della vita di troppe persone adesso.
James stava tornando verso l’auto scuotendo impercettibilmente la testa e massaggiandosi le tempie.
A quell’ora di notte il quartiere era semideserto, solo qualche gatto che rovistava tra la spazzatura e latrati di cane troppo distanti.
Era l’occasione perfetta per fare fuoco, per mettere fine a tutte le sue sofferenze.
Doveva solo avvitare il silenziatore alla sua quarantaquattro Magnum e il gioco era fatto.
Un mese prima non sapeva neanche cosa fosse un silenziatore, adesso lo maneggiava con la disinvoltura di un killer professionista.
Ma cos’era diventato?
Si poneva questa domanda ogni giorno, ogni minuto, ogni interminabile secondo, ma la risposta che ne traeva era sempre la stessa: senza di lei era soltanto un involucro senz’anima, pieno di dolore e rabbia, perché la sua, d’anima, era rimasta ancorata lì, insieme a lei, quel fatidico sei ottobre.
E in quell’istante, fatto di flashback continui che lo riportarono a Jennifer, alla sua famiglia, ad Adam, al signor Meson, a Marylin, al suo ultimo compleanno dove aveva invitato tutti loro, e al giorno in cui li perse per sempre in un millesimo di secondo, che quell’involucro esplose in migliaia di minuscoli frammenti.
E tutta la rabbia, il dolore, la disperazione, l’odio, il rancore intrappolati al suo interno, seguirono la scia del proiettile fino a raggiungere la bestia.
Cloud aveva appena premuto il grilletto.

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Capitolo 10
*** Il vortice ***


Chiuse gli occhi un attimo prima che il proiettile colpisse James, voleva godere a pieno di ogni istante, odore e rumore di quel momento. Voleva imprimere nella mente ogni sensazione che stava provando per poterla descrivere a Jennifer quando l’avrebbe rivista.
Perché ne era certo, prima o poi l’avrebbe abbracciata di nuovo, baciata di nuovo, assaporato il dolce profumo della sua pelle e l’odore di camomilla che lo inebriava ogni volta che l’aveva affianco.
Prima di riaprirli però fu colpito dallo stesso dolore lancinante che aveva provato sul tetto la sera prima, mentre aspettava James. Sembrava perfino più intenso adesso.
Poi di nuovo quella voce, di nuovo quel graffiante sibilo, di nuovo quel senso di vuoto disarmante che lo costrinse ad inginocchiarsi a terra privo di forze.
 
Un giornooo, due oreee, ventssseiiii minutiiii Cloud…dipende tutto da te adesssso!”
 
Il viso di Cloud contratto in una smorfia di dolore, i muscoli tesi e la pelle sudata.
“ Bastaaaaaaaaaaaa, ti prego”, ingoiò a fatica poi aggiunse: “ Chi sei? Che cosa vuoi da me?”
Rimpianse di avergli posto quelle domande, perché aveva paura di ascoltare di nuovo quel sibilo. Faceva troppo male.
 
 
Quando la voce scomparve Cloud giaceva a terra, vicino l’auto di James. Non aveva mai provato un dolore così forte in vita sua, tale da distorcere perfino i suoi sensi, la sua vista. In quell’istante infatti, gli parve di vedere la bestia guardare verso di lui, sorridergli, e allontanarsi sgommando, lasciandolo lì, in ginocchio, ad osservare il cielo terso che d’improvviso si colorò di un rosso cremisi quasi accecante.
Ma come era possibile? Cosa stava succedendo? Era certo di aver ucciso James. Eppure Cloud era fermo lì, immobile, ad osservarlo scappare, a respirare l’intensa zaffata di plastica bruciata generata dai suoi pneumatici. Doveva seguirlo, doveva trovare la forza di rialzarsi e ucciderlo….di nuovo.
Magari l’aveva mancato prima. Ma come poteva averlo mancato da quella distanza? Impossibile. Eppure era lì che scappava.
Accese in fretta la Mustang e partì anche lui sgommando. James aveva qualche minuto di vantaggio, Cloud un giorno, due ore e poco meno di venti minuti per ucciderlo.
Ucciderlo davvero stavolta, senza chiudere gli occhi e aspettare che il proiettile facesse il resto del lavoro.
Se non fosse stato per quell’insopportabile voce che ogni tanto sentiva il bisogno di martellare nella sua testa, si sarebbe subito accorto di averlo mancato, rimediando al suo sbaglio ancor prima che James mettesse in moto la macchina. E cosa ancora peggiore, aveva perso di vista James.
Dov’era diretto adesso?
Aveva svoltato a destra? A sinistra? Oppure aveva proseguito dritto?
Dalla sua Cloud aveva il trentatré virgola tre percento di azzeccare la direzione giusta.
Purtroppo per lui però, ogni volta che si era trovato davanti ad un bivio in vita sua, aveva sempre scelto quello sbagliato.
Provò a riflettere ad alta voce provando almeno ad escludere una delle tre alternative: “Pensa Cloud, pensa”,bisbigliò a se stesso, i pollici premuti sulle tempie.
“ James non può aver tirato dritto, perché se l’avesse fatto l’avrei ancora a tiro, giusto?”, la domanda suonava più come un autoconvincimento.
Il lungo rettilineo davanti ai suoi occhi proseguiva per chilometri immerso in un fitto quartiere residenziale colmo di villette a schiera e monolocali. Se James fosse andato da quella parte di sicuro stava ancora percorrendo quella strada, ma in lontananza nulla, solo un gatto sdraiato sul cofano di una jeep. Tutto taceva.
Erano anni che non vedeva quelle strade così vuote. Dov’erano finiti tutti?
Da una parte era meglio così, almeno poteva concentrarsi meglio su James, senza tutto quel traffico che solitamente animava quelle strade.
Tra le due opzioni che gli restavano scelse quella più ovvia, quella che anche lui avrebbe scelto se si fosse trovato al suo posto.
La ventottesima era la strada migliore per scappare, aveva tre corsie di canalizzazione, e a quell’ora del mattino era semideserta, quindi scelse di svoltare a sinistra, ripercorrendo a ritroso lo stesso tratto di strada della sera prima.
Era diretto nuovamente verso l’appartamento di James.
Il sole faceva capolino tra gl’alti palazzi sfiorandogli dolcemente il viso.
Non era preoccupato per aver perso James, ma per il poco tempo che gli restava.
E se non fosse riuscito a trovarlo entro le ventisei ore che gli restavano? Che cosa sarebbe successo?
Adesso iniziava quasi a dare un senso a quella strana voce, perché se da un lato cercava di auto convincersi che fosse soltanto frutto della sua immaginazione, dall’altro, il dolore che provava ad ogni suo assordante sussurro lo costringeva a dargli un peso diverso, gli ricordava quanto fosse reale.
Uno strano brivido gli attraversò la schiena al solo pensiero di doverla ascoltare di nuovo.
Era appena arrivato nei pressi di casa Brown, ebbe come l’impressione di averci impiegato meno tempo a raggiungerla. Eppure aveva percorso esattamente la stessa strada della notte prima. Un silenzio sinistro aleggiava nell’aria, la strada deserta rimandava l’eco dei suoi passi sull’asfalto, ma Cloud decise di ignorarne il ritmo per concentrarsi unicamente su l’immagine scioccante che si trovò davanti non appena alzò lo sguardo da terra. Gli occhi sgranati per la paura e lo stupore.
La casa della bestia, che poche ore prima si mostrava in tutta la sua bellezza, era ridotta adesso ad un cumulo di macerie sparse ovunque su tutto il quartiere.
Al suo posto, un vortice d’aria colmo di detriti e terra, scagliava pezzi di cemento e fango ovunque rendendo l’aria irrespirabile e satura di polvere.
Fece per avanzare a piccoli passi, la manica del giubbotto di pelle premuta sulla bocca, quando quella spirale di polvere iniziò a placarsi lentamente fino a spegnersi pochi secondi più tardi in un esile soffio.
Tutti i detriti che conteneva caddero a terra come pesantissime gocce di pioggia e il tonfo sordo che ne seguì fu così forte da costringere Cloud a voltarsi di schiena per paura di essere travolto dalla potentissima onda d’urto.

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Capitolo 11
*** Il Limbo ***


Il quartiere era avvolto da una coltre di polvere impenetrabile.
Cloud camminava lentamente in direzione del vortice, verso i resti di quella che solo la sera prima era la casa di James.
I suoi pensieri corsero improvvisamente al piccolo David, alla sua espressione commossa nell’abbracciare un padre che ai suoi occhi era il migliore che un figlio potesse desiderare.
“Povero piccolo”, pensò Cloud, il viso contratto in una smorfia di dolore.
Iniziò a chiamarlo a gran voce sperando che stesse bene, che non gli fosse successo nulla, che fosse riuscito a fuggire prima che la casa crollasse.
“ DAVID, DAVIIIID”, le sue urla riecheggiavano in tutto il quartiere.
Era la prima volta, da quando era morta Jennifer, che si preoccupava per un’altra persona che non fosse James. Per un attimo tornò il Cloud d’un tempo.
Qualcun altro rispose al posto di David:
 
 
“ Tempo ssscaduto Cloud, è ora di andare”.
 
 
Di nuovo quella voce, ma come era possibile? “Troppo presto!”, pensò. E perché non sentiva dolore adesso? Ebbe quasi la sensazione che il sibilo fosse più vicino, che provenisse dal vortice che stava provando a raggiungere, ma anche se si sforzava di guardare tra la fitta coltre di polvere non riusciva a scorgere nulla al suo interno.
Poi di nuovo quel sibilo, la prova concreta che chiunque stesse parlando si trovava proprio lì, vicino a lui.
“Fatti vedere!”, urlò Cloud mentre continuava ad avanzare.
Nessuno rispose.
“Vieni fuori se hai il coraggio!”.
Tutto taceva. Riusciva perfino a scandire ogni singolo battito del suo cuore immerso in quel silenzio surreale.
“Vieni fuori James, so che sei tu, basta scherzare”.
 
 
“Non sssono James, Cloud, ma posssso essere chiunque tu voglia, basta sssolo chiedere e ogni tuo desssiderio sarà essaudito”.
 
 
“Davvero posso chiederti qualsiasi cosa?”, chiese Cloud sarcastico e con un velo di scetticismo nella sua voce tremante.
 
 
“Certamente Cloud, chiedi pure”, rispose l’uomo per la prima volta gentile e un po’ meno sibilante.
Era la prima volta che rispondeva a una sua domanda. Strano.
 
“ALLORA….VOGLIO. CHE. TU. UCCIDA. JAMES. BROWN.”, disse Cloud in tono di sfida. Non gli credeva e voleva vedere fino a che punto sarebbe arrivato.
La voce non disse nulla stavolta.
Quelle furono le sue ultime parole prima che ogni cosa intorno a lui si dissolvesse sotto i suoi occhi increduli esplodendo in migliaia di frammenti colorati.
Tutto era scomparso, l’orizzonte inghiottito da un bianco accecante che non aveva mai visto.
A una decina di metri dalla sua posizione, la sagoma di un uomo girato di spalle era l’unica cosa visibile in quell’universo atono e privo di colori.
“Chi sei?”, la sua voce risuonò nell’immensità di quel nulla senza fine come se si trovasse all’interno di una normalissima stanza. Innaturale. Ma ci aveva fatto l’abitudine in quei giorni. Non era la prima cosa strana che gli era capitata di vedere: contro ogni probabilità aveva imparato a padroneggiare un’arma, era riuscito a saltare giù da un tetto senza neanche farsi un graffio, per non parlare poi di quella voce assordante che lo aveva tormentato per giorni, della casa di James distrutta da quello stranissimo vortice, e dell’enorme stanza incolore nella quale si trovava adesso.
Doveva essere un sogno, per forza. Oppure, stava impazzendo.
Si avvicinò cauto alla sagoma dell’uomo.
“Sto parlando con te, CHI SEI? E cos’ è questo strano posto?”, disse Cloud con un’arroganza che non gli apparteneva. Non era più lo stesso da quando…ormai non riusciva neanche più a pensarci. Era come se stesse cercando inconsciamente di rimuovere ogni ricordo legato a quel giorno.
 
 
 
“Non ha importanza chi sssono, ma chi sei tu. Cosssa sei diventato Cloud”, di nuovo quella voce. Ma almeno adesso ne conosceva l’origine e soprattutto non accusava alcun dolore nell’ascoltarla.
“Come fai a sapere il mio nome?”, rispose sbigottito.
“Ssso molte più cossse di quanto immagini, Cloud”, replicò pacatamente.
“Spiegami allora, sono tutto orecchi”, disse con arroganza.
Tuttavia la voce sembrò ignorare la sua risposta, replicando con un'altra domanda.
“Perché hai ssssprecato i cinque giorni che ti sono stati concessi, Cloud?”.
“Ma di cosa parli?”.
Lo sssai benissssimo Cloud, ooo sssì che lo sssai!”, disse divertita.
Improvvisamente il volto di Cloud si accese. Aveva già ascoltato quella voce, ma adesso, vicina com’era sembrava diversa, quasi reale in qualche modo.
“Allora eri tu?”, chiese confuso. Fissava l’uomo incappucciato stupefatto. “Eri tu quella sera sul tetto, a Philadelpia, eri tu al Ragnarock, e anche pochi minuti fa, prima che tutto scomparisse e venissi catapultato qui…chi sei?”, adesso l’arroganza era scomparsa facendo spazio a un sincero interesse, anche lo scetticismo era sparito.
“Ssse proprio ci tieni…”, seguì un lunghissimo attimo di silenzio, sembrò durare un’infinità; anche se il concetto di tempo, così come Cloud lo conosceva, sembrava non esistere in quel luogo,  ebbe come la sensazione che fosse passata un’ora o forse due, non lo sapeva con certezza. Poi l’uomo aggiunse, con un sussurro potente come centinaia di urli: “ sssono Sssssseth”, disse l’uomo voltandosi lentamente, “ il traghettatore d’anime…e sssono venuto a prenderti Cloud”, una lunghissima barba appuntita nascondeva parte del suo volto colmo di rughe e cicatrici. La più piccola misurava dieci centimetri.
“Non dire blasfemie vecchio!”, rispose Cloud costretto in ginocchio per via del sibilo appena udito.
“E tu non esssssere avventato Cloud, il tuo tempo nel Limbo è finito, è ora di andare, ssssai, non dovrei nemmeno darti tutte queste sssspiegazioni”, si tolse il cappuccio.
“Sei solo un vecchio che sta delirando”.
“SSSSMETTILA DI CHIAMARMI VECCHIO!”, inveì l’anziano, la sua voce carica di rabbia.
“E tu smettila di dire assurdità!”.
“Pensi davvero che ssstia mentendo Cloud, che tutta questa ssstoria sia sssoltanto una farsa? Pensi davvero di aver ssssaltato dal tetto di casa Brown quella sera? E sssenza neanche esserti fatto un graffio? O di essssere andato realmente al Ragnarock ieri notte? Quanto sssei ingenuo Colud! Anche ssse ancora non te ne rendi conto, TU SSSEI MORTO!”, a quelle ultime parole Cloud fu colto da un’intensa fitta allo stomaco che lo costrinse ad inginocchiarsi a terra fissando Seth turbato. Poi l’anziano signore aggiunse:“E hai appena trascorso cinque giorni nel Limbo”, disse con un po’ più di calma, ma per Cloud ovviamente, fu l’ennesima coltellata allo stomaco. O quel vecchio stava impazzendo veramente, oppure stava dicendo la verità. “Probabile”, pensò.
In fondo, se stava mentendo, come poteva sapere tutte quelle cose sul suo conto? Del suo folle salto, del Ragnarock.
Forse nelle sue parole c’era un fondo di verità, anche se per il momento non la riusciva a vedere.
“ Forse ti ssstarai chiedendo che cosss’ è il Limbo Cloud, o come ci sssei finito…”, disse l’anziano quasi avesse letto nei suoi pensieri. “vedi, alcune anime vengono traghettate direttamente in Paradiso….ma quessssto, ovviamente, non è compito mio”.
Cloud non riusciva a parlare, lo ascoltava e basta.
“Altre come la tua, vagano nel Limbo fin quandooo…be’, non esssiste una vera e propria regola al riguardo, diciamo sssssoltanto che sssspetta a me indirizzarle verso la via giusta”
“Che cosa ha la mia anima che non va?”, chiese Cloud raccogliendo quel briciolo di voce che gli restava.
Una lunga risata riempì il silenzio imbarazzante che quella domanda aveva creato. Poi la risposta.
La tua anima non ha niente che non va Cloud, tutte le anime non battezzate passano di qui, semplice prassi, pensavo lo sapessi, o che almeno ne avessi sentito parlare”.
Quella fu l’ennesima prova che il vecchio stava dicendo la verità. Poteva fidarsi di lui. Adesso ne era certo. Solo sua madre e Jennifer conoscevano questo suo piccolo segreto.  Poi, immerso nelle migliaia di domande a cui non sapeva rispondere, porse lui una domanda a Seth, una domanda che esprimeva tutta la fiducia che adesso riponeva in lui.
 
Dove dobbiamo andare adesso?”.
“Non avere fretta Cloud, lo vedrai, Sindel ci aspetta, andiamo”.
Poi si incamminò verso un punto imprecisato del bianchissimo pavimento di cristallo, svoltando prima a sinistra, poi a destra pochi passi più tardi.
Sembrava stesse seguendo un percorso preciso che però Cloud non riusciva a vedere.
Tutto sembrava uguale, inanimato.
Un’attrazione irrefrenabile in direzione di quell’uomo spinse Cloud a fare un passo in avanti, a seguirlo, anche se non voleva, anche se ancora non si fidava completamente di lui.
Ma c’era qualcosa in quell’uomo, nei suoi occhi,, che riusciva stranamente a tranquillizzarlo, a renderlo sereno nonostante quello che aveva passato in quei giorni, o in quelle ore?…Ormai non era più sicuro di niente. E se ciò che aveva provato e vissuto fino a quell’istante fosse stato solo un frutto, molto elaborato e dettagliato, della sua immaginazione? Forse quell’uomo aveva ragione. Tutto era possibile a quel punto.
Ma c’era una cosa di cui era certo: da quando aveva incontrato Seth, James era completamente scomparso dai suoi pensieri.
Finalmente, il Cloud che conosceva, quello che Jennifer avrebbe sposato, e che tutti amavano per la sua bontà e semplicità, era tornato.
Lo percepiva nei suoi pensieri, ancor più nella sua anima.

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Capitolo 12
*** Il reale valore del tempo ***


L’anziano si fermò d’improvviso, roteando il lungo bastone che teneva ben saldo nella mano destra.
Cloud non comprese subito cosa stesse facendo, fin quando una luce brillante e finissima si materializzò davanti ai suoi occhi trasformandosi, pochi istanti dopo, in un antico portone metallico.
Un altro gesto veloce con la mano e il portone si spalancò davanti ai suoi occhi increduli.
All’interno tutto era oscuro.
Tuttavia Seth attraversò il portone con passo deciso e veloce, tenendo il bastone puntato in avanti. Sembravano tutti gesti normalissimi per lui.
Di sicuro non era la prima volta.
Cloud invece aveva paura di seguirlo, esitante sulla soglia stava seriamente pensando di non andare, di restarsene lì, ad aspettarlo..
Seth percepì subito il suo disagio:
“Non avere paura Cloud, entra pure, devo presentarti un amica”, la stanza, un attimo prima buia e silenziosa, si illuminò improvvisamente attraversata da centinaia di lame di luce che puntavano in tutte le direzioni.
Quando Cloud varcò la soglia lo spettacolo che si trovò davanti gli tolse il fiato.
“ Lei è Ssssindel, Cloud…ti accompagnerà per tutto il viaggio, quando ssssarai stanco troverai in lei un amico fidato, vedrai”, disse l’anziano accarezzando la lunghissima criniera del più bel cavallo che Cloud avesse mai visto.
“È stupendo….che razza è?”.
“È un Ariège…l’esemplare più antico che io conosca”.
Cloud fu talmente rapito dalla bellezza di quel destriero che non si accorse minimamente delle centinaia di pietre che tappezzavano quella strana grotta.
Un sentiero a spirale conduceva verso il basso: sembrava infinito.
Uno spiffero proveniente dalle profondità di quell’abisso senza fine, riportò Cloud all’attenzione di Seth, che nel frattempo stava slegando Sindel dall’incavo di una roccia.
“Ssssegui Sssindel Cloud….e non perderla per nulla al mondo”, il tono di voce suonava quasi come un avvertimento.
“Perché devo seguirla, Seth?”, disse consapevole che adesso poteva fidarsi di lui.Era la prima volta che Cloud pronunciava il suo nome. Nel poco tempo trascorso con Seth aveva intravisto del buono in lui, aveva imparato a fidarsi delle sue rauche parole sporcate da quello strano e doloroso sibilo.
Consssiderala come una sssseconda occasssione Cloud…e ssssstavolta, vedi di non ssssprecare il tuo tempo”, disse l’anziano puntandogli scherzosamente il bastone ad un centimetro dalla fronte.
Cloud non sapeva nulla di quell’uomo, né dove Sindel lo avrebbe condotto, o dove si trovava in quel momento, né quanto tempo sarebbe durato quello strano viaggio, ma nel profondo del suo cuore qualcosa lo spingeva a proseguire, a fidarsi.
Se era vero che aveva appena trascorso cinque giorni nel Limbo, forse la sua anima aveva ancora qualche possibilità di redimersi, di essere condotta verso la salvezza.
Era morto,ma ancora non ci credeva
Prima di incamminarsi fece un’ultima domanda a Seth:
Vieni anche tu, Seth?”, conosceva già la risposta, ma glielo chiese ugualmente.
Verrei volentieri Cloud, ma ssssai che non posssso…”, Cloud sapeva già che quel sibilo gli sarebbe mancato in qualche modo, “il mio viaggio finisce qui”.
Quelle erano esattamente le parole che aveva paura di ascoltare.
Seth si voltò all’improvviso in direzione del portone, ma prima di richiuderlo alle sue spalle, disse:
C’è del buono in te Cloud, non sssprecarlo…questo è il mio ssssecondo compito sul Limbo…il più difficile”, aggiunse sorridendo.
Cloud sorrise a sua volta, soppesando clinicamente ogni singola parola.  “Cossssa sssei diventato Cloud? Perché hai ssssprecato il tuo tempo?”, quelle due domande riecheggiarono nella sua testa fin quando Seth non varcò la soglia dell’enorme portone. Adesso tutto gli era perfettamente chiaro. Fin dal primo istante, Seth aveva sempre cercato di aiutarlo ma lui l’aveva ne aveva ignorato il messaggio. Che stupido era stato! Il desiderio di vendetta era troppo forte, come poteva captare il messaggio di Seth?
Pochi istanti dopo il portone si richiuse alle sue spalle scomparendo insieme a lui nell’oscurità del muro davanti ai suoi occhi.
L’eco dei suoi passi era l’unica cosa a tenergli compagnia.
 
 
Un’ora, tredici minuti e millecinquecentoventiquattro gradini dopo Cloud aveva capito di non poter fare affidamento sull’idea che aveva lui del tempo. Aveva dimenticato di chiedere a Seth se il fluire delle cose aveva lo stesso significato in quel posto. Ma da quello che aveva potuto capire “vivendolo”: no. Ma c’era una cosa che era esattamente la stessa, identica come nel mondo reale: la sensazione che provava quando pensava a lei, a Jennifer.
Era l’unica cosa capace di dare senso a quel folle viaggio.
La pensò più e più volte in quelle ore, – quasi mai nel Limbo - e ogni volta stava meglio della precedente.
 
 
 
Ssssei sulla sssstrada giusta Cloud…comunque, qui il tempo ha valore ssssoltanto se chi lo utilizza è realmente in grado di dargli l’importanza che merita”, stava di nuovo ascoltando i suoi pensieri – lo aveva fatto anche nel Limbo, ne era certo - ma questo non poteva altro che fargli piacere. Si sentiva meno solo adesso.
 
“Grazie Seth”, rispose commosso, mentre una lacrima, reale come nel mondo in cui era vissuto per ventisette anni, gli attraversò il viso in un soffio che sembrò durare in eterno.

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