Ali Divine

di SparkingJester
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Gioia e Dolore ***
Capitolo 2: *** Presentimenti ***
Capitolo 3: *** Nella Tana del Lupo ***
Capitolo 4: *** Mutaforma ***
Capitolo 5: *** Rivelazioni e Priorità ***
Capitolo 6: *** Dei e Demoni ***



Capitolo 1
*** Gioia e Dolore ***


«In fila, a due metri l’uno dall’altro! Forza, rapidi!»
Il sacerdote sembrava più un generale dell’esercito che un uomo di fede, ma i ragazzi che volevano diventare cavalieri erano davvero troppi: migliaia di giovani dai dieci ai venticinque inverni si riversavano nelle strade principali in preda ad una fame insaziabile di gloria e ricchezza. L’evento era il più atteso da tutti i sudditi dell’Impero: la nascita dei draghi e la conseguente investitura dei cavalieri.
I sacerdoti dediti al culto del Dio Kerma, una divinità metà uomo e metà drago, si occupavano da sempre dei preparativi per questo straordinario evento, adibendo una sala del palazzo imperiale per ogni uovo in fase di schiusa e predisponendo una fila di cento ragazzi al giorno per ogni uovo. Il rito era semplice: il cucciolo appena uscito dall’uovo doveva visionare ogni giovane che gli si fosse parato davanti: uno sbuffo e il candidato veniva scartato; un lamento e l’aspirante veniva condotto al monastero per intraprendere la via del sacerdozio; un segno indelebile come un morso, un graffio o un’ustione e il giovane diveniva il suo cavaliere.
Magara queste formalità già le conosceva cosi come i restanti novantanove ragazzi dietro e di fronte a lui: i sacerdoti non facevano che cantilenarlo nei templi, urlarlo per le strade, sussurrarlo ai candidati in fila per la schiusa. Sentiva che stava diventando pazzo; sentiva che anche i suoi compagni sarebbero usciti di senno e che qualcuno avrebbe avuto un crollo psicofisico: ma ormai mancava poco. Altri quattro ragazzi e sarebbe stato il suo turno dopo una mattinata trascorsa ad avanzare lentamente attraverso l’enorme piazza. L’emozione era tanta e il caldo insopportabile: la paura di vedersi sottratta la possibilità di divenire cavaliere proprio ad un passo dal drago, dal suo turno, era fin troppa. Tremava, sbuffava. L’impazienza era sempre stata la sua debolezza.
Uno strillo, un grido stridulo e fastidioso: qualcuno era stato appena nominato Apprendista e condotto al monastero. Magara non voleva finire come quei vecchi noiosi vestiti con tuniche e alti cappelli o passare metà della sua vita con la testa sui libri; lui voleva indossare armature ed elmi, sfidare valorosi avversari in battaglia, volare alto nel cielo col suo dragone e scendere in picchiata su eserciti nemici.
«Tu, ragazzo con la cicatrice!»
Un vecchio sacerdote dalla voce roca puntò il suo bastone d’appoggio verso la colonna di giovani.
A Magara gelò il sangue nelle vene: parlava con lui? Domanda sciocca, solo lui possedeva un’evidente cicatrice che dal centro della fronte scendeva lungo il viso, il collo e fin sotto le costole nascoste dalla logora camicia.
«Dice a me?»
Le farfalle iniziarono a svolazzare nello stomaco del giovane candidato. Emozionato e intimorito, Magara iniziò a fremere e mille pensieri inondarono la sua mente.
«Si, dico a te! Vieni avanti, è il tuo turno. Svegliati!»
Quasi senza averne coscienza - l’avanzare in modo cadenzato e lento era quasi divenuto un’abitudine – Magara superò l’uomo, arrestandosi tuttavia di fronte ad una grande tenda rossa; si volse allora nuovamente al sacerdote, il quale gli lanciò un’occhiata di fuoco.
«Su, entra! Svelto!»
Con un colpo di bastone sulle natiche fu spinto all’interno della sala. Due sacerdoti dal volto coperto custodivano un piedistallo: un piccolo drago dagli occhi gialli lo fissava dall’altare. Il guscio bianco ai suoi piedi rifletteva i riflessi aurei delle scaglie del piccolo rettile.
«Vieni avanti. Di fronte al Sommo Drago.»
La voce di uno dei sacerdoti esaltò il momento di grande eccitazione. Magara proseguì e si posizionò di fronte alla piccola creatura; attimi interminabili, sguardi fissi l’uno sull’altro. Il sacerdote però notò qualcosa di strano.
«Ragazzo, scopriti il petto.»
Il giovane rimase allibito, dopo un attimo di esitazione slacciò la camicia e mostrò il proprio petto: il corpo era diviso a metà da una grave cicatrice ma non fu quello a turbare il sacerdote, che osservava colmo di collera e timore. Un tatuaggio tribale copriva tutto il lato destro del corpo ad eccezione del viso. Le braccia, fasciate come fossero ferite, evitarono ai sacerdoti esterni di notare il tatuaggio, ma l’occhio del Guardiano del Drago fu più acuto.
«Provieni da una tribù. Cosa ci fai qui dentro!? Lo sai che “voi” non siete ben accetti! Esci subito, non meriti di diventare un cavaliere.»
Le foreste che circondavano le mura di cinta della capitale brulicavano di clan tribali e strane creature. Gli abitanti delle città li vedevano come diavoli e non tutti erano in errore. Si racconta che molti fossero strane creature metà spiriti e metà umani, incroci bestiali e blasfemi tra uomini e donne con creature mostruose.
«Ma io…»
Neanche il tempo di inventare una giustificazione che il drago si mosse: il sacerdote si zittì e Magara si immobilizzò. Il cucciolo si alzò sulle gambe posteriori, spalancò le ali e saltò. Planò ai piedi del giovane Magara e ne artigliò il polpaccio, provocando qualche gemito di dolore. Si arrampicò e raggiunse la spalla. Leccò la guancia del suo nuovo padrone e strofinò la testa contro la sua come un gatto in cerca di attenzioni.
Niente sbuffi, non aveva trovato noioso il candidato. Niente strilli, non l’aveva richiesto come servo. Niente morsi, non lo aveva considerato suo pari.
Lo aveva leccato. Il Guardiano corse via in fretta e furia seguito dal secondo sacerdote, abbandonando il ragazzo in balia del cucciolo. Tornarono pochi istanti dopo accompagnati dal Gran Maestro: esaminarono il ragazzo, il drago, i loro comportamenti. Discussero per parecchio tempo ma alla fine il ragazzo fu condotto in una sala adiacente e alle spalle di Magara un forte voce ruppe il silenzio.
«Un nuovo cavaliere è stato scelto!»

La sala era più grande di quanto si potesse immaginare: il trono torreggiava su un lungo corridoio diviso in tre navate da colonne imponenti, circondato da arazzi e drappeggi blu. L’Imperatore fissava i cinque nuovi cavalieri che avrebbero protetto l’impero e i suoi sudditi da minacce, esterne o interne che fossero, negli anni a venire.
Anche Magara, piegato in un inchino solenne, sbirciava al suo fianco per osservare i suoi nuovi compagni d’avventura: un giovane molto più grande di lui, col volto dolorante e un rivolo di sangue a sostituire il braccio mancante, il cucciolo doveva essere stato molto feroce con lui; un altro ragazzo al suo fianco invece sembrava star male: verde in volto, stringeva con una mano la pancia e con l’altra la bocca; altri due, gemelli, sembravano normali sebbene entrambe le loro schiene fossero fasciate e imbrattate di sangue.
«Dunque miei giovani e prodi guerrieri, con grande orgoglio vi nomino Cavalieri dei Draghi. Servitori e Difensori dell’Impero, avrete il sacrosanto dovere di proteggere queste terre e i loro abitanti. Siete i successori di centinaia di cavalieri venuti ancor prima che io o mio padre potessimo regnare. Siete i successori di una Gilda antica, unica, potente e orgogliosa! Siete i miei pupilli, verrete trattati con riguardo e siate certi che nessuno, a parte me, oserà darvi alcun tipo di ordine. Io stesso avrei voluto essere uno di voi da giovane, sono felice di poter vedere volti così giovani al servizio dell’Impero. Ma bando alle ciance, concludiamo in fretta. Vi voglio in forze per l’addestramento di domani!»
La pausa fu una spada nel fianco. La tensione, almeno per Magara, era alle stelle, ma il sorriso dell’Imperatore Bihares fu per loro motivo di conforto.
«Giurate fedeltà all’Impero, a me e agli Imperatori che mi succederanno?»
In coro i cinque gridarono:
«Lo giuro!»



Venti anni dopo.

L’enorme porta della sala del trono si aprì e l’Imperatrice vi entrò col sorriso sulle labbra per la gioia di poter rivedere suo marito dopo un’estenuante giornata; ma qualcosa turbò la sua espressione: una macchia scura giaceva ai piedi del trono, immobile. I battiti del suo cuore, così come la sua andatura, aumentarono: veloce, sempre più veloce. Si ritrovò a correre su un sontuoso tappeto rosso in direzione del trono, col cuore in gola. Le guardie iniziarono ad insospettirsi.
«Aaaaaaaahh!»
Un ammasso putrefatto di carne e vestiti carbonizzati giaceva a terra bagnato dalle lacrime della donna spaventata:
«Mio amato, mio sposo! Cosa ti è successo? Per gli Dei!»
I soldati scattarono per raggiungere il loro imperatore, o quel che ne rimaneva. L’imperatrice si voltò per vedere le guardie correre verso di lei:
«Dannati! Vi farò impiccare tutti e due! Come avete fatto? Come avete potuto non accorgervi che mio marito era in pericolo!?»
Una delle guardie rispose:
«Mia signora, stia attenta!»
«Oh, mia cara… non dare la colpa a loro. E’ stata una mia distrazione.»
Una voce, spezzata e sibilante. Il sangue gelò nelle vene della donna. Si voltò lentamente e si ritrovò il teschio nero e decomposto del suo defunto marito di fronte a sé. Volle urlare ma non ci riuscì, al contrario sentì un tonfo alle sue spalle. Poi un altro. Anche senza guardare le fu facile capire cosa fosse. Il teschio coronato e annerito continuava a fissarla. Allungò una mano ossuta e le sfiorò il volto. Lei pianse.
«Come sei bella… anche dopo tutti questi anni. Sei ancora un fiore appena sbocciato.»
Detto questo, il teschio spalancò le fauci. Un urlo, acuto e raggelante, pervase tutto il palazzo reale.

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Capitolo 2
*** Presentimenti ***


Magara non riuscì a dormire bene quella notte. Qualcosa lo aveva turbato, un presentimento. Camminava, con passo svelto e armatura scintillante, per i corridoi del palazzo in direzione della sala del trono: aveva questioni importanti da risolvere con l’imperatore.
Giunto a destinazione, non vi era nessuno al portone d’ingresso.
“Dove diavolo sono le guardie?”
La sala del trono non deve mai, MAI, restare scoperta. Era successo qualcosa. Estrasse la spada dal fianco, si accostò al portone e con la spalla iniziò a spingere. La porta si aprì lentamente rilasciando spiragli di luce provenienti dall’interno.
«Chi è là? Fatti avanti!»
La voce dell’imperatore.
“Mi sarò sbagliato? Ma rimane il perché le guardie siano assenti.”
Spinse la porta e la aprì completamente. Vi entrò. La sala del trono era in ordine e perfettamente illuminata, la luce gli impedì di vedere chiaramente chi o cosa ci fosse sul trono.
«Domando perdono, Mio Signore. Non ho visto le guardie, pensavo vi fosse accaduto qualcosa.»
La voce allegra e calda dell’imperatore rassicurò il suo animo:
«Oh, tranquillo ragazzo mio. Mia moglie è partita per un viaggio. Va a trovare le sue sorelle ad Athusia, nell’Est, ed ha insistito affinché la lasciassi partire in tarda notte, così da evitare sguardi indesiderati e non ho potuto fare altro che lasciare che le guardie del portone la accompagnassero e le facessero da scorta.»
«Capisco, Mio Signore. Ve ne farò mandare due appena possibile, non si preoccupi.»
Il fedele cavaliere rinfoderò la lama e, sospettoso, parlò ancora:
«Mio Signore, avrei delle cose importanti di cui parlarvi. Si tratta di…»
«Oh, mi dispiace ma non ho tempo adesso, aspetto un ospite importante. Piuttosto fammi una cortesia: potresti portare questo al Monastero?»
L’imperatore porgeva al giovane una pergamena chiusa con delle cordicelle ed un sigillo.
Il cavaliere non poté rifiutare. Attraversò di fretta la navata fino al trono, afferrò con un inchino la pergamena e… fissò gli occhi del suo imperatore. C’era uno strano bagliore. Abbassò lo sguardo, tornò indietro e abbandonò la sala.
“Al Monastero. Non ha mai visto di buon occhio quei dannati sacerdoti ma… il suo sguardo. C’è qualcosa che non quadra.”

Testa bassa e passo deciso, attraversò tutto il palazzo in fretta e furia. Labirintica, la residenza imperiale possedeva centinaia di stanze e corridoi ed un numero incalcolabile di scale e scalette che collegavano le varie zone dell’edificio. Anche una mente attenta e segnata dalla routine poteva facilmente distrarsi e smarrire la via ma per Magara era tutta un’altra storia. Un’innata abilità di orientamento condusse il cavaliere fuori dalla residenza per catapultarlo su una larga scalinata. La scala, che conduceva alla piazza principale della città, aveva due biforcazioni a metà percorso: una conduceva alle caserme e l’altra alla vistosa Torre-Nido, dimora dei draghi dei cavalieri. Magara imboccò quest’ultima via e scese ancora fino ad arrivare alla torre e alla piazza d’armi sottostante. La Torre-Nido era imponente e robusta. Sembrava una semplice costruzione senza né porte né finestre ma la spaziosa guglia sulla sommità era in realtà la dimora dei draghi.
Il cavaliere aveva il compito di consegnare un messaggio ai monaci, sacerdoti dei draghi. La loro sede, il Monastero, era collocata nel bel mezzo di una foresta fuori dalle mura cittadine; i monaci, grandi stregoni, erano soliti accorciare questa distanza con svariati incantesimi ma il cavaliere possedeva qualcosa di sicuramente più eccitante: la sua cavalcatura, Liosso.
Una strana voce però interruppe i pensieri di Magara.
«Capo… Bun… Bungg… Bungionno!»
Era Mulik, il Toccato, seduto a terra al centro della piazza d’armi. Un valoroso guerriero, un cavaliere di drago di tutto rispetto anche se un po’ tardo di mente. Ogni mattina se ne stava sempre appollaiato sulle mura della città o sulle guglie dei templi, sul tetto del palazzo reale oppure, come in questo in questo caso, seduto al centro della piazza d’armi. A lui piaceva stare in alto, osservare le nuvole o semplicemente riposare accanto ad un drago: di solito il prescelto era quello di suo fratello gemello.
«Mulik, dannata testa dura, dove hai dormito stanotte?»
Magara era come un faro di speranza per lui, sempre a tenerlo attivo, a farlo sentire vivo, a farlo parlare nonostante le sue difficoltà.
«Giù! In… stalla!»
Magara iniziò ad avvicinarsi a lui.
«Oh, ancora. Ti ho detto che puoi venire da me quando vuoi. I soldati non la prenderebbero bene se scoprissero che hai dormito ancora coi loro cavalli.»
Il cavaliere sembrò aver perso il filo del discorso: sorrideva e si mordicchiava il braccio.
Magara sorrise e ne approfittò:
«Senti un po’, tuo fratello Lopar dove si trova?»
«Lo… pa?»
«Lopar! Tuo fratello.»
«Oh, oh! Ftello! Lì, » indicò l’orizzonte « in monassero!»
“Anche lui al monastero. Dev’essersi accorto di qualcosa.”
«Senti, hai da fare?»
«No… non fare. Eh?»
«Bene, allora vieni con me.»
Lo sguardo di Mulik sembrò intristirsi.
«Da tuo fratello, al monassero!»
Magara lo imitò, cosa che strappo una risata al Toccato, e tese il braccio per aiutarlo ad alzarsi da terra.
Lopar era l’esatto opposto del suo gemello. Il Toccato era alto nella media ma l’innaturale curvatura della sua schiena e delle sue difficoltà ad articolare le parole lo facevano sembrare più vecchio e pazzo di quanto realmente non fosse, ma la sua mente non sempre brillante era compensata da un’inarrestabile forza bruta. Lopar invece era alto e nerboruto ma nonostante ciò stranamente debole e poco portato per la battaglia; al contrario del fratello era incredibilmente intelligente e sveglio. Madre Natura non era stata affatto gentile con loro.
Magara era pensieroso: Lopar era certamente più acuto ed attento e anche lui, come l’imperatore, odiava i monaci e i sacerdoti. Se si trovava al monastero doveva essere successo qualcosa.
Il cavaliere non perse altro tempo e mise la mano dietro la schiena, da sotto l’armatura estrasse uno strumento, un flauto argentato. Lo mise di traverso, lo poggiò sulle labbra e iniziò a richiamare il suo drago. Un suono soave, morbido e prolungato. Nugoli di fumo iniziarono a levarsi dalle tegole della dimora dei draghi. Una testa sbucò fuori da una delle innumerevoli aperture che facevano sembrare la guglia più simile ad un alveare che ad un tetto. La testa rientrò, uscì di nuovo e portò con sé il resto del corpo. Un’enorme rettile planò al suolo e con un possente tonfo coprì per un attimo la dolce nota che lo chiamava a sé. Era Liosso: un drago possente, con scaglie scure e venate d’oro. Piegò la testa come in un inchino e, con il collo ad un dito da terra, portò il suo muso di fronte al richiamo.
Magara smise di suonare. Purtroppo il suo drago aveva un carattere tutto suo, era quasi come Mulik: strano, alienato dal mondo che lo circondava, cocciuto e privo di iniziativa. L’unica cosa che potesse smuoverlo Magara la capì solo a metà del suo addestramento, dopo tre anni: era la musica del suo flauto. Nella tribù da cui proveniva i bambini erano sempre dediti allo studio della musica e dei suoni che la Madre Natura donava loro. Al drago sembrò piacere questo approccio, ed anche al cavaliere.
«Forza, Mulik. Sali su Liosso, partiamo subito per il monastero. Il viaggio è lungo quindi se devi portarti qualco…»
Nemmeno il tempo di finire la frase che il matto salì sul collo del drago, con la faccia rivolta verso la coda.
«Mulik… al contrario!»
Il cavaliere si alzò in piedi sorridendo, raggiunse la schiena e lì vi sedette, con il viso verso la coda.
Magara abbandonò l’idea, sbuffò e salì in groppa al drago. Rimise il flauto alla bocca e ricominciò a suonare: stavolta un suono cadenzato, ritmico, veloce, pieno di scale cromatiche e privo di pause. Il possente dragone si sollevò sulle zampe posteriori, spalancò le ali, ruggì e si alzò in volo.

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Capitolo 3
*** Nella Tana del Lupo ***


Il viaggiò durò poco più di qualche ora, il sole era ormai alto nel cielo. I due cavalieri, accompagnati dal drago e dalla musica, sorvolavano ormai da tempo l’immensa foresta alla ricerca del monastero. Il paesaggio, identico per chilometri, rendeva difficile individuare la meta: non era una struttura imponente né tantomeno vistosa, era un casolare, un rudere segnato dal tempo. Infine i due riuscirono a trovarlo, in mezzo ad una rara macchia erbosa priva di alberi all’interno della foresta. Le note scesero di tonalità mantenendo il ritmo, note basse e più lunghe si alternarono e il drago infine atterrò. Con sbuffi e mugolii la nobile creatura iniziò a grattare la terra sotto di sé, ma Magara non ci fece caso: ogni tanto capitava che si comportasse in modo strano. Scese dal drago e, seguito dal bizzarro cavaliere, attraversò la radura in direzione del rudere. Qualcuno veniva verso di loro ma la luce, causata dal riflesso del sole sull’armatura, ne impediva il riconoscimento. Quando furono abbastanza vicini, Magara lo riconobbe:
«Lopar, che ci fai tu qui?»
Il cavaliere era sospettoso.
« Cosa ci fai tu qui, piuttosto.»
La testa, tozza e calva, legava bene con la voce calda e seria del gemello.
«L’imperatore mi ha dato ordine di consegnare questa pergamena ai monaci.»
Senza tante cerimonie, Magara estrasse la pergamena con una mano e con l’altra ripose il flauto.
Lopar la afferrò e la squadrò.
«Odio i monaci e quando l’altra notte ne ho visti due uscire da palazzo con un sacco nero sulle spalle, non ho potuto fare a meno di seguirli per la curiosità. Hanno raggiunto la piazza d’armi ed entrambi hanno pregato per circa un’ora prima di abbandonare lì il sacco. Poi si sono diretti ai cancelli e sono usciti. Non vedo altro luogo dove nascondersi se non questo maledetto monastero. Stamani sono venuto ad indagare: i monaci sono stati stranamente cortesi ma non ho scoperto niente di utile.»
«Io invece sono stato dall’imperatore. La sala era priva di guardie e lui aveva una voce strana, serena. Gli occhi poi… troppo freddi. Sta succedendo qualcosa.»
I due si fissarono, elaborando le informazioni rapidamente, quindi con un cenno del capo Lopar staccò il laccio e spezzò il sigillo della pergamena: la aprirono. Lessero avidamente e Magara non poté credere ai propri occhi.
All’attenzione dell’Ordine dei Sacerdoti di Kerma
Il sottoscritto, Bihares Molauen, Imperatore dei Regni dell’Ovest

do il mio consenso ai monaci e ai sacerdoti del Monastero di BoscoNebbio ad effettuare studi ed sperimenti
sui draghi della Gilda dei Cavalieri di Drago.

Ai cinque cavalieri Magara Dokali, Lopar Hontia, Mulik Hontia, Gorun Scui e Gifo Kaliados è assolutamente e categoricamente proibito opporsi agli ordini dei sacerdoti nel caso in cui questi ultimi chiedano il possesso dei loro draghi o di parti appartenenti ad essi.
La ricerca e il progresso magico devono proseguire e per fare ciò alcuni individui possono e devono essere sacrificati per il bene della ricerca e, in assenza di altri draghi nei territori imperiali, è lecito poter utilizzare gli unici a noi disponibili: i draghi dei cavalieri.

Che Kerma vi benedica e vi doni forza e saggezza.
Bihares Molauen

Il raccapricciante messaggio, firmato dall’imperatore in persona, sconvolse i due cavalieri e non turbò l’animo di Mulik intento a lanciare foglie secche all’aria.
«Impossibile! Vuole dare i nostri draghi ai monaci!»
Magara era furibondo.
«Te l’avevo detto che c’era qualcosa che non andava, dannazione! Lopar, io vado ad avvertire Gifo e Gorun. Dovrebbero trovarsi al primo avamposto verso il fronte ovest. Torneremo subito a palazzo e faremo quattro chiacchiere con il caro Bihares, o con chi lo sta manovrando. Tu e tuo fratello tornate là dentro e fatevi spiegare cosa sta succedendo; se non parlano, scatena pure Mulik. Gli faremo vedere con chi hanno a che fare e, se vorranno i nostri draghi, dovranno venire a prenderseli da soli. Codardi.»
Lopar annuì e con un fischio chiamò a se il fratello quasi fosse un cane. Questo rispose con un altro fischio e lo raggiunse.
«State attenti ragazzi, siete in due. E da soli.»
«Non preoccuparti, non siamo da sottovalutare, vero fratellino?»
«Kaaaabooom!»
Magara sorrise, impugnò il flauto e cominciò a suonare.

Lopar afferrò per un braccio il fratellino per evitare che si allontanasse con tutti quei saltelli e continuò a osservare la sagoma di Liosso allontanarsi all’orizzonte. Era mezzogiorno e il suo di drago non sopportava la luce solare: nascosto sotto il mantello e artigliato alle spalle corazzate del suo padrone, il piccolo Mugi si permetteva una piccola pausa dopo la notte passata all’inseguimento di due brutti ceffi. Lopar si voltò e tornò da dove era venuto: la fatiscente struttura a due piani più simile ad una baracca che ad un monastero in cui abili monaci guerrieri e colti sacerdoti passavano la maggior parte della loro esistenza. Mentre si muoveva, seguito dal fratello, Lopar tirò fuori Mugi dalla piccola tana improvvisata dietro la schiena. Mulik sgranò gli occhi, era sempre rimasto affascinato dal drago di suo fratello maggiore: mai cresciuto completamente, Mugi non si era alzato di un centimetro né era ingrassato di un grammo. A parte una piccola deformazione del cranio, poco più grande e sproporzionato rispetto al resto del corpo, il drago non aveva variato le sue dimensioni e i sacerdoti avevano pensato che fosse stata colpa di una malattia ereditaria molto grave ma nessuno seppe mai niente di certo. Lopar oltretutto non provava nessuna vergogna ad essere cavaliere di un drago nano né provava risentimento o invidia nei confronti dei suoi amici e dei loro possenti draghi. Era stato maledetto dalla Natura, proprio come suo fratello Mulik che un drago neanche lo aveva: era morto durante l’addestramento, colpito da un morbo debilitante. Fortunatamente i sacerdoti furono categorici e a Mulik fu permesso di diventare cavaliere; ed ora era lì, sotto lo sguardo vigile del fratello, ad aprire la porta della baracca-monastero.
La porta si spalancò e un altro mondo gli si presentò davanti.
La baracca fatiscente nascondeva al suo interno una reggia, occultata con la magia creando spazio extra in un luogo apparentemente abbandonato. Sembrava un palazzo ancor più sontuoso e opulento della residenza imperiale. Sacerdoti e monaci, giovani e vecchi, in tunica o corazza, con bastoni, provviste e documenti, vagavano per i lunghi e luminosissimi corridoi del palazzo nascosto. I due cavalieri vi entrarono e per la seconda volta il mago di guardia al portone salutò Lopar con un cenno del capo. Avanzarono cauti dentro la reggia dimensionale e, a differenza di poche ore prima, ora i monaci fissavano Lopar con disgusto e sospetto. Camminarono ancora fra bancarelle e strane costruzioni addossate alle pareti. Attraversarono il Crocevia, zona di comune incontro perfettamente al centro della struttura illusoria. Dal Crocevia si poteva accedere praticamente a qualunque zona del palazzo o addirittura da altre dimensioni ma la folla di monaci e sacerdoti di basso ed alto rango impediva una rapida decisione da parte dei due. Avevano letto la pergamena dell’imperatore e ipotizzato uno pseudo - complotto contro l’Ordine dei Cavalieri di Drago. Più il tempo passava, più individui si fermavano ad osservare i due cavalieri: uno fermo dall’aria decisa e uno sorridente dall’aria stordita. Un monaco alle loro spalle ruppe il silenzio:
«Cavaliere. Hai già perquisito almeno metà di questo sacro palazzo. Cosa vuoi ancora da noi?»
Segni di assenso circondarono il cavaliere. Era in trappola, come un agnello in una tana di lupi.
«Voglio vedere il vostro Gran Maestro. Subito.»
«Il Gran Sacerdote o il Gran Combattente? Oh, scusa la domanda. Poco importa. Non vedrai nessuno dei due.»
Un coro di fragorose risate investì le orecchie dei due. Mulik iniziò ad innervosirsi.
« Statemi bene a sentire. Questa » sollevò la pergamena « viene direttamente dall’imperatore. Vi da il permesso di utilizzare i nostri draghi per fare i vostri dannati esperimenti. Non voglio oppormi, voglio solo discuterne coi vostri superiori. Mi dite dove posso trovarli?»
Il tono era cauto e ragionevole ma queste parole fecero calare il silenzio al Crocevia. Un luogo così vasto, pieno di gente, pieno di colori: baldacchini in levitazione a tre metri da terra, sede di letture solitarie; un falso cielo raffigurante enormi stelle sferiche ricche di colore; centinaia di colonne lignee armate di gargoyle a preservare l’ordine; tentacoli magici che avevano l’unico scopo di afferrare e teletrasportare il monaco o il sacerdote dove meglio credeva; spirali di luce. il silenzio era dei più totali, greve e assoluto.
Mulik rimase in attesa.
Un esplosione di risate inondò il Crocevia per dileguarsi negli infiniti corridoi del palazzo. Tutti ridevano qualcuno teneva la mano sullo stomaco, altri si appoggiarono alle colonne, altri ancora piangevano dalle risate. Lopar rimase immobile col braccio sollevato e la pergamena in pugno. Mulik portò le mani alle orecchie e col viso corrugato cercò di far sparire tutto quel caos.
«Ehi, cavaliere! Ma chi ti credi di essere? Sei nel nostro territorio e vorresti anche darci degli ordini? Sparisci!»
Tra le risate generali Lopar non aveva fatto caso ad un monaco incappucciato, avvolto in un mantello cremisi e col volto coperto da una maschera nera coi lineamenti dorati, che gli si era pericolosamente avvicinato.
«Si, sparisci. Sai troppo.»
A quelle parole Lopar sgranò gli occhi e un’onda d’urto scaturì dalla mano del monaco. Il cavaliere, sotto il silenzio e lo sguardo di superiorità di tutti i presenti, volò in aria e finì schiena a terra sfondando il bancone di un mercante di ingredienti alchemici. Mulik rimase interdetto, incapace di reagire, e il monaco cremisi non se ne preoccupò.
Lopar si rimise in piedi, cacciò polvere e schegge dalla sua armatura e afferrato lo spadone alle sue spalle, lo estrasse. Una lama bianca, più larga e lunga del normale, era puntata verso il suo aggressore. Quest’ultimo lo fissò negli occhi e parlò ancora:
«Tu sai, quel gesto, cosa significa. Vero?»
Il silenzio fu interrotto ancora una volta da un urlo e fu seguito dall’impeto di rabbia di tutti i monaci e i sacerdoti che avevano considerato l’estrazione di quella spada come una dichiarazione di guerra. Asce, spade, bastoni e frecce magiche, eteree e azzurre, vennero materializzate dai monaci in assetto da combattimento. Qualcuno colpì Mulik alla testa con un pesante martello e lo mise al tappeto. Il monaco cremisi sputò sul cavaliere inerme e con passo solenne, coperto dalle urla e dai corpi dei suoi compagni, si diresse nel corridoio di fronte a Lopar. Ma il cavaliere aveva buona memoria, sapeva dove lo avrebbe condotto. La mattina passata a studiare ogni singolo angolo e ogni singolo individuo in quel palazzo ora gli sarebbe tornata utile.
Un altro urlo e un monaco, con il volto e il corpo nascosto da bende, si fiondò su Lopar brandendo due spade magiche ricurve. Lopar fu più svelto: col piede sollevò una polvere blu caduta alla rottura del bancone: Ambra degli Dei, un materiale speciale che a contatto con una forte raffica di vento si sarebbe solidificata. Il prode cavaliere usò tutta la sua forza per sferrare un colpo da destra a sinistra con il piatto della lama. L’attacco non raggiunse il monaco in arrivo ma lo spostamento d’aria fu abbastanza forte da far trasformare la polvere. L’ambra, deformata in aghi, schizzò sul corpo del monaco trafiggendo volto, braccia, petto e uccidendolo sul colpo. Altri monaci stavano invocando armature, armi, demoni. Sacerdoti creavano circoli in aria e cantilenavano le loro litanie, pervasi da una luce bluastra, iniziarono ad irrigidirsi e a tendere i muscoli.
«Fatevi avanti.»
Bastarono due parole per scatenare il caos. Lopar iniziò a scartare di lato, rotolare, parare, ansimare dalla stanchezza: muoversi così velocemente con il peso dell’armatura e dello spadone risultava faticoso anche per uno come lui. Lampi magici saettarono in ogni direzione, colpi di spada squarciarono l’aria in cerca di prede, mostri assetati di sangue e demoni evocati dall’inferno sfoderarono zanne e artigli, un marasma di distruzione; ma Lopar sembrò più un fantasma che un cavaliere, evitando ogni colpo con impeccabile precisione, rischiando la morte in più occasioni.
Individuò un bersaglio, un punto debole. Trapassò il suo fianco con lo spadone e lo impalò ad una colonna. Schivando colpi d’ascia e di spada, saltò sull’elsa della sua arma e iniziò ad arrampicarsi sulla colonna, spaccando con un calcio il muso di un gargoyle pronto ad azzannarlo. Arrivò in cima e li rimase, a braccia conserte. Raggi di energia di ogni colore e dimensione stavano per raggiungerlo ma uno strano ghigno insospettì tutti gli aggressori. I lampi di luce si abbatterono sul cavaliere: ma l’energia fu deviata dietro la sua schiena. I sacerdoti rimasero allibiti e il cavaliere parlò:
«Non sono così stupido da entrare in un covo di monaci guerrieri e di sacerdoti esperti senza le adeguate contromisure. La corazza, oltre ad essere spessa, è pervasa da energia proprio come le scaglie di un drago. I vostri colpi di spade e mazze e asce e lance non l’hanno nemmeno scalfita. E i vostri attacchi magici sono assorbiti da pietre dell’anima poste nelle giunture della mia armatura. Sono imbattibile qui dentro e voi» una breve pausa, le mani ai fianchi «siete morti!»
Detto questo, bastò un fischio. Un flebile e puerile ruggito pervase il Crocevia. In molti si voltarono ma in pochi poterono notare la figura posta sotto un bancone di frutta. Un piccolo drago dalla testa grossa. La creatura era rimasta piccola a livello esteriore ma fu comunque in grado di affrontare un intenso addestramento assieme al suo cavaliere. Mugi spalancò le fauci: una colonna di fuoco, intensa e vivace, spazzò via tutto in un turbinio di braccia in cerca di aiuto, facce fiammeggianti, armi e bastoni distrutti. Monaci e sacerdoti vennero carbonizzati e annientati come fossero mosche. Mugi non poteva volare ma in compenso le sue ghiandole, anche se deformi a causa delle dimensioni, erano potenti quanto quelle di un drago normale e il collo, corto e stretto, permetteva di esercitare una forte pressione su di esse.
Lopar, circondato dagli sguardi stupiti e impauriti di chi non si era trovato nella traiettoria del soffio, scese dalla colonna, recuperò lo spadone, lo rinfoderò e raggiunse il fratello.
«Mugi, se qualcuno si muove: soffia.»
Altri due fischi e il drago rispose con un altro piccolo ruggito. Lopar si avvicinò al corpo del fratello, svenuto e con l’armatura annerita dal fuoco di drago. Lo sollevò, gli fece annusare una strana polvere proveniente dallo stesso bancone distrutto dalla sua caduta e lo ridestò. Mulik aprì lentamente gli occhi e iniziò a guardarsi intorno, capì quanto accaduto e sorridente si rialzò. I gemelli seguirono la strada che il mago cremisi aveva imboccato. Camminando, monaci e sacerdoti terrorizzati aprivano varchi al loro passaggio.
Il corridoio non aveva fine, la magia lo prolungava all’infinito ma Lopar individuò il tentacolo di cui il mago cremisi si era servito. Gettò Mulik tra le spire del tentacolo che lo teletrasportò.
«Se qualcuno mi segue o tocca il mio drago si farà molto, molto male.»
Si fece avvolgere e sparì anch’esso in un turbinio di luci e ombre. Lopar doveva vederci chiaro su questa faccenda e il mago doveva pagare.

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Capitolo 4
*** Mutaforma ***


Uno schianto tra le foglie secche scosse l’ignaro accampamento all’interno della foresta. Una posizione inusuale per un manipolo di guardia se non fosse per un’altura più avanti: il punto d’osservazione offriva un’ampia visuale del confine imperiale. Al centro del campo, davanti ad un falò ed accanto ad un cumulo di foglie e rami secchi accatastati, Gifo il Malato e Gorun lo Storpio posarono le loro ciotole e i loro boccali e si diressero con disinvoltura verso il cavaliere appena arrivato.
Magara saltò giù dal drago e i tre si abbracciarono e, tra gli sguardi sorpresi e curiosi dei soldati di guardia, si appartarono in una tenda:
«Ragazzi prendete i vostri draghi e volate subito al palazzo reale. L’imperatore ha qualcosa di strano e ha dato ai maghi il permesso di usare i nostri draghi come cavie per i loro esperimenti. Lopar ha visto due monaci lasciare qualcosa nella piazza d’armi della Torre-Nido e ho intenzione di scoprire cosa hanno nascosto. Voi due dovreste entrare nella sala del trono e indagare, cercare prove di un possibile complotto da parte di quei maledetti sacerdoti.»
La sorpresa generale dei cavalieri ignari venne giustificata del loro compagno ed innumerevoli teorie e piani vennero proposti in forma di idee.
Gifo, convinto, si alzò con grande sforzo. Il suo soprannome era azzeccato: perennemente ammalato, soffriva di innumerevoli patologie. Tossiva in continuazione, starnutiva senza motivo, vomitava almeno una volta al giorno e spesso non aveva neanche le forze per alzarsi dal pagliericcio sul quale dormiva per buona parte della giornata. Il suo aspetto trasandato, magro coi capelli in disordine e dal viso pallido e scavato, aveva generato forti dubbi sulla sua mansione da cavaliere da parte di tutte le più alte cariche dell’impero. Ma il drago aveva scelto lui e su questo c’era poco da ridire.
Stessa cosa valeva per Gorun, possente ma anziano e senza braccio destro. I due erano valorosi cavalieri ma l’Imperatore, per quietare l’ondata di dissensi nei loro confronti, si ritrovò costretto a spedirli lontano dalla città.
I tre uscirono all’unisono. Gifo batté le mani due volte e, tra le urla di sorpresa dei soldati in zona, il gigantesco cumulo di terra e foglie vicino al falò si issò rivelando ciò che in realtà era. Un drago verde, rigido nei movimenti, iniziò a barcollare verso il suo padrone.
Gorun batté il piede a terra e allo stesso modo un cumulo di rocce poco fuori dall’accampamento si sollevò: un altro drago, molto più grande e più grasso, di colore grigio.
Tali cavalieri tali draghi. Gifo con Magan il Drago di Pezza e Gorun con Toko il Drago Vorace.
I soldati rimasero ammutoliti ed esterrefatti: avevano già visto un drago ma vederne tre e tutti nello stesso luogo era qualcosa di spaventoso. I tre cavalieri e i loro mastodonti occuparono tutto l’accampamento. Senza ulteriori perdite di tempo Gifo, Gorun e Magara salirono ognuno sui propri draghi e all’unisono si levarono in volo ma qualcosa bloccò Liosso dal basso: una frusta di fuoco teneva fermo a mezz’aria il gigantesco drago dorato, tirandolo per la coda.
Lo strano soldato con la frusta di fuoco fissò Magara dritto negli occhi. Il cavaliere provò a suonare ancora e ancora, sempre più velocemente. Toko e Magan virarono per tornare ad aiutare il compagno in difficoltà ma altri due monaci si intromisero: altre fruste di fuoco afferrarono i due draghi per il collo e iniziarono a trascinarli verso terra. I tre rettili alati iniziarono a dimenarsi sbattendo le ali e scalciando, ruggendo e lamentandosi. Magara però andava di fretta, doveva sbrigarsi. Smise di suonare e prima che il suo drago iniziasse a precipitare per mancanza di musica, il cavaliere gridò:
«Andate avanti! Vi raggiungerò presto.»
Gifo e Gorun a malincuore dovettero obbedire agli ordini del loro superiore. Gorun si alzò in piedi, dal dorso passò alla base del collo del suo drago tenendosi con l’unico braccio a sua disposizione, sporse il moncherino destro verso la frusta di fuoco. Uno strano movimento d’aria sorprese lo stregone mascherato da soldato. Il moncherino iniziò a risucchiare il fuoco della frusta fino a dissiparla definitivamente.
Gifo fece lo stesso. Si appese al collo del suo drago e soffiò sulla frusta: il fuoco si dissolse.
Entrambi i cavalieri fecero virare i loro draghi ignorandone i lamenti e i ruggiti e li diressero verso il palazzo imperiale.
Magara si schiantò a terra. Maledisse Liosso e il suo dannato “difetto”. Si risollevò e barcollando uscì da sotto l’ala del suo drago che ora si voltava e si rivoltava a terra con lamenti e sbuffi.
Un soldato parlò:
«Magara. Dannato diavolo.»
Il soldato finì la frase scoprendosi il volto coperto dall’elmo: una maschera nera coi lineamenti d’oro. Gli altri due stregoni si tolsero le armature rivelando le divise rosse e blu dei monaci del monastero.
«Spiacente non mi ricordo di te. Vado di fretta. Cosa vuoi?»
Una risata.
«Vai di fretta dici?» un’altra risata «E dove credi di poter andare? Qui tutti i soldati sono monaci. Credi che ti faremo andar via così?»
«E allora cosa mi trattiene qui?»
«Semplice, le tue informazioni. Tu sai troppo. Dobbiamo eliminarti per il bene della nostra confraternita. Ah e, per la cronaca, io sono quel guardiano che il giorno della tua “investitura” ti segnalò al Gran Maestro come eretico.»
Detto questo, con un gesto della mano mandò i suoi scagnozzi ad uccidere il cavaliere.
Magara, stufo di tutto, parlò a denti stretti:
«Allora mettiamo in chiaro le cose: non mi interessa la tua segnalazione e non mi interessa ucciderti ma avete attaccato i miei compagni e ora grazie alla follia dell’imperatore avete anche il permesso di uccidere i nostri draghi e questo non ve lo posso permettere.»
I monaci erano in avvicinamento e i soldati dell’accampamento iniziarono a circondarlo con armi spianate, invocando strane creature infernali come supporto.
Magara si voltò e raggiunse il suo drago, Liosso che ancora si dimenava in preda a chissà quale follia. I soldati si mossero cauti e i monaci ancor di più. Magara frugò nella terra sotto al drago e il mascherato parlò:
«Avanti, è da solo, attaccate!»
Qualcosa però turbava i presenti. Magara si rialzò, flauto in mano. Lo portò alla bocca ma un’altra frusta di fuoco bloccò il suo braccio e iniziò a surriscaldare l’armatura del cavaliere. Magara continuò a stringere il flauto con una mano e con l’altra scagliò fulmineo un pugnale da lancio che finì nella gola del monaco. La frusta si dissolse e il sangue imbrattò la tunica dell’aggressore, spaventando i soldati. Magara parlò:
«Non toccate il mio flauto.»
Il cavaliere iniziò a suonare. Una musica sincopata e armoniosa, suoni dolci e continui. Il Guardiano, rapito dalla musica, capì cosa stava succedendo e con gli occhi sgranati urlò ai soldati di attaccare ma questi compresero solo il gesto, non udirono le sue parole.
La canzone, pervasa da una forte componente magica, riempì le orecchie dei soldati e di Liosso.
Il drago smise di rantolare e rotolare; alzò la testa. Udendo quella soave armonia si alzò sulle zampe posteriori, spalancò le ali e con il collo teso verso il cielo fece oscillare la testa a destra e a sinistra. I soldati furono vicini alla fonte del suono, il drago tornò a quattro zampe. Il tonfo paralizzò dalla paura gli aggressori e il massacro ebbe inizio: violente vampate di fuoco, rapidi colpi di coda seguiti da scie di sangue, artigli conficcati nella carne. Una carneficina accompagnata dalla dolce musica di un flauto traverso: il Guardiano non poté credere ai suoi occhi. Corpi umani mutilati volavano ovunque, violente zampate sconquassavano la terra e occasionali colpi di coda generavano folate di vento abbastanza potenti da spegnere i piccoli falò generati dai rari soffi incendiari. Ma qualcosa non quadrava, lui era ancora vivo e immobile. Il drago non lo aveva sfiorato, non lo aveva neanche visto. Il Guardiano iniziò ad indietreggiare, qualche soldato ebbe la stessa idea. Il Monaco osservava bene: chi tentava di colpire il cavaliere, moriva; chi tentava di attaccare il drago, era dilaniato dalle sue zanne; chi indietreggiava o chi stava immobile, veniva falciato dalla coda della possente creatura. Ma - si chiese - perché lui no?
Quando la terra fu satura di sangue e l’accampamento distrutto dal fuoco Magara smise di suonare, le urla di dolore cessarono e il drago cessò di agitarsi. Il cavaliere avanzò e parlò al volto sconcertato del guardiano:
«Ti starai domandando perché il mio drago non ti abbia colpito. La mia musica soave mancava di ordini che riguardassero te e il mio drago segue perfettamente l’andatura della melodia. Sei vivo solo perché sono stato io a volerlo. Adesso dimmi cosa state complottando voi stregoni, senza perdere altro tempo.»
Il Guardiano deglutì e un po’ di sicurezza tornò in lui.
«Pensi che io abbia paura del tuo drago? Non sono come gli altri, conosco magie talmente potenti da…»
«Ora basta!»
Magara ruggì:
«Dimmi cosa avete in mente, subito!»
La risposta del Guardiano fu una e una soltanto:
«Scordatelo.»
Probabilmente un ghigno macchiò il volto coperto del monaco, le mani si mossero e da terra due creature presero posto accanto a lui. Il Guardiano manovrò i due golem di roccia come un marionettista conducendoli alle spalle di Magara che, senza farci caso, continuò ad avanzare.
«Non dovresti prenderla troppo alla leggera, Magara. Il tuo nemico evoca dei mostri assassini e tu te ne stai buono buono?»
I golem alle spalle del cavaliere iniziarono a divorare i cadaveri dei soldati morti mentre il sangue, da terra, scorreva lungo i loro corpi.
«Sei pur sempre un cavaliere quindi dovrei aver paura di te, ma non potrai mai sconfiggermi. Noi monaci conosciamo segreti che tu neanche immagini.»
Magara continuò lento ad avanzare. I golem, finito il loro pasto, si voltarono e iniziarono a correre verso il cavaliere.
«Non te ne importa proprio nulla, eh? Hai fatto bene a rassegnarti, non potete più fermarci ormai. I miei colleghi staranno già eseguendo le procedure di fusione. Siete finiti, cavalieri.»
Un possente pugno fatto d’osso fece capolino alle spalle di Magara, intento a fracassargli la testa, ma il cavaliere di drago fu più veloce. Magara schivò chinandosi e, impugnando il flauto come fosse una spada, estrasse una lama nascosta, piena di solchi e fori. La strana arma penetrò nel ginocchio dell’enorme golem e con un altro rapido movimento rotatorio la lama fu scagliata nella fronte del secondo mostro, ancora in avvicinamento. Come una freccia, la lama penetrò il cranio della creatura ed entrambi i mostri caddero a terra. Magara, freddo e silenzioso, si avviò per riprendere la spada. I due golem iniziarono a vibrare, colpiti da violente convulsioni. Le ossa che formavano l’esoscheletro si riempirono di crepe e alcune si polverizzarono. Impetuose fuoriuscite di sangue coprirono l’armatura di Magara. La lama fu estratta dalla fronte del mostro e riposta nel flauto.
«Guardiani, monaci, stregoni, sacerdoti. Siete tutti uguali, provenite tutti da quel buco che chiamate Monastero. Avete tutti gli stessi obiettivi, la pensate tutti allo stesso modo. E ti ho tenuto in vita per un motivo, per farti un favore, per farti “apprendere” qualcosa sulla natura di ciò che abita l’esterno della città. Stai per scoprire perché quel giorno il cucciolo mi leccò.»
Magara iniziò a levarsi gli schinieri. Il Guardiano iniziò a sudare freddo, gli occhi azzurri si muovevano dal cavaliere alle carcasse dei suoi golem e viceversa. Come aveva fatto? Che potere aveva quella lama?
«Devi sapere che quando un drago sceglie il suo cavaliere, morso o graffio che sia, dona volontariamente al suo nuovo padrone un potere particolare. Ad esempio hai appena visto in azione il mio caro amico Gorun. Toko gli staccò un braccio e ora quel braccio mancante è stato sostituito da un enorme potere di assorbimento ed emulazione.»
Magara cominciò a slacciarsi la cintura.
«Io sono stato leccato, non morso. Questo perché sono un suo simile.»
Il Guardiano non capì le sue parole, Magara continuò a spogliarsi e tolse anche i pantaloni e la pezza che copriva le sue parti intime.
«Sono certo che ricordi ciò che mi dicesti quel giorno: che ero un diavolo, che non ero degno perché venivo dalle foreste.»
Il cavaliere avanzò fino ad arrivare ad un passo dal monaco, paralizzato dalla confusione e dalla sorpresa. I tatuaggi tribali, ben visibili, iniziarono a muoversi e a serpeggiare su tutto il corpo.
«E a dire il vero, avevi ragione. Sono un mostro.»
Liosso improvvisamente levò alta la testa e iniziò a ruggire. Il ruggito divenne lamento e si propagò per tutta la foresta. La pelle di Magara cominciò a mutare: divenne verde, viscida e piena di piccole scaglie. Le braccia si tesero, gli occhi cambiarono forma così come la sua mandibola.
«Liosso mi ha considerato come appartenente alla sua stessa razza.»
Magara strinse le gambe e alle ginocchia si unirono, Liosso continuò a “cantare” la sua melodia con evidente piacere.
«Il drago è la più nobile e potente di tutte le creature terrestri.»
Il Guardiano vide Magara sollevarsi oltre la sua testa, sorretto da una gigantesca coda sinuosa. Il drago muoveva ancora la il capo a destra e a sinistra intonando goffamente una nota dopo l’altra.
«E io sono un serpente, un drago imperfetto, la più infima fra le bestie.»
Il Guardiano cadde in ginocchio: ancora una volta la sua mente era nel panico, impaurita e consapevole di ciò che stava per accadere.
«Sono uno Yuan-Ti, metà uomo metà serpente. Il drago rifiuta di parlare la mia lingua e io sono costretto a parlare con l’unica lingua che tutte le creature terrestri possono comprendere: la musica. Ma tu non puoi capire certe cose. Ritornando al discorso precedente, non mi importa se non vuoi dirmi i vostri piani. Tanto ammazzerò i tuoi “amici” così come sto per ammazzare te.»
Il collo di Magara si allungò e il cavaliere spalancò le fauci, mostrando due enormi zanne cave. L’ultima cosa che il guardiano sentì fu il canto di un drago e l’ultima cosa che vide fu il morso di un gigantesco serpente. Le zanne di Magara affondarono nel collo del monaco e la coda ne avviluppò il corpo, fracassandogli le ossa. Liosso continuò a cantare muovendo gola, testa e petto. Le corde vocali vibrarono in una moltitudine di note differenti sfiorando toni che nessun’altra creatura avrebbe potuto imitare.
Magara finì di ingoiare la sua vittima poco prima che il suo amato drago smettesse di ruggire. La coda tornò ad accorciarsi e a separarsi, il petto gonfio nell’armatura tornò alle sue normali dimensioni, gli occhi da rettile tornarono quelli di un umano, la pancia piena del cadavere del guardiano si sgonfiò. Magara prese a vestirsi, raggiunse Liosso e con una melodica armonia spiccò il volo verso la piazza d’armi della Torre-Nido.
“Facciamola finita, subito.”

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Capitolo 5
*** Rivelazioni e Priorità ***


L’immensa figura del palazzo imperiale era ormai in vista.
«Gifo! Tu va alla sala del trono, io vado alla torre!»
La voce di Gorun sfrecciò tra le raffiche di vento per giungere alle lontane orecchie del compagno. I due si divisero: Gifo planò verso l’ingresso principale, Gorun salì verso la torre della principessa.
Toko, provocando una mortale caduta di detriti, assicurò la sua enorme mole artigliandola ai merli della torre e Gorun scese dal dorso della sua cavalcatura, si lanciò attraverso una finestra mandandola in frantumi e piombando in una camera da letto spaziosa, con un letto a baldacchino e innumerevoli bambole e ninnoli.
«Principessa, state bene?»
La piccola Keluna, di solo dieci inverni, si spaventò. Era l’unica figlia dell’imperatore, femmina per giunta. Bihares sperava in un figlio maschio che avrebbe saputo governare con saggezza e forza, che gli avrebbe donato nipoti e terre conquistate. Il trattamento che Keluna ricevette fu egualmente sontuoso e affettuoso: ricoperta dalle cure del padre e delle badanti, la piccola Keluna era perennemente circondata da ogni cosa lei desiderasse e sempre accontentata in ogni suo capriccio ma, al contrario di come si possa pensare, queste premure non mutarono il suo carattere dolce, altruista e puro. Nonostante un cavaliere mutilato fosse piombato in camera sua dalla finestra, la principessina mantenne la calma.
«S-si, sto bene. Cosa succede, Gorun?»
«E’ in pericolo, mia signora. Dobbiamo fuggire.»
Keluna non poté ribattere, Gorun la afferrò per un braccio e la condusse fuori dalla sua stanza. Nel corridoio però uno strano ronzio disturbava le orecchie dei fuggitivi.
«Keluna, giù!»
Gorun strinse la principessa e si gettarono a terra. Un lampo di luce attraversò il corridoio polverizzando la parete di fronte.
«Presto!»
Il cavaliere, rialzatosi, spinse la principessa nella sua camera e li vi rimasero entrambi. Un’altra esplosione frantumò le rocce e la porta della camera della principessa. Una schiera di soldati entrò e il loro capitano parlò:
«Gorun Scui, Cavaliere di Drago conosciuto come “Lo Storpio”, sei accusato di alto tradimento. Ti dichiaro in arresto per l’omicidio del nostro amato Imperatore! Allontanati subito dalla principessa!»
La piccola Keluna sgranò gli occhi, sorpresa. Gorun le carezzò il viso e con deboli parole la tranquillizzò:
«Ehi, piccolina. Va tutto bene. Dei brutti maghi cattivi ci vogliono fare del male. Tuo padre sta bene, non preoccuparti.»
Lo Storpio la baciò sulla fronte e si alzò.


Gifo aveva lasciato Magan sul piazzale di fronte all’ingresso della residenza, nello sgomento dei cittadini. Attraversando il labirintico palazzo giunse al portone della sala del trono. Nessuna guardia. Gifo spinse furtivamente la porta e vi si introdusse. Il cuore gli salì in gola: l’imperatore, di fronte al trono e con braccia aperte, lo fissava con uno strano sorriso sulle labbra. Uno stregone dal volto coperto da una maschera nera dai lineamenti d’oro lo fiancheggiava e si voltò a fissare il cavaliere. Il mago parlò:
«Sei arrivato tardi.»
Il mascherato estrasse rapidamente la spada dal fianco e aprì una ferita sul petto dell’imperatore.
«Signore!»
Gifo scattò in avanti con tutta la forza, raggiunse i piedi dell’altare e si fermò con colpi di tosse, ansimando.
«Sei finito, cavaliere. Guardie!»
Alle spalle del cavaliere di drago, un manipolo di soldati sbucato dal nulla invase la sala del trono.
«Ha ucciso il nostro Imperatore! E’ un traditore! Uccidetelo, io porterò in salvo il nostro signore.»
Lo stregone poggiò una mano sul petto di Bihares ed entrambi scomparvero in un lampo di luce.
«Oh, certo» colpi di tosse bloccarono il discorso «adesso io sarei un» altri colpi di tosse «traditore.»
«Fermo! Ti dichiaro in arresto, nel nome dell’Imperatore!»
Gifo stramazzò al suolo, esausto. Seduto a terra, fissava gli occhi del suo interlocutore.
«Non pensarci neanche. Quel mago l’ha ucciso, non io!»
«Non voglio sentire altro. Soldati, uccidetelo!»
Ma l’avanzata delle guardie fu interrotta da un ruggito rauco.
«Qualcuno ha stuzzicato Magan, eh?»
Una risata fu stroncata sul nascere da un forte dolore al petto.
Un soldato, un impavido campione, ignorò il ruggito e colpì con un fendente la spalla del cavaliere, cercando una fessura tra le giunture dell’armatura. La spada toccò l’armatura di Gifo e la lama si ridusse in polvere. La guardia rimase interdetta.
«S-se sono un cavaliere» un conato di vomito «ci sarà un motivo, no? Ogni cosa che tocco cade vittima di una qualche malattia. Non credo che la ruggine sia una malattia per il ferro, ma di solito funziona.»
Il prode cavaliere riversò il contenuto del suo stomaco in terra, imbrattando il regale tappeto rosso e schizzando gli schinieri della guardia. Del fumo cominciò ad uscire dall’armatura del soldato, il ferro trasformato in ruggine aprì una breccia per gli schizzi di vomito che toccarono lo stinco del soldato. Le urla vennero udite da tutti in quella sala. In una pozzanghera di sangue e ossa, il soldato iniziò a sciogliersi a partire dal basso. Gifo, in quel marasma di urla e fumi tossici, si alzò in piedi. Si avvicinò lentamente ad una guardia paralizzata dalla paura e le toccò la fronte scoperta. Il soldato cadde morto, col volto deturpato da vene violacee a fior di pelle.
«Ora: voi lasciate in pace me ed io evito di ammazzarvi tutti.»
Gifo osservò compiaciuto i volti delle guardie di fronte a lui: centinaia di facce mangiate dalla paura. Un insolito sussurro però disturbò le orecchie del cavaliere. Una strana aura bianca pervase le sagome dei soldati, i loro occhi divennero vacui e privi di anima. Un monaco, anch’esso col volto coperto da una maschera nera, sbucò da dietro le file nemiche.
«Adesso gioca con me.»
Gifo fu costretto ad evitare una spada magica intenta a decapitarlo alle spalle. Il corpo tumefatto del soldato morto in precedenza era armato e vivo.
«Un marionettista, eh? Nessun problema.»
Altri soldati piombarono addosso al cavaliere; Gifo estrasse le sue due lame gemelle da dietro le spalle. In un vortice di braccia e lame, il cavaliere parò e schivò una pioggia di colpi proveniente da tutte le direzioni. Circondato, Gifo tagliò braccia, amputò gambe, mozzò teste, trafisse corpi. La cagionevole salute del cavaliere era spesso oggetto di critiche e risate ma colpi di tosse, vomito e dolori muscolari non limitavano le spettacolari capacità del miglior spadaccino di tutto l’impero. La sua abilità con le due spade gemelle era pari a quella di Lopar con il suo spadone: leggere e ricurve, erano l’incubo di tutti gli eserciti rivali all’impero ed era un idolo per tutti i maestri di spada. Con movimenti circolari e sinuosi, incrociati e secchi, con affondi potenti e fendenti le spade si abbatterono sui nemici con una tale velocità che lo stesso monaco fu colto alla sprovvista. Gifo balzò in aria, lontano dai cadaveri e più vicino al monaco marionettista. Il cavaliere parlò:
«Ora tocca a te.»
«Non credo proprio!»
Alle spalle di Gifo uno sferragliare di corazze segnalò l’arrivo dei soldati, ancora. Una schiera di soldati non-morti stava avanzando verso di lui: chi senza testa, chi senza braccia e persino striscianti senza gambe, tutti sotto il controllo del monaco.
«Ripeto. Ora tocca a te.»
La sicurezza del monaco svanì in un’esplosione di roccia, la testa di Magan sbucò dal portone principale in tutta la sua grandezza.
Il cavaliere di drago tossì: il colpo di tosse risuonò all’interno della sala del trono e fu il silenzio. I soldati rallentarono i loro movimenti, si fermarono, si piegarono in ginocchio, caddero a terra.
«Ma che succede?»
Alla domanda del monaco, Gifo rispose:
«Forza di gravità: grava sulle loro armature, appesantendoli. Anche tu dovresti sentire una leggera pressione; anche se non hai l’armatura, i tuoi abiti dovrebbero essersi appesantiti.»
Al monaco mancò la capacità di muoversi. Si guardò gli abiti, sembravano muoversi e scendere sempre di più verso terra. Il monaco guardò Gifo e il cavaliere, accasciato a terra e agonizzante, ricambiò lo sguardo e indicò verso l’alto. Il monaco alzò gli occhi e vide calare su di lui un’enorme bocca dentata.
Gifo vide Magan inghiottire per intero il monaco marionettista, sorrise al drago e si sdraiò a terra, esausto. Il drago, ingoiata la preda, avvicinò il muso al suo povero padrone e insieme riposarono.
Un forte schianto, rumore di ossa distrutte. Lopar e Mulik ricaddero su un cumulo di teschi.
«Che razza di posto è questo?»
Lo sguardo dei due cavalieri vagò in cerca di spiegazioni: erano nella piazza d’armi, circondata da enormi cumuli di teschi. I due avanzarono frantumando sotto ai loro piedi teste umane, teschi animali, di cani e lupi, di gatti e orsi, di uccelli e pesci. Scesero dalla montagnola che aveva frenato la loro caduta e misero piede sul pavimento della piazza d’armi: spaziosa e austera, un burrone segnava i contorni circolari della piazza d’addestramento. Si udì una voce:
«Ebbene si, è qui che dovreste essere adesso.»
Proveniva dal teschio di un gigante posto al centro della piazza. Da una delle orbite, una figura avvolta in un mantello osservava i nuovi arrivati. Lopar rispose, Mulik continuò a guardarsi intorno con aria stordita:
«Parla chiaro, stregone. Spiegaci cosa sta succedendo o giuro sulla mia vita che tu non ne uscirai vivo.»
«Mio caro cavaliere di drago, abbi fede. Vuoi sapere cosa stiamo facendo di così tanto importante? Semplice, abbiamo ucciso il vostro imperatore e l’abbiamo sostituito con un corpo fittizio, abbiamo falsificato quella pergamena e abbiamo appena ucciso i tuoi compagni cavalieri.»
«Bugiardo!»
Lopar sfoderò lo spadone, Mulik si voltò scattante e, seguendo i movimenti del fratello, sfoderò anch’esso le sue armi: due piccole accette da battaglia.
Una risata contagiò tutti i teschi presenti. Migliaia e migliaia di ossa risero in coro prendendosi gioco dei due cavalieri.
«No, non sono un bugiardo. Credi che il nostro piano sia tutto qui? Non vogliamo solo uccidervi ed eliminare quel mentecatto di Bihares, vogliamo molto di più. Vogliamo potere. Devi sapere, mio caro, che io non sono realmente qui. Sono una copia, sono io l’unica mente che ha progettato tutto questo. Le altre copie, illusioni corporee, si staranno occupando dei tuoi amici mentre il vero me è già alla reale piazza d’armi. Tu forse non lo sai ma sotto a quel cumulo di rocce e piastrelle, nel fondo del burrone, si nasconde un… tesoro.»
Dai cumuli di ossa, strane figure iniziarono a venire fuori. Tutte avvolte in mantelli cremisi, circondarono il duo.
«Altre copie, dannazione…»
Le figure iniziarono a sussurrare e a ridere di gusto. A Mulik fischiarono le orecchie.
«In quel burrone giace un drago. Morto, da millenni. Ma come ben sai, le ossa di drago non si decompongono tanto facilmente.»
Le copie iniziarono ad applaudire e a fischiare con giubilo. Alcuni però si mossero, sfrecciando verso i cavalieri armati di lame magiche. Lopar schivò e contrattaccò, trafisse e parò. I corpi caddero e si dissolsero come nebbia al vento.
«E come tu ben sai, noi adoriamo il dio Kerma, metà drago metà uomo.»
I sussurri aumentarono d’intensità. Fulmini, sfere di fuoco, raggi rossi e luminosi d’energia si incrociarono nella piazza. Mulik venne ripetutamente colpito e sbalzato a terra, l’armatura fece il suo dovere ma il volto, scoperto, iniziò a sanguinare pieno di ustioni e ferite. Lopar, per difendere il fratello, iniziò a rimandare indietro i raggi di energia, consapevole che la sua spada, impregnata di magia, li avrebbe respinti. E così fu: monaci carbonizzati e vaporizzati dai loro stessi attacchi furono sostituiti da nuove illusioni.
«Ebbene ciò che noi vogliamo creare è un grande condottiero, un semidio. La corona del tuo imperatore è un ottimo catalizzatore. Lo sapevi che in quel semplice cerchietto d’oro si nasconde una reliquia draconica? Una goccia di sangue di drago per la precisione. Il mio vero me stesso in questo momento starà prendendo la corona ed invocando il drago non-morto.»
Risate, urla, applausi, lampi di luce e sussurri. Mulik, gettando le asce a terra, strinse i palmi alle orecchie e gli occhi iniziarono a lacrimare per il dolore. Lopar comprese il bisogno del fratello.
«Quando mi sarò fuso con quell’immonda creatura, sarò immortale nello spirito e imbattibile nel fisico. Sarò un semi-dio o addirittura un dio! La potenza dei draghi e la conoscenza degli stregoni uniti in un unico corpo!»
«Sei un folle.»
Fu l’unico commento che Lopar riuscì a pronunciare.
Mulik esplose. Cacciò un urlo, acuto e prolungato. Grida, schiamazzi e sussurri furono coperti e sostituiti da facce spaventate. Il cavaliere tese la mano verso il monaco e, con un movimento rapido del braccio, chiuse il pugno e lo portò a sé. Fu come strappare un velo o la pagina di un libro. Il silenzio calò: un muto e perfetto silenzio. I mille volti provarono a pronunciare i loro incantesimi, ma nulla si udì. Provarono a parlare, a comunicare, a urlare: altro silenzio uscì dalle loro gole. Mulik ora aveva una faccia felice, come in estasi. Il chiasso era svanito e lui era felice. Il monaco non capì e Lopar, con un ghigno, mostrò il pugno al fratello per poi indicare il monaco. Mulik comprese e fulmineo si voltò e raggiunse con velocità sorprendente un cumulo di teschi. Il sacerdote non poté credere ai suoi occhi quando un pugno si abbatté alla velocità della luce sulla sua guancia con una forza tale da sbalzarlo lontano. Al contatto del pugno con il volto del monaco la maschera nera si frantumò e le copie fittizie compresa quella all’interno del teschio gigante scomparvero in docili fumate di nebbia. Il monaco, con la bocca e una guancia scoperti, costretto a terra dalla spada di Lopar, tentò di parlare ma ancora nessun suono ne uscì. Piuttosto vide qualcosa che mai avrebbe immaginato di vedere: Mulik stava fremendo, tentava disperatamente di togliersi l’armatura, come se qualcosa stesse bruciando la sua schiena. Con mugolii e imprecazioni silenziose infine riuscì a levarsi la corazza che cadde: sulla schiena ossuta e bianca un tatuaggio circolare pieno di motivi floreali brillava di luce propria. Il monaco cremisi sgranò gli occhi: alle spalle del cavaliere, una gigantesca figura eterea si stava innalzando sopra di loro. Un fantasma, bianco e traslucido. Il drago di Mulik: Vaje.
Un boato, un ruggito. L’onda sonora inaspettata e potente fece agitare le membra dello stregone. Lopar parlò e con grande sorpresa del monaco, le parole vennero fuori come se nulla fosse successo:
«Hai l’onore di vedere Vaje, il drago di mio fratello. Dopo la sua morte, mio fratello impazzì, vedendo il suo sogno di diventare cavaliere realizzato solo per metà. Guardalo.»
Il monaco fissò il cavaliere: Mulik piangeva. Il corpo piegato dal peso dello spettro del suo drago che fuoriusciva dal tatuaggio bianco, la testa sollevata a guardare il volto della sua creatura. Un altro ruggito, profondo e minaccioso, ad ali spiegate. Un’altra lacrima solcò le guance del trasandato Mulik, il Toccato.
«Non lo vide mai crescere, non lo udì mai ruggire. Eppure il drago si affezionò ugualmente, seguendolo con lo spirito. Nessuno potrà sciogliere il legame che tiene uniti quei due. Ma tu non potrai mai capire. Piuttosto, tutto ciò che tu hai appena detto è stato udito da Magara.»
Lopar indicò la sua testa.
«La telepatia non è qualcosa di cui avete l’esclusiva, voi maghi. E adesso, addio.»
Lo spadone si sollevò e si abbatté sul cranio del monaco cremisi.
Vaje e Mulik si scambiarono ruggiti, sguardi e lacrime e non notarono che tutto intorno a loro, la piazza d’armi e i teschi, stava svanendo nel nulla. Una camera oscura fu ciò che ne rimase. I due cavalieri e il drago fantasma si ritrovarono a fluttuare nel vuoto più oscuro. Svennero.
Sferragliare di corazze, intimidazioni, sussurri lontani. Lopar si svegliò con un gran mal di testa, seguito da Mulik. I due cavalieri si alzarono con evidente sforzo e massaggiandosi il cranio si guardarono attorno: il drago fantasma e il vuoto vennero sostituiti da una marea di monaci armati fino ai denti. Il portale li aveva teletrasportati nel punto da cui erano partiti ma mancava qualcosa. Lopar sgranò gli occhi:
«Dov’è il mio drago? Dov’è Mugi!»
Uno stregone si alzò in levitazione e sollevò il piccolo drago come un trofeo, legato con catene e lacci.
«E’ qui! Al sicuro.»
Lopar, tranquillizzato, ripose al mago:
«Oh, per fortuna. Ti ringrazio ma ora dovresti ridarmelo, andiamo di fretta.»
Il silenzio calò ancora. Un’altra esplosione di risate pervase il Crocevia e Mulik tornò a premere le orecchie con i palmi delle mani.
«Certo che voi stregoni ridete fin troppo spesso. Fratellino, “kaboom”.»
La maschera di dolore del Toccato si trasformò in una maschera di gioia pura. Il matto allargò le mani, Lopar si infilò due dita nelle orecchie le mani si chiusero in un battito. Un violento scoppio sonoro sbalzò in aria i più fortunati mentre quelli schierati nelle retrovie furono colti da fremiti e sanguinamenti alle orecchie. Il suono violento frantumò timpani e sconquassò carni ed ossa. Un varco si aprì di fronte ai due cavalieri che avanzarono illesi tra i corpi di maghi morti sul colpo ed altri doloranti o preda di copiosi sanguinamenti.
«Grazie.»
Disse Lopar riprendendo e slegando il piccolo Mugi dal cadavere del suo rapitore.
I due, impavidi e impassibili, abbandonarono quella bolgia di monaci e tornarono all’aria aperta.
«Sarà meglio tornare. Andiamo a dare man forte a Magara, su fratellino, aggrappati a me. Vaje ti ha donato qualcosa di cui avevi bisogno: sé stesso, un drago. A me il piccolo Mugi ha donato qualcosa che invece a lui mancava: la capacità di volare. Due bellissime ali, per proteggere e servire.»
Lopar strinse in un abbraccio il fratello mentre Mugi, artigliato alla testa del cavaliere, iniziò a ruggire con la sua flebile voce. Dalla schiena di Lopar, placche metalliche iniziarono a muoversi, ad accavallarsi, a spaccarsi. Due ali, grandi quanto quelle di un drago, sbucarono improvvisamente dalla schiena del cavaliere. Grandi, maestose e robuste, iniziarono a battere sempre più velocemente finché i due non si sollevarono da terra e presero a fluttuare per aria. Un altro battito, più forte, spinse i due fratelli in avanti, diretti verso la caserma e alla piazza d’armi.
L’ascia bipenne di Gorun si abbatté sul cranio di un soldato come la lama del boia si abbatte sui criminali. La mancanza di un braccio aveva fatto sviluppare a Gorun un nuovo, perfetto equilibrio. Corpi a destra, arti mozzati a sinistra. La furia omicida dello Storpio era implacabile. Niente e nessuno doveva toccare la principessa e la sua ascia aveva il compito di proteggerla e i soldati e le guardie reali non erano le uniche minacce presenti. Un altro sussurro. Il cavaliere gettò l’arma a terra e afferrata la piccola Keluna, in piedi vicino ad una finestra, si gettarono nuovamente per schivare un altro lampo di energia.
«Maledetto codardo! Fatti vedere!»
«Con molto piacere.»
Una guardia reale si scoprì il volto e con un semplice gesto fece sparire l’armatura: una maschera nera ornata d’oro. Le guardie attorno a lui erano allibite.
«E tu chi sei?»
Il monaco non li degnò neanche di uno sguardo e schioccando le dita uno strano cristallo iniziò a crescere sui corpi spaventati e urlanti dei soldati. Il cristallo soffocò le sue vittime come un’edera velenosa, si propagò per la stanza investendo ogni cosa. Lo stregone calciò dietro di sé l’ascia bipenne e con un gesto della mano avvinghiò una frusta infuocata al collo del cavaliere. Quest’ultimo rise:
«Sei qui per uccidermi dunque. Bene, sono sollevato dal fatto che tu non voglia fare del male alla bambina.»
La mano di Gorun toccò la frusta: il fuoco svanì e venne risucchiato nel moncherino. Al posto del braccio mancante, una protuberanza incandescente sbucò dalla manica dell’armatura.
«Ah, un braccio infuocato era proprio ciò che mi serviva per cancellarti quella faccia da traditore.»
Gorun si lanciò in avanti e tentò di colpire il monaco con il suo nuovo braccio fiammeggiante.
«Ma che cosa sei!»
«Sono un mangiatore di essenze.»
I pugni del vecchio cavaliere vennero schivati con agilità dal giovane monaco che provò a contrattaccare: due enormi spuntoni di pietra fuoriuscirono dalle pareti della stanza e si conficcarono tra le costole dello Storpio.
La roccia venne sgretolata e con movimenti vorticosi assorbita nel braccio infuocato. Il fuoco mutò in pietra. Gorun guardò il suo braccio, rise e cominciò a far piovere una raffica di pugni verso il monaco. Il sacerdote fu colpito ripetutamente e, tra schizzi di sangue e rumori di ossa fratturate, riuscì a bloccare il braccio di roccia con due dita, puntate verso gli occhi del cavaliere, lanciò un incantesimo. Il collo di Gorun si piegò all’indietro per la potenza del colpo ma il volto, fumante e mezzo carbonizzato, tornò a ridere. Le ustioni svanirono e il braccio roccioso, bloccato sotto quello del monaco in una stretta di ferro, si trasformò in pura energia. Il monaco cacciò un urlo, ustionato, barcollò verso la porta. Gorun fu pronto a colpire ancora, stavolta con il suo nuovo braccio energetico, ma il monaco aveva qualcosa di strano: tremava. Rumore di ossa, viscere e sussurri. Alzò la testa e con un urlò affrontò il cavaliere con rinnovato vigore. Il suo corpo era intatto, come nuovo. Niente ustioni, niente lividi neri, niente ossa fratturate.
«Credi di avermi sconfitto così, cavaliere? Mi sottovaluti.»
«E tu sottovaluti me. Toko!»
L’enorme drago sovrappeso appollaiato sulla torre fece sporgere la sua testa all’interno della camera della principessa Keluna che in quel momento osservava la testa dell’immane creatura con stupore.
«Tu, come anche tutti quei miscredenti che hanno spedito me e Gifo al confine, non comprendete le nostre reali capacità. Se il mio drago è grasso ci sarà pure un motivo. Lui non sputa fuoco perché tutto ciò che io assorbo, finisce nel suo stomaco.»
Il monaco capì:
«Per l’amor di…»
Il possente Toko spalancò le fauci rilasciando un fascio di energia che, silenzioso e prolungato, vaporizzò il monaco e tutto ciò che stava di fronte alle sue enormi mandibole. La piccola Keluna, a bocca aperta per lo stupore, corse davanti al drago e iniziò ad accarezzarlo sotto lo sguardo vigile di Gorun. La principessa fu colta da un’improvvisa curiosità e si sporse fuori dalla finestra: guardo a destra e a sinistra, infine guardò in alto e tornando dentro, tutta contenta, iniziò a saltellare ripetendo sempre le stesse parole:
«Il drago è dimagrito, il drago è dimagrito!»
Gorun sorrise.

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Capitolo 6
*** Dei e Demoni ***


Eccola finalmente in vista: la piazza d’armi della caserma, sotto lo sguardo vigile della Torre-Nido.
Liosso atterrò goffamente nella piazza mandando in frantumi qualche mattonella. La zona, al centro di una gigantesca voragine circolare, sembrava deserta.
«Ebbene? Che Lopar si sia sbagliato?»
Detto questo, uno strano movimento catturò l’attenzione del cavaliere. Una carcassa carbonizzata, uno scheletro incoronato: l’imperatore.
«Oh, mio dio.»
Alle spalle di Magara un strana figura si sollevava da terra. Il cavaliere si voltò di scatto e un monaco incappucciato e mascherato gli si parò davanti.
«Dunque, sai tutto.»
Magara non rispose, guardò Liosso: stava bene, si era appisolato. Il monaco superò il cavaliere, raggiunse il cadavere carbonizzato e si chinò:
«I tuoi amici hanno sconfitto tutte le mie copie.»
Il sacerdote raccolse la corona e la indossò.
Magara lo riconobbe ancora una volta:
«Sei ancora tu, il Guardiano del giorno dell’investitura. Perché fai tutto questo?»
Il guardiano si voltò, fissò Magara con occhi spiritati, posseduti. La corona iniziò a fremere, qualcosa al suo interno si muoveva.
«Perché sono stufo di dover fare il guardiano. Perché sono stanco di dover essere trattato come uno straccio da voi cavalieri, da voi soldati, dall’imperatore, dalla principessa. Perché non sopporto che la gente comune sottovaluti la religione. Noi crediamo in un Dio ma loro non lo vedono come lo vediamo noi, non ci credono affatto. Ebbene sto per dargli ciò che vogliono: una prova. La prova dell’esistenza di una vera divinità in questa terra.»
Il guardiano allargò le braccia. La piazza d’armi sussultò come colpita da un terremoto. Smise di muoversi. Tremò ancora. Smise ancora. Ad ogni colpo il cuore di Magara batteva sempre più forte.
«Nel fondo di questo baratro è seppellito un potente dragone appartenente ad uno dei cavalieri più famosi che abbiano mai prestato servizio presso Bihares ed io ho le capacità adatte a rianimarlo. Mi fonderò con esso e dominerò su queste terre, su queste masse di infedeli, su di te, sui tuoi amici e su quella stupida ragazzina.»
Detto questo, un ruggito strozzato risuonò nell’aria. Una zampa, enorme ed ossuta sbucò dalle profondità della voragine, poi un’altra ancora. Seguì un’ala, putrefatta e rotta, poi un’altra. Un enorme teschio di drago fece capolino dal profondo burrone e con uno scatto inghiottì il monaco. Il guardiano, bloccato tra le fauci del drago non-morto, iniziò a cantilenare una litania. Il drago iniziò a far oscillare la testa a destra e a sinistra; le ossa scricchiolarono: iniziarono a brillare e con un lampo di luce scomparvero insieme al monaco. Allo stesso modo, un bagliore oscuro implose come a riavvolgere il tempo e di fronte al cavaliere una sagoma inginocchiata fece la sua comparsa. La figura, con le gambe coperte da una tunica lacera e il corpo corazzato da ossa nere, alzò la testa e sorrise al cavaliere.
«Non mi hai fermato. Perché?»
Magara continuò a non rispondere.
«Sono un Dio adesso. Forte come un drago, sapiente come un uomo. Sono invincibile.»
Magara tacque. Liosso continuò a dormire.
La testa, contenuta in un teschio nero, parlò ancora:
«Cosa c’è che non va? Non hai paura, non sei felice, non sei arrabbiato?»
Magara estrasse il suo flauto, ne cacciò la lama, la guardò e la lasciò cadere a terra.
Il mostro continuò ad avanzare:
«Ti sei arreso, dunque.»
Magara iniziò a togliersi la corazza.
«Oh, vuoi provare ancora con quel giochetto dell’uomo serpente?»
A petto nudo, Magara gonfiò i polmoni con profondi e lenti respiri, mostrando i tatuaggi tribali.
«Non funzionerà mai, lo sai bene. Ho già visto questa trasformazione. Hai sconfitto una delle mie copie ma non ci casco un’altra volta e poi ora sono anche indistruttibile.»
Magara respirò ancora, profondamente. L’immortale guardiano avanzò ancora:
«Addio, Magara. Mi sarebbe piaciuto avere qualcuno come te al mio fianco, ma ormai non posso più tornare indietro.»
L’umanoide ricoperto di ossa nere era ad un palmo dal volto del cavaliere quando quest’ultimo infine parlò:
«Sai come ho ricevuto questa cicatrice?»
Gli occhi del guardiano si chiusero leggermente all’interno del teschio draconico. Non capì il senso di quella domanda.
«Sono uno Yuan-Ti. Ma il perché vivo tra gli umani, te lo sei mai chiesto?»
L’immortale non rispose.
«Anche noi adoriamo un Dio. Un crudele Dio serpente che viene da un’altra dimensione. Come hai detto tu, non avendolo mai visto, non credevo a queste storielle.»
Qualcosa turbò il dragone nero.
«Fui etichettato come eretico, catturato e offerto in sacrificio alla divinità. Quando lo vidi, evocato ad un portale in cima ad una cascata, non potei credere ai miei occhi. Ma qualcosa non andava. La divinità mi guardò, mi annusò, mi toccò e con un dito mi procurò questa enorme cicatrice. Non mi mangiò. Mi prese e mi gettò giù per la cascata. Quando fui ritrovato, ancora vivo, fui condannato all’esilio. Se un Dio non apprezzava un giovane yuan-ti come offerta votiva, allora voleva dire che il giovane yuan-ti era maledetto, non degno di vivere con i suoi simili. Ma gli umani mi accettarono, o meglio, accettarono la mia forma umana.»
«Mi stai raccontando la storia della tua vita con lo scopo di commuovermi?»
L’immortale rise. Magara anche:
«Sei un dio, eppure sei così ingenuo.»
La profonda cicatrice di Magara si aprì in una voragine luminosa. L’immortale sgranò gli occhi.
«Il Dio era pervaso da fiamme divine. Ferendomi, le passò a me. Divinità contro divinità. E credo di aver vinto io.»
L’immortale non fece in tempo ad urlare che una lama di luce investì il volto del dragone, riversando sul suo corpo un flusso di energia. Le fiamme, arancioni e vivide, crearono crepe e solchi sul corpo dell’inerme guardiano. Si inginocchiò e Magara parlò:
«Sono diventato un cavaliere per proteggere e servire l’impero. Lo stesso impero che mi ha accolto nonostante la taglia sulla mia testa, lo stesso impero che mi ha dato la possibilità di divenire ciò che sono, lo stesso impero che ha accettato la mia maledizione. Porto le fiamme di una divinità per servire l’uomo, poiché le divinità a volte non sono così giuste e leali come le si dipinge.»
Tra lamenti, spruzzi di sangue, schizzi di luce e ossa nere in polvere, il guardiano fissò Magara negli occhi: una lacrima scese lungo la guancia. Il corpo privo di vita cadde in avanti, sbatté il volto e questo fracassò l’elmo d’osso. Magara si chinò, riprese la corona dalle ceneri del monaco e la strinse tra le mani. La voragine lavica sul petto del cavaliere si richiuse e Liosso si svegliò.
 
Gifo, Magara, Gorun, Mulik e Lopar non seppero trattenere le lacrime: un nuovo imperatore era stato eletto. L’urlo di un funzionario risuonò nella sala del trono:
«Lunga vita all’imperatrice Keluna! Onore e Gloria all’Impero!»
La folla ripeté quelle parole con gioia e con forza. La piccola principessa, ora imperatrice, sorrideva dal cuscino del suo trono, coperta da un grande mantello e armata di un pesante scettro d’oro
Magara sussurrò:
«E’ un amore, vero ragazzi? Speriamo che almeno lei abbia conservato qualcosa dello spirito di suo padre, che riposi in pace.»
I quattro sorrisero e la principessa si alzò e con voce infantile parlò:
«Come mio primo ordine» una pausa fece commuovere gran parte dei sudditi, compreso Gorun «ban-bandisco i monaci dal paese!»
Lo scettro alto in pugno e il viso orgoglioso, un sorriso fece capolino dalle labbra della bambina. Le guance divennero rosse e il popolo rispose con un perfetto silenzio. Attimi interminabili. Ma i sudditi sapevano, sapevano cos’era successo e con grande gioia esultarono e festeggiarono al suono di quelle parole, non tanto per  la notizia sconvolgente quanto per il dolce e inaspettato tono, femminile e autoritario, utilizzato dalla piccola Keluna.
«Tutta suo padre.»

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