Buona notte, dolce principe

di Il Professor What
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il servo di Dio ***
Capitolo 2: *** Le verità dell'odio ***



Capitolo 1
*** Il servo di Dio ***


Silenzio. Vuoto. Quelle pareti che per anni avevano sentito e rimbombato ogni tipo di rumore, adesso erano solo barriere che lo isolavano dal mondo esterno. C’erano state risate e c’erano state lacrime, c’erano stati i gemiti del piacere e quelli della tortura, i suoni della bellezza e quelli del terrore: ma adesso, di tutto questo non rimanevano che i muri, testimoni senza voce ma forse non senza memoria.
L’unico essere ancora vivo in quella immensa costruzione si trascinava faticosamente verso il proprio letto. Sbuffava e sudava, imprecando contro la propria gamba da anni malferma, mentre il letto sembrava allontanarsi invece che diventare più vicino. Il dolore voleva farlo urlare, ma lui non avrebbe ceduto, mai. Il re d’Inghilterra non si sarebbe fatto piegare dalla propria gamba, lui che nella vita non si era mai fermato di fronte a nulla pur di ottenere ciò che voleva.
Finalmente raggiunse le coperte e vi si aggrappò. Con tutta la forza dei suoi muscoli doloranti, si tirò sul letto e strisciò fino al cuscino, su cui infine si accasciò, stanco ma soddisfatto. Ce l’aveva fatta. Adesso poteva finalmente dormire, concedere al proprio corpo e alla propria mente il riposo di cui aveva bisogno.
No, non poteva. Glielo disse l’improvvisa consapevolezza di non essere solo, quel senso raffinato da anni di precauzioni contro la propria vita. Ma non era solo quello. Aveva già provato altre tre volte quel brivido, negli ultimi giorni, da quando loro avevano cominciato ad apparire. Caterina. Anna. Jane. E adesso?
Si rifiutò di alzare gli occhi verso la figura che, lo sapeva, lo stava aspettando di fronte al suo letto, alla tremula luce della luna. Non ancora, Signore. Ti prego, non ancora. Perché adesso? Perché? Non ebbe risposta alla sua muta preghiera. La sensazione non se ne andò. Era ancora lì. Si strinse ancora di più al cuscino, rifiutando caparbiamente di alzare gli occhi. Non avrebbe parlato con quel fantasma, restasse lì quanto voleva. Era stanco, e avrebbe dormito.
 
“Potrei quasi ritenermi offeso, sai, Enrico?”
 
Riconobbe la voce: calda, tranquilla, lievemente divertita. Una sensazione di calore lo avvolse, mentre il peso che portava sul cuore da anni sembrava d’un tratto essere divenuto più leggero. Era la sua voce! Lui! Lui!
 
“Tommaso!” Gli occhi di Enrico si alzarono a incontrare lo sguardo dell’uomo che più di chiunque gli era mancato, l’unico uomo che avesse mai osato contraddirlo, l’unico che gli aveva mai parlato sinceramente.
 
Tommaso Moro era in piedi di fronte alla finestra, con il vestito nero e la collana d’oro che Enrico ricordava così bene, una piccola croce d’argento nel pugno chiuso. Il cuore di Enrico si strinse nel riconoscerla: era la croce che quell’uomo aveva stretto sul patibolo, che Brandon gli aveva portato e che lui aveva gettato nello stagno del palazzo, incapace di sopportarne la vista. Il peso gli ripiombò sul suo cuore con tutta la sua pesantezza.
 
“Anche tu vieni ad accusarmi, Tommaso? Anche tu vuoi vendicarti di me?”
“Perché credi che io voglia vendicarmi, Enrico?”
“Non è così, forse? Io ti ho… ti ho ucciso…” Il groppo in gola quasi gli soffocò quest’ammissione, mentre le lacrime gli risalivano di nuovo agli occhi, e la memoria ricordava le ultime parole del suo maestro come Brandon gliele aveva riferite.
 
“Vi chiedo di essere testimoni che ora mi appresto a morire, nella e per la fede della Chiesa cattolica. Vi chiedo sinceramente di pregare per il re, e di dirgli che sono morto come servitore suo, ma di Dio prima di tutto.
 
“Era necessario, se non sbaglio.” La voce di Tommaso rimase calma. “Tu non volevi cedere. Io nemmeno. In tali situazioni, due uomini non possono che annientarsi.”
“E perché non hai ceduto?” La rabbia fu la risposta alla calma dell’ombra. “Perché non hai voluto fare come gli altri? Non me ne importava nulla di quel pazzo di Fisher, ma tu! Io ti ammiravo, per Dio, lo sai questo? Non ho trovato nessun altro come te! Volevo salvarti, ma tu… tu non mi hai dato scelta! Perché?”
“Povero Enrico…” disse l’ombra scuotendo la testa. “Così dunque sei finito… Il mio grande re.” Aveva il tono del buon professore che riprende l’allievo indisciplinato ma non cattivo. Quante volte gli aveva parlato così, calmandogli i dubbi e la rabbia, mentre guardavano le stelle, o studiavano come creare il reame perfetto, dove vi fosse piena libertà di parola, e tutti potessero contribuire al benessere dello stato in pace, perché la guerra non era più necessaria.
Una fitta acuta di dolore lo colse al cuore, e lui reagì nel modo che gli era solito: negando.
“Io sono un grande re! Ho difeso le mie genti, ho protetto e finanziato gli artisti, ho perfino vinto non una, ma due guerre! Ho realizzato la più grande riforma della storia inglese! Lo neghi, forse?”
“Non oserei mai contraddire Sua Maestà. Non adesso, perlomeno. Volevo solo rivederti, Enrico. Non potevo più attendere, anche se manca poco, come sai anche tu. Il mio affetto per te non è mai venuto meno. Anche quando ho posato la mia testa sul patibolo, pregavo Dio che ti perdonasse, perché non sapevi quel che facevi.”
Fu troppo. Era pronto all’odio, alla rabbia, alla vendetta, non a questo. Lui aveva annientato quell’uomo, costringendolo a scegliere fra lui e Dio. La sua testa era rimasta appesa per un giorno come monito per i traditori, e la sua famiglia bandita per sempre da corte. Come poteva adesso dirgli che pregava per lui? Come poteva ancora… volergli bene?
“Vattene, Tommaso” pronunciò a fatica tra le lacrime che gli irroravano le guance. “Vattene, ti prego.”
Non ci fu risposta. Tommaso Moro era di nuovo svanito.
E il cuore di Enrico VIII, re d’Inghilterra, Irlanda e Francia, scoppiò. Il torrente delle lacrime uscì dai suoi occhi bagnando le guance, i baffi e la barba del loro sapore salato. Si aggrappò al cuscino cercando di soffocare i gemiti, lottando per soffocare quella dolorosa stretta al cuore che lo appesantiva. E intanto la memoria gli rimandava indietro le immagini dei momenti trascorsi con quell’uomo che era stato il suo migliore amico.
 
Lo rivide mentre lo accoglieva sulla riva del lago, con sua moglie Alice e i suoi figli accanto, in una meravigliosa giornata di sole. Si discuteva di una possibile guerra contro la Francia, a cui Enrico era favorevole mentre Moro e Wolsey no. Ricordava le sue parole: “La guerra è un’attività da bestie, ma nessuna bestia la pratica con la stessa perseveranza dell’uomo.”
 
Lui ci era andato alla fine in guerra. Aveva assediato Boulogne per sette mesi, preparandosi poi a entrare a Parigi e riconquistare la Francia. Boulogne era caduta, ma lui non era re di Francia. Si sforzava ancora di credere che fosse stata una grande vittoria.
 
Gli stava facendo leggere l’opuscolo che aveva scritto contro Lutero. Tommaso lo ammoniva per il tono poco diplomatico, e lui rispondeva: “Nessun linguaggio è troppo basso per insultare Lutero o esaltare Sua Santità. Ne invierò una copia al Papa e voi, sir Tommaso, gliela porterete.”
“Perché mi chiamate sir Tommaso?”
“E’ il minimo che possa concedervi”
“Ciò va al di là di quanto merito!”
“Andiamo, Tommaso, non siate modesto! Non siete un Santo!”
 
Era un martire, adesso. E lui, Enrico, era stato l’artefice del suo martirio.
 
Era il primo Natale che lui e Anna passavano da sposati. Tommaso si era presentato portando in dono un crocefisso d’argento: “Ci ricorda Colui che dobbiamo festeggiare.” Sapeva che era anche una ripicca per il modo con cui Enrico si ostinava a riformare la Chiesa, ma non era riuscito ad arrabbiarsi. Non con lui, non a Natale.
“Grazie, sir Tommaso. Ne farò tesoro. Ci dobbiamo incontrare presto: ho ricevuto lamentele sul comportamento di alcuni clerici.”
Lui si era dichiarato disponibile alla chiamata, e si era voltato per andarsene. Enrico aveva sentito la mano di Anna nella sua distendersi, quella stessa mano che lei aveva tentato di ritirare quando Moro era stato annunciato. Quel gesto gli aveva fatto voglia di scendere dal trono e abbracciarlo, perché non tollerava che sua moglie parlasse contro il suo cancelliere.
“Tommaso!”
Ma non c’era riuscito. Aveva pensato a cosa volesse dire fare un gesto così sgradito alla donna per cui aveva spaccato il paese, la donna che amava. No, doveva stare sul trono, per evitare che nella corte si diffondessero voci inopportune. Eppure, ormai l’aveva richiamato… e lui aspettava il suo comando.
“Buon Natale” si era limitato a dire. Ma in quelle due parole sentì che c’era tutto un mondo di sentimenti e di parole che da tempo avrebbe voluto dirgli.
 
Non poteva non ucciderlo, se l’era detto tante di quelle volte. Non poteva fare un’eccezione proprio per lui, perché allora ognuno avrebbe potuto pretendere lo stesso trattamento: giurare solo quella parte del giuramento con cui era d’accordo. No, Tommaso doveva giurare su tutto oppure non giurare affatto e morire. Ne andava della sua credibilità come sovrano di fronte ad Anna, di fronte al popolo inglese, di fronte agli altri re: con tutto quello che aveva fatto per Anna, non poteva tornare indietro. Ma allora perché questo non bastava a togliergli dal cuore quel peso immane?
Aveva pensato di calmarlo con la morte di Anna, ma si era illuso. Ora che ci ripensava, tutto gli sembrava inutile. Aveva scatenato rivolte, bruciato eretici, ignorato la sua figlia maggiore, decapitato il suo migliore amico… per una donna che aveva poi ripudiato e fatto uccidere. Perché era stato solo dopo la morte di Anna che aveva abbracciato l’idea della Riforma in tutte le sue conseguenze, di per sé, e non come mezzo per avere la moglie che bramava.
Urlò, cercando di scacciare quelle riflessioni che teneva rinchiuse nella sua testa da anni, quei pensieri che aveva represso dentro di sé, troppo orgoglioso per ammettere che ci fossero, troppo codardo per affrontare quello che implicavano. Si sentì le mani bagnate, ma non osò guardarle. Aveva paura che non fosse sudore, ma qualcosa di più rosso.

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Capitolo 2
*** Le verità dell'odio ***


Erano passati tre giorni dall’apparizione di Moro. Enrico era sempre più debole e malato. Aveva cominciato a sentire il peso dell’immensa reggia attorno a lui, quasi un Dio gliel’avesse caricata sulle spalle come ad Atlante. I servitori evitavano il suo sguardo quando lo servivano, venivano e strisciavano via impauriti, timorosi dei propri pensieri. Ma lui sapeva quello che pensavano, sapeva che vedevano che stava morendo, eppure non riuscivano né a dirglielo in faccia né a mentirgli.
Si era trascinato fino alla cappella del palazzo, e cercava di pregare. Ma le quattro apparizioni avevano innescato una ridda di immagini, suoni, voci che ormai non lo abbandonava più. A volte rivedeva Anna ballare nelle sue stanze, altre volte il sorriso dolce di Jane incinta, altre ancora Tommaso che gli spiegava teologia. Le parole latine gli scivolavano fuori dalla bocca per volare in alto, ma il suo cuore restava in basso, oppresso, schiacciato dai ricordi.

E lo sentì. Il brivido ormai familiare, la sensazione di non essere solo. Stanco e rassegnato, si voltò per vedere chi era. E restò impietrito.

Odio, puro odio fiammeggiava in quegli occhi scuri come la notte. Il viso ingrugnito come quello di un bulldog, il corpo magro e secco avvolto nel solito completo nero, il fantasma sembrava avere tutta la durezza fredda e liscia della pietra.
“S-signor Cromwell” balbettò, spaventato. Nessuno degli altri lo aveva guardato così: Tommaso e Jane erano addolorati, Caterina fiera, Anna piena di rimpianto. Cromwell, invece, aveva l’espressione dell’odio.
“Maestà.” La voce un tempo melliflua adesso era un suono che gli faceva gelare le ossa.

“Cosa volete?” chiese alla fine Enrico, dopo lunghi secondi di un silenzio pesante come il piombo.
“Ammirare cosa avete fatto del vostro regno dopo la mia morte. E’ stato Hereford a sostituirmi, giusto? Un buon amministratore… uno scarso politico. Non credo durerà molto a lungo. E neanche suo fratello.” Scosse la testa, ridendo sottovoce. “Mi sono sempre chiesto come ha fatto la loro sorella ad accecarvi così tanto da non farvi vedere le serpi attorno a lei.”
“Non osate…” Enrico si infiammò di collera a quelle parole. Nessuno aveva il permesso di insultare Jane o la sua memoria! Nessuno!
“Altrimenti, cosa mi fate, Maestà? Mi manderete di nuovo al patibolo? L’avete già fatto una volta, mi pare… e sempre per causa di una donna.”

Rabbia. Disprezzo. Veleno. Quelle parole erano uno schiaffo morale, che Enrico non intendeva tollerare. Si alzò e cercò di colpire lo spettro, ma la gamba malferma cedette e si ritrovò a terra, ansimando per il dolore e lo sforzo, i piedi di Cromwell davanti alla sua faccia.
Sic transit gloria mundi… Così passa la gloria del mondo.” Adesso era quasi divertito, Cromwell.

“Andatevene via, signor Cromwell! Andatevene via!”
“No.”

Per un attimo, Enrico credette di aver capito male: gli aveva detto no? Gli era stato detto “no”? Non conosceva quella parola, nessuno gliela diceva da anni. Stupito e irato, Enrico rialzò lo sguardo da terra per fissare il suo aguzzino.

“Non me ne andrò da qui, Vostra Maestà, a vostro comando. Me ne andrò quando piacerà a me, per una volta. Voi non avete più alcun potere su di me… sono libero, come ho sempre cercato di essere. Quasi vi ringrazierei per questo, se non dovessi ricordare come quel bastardo di Brandon, i vostri cari cognati e quel cane di sir Francis Bryan mi abbiano fatto morire! Ve l’hanno detto, o no, che hanno fatto ubriacare il boia perché la mia testa non si staccasse subito?”
“Non incolpate me per colpe che sono vostre, Thomas! Voi vi siete elevato da solo alla vostra posizione! Avete tradito Wolsey, quando vi ha chiesto aiuto, o sbaglio? Avete tradito i Bolena, che vi avevano appoggiato, giusto?”
“Perché, voi no? Non mi dite che non avete colpa nelle malefatte o nella caduta del cardinale, o di Anna e della sua famiglia, o anche della mia, Vostra Maestà! Voi siete responsabile quanto noi, perché prima non vi siete accorto di niente, e dopo ci avete sputati via come spazzatura!”

Enrico fece un altro sforzo per alzarsi e colpire la figura, ma di nuovo la gamba gli cedette, e il re ricadde in ginocchio per terra, urlando straziato dal dolore. Nessuno accorse, come se la reggia fosse improvvisamente vuota. Quando l’urlo si spense, Cromwell riprese a parlare.

“Credete di aver mai contato qualcosa, Vostra Maestà? Pensavate di essere per davvero il centro dei nostri pensieri e delle nostre attività? Oh, ma certo che sì, siete sempre stato un presuntuoso, orgoglioso, lunatico. Un bamboccio, un burattino di pezza facilissimo da manovrare.”
“Non vi permettete, Cromwell! Non vi…”
“Ah no, Vostra Maestà, questa volta io parlerò, e vi dirò tutto, fino all’ultima sillaba! Anzi, no, vi farò una domanda: quando mi avete mandato al patibolo, eravate davvero convinto che io fossi colpevole?”

Enrico non seppe cosa rispondere a questa domanda. La verità è che non ci aveva mai pensato. Non aveva mai preso seriamente in considerazione il caso di Cromwell, quando era stato incarcerato. Preso com’era dalla smania per Catherine Howard, aveva ascoltato senza troppa attenzione le accuse che gli venivano presentate contro di lui dai Seymour e da Gardiner. E comunque, non lo sopportava più, dopo quel fallimentare matrimonio con la tedesca… la tedesca con cui aveva comunque finito per andare a letto, si ricordò improvvisamente.

“E pretendete che vi porti rispetto?” Quasi urlava, adesso, il fantasma, mentre ogni singolo lineamento del volto era sfigurato da un furore cieco. “Io ho perseguito per tutta la mia vita uno scopo… con pochi scrupoli, certo, e commettendo molti peccati, sicuramente… ma almeno posso dire in tutta sincerità che sapevo cosa volevo, e mai, mai ho ucciso o tradito un uomo a mente leggera, senza cercare di sapere per quale motivo dovesse morire. Voi potete dire lo stesso? Voi, un bambino mai cresciuto con una corona in capo?”
“Io sono il re d’Inghilterra!” urlò allora Enrico con tutta la voce che gli rimaneva nei polmoni, in un disperato tentativo di far cessare quello spettro accusatore, che gli buttava in faccia tutti i suoi dubbi, scavandogli nella testa con lucida crudeltà, risvegliando vecchi spettri e fantasmi.
“Ve ne è mai fregato qualcosa del vostro popolo? O del futuro del vostro paese? Della Riforma, ve ne è mai importato qualcosa? No, erano solo mezzi per soddisfare il vostro egoismo, la vostra infantile e irritante megalomania! Voi siete la vergogna di vostro padre e della vostra nazione, ma adesso è finita.”

“Che intendete dire?” Non gli piaceva per niente il sorriso soddisfatto che era comparso sulle labbra del fantasma.

“Sapete che vostra figlia Elisabetta ha fatto voto di non sposarsi? E’ una ragazza forte, credo che lo manterrà. Ah, e vostra figlia Maria… povera fanciulla, lei desidera un matrimonio, ma se non ve ne siete occupato voi che siete il padre, ho i miei dubbi che ci penserà Edoardo… anche lui, povero bimbo, chissà se vivrà abbastanza da diventare grande…”

NO! Enrico sbiancò in viso. Non poteva essere vero… non doveva essere vero! I Tudors non potevano finire così! Per tutta la vita, aveva cercato di continuare la dinastia di suo padre, non poteva finire con lui! “State mentendo!”
“Sto solo facendo delle constatazioni.” La calma con cui Cromwell disse questa frase abbatté il re, che chinò piano la testa, come sotto la mannaia del boia. Allora era vero.

“Quello che dovevo dire l’ho detto. Vi saluto, Vostra Maestà… a presto.” Adesso la voce era tornata melliflua, come in vita, ma la mellifluità era tinta di sarcasmo e di ironia.
Enrico non alzò gli occhi per vederlo scomparire. Non si mosse dal pavimento. Non emise né un suono né un lamento. Si limitò ad accasciarsi a terra, le forze che gli mancavano, i nervi ormai a pezzi, il viso scosso dai singhiozzi, e la verità delle parole di Cromwell a rimbombare nella sua testa.

Non era più niente, ormai. Non era mai stato niente, forse. Non era stato un marito, perché tutte le sue mogli erano state maltrattate o poco amate. Non era stato un padre, perché aveva scacciato le sue due figlie e aveva fatto crescere suo figlio lontano da sé. Non era stato un re, perché non si era mai chiesto quale fosse per davvero il bene del suo paese. Tra poco, non sarebbe stato neanche più un uomo… tra poco, avrebbe incontrato Chi non poteva comandare. E tutti coloro che aveva umiliato, offeso, ucciso, sarebbero stati di fronte a Lui per accusarlo, come Cromwell adesso.
La paura lo attanagliò e non lasciò più, in quegli ultimi giorni che lo condussero alla tomba.
 

“Perché con lo stesso metro con cui giudicate, sarete giudicati.

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