Anche quella mattina, attraversando il grande cancello grigio chiaro e camminando lentamente lungo il vialetto alberato che portava alle aule, mi chiedevo per quale motivo avevo dato retta alla mia idea di andare a fare l'università da fuori sede. Immaginavo che sarebbe stata un po' dura all'inizio, ma non credevo che un anno non sarebbe bastato per ambientarmi. Non ero molto distante da casa e percorrevo le due ore di viaggio che mi ci riportavano ogni weekend, ma stare cinque giorni su cinque praticamente da solo mi buttava a terra. Facevo ciò che avevo sempre voluto, studiare solo le materie che mi interessavano davvero. Avevo imparato a gestirmi da solo, a non dover dipendere sempre e solo dalla mammina. Mi ero perfino ambientato ad una catapecchia che spacciavano per casa da studente, alla mia stanzetta squallida e arredata con il minimo indispensabile, ai miei coinquilini che sembravano più animali che ragazzi, alla poca pulizia che purtroppo regnava tra quelle quattro mura. Ma a passare intere giornate tra la gente senza riuscire a parlare con nessuno, senza instaurare un minimo di rapporto, non riuscivo proprio a mandarlo giù. Ogni giorno, durante le pause tra le lezioni, vedevo crearsi molti gruppetti di ragazzi che discorrevano, schiamazzavano, ridevano o semplicemente prendevano un caffè insieme. La maggior parte di loro si era conosciuta lì, in facoltà. Eppure stringevano rapporti così facilmente da farmi sentire un alieno. Io, che allontanavo praticamente chiunque con il mio aspetto un po' aggressivo, che non riuscivo ad attaccare bottone con degli sconosciuti, che a primo sguardo ero catalogato tra quelli che se la tirano a morte, ma che in realtà ero solo timido ed introverso. Ormai al mio paese ero riuscito a crearmi la mia piccola cerchia di amicizie, ma qui, in questa grande città quasi del tutto sconosciuta, non ero riuscito ancora a farmi nemmeno un amico. E dire che era già passato un anno dal mio arrivo! Il primo anno in cui avevo sentito lo scoraggiamento entrare a far parte della mia vita. Da solo, lontano dagli amici e dalla mia ragazza, in un ambiente che mi sembrava paradisiaco e che invece si era rivelato infernale. Ogni lunedì mi si stringeva il cuore a dover salire su quel maledetto autobus e passavo le giornate sperando che arrivasse in fretta il venerdì.

Quest'anno era iniziato anche peggio. Oltre ad avere come uniche persone con cui condividere quattro parole solo i tre idioti zoticoni e amanti dello sporco che abitavano in casa con me, avevo pure lasciato da poco la mia, ormai ex, ragazza. Durante l'estate la nostra storia, durata ben un anno, un record per me, era arrivata al capolinea. Non sopportavo più la sua gelosia. Giustificata, per carità. Quando ci eravamo messi insieme la reputazione che mi ero guadagnato non era certo quella di un casto angelo. Ero nel periodo in cui non trovavo nulla di male nel cambiare una ragazza a sera, anche più di una a sera. Non mi sentivo in colpa perché non ero io a costringerle e non le illudevo in nessun modo. Qualcuna forse sperava di accalappiarmi definitivamente, ma il mio spirito era ancora troppo libero per legarsi le ali da solo. Invece poi, avevo ceduto. Non so neanche io perché, ma mi ero lasciato incatenare da quella ragazza che mi sembrava bella e dolce, ma che si era rivelata pian piano una piccola serpe in seno che mirava solo ad accasarsi. Ed io non ero tipo da accasarsi. Non lo ero ancora, almeno. Poco prima di risalire alla città dove studiavo, le avevo parlato nel modo più schietto possibile, come forse non avevo mai fatto con lei. Le avevo detto che non potevo darle ciò che lei cercava, cioè un cagnolino che assecondasse tutti i suoi desideri e la sposasse al più presto. Un po' quello che avevo sempre cercato di farle capire, ma che non ero mai riuscito a spiegare lasciandomi intenerire dai lacrimoni che riusciva a far uscire quasi a comando appena prendevo l'argomento.

E adesso mi ritrovavo da solo, come non ero da tanto tempo.

Arrivai nell'aula in cui avrei passato le successive quattro ore, alternando lezioni di Fisica 2 e Web programming. Mi sedetti al posto che ormai occupavo tutte le mattine da quando erano iniziate le lezioni un mese prima. A metà della scalinata, il terzo posto dall'esterno. Non troppo lontano per poter sentire bene, non troppo vicino da essere notato. Il motivo che mi legava a quel posto era anche un altro. C'era di mezzo lei. Perché nel mezzo c'è sempre una lei. Lei, che non sapevo nemmeno come si chiamasse, si sedeva sempre nella fila subito sotto quella dove stavo io. E da lì potevo guardarla ogni volta che volevo.

L'avevo adocchiata già l'anno prima. Una bellezza rara, forse unica, almeno per me. Perché non era una di quelle ragazze che sarebbero piaciute a chiunque, ma era una di quelle che potevano farmi impazzire. Il fisico non troppo magro, le curve tutte al punto giusto, il visto pulito e quasi per niente truccato, i capelli ricci che davano idea di morbido, gli enormi occhi nocciola, il sorriso dolce sempre stampato in viso. Tutto mi piaceva di quella ragazza sconosciuta, così tanto socievole da essere sempre circondata da persone nuove, ma che mai mi aveva rivolto la parola. Per tutto l'anno avevo provato ad avvicinarla con le scuse più banali, ma mai ero riuscito a farmi donare da lei nemmeno una parola. Non perché fosse maleducata, ma semplicemente non mi aveva mai notato. Spesso mi ritrovavo a fissarla consapevole del fatto che potesse accorgersi che lo stavo facendo e sperando di poter così attirare la sua attenzione. Più di una volta ero riuscito in questo scopo. Anche lei mi aveva guardato, ma erano stati solo pochi attimi. Uno sguardo veloce che non avevo la superbia di credere indirizzato a me e poi si voltava di nuovo. Sembrava vivere nel suo mondo. Mondo di cui faceva parte anche un ragazzo che sembrava renderla felice. La vedevo abbracciarlo sorridente e baciarlo con calma quando veniva a prenderla alla fine delle lezioni. Non mi era mai garbato tanto sto tizio e non era solo quel pizzico di gelosia per vedere una ragazza che aveva rubato le mie attenzioni nelle braccia di un altro. Qualcosa a pelle mi diceva che dietro quei sorrisi che dispensava si celasse qualcosa. I suoi occhi non mi piacevano, non erano sinceri.

Non si fece attendere molto. Lei e il suo gruppo di amici avevano varcato la porta poco dopo che avevo preso posto. Rumorosi come sempre avevano discusso sul modo in cui si sarebbero disposti. Lei quella mattina pretendeva di stare accanto ad un ragazzo alto con i capelli che non vedevano il parrucchiere da un po' ed occhiali di osso nero. All'altro suo fianco si mise la sua inseparabile. La chiamavo così perché le vedevo insieme sempre dal primo giorno in cui ero entrato in quella facoltà. Una volta che si organizzarono, uscirono tutti per recarsi alla zona-relax per l'immancabile caffè. Per un attimo pensai di farlo anch'io. Un caffè, seppur dalle macchinette, mi avrebbe fatto bene. E anche una bottiglietta d'acqua da usare durante le quattro ore di lezione non sarebbe stata una cattiva idea. Mi convinsi però che tanto sarebbe stato solo l'ennesimo buco nell'acqua nella speranza di riuscire a parlarle. Perciò uscii dalla tracolla il mio quaderno degli appunti e cercai di ripassare qualcosa delle scorse lezioni.

Pur essendo passato solo un mese, mi sembrava che il programma di Fisica 2 fosse già infinito. Non ci avevo mai capito nulla, nemmeno ai tempi delle superiori. Nonostante il professore fosse piuttosto chiaro nelle spiegazioni e facesse milioni di esempi, appena rileggevo quello che avevo scritto non riuscivo a raccapezzarci niente. Mi ero talmente assorto nel cercare di tirarne fuori qualcosa che non sentii che qualcuno cercava di attirare la mia attenzione.

- Ehi, ma sei sordo? - Una voce femminile arrivò alle mie orecchie. Mi voltai sperando che fosse lei. - Questo posto è libero o no? -
- Si, è libero. -
Non era lei, ma una ragazza che non avevo mai visto in giro per la facoltà. Aveva la pelle scura, capelli lunghissimi legati in una treccia, grandissimi occhi neri e labbra carnose ma allo stesso tempo delicate. Bella, una venere nera quasi.
- Mi aiuti a sistemarlo, per favore? -
Credetti che quella fosse la cosa più sconvolgente che avessi mai visto. La ragazza, infatti, mi porse un seggiolino in cui uno stupendo bambino dormiva beato. Lo guardai dubbioso. Non sapevo se a sconvolgermi di più fosse il suo essere una madre studente o il portare un bambino che poteva avere al massimo cinque mesi ad una lezione di Fisica 2.
- Lascia stare, vah! - Mi rimproverò lei lanciando la borsa che teneva con l'altro braccio sul tavolo e sistemando lei il seggiolino sulla sedia.
- Scusami. Ero sovrappensiero. -
- Non scusarti. Devo abituarmi a questo tipo di reazioni. -
La guardai mentre finiva di sistemare il bambino ed iniziava a frugare nella borsa. Il bel viso era contratto in una smorfia a metà tra il triste, il dispiaciuto e l'umiliato.
- Mi chiamo Cris. - Dissi senza pensarci su e porgendole la mano sinistra.
Lei mi guardò quasi schifata. - Naki. - Rivolse poi l'attenzione di nuovo alla borsa.
La guardai ancora e mi convinsi che questa volta dovevo provarci sul serio, ma non in quel senso di 'provare con una ragazza'. Nel senso di provare a farci amicizia. Sentivo che ne aveva bisogno quasi quanto me se non di più.
- Lui è tuo? -
Mi fissò per un attimo in cagnesco, poi rivolse lo sguardo alla creaturina. - Lui è Brendon. - Guardò di nuovo me e per un attimo mi parve che i suoi occhi neri volessero creare un insormontabile muro. - Sì, è mio figlio. -
Cedetti al peso di quello sguardo e distolsi gli occhi per guardare il piccolo Brendon riposare beato. - E' davvero stupendo. -
Solo a questa affermazione Naki si sciolse in un sorriso.
- E' dura suppongo. - Sapevo di fare l'impertinente, ma rischiai.
Naki si rabbuiò di nuovo e abbassando lo sguardo disse solo un flebile - Sì. -
Continuai a guardarla cercando qualcosa da dire. - E' la prima volta che segui questa lezione? -
Mi guardò e nei suoi occhi stavolta volli leggere un ringraziamento. - Sì. Cerco di seguire solo le lezioni più importanti. Sai, Brendon non sta calmo a dormire tutto il giorno. Ma ho sentito dire che il professore è tosto all'esame perciò devo fare uno sforzo per mettere anche questa tra le lezioni da seguire. -
- Se vuoi posso passarti gli appunti delle scorse lezioni. - Mi lanciai a darle un aiuto che non avevo mai nemmeno pensato di dare.
- Davvero? - Il suo sguardo illuminato mi ripagò da solo.
- Certamente. -
- Ragazzi sbrigatevi a prendere posto. Oggi la lezione sarà lunga e faticosa per tutti, soprattutto per me quindi non fatemi perdere tempo. - Il professore entrò dalla porta già sbraitando e ancor prima di lasciarci il tempo per ammutolirci iniziò la sua lezione.

- Certo che è una palla sto professore! - Naki aveva sbadigliato per quasi tutta la lezione, scarabocchiando ogni tanto qualche formula sui suoi fogli. 
- La materia è quella purtroppo, non si può migliorare più di tanto. - 
Mi sorrise rimettendo in borsa tutto quello che ne aveva uscito mentre il professore sempre più nevrotico lasciava l'aula quasi correndo.
- Vai via? Non segui l'altra lezione? -
- No, torno a casa. - 
Neanche avesse capito che era il momento di andare via, Brendon spalancò i suoi occhioni e iniziò a cercare di attirare l'attenzione coi suoi lamenti che sembravano quasi quelli di un gattino. - Vedi? Il dovere chiama. - Si alzò e mise in spalla la tracolla.
- Aspetta, ti aiuto. - Mi sollevai ed estrassi il seggiolino dalla sedia dove l'aveva saldamente incastrato Naki. Glielo porsi e lei mi ringraziò.
- Ci vediamo, allora. - Iniziò a scendere le scale spedita, quasi non fosse carica come un mulo.

La salutai con un gesto della mano e la guardai uscire in mezzo alla maggior parte dei ragazzi che avevano occupato l'aula, che si stava ormai svuotando. Solo quando fu fuori dalla porta mi ricordai di non averle dato gli appunti promessi. Li afferrai e mi precipitai giù dalle scale nel tentativo di raggiungerla. Arrivato nel grande corridoio su cui si affacciavano tutte le aule, però, di Naki non c'era nessuna traccia. Si era volatilizzata, puff, sparita nel nulla. Tornai in aula per appoggiarli di nuovo sul bancone, un po' sconsolato per non avere una scusa da usare per iniziare qualcosa di più di una conversazione sterile e scarna tra due colleghi vicini di posto. Volevo davvero diventarle amico. Nulla di più. Lei aveva già un bambino, probabilmente quindi aveva un fidanzato se non addirittura un marito. Anche se così non fosse stato, la situazione non sarebbe stata di certo delle più facili e di sicuro lei sarebbe scappata a gambe levate al primo accenno di approccio. Ma sentivo che aveva bisogno di qualcuno che la sostenesse ad affrontare le difficoltà che le si leggevano in volto. O forse volevo leggerle così da scusare la mia di necessità, quella di avere qualcuno di amico vicino, di mettere termine alla mia solitudine qui in questa grande città.

Presi gli spicci necessari e mi recai alle macchinette del caffè, sperando di riuscire a rilassarmi un attimo prima che il prossimo Professore arrivasse ad iniziare la sua lezione. Fortunatamente il Professore di Web programming era sempre in ritardo e questo permetteva a tutti di prendersi una necessaria pausa tra le due lezioni. Mi misi in fila dietro al ragazzo biondo e dagli occhiali scuri che aveva passato la lezione vicino alla mia lei. L'avevo osservato spesso con attenzione perché sembrava essere quello che aveva con lei più confidenza a livello fisico. Sì, parlo di abbracci, baci, carezze, grattini durante le lezioni, cose così. Anche oggi non era stato da meno. Le aveva passato un braccio intorno alla vita e avevano seguito la lezione abbracciati così, mentre lei prendeva appunti e lui giocava di tanto in tanto coi suoi riccioli. Da quando l'avevo visto insieme a lei la prima volta, mi ero convinto che fosse persamente cotto. Gli sguardi che le riservava mentre la sfiorava non erano da amico coccolone, ma piuttosto da ragazzo speranzoso che questo rapporto potesse sfociare in qualcosa di più. Anche se non era l'unico, eh! Più o meno tutti i ragazzi che le giravano intorno le riservavano spesso sguardi che lasciavano poco all'immaginazione. Lei, però, sembrava non accorgersene. Spesso la vedevo scherzare maliziosamente con loro, ma nei suoi occhi si leggeva chiaramente che non oltrepassava la linea di confine dello scherzo, non le interessava nessuno tra di loro. O forse questo era solo quello che io volevo credere. 

Mentre il tizio biondo si accingeva ad inserire le monete nell'apposita fessura, lei arrivò quasi come un uragano, una folata di vento improvvisa. Gli si catapultò in braccio, selezionando tutte e cinque le palline di zucchero a disposizione e digitando sul tastierino numerico il '31' per un caffè ristretto. Gli schioccò un bacio sulla guancia che durò finché il caffè non fu pronto.
- Umbi ti adoro. Non saprei come fare senza di te. - Prelevò il suo caffè scroccato e scappò via di nuovo.
- Come faresti senza di me? Non berresti più caffè all'università e non masticheresti più gomme. - Le urlò lui, sorridente. Nessuno avrebbe mai creduto al suo rimprovero.
Mi voltai a guardarla mentre rispondeva con una linguaccia da bambina maleducata ed andava fuori a gustarsi il suo caffè super dolce. 
Umbi, Umberto suppongo, inserì altre monete e finalmente potè prendersi il suo caffè. Quando anch'io lo presi, la mia intenzione era quella di recarmi fuori e sedermi sugli scalini del gazebo vicino al suo gruppetto di amici. Magari così sarebbe capitato di scambiare due parole. Non sarebbe capitato e lo sapevo benissimo, ma volevo continuare a sentire la sua voce da ragazzina piena di vita. Purtroppo per me, vidi passare il professore diretto all'aula. Lo seguii dispiaciuto entrando in aula subito dopo di lui evitando per un pelo la porta che stava richiudendo. Il Professore posizionò tutto l'occorrente, sistemò il video proiettore ed iniziò la sua lezione. Di lei e dei suoi amici nessuna traccia in aula. Di nuovo solo, senza Naki e Brandon vicino, senza lei da guardare, seguii la lezione distrattamente trasalendo quasi ogni volta che la porta si apriva per qualche ritardatario che entrava. Ma non era mai lei.

Il pomeriggio avrei avuto un'altra lezione. Dato che iniziava alle 15 ed erano ormai le 13.30 passate quando il Professore si era deciso a lasciarci andare, scendere a casa per pranzo era troppo difficoltoso. La mensa non aveva una buona nomina, ma mi era già capitato in passato di essere costretto a mangiarci e non ero mai morto. Non era cucina di gran classe, ma se sceglievi bene potevi sopravvivere. Preparai il mio vassoio e iniziai a cercare un posto dove potermi sedere. Tutti i tavoli erano stracolmi di gente ammassata quasi l'una sull'altra. Noi ultimi arrivati sembravamo delle cavie da laboratorio inserite in un labirinto: ci spostavamo seguendo l'istinto, cercando di percepire in tutto quel chiasso il rumore di qualcuno che si stava alzando per uscire, tentando di indovinare chi stava per completare il suo pranzo. Infine trovai un posto appena liberato in un tavolo in fondo alla sala. Mi sedetti ed appoggiai la mia roba. Solo dopo aver pulito il tavolo imbrattato dal mio predecessore guardai chi era accanto a me. Tre dei miei compagni di pranzo erano amici di lei. La ragazza rotondetta con i capelli corvini che le ricadevano sulle spalle, il ragazzo alto con la faccia da topo e il ragazzo dai capelli rossi. A quel tavolo c'erano anche altre due ragazze. Entrambe erano il classico esempio di ragazze fighe che sanno di essere fighe, di attirare l'attenzione dei maschi e non fanno nulla per evitarlo, anzi fanno di tutto per incoraggiarlo. A testimoniarlo c'erano le enormi scollature che lasciavano traboccare il seno. 

Cercai lei nei tavoli vicini, ma molto probabilmente era tornata a casa o era già col suo ragazzo. Mangiai il mio pranzo poco appetitoso dividendo i miei pensieri tra lei, la lezione appena passata, la lezione che mi attendeva e Naki. Quando stavo per finire, arrivò l'inseparabile della mia lei che si sedette sulle gambe della ragazza rotondetta. Gli occhi azzurro cielo, i capelli rossi che le incorniciavano il viso, il fisico slanciato, il look sempre curato e il trucco sempre presente ma mai esagerato. Era senz'altro una bella ragazza anche lei. Mi chiedevo, però, perché non fosse arrivata la mia lei. Poco dopo la vidi arrivare, sorridente come sempre. 
- Ragazzi io vado. Ci vediamo a lezione. -
- Ma ci arrivi? - le chiese l'amica.
- Devo arrivarci. - Fece una smorfia strana col viso e per un attimo mi parve di vedere i suoi occhi spegnersi. 
- Ti sta già aspettando? -
- Sì, è appena arrivato. - 
Senz'altro parlavano del suo ragazzo. Capitava spesso che la venisse a prendere per pranzo anche quando avevamo lezione il pomeriggio e la maggior parte delle volte la riaccompagnava in ritardo. 
- E brava la nostra Meg che si va a fare la trombatina di pranzo! - Disse il ragazzo con la faccia da topo senza moderare il tono della voce. 
Fortunatamente tutto il rumore che regnava in quello stanzone non permise alla sua voce di arrivare netta al di fuori del nostro tavolo. Le due ragazze erano troppo prese dai loro discorsi per dargli retta e io feci finta di non aver sentito nulla cercando anche di nascondere il fatto che il boccone che avevo appena mandato giù mi era andato di traverso. Lei, comunque, arrossì visibilmente. Salutò di nuovo velocemente con un gesto della mano e andò via ad occhi bassi. 

- Cazzo sei rincoglionito? - Lo rimproverò l'amica piantandogli una gomitata in pieno costato. 
- No, la rincoglionita sei tu! - Rispose lui piegandosi quasi in due per la botta. - Mi stavi per rompere qualcosa. -
- Avrebbe fatto bene. - Si intromise il ragazzo coi capelli rossi, usando un'aria parecchio incazzosa. - Dire queste cose così, davanti a tutti. L'hai fatta vergognare. -
- Perchè dovrebbe vergognarsi? Va a trombare col suo ragazzo. Cosa c'è di male? - 
Anche stavolta il pezzo di carne che avevo mandato giù era andato di traverso. Iniziai a tossire e a battermi sul petto. Il ragazzo dai capelli rossi venne in mio aiuto battendomi forte sulla schiena finché non mi ripresi. - Ehi amico. Tutto ok? -
- Sì, grazie. Mi è andato di traverso qualcosa. - Dissi fissando quello con la faccia da topo, poi ricominciai a mangiare. 
- Comunque sei un coglione. - Gli disse l'amica, prima di alzarsi ed andare via visibilmente alterata. 
Anch'io mi alzai dopo aver ringraziato ancora il ragazzo dai capelli rossi. Andai a posare il vassoio con tutto ciò che c'era rimasto sopra e che, ormai, non mi andava più. Raccolsi la mia borsa ed uscii. 

Aprofittando del sole che ancora risaldava bene nonostante fossimo agli inizi di novembre, mi andai a sedere in uno dei giardini che circondavano il palazzo delle aule. Ripensai a quello che era successo. Quel ragazzo meritava che la sua faccia da topo venisse rotta in quattro pezzi. Meg era scappata via sicuramente vergognandosi come una ladra. 
...Meg. Allora era questo il suo nome. Dopo più di un anno, finalmente, potevo darle un nome.

"Il Data Link Layer fornisce al livello di Rete un servizio di trasmissione di flussi di bit. I compiti principali del DDL sono". Sentii la porta aprirsi e lasciai la frase campeggiare incompleta sui miei fogli d'appunti. Per l'ennesima volta aspettavo che Meg entrasse in ritardo, ma anche stavolta non era lei. Ero seduto accanto al suo gruppo d'amici, tra me e la sua inseparabile c'era un solo posto vuoto che avrebbe dovuto occupare lei. Ma ormai era passata la prima ora di lezione e di Meg neanche l'ombra. Ricominciai a seguire il Professore che parlava vagando per l'aula e fissando di tanto in tanto uno studente a caso negli occhi finché questi non li abbassava, quasi terrorizzato. Continuò così per un'altra mezz'ora, poi ci lasciò liberi di fare una pausa. Pensando che avrei dovuto trascorrere un'altra ora e mezza ad ascoltarlo, uscii fuori senza pensarci due volte. 

Arrivai alle macchinette in tempo per essere il primo della fila. Presi il mio caffè ed uscii fuori. Meg era seduta sugli scalini del gazebo. Non la vedevo in viso perché lo nascondeva tra le ginocchia raggomitolate al petto, ma riconobbi la borsa abbandonata ai suoi piedi. Sentendo il cigolio della porta a vetri, sollevò gli occhi quasi di scatto per poi ritornare a nasconderli non appena si accorse che non era nessuno dei suoi amici. In quell'attimo in cui avevo incrociato il suo sguardo qualcosa mi aveva turbato. La linea di eyeliner e il mascara che avevano incorniciato i suoi occhi, adesso erano sbavati e la marchiavano formando delle pesanti occhiaie artificiali. Il contorno delle sue labbra, che mai avevo visto portare rossetto, mi era sembrato arrossato e gonfio. I riccioli erano disordinati, quasi maltrattati, come se fosse stata in preda al vento. 
Feci finta di non aver notato nulla e mi sedetti a poca distanza da lei. Bevvi il mio caffè continuando a fissarla. I suoi amici uscirono. Umberto corse ad abbracciarla. Lei sorrise, ma si vedeva che il sorriso era forzato.

- Meg, che ci fai qui? - Disse la sua inseparabile appena la vide.
- Ti ho mandato un messaggio. Non l'hai letto? - La sua voce era quasi rotta. 
- Quando me l'hai mandato? -
- Quando sono arrivata. La lezione era già iniziata perciò ti ho detto che entravo dopo la pausa. -
- Non l'ho letto, scusa. -
- Non ti preoccupare. - Si alzò da terra spolverandosi i jeans. - Che ha fatto il Prof? -
- Ha terminato di spiegare il livello Fisico e ha appena iniziato il successivo. - 
- Cose difficili? -
- Non tanto. -
Il ragazzo dai capelli rossi si avvicinò. - Ludovica, Umberto. Volete un caffè? Oh ciao, Meg. Sei arrivata tardi? - 
- Già. - Disse lei forzando un altro sorrisetto. 
- Vuoi un caffè? -
- Grazie Marco. Mi servirebbe proprio. - 
- Offro io come al solito? - Umberto iniziò ad avviarsi verso l'interno.
- No, stavolta offro io! - Disse sorridendo Marco prima di seguirlo dentro. 

Ludovica prese sottobraccio Meg e la attirò a sè. Le parlò a voce molto bassa perciò feci fatica a sentirla. - Che è successo? Sembri sconvolta. -
- Tranquilla Ludo. Abbiamo solo fatto la doccia e mi si è sbavato il trucco. - Aveva risposto lei ad un tono normale, cercando di rassicurare l'amica. 
- Anche questo te lo sei fatto in doccia? - Ludovica con un gesto rapido scostò i capelli arruffati dal collo di Meg. Lì, sotto la mascella, c'era un alone scuro, verdognolo, non molto grande e dalla forma strana.
- Questo? - Meg se lo sfiorò con le dita per poi nasconderlo di nuovo coi capelli. - Questo è un succhiotto, scema! - Rise un po' troppo sguaiatamente. 
Ludovica la fissò seria. Le afferrò il polso. - Sicura che se sposto la manica non trovo nulla? - 
Meg ridiventò seria e tirò via il braccio energicamente liberandosi dalla stretta. Spostò per un attimo lo sguardo su di me. Voltai gli occhi come se non mi stessi interessando alla loro conversazione che, invece, mi stava colpendo parecchio. Tesi di più l'orecchio per afferrare le parole adesso che non potevo leggerle sulle loro labbra. 
- Smettila di fare così. Ti ho detto che non è successo niente. -
- Meg se scopro che lui ancora... -
- Non dire un'altra parola Ludo! Quella volta è stato un incidente. -
- Ti ha dato uno schiaffo davanti a tutti, non è un incidente. -
- Se fosse un tipo che picchia la sua ragazza, credi proprio che sarebbe così stupido da fare una cosa del genere davanti a tutti per destare sospetti? - La sua voce era quasi meccanica, nessun sentimento ne traspariva. L'amica non rispose, così ricominciò a parlare. - Ti ho detto che non è successo niente. - Poi la vidi andare via.

Alzai gli occhi e vidi che Ludovica era ancora ferma sotto il gazebo. Sola in mezzo alla piccola folla di ragazzi che si stava formando. Anche lei si voltò a guardarmi. Poi entrò. 
Restai seduto ancora un po' pensando a quello che avevo sentito. Nemmeno io avevo creduto alla storia della doccia e del succhiotto e il solo sospetto che lui potesse picchiarla mi mise una rabbia in corpo tale che senza rendermene conto avevo distrutto il bicchiere di plastica che tenevo ancora in mano. Mi sporcai la mano e qualche goccia macchiò anche il fondo dei miei jeans. Gettai il frantumato bicchiere nell'immondizia e mi recai in bagno. Vi trovai Marco, Umberto e il ragazzo con la faccia da topo. Smisero di parlare appena varcai la porta. Lavai in fretta le mani e poi uscii, appoggiandomi al muro in modo da ascoltare quello che si sarebbero detti. Avevo lo strano sentore che stessero parlando di Meg e non mi sbagliavo. 

- Ma l'hai vista oggi? Quel coglione non me la racconta giusta. -
- I sospetti ce li ho anch'io ma non possiamo fare niente se lei continua a coprirlo. -
- Ma che dite? A me sembra un ragazzo a posto lui. Quella sera lei lo aveva fatto incazzare di brutto. -
- Andrea ti rendi conto di cosa stai dicendo? Non doveva farlo comunque. -
- Sì, ma questi sono tutti film che vi fate voi altri. Mica è detto che perché le ha dato un piccolo schiaffo, ora è un violento che picchia le donne! -
- Andrea posso dirti che sei un pezzo di merda? Non ti fa uscire di testa anche solo il pensiero che possa succedere una cosa del genere? - Dovrebbe! Fa questo effetto a me che, fondamentalmente, neanche la conosco. 
- No. Meg è grande e vaccinata. Deve fare le sue scelte nella vita. - Che fosse un coglione lo avevo sempre sospettato, ma adesso ne avevo la conferma.
- Farò finta di non averti sentito. -

Uscirono dal bagno senza che si accorgessero di me che avevo ascoltato tutto. Serrai i pugni, chiusi gli occhi e desiderai di essere tra le quattro mura della mia stanza per sfogare la rabbia sbattendoli contro la parete. 

- Cris, stai bene? - 
Naki mi fece trasalire. Si era avvicinata a me senza farsi notare. Brendon giocava con un pupazzetto seduto nel seggiolino che lei aveva appena posato per terra. 
- Sì, sì. Sto bene. - 
- Sicuro? - Mi guardò perplessa con una smorfia in viso. 
- Sì, tranquilla. -
- E' successo qualcosa? -
Come spiegarle che ero incazzato per qualcosa che avevo sentito, di cui non ero certo e che riguardava una ragazza che nemmeno conoscevo? Cambiai discorso. - Pensavo di rivederti direttamente domani. -
- Seguo il corso di Graphics. -
- Interessante? Io sono a Reti. -
- Pallosa. -
- Sta tranquillo Brendon durante la lezione? - 
- Con il macello che si crea in aula potrebbe anche urlare e non se ne accorgerebbe nessuno. Comunque ha appena mangiato quindi per un paio di ore sta tranquillo e, magari, si addormenta pure. -
- Senza bisogno di essere preso in braccio? -
- Ehi, mio figlio non è viziato! -
- Non dicevo quello, è solo che... -
- Che non conosci i bambini. - Mi guardò sorridendo. - Se non li abitui ad essere cullati, si addormentano da soli senza problemi. La maggior parte almeno. - 
Mi inginocchiai per guardare meglio quello stupendo bambino. Era scuro come lei, la testa piena di fittissimi ricci neri. Aveva gli occhi verdi, di un verde mare che in contrasto con la pelle scura toglievano quasi il fiato. Gli carezzai con l'indice il pancino. - E tu sei un bravo bimbo, vero? - 
Brendon abbandonò il suo coniglietto di pezza ed afferrò il mio dito. Mi sentii sciogliere il cuore. Era vero quello che aveva detto Naki. Non conoscevo i bambini, non ero abituato a trattare con i piccoli. Quei pochi che avevo incontrato erano cugini o lontani parenti e mi avevano sembra odiato. Appena tentavo di fargli le coccole iniziavano a strillare o a picchiarmi. A lui, invece, sembravo piacere. Continuando a tenere stretto il mio dito, mi regalò un sorriso sdentato. Fu lì che credetti per la prima volta di aver sentito l'amore scorrere dentro di me. L'amore puro, quello che non è dettato dagli ormoni, ma solo da qualcosa che ti fa stare talmente bene che tutto il resto sembra insignificante, quello che solo un bimbo innocente che ti sorride stringendoti ti può far sentire. 

- Vedi che il tuo Professore sta per entrare in aula. - Naki si era abbassata al mio livello. - Ed io dovrei andare ad accaparrarmi un posto e a sistemare la peste. - 
Staccare il dito dalle manine di Brendon fu come svegliarsi da un bellissimo sogno. Mi diressi verso l'aula. - Ci vediamo dopo? -
- Ma la mia lezione finisce dopo della tua. - Mi disse mentre afferrava il seggiolino ed iniziava ad andare verso la sua aula che era dall'altro lato del corridoio.
- Ci vediamo dopo. - Le ripetei. Aprii la porta dell'aula in tempo per dare la precedenza al Professore ed entrare a mia volta. 

Mentre mi avviavo al mio posto, vidi che quello accanto era occupato da Ludo. Meg si era seduta al posto che prima occupava lei vicino a Marco. La vidi parlare con lui sorridente come l'avevo sempre vista. I capelli erano stati ridomati per nascondere accuratamente la macchia sospetta e il trucco era stato ricomposto. Sembrava che nulla fosse accaduto, sia che fosse stata semplicemente un'ora di passione seguita da una doccia, sia che fosse stata peggio. 
Quando mi sedetti accanto a Ludovica, questa mi lanciò uno sguardo infuocato. Sembrò quasi che mi volesse cacciare via come se fossi il suo peggior nemico. In quel momento, il cellulare che avevo appoggiato sul banco vibrò. Era mia madre che mi aveva mandato un messaggio. Odiavo quando lo faceva pur sapendo che ero a lezione. 

- Se hai intenzione di stare tutta l'ora a messaggiare, spostati. - Ludovica era perentoria, quasi dittatoriale. Mi voleva lontano e non lo nascondeva in nessun modo. Non capivo perché. 
- Rilassati. Era solo un messaggio. Anzi, guarda. - Senza leggere nulla, premetti il tastino rosso. - Lo spengo così sei più contenta. - 
Pur essendo stata 'accontentata', la ragazza non accennava a distogliere gli occhi azzurri dai miei e nemmeno ad eliminare l'aria minacciosa dal viso. - Spostati lo stesso. -
- Perché dovrei? - 
- Ehi, piccioncini lassù! Lo facciamo un po' di silenzio? - Solo quando il Professore ci richiamò, lei si voltò. 

Mi stavo inimicato quella che molto probabilmente era la sua migliore amica ed mi ero pure beccato un bel rimprovero dal Professore. Niente male, no?

'Che è successo?'
'Niente. Questo qui accanto mi sta sulle palle.'
'Lo conosci?'
'No, ma mi sta sulle palle lo stesso. Prima si è ascoltato tutta la nostra discussione.'
'Non è che noi parlassimo così piano! Sarà solo un po' curioso.'
'Deve farsi i cazzi suoi.'
'Ma probabilmente stava pensando ai cazzi suoi e nemmeno ci ha cagate! E poi guardalo... sembra Riccardo Scamarcio.' 
'Non diciamo cagate ora!'
'Scusa per prima.'
'Per cosa?'
'Se ho alzato la voce. E' solo che vorrei capissi che ti sei fatta un'idea sbagliata. Lui mi ama. Non mi farebbe mai del male.'
'Ti ho appena detto di evitare le cagate.'
'Fanculo.'
'Grazie.'
'Ti voglio bene, cretina.'
'Anch'io.'

Questo fu quello che lessi raccogliendo il pezzo di carta che Ludovica aveva gettato a terra prima di uscire dall'aula. L'idea che Meg mi considerasse simile a Riccardo Scamarcio mi faceva ridere, ma ero comunque contento che mi avesse notato. Sapeva che esistevo, almeno. Ludovica, invece, mi dava sempre di più l'idea di essere un'amica chiocchia, una di quelle che ha l'istinto di protezione estremamente sviluppato. Mi sembrava una che ci azzeccava nelle supposizioni. Almeno con me ci aveva azzeccato: non stavo affatto pensando ai fatti miei prima. 

La lezione era finita da un pezzo ed io mi ero trasferito in aula studio a rileggere gli appunti della giornata aspettando il termine della lezione di Graphics. Non riuscivo a capirci nulla. La mia mente era altrove. Correva contenta a lei che finalmente si era accorta di me. Correva arrabbiata a lui che, a prescindere se quello che sospettavo fosse o meno vero, aveva una grande colpa: quella di averla per sé sempre.
Guardai l'orologio. Erano quasi le 19. Naki sarebbe uscita a breve da lezione, perciò presi tutte le mie cose ed abbandonai l'aula studio che iniziava piano a svuotarsi. Arrivai nell'area delle aule appena in tempo per vedere la porta aprirsi e l'anziano Professore uscirne. Non riuscivo ancora a comprendere perché un corso così tecnologico come Graphics fosse affidato a quella vecchia checca isterica. Mentre il mio pensiero era soffermato su di lui, Naki uscì dall'aula. La stanchezza e lo stress le si leggevano in viso. Dentro il seggiolino Brendon piangeva come un matto. 

- Puoi tenerlo per favore? - Quasi scaraventò il seggiolino ai miei piedi e di volatilizzò dentro il bagno. 

Mentre aspettavo che uscisse, decisi di tentare a fare una cosa che mai mi ero sognato di fare: prendere in braccio un bambino. Armeggiai un po' con le cinturine di sicurezza finché non riuscii ad estrarlo. Brendon non smise di piangere. Cercai di cullarlo come avevo visto fare molte volte e parve funzionare. I suoi urli diminuirono d'intensità fino a placarsi del tutto, anche se i suoi occhi verdi erano comunque tristi e la boccuccia sporgeva in un piccolo adorabile broncio. 

Naki uscì dal bagno asciugandosi le mani sui pantaloni. 
- Grazie al cielo l'hai fatto calmare. - Mi tolse il bambino di braccio. - Per l'ultima parte della lezione mi ha fatto impazzire. Voleva attenzioni perché non riusciva ad addormentarsi. E adesso ha fame. Eh, caro mio. Dovrai aspettare che arriviamo a casa. - Disse dando delle piccole pacche sulle spalle del bambino.
- Abiti lontano? -
- Non molto. -
- Hai la macchina? -
- Vado con queste. - Inidicò scherzosamente le gambe. 
- Vuoi dirmi che fai avanti e indietro a piedi carica come un mulo? - 
- Noi donne africane abbiamo una tempra forte. - Sorrise malinconica, diventando bellissima. 
Ricambiai il suo sorriso. - Anch'io vado a piedi. Posso accompagnarti? -
- Dove stai tu? Non vorrei farti allungare strada. -
- Non preoccuparti. Meno tempo passo in casa con quegli animali dei miei coinquilini e meglio me la passo. -
Presi io il seggiolino di Brendon e ci avviamo insieme verso l'uscita della facoltà, continuando a parlare di noi. 

- E così, sei un fuori sede. -
- Già. - 
- Sei al secondo anno? -
- Proprio così. -
- E in tutto questo tempo non ti sei fatto un amico? -
- Si nota così tanto? -
- Se sei tanto disperato da fare amicizia con me, sì. - 
- Cosa ci sarebbe di strano nel fare amicizia con te? -
- Beh, sai. Tutti in facoltà mi guardano come se fossi un'appestata, una malata contagiosa, o peggio ancora. -
- Perché sono dei poveri ignoranti. Io credo che sia coraggioso da parte tua studiare e assumersi allo stesso tempo le responsabilità di madre. -
- E' difficile, ma non volevo lasciare sfuggire il mio sogno. E poi Brendon non avrà sei mesi per sempre! Crescerà e devo essere in grado di dargli un futuro. -
- Suo padre? -
Naki si ammutolì. 
- Scusa, sono stato troppo invadente. -
- No, no. Scusami tu. La tua domanda è logica. Sono io che ancora non riesco a parlarne molto. Ma ormai è andata così e la devo affrontare. Il padre di Brendon è scappato via prima che scoprissi di essere incinta. Era un ragazzo bianco con cui stavo da circa due anni. Avevamo iniziato l'università insieme. Poi, un giorno, mi disse che non mi amava più, che si era innamorato di un'altra e che sarebbe partito con lei l'indomani. Tornata a casa scoprii che "quell'altra" era mia madre. -
- Il tuo ragazzo è scappato con tua madre? - Ci mancò poco che il seggiolino mi cadesse dalle mani per lo stupore. 
- Bella storia, no? -
- Sconcertante. -
- Figurati come ci sono rimasta io. Mio padre è morto dieci anni fa ormai. Era italiano. Aveva conosciuto mia madre durante una vacanza, se ne era innamorato e l'aveva portata in Italia. Le aveva dato quello che in Africa non avrebbe mai trovato. Quando morì io avevo quattordici anni. Mamma cadde in depressione e andammo a vivere dai miei nonni. Pian piano si riprese, anche se non tornò mai la donna felice che era un tempo. Poi io mi misi insieme a Sergio e tutto cambiò. Ritornò a splendere il sole, l'amore ricominciò a far parte della nostra vita. Ci iscrivemmo qui insieme perché avevamo il sogno di aprire uno studio insieme. Ma poi loro due scapparono insieme in Norvegia, il paese che mia madre aveva sempre sperato di consocere. Circa tre settimane dopo scoprii che Sergio prima di partire mi aveva fatto un'ultima sorpresa: Brendon. I miei nonni, tutto quello che mi resta della mia famiglia, mi hanno sempre aiutato e mi hanno convinto loro a continuare gli studi dicendomi che avrebbero pensato a tutto loro. Adesso vivo da sola con Brendon in una casa di loro proprietà. -

Non sapevo cosa rispondere. La storia che mi aveva raccontato era così piena di dolore che tutto ciò che mi veniva in mente da dire mi sembrava scontato e banale.
- Ti ho sconvolto? - Sdrammatizzò lei ridendo. 
- Un po'. - Risposi ancora confuso, passandomi la mano libera tra i capelli piuttosto lunghi. 
- Ti staranno sanguinando le orecchie ormai! - Fece finta di controllarmele. La sua forza d'animo mi sconvolgeva sempre di più. - Siamo arrivati, comunque. Abito in quel palzzo. - Inidicò l'edificio con la facciata rosa ed il cancello rosso dall'altro lato della strada. - Secondo piano. - 
- Ti aiuto a portare su Brendon? -
- Oh, no, non ti preoccupare. Tanto c'è l'ascensore. -
- Siamo vicini di casa, quindi. Io abito in quella via. - Indicai la traversa che si trovava qualche metro più sotto di casa sua. 
- Wow! Ho trovato chi mi scorterà a casa la sera. Nonno sarà contento. - Sorrise ancora. Gli occhi scuri le brillavano talmente tanto alla luce dei lampioni che in quel momento sembravano quasi avere vita propria. Per un attimo, un breve attimo, sentii dentro di me il calore che avevo sentito mentre Brendon mi sorrideva stringendomi il dito. Il calore di sentimenti puri, di affetti sinceri. 

Il pianto di Brendon interruppe i miei pensieri. 
- Il piccolo ha fame. Dai, andiamo a fare la pappa, amore. - Disse riprendendosi il seggiolino. - Dato che stasera ti ho sfinito con la mia storia, la prossima volta devi raccontarmi la tua. -
- Ok. - Le risposi mentre attraversava la strada. 
Quando arrivò dall'altra parte si voltò e mi urlò qualcosa. - Così mi racconterai della ricciolina che fissavi stamattina a lezione! -
Non potei fare a meno di scoppiare a ridere. Ci conoscevamo da meno di ventiquattro ore eppure sembrava leggermi l'anima. La guardai scomparire dietro il portone di casa e mi avviai verso la mia. 

Nel breve tratto di strada che dovevo percorrere, chiamai mia madre. Solita chiamata breve e senza senso che ci scambiavamo tutte le sere solo per sapere che eravamo ancora tutti vivi e vegeti. Poi arrivava sempre la parte straziante. 

- Bepi come sta? -
- Oggi è stato bene, non ha avuto nessuna crisi. -
- L'hai portato dal medico? -
- Cris, l'appuntamento è la settimana prossima. -
- Scusa mà, mi sono confuso. -
- Stai tranquillo. Il dottore ha detto che finché continua a curarsi... -
- Lo so, mamma. Lo so. -
Silenzio, il solito silenzio aggiancciante che seguiva la parte più brutta della nostra telefonata. 
- Mà, sono arrivato a casa. -
- Ok. Cosa ti cucini stasera? -
- Non ho voglia di cucinare. Mi ordino una pizza. -
- Sicuro Cris? Che hai mangiato a pranzo? -
- A pranzo sono stato a mensa. Ho preso pasta, secondo e frutta. Una pizza stasera me la merito. Ho fatto sette ore di lezione oggi. -
- Va bene. Buona cena allora e buona notte. -
- Buonanotte mà. Salutami tutti. -
- Ti voglio bene. -
- Anch'io mà, anch'io. -

Bepi, il motivo più grande per cui non volevo lasciare casa e allo stesso tempo l'unico motivo che mi spingeva ad andarmene. Non riuscivo più a stargli vicino facendo finta che la cosa non mi pesasse. Sapevo che andando via avrei lasciato tutto il peso sulle spalle di mia madre e mi dispiaceva per lei, ma io rischiavo d'impazzire. 

Salii a casa. In cucina i miei coinquilini animali si erano già accampati a giocare in compagnia delle loro canne. 
- Ragà, è arrivato il secchione! - L'unico che si accorse di me, annunciò la mia presenza agli altri.
- Oh Cris ti unisci a noi? - Mi chiese un altro porgendomi la canna che aveva in mano.
- No grazie. Sono stato fuori tutto il giorno e voglio andare a buttarmi sul letto. Mi ordino una pizza. Quando suona il ragazzo mi chiamate, per favore? -
Annuirono distrattamente. Mentre attraversavo il lungo corridoio sentii che discutevano di come "non mi godessi la vita". Arrivato nel caos di camera mia, ordinai subito la pizza per telefono e mi gettai sul letto a peso morto. Troppe ore di lezione, troppe scoperte, troppe emozioni. Quella giornata mi aveva sfinito.

La mattina in facoltà era passata molto lentamente. La lezione di Sistemi era stata più pallosa e lunga del solito. Anche stavolta l'avevo passata continuando a guardare Meg, mentre Ludovica di tanto in tanto mi lanciava delle occhiataccie malefiche. Naki aveva passato il tempo girovagando tra un ricevimento e l'altro con i Professori. Aveva lasciato Brendon dai suoi nonni, per evitare di portarlo con sè a colloquio. Finita la lezione, andai ad aspettarla fuori con un bicchiere di cioccolata in mano appena preso alle macchinette. L'aria era fredda, ma la giornata totalmente priva di vento permetteva di riscaldarsi al tiepido calore del sole, così mi sedetti sul muretto lontano dagli alberi. Fissavo la porta d'uscita sperando che Naki arrivasse presto. Avevo una fame da matti e non vedevo l'ora di tornare a casa per prepararmi un bel piattone di pasta. Ma le avevo promesso di accompagnarla a casa e non avevo il numero di cellulare per avvisarla che non avrei mantenuto la promessa. 
Vidi passare Meg, Ludovica e la ragazza cicciottella. Si erano cambiate in bagno e adesso erano tutte e tre in tenuta da jogging. Anche loro avevano preso l'abitudine che dilagava tra molti studenti di andare a correre al centro sportivo attiguo durante la pausa pranzo. Non riuscii ad evitare di notare come quei pantaloni stretti mettessero in risalto il suo stupendo lato B. Indossava una felpa azzurra che le arrivava ai fianchi, ma nascondeva poco di quella meraviglia che la natura le aveva donato. I ricci erano stati costretti in una coda altissima che li tratteneva lontani dalle sue spalle lasciando libero il collo. Sotto la mascella era ancora ben visibile quello che sembrava sempre meno un succhiotto. Alle orecchie aveva già infilato le cuffie del lettore MP3 che si stava agganciando al braccio. Senza salutare nessuno, partì spedita verso il palazzetto, seguita dalle altre due. 

- Mmmm però. La tua ricciolina ha senz'altro un bel culo. -
- Naki! Quando la smetterai di arrivare così all'improvviso? -
- Ti ho messo paura, eh? - Mi sorrise da dietro gli occhialoni scuri che proteggevano i suoi occhi neri dal sole. 
- Come è andata a ricevimento? -
- Alcuni bene, altri male. Abbiamo certi Professori che sono dei veri e propri pezzi di pane e altri che non si meritano proprio nulla se non di essere appiccicati al muro a pedate. -
- Ti hanno fatto dei problemi? -
- Quasi nessuno, tranne quello di Algoritmi. -
- Lascialo stare quell'idiota. Ti aiuto io in Algoritmi. -
- Ma se sei a secondo anno come fai ad aiutarmi? -
- L'anno scorso l'ho seguita lo stesso. -
- Per quale motivo? - Mi chiese stupita.
- Avevo due ore buca e nulla da fare a casa. -
- Tu sei proprio matto! -
- La vuoi una mano o no? Io la proverò a Giugno dato che è materia di secondo semestre e prima non posso farlo l'esame, ma ripassare non mi farà male. -
- Sei sicuro? -
- Certo. Anzi, adesso che mi ci fai pensare. - Cercai un attimo nella borsa ed uscii un piccolo fascicoletto di fogli. - Stamattina salendo sono passato in copisteria e ti ho fotocopiato gli appunti di Fisica 2. -
- Ok, tu sei un angelo. - Il suo stupore aumentò quando li prese in mano ed iniziò a sfogliarli. - E così, sei un secchione! Chi lo avrebbe mai detto? -
- Devo prenderlo come un insulto? -
- No, no. Sto dicendo solo che non hai l'aria di uno che muore sui libri. Sai, con quell'aria un po' da ribelle, il capello un po' lungo, l'aria da bello e dannato. -
- Dannato sì, bello no. -
- Fa pure il modesto adesso! Ce l'hai scritto in faccia che sai che effetto fai alle ragazze. -
Sorrisi imbarazzato e fissai gli occhi a terra. 
- E dai, non fare il timido. - Mi diede una piccola botta col gomito. - Andiamo che Brendon starà strillando dalla fame a quest'ora. -

Mi alzai dal muretto ed iniziammo a camminarci verso casa. 
- Oggi tocca a te parlare. Sono tutta orecchi. -
- Non c'è moltissimo da dire su di me. Sono... un tipo normale, con una storia normale. -
- Allora ti faccio qualche domanda io. Parlami della tua ricciolina. -
Risi all'idea che definisse Meg come qualcosa di mio. - Quella ricciolina non è mia. - 
- Ma vorresti che lo fosse non è così? -
- Beh, insomma. Non mi dispiacerebbe. Ma in fondo non la conosco neanche. -
- Da quanto tempo la fissi in quel modo? -
- Diciamo da quando l'ho vista la prima volta, anche se prima era diverso. La guardavo sì, ma ero fidanzato e per la prima volta nella mia vita cercavo di mantenere la testa apposto. -
- Quando è finita? -
- Tecnicamente un mese e mezzo fa. L'ho lasciata prima di tornare in città. -
- E praticamente? -
- Praticamente è come se non fossimo mai stati insieme. Non l'ho mai tradita, ma non mi sono mai veramente sentito legato a lei. Forse volevo solo un po' di stabilità e c'era lei disponibile in quel momento. -
- Non è una cosa molto carina. -
- Lo so, non ne vado fiero. Per questo sono contento di aver trovato il coraggio di tagliarla. Così lei potrà farsi una vita sul serio e troverà qualcuno che le dia quello che vuole. Io non sono fatto per lei. Forse non sono fatto per nessuna. - Mi rabbuiai un po', come le mille volte che mi rendevo conto di quanto fosse vero ciò che pensavo. 
- Perché dici questo? Tutti sono fatti per qualcuno. -
- Io non sono tipo da legarmi le ali da solo. Ci ho provato e non ci sono riuscito. -
- Hai mai provato a vederla sotto un'altra prospettiva? Forse era lei a non essere fatta per te. Non era quella giusta. L'amore non ti fa legare le ali, te le fa spiegare e ti porta in alto, in alto, sempre più sù. - Mentre lo diceva, spiegò le braccia e alzò la testa a fissare il cielo azzurro. Emanava una luce stupenda, di pace e serenità. Invidiavo la sua forza d'animo e il suo saper vedere le cose in positivo nonostante la bruttissima esperienza alle spalle. Io, invece, appena avevo saputo della malattia di Bepi mi ero rinchiuso nel mio guscio di negatività. 
- Come fai? - Sorridevo anch'io. La sua allegria era contagiosa.
- A fare cosa? - Tornò a guardarmi. 
- Niente, lascia stare, una sciocchezza. - E se fosse lei? Se fosse Naki quella giusta? 
- L'ho detto che sei pazzo tu! - Rise. 

Eravamo arrivati davanti al suo portone. 
- Non vai a prendere Brendon? -
- E' già a casa. I miei nonni lo hanno portato un po' in giro e ora sono qui con lui. - 
- Capito. - 
Rimasi immobile a guardarla infilare le chiavi nella serratura. Con le mani in tasca e la tracolla sulle spalle, dondolavo sui miei stessi piedi aspettando che aprisse. Spinse verso l'interno il grande e pesante cancello rosso, poi si fermò a guardarmi. Il suo sorriso era quello di una bambina, quasi non dimostrava i suoi ventiquattro anni, mentre io ne dimostravo qualcuno in più dei miei ventidue. 

- Vuoi restare a pranzo? -
- Cosa? - Impegnato com'ero nelle mie riflessioni non avevo ben capito cosa mi avesse detto.
- Dico, vuoi restare a pranzo? -
- No, no, non voglio disturbarti. Ci sono pure i tuoi nonni. -
- I miei nonni andranno via appena entreremo a casa. Mi fa piacere un po' di compagnia e dopo pranzo potresti iniziare ad aiutarmi con Algoritmi. Che ne dici? -
- Sicura che non disturbo? -
- Nessun disturbo. Di solito faccio un po' di pasta a pranzo, metterne su un piatto in più non mi cambierà la vita. - Allargò ancora di più il portone e mi tirò dentro per la manica del giubbotto. 

Non capii perché mi avesse invaso totalmente l'imbarazzo. Salendo i due piani di scale non riuscii a spiccicare parola e a stento riuscivo a tenere il passo agile di Naki. 

- Babu! Bibi! Yangu upendo! Mimi nina nyumbani. - Gridò appena aprì la porta di casa.
Entrati, vidi quelli che dovevano essere i suoi nonni seduti sul divano. Erano un'arzilla coppietta di settantenni. Le rughe dipingevano i loro visi, i capelli di entrambi erano candidamente bianchi, i loro occhi azzurri erano nascosti da lenti molto spesse, ma i loro sorrisi erano enormi. Naki corse a baciarli.
- Ndogo, habari gani? - Disse sempre più sorridente togliendo Brendon dalle braccia della nonnina. Appoggiò la mano sulla spalla della donna. - Bibi, questo è un mio collega. Si chiama Cris. Si è offerto di darmi una mano con una materia difficile. - 
La donna mi sorrise, mentre suo marito con passi un po' incerti si avvicinò a me serio. - Io sono Giovanni. E ti tengo d'occhio! - Mi disse a un palmo dal naso. 
- Babu! Smettila di fare il geloso. Ti ho detto che mi deve aiutare a studiare. E poi ho qui il miglior anti-sesso del mondo. - Disse spupazzando il figlioletto. - Non è così, kidogo moja? - Gli riempì la faccia di baci.
L'anziana donna si avvicino a me e mi prese la mano. La sua pelle era stranamente morbida, talmente chiara da sembrare trasparente. - Lascia stare mio marito. Io sono Angela. - 
- E' un piacere conoscerla signora. - Mi improvvisai galantuomo e, rispolverando un po' di lezioni di galateo che mio nonno si era fissato a darmi, eseguii un perfetto baciamano. 
- Oh! Vedi Giovanni! - Disse la donna stupita rivolgendosi al marito. - Vedi che bravo giovanotto che è? -
- Io lo tengo d'occhio lo stesso. - Ripetè imperterrito senza schiodarsi dalla sua aria minacciosa. 
- Forza su, vecchio rincitrullito! Andiamo a casa. - La moglie lo tirò via. 
Salutarono loro nipote e il piccolo per poi uscire e prendere l'ascensore. 

- Simpatico tuo nonno, eh? - Dissi sarcastico.
- Babu è sempre così, sta tranquillo. Ed è convinto di avere ancora vent'anni! Fortuna che abitano qui al primo piano, altrimenti mi sarebbe toccato riaccompagnarlo a casa. -
- Perché lo chiami così? -
- Così come? -
- Babbu. -
- Babu! Significa nonno nella lingua di mia madre, lo Swahili. Bibi significa nonna. -
- Interessante. E tutto il resto che hai detto? - Chiesi ridacchiando.
- Quando siamo entrati ho chiamato loro e Brendon dicendo 'amore mio'. Ho detto che ero a casa, poi ho detto a lui 'piccolo, come stai' e alla fine l'ho chiamato 'piccolino'. -
- Usi spesso questa lingua? -
- Mia madre la usava con me per aiutarmi a conoscere un po' le mie origini. Sono mezza swaili anch'io dopo tutto. E anche lui, per questo voglio insegnargli quello che conosco. -
- E' molto bello. -
Non mi rispose. Sorrise e le sue gote si tinsero lievemente di rosso. 
- Dai andiamo a cucinare che sto morendo di fame e tra poco anche Brendon deve fare la poppata. -

Ci spostammo nell'angolo cottura. L'entrata era, infatti, un unico ambiante che comprendeva un piccolo salottino e la cucina. Le pareti erano color crema e i mobili di gusto moderno erano in legno scuro. Mi poggiò Brendon tre le braccia ed iniziò ad armeggiare con le pentole.

Naki si rivelò un'ottima cuoca. O forse fu solo la fame a farmi trovare quegli spaghetti alla carbonara così squisiti. Appena finimmo la costrinsi a lasciarmi almeno lavare i piatti mentre lei portava di la Brendon che proprio non resisteva più senza la sua poppata. Feci attenzione a non rompere nulla come il mio solito. Asciugai tutto e sistemai tutto sul tavolo per non sembrare troppo indiscreto da aprire sportelli e cassetti. Passai nell'area del salotto dove lei allattava il piccolo dandomi le spalle. 
- Ho lavato tutto ma non so dove mettere le cose. -
Senza voltarsi e parlando a voce bassa mi indicò dove andassero riposte le varie cose che avevamo utilizzato. Sistemai tutto e tornai da lei che, nel frattempo, aveva terminato con la poppata, si era ricomposta e cercava di far fare il ruttino al piccolo. 
- Bravo, luce di mamma. - Disse ridendo quando il bambino lo fece.

Lo mise in braccio a me e mi disse di seguirla. Mi portò nella stanza da letto, dove mi disse di adagiarlo nel lettone. Lei gli si mise vicino e gli massaggiò il pancino e i piedini. Restai in piedi a fissarli affascinato. Entrambi sorridevano guardandosi negli occhi, complici di un rapporto tanto speciale che nessuno può comprendere appieno se non una madre. Il bimbo infine si addormentò. Lei gli mise vicino il microfono dell'interfono e prese l'altro capo con sé. Tornammo nella cucina soggiorno. 

- Come mai usi la trasmittente? La casa non è molto grande. -
- Lo so, ma voglio stare sicura. E poi sentirlo mi aiuta a stare un po' in compagnia. Ti faccio un caffè? -
- No, tranquilla. -
- Vuoi guardare un po' di TV? -
- Non ne guardo molta, ma se a te va, per me non ci sono problemi. -
- Ci prendiamo mezz'oretta di pausa e poi iniziamo a studiare, che dici? -
- Va bene. -
Ci accomodammo sul divano e Naki accese la TV a parete. Stavano dando una delle solite serie TV che trasmettono all'ora di pranzo, quelle per cui i bambini non vogliono mai andare a fare i compiti. La guardai sorridere alle battute un po' idiote e scontate, era davvero stupenda nonostante la stanchezza le si leggesse in viso. Anch'io sentivo la stanchezza farsi sentire, dato che quella notte avevo riposato poco e male. La testa iniziò a ciondolarmi e lottai finché potei contro la chiusura delle palpebre, ma persi e mi addormentai. 

Quando mi svegliai ero sdraiato sul divano con una coperta di pile con un disegno scozzese rosso e blu. Avevo la testa appoggiata sulle gambe di Naki che me la accarezzava dolcemente. 
- Buongiorno dormiglione. -
- Oddio scusami. - Dissi alzandomi a sedere e stropicciandomi gli occhi. - Per quanto ho dormito? - 
- Un'oretta almeno. -
- Scusami, scusami tanto. -
- Tranquillo. - Mi si avvicinò e mi scostò un ciuffo che mi si era appiccicato sulla fronte, mentre continuava a sorridere. - Sembravi così sereno che mi sembrava brutto svegliarti. -
Sentii un desiderio irrefrenabile di sfiorare la sua pelle e di entrare in contatto con quelle labbra carnose che davano l'impressione di essere dolci come il miele. Invece restai a guardarle sorridere. 

Dall'interfono giunsero i lamenti di Brendon. - Ecco che si è svegliato anche l'altro bambino. - Ancora sorridente andò in camera da letto a prenderlo. Era stupendo ancora tutto insonnacchiato. - Io devo cambiarlo un attimo. Inizi a sistemare sul tavolo quello che serve per studiare? Trovi tutto quello che centra con Algoritmi nella borsa arancione nel primo sportello della parete attrezzata. -
Annuii e aprii lo sportello che mi aveva indicato. Era pieno di borse accatastate disordinatamente l'una sull'altra, tutte piene di libri, quaderni, fogli sparsi, penne, evidenziatori e quant'altro. Mi sembrò strano vedere tutto quell'ammucchio, quando invece la casa era totalmente in ordine. Trovai e presi la borsa arancione, cercando di non far cadere nient'altro. Ne uscii l'enorme libro, un quaderno a quadretti pieno di appunti e fogli aggiunti che spuntavano da tutti i lati ed un piccolo portacolori fucsia. Li sistemai sul tavolo. Iniziai a sfogliare il libro vedendo che era quasi totalmente evidenziato in giallo e viola. Sui bordi erano riportati degli appunti a matita. Pur essendo così visibilmente sfruttato, quando lo avvicinai al viso emanava ancora un ottimo odore di libro nuovo. L'odore di quelle pagine leggermente plastificate mi aveva sempre fatto impazzire fin da piccolo. Lei arrivò mentre ancora assaporavo quel profumo con cui tanto ero fissato.

- Che fai? Sniffi? - Appoggiò Brendon sulla sdraietta che lo dondolava e lo distraeva con i pupazzi che pendevano dall'asta superiore. - Così ci farà studiare in tranquillità. -
- Prima di tutto spiegami qual è di solito il tuo metodo di studio. -
Mi guardò un po' perplessa. Poi mi prese il libro dalle mani e lo aprì. - Io leggo il capitolo, evidenzio, confornto gli appunti aggiungendo quello che manca e poi rileggo tutto collegandolo. -
- Non male. Cosa trovi difficile? -
- Ricordarmi tutto! -
- Ma non devi ricordarti tutto. Devi capire il concetto base in modo da riuscire poi da sola a rielaborarti tutto. -
- La fai facile tu. -
- La faccio facile perché è facile, molto più di quanto sembra. -

Studiammo per quasi due ore filate, interrotti ogni tanto da Brendon che cercava attenzioni. Io le spiegavo i punti principali e lei cercava di mettere insieme il resto, poi rifaceva il ragionamento partendo da zero. Era un'ottima allieva per un professore mancato come me, modestie a parte. E le piccole pause che ci prendevamo per coccolare Brendon erano attimi stupendi. Dopo aver finito tutto il primo capitolo decidemmo di chiudere per il momento. 

- Sono le 17, che facciamo? -
- Non saprei. Tu che vuoi fare? -
- Ho un'idea. Tu conosci la città? -
- Non molto. Non so se te l'ho detto, ma non ho conosciuto nessuno perciò non sono quasi mai uscito da casa. -
- Allora dobbiamo rimediare. Adesso facciamo fare la merenda a Brendon, lo imbacucchiamo e ci facciamo un giretto in centro. Ti va? -
- Sicura che non prenderà freddo? -
- Il mio piccolo è forte. - Premette la sua guancia contro quella del bambino e si alzò. Prese dalla dispenza un omogeneizzato alla frutta e infilò Brendon nel seggiolone. - Sai dare da mangiare a un bambino? -
- Cosa? Io? Non l'ho mai fatto. -
- C'è sempre la prima volta! - Mi diede in mano il cucchiaino di silcone. 
- Cosa? Devo farlo io? -
- Dai, così fai pratica. - Ridacchiò prendendomi in giro. Si avvicinò a me ed iniziò a dettarmi istruzioni che io seguii alla lettera, tremante per la paura di sbagliare e far del male al piccolo. - Apri il barattolino. Prendi un po' di frutta, un pizzichino, solo sulla punta del cucchiaio. Appoggiaglielo sulle labbra. Ora lui inizia a leccarlo per capire cos'è e tu devi accompagnare piano il cucchiaino nella bocca e uscirlo piegandolo un po' verso l'alto, così l'omogeneizzato gli resta nel palato e lui lo ingoia succhiando. Sei bravo, eh! Così, poco alla volta. -
- Sicura? Lo sto facendo bene? -
- Lo stai facendo benissimo. - Si voltò verso di me. 

Eravamo a un respiro di distanza. I suoi immensi occhi neri nei miei. Si fece risentire quel forte desiderio di accarezzarla, di stringerla e di baciarla. Resistetti anche stavolta, ma non sopportai oltre il suo sguardo perciò ripresi a guardare il bimbo che aspettava il resto della sua merenda giocando con delle grandi chiavi di plastica. Sentii i suoi occhi addosso ancora per qualche istante, poi anche lei si allontanò. Si appoggiò al muro e mi guardò mentre davo da mangiare al piccolo, prendendo sempre più praticità. 

- Ha finito tutto. Ora che facciamo? -
- Ora lo sistemiamo per uscire. - Lo estrasse dal seggiolone.
Io gettai il barattolo nell'apposito contenitore per la raccolta differenziata e il cucchiaino di silicone nel lavabo. Poi mi avvicinai alla porta-finestra del soggiorno. - Naki, ho l'impressione che dovremo rimandare il nostro giro in centro. -
- Perché? - Mi chiese lei dall'altra stanza, dove era andata per pulire il bambino.
- Perché ha iniziato a piovere. - 
- Noooo! Proprio adesso doveva piovere? - Mise il broncio come una bambina capricciosa a cui non è stato comprato il giocattolo desiderato. 
- Dai, faremo un altro giorno. Io ora vado a casa così vi lascio tranquilli. -
- Vai già via? - Mi guardò con lo sguardo un po' triste. - Resta un altro po'. Ci vediamo un film, che ne dici? - Aggiunse stentando un sorriso.
La guardai indeciso sul da farsi. Probabilmente se fossi restato ancora la pioggia sarebbe aumentata e tornare a casa sarebbe stato terribile. Ma decisi di rimanere lo stesso. - Che film proponi? -
La vidi scoppiare in un sorriso. - Che genere preferisci? -
- Io guardo di tutto, basta che non mi propini uno di quei filmetti sdolcinati e strappalacrime, sensa una trama di senso compiuto, che piacciono tanto a voi femmine. -
Mi fece la linguaccia. - Ti dispiace se mi metto un po' più comoda? Nel frattempo tu vai di la a scaegliere il film. I dvd sono impilati accanto alla TV. - 
- Daccordo. - 

La lasciai libera di cambiarsi e andai a frugare tra i film che teneva ben organizzati in ordine alfabetico. C'erano un bel po' di classici insieme a filmetti molto più leggeri, si trovavano dalle commedie, ai thriller, agli horror, alle storie d'amore, alla fantascienza. C'era di tutto, proprio come piaceva a me. In cima alla pila si trovavano un bel po' di cartoni Disney. Inizialmente avevo pensato di prendere qualcosa di leggero, ma non volevo sembrare troppo banale. E poi se quei film erano lì significava che le piacevano, no? Quindi se sceglievo un film un po' più impegnativo non avrei corso il rischio di farle vedere qualcosa che non le andava a genio. Forte di questo scelsi un film che avevo sempre avuto curiosità di vedere, specialmente dopo aver letto di racconto di King: 1408. Lo infilai nel lettore ed aspettai che Naki tornasse. Aveva indossato un pigiamone lilla con un orsetto disegnato sulla maglietta e in fondo ad una delle gambe del pantalone. Aveva messo anche delle calzette di lana in tinta. Teneva su i capelli, lasciati per tutto il giorno sciolti sulle spalle, con un mollettone a forma di farfalla. 

- Filmetto leggero, eh? -
- Mi hai detto tu di scegliere. - 
- Hai scelto bene perché è uno dei miei preferiti. - 
Poggiò Brendon sulla sdraietta che era ancora in cucina e lì dentro lo trasportò fino al divano. Andò nuovamente in cucina e prese una ciotola che riempì di patatine. Si sedette al centro divano con le gambe incrociate e la ciotola poggiata su di esse. Presi posto alla sua destra, dato che la sdraietta era poggiata alla sinistra dei suoi piedi. Rubai una patatina dalla ciotola e poi feci iniziare il film.

Il film? Migliore di come lo immaginavo. Lei? Una fifona di prima classe. Inizialmente guardava le scene susseguirsi tenendo gli occhi sbarrati e azzannando una patatina dopo l'altra, tanto che prima di arrivare alla parte interessante del film, quella in cui il protagonista inizia a ricevere gli scherzetti della stanza, le aveva già finite. Per un po' continuò a guardare la TV tenendosi stretta alla sua gamba destra, mentre con la sinistra dondolava un po' Brendon che aveva iniziato a lamentarsi. Mi accorsi di quanto fosse paurosa quando il bimbo si addormentò. Mi chiese di mettere la pausa mentre lo andava a mettere nel letto. Ci andò ostentando sicurezza, ma tornò correndo come un fulmine con il ricevitore dell'interfono in mano. Con un'espressione terrorizzata si gettò sul divano appallottolandosi sul mio fianco e fissando il piccolo corridoio al buio. 
- Che c'è? Hai visto un fantasma? - Ridacchiai nello sfotterla. 
Mi fissò in cagnesco e mi tirò un pugno sulla spalla. Continuai a ridere nonostante il male che mi aveva realmente fatto. Poi ricominciammo a guardare il film.

Mentre l'ansia generata dal film cresceva, lei si stringeva sempre di più al mio braccio, arrivando quasi a stritolarlo. Durante la scena del condotto d'aerazione, gettò un urlo e mi saltò in braccio nascondendo il viso dietro il mio collo. Tremava come una foglia. 
- Ehi, ehi. Sicura che vuoi continuare a vederlo? -
- Certo. - Mi disse sorridendo e tornando a sedersi sul divano, come se nulla fosse successo. 
- Sicura? - La guardai dubbioso. Si vedeva che aveva fifa. 
- Ti ho detto sì. E' la quinta volta che lo vedo. Ti ho anche detto che è uno dei miei film preferiti! -
- Ma sei sicura, sicura? No, sai, perché sembrava proprio che ti stessi spaventando. -
- Infatti mi spavento ogni volta, ma lo adoro lo stesso. -
Continuai a guardarla perplesso. 
- Ma... -
- Shhhh! Mi fai perdere il film. - Mi zittì e tornò ad appallottolarsi sul mio fianco. 
Non capivo come facesse a piacerle se la spaventava così tanto, ma l'idea di averla ancora appiccicata addosso non era per niente male.

Quando il film finì lei era visibilmente scossa. Ad ogni passo che faceva, si guardava intorno terrorizzata, come se fosse convinta che a momenti qualcuno sarebbe sbucato fuori dal muro per farle del male. La cosa più tragicomica successe quando mi chiese di stare di spalle davanti alla porta del bagno perché aveva paura di chiudersi dentro ed aveva paura anche di tenere la porta aperta perché guardare il corridoio le faceva immaginare che qualcuno sarebbe arrivato da lì. Continuai a ridere per tutto il tempo. Quando finì di fare pipì e si lavò le mani, uscì dal bagno visibilmente imbarazzata.
- Ehi, scusa se ti ho presa così in giro. Ti sei arrabbiata con me? -
Scosse la testa tenendo le braccia conserte ed appoggiandosi al muro. - So che sono strana. Questi film mi piacciono da impazzire, ma da quando ho subito il "trauma dell'abbandono", come lo chiama lo psicologo da cui mi hanno mandato i miei nonni, sono diventata molto più ansiosa e vederli mi scombussola l'apparato nervoso. Posso arrivare anche ad avere vere e proprie crisi di panico. -
- Perché continui a guardali allora? -
- Da sola non li guardo più, infatti. Ma quando sono in compagnia preferisco cercare di autoconvincermi che sono ancora quella di prima. -
Sorrisi, stavolta non per prenderla in giro, ma perché aveva assunto un'espressione tenerissima. Mi avvicinai a lei accarezzandole le braccia. Poi portai una mano a sfiorarle la guancia. Aveva la pelle soffice come seta pura. Pensai a quanto tempo era passato dall'ultima volta che avevo realmente toccato una ragazza. Con Rob era finita solo da un mese ma già da molto tempo non c'erano più momenti di intimità tra noi. A dire il vero, il primo mese avvenivano con la frequenza dell'accoppiamento dei conigli in calore, ma subito dopo erano già diventati rari. Lei diceva che questo significava che il nostro rapporto era arrivato alla fase successiva, quella del sentimento puro che non ha bisogno di contatto fisico. Non aveva capito o non voleva capire che era arrivato all'ultima fase, quella in cui non c'è più alcun tipo di attrazione, nè fisica nè mentale. Il tocco della pelle di Naki risvegliò in me l'antico fuoco che avevo imparato a tenere spento, il bisogno di sentire il calore di una ragazza, il desiderio di possederla nel modo più completo che si possa. Senza sapere realmente cosa stavo facendo, spostai la mano dietro la sua nuca, accarezzandole il collo ed attirandola verso di me con gli occhi fissi nei suoi. Solo a pochi millimetri dalle sue labbra rinvenni e spostai la direzione del mio bacio. Poggiai le labbra sulla punta del suo naso e mi allontanai sorridente. 
- Cacchio Cris, per un attimo mi hai fatto paura! -
- Perchè paura? -
- Credevo volessi baciarmi. - 
Forse era realmente quello che volevo, ma non poteva saperlo. - Vedi che la prendo come un'offesa. Nessuna ha mai detto che un mio bacio facesse addirittura paura. -

Rise prendendomi in giro, mi regalò un altro pugno sulla spalla ed andò in camera da letto. La raggiunsi dopo aver fatto una serie di respiri profondi per riprendere totalmente il controllo delle mie azioni. La vidi carezzare la fronte di Brendon e chiamarlo tentando di svegliarlo. 
- Naki io andrei a casa, così vi lascio tranquilli finalmente. -
- No. - Quasi urlò lei. - Scusa, hai ragione. Vorrai sicuramente tornare a casa dopo una giornata fuori. -
- No, Naki. Io dicevo per te e il piccolo. Vuoi che resti? Sei ancora scossa? -
- Un po' sì. Magari se restassi a cena, stare in compagnia di qualcuno mi aiuterebbe a rilassarmi. -
Fissai i suoi occhi che gridavano aiuto e paura. - Che mi fai mangiare stasera? -
Sorrise rasserenata. - Vuoi una pizza? -
- Se la ordiniamo adesso non arriverà prima delle 23! -
- Ho delle pizze precotte. Non sono il massimo, ma meglio di nulla. -
- Accollata. -

Brendon pianse perché voleva ancora dormire, ma a lei bastò giocarci un po' per farlo tornare sereno. Stavolta lo mise nel girello per permettergli di esplorare il soggiorno, non dopo aver fatto scomparire qualsiasi cosa che potesse rompere o che potesse fargli male. Iniziò a preparare le pizze mentre io mi infila il giubbotto ed andai in balcone per chiamare mia madre. Dopo le domande inutili su come era andata la giornata, le chiesi di Bepi. 
- Oggi ha auto una crisi. -
- Cosa? Ma le ha prese le medicine? - Chiesi allarmato. 
- Sì, Cris. Sta continuando a prenderle, infatti la crisi è stata breve e di lieve intensità. -
- Avete chiamato il dottore? -
- Sì, ha detto che può capitare. -
- Te lo dico io, questa è colpa sua! Non è un vero medico quello. E' un macellaio che gioca con la vita della gente per arricchirsi. -
- Non dire così. Gli ha salvato la vita. -
- Non l'ha curato! -
- Lo sta curando. Il grande male non è una cosa che si sconfigge così. A volte si deve stare sotto cura per tutta la vita. Non si sa quasi niente di come fare a combatterlo definitivamente, se non in pochi casi. Il dottor Giannusi sta facendo del suo meglio, ha preso Bepi molto a cuore. E tu lo ripaghi così? -
Sentii un coltello conficcarmisi nello stomaco e risalire fino al cuore. Non riuscii a mostrarmi tranquillo, nè dispiaciuto per quello avevo detto. Continuavo a pensare che quel dottore ne capisse poco e cercasse solo soldi da noi. - Ok mamma. Fammi chiudere che vado a cena. Salutami tutti. Buonanotte. - Parlai lentamente e terminai la chiamata senza darle il tempo di rispondere al mio saluto. 

Entrai in casa col volto scuro.
- Cris è tutto ok? Hai una cera! -
- Tranquilla Naki. - Sprofondai sul divano prendendomi il viso tra le mani. 
Brendon fu incuriosito da questo, infatti venne da me e si sporse per afferrarmi i capelli che spenzolavano nel vuoto. Alzando il volto lo vidi ridere divertito. Quegli occhi verdi mi penetrarono fino al più profondo del mio animo e il cuore mi si sciolse. Cercai di frenare le lacrime, ma forse era da troppo tempo che le tenevo incatenate dentro. 
- Ehi, ehi. Che è successo? - Disse lei, avvicinandomisi preoccupata. - Parla Cris. Parlarne fa bene. - Mi accarezzò la schiena ed io mi abbandonai a piangere sulle sue ginocchia. - Dai Cris, va tutto bene. -
Quando presi coscienza di stare piangendo sulle ginocchia di una ragazza conosciuta il giorno prima, che per di più ne aveva passate molte più di me nelle sua vita, cercai di ridarmi un contegno. Mi sollevai a sedere ed asciugai le lacrime. Le chiesi un bicchiere d'acqua e dopo averla bevuta iniziai a raccontarle di lui. Del mio fratello maggiore Bepi, ormai trentenne. Di quando da piccoli litigavamo in continuazione, di quando mi faceva i dispetti perché diceva che ero il cocco di mamma, di quando ci difendevamo a vicenda dai bulli delle scuole. Le raccontai di quando iniziarono le crisi, di quando scoprimmo che soffriva del grande male, l'epilessia. 
- Aveva la mia età quando la diagnosi fu confermata. Nel suo caso non si poteva fare nulla chirurgicamente, ma le cure farmaceutice aiutano a tenere sotto controllo gli attacchi. Lui rifiutò categoricamente di curarsi, affermando che si stavano sbagliando, che non era malato. L'anno dopo ebbe una crisi spaventosa. Lo salvarono per miracolo, ma i danni furono tanti. Da quel momento rimase parzialmente inabile. Non era più il ragazzo pieno di forze, ma uno che a stento riusciva a tenersi in piedi con le stampelle e che aveva bisogno di aiuto anche per lavarsi. Ma almeno servì a convincerlo che aveva bisogno di cure. Con la terapia ha ripreso quasi del tutto le capacità motorie e adesso è di nuovo autosufficiente, ma l'epilessia è un brutto male, più sconosciuto che altro. Prende le medicine, ma ogni tanto ha lo stesso delle crisi. Lievi e brevi, ma le ha. -
Naki mi guardò con gli occhi lucidi, poi mi abbracciò in silenzio. 

Fortunatamente Brendon interruppe il momento richiedendo attenzioni coi suoi gridolini. Mentre si voltava a prenderlo, vidi che una lacrima le brillava lungo la guancia. 
- Mmmm che odorino che viene dal forno. - Dissi alzandomi dal divano e tentando di scrollarmi di dosso quella tristezza che avevo. 
- Dovrebbero essere pronte. Controllale. -

Mangiammo le pizze precotte più orribili che esistano sulla faccia della terra, ma ci rifacemmo strafogandoci con pane e nutella. Dopo aver dato la poppata a Brendon e averlo messo a letto, organizzamo un mini-torneo di scopa per passare un po' di tempo e tra una chiacchiera e l'altra, l'argomento Bepi non fu più toccato. Arrivammo a mezzanotte che eravamo entrambi più rilassati. Ci sentivamo sereni. Eppure entrambi cercavamo qualsiasi scusante per prolungare la nostra compagnia.

- Ormai è tardi Cris, non mi piace l'idea che tu debba farti la strada a piedi fino a casa. -
- Ma non posso restare qui, Naki! -
- Perché no? Questo divano si trasforma in un letto comodo. Puoi dormire qui. -
- E i vicini cosa penseranno? E i tuoi nonni? -
- Dei vicini non mi interessa e i miei nonni mi conoscono abbastanza da sapere che non porterei mai in casa un uomo per quel motivo mentre c'è Brendon in casa. - Lo disse enfatizzando "quel motivo" mimando molte virgolette con le dita. 
Insistette ancora un po', ma finii con l'accettare.

Nel buio del soggiorno, non riuscivo a dormire. Non so nemmeno io perché, ma gli occhi non si decidevano a starsene chiusi, tanto che ormai si erano abituati a distinguere i contorni delle cose che mi circondavano. Ad un tratto una nuova sagoma si aggiunse. Naki si avvicinava in punta di piedi. Non indossava più il pigiamone con cui aveva passato la serata. Addosso aveva una leggera sottanina di raso che disegnava morbidamente le sue curve e lasciava le lunghe gambe nude. Aveva sciolto i capelli che adesso le ricadevano sul seno. Feci finta di dormire. Dopo poco la sentii sedersi accanto a me ed infilarsi sotto le lenzuola. Sentendo il suo corpo caldo premere contro la mia schiena non potei fare a meno di desiderare stringerla a mia volta. Così mi voltai verso di lei. 

- Non riesci a dormire? - La sua voce era sensuale come non l'avevo ancora sentita.
- Nemmeno tu? -
Continuò a guardarmi con uno sguardo talmente intenso da riuscire da solo a farmela desiderare ancora di più. 
- Brendon dorme? -
Mi zittì, poggiando delicatamente l'indice sulle mie labbra. - Sai da quanto non sto con un uomo? -
- E tu sai da quanto non sto con una donna? -
Smisi di frenarmi e mi gettai sulle sue labbra. La strinsi a me infilandole le mani sotto quello splendido raso bianco che faceva risaltare ancor di più la sua pelle. Andai ad impossessarmi di quel seno che non sembrava affatto quello di una madre, ma solo quello di una stupenda ragazza di ventiquattro anni. Lei mi lasciava fare ed aveva già iniziato a graffiarmi la pelle. 
Poi mi svegliai.

La luce del mattino entrava prepotente dalla tapparella della porta finestra che era stata aperta. Mi stropicciai gli occhi e sospirai al pensiero di quel sogno che mi aveva lasciato addosso strane sensazioni. 
- Buongiorno dormiglione! - Sentii la sua voce provenire dalla cucina e mi voltai.
Il pigiamone con l'orsetto era ancora al suo posto. Teneva Brendon appoggiato su una spalla tamburellandogli piano sulla schiena. Doveva aver appena mangiato e tentava di fargli fare il ruttino. 
- Buongiorno. - Mi sforzai di dire nel modo più comprensibile possibile. Mi misi a sedere e mi stiracchiai ancora. - Che ore sono? -
- Sono le sette e mezza. -
- Cosa? Perché così presto? - Solo dopo riflettei sul fatto che lei poteva avere impegni diversi dai miei e che sicuramente accudire un bambino portava via molto più tempo che non infilarsi la prima maglietta trovata in camera. 
- La lezione di Fisica 2 è alle nove perciò per me è anche tardi. Tu ci vai? -
- Non so nemmeno che giorno è oggi. - Le dissi mentre la raggiungevo in cucina. 
La cosa la fece ridere. - Vuoi del caffè? -
- Sì, grazie. -
- Latte? Biscotti? -
- No, grazie. Solo caffè. -
- Se vuoi, il bagno sai dov'è. - Rise ripensando alla scena di ieri a metà tra il patetico e il comico. 
- Grazie lo stesso, ma prendo il caffè e vado a casa. -

Ero in un ritardo atomico. La lezione iniziava alle nove ed io, alle nove meno un quarto, ero appena uscito di casa. Percorsi la salita quasi correndo ed arrivai in aula tanto sudato da aver cancellato ogni traccia della doccia che avevo fatto appena rientrato sotto lo sguardo malizioso dei miei coinquilini. Senza nemmeno guardarmi intorno presi posto, mentre il professore di Fisica 2 mi guardava torvo perché avevo osato interrompere la sua introduzione. 

Solo quando si fermò alle undici, potei guardarmi intorno e vedere che Naki aveva conservato un posto per me accanto al seggiolino di Brendon. 
- Come è andata la lezione accanto alla tua ricciolina? - Mi disse quando ci incontrammo a metà strada sulle scale.
- Cosa? - Le risposi girandomi a guardare verso il posto che avevo occupato per le prime due ore. Meg era lì accanto a me ed io non avevo nemmeno avuto il tempo di accorgermene! 
- Certo che sei proprio uno sbadato! -
- Per tutto il tempo non ho staccato gli occhi dal foglio in cui scrivevo. -
- Ti ho visto. Eri così applicato! - Mi prese in giro, poi riafferrò il seggiolone di Brendon che aveva iniziato a piangere. - Il grande capo ha fame. Ci vediamo oggi pomeriggio. - Mi diede un bacio sulla guancia e andò via. 

Mi sarei aspettato di sentire qualcosa rimestolarsi dentro a quel contatto, ma così non fu. Non sapevo se essere contento o meno. Se era pur vero che quella ragazza era la prima con cui avevo un rapporto, cosa parecchio insolita da dire dopo appena quarantott'ore, era anche vero che sentivo più il bisogno di un'amica che non di una con cui stare. Tranne che questa fosse stata Meg, ma questa era un'altra storia. Mi rendevo conto di essere troppo preso da una persona che nemmeno conoscevo. Non era così l'anno precedente, non so se perché non volessi tradire o per altro, ma da quando ero tornato mi ero soffermato sempre di più su di lei e quello che vedevo mi piaceva. A parte il suo ragazzo, ovviamente.

Andai a prendere un caffè prima che iniziasse la lezione di Web Programming e sorrisi automaticamente quando, tornato in aula, vidi che lei era ancora seduta allo stesso posto. Mi sedetti cercando di fare l'indifferente e iniziando a sfogliare distratto gli appunti della scorsa lezione. 
- Ciao. - Una voce cristallina mi giunse dalla sua direzione. 
Voltandomi a guardarla, mi accorsi che era proprio lei a rivolgermi la parola per la prima volta. E per di più, indossando un meraviglioso sorriso. Era impressione mia o era molto più bella del solito?
- Ciao. - Le risposi quasi spaventato all'idea che fossi ancora in un sogno. 
- Ti dispiace scalare di un posto? E' arrivata una mia amica e mi dispiace farla sedere lontano. - Aveva assunto un'espressione tanto dispiaciuta e dolce che era impossibile dirle di no. Ero sicuro che la usasse per non farsi rifiutare nulla. 
- Certo. - Sforzai un sorriso, mentre iniziai a spostare la mia roba nel posto accanto. 

Il posto era per Ludovica, ne ero certo. Ed ero anche certo che Meg non si sarebbe spostata da accanto a Umberto, quindi avrei passato le successive due ore accanto a una ragazza che non sopportava nemmeno sentirmi respirare. Non era una bella prospettiva, soprattutto pensando che mi ero abituato all'idea di passarle accanto a Meg. 

Ritornai ai miei appunti un po' più deluso. Ludovica arrivò poco dopo, gettando la sua roba nel posto vuoto tra me e la sua amica. La guardai con un sorriso che era quasi una sfida e lei mi fulminò con uno sguardo di odio. Continuando a fissarmi in cagnesco, prese le sue cose e le scambiò con quelle di Umberto. Meg la fissò stranita.
- Ludo che ti è preso? -
- Lo sai! - Le disse indicandomi con un gesto della testa. 

Non potei fare a meno di ridacchiare. Meg se ne accorse e mi guardò imbarazzata. Prese la roba di Umberto e la scambiò con la sua, spostandosi a sedere accanto a me.
- Scusala, è un po' strana. -
- Chi? - Feci finta di non aver capito a cosa si riferiva.
- La mia amica. - 
- Perché è strana? - Fare il finto tonto mi riuscì benissimo.
- No, niente. - Mi guardò sorridendo. - Io sono Megara. - Mi disse porgendomi la manina rosea.
- Cristiano. - La strinsi piano per non rischiare di farle male, ma comunque in modo deciso.
- Mio zio si chiama Cristiano. -
- Io invece non ho nessuna zia che si chiama Megara! - Risi.
- Beh, sai. Genitori fissati con la Gregia antica. - Era quasi imbarazzata.
- Ma è un... - Fui interrotto dall'ingresso del Professore, così non le dissi che il suo nome era uno dei più bei nomi che avessi mai sentito. 

Lei si voltò a seguire la lezione e non mi disse più nulla, se non uno stentato 'ciao' di cortesia quando stava andandosene dopo la lezione. Vidi che salutava tutti molto di fretta e si dirigeva fuori gettando le braccia al collo del suo ragazzo. La vidi baciarlo dolcemente, sorridendo e accarezzandogli la nuca. Lui, però, non sorrideva e la guardava serio. Le spostò i capelli per osservare quello che ormai era chiaramente un livido. Lei li rimise subito apposto, voltandosi un attimo a controllare che i suoi amici non ci fossero. Lui le prese il braccio poco sopra il gomito e la portò via. Nessuno si era accorto di questa scena perché tutti erano presi dalla decisione di dove andare a pranzare. Solo io l'avevo osservata mentre sistemavo la borsa. Non mi era piaciuta, per niente. C'era qualcosa in quel ragazzo che non mi quadrava. 

- Non è giusto! Meg se ne va a trombare e io me ne devo stare in mezzo ai topi a mensa! - Quel coglione dalla faccia da topo di Andrea. Gli avrei volentieri spaccato i denti. 
- Brutto stronzo! Dici un'altra cosa così su Meg e ti faccio ingoiare i denti. - Ecco. Esattamente questo pensavo. Ludovica l'aveva praticamente appiccicato al muro e lo attirava a sè tirandolo per la maglietta, con un'aria estremamente minacciosa. 
- Ehi, Ludo. Calmati. Stavo scherzando. -
- Smettila di scherzare su Meg. E pulisciti la bocca col sapone prima di parlare di lei. - Lo lasciò andare. 

Tutti uscirono mentre lei si avvicinò a me. - E tu, piccolo pezzo di stalker, stai lontano da lei. -
- Senti, piccola strega, io non ho fatto proprio niente. Se ti sei alzata dalla parte sbagliata del letto, prenditela con uno dei tuoi amici, non con me. -
Continuava a guardarmi in cagnesco. - Ti ho visto come giri sempre intorno a noi e come allunghi le orecchie per sentire quello che diciamo. -
- Tu sei pazza! - Dissi alzandomi e facendo per uscire. 
- Cosa vuoi da lei? -
- Io non voglio niente da nessuno. -
Smise la sua aria da dura, sbuffando. - Scusa, mi sono comportata da pazza davvero. -
- Direi proprio di sì. -
- E' che sono troppo ansiosa, soprattutto nei confronti di Meg. Scusa. -
- Facciamo finta che sia successo niente. -
- Però è vero che ti vedo sempre intorno a lei. -
- Ma no, ti sarai sbagliata. Seguiamo solo le stesse lezioni. -
Uscii e lei mi seguì. - Dove vai? -
- A mangiare a mensa. -
- Gli altri sono andati a quella del centro sportivo. Vuoi venire con noi? -
- Passi dalle minacce di morte agli inviti a pranzo, tu? -
- Sono un po' lunatica, sì. - Rise. - E allora? Vieni? -
- Non sarà peggio di mangiare da solo. -
- No, se eviti di parlare con Andrea, no. -
- Chi è Andrea? -
- Quello che ho appiccicato al muro. E non dirmi che questo non l'hai visto! - Mi picchiò piano sul braccio. 
- Sì quello l'ho visto. E l'ho pure sentito. -
- Sembra che voglia questo. Fare sapere a tutti questa cosa in modo che pensino male di lei. Ti giuro che è non è affatto come sembra. - 
- Non devi darmi spiegazioni. E non ne devi a nessuno. -
- Ma lui deve smettere di parlare così. -
- Su quello hai ragione. -
- Non sei poi così male. - Sorrise tranquillizzata. - Sono Ludovica. -
- Cristiano. -
- Che nome brutto! -
- Grazie, eh! -
- Scusa, ma non riesco a frenare la lingua a volte. -
- Non ti preoccupare. Chiamami Cris. -

Arrivammo alla mensa del centro sportivo camminando lentamente e continuando a chiacchierare. Forse aveva davvero smesso di odiarmi. Ero riuscito a farle credere che si sbagliava su di me, che non le avevo mai osservate o ascoltate. Trovammo tutti seduti in cerchio attorno all'unico tavolo che si trovava all'esterno.

- Qui c'è un po' di freddo, ma meglio di essere rinchiusi in quel casino. - Mi disse mentre ci avvicinavamo al gruppo che stava parlando animatamente.
Quando li raggiungemmo, Ludovica mi presentò velocemente al gruppo. - Ragazzi, questo è Cris. -
- Ciao Cris. - Mi risposero in coro e per un attimo mi sentii ad una di quelle sedute degli alcolisti anonimi o cose del genere. 
- Ludo, dentro ci sono Marco e Andrea che stanno facendo la fila per tutti. - Le disse una delle ragazze.
- Vado da loro allora. Che ti faccio prendere Cris? -
- Ma no, vengo con te. -
- No. Tu stai qui. Non vorrei che Andrea... -
- Una focaccia insalata e mozzarella, grazie. - Le dissi mentre non trovava le parole giuste per completare la frase. Avevo capito a cosa si riferiva. Non voleva che Andrea facesse qualche altra battuta stronza in mia presenza.

Si diresse verso l'interno, mentre io recuperai una sedia di plastica e mi sedetti accanto a Umberto. Tra tutti era quello che mi ispirava più simpatia. Mi si presentò subito ed attaccò una conversazione banale, per non farmi restare isolato. Gradii molto questo suo gesto, nonostante fossi sempre più convinto che fosse segretamente innamorato di Meg. 

Finimmo di mangiare che mancavano tre quarti d'ora all'inizio della lezione. Una ragazza si alzò attirando l'attenzione di tutti per fare quello che definì "un annuncio importante". Daniela era parecchio alta ed aveva un bel fisico slanciato. Aveva dei bei lineamenti decisi, ma non troppo duri da sembrare un maschiaccio. Nonostante i lunghi capelli biondo cenere fossero racchiusi in una coda alta, le arrivavano a più di metà schiena, lisci come spaghetti e con dei bellissimi riflessi dorati. I suoi occhi avevano un taglio stupendo, da gatta. Come da gatta sembrava il loro colore, un grigio intenso che virava al verde quando era colpito dal sole. Gli occhiali dalla montatura nera non riuscivano a nasconderne l'estrema bellezza. Solo quando ci zittimmo tutti iniziò a parlare. 
- Avrei una cosa da proporvi. Un'idea che mi è venuta su questa notte. Che ne direste di mettere su un gruppo di lavoro per un progetto extrauniversitario? -
- Di che genere? - Domandò Marco. 
- Del genere che se va bene diventiamo famosi e ci esce pure qualche soldo. -
- Vuoi rapinare una banca? - Chiese Andrea, inopportuno come sempre.
- No, idiota. Ho in mente un social network. -
- C'è già Facebook! Basta e anzanva. - Osservò qualcuno.
- Non di quel genere. La mia idea è di fare una cosa prettamente per noi universitari da dividere in più sezioni. Voglio prendere Facebook, Flicker, Youtube e il Forum dell'università e mischiarli insieme! - Disse quasi in preda a un delirio di onnipotenza. 

Mentre gli altri iniziavano a dire la loro e ad avanzare proposte, Ludovica si avvicinò a me parlandomi sottovoce. - Lei è quella con le idee strambe e le manie di grandezza. Ogni mese spunta fuori con un nuovo progetto che dovrebbe stravolgerci la vita e renderci tutti ricchi e famosi. Può sembrare un po' altezzosa, ma è simpatica se riesci a sorvolare sul fatto che crede un po' troppo in sè stessa. -

- Ehi voi, cosa state complottando? - Meg arrivò, sorridente come sempre. 
- Daniela ha avuto un'altra idea per un grande progetto. - Urlò Ludo senza nascondere la puntina di sarcasmo.
- Grande. Ma tra poco c'è lezione di Reti quindi è meglio che ne parliamo in un altro momento. -
- Hai ragione. Scrivo tutto per bene e ci organizziamo su Skype. - Annunciò Daniela. 

Tutti iniziarono a raccogliere le cose per tornare in facoltà. Meg si avvicinò a Ludo e l'abbracciò sorridendo ancora di più. Anche Ludo si sciolse in un sorriso vedendola così felice. 
- Piacere sono Megara. - Mi disse porgendomi la mano.
- Veramente ci siamo presentati stamattina. Ricordi? Prima di Web Programming? - Risposi un po' deluso. Mi aveva parlato per la prima volta, ma già si era dimenticata che esistessi.
- Oddio hai ragione, scusa. Ho una testa un po' pazza in questo periodo. - 
Prese sottobraccio Ludo e la trascinò verso la strada. La guardai allontanarsi e mi resi conto che forse era arrivato il momento di arrendersi all'idea che non mi avrebbe mai calcolato più di tanto. Marco mi si avvicinò. Si presentò e poi iniziò una conversazione sulla musica prendendo ispirazione dalla maglietta dei Children of Bodom che indossavo. Anche lui ascoltava quel genere e sembrava contento di trovare qualcuno con cui potere condividere questa cosa senza che lo prendessero per un drogato assassino. Continuammo a parlare finché non arrivammo in facoltà ed insistette per offrirmi il caffè prima di entrare in aula e costringermi quasi a sedermi accanto a lui. La cosa non mi dispiacque affatto, sia perché un risparmio di trenta centesimi è pur sempre un risparmio, sia perché il posto in cui mi fece sedere era proprio quello a cui avevo mirato: accanto a Meg. 

La lezione fu meno pesante della volta precedente e spesso capitò che lei si sporgesse verso di me per sbirciare qualche appunto che non era arrivata a scrivere. Il breve contatto della sua pelle con la mia mi faceva sobbalzare ogni volta. No, quella ragazza non mi era affatto indifferente come qualche mese prima e la cosa non era un gran bene. 

Durante la pausa uscimmo insieme per andare a prendere il caffè. Fuori dalla porta trovai Naki che mi guardò ammiccante quando riconobbe con chi ero. Chiesi a Meg di precedermi alle macchinette e andai da lei. 
- Me ne vado per quattro ore e conquisti la ricciolina? Non si fa così! - Mi canzonò lei ridendo. 
- Ci siamo conosciuti oggi a Web e sono stato a pranzo coi suoi amici. Lei non c'era perché era col suo ragazzo. - Mi sentivo un adolescente, per la precisione una ragazzina adolescente. 
- Ha il ragazzo? -
Il mio 'Sì' fu visibilmente scocciato e presto accompagnato da 'Una gran testa di cazzo'. 
- Conosci anche lui? -
- No, ma... Va beh, te lo racconto stasera mentre torniamo a casa. Vado da lei che mi sta aspettando. - 
Le posai un bacio sulla guancia, mi abbassai a baciare la fronte di Brendon e poi scappai verso le macchinette. 

Trovai Meg a fare la fila e la raggiunsi sorridendo. Le pagai il caffè e lei mi ringraziò compostamente, quasi senza guardarmi. Raggiungemmo gli altri che si erano radunati fuori dall'aula. Daniela stava ancora parlando del suo progetto e ne era talmente infervorata che sembrava quasi l'importante manager di una grande azienda che propone un nuovo prodotto. 

Qualcuno ci fece cenno di entrare in aula. Arrivati, trovammo il rappresentante degli studenti in piedi accanto al professore. Per un attimo tememmo cattive notizie.
- Ragazzi è stato organizzato un week-end di studio a Torre del Vetro. Ci sono degli importanti seminari sulla programmazione Cloud. Dato che non possediamo, purtroppo, un corso che la approfondisca, sono riuscito a convincere il Presidente a fare una piccola sovvenzione per fare partecipare chi è interessato. Per ogni studente la facoltà pagherà la partecipazione ai vari seminari e organizzerà il viaggio per portarci fin lì. A spese dello studente ci sono vitto e alloggio, che comunque non richiedono prezzi altissimi. Si parlava di circa 30€ a notte all inclusive. Ovviamente negli spazi tra un seminario e l'altro si può usufruire del villaggio per quello che il meteo permette. Chi fosse interessato deve contattare me e gli darò tutte le altre informazioni del caso. Ora vi lascio che ho rubato già troppo tempo al Professore. - Ci salutò ed uscì. 
Il Professore elogiò l'iniziativa, inveendo contro chi non aveva accettato di inserire un corso per il Cloud nel nostro piano di studi. Noi eravamo molto stuzzicati dall'idea e di certo non solo per i seminari. Sentii anche Meg commentare entusiasta la cosa con Ludo e Umberto, anche se vidi come si rabbuiò quando lui le fece notare che prima doveva parlarne con i suoi, ma soprattutto con "Lui". Il fatto che dovesse intristirsi al solo pensiero di dirli una cosa del genere o, peggio ancora, che dovesse chiedergli il permesso per prendere le sue decisioni, mi dava sui nervi. 
La notizia, comunque, aveva rallegrato un po' tutti così il resto della lezione fu resa ancora più leggera.

Quando finì, mi trattenni con i ragazzi finché tutti se ne andarono. Ognuno di loro sperava di poter partecipare a questo week-end di studio. La cosa interessava molto anche me e se Meg avesse partecipato avevo un motivo in più per volerlo fare. Era ormai quasi l'orario in cui la lezione di Graphics sarebbe finita, perciò mi misi ad aspettare Naki davanti alla porta. Quando uscì le presi dalle mani il seggiolino di Brendon e ci avviammo verso casa.

- Come mai così sorridente? Centra qualcosa la ricciolina? -
- Meg, si chiama Megara. -
- Che nome è Megara? -
- Un nome dell'antica Grecia. Dice che i suoi genitori sono fissati. -
- Avete avuto modo di parlare vedo. -
- Non tanto. - 
Le raccontai a grandi linee quello che era successo la mattina e lei mi ascoltàva sorridendo e commentando di tanto in tanto. 
- Ma questo ragazzo che odi tanto? Che ha fatto, oltre a stare con la ragazza che ti piace? -
- Beh, è una storia un po' complicata. In realtà non c'è niente di certo, ma non mi convince molto. Credo... ecco, credo che non la tratti bene. -
- Cosa te lo fa credere? -
- Non lo so. Certi atteggiamenti, certi sguardi... e poi ogni tanto le vedo dei lividi che non mi piacciono per niente. Proprio due giorni fa è tornata con una strana macchia vicino alla mascella. Ha detto che era un succhiotto, ma io li so riconoscere e quello non era proprio un succhiotto. -
- Quindi credi che la picchi? -
- Non lo so Naki. Spero di no. -

Arrivati a casa sua, ci salutammo ed io continuai a scendere verso casa. Chiamai mamma, parlandole del week-end studio. 
- Mi piacerebbe molto andarci. Sono cose molto interessanti, che mi servirebbero. -
- Cris è un'idea molto bella, ma... -
- Ma cosa? Non costa nemmeno molto. Sono circa 100€ e almeno la metà potrei metterceli io dai miei risparmi. -
- Non è una questione economica, Cris. Tu torni a casa solo nei fine settimana. Se vai lì non potresti tornare. -
- Mamma ma è solo per un fine settimana. -
- Ma tuo padre vuole vederti a casa, lo sai. E Bepi ha bisogno di vederti. E io, io ho bisogno del mio unico sostegno. -
Rimasi in silenzio qualche secondo sulla soglia del portone di casa. - Hai ragione mamma. Forse non è il caso. -

Arrivai alla lezione di Sistemi in largo anticipo e misi la borsa al solito posto. Andai a prendere il mio caffè e poi mi appostai fuori aspettando che arrivasse qualcuno di quelli che avevo conosciuto il giorno precedente. Stetti lì per dieci minuti buoni, ma l'unico risultato che ebbi fu quello di far congelare le gambe. Decisi così di entrare in aula, quanto meno per riscaldarmi un po'. Appena entrato, vidi che erano tutti lì accampati tra i banchi a discutere, probabilmente del progetto di Daniela o del week-end di seminari. Mi infilai discretamente al mio posto, troppo timido per imporre la mia presenza a un gruppo che appariva già così compatto. 

- Ehi Cris! - Fu Marco a notarmi e ad avvicinarsi a me. - Come stai stamattina? Pronto per una lezione pallosissima? -
- No, per niente! Credo che se andrà come la scorsa volta mi addormenterò. -
- C'è un posto vicino a noi. Ti vuoi unire? Così se è troppo soporifera ci teniamo svegli a vicenda. - Lui, dopo Umberto, era quello che si era mostrato più gentile e amichevole. Senza darmi il tempo di rispondere prese la mia borsa e la spostò accanto alla sua. - L'hai già preso il caffè? -
- Appena adesso. -
- Noi ancora no. - Si voltò verso gli altri. - Chi vuole caffè? -
Non gli rispose quasi nessuno tranne Ludovica e Umberto. Prima di avviarci verso le macchinette Ludo chiamò Meg. - Vieni anche tu? -
- No, grazie. L'ho già preso. - Quella mattina era abbastanza spenta e nervosa. Continuava in continuazione a tirarsi giù le maniche fino a coprirsi le mani e a toccarsi la nuca. 
- Ti sei pagata un caffè? Non succede da almeno dieci anni! - 
- No. Abbiamo fatto colazione fuori. - Accennò un mezzo sorriso.
Ludovica annuì diventando seria in volto. - Vieni lo stesso? -
- No, preferisco restare qui. Sto parlando con Andrea. -
- Come vuoi. -

Arrivati alle macchinette Umberto si limitò a prendere il suo caffè e a tornare in aula, mentre Ludovica e Marco iniziarono a parlottare. Fui praticamente escluso dalla conversazione perché il loro tono era talmente basso che pur essendo accanto a loro non capivo nulla di ciò che si dicevano. Non volevo che Ludovica ricominciasse a dubitare di me perché mi riteneva un impiccione, perciò pian piano iniziai ad avviarmi verso l'aula. 
- Ehi, dove stai andando? - Mi chiese accorgendosi che mi ero allontanato. 
- In aula. Non volevo interrompervi. -
- Ma no, figurati. Chiacchiere inutili. - Mi raggiunse insieme a Marco. - Rientriamo. -

Subito dopo la lezione, Meg e Ludovica sgattaiolarono in bagno insieme a Terry, la ragazza un po' cicciottella che correva insieme a loro. Restai un po' a parlare con Marco del più e del meno. Mi sentivo a mio agio con lui. In realtà un po' tutti mi avevano accolto bene, persino Andrea cercava di farmi integrare. L'unico a tenere un po' le distanza era Umberto e non riuscivo a capirne il motivo, dato che era stato quello a cui avevo tentato di avvicinarmi di più ritenendolo il più disponibile. 

- Che fai a pranzo? -
- Torno a casa. Pomeriggio non ho lezione quindi ne approfitto per risparmiare. - 
- Vai a piedi? -
- Già. Tanto sono due passi, specialmente in discesa. -
- Se vai a scendere allora ti faccio compagnia. Scendo anch'io a casa. -
Chiamò Andrea e, dopo aver dato un saluto generale, ci avviamo tutti e tre verso casa. Lungo il percorso iniziamo a parlare di come ognuno di noi si trovava nelle rispettive case da fuori sede. A quanto pareva, l'unico ad aver trovato una situazione normale era proprio Andrea, forse perché i suoi coinquilini erano esattamente menefreghisti come lui. Marco, invece, aveva i miei stessi problemi: coinquilini della mitologica razza metà uomo e metà testa di cazzo. Andrea fu il primo a distaccarsi infilandosi in una traversa sulla sinistra. Rimasti soli, conitnuammo a parlare. Il discorso cadde sulla proposta del week-end studio. 
- Che ne pensi? Non è una trovata geniale? -
- Credo di sì. I seminari sono parecchio interessanti. -
- Io parlavo più che altro di passare tre giorni fuori insieme a tutti i colleghi. Ma soprattutto alle colleghe. - E sottolineao il "colleghe" con un tono parecchio malizioso.
- Beh dipende che colleghe ci sono. - Lo assecondai.
- Credo che ce ne saranno un bel po'. Ludovica e Daniela ci vanno sicuramente. Meg e Terry ancora non lo sanno. Ma queste non ci interessano. Io mi riferivo alle belle colleghe. - 
Risi pensando che invece io mi riferivo proprio a Meg. - E le belle colleghe ci vanno? -
- Ho sentito dire di sì. L'hai vista quella tappetta tutta tette che a Fisica si siede sempre in prima fila? Nemmeno il Professore riesce ad evitare di fissargliele! E ho sentito dire che ha già dato conferma. -
- In effetti non passa inosservata. -
La mia affermazione piuttosto pacata lo lasciò quasi scandalizzato. Come se fosse un sacrilegio per un ragazzo non apprezzare volgarmente un paio di tette enormi e sempre ben in mostra. - Sei gay per caso? - Mi chiese di getto.
- Perché dovrei essere gay? -
- E che ne so? Due tette come quelle... -
- Le ho viste, le ho viste! Non sono tipo da fare certi apprezzamenti. -
- Guarda che se sei gay puoi dirmelo, eh! -
- Marco, mi piacciono le donne. E apprezzo anche un bel seno e un bel sedere. Semplicemente evito di fare apprezzamenti volgari. A loro piace di più. - 
Vedendomi fargli l'occhiolino per sottolineare l'ultima frase dandomi l'aria da playboy esperto, sorrise anche lui. - Lo terrò a mente quando ci proverò con Dio-esiste, come la chiamo io. -
- Quindi tu ci vai pure? -
- Come no? Mi faccio sfuggire quest'occasione? -
Sorrisi, abbassando lo sguardo. 
- Tu no? - Si affrettò ad aggiungere lui. 
- Vorrei, ma hanno bisogno di me a casa. -
- Capito. - Mi guardò quasi deluso. - Peccato però. Avresti potuto darmi altri consigli per accalappiare Dio-esiste. - Aggiunse per sdrammatizzare. Sicuramente aveva notato il velo di delusione che mi era apparso. 
- Ti faccio un corso rapido prima di partire se vuoi! - 
- Eh, magari. Sono un po' uno sfigato con le ragazze. - 
Si vedeva da come si comportava con le sue amiche che non ci sapeva fare. Ma era in fondo un bel ragazzo e correggendo certi atteggiamenti avrebbe fatto strage di cuori. - Magari ne riparliamo. Io giro di qua che abito in questa traversa. -
- Qui dentro ci abita anche il cugino di Ludo. -
- Non è che è uno degli animali che ho in casa, per caso? -
- No, no. Ci abita con la sua famiglia. Sai, moglie e figli. Cose che noi non potremo mai permetterci! -
- Triste verità. -
- Ehi Cris. - Disse quasi avesse avuto un'illuminazione. - Perché stasera non vieni con noi? Facciamo un giro in centro. Ti va? -
- Non sarebbe male. -
Si fece dettare il mio numero, promettendomi di farmi sapere appena si fossero organizzati e poi ci separammo. Per la prima volta in più di un anno, finalmente avrei visto la città in versione notturna nel suo giovedì universitario. Il fatto che probabilmente ci sarebbe stata anche Meg mi rallegrava ancora di più. Poi pensai che probabilmente ci sarebbe stato anche il suo ragazzo e l'allegria andrò a farsi benedire.

Pranzai in fretta e passai il pomeriggio a studiare. Erano le 20 e ormai avevo quasi dimenticato il mezzo invito che mi aveva fatto Marco, quando il telefono squillò per una chimata da parte di un numero non registrato in rubrica. Risposi convinto che fosse Marco.
- Pronto Marco. -
- Ciao. Non sono Marco, sono Daniela. -
- Oh ciao. -
- Mi ha dato il numero Marco perché lui non può chiamarti che è rimasto senza credito. Ti chiamo per stasera. -
- Ah si. Dimmi. -
- Noi abbiamo appuntamento alle 21:30 nella piazza del Duomo. Tu hai bisogno di un passaggio? -
- Posso venire anche a piedi, soltanto che non so come ci si arriva. -
- Cosa? Non sai dov'è il Duomo? -
- Non ho fatto molta vita sociale, diciamo. - Mi vergognavo un po' ad ammetterlo, soprattutto a una tipa come Daniela.
- Va buò. Fatti trovare alle 21 all'uscita pedonale della facoltà. Lì ci sai arrivare, no? -
- Certo. Per le 21 lì, ok. -
- Ciao Cris. -
- Ciao. -

Appena terminai la chimata, piantai una testata al muro. Che figura di merda che avevo fatto! La scelta era tra essere preso per uno sfigato ed essere preso per un asociale. In nessuno dei casi ne sarei potuto uscire bene. Bell'idea quella di dirle che non sapevo come arrivarci! Sarebbe stato meglio chiedere un passaggio o cercare la strada con Google Maps. Invece no, dovevo sempre parlare troppo.
Decisi che almeno dovevo recuperare non rischiando di arrivare in ritardo. Mi infilai perciò velocemente in bagno. Mi rasai e mi faci una lunga doccia. Ancora bagnato, andai in camera con solo un asciugamano agganciato alla vita. Scelsi i vestiti che mi sembravano più adatti. Mi sembravo tanto una ragazza al primo appuntamento, ma davvero ci tenevo a presentarmi bene con quei ragazzi. Non volevo sembrare troppo fighettino, ma nemmeno troppo trasandato. Così scelsi un paio di jeans a cui abbinai le converse di pelle nera ed una semplice maglietta a maniche lunghe sicuramente troppo leggera per l'aria fredda che la sera dominava. Sopra, però, avrei messo il giubbotto di pelle che, oltre ad essere estremamente figo a mio parere, mi avrebbe tenuto ben caldo. Mi vestii e asciugai i capelli.

Ero in largo anticipo, ma uscii di casa comunque, approfittandone per affrontare la salita con calma senza sudare troppo. 
Incontrai Naki poco distante dal suo portone. 
- Dove vai con quest'aria da superfigo? - Mi fermò ridendo. Brendon era nel seggiolone, ma stavolta era attaccato alle ruote del passeggino. Una pesante coperta di lana lo riparava dal freddo.
- Esco con gli amigi di Meg. -
- Wow! Cerchi di fare colpo allora! -
- Non so nemmeno se c'è e comunque sarà con il suo ragazzo. -
- Buona fortuna comunque. - Mi fece l'occhiolino. - Ora entro a casa se no Brendon mi si congela. - 
Mi diede un bacio sulla guancia e si infilò rapidamente nel portone. 

Continuai la mia salita ed arrivai al luogo fissato per l'appuntamento in anticipo di due minuti rispetto all'orario fissato. Trovai Terry seduta sul marciapiede. 
- Ciao Cris. Ci sei anche tu stasera? -
- Ciao Terry. Come è andata la corsa stamattina? -
- Per favore non ne parliamo. Quelle due mi vogliono morta. Le mie povere caviglie non reggono il loro ritmo. - 
- La corsa è dura. Hai pensato di fare qualche altra attività? -
- Da sola non mi va e loro due hanno libero solo l'orario di pranzo. A quell'ora non ci sono lezioni perciò possiamo solo correre. -
- Io dovrei riprendere ad allenarmi. Magari andiamo insieme in palestra. Te la senti di fare attrezzi? -
Mi guardò quasi stupita. - Lo faresti? -
- Avevo già intenzione di farlo, ma anche io essendo solo non ho mai iniziato. Settimana prossima andiamo ad informarci in caso. - 
- Ok. - Rispose entusiasta.
Un clacson richiamò la nostra attenzione. Daniela era arrivata a prenderci con la sua BMW nera tirata a lucido.

- Certo non è proprio una macchina da studente universitario! - Osservai scherzosamente salendo per sedermi nel sedile posteriore.
- Devo andare in giro con una macchina distrutta solo perché vado all'università? -
- Non dicevo questo, è solo che non mi aspettavo di vederti spuntare in BMW. Tutto qui. - Mi affrettai a dire con tono quasi di scusa.

Per il resto del tragitto stetti in silenzio, osservando Daniela che continuava a descrivere a Terry il suo famosissimo progetto. 
Posteggiammo e raggiungemmo gli altri a piedi. La piazza del duomo era enorme. La fontana che si trovava al centro era circondata da luci bianche che la rendevano davvero mozzafiato. Mi guardai attorno entusiasta mentre i ragazzi si salutavano. 
- Oggi un pezzo in più, eh! - Disse Andrea venendomi a stringere la mano. Se non usciva fuori i suoi discorsi insensati, rischiava quasi di essere simpatico. 
Mi avvicinai a Ludovica per chiederle se Meg sarebbe arrivata, ma non riuscii a trovare le parole per farlo senza sembrare un indiscreto stalker, come lei mi aveva considerato inizialmente. Poi la vidi arrivare. Bella più di sempre, in un vestito nero non troppo aderente che le arrivava a mezza coscia, avvolta in un cappotto anch'esso nero adornato di una delicata sciarpa color panna. Arrivava sorridente, saltellando quasi sui tacchi alti degli stivali che fasciavano le sue gambe fino al ginocchio. I capelli ricci che cadevano morbidi sulle spalle e venivano ogni tanto mossi dal venticello. Mi mancò il fiato. Era da sola, perciò il mio entusiasmo fu aumentato dalla prospettiva di poter starle vicino tutta la sera. 

- Jeff non c'è? - Le chiese Ludo salutandola.
- No, abbiamo... - Si incupì un po' ed evitò di terminare la frase.
- Litigato? -
Si limitò ad annuire. 
- Sei venuta in macchina, quindi? -
- Veramente no. -
Ludovica la guardò incollerendosi. - Ti ha fatto venire a piedi? -
- Ma non eravamo troppo distanti. Sono scesa alla piazza precedente. -
- Sai quanto me ne frega? - Le rispose acida. - Quello ha bisogno di una bella lezione. Dovrebbe rispettarti di più. -
Meg si guardava intorno imbarazzata per il tono alto che Ludo utilizzava. La prese per il polso e la attirò poco distante. Con la scusa di parlare al telefono con mia madre che mi aveva appena chiamato, mi avvicinai cercando di sentire quello che si dicevano. Non riuscii a comprendere molto, ma capii che Meg la stava rimproverando. Le diceva di non parlare così davanti a tutti, che sapeva cavarsela da sola e che Jeff era solo un po' nervoso nell'ultimo periodo. 
- Cris mi stai ascoltando? -
- Sì, mà. Sono fuori con dei colleghi. -
- Ti sei fatto degli amici finalmente? -
- Mà non ho dodici anni. -
- Che ho detto? -
- Niente, niente. Bepi come sta? -
- Oggi nessun problema. -
- Meglio così. -
- Torna dai tuoi amici, dai. -
- Ci sentiamo domani. -
- Va bene. Buona serata. -
- Ciao. -

Mi avvicinai a Marco che era rimasto solo mentre tutti avevano iniziato ad incamminarsi verso un pub.
- Ci sei già stato? -
- Se ti dico che questa è la prima volta che esco in questa città mi reputerai a vita uno sfigato? - 
- Ma dici davvero? -
- Già. In verità non avevo mai avuto confidenza con qualcuno prima di voi, escludendo una ragazza che ho conosciuto lunedì. -
- Probabilmente io sarei finito anche peggio di te se non avessi conosciuto Umberto. -
- Non è fuori sede? -
- Ludovica, Daniela, Meg e Umberto abitano tutti in paesi qui vicino. -
- E come lo hai conosciuto? - Gli chiesi mentre eravamo ormai entrati nel locale.
- Quando mi sono immatricolato. C'era anche lui all'ufficio e gli ho chiesto una mano coi moduli, perché sono una schiappa in queste cose. Poi abbiamo scoperto di essere nello stesso corso di laurea e abbiamo fatto un po' di amicizia. Lui ha conosciuto gli altri tramite Meg e di conseguenza ci ho fatto conoscenza anche io. -
- Si conoscono da tanto? -
- Chi? -
- Umberto e Meg? - 
- Si sono conosciuti ai corsi zero. -
- Sembrano molto, come potrei dire... -
- Intimi? - Mi disse indicandomeli. Li vidi che si tenevano abbracciati seduti sulla panca dietro il tavolo. Lui le carezzava il collo ormai libero dalla sciarpa e ornato da una piccola catenina d'oro da cui pendeva un mezzo cuore, mentre lei gli parlava accostandoglisi al viso e tenendo una mano sul suo volto. 
- Esattamente. - Dissi quasi sottovoce e con un tono amaro che non avrei voluto imprimere.
- Fortunato lui, no? - Da come lo disse sembrò quasi che avesse letto il mio dispiacere. 
- Beh certo, ricevere le coccole da una bella ragazza fa sempre piacere. - Quello che dicevo non mi discolpava, ma non riuscii a trovare niente che potesse farlo. - Solo che sapendo che lei ha il ragazzo credevo si conoscessero da più tempo per avere questa intimità senza problemi. -
- In effetti a Jeff non quadra molto questa cosa, ma Meg è così. Non ha limiti quando si parla di affetto. Se vuole abbracciare o accarezzare una persona per dimostrargli che gli vuole bene, lo fa. Senza pensare a niente. -
- Ma qualcuno potrebbe anche illudersi che ci possa essere di più. -
- Se conosce Meg, no. Si capisce quando fa le cose con malizia e quando le fa per amicizia. E Umberto la conosce. -
- A me non sembra tanto indifferente, però. - Lo dissi a voce troppo bassa e non riuscì a sentirmi. Fortunatamente. - Ci sediamo pure noi? -
- Certo. Conoscendo gli altri avranno già ordinato. -

Ci sedemmo di fronte alla coppia che continuavo a tenere sott'occhio. Accanto a me si sedette Daniela. Ordinammo da bere e qualcosa da stuzzicare nel frattempo. Quando ci portarono la nostra ordinazione, Ludovica si avvicinò e si sedette in braccio a Daniela.
- Ehi, vedi che non sei una piuma! - Le disse scherzando. 
La sollevò di peso e si alzò. La lasciò sedere sulla sedia accanto a me e, senza che neanche me ne accorgessi, me la ritrovai seduta sulle gambe. Arrossii ma per fortuna tutti credettero che era il caldo del locale che mi faceva quest'effetto. In realtà non ero abituato a certe cose da parte di ragazze semi-sconosciute. Solo Marco si accorse del mio imbarazzo. 
- Tranquillo. Lo fa sempre quando conosciamo persone nuove. E' il suo modo di dare il benvenuto. - Mi sussurò. 
La cosa non mi tranquillizzò molto, ma pian piano mi abituai e arrivai a sentirmi a mio agio quando notai la totale disinvoltura di lei e l'assoluta noncuranza nei miei confronti. Mi usava come sedia, ogni tanto mi rivolgeva qualche parola per introdurmi nella conversazione tra lei e Ludo, ma niente di più. Nessun segno, neppure il minimo, di tentativo di accalappiamento. A far scomparire l'imbarazzo si aggiunse Meg che, da quando Daniela si era seduta sulle mie gambe, sembrava essersi accorta di me. Pur restando abbracciata a Umberto, spesso si voltava a guardarmi e non allontanava subito gli occhi quando notava che anch'io la fissavo. Quando i nostri sguardi si incrociavano si limitava a sorride e a giocare con un ricciolo che le scendeva sulla fronte. Io dovevo concentrarmi per continuare a respirare e per mantenere gli ormoni sedati, anche per non convincere Daniela che fossero rivolti a lei. Aveva truccato gli occhi di scuro ed il suo sguardo ne risultava ancor di più maledettamente sensuale. Le labbra, colorate leggermente di rosso fragola, sembravano essere ancora più morbide ed invitanti. Trattenermi dal tuffarmici fu molto difficile. 

Optammo tutti per il secondo giro, anche se Umberto cercava di convincere Meg a non parteciparvi. Insisteva che lei l'alcool non lo reggeva per niente, specialmente a stomaco quasi vuoto, ma lei non lo ascoltò e si unì a noi. Nel locale iniziò ad aleggiare della musica. In breve tempo arrivò il terzo giro e le ragazze iniziarono ad esaltarsi a ritmo di musica, cantando a squarcia gola. Meg si alzò da tavola e si allontanò dondolante, cercando di mantenere l'equilibrio. Umberto si convinse che si stava dirigendo in bagno perciò non la seguì, ma io non le staccai gli occhi di dosso pronto ad intervenire qualsiasi cosa fosse successa. Vedendola appoggiarsi al bancone in attesa che il barista si accorgesse di lei, decisi che era il momento di andare. Feci capire a Daniela di alzarsi e lei si spostò sulle gambe di Marco. Raggiunsi Meg alle spalle e le poggiai le mani sulle braccia. Credo che mi avesse scambiato per Umberto perché, senza dire nulla, mi prese le mani e le adagiò sui suoi fianchi. Indietreggiò fino a far aderire la sua schiena al mio petto ed ondeggiò a tempo di musica. Il contatto col suo corpo mi fece impazzire come non mi era mai successo prima con nessuna. Voltò il viso verso di me, col sorriso brillo che le era apparso già dopo il primo giro. 

- Ciao Cris! - Esclamò voltandosi completamente e gettandomi le braccia al collo. - Come stai bene stasera! - Disse allontanandosi e guardandomi dalla testa ai piedi. 
- Grazie. - Dissi un po' imbarazzato. - Anche tu sei molto carina. -
- Troppo secondo qualcuno. - Si girò improvvisamente arrabbiata verso il bancone. 
- Che vi porto? - Ci chieste il barista. 
- Io voglio un Angelo Azzurro. - Disse.
Il ragazzo guardò me. Gli feci cenno di far finta di dimenticare l'ordinazione e lui capì subito il motivo. 
- Per chi sei troppo carina? -
- Quell'idiota di Jeff. Dice che sono vestita da battona! - Iniziò a piagnucolare. 
- Ti dice spesso queste cose? - Divenni serio. Volevo approfittare di quel momento per scoprire se i miei timori e quelli di tutti gli altri fossero fondati. 
- Capita. Forse ha ragione. Il vestito è troppo corto. - Iniziò a stiracchiarsi la gonna per cercare di allungarla. - E guarda qui, guarda. - Inidicò la scollatura, allargandola un po'. - Ha ragione, sono tutte di fuori. - 
Mi costrinsi a non guardarci dentro e le spostai le mani dal tessuto per evitare che altri lo facessero. - Non è troppo corto e nemmeno troppo scollato. Guarda Terry. Quella sì che è una maglietta scollata! - In effetti, la camicia che portava quella sera era lasciata un po' troppo aperta e, complice il seno abbondante, la visuale per i ragazzi era ben fornita. 
- Ma lei se lo può permettere. -
- E tu no? -
- No. -
- E perchè? Perchè hai il ragazzo? Dovresti andare in giro con una tuta spaziale per questo? -
- Vestita così sono volgare e sembro una battona. Poi questo rossetto. - Si passò la mano sulle labbra strofinandola forte e spargendosi il bel color fragola su tutta le labbra. - Lui non vuole. -
I miei sospetti diventavano tristemente sempre più reali. - Meg, dimmi una cosa. - Aspettai un attimo in silenzio che lei mi guardasse negli occhi. - Il tuo ragazzo ti mette le mani addosso? -

Mi guardò per qualche attimo negli occhi, ma non mi rispose. 
- Non mi sento molto bene. - Mi disse all'improvviso portandosi una mano allo stomaco e un'altra sulle labbra. 
Capii che aveva intenzione di vomitare perciò, di peso, la portai in bagno, ma arrivai solo sulla porta e lì si accasciò rimettendo. Cercai di tenerle i capelli lontani dal viso, ma alcuni si impiastricciarono comunque. Quandò finì, la accompagnai dentro fino al lavandino, feci correre un po' d'acqua e gliela gettai sul viso. 
- Faccio da sola, faccio da sola. - Mi fece cenno di uscire ed ubbidii. 

Corsi al tavolo, dicendo nel modo più discreto possibile a Ludo di andare ad aiutarla. Lei non fu altrettanto discreta nel comunicarlo ad Umberto, ma solo perchè, a quanto capii, era quasi una routine che avveniva ogni volta che uscivano dopo una sua litigata con il ragazzo. Tutti e tre tornammo al bagno, mentre gli altri restarono alle loro conversazioni. Dopo pochi minuti la vedemmo uscire quasi totalmente ripresa. Si era sciacquata per bene il viso e i capelli e solo il trucco sbavato lasciava ricordare cosa era successo. Umberto chiamò uno dei ragazzi del locale per far pulire il casino che Meg aveva combinato e tornammo al tavolo. 

- Come ti senti? - Le chiesero, quasi in coro. 
- Bene. Mi sento bene. - 
- Certo che se non vomiti non sei contenta tu! Se non lo reggi l'acool, c'è bisogno che esageri ogni volta? - La rimproverò Umberto .
- Non iniziare con lo spirito paterno! - 
Non rispose, ma si andò a sedere lontano da lei. Ne approfittai per prendere il suo posto. 

- Grazie. - Mi disse all'orecchio quando tutti avevano ripreso le loro conversazioni.
- Per cosa? -
- Per l'aiuto. L'ho visto che hai detto al ragazzo di non portarmi più niente e ho visto anche come mi hai preso di peso mentre mi stavo sentendo male. E credo che me lo ricorderò anche domani. -
- Non devi ringraziarmi. Credo sia normale quello che ho fatto. -
- Se fossi un mio amico si, ma ci conosciamo a stento. -
- Vorrà dire che dobbiamo diventare amici. - Le dissi sorridendo e buttandola sullo scherzo. Amici? Non credevo nemmeno io che sarei riuscito mai ad essere amico di una ragazza che mi faceva vibrare a quel modo solo con uno sguardo. 
Tornai serio. - Prima non mi hai risposto, però. -
Anche lei si fece seria in viso. La fase delle confessioni in preda all'alcool probabilmente era finita. Mi rifilò un secco "no" ed iniziò a torturare le maniche del vestito portandole a coprire completamente le mani, come aveva fatto per tutta la mattina.
- Hai freddo? - Le chiesi continuando a scrutarle gli occhi. 
- No, anzi. -
- Allora perchè continui a tirare le maniche così? -
- Solo uno stupido tick. - Sorrise, ma le labbra le tremarono per un attimo. 
Le fermai le mani e, piano, le afferrai un braccio portandolo verso di me. Lo tenni basso sotto il tavolo in modo che nessuno potesse vedere, se non io. Lei fece poca resistenza, ma poi si dedicò a mordersi il labbro e a strizzare gli occhi. Stava chiaramente cercando di trattenere le lacrime, mentre avevo iniziato a sollevare lentamente la manica sinistra. Mi fermai guardandole il viso stretto in un'espressione quasi di dolore. Lasciai stare e presi semplicemente a carezzarle la mano. Le sorrisi quando lei aprì gli occhi. Solo allora sembrò rilassarsi di nuovo. 
- Hai le mani un po' fredde però. - Mentii e lei capì che lo stavo facendo. 

Restammo occhi negli occhi, sorridendoci a vicenda. I suoi occhi mi confermarono tutto il dolore che covava dentro, tutta la paura che la rendeva schiava di qualcosa che non dovrebbe esistere nemmeno nel peggiore incubo di una ragazza. I miei cercarono di darle conforto, di porgerle un aiuto, di farle capire che non sarei rimasto con le mani in mano. 

- Meg cara, Meg cara. Cara, cara Meg. - Il tono con cui una voce maschile ripeteva questa frase era freddo, distaccato, quasi psicotico. 
- Jeff. - Meg trasalì e scattò in piedi vedendo il suo ragazzo fermo poco distante dal nostro tavolo. Nessuno si era accorto di lui. 
- Ciao ragazzi. - Si avvicinò ancora di più, continuando a fissarmi.
Tutti si zittirono. Solo Ludovica si alzò e lo spinse via. - Che cavolo sei venuto a fare Jeff? -
Lui rimase impassibile, come se nulla fosse accaduto. La guardò con un sorriso che trasudava cattiveria. - Sono venuto a prendere la mia ragazza e a salutare i suoi amici. - Tornò a fissarmi e, aggirando il tavolo, si avvicinò a noi. - Vedo che qualcuno si è aggiunto alla comitiva. -
- Lui è Cris. - Gli disse Meg, sorridendo, ma visibilmente impaurita. - L'ha conosciuto Ludovica. -
- Piacere. - Mi porse la mano, con l'aria di un lupo capo branco che marca il territorio in presenza di altri lupi. - Io sono Jeff. Il ragazzo di Meg. - 
Evitai di stringergli la mano, limitandomi a un cenno del capo.
- Amore mio. - Disse smielato abbracciandola. - Piccola stella sei pronta? -
- Veramente non ti aspettavo. -
- Come non mi aspettavi? Eravamo rimasti che avresti passato un paio di ore con i tuoi colleghi e poi saremmo andati insieme a fare una passeggiata. Non te lo ricordi? - Mentre le parlava sembrava essersi trasformato in un'altra persona.
- Veramente io... -
- La mia smemorina. - Sorridendo vistosamente le scompigliò i capelli prima di posarle un leggero bacio sulla punta del naso. - Su, metti il cappotto. - La aiutò a infilarlo. - La tua borsa dov'è? -
- Deve essere rimasta in macchina. - Disse lei osservandolo adesso radiosa. 
- Ah, smemorina! Qualche giorno dimenticherai la tua bella testolina poggiata su qualche tavolo. - La prese per la mano e la tirò via dal tavolo. - Saluta tutti amore. -
- Ciao ragazzi. Ci vediamo domani. - Agitò la mano verso di noi. - Posso salutare Ludo? -
- Ma certo. - Le lasciò la mano continuando a sorridere. 
Meg andò ad abbracciare Ludo che cercò di trattenerla con noi dicendole che l'avrebbe accompagnata poi lei a casa, ma Meg sembrava essersi improvvisamente spenta per lasciare il posto a una bambolina radiocomandata. E il telecomando era nelle mano di quello stronzo. 
Tornò da lui e lo abbracciò uscendo da locale. 

Ero rimasto completamente sconvolto dalla scena, dalla persona che si era riuscita a fingere lui e dal cambiamento così repentino di lei. Sul nostro tavolo regnò il silenzio per qualche minuto. Tutti erano sbigottiti. 
- Ho l'impressione che la serata si possa concludere qua. - Disse Ludovica alzandosi. - Chi vuole un passaggio? -
Tutti furono daccordo nell'andare via. Avrei voluto che mi accompagnasse Ludo a casa per poterle parlare un po' della situazione di Meg, di quello che avevo capito e di quello che lei stessa mi aveva confessato. Purtroppo si decise che ognuno sarebbe tornato nello stesso modo in cui era arrivato, perciò io feci il viaggio di ritorno con Terry e Daniela. Prima accompagnammo Terry, proseguendo poi da soli in un silenzio tombale. 

Quando si fermò sotto casa mia si decise a rivolgermi la parola. - Mi dispiace che tu sia uscito con noi proprio in una delle sere che finisce così. -
- Finisce spesso così? -
- Ogni tanto capita. Quando litigano e Meg esce con noi, la maggior parte delle volte se la viene a riprendere. Alcune volte è la calma fatta persona ed entra come un cane bastonato a chiedere perdono. Altre fa come stasera. Io non capisco come la possa rincretinire così! -
Sollevai le spalle per far intendere che nemmeno io avevo la più pallida idea di come potesse avere un'influenza tale su di lei. 
- Spero che questo non ti convinca a non uscire più con noi. -
- Non mi faccio impressionare tanto facilmente. - Sdrammatizzai. In realtà la cosa mi aveva sconvolto parecchio. Non mi davo pace di non essere intervenuto. Continuavo a ripetermi che avrei dovuto cogliere l'occasione per spaccargli la faccia ed insegnargli come si trattano le donne.
- Meno male! Mi farebbe piacere se lavorassi al progetto con noi. Te la cavi con la programmazione per web? -
- Non ho ben capito di cosa si tratta in realtà, però se ne può parlare. -
- Magari un giorno ne parliamo da soli, così ci spieghiamo meglio. E per il week-end studio? Sei dei nostri? -
- Credo che non potrò venire. Il fine settimana hanno bisogno di me a casa. -
- Ma mica è adesso! Se ne parla almeno tra due mesi! Metti che ci vorrà un mesetto per raccogliere tutto, poi sarà il periodo delle vacanze natalizie, quindi credo che se ne parlerà a metà Gennaio. -
- Credi? -
- Credo di sì. Tranne che lo organizzino proprio durante le feste, ma non credo. Cerca di organizzarti, dai! Saremo quasi tutti. Ci divertiremo. -
- Ma nessuno pensa ai seminari? - Chiesi ridendo.
- Credo proprio di no. -
- Sarò l'unico. -
- Non ci credo. -
- Sul serio. -
- Diciamo allora che penserai ai seminari e a Meg. -
La sua affermazione mi fece un attimo gelare. Mi sentivo un bambino beccato dalla mamma a rubare i biscotti. - Perché dovrei pensare a Meg? - Dissi cercando di sembrare il più normale possibile. 
- Non ti piace? - 
- E' una bella ragazza, ma che centra? -
- Credevo ti piacesse. -
- Perché? -
- Non lo so, un sentore che ho avuto. E poi, lei piace praticamnete a tutti! Non c'è un ragazzo che conosco che non sia pazzo di lei. Il primo ovviamente è Umberto. Fa tutto l'amicone però è innamorato perso. Credo si sia rassegnato al ruolo di miglior amico ormai. -
- Non ci si rassegna mai ad essere l'amico. -
- Ci sei passato? -
- No, ma lo immagino. Io non potrei essere amico di una persona che mi piace così tanto. -
- Se fosse l'unico modo per stargli vicino lo faresti. -
- Non credo che ne sarei capace. -
Daniela sorrideva dolcemente come non l'avevo mai vista fare. Sempre piena del suo ruolo di leader e di donna forte, nascondeva il lato tenero che quel sorriso rivelava riflettendo tutta la bellezza che c'era rinchiusa nel suo viso. 
- Ci vediamo domani allora. -
- A domani. - Si sporse per darmi un bacio sulla guancia e poi mi lasciò scendere.

Entrato nel mio letto, non riuscii a prendere sonno. Il mio pensiero era fisso su Meg, su quello che era successo, su quello che poteva essere in corso in quel momento. Ma soprattutto pensavo a cosa potevo fare io per aprirle gli occhi, per strapparla dalle grinfie di quello stronzo che non solo non la meritava, ma che deturpava del tutto la sua vera personalità riuscendo a manovrarla a suo piacere.

Venerdì mattina. Ultima giornata prima di tornare a casa. Raggiunsi la facoltà verso le 9, circa un'ora prima dell'unica lezione che avrei dovuto seguire. L'aula era ancora occupata dalla precedente lezione di primo anno, perciò presi il mio caffè e me ne rimasi seduto tranquillo nell'area delle macchinette. 
Ben presto vidi arrivare Daniela che mi si avvicinò sorridente. Mi salutò baciandomi le guance. 
- Ho bisogno di un caffè! - Mi disse immediatamente dopo. - Tu l'hai già preso? -
- Sì, ma il secondo ci sta bene. - Mi avvicinai alla macchinetta ed introdussi le monete, lasciando a lei la scelta della bevanda.
- Perché? Hai bisogno di svegliarti? - Pigiò due volte sul 3, scegliendo un caffè lungo macchiato.
- Non fa male, diciamo. -
- Hai dormito poco? -
- Ho avuto notti migliori. -
- Ieri sera ti ha proprio sconvolto, eh! - 
- Ma no! Colpa del materasso. - Mentii spudoratamente, ma sembrò credermi.
- Chiedi al padrone di casa di cambiarlo, no? -
- A giugno mi ha detto che la settimana dopo l'avrebbe portato. Sono passati cinque mesi ormai e questa famosa settimana non è ancora arrivata. -
- E tu digli che cambi casa. -
- Quello non vede l'ora di buttarmi fuori per dare la mia stanza a suo nipote, ma non me ne vado nemmeno a calci! - 
Ridacchiò estraendo il suo bicchiere e mi ringraziò premendo forte le sue labbra contro la mia guancia. La guardai sorridere, lo stesso sorriso che la sera precedente le aveva illuminato il viso sotto casa mia. Le donava proprio, permetteva di vedere una bellezza su cui sarebbe stato difficile soffermarsi quando l'attenzione era più attirata dall'egocentrismo che sfoderava col suo atteggiamento da super capo.

Presi il secondo caffè della giornata ed insieme ci sedemmò fuori, sotto il gazebo che ci riparava dalla pioggia finissima che aveva preso a scendere.
- C'è un po' di freddo oggi, vero? -
- Io sono ancora preso di caldo per la salita a piedi. -
- Io no. - Si cinse in un auto abbraccio cercando di riscaldarsi sfregando le mani contro il giubbotto.
- Vuoi che rientriamo? -
- No, mi piace stare qui fuori pensando che ci aspettano due ore di palla mortale con Reti. - Fece una pausa, fissandomi. Poi rapidamente prese il mio braccio e se lo portò intorno al collo, appoggiando la testa sulla mia spalla senza lasciarmi il tempo di reagire. - Ecco, così va bene. -
Ancora una volta il suo comportamento mi lasciava spiazzato ma, ricordando le parole di Marco e come la sera prima mi avesse quasi del tutto ignorato pur restando seduta sulle mie gambe, non mi opposi. 
- Che poi mi chiedo perché debbano fare una lezione pure di mattina? Facciamo già tre ore per due pomeriggi alla settimana! - Aveva ripreso a parlare come se restare abbracciati fosse la cosa più naturale del mondo. 
- In teoria sarebbero ore di Laboratorio d'Amministrazione dei Sistemi, ma il prof è lo stesso. -
- Finora abbiamo fatto solo Reti. -
- Non so se l'hai sentito durante la prima lezione, ma ha detto che prima farà tutto il programma di Reti e poi tutto quello del Laboratorio. -
- Bella cazzata! Mi costringe a venire qui pure il Venerdì mattina. Tu torni a casa ogni settimana? -
- Sì. Te l'ho detto. C'è bisogno di me. - Assunsi un'espressione importante per darmi un tono, come se quel "bisogno di me" fosse qualcosa di speciale e non mia madre che rischiava un esaurimento a badare da sola sette giorni su sette a mio fratello e a mio padre.
- Torni dalla tua ragazza? -
- Cosa ti fa credere che ho la ragazza? -
- Questa. - Mi prese la mano sinistra ed indicò il piccolo cerchietto d'oro bianco che portavo all'indice. 
- No, no. Questa non è una fedina. - Sorrisi accarezzando quello che era uno dei miei ricordi più preziosi. 
- E cos'è? -
- In realtà era una fedina di fidanzamento, quella di mio nonno. Me l'ha data prima di morire perché voleva che non fosse venduta. Diceva che il segno del suo amore per nonna non doveva andare fuso per diventare chissà che cosa. -
- Che tenero. - Sorrise anche lei e gli occhi grigi, che in quel momento sembravano striati di verde ed oro, le brillarono. - Quanto tempo è passato? -
- Ormai dieci anni. Non avevo nemmeno la barba quando me lo consegnò. Infatti per molto tempo l'ho tenuto al collo, finché non mi è calzato bene al dito. -
- Stile Frodo? - Rise di una risata cristallina che metteva gioia al cuore.
- Sì, proprio come lui. - Sorrisi anch'io, più per quel suono così gioioso che per la battua in sè. 
- Quindi non c'è nessuna ragazza? - Mi domandò fissandomi negli occhi. 
- No, non c'è. -
- Ottimo. - Susurrò.
- In che senso? -
- Nel senso che stare qui con una ragazza lontana non è facile, credo. No? - Parlò così veloce che le parole si accavalcarono l'una all'altra. 
- Beh sì. In effetti l'anno scorso non è stato facile. -
- C'era una ragazza allora! -
- Sì, c'era, ma ora non c'è più. - Mi strinsi nelle spalle.
Daniela mi accerezzò il viso continuando a guardarmi negli occhi. Rabbrividii. Il freddo iniziava a pungermi le ossa. Lei sorrise, si tolse il mio braccio dalle spalle e si alzò. - Rientriamo? -

Acconsentii e la seguii dentro, dove l'aria era nettamente più calda. Daniela mi prese la mano e mi tirò verso i sedili laterali, dove ci sedemmo. Continuò a farmi domande su di lei e su come mai ci eravamo lasciati, finchè arrivarono Marco e Andrea. 
- Ehi piccioncini! - Con la delicatezza di sempre, Andrea scelse la cosa sbagliata da dire. - Certo che non hai perso tempo a circuire il nuovo arrivato, eh Dani! -
- Vaffanculo Andrea. - Disse lei scattando in piedi piuttosto innervosita. 
- Buongiorno anche a te. - Rispose lui con un tono di ramanzina. 
- Ciao Cris. - Marco mi si avvicinò lasciando i due a scambiarsi sguardi d'odio.
- E' sempre così simpatico di prima mattina? - Gli chiesi, indicando Andrea, dopo averlo salutato.
- Così? E' anche molto peggio! - 
- Buono a sapersi. - Risi. 

Mentre i ragazzi appena arrivati facevano la fila per prendere il loro caffè, arrivò Ludovica e dopo poco anche Meg. Portava un maglioncino di verde acqua molto delicato e la stessa sciarpa color panna della sera precedente. Aveva il viso completamente struccato e sembrava aver dormito poco. Salutò tutti molto lentamente e con meno vivacità del solito. Quando si avvicinò a me, si limitò a fissarmi e a darmi uno stentato 'ciao'. Non capii perché si fosse comportata così freddamente con me, così diversamente da poche ore prima dentro quel locale. Cercai di convincermi che fosse solo colpa del sonno mancante, ma in cuore mio sapevo che la motivazione doveva in qualche modo avere il marchio di Jeff. 

Continuai a guardarla mentre con Daniela raggiungeva Ludo in fila e si portava una mano alla tempia parlando sommessamente con lei. Sentii qualcuno bussarmi sulla spalla. 
- Naki! -
- Ciao Cris. -
- Segui anche tu le lezioni di Reti? -
- Ovviamente no! Oggi c'è Basi Teoriche, di terzo anno. -
- Orario? Dieci-Tredici? -
- No. Undici-Quattordici. -
- Cacchio! -
- Esatto. Un orario troppo di merda, ma devo seguirla perché sta stronza prende le presenze. -
- Sei venuta a piedi con Brendon con questa pioggia? - Chiesi guardando fuori l'acqua che ora cadeva sempre con più forza. 
- No, no. Un mio vicino di casa doveva salire di qui e mi ha fatto il favore di darmi uno strappo. Per questo sono arrivata un'ora prima. -
- E al ritorno? -
- Se piove ancora, mi ha detto di chiamargli che passa di qui per le quattordici e mezza. -
- Molto gentile da parte sua. -
- Conosce i miei nonni da una vita e anche la mia situazione. Mi aiuta spesso, sorpattutto con Brendon. Quando mi serve, se può, me lo guarda un paio d'ore. Sinceramente oggi non avrei voluto che uscisse di casa, ma Daniele doveva uscire e non volevo disturbare i nonni. Con la scusa del passaggio in auto, l'ho imbacuccato per bene e me lo sono portato dietro. Spero solo che non faccia i capricci fino a quell'ora. -
- Certo sarà difficile tenerlo calmo se gli viene fame. -
- Non farmici pensare. Spero di riuscire a farlo mangiare prima che inizi la lezione. -
- Posso scoprirlo? - Indicai il seggiolino totalmente avvolto in una pesante coperta di lana che aveva appoggiato in un sedile vuoto. 
- Certo. Anzi, togli tutte le coperte che qui dentro fa un caldo pazzesco! - 
Tolsi tutto molto delicatamente, ripiegandoli sul borsone. Brendon era intento a giocare con una piccola giraffa di pezza, ma mi regalò uno dei suoi bellissimi sorrisi. - Ciao piccolo. -
Sorridendo, slacciai delicatamente le cinture che lo tenevano saldo e lo presi in braccio, giocandoci un po'. 
- Credo che si sia innamorato di te. - Mi disse Naki ridendo. 
- Ha dei gusti pessimi, allora. -
- Non poi così tanto. - Disse continuando a sorridere. 
Fissai per un attimo quel sorriso cercando di decifrare il significato di ciò che aveva detto, ma lei cercò di distogliere la mia attenzione. - Credo che alla tua ricciolina piacciano i bambini. - Mi disse senza fare nessun cenno, cercando di non farsi notare. 
- Perché? - Mi voltai e vidi Meg che mi guardava sorridendo mentre Ludo e Daniela continuavano a parlare tra loro. 
- Vai da lei. Ti presto mio figlio per fare colpo. - Mi fece l'occhiolino e mi spinse delicatamente per il braccio. 

Appena arrivai dalle ragazze che avevano appena estratto l'ultimo caffè dalla macchinetta, notai la loro reazione stupita. Meg continuava a fissarmi sorridendo, mentre Ludo aveva la bocca quasi spalancata e Daniela sembrava essersi improvvisamente impallidita. 
- Ragazze, posso presentarvi il più bel ragazzo della facoltà? Saluta le ragazze, Brendon. - Gli presi la manina e mimai un piccolo saluto, mentre lui sembrava più interessato a darmi pizzicotti sulla guancia. 
Daniela e Ludovica continuarono nelle loro espressioni sconvolte, mentre Meg si avvicinò per accarezzargli i capelli. - Ciao cucciolo. - Gli fece il solletico sotto il mento, ottenendo come risultato che Brendon si interessasse ai suoi stupendi ricci cercando di afferrarli. - No, piccolo, no! - Gli fermò le mani, sorridendo. - Tuo figlio è davvero straordinario. -
- Mio cosa? - Chiesi ridendo. 
- Non è tuo figlio? -
- Ma anche no! E' il figlio di una nostra collega. - Mi voltai verso Naki e le feci cenno di avvicinarsi. - Lei è Naki, la mamma di questo stupendo terremoto. Loro sono Daniela, Ludovica e Megara. -
- Piacere ragazze. - Disse non spostando gli occhi da Meg. - Cris, ti dispiace darmi Brendon? Vado a cercare un posto in aula studio. -
- Certo. - Le posai il bambino tra le braccia e la guardai allontanarsi dopo aver dato un rapido saluto alle ragazze. 
- Proprio un bel bambino ha la tua amica. - Mi disse Meg.
- Sì, stupendo. Ma adesso è ora di entrare in aula, vero? - Daniela aveva ricominciato a parlare in modo tanto rapido da far distinguere a stento le parole tra loro. Mi prese sotto braccio e quasi mi trascinò in aula insieme a lei.

La lezione fu interessante anche se piuttosto pesante. Ad alleggerirla ogni tanto c'era stata qualche battuta di Marco e Daniela, seduti accanto a me da ciascun lato. Avevo provato a prendere posto accanto a Meg, ma qualcuno aveva riordinato le borse mentre chiacchieravo con Ludovica che mi aveva chiesto di Naki. 
Quando finimmo uscimmo quasi subito ed incontrai proprio Naki che si prendeva la meritata pausa dalla lezione che a suo dire era estremamente pallosa quanto inutile. Aveva portato con se Brendon in braccio perciò potei salutare anche lui. 
- E così ti sei integrato nel gruppo, eh? Sono contenta. - Sorrise. 
- Anch'io. Ormai sentivo il bisogno di avere qualche amico con cui condividere le giornate anche qui. -
- Grazie, ah! - Disse quasi offesa.
- Ma che centri tu? Ti ho conosciuta due giorni prima di loro! Anche tu sei inclusa negli amici, ovviamente. -
- Io devo essere la prima della lista. - Mi disse atteggiandosi scherzosamente.
- No, il primo è lui. - Feci il solletico a Brendon. Adoravo già vederlo ridere.
- Devo tornare dentro, Cris. Torni a casa oggi? -
- Sì. Ci vediamo Lunedì a Fisica 2. -
- Ci vediamo. - 

Rientrò in aula ed io raggiunsi i ragazzi sotto il gazebo. Fortunatamente aveva smesso di piovere, anche se il freddo era molto prepotente. Notai che alcuni erano già andati via. Anche Meg era già scomparsa e un po' mi dispiacque perché avrei voluto salutarla prima di non vederla per i giorni seguenti. 
- Ragazzi che ne dite di andare? - Chiese Marco. 
- Direi che è proprio il caso. Ho l'autobus per casa alle 15.30 perciò ho il tempo giusto per prendere un panino al volo, finire la valigia e scappare in stazione. - Aggiunse Terry. 
- Tu a che ora parti? - Mi chiese Ludovica. 
- Solitamente prendo l'autobus delle 17, ma quando voglio prendermela comoda prendo quello delle 19. Ma anch'io dovrei tornare a casa perché prima di andare via ho da pulire la cucina. -
- Allora andiamo. - Disse sorridendo Daniela, prendendomi sottobraccio. - Volete un passaggio? -
- Io, grazie! - Terry sorrise entusiasta all'idea di evitare una passeggiata lunga come quella che la aspettava. Anche quella di arrivare a casa con qualche minuto di anticipo non le dispiaceva di certo. 
- Per me va bene se non è un problema. - Disse Marco.
- Io mi accodo di corsa. - Si affrettò a rispondere Andrea. 
- Facciamo così. - Ci interruppe Ludovica. Si rivolse a Daniela. - Tu accompagni Terry che ha fretta e Andrea che abita vicino casa tua quasi. Io accompagno Marco e Cris. - 
- Ma no dai, li accompagno tutti io. - Insistè Daniela.
- Ce li dividiamo equamente. Due tu e due io. - Si voltò verso di me. - Tu dove stai? -
Marco rispose per me. - Abita nella stessa traversa di tuo cugino, quello medico. -
- Quindi è perfetto. - Puntò il dito verso Marco. - Lascio te. - Puntò il dito verso me. - Poi lascio te. - Abbassò le mani. - E poi vado da mio cugino a pranzare così vedo la piccola Sophie. Così è deciso e così sia fatto. Muoviamoci. - Diede uno strattone leggero al mio giubbotto ed iniziò a incamminarsi.

Mi divincolai educatamente da Daniela, ringraziandola comunque per il pensiero. Mi guardò un po' mogia e si lasciò salutare ricambiando con uno stentato 'ci vediamo'. Salutai gli altri ed insieme a Marco seguii Ludovica. Salimmo sulla sua Opel Corsa bianco sporco e ci incamminammo verso casa. Fece un lungo giro a causa dei sensi di marcia imposti da una viabilità piuttosto inutile ed accompagnò Marco, poi proseguì verso la strada dove abitavo.

- Ecco, abito lì dove c'è il cancello verde. -
- Wow, mio cugino abita due portoni più avanti. - Dicendo questo si infilò in un posteggio appena liberato. Spense il motore e si girò a guardarmi. 
Per tutta la mattina mi era sembrata piuttosto strana. Non riusciva a stare ferma e zitta, sembrava avere un conitnuo bisogno di mangiarsi le unghie, di vomitare fiumi insensati di parole, di scarabocchiare su di un foglietto e di tamburellare con le dita sulle gambe. Anche in quel momento il suo sguardo sembrava piuttosto inquieto. - Ehi, Ludo. Tutto bene? -
- Sì. - Acuto, secco e veloce. - Sì, tutto ok. Tu? Stai bene? -
- Sì, sto bene. - Sibilai io lentamente, incuriosito dalla sua reazione. 
- Ti sei divertito ieri con noi? -
- Abbastanza. Anzi, parecchio. Se non fosse stato per l'arrivo del fidanzato di Meg. -
- Jeff è un mago nel rovinare le serate. - Fissò lo sguardo sulla strada e sembrò estraniarsi dal suo stesso corpo, come se le parole che diceva fossero frutto di qualcosa di automatico. - Non rovina solo le serate. Ha rovinato Meg, la sta rovinando. Piano piano la sta distruggendo. - La sua voce si faceva sempre più fioca, fino a diventare poco più di un sussurro.
- A proposito di questo argomento dovrei dirti una cosa. -
- Che cosa devi dirmi? -
- Beh, ieri è successa una cosa. -
- Parla Cris. Veloce e diretto per favore. Lo sai che quando si parla di Meg io... -
- Lo so, tranquilla. - La bloccai ed iniziai a raccontare. - Mentre era al bancone abbiamo parlato un po'. Sarà stato l'acool che l'ha fatta parlare, ma mi ha detto un paio di cosette che non mi sono affatto piaciute. -
- Cosa ti ha detto? Parlava di Jeff? -
- Sì. Mi ha detto che avevano litigato per come era vestita. Non so se ha esagerato lei nel raccontarmelo e spero tanto di si, ma mi ha detto che lui le dice che si veste da battona. -
- Purtroppo ho i miei dubbi che sia lei ad esagerare nel raccontare. Ti ha detto altro? -
- In effetti sì ed è stato quello che mi ha dato più da pensare. In pratica gli ha dato ragione. Mi ha detto che vestita in quel modo lei risultava volgare mentre altre potevano permetterselo. -
Ludovica sprigionò un sorriso amaro e battè i pugni sul volante. - La sta distruggendo. - Sussurrò. 
- E poi un'altra cosa mi ha colpito. Si è tolta il rossetto dicendo che lui non vuole. Questa frase mi ha destato molti grilli in testa così le ho fatto la domanda diretta. Le ho chiesto "Il tuo ragazzo ti mette le mani addosso?", ma lì lei si è sentita male e siamo andati in bagno per farla vomitare. Poi si è ripresa e le ho richiesto la stessa cosa. -
- E lei? -
- Ovviamente non mi ha risposto. Però ho provato ad alzarle le maniche del vestito e stava quasi per scoppiare a piangere. -
- Lo sapevo. Lo sapevo. - Continuava a ripeterlo con un filo di voce, battendo i pugni sul volante sempre più forte. Si voltò nuovamente verso di me che ormai aveva le lacrime agli occhi. - Non so che fare Cris, non lo so. La devo salvare, la dobbiamo salvare. Deve uscire dalle grinfie di quel porco schifoso, ma non so come fare. Lei lo difende sempre, nasconde quello che fa anche a me. Alcune cose le ho scoperte da sola e sono sicura che ce ne sono molte altre di cui non so. Ed ho paura. Ho paura che finirà male questa storia. Un giorno di questi la ammazzerà o la convincerà ad ammazzarsi da sola. Può farlo, riesce a farle fare qualsiasi cosa. E la colpa sarà mia che non sono riuscita a salvarla. - Iniziò a piangere a dirotto. 

Inizialmente restai immobile non riuscendo a capire quale sarebbe stata la cosa migliore da fare o da dire. Poi la attirai a me, stando attento al cambio, e la abbracciai accarezzandole i capelli. - Non è colpa tua, Ludo. -
- Devo difenderla io. Ho giurato di difenderla sempre. -
- Ci sono cose che non possiamo fare neppure volendolo con tutto noi stessi. Deve essere lei a rendersi conto di ciò che succede e a trovare il coraggio di cambiare. -
- Mi sono lasciata ingannare e l'ho assecondata quando ha deciso di mettersi con lui. Io dovevo capirlo come era fatto, dovevo saperlo. -
- Meg è grande e vaccinata. Non puoi prendere le decisioni per lei. Giuste o sbagliate che siano, tu puoi solo consigliarla. -
- Ma non mi ascolta. -
- Imporle di lasciarlo produce l'effetto contrario. E' un processo umano quasi scientifico. Se dici a un bambino di non passare accanto alla stufa perché si brucia, stai pur certa che andrà a metterci le mani. Imponi ad una persona di non fare una cosa e lei si imputerà ancora di più a farla. L'unico risultato che potresti ottenere è allontanarla da te. E non credo che tu voglia questo. -
- Preferirei uccidermi. Siamo cresciute insieme. Ci conosciamo dalle medie. Lei è tutta la mia vita, non c'è una sola persona che mi conosca quanto lei o a cui io voglia più bene. - Sorrise asciugandosi le lacrime. - Cosa consigli di fare? -
- Di parlarle con calma, di farle pian piano aprire gli occhi. Per caso è la sua prima storia seria? -
- Come hai fatto a capirlo? -
- Lo sospettavo. Spesso si tende ad idealizzare il primo ragazzo o la prima ragazza. Non capendo bene come funziona un rapporto, soprattutto quando l'altro invece ha già avuto esperienze serie magari che siano durate tanto, si tende a prendere tutto quello che succede come oro colato. -
- Che vuoi dire? -
- Che qualsiasi cosa venga dall'altra persona, si prende come se fosse la normalità. Per fare un esempio, se lui le dice che deve comandare su come lei si veste, lei sarà tentata a credere che in tutte le coppie funzioni così, che sia normale e logico. Da qui viene fuori anche la tendenza a scusarlo per qualsiasi cosa e credere che chiunque dica che fa cose sbagliate in realtà sia "geloso" del loro rapporto così serio e importante. -
Per tutto il tempo mi aveva fissato in silenzio assorta nelle mie parole. - Dovevi iscriverti a psicologia tu. -
- No, no. Sono solo cose che ho imparato sulle mie spalle. -
- Esperienze personali? -
- Qualcuna sì, qualche altra no. -
- E quindi dici che in pratica dovrei farle capire come un ragazzo dovrebbe trattare la propria ragazza. -
- Il concetto è quello, sì. -
- Speriamo bene. -
- Lo spero tanto anche io. -

- Dai, ti lascio andare adesso. Devi ancora preparare la valigia? - Mi chiese scendendo dalla macchina.
- Sì. E' la parte più noiosa. -
- Allora ci vediamo lunedì Cris. - 
- A lunedì. - Mi avvicinai al cancello mentre lei iniziava a camminare verso casa del cugino. 
- Ah, Cris. - Mi urlò quando ero quasi entrato. 
Mi fermai e la vidi correre verso di me. Mi gettò le braccia al collo saltandomi in braccio. - Grazie. - Mi sussurrò all'orecchio. 
Rimise i piedi per terra. 
- Ma figurati. Non ho fatto nulla. -
- Mi hai ascoltato e non lo fa mai nessuno quando inizio a delirare su Meg. -
- Non vedo perché avrei dovuto fermarti. -
- Grazie comunque. - Mi prese il viso tra le mani e lo avvicino velocemente al suo. - Sei un grande. - Mi strapazzò un bacio su ciascuna guancia e poi riprese la sua strada sorridendo e lasciandomi lì ancora a guardarla andare via più leggera e con un po' di speranza in più.

I due giorni a casa erano passati pesantemente come al solito. I mille problemi e le cento cose da fare erano sempre lì ad aspettarmi. Fortunatamente Bepi stava bene, ma mia madre stava ormai arrivando all'esasperazione. Mio padre era sempre più immerso nei suoi affari e sempre più impegnato a restare fuori casa il più possibile. Non riusciva a resistere all'idea che proprio il suo primogenito fosse ridotto in quelle condizioni e credeva che partecipando poco alla vita familiare la situazione non sarebbe divenuta reale come invece era. Così mia madre durante la settimana doveva prendere su di sè ogni responsabilità e cercava di dividersi tra le attenzioni di cui mio fratello necessitava e le altre mille faccende che restavano da sbrigare. Quando tornavo cercavo di toglierle più pesi possibile cercando di anticipare, nei limiti di ciò che potevo fare durante il fine settimana, molte delle cose da sbrigare e prendendomi cura di mio fratello che era sempre felice di passare del tempo con me. 

Spesso lo portavo in giro con me. Anche se dovevamo usare la carrozzina, cosa che odiava, perché non riusciva a camminare per molto tempo da solo, si vedeva ad occhio nudo che uscire all'aria aperta per un motivo che non fosse andare dal medico o in ospedale lo rendeva felice. Gli brillavano gli occhi come quando da bambini nonno ci portava al supermercato il sabato e noi sapevamo che saremmo sicuramente tornati a casa con le tasche piene di cioccolata. Inoltre ci eravamo accorti che le sue crisi avvenivano più frequentemente se era nervoso e se era triste. Raramente aveva crisi durante il fine settimana. Mia madre credeva che fosse la mia presenza, ma io ero convinto che fosse perché aveva semplicemente più momenti di svago. Non che mia madre non cercasse di dargliene ma, santa donna, aveva mille cose a cui pensare e non poteva stare con lui tutto il tempo che desiderava e che lui necessitava. Quando mi accompagnava alla stazione, infatti, aveva sempre il magone e cercava di convincermi a spostare l'iscrizione alla sede distaccata della mia facoltà che si trovava a pochi chilometri di distanza dal mio paese. Per quanto mi dispiacesse lasciarla e per quanto volessi aiutare mio fratello a stare bene, io avevo bisogno di aria nuova.
Stavolta poi, avevo un motivo in più per essere deciso a tornare nella mia città adottiva. Avevo finalmente fatto delle conoscenze e stavo iniziando delle amicizie interessanti. Naki, seppur in una settimana, si era dimostrata una delle persone migliori che io avessi mai conosciuto. La sua positività riusciva a contaggiarmi e i sorrisi di Brendon bastavano per tirarmi su anche quando ero più pensieroso. Gli altri ragazzi mi avevano accolto come se ci conoscessimo da secoli, Ludovica mi aveva addirittura scelto come suo confidente. Durante il fine settimana avevo trovato e aggiunto su Facebook la maggior parte di loro e avevo passato le serate parlando con Marco e Daniela. Avevo aggiunto anche Meg, ma non avevo trovato il coraggio di contattarla in privato. Mi limitavo a commentare discretamente qualcosa o a mettere qualche 'approvazione' a quello che condivideva, sperando che ciò attirasse la sua attenzione. Purtroppo, a parte qualche commento di risposta, non ero riuscito nel mio scopo. Mi rifacevo sfogliando quasi continuamente le sue foto. Una in particolare mi faceva impazzire. Era in piedi accanto ad una pianta di gelsomino che accarezzava assaporandone il profumo, i capelli parzialmente raccolti in uno chignon con qualche ricciolo che scendeva ad accarezzarle la fronte e il collo, un vestito nero con una leggera fantasia rosata la fasciava morbidamente. Il suo sguardo, contornato da un elegante filo di trucco, era estremamente dolce ed era accompagnato da un leggero sorriso che le increspava le labbra e creava quelle deliziose piccole fossettine agli angoli della bocca. Restavo incantato a guardarla con il cuore che iniziava ad accellerare. 

Quella mattina, attraversando il grande cancello grigio chiaro e camminando lentamente lungo il vialetto alberato che portava alle aule, il mio pensiero era diverso dal solito. Mi chiedevo cosa sarebbe successo, se quei due giorni di 'pausa' mi avessero fatto dimenticare, come stavano Naki e Brendon e come aveva trascorso quei giorni Meg. 
Arrivai in aula parecchio in anticipo, ma trovai Andrea già lì. Era seduto da solo al solito posto, immerso nel silenzio dell'aula completamente vuota. Il mio arrivo lo fece trasalire un po'.
- Buongiorno Cris. Come stai? -
- Eh, non mi lamento. Te? Sembri un po' stanco? -
- Lasciamo stare. Ieri sera ho perso l'ultimo autobus perciò stamattina sono dovuto salire con quello delle sei. Sono arrivato a casa alle otto, ho posato la valigia e sono salito a piedi qui. -
- Ci credo che sta dormendo allora! Vuoi un caffè? -
- No, grazie. Nella fretta ho dimenticato il portafoglio a casa. -
- Offro io, tranquillo. -
Mi guardò un po' stupito, ma poi accettò. In realtà anche io mi stupii di averlo detto, ma in fondo, anche se non era il massimo, mi sembrava troppo scortese non farlo dopo quella risposta. Riuscimmo a conversare del più e del meno mentre prendevamo i nostri caffè e mi convinsi sempre di più che evitando determinati discorsi riusciva ad essere una persona piuttosto tranquilla. Pian piano arrivarono tutti gli altri, compresa Meg che mi salutò nuovamente in modo distaccato, evitando il contatto fisico e limitandosi a un cenno col capo. Di nuovo rimasi un po' deluso da ciò e cercai di spiegarmi perché ero l'unico con cui non dimostrava la sua affettuosità in modo espansivo. Forse era solo perchè non mi conosceva ancora oppure quello che era successo giovedì sera l'aveva turbata a tal punto da voler evitare di rischiare che riprovassi ad entrare nell'argomento. Fatto sta che dovetti evitare di far notare il mio improvviso cambio di umore e, per riuscirci, andai in aula con la scusa di aspettare Naki. 

La trovai già in aula. Aveva preso posto accanto alla mia borsa ed aveva sistemato il seggiolino su cui Brendon dormiva. 
- Ehi forestiero, come va? -
- Bene. Fine settimana nella norma. Il vostro? -
- Noi siamo stati a casa. Brendon ha avuto qualche linea di febbre Sabato. Sicuramente sarà stato il freddo di Venerdì mattina. Ieri però già stava bene quindi oggi non ho avuto problemi a salire qui. -
- Povero cucciolo. - Gli sfiorai delicatamente la manina che teneva paffutamente vicino al viso. 
- Per il resto? Come va l'approccio con la ricciolina? -
- Lasciamo stare l'argomento Meg. Devo aggiornarti di un bel po' di cose, ma ora non posso. Potrebbe entrare lei o qualche suo amico da un momento all'altro. E poi sono cose troppo delicate. -
- Addirittura sei già arrivato alle cose delicate? -
La guardai perplesso fingendo di non capire a cosa alludeva, mentre lei se la rideva sotto i baffi. 
- Sei arrivato in terza base? - Rise ancora più vistosamente.
- A parte che non ho mai capito sta cosa delle basi che cosa significa, comunque sei totalmente fuori strada. -
- E allora cosa sono queste cose delicate? -
Vidi rientrare Marco e Umberto perciò tagliai corto dicendole che ne avremmo parlato l'indomani mentre l'accompagnavo a casa e cambiai discorso presentandole i due ragazzi. 

Quando arrivò il Professore ci sedemmo ed iniziammo a seguire. Accanto a me si era seduta Daniela che ogni tanto, mentre il professore ci dava le spalle per scrivere qualche formula, si allungava su di me per sfiorare il braccio di Brendon.

Quando terminò la lezione, Naki scappò via perché il piccolo si era già svegliato negli ultimi dieci minuti ed aveva iniziato a lamentarsi. Prima di andare mi lasciò su un foglietto il suo numero di telefono, come le avevo chiesto durante la lezione. Le feci uno squillo per farle avere il mio.
- Attracchi le donne sposate? - Mi disse Daniela vedendomi raccogliere il foglio e mettermelo in tasca.
- Naki non è sposata. - Sorrisi.
- Ciò significa che stai cercando di attraccarla? - Si avvicinò continuando a mantenere lo sguardo malizioso. 
- Perché? Che ci sarebbe di male? - Decisi di risponderle a tono. 
- Oh, nulla! Ha già un bambino quindi vuol dire che è un'esperta anche in campi diversi dall'amicizia. - 
Quella battuta non mi piacque per niente. - Ha un bambino stupendo che adoro. Non conosci la sua storia quindi se potessi evitare di fare battute così pesanti su gente che non sai cosa ha patito ne sarei felice. - Rimasi calmo e cercai di mantenere un tono sereno. 
La vidi mortificarsi. Abbassò gli occhi ed uscì. 

Anche la lezione di Web Programming era finalmente finita. Decidemmo di andare a pranzo a mensa e ci spostammo in gruppo. L'unica che non venne con noi fu Meg. Ci salutò all'entrata della facoltà dicendo che Jeff sarebbe passato a prenderla lì e che ci saremmo rivisti alla lezione pomeridiana. Io e Ludovica ci scambiammo uno sguardo preoccupato, ma sapevamo che in quel momento non potevamo fare nulla. Lei insistette per restare a farle compagnia finché non fosse arrivato dicendo che uno di noi avrebbe preso il pranzo anche per lei, ma Meg fu risoluta nel non permetterglielo.

Il pranzo trascorse tranquillo. Mi sentivo finalmente a mio agio e mi sembrava di conoscerli da secoli, specialmente Marco e Ludo. Tornò a venir fuori il progetto di Daniela ed io ne approfittai per ricominciare a parlare con Ludo di Meg. 
- Voi due ci state quindi? - Fummo interrotti quasi subito da Daniela che venne a sedersi tra noi. 
- Ci stiamo a cosa? - Le chiese Ludo.
- A cercare di sviluppare il sito entro la multi-conferenza a Città del Vetro. Lì possiamo chiedere un po' di spazio durante la giornata dei progetti indipendenti e presentarlo. Che ne dite? -
- Non starai volando un po' troppo in alto? - 
- Se non punti in alto, non ti smuoverai mai dalla posizione in cui sei. Non ho ragione Cris? - Mi fissò dandomi una pacca sulla spalla.
- Beh questo è vero, però Ludo ha ragione. Forse puntare a presentare il progetto a Città del Vetro è un po' troppo. Il tempo non è molto. Non conosco le capacità di ognuno di voi, ma credo che per fare una cosa fatta bene ci sia bisogno di tempo per lavorarci su. Di molto tempo. -
- Esattamente quello che dico da una settimana, ma qui nessuno mi ascolta! - Disse Terry alzandosi da tavola. - Dobbiamo smetterla di parlare ed iniziare a lavorare. Costruiamo la parte teorica e a Città del Vetro potremmo presentare quella al massimo. Ma se vogliamo presentare tutto il lavoro completato rischiamo di lavorare male e creare un prodotto scarso. - 
Daniela quasi offesa decise di chiudere il discorso. - Ok allora stasera fisseremo un giorno, ci riuniremo e definiremo tutto. - Guardò l'orologio di sfuggita. - Si è fatto tardi. Ritorniamo. -

Svuotammo il tavolo e ci avviammo verso la facoltà. Arrivati all'entrata, trovammo Meg seduta sul marciapiede. Era esattamente nel punto in cui l'avevamo lasciata.

Quasi tutti si limitarono a salutarla sorridenti e ad avviarsi verso l'aula. Ludovica ed io, invece, ci bloccammo a guardarla abbastanza straniti. Daniela e Marco, che avevano camminato insieme noi, si fermarono per salutarla e guardarono noi in modo strano. Non capivano perché fossimo rimasti impalati a fissarla senza dire una parola. Noi, invece, sembravamo esserci reciprocamente letti nel pensiero. Perché era esattamente lì? Se fosse appena arrivata, come tutti credevano, sarebbe sicuramente entrata dentro, aspettandoci tornare al calduccio. 
- Meg perché non sei dentro? - Fu la prima cosa che le disse Ludo.
- Vi stavo aspettando. - Meg fece un piccolo sorriso ma i suoi occhi non accompagnarono l'increspatura delle labbra.
Ludo le si avvicinò mentre lei finalmente si alzava da terra. - Ti ha lasciata qui, vero? Non è venuto a prenderti. - Disse con un tono di voce molto basso. 
- Ma no. Te l'ho detto, vi stavo aspettando. - 
Si fissarono negli occhi in silenzio. Lo sguardo di Ludovica era di fuoco, incazzata nera al solo pensiero di ciò che era successo e ancor di più con Meg che continuava a negarlo. 
Capii che se noi altri fossimo rimasti lì, Meg non avrebbe desistito dalla scusa che aveva addotto. Presi per il braccio Daniela che mi sorrise e dissi a Marco di venire con noi alle macchinette per riscaldarci con un buon caffè. Fortunatamente nessuno dei due oppose resistenza, così lasciammo da sole le due amiche. 

Mentre bevevo il caffè che Marco aveva insistito per offrirmi, continuavo a fissare la porta aspettando di vederle rientrare e sperando che la nostra supposizione fosse stata sbagliata. Quando arrivarono mi accorsi subito che così non era. Meg fingeva un sorriso enorme in viso, si diresse verso Umberto, lo abbracciò e se ne stette lì in silenzio. Ludovica, invece, aveva la rabbia che le sgusciava fuori da ogni poro. Il viso infiammato, le labbra serrate così come i pugni che teneva fermi lungo i fianchi. Si avvicinò a me e mi chiese di seguirla senza aggiungere altro. Mi separai da Marco, ma dovetti insistere un po' di più per far staccare Daniela che era ancora incollata al mio braccio. Alla fine, diventando forse un po' trobbo sgarbato, le feci capire che doveva lasciarmi andare da solo. 
- Ci hai messo un po'. Il cirripide non voleva scollarsi? -
- Chi? -
- Daniela. Da quando sei uscito con noi non ti lascia un momento. -
- Me ne sono accorto. - Sorrisi passandomi una mano sulla nuca come spesso mi capitava di fare quando ero in imbarazzo.
- Ti piace? -
- Chi? - Convinto che si fosse accorta del mio interesse per Meg, raggelai.
- Il cirripide! -
- Daniela? - Mi rilassai nel vederla annuire. Iniziai a ridere. - Proprio no! Non è il mio tipo. Troppo esuberante, troppo egocentrica. E poi, senza offesa eh, ma mi sembra un tipo abbastanza... aperto, diciamo così! -
- Vuoi dire facile? -
- Magari non lo è. Dico solo che da come mi si è incollata addosso, appare come se lo fosse. - Mi affrettai a correre ai ripari. Forse non avrei dovuto dirlo. In fondo era sempre una sua amica. 
- Di solito è questo che piace di lei ai ragazzi. Gli si butta al collo, fa quattro moine e loro si sentono esaltati. Lei è una bella ragazza e credono che se lei ci prova con loro, allora loro sono degli strafighi. In realtà lei non ci prova con tutti perché le piacciono. Le piace che qualcuno la faccia sentire più bella di quello che si sente già. Poi magari se è interessata ci sta pure. - 
- Sbaglio o non hai una gran bella opinione di lei? - Risi leggermente.
- Non è questo. Ognuno alla fine si comporta come vuole, solo che... Oh, ma che mi interessa di Daniela ora? Dovevo dirti un'altra cosa! -
- Che dovevi dirmi? -
Si schiarì la voce, poi mi guardò seria. - Cosa hai pensato prima quando abbiamo visto Meg seduta in strada? -
- Beh, in realtà... - Di nuovo mi accarezzai la nuca. - La prima cosa che mi è venuta in mente è che il suo ragazzo non fosse venuto a prenderla per il pranzo. Poi, però, ha detto che stava aspettando noi, quindi... -
- Le hai creduto? -
La guardai negli occhi, annuendo incerto, ma poi cedetti. - Nemmeno per un istante. Mi sono tirato dentro gli altri due sperando che da sola con te ammettesse la verità. -
Si fissò le punte delle scarpe, iniziando a mangiucchiarsi le unghie. 
- E allora? -
- Allora... - Alzò lo sguardo, che si rivelò un po' lucido. - Allora, avevi ragione. -
Per un attimo dimenticai di non essere tra le pareti della mia stanza e piantai un pugno al pilastro di cemento armato. Fece molto male e mi graffiai le nocche da cui uscì qualche goccia di sangue.
- Ohi calmo! - Ludovica preoccupata mi fermò le braccia. - Fai vedere. - Mi prese la mano.
- L'ha lasciata al freddo per più di un'ora e senza pranzo? -
- Sì. Ma tu che ti sei fatto? -
- Non è niente. Un po' d'acqua e passa tutto. -
- Valla a sciacquare allora. -
- Prima dimmi tutto. -
- Non c'è nulla da dire. Mi ha solo detto che non è potuto venire, ma appena le ho chiesto quando l'aveva avvisata lei non mi ha risposto ed è voluta entrare. - 
- Pensiamo la stessa cosa? -
- Che non l'ha avvisata proprio? Sì, lo penso anch'io. Ne è capacissimo. -
Mi strinsi la mano che iniziava a pulsare. 
- Vai in bagno a sciaquarti questa mano, sbrigati. -

Mentre lo diceva vidi Jeff entrare come una furia, sbattendo la porta dietro di sè. Senza dire nulla andai nell'area macchinette, seguito da Ludovica. Quando arrivammo lo trovammo ad urlare contro Meg che, immobile come tutti gli altri, fissava il pavimento senza dare cenni di replica. 
Ludovica andò su tutte le furie e si precipitò su di lui dandogli uno spintone. - Ohi, coglione! Che cazzo ti urli? - 
- Tu zitta, pensa ai fatti tuoi! -
- Questi sono fatti miei. Non ti puoi permettere di arrivare qui e urlarle così contro. - 
Anch'io mi avvicinavo estremamente incollerito, cercando di mantenere il controllo delle mie azioni per non ricadere nel vecchio me, quello che ci aveva messo meno di tre secondi per rompere con un pugno il naso di un'idiota solo perché si era permesso di rispondermi in malo modo. 
- Chi dovrebbe impedirmelo, tu forse? - Dicendo questo le prese il polso, strattonandola leggermente. 
- Ehi, ehi. Qui pare che l'aria si stia scaldando troppo, non credi? - Arrivai al fianco di Ludovica e lo costrinsi a lasciarla, mentre tra gli altri si propagava lo stupore. 
- E tu che cazzo vuoi adesso? Chi cazzo sei? -
- Chi sono non ti interessa. Voglio che sparisci di qui, subito. -
Mi fissò un attimo, poi scoppiò a ridere rumorosamente. Fosse successo solo tre anni prima, la sua fine sarebbe stata a terra sanguinante e con qualche osso rotto. Giuro che in quel momento avevo un estrema voglia di sentire il suo stupido naso rompersi sotto le mie dita, ma non volevo farlo davanti a Meg. 
- E chi sei tu per dirmi di sparire? - Mi chiese continuando a ridere. 
- Forse sono quello che ti insegnerà come si trattano le ragazze. -
Mi guardò sprezzante per poi rivolgere lo sguardo a Ludovica. - Ti sei trovata un ragazzo che riesce a sopportarti finalmente? Meglio, così ti levi dai coglioni e non rompi più le palle alla mia ragazza. - Rivolse lo sguardo nuovamente verso di me. - La mia ragazza. - Sottolineò. Mi aggirò e la abbracciò. - La mia cucciola. - Le disse sorridendo e baciandole il collo. 
Lei si sciolse e gli ricambiò il bacio. 
Io non riuscii quasi a muovermi. Non seppi reagire di fronte ad un'ulteriore prova di come lui era totalmente in possesso della sua mente. 
- Piccola che ne dici se andiamo a pranzo adesso? -
- Ma... tra poco c'è lezione. -
- Non puoi saltarla per oggi? - Le chiese atteggiando una faccia commiserata. - Dai, così passiamo il pomeriggio insieme. -
Lo guardò per un po', poi sospirò. - Va bene. - Lo baciò e si voltò a cercare Ludovica che la fissava a braccia conserte e il viso ancora arrabbiato. - Poi mi passeresti gli appunti? - 
Ludo non rispose. Senza dire una parola iniziò ad incamminarsi verso l'aula. La seguii senza esitare, mentre sentivo Trilly rispondere. - In caso te li passo io, tranquilla. -

Non mi voltai. Non riuscivo a credere a quello che era successo. L'aveva aggredita davanti a tutti e nessuno era intervenuto, nessuno aveva sostenuto me e Ludovica quando eravamo arrivati a difenderla. Era riuscito a farle dimenticare tutto in meno di trenta secondi, solo con un bacio. Mi venne in mente quando da piccolo mio cugino mi aveva costretto a vedere Aladdin. Lo stregone teneva sotto pieno potere il sultano con il suo bastone a forma di serpente. Gli bastava puntarlo nei suoi occhi per pochi istanti e lui faceva qualsiasi cosa gli veniva detto. Questo era quello che succedeva a Meg. Non sapevo cosa scattasse dentro di lei, non sapevo cosa fosse a renderla tanto succube di quel pezzo di merda. Sapevo solo che finché restava con lui era in pericolo, perché sarebbe riuscito a convincerla a fare qualsiasi cosa, nel vero senso del termine. 

Seguii Ludovica fin quando si rinchiuse in bagno. Bussai forte. 
- Ludo! Sono io, Cris. -
- Lasciami sola. - 
- Non me ne vado finchè non esci di qui. -
Aprì la porta in lacrime, mi tirò dentro e la richiuse. Eravamo stretti nel piccolo bagnetto femminile della facoltà e mi sarei sentito parecchio a disagio in una situazione differente, ma quello era un caso estremo e richiedeva estreme soluzioni. 
- L'hai visto, vero? L'hai visto come mi ha strattonato! Se è capace di fare una cosa del genere a me ed in pubblico, figurati cosa fa a lei! -
- Vorrei dirti che non l'ho visto, ma purtroppo non è così. -
- Cosa possiamo fare? - Si abbandonò di nuovo ad abbracciarmi, come il giorno precedente in macchina.
- Non lo so, Ludo. Adesso tutti i consigli che ti ho dato mi sembrano inutili. - Le accarezzai i capelli e lasciai che le sue lacrime mi sporcassero la maglietta. - Per ora la prima cosa da fare è smettere di piangere ed uscire di qui. -
La sentii ridere di un suono tanto dolce quanto triste. - Hai ragione. - Staccò l'abbraccio e si asciugò il viso. 

Aprì la porta di scatto. Davanti a noi, Daniela ci guardò sorpresa. Sembrava quasi che la scena l'avesse inorridita di più di quella a cui avevamo assistito poco prima. 
- Nel bagno della facoltà. Da te mi sarei aspettata più classe, Ludo. - Sentenziò acida. 
- Dani non ho proprio intenzione oggi di stare ai tuoi scherzetti. - Uscì dal bagno tirandomi dietro di se per la maglietta, mentre mi ritrovavo ad essere imbarazzato come non mai. - E comunque stai tranquilla. - Aggiunse fermandosi a guardarla per un attimo. - Non mi permetterei mai di fare una cosa del genere in quel bagno. So che lo utilizzi per le voglie improvvise. Sai cosa intendo. - Esibì un sorriso da vera stronza e riprese a tirarmi verso l'area macchinette. Riuscii comunque a vedere lo sguardo a metà tra lo stupefatto e l'incollerito di Daniela.

- L'hai distrutta. - Le dissi, stupefatto anch'io.
- Le passerà, vedrai. Non sono riuscita a trattenermi. - 
- Hai fatto bene. -
- Senti, il prof ha già iniziato ed io non me la sento molto di seguire la lezione. Credo che me ne andrò a casa. Vuoi in passaggio? - 
- Ho un'altra idea, se per te va bene. -

- Sai che è uscita la data per il week-end studio? - Mi chiese mentre beveva l'ultimo sorso di cioccolata calda dalla tazza.
- Davvero? -
- Doveva uscire stamattina. -
- Appena possibile controlliamo il Forum. -
- Fai col mio. E' acceso in camera da letto. - Intervenne Naki. - Ma fa piano e non svegliare Brendon. -
- Lo porto di qua in caso, così non ci sono problemi. - 
Avevo chiamato Naki e avevo fatto anche a lei la "proposta indecente" di saltare la lezione per una cioccolata calda. Lei aveva accettato felice ed aveva proposto di farla a casa sua per risparmiare, che a uno studente universitario fa sempre comodo.
Entrai in camera cercando di non farmi sentire dal piccolo. Staccare il portatile dall'alimentazione elettrica senza buttare a terra nulla fu un'impresa ardua, ma riuscii a non distruggere niente e a non svegliare Brendon. 
- Eccomi qui. -
- Hai fatto piano? - Mi chiese Naki preoccupata.
- Più piano che ho potuto. Sta dormendo come un angioletto. -
- Per fortuna! Quando siamo arrivati a casa aveva di nuovo un po' di febbre infatti avevo già chiamato Daniele per chiedergli di tenerlo il tempo della lezione. -
- Se vuoi andare a lezione posso tenerti io il bambino, se ti fidi. - Le disse Ludovica sorridendo. - Ho tenuto spesso i miei nipoti. -
Naki la guardò per un attimo come sul punto di prendere una decisione importante. 
- Se non ti fidi ti capisco. In fondo ci conosciamo appena. -
- Non prenderla sul personale, ti prego di perdonarmi. Ma le uniche persone a cui lascio mio figlio sono i miei nonni e Daniele. -
- Non scusarti. Credo sia normale per una madre preoccuparsi così per un figlio. Una persona di famiglia è sempre meglio: i nonni, il padre. -
Sussultai guardando Naki e credendo di vederla raggelare. Invece mostrava grande tranquillità. - Daniele non è il padre di Brendon. Lui non fa parte della nostra vita. - Rispose con una voce pacata e serena, come se stesse discorrendo del tempo. Lì mi ricordai cosa mi aveva colpito di lei. Il suo aver saputo venire fuori da una situazione che avrebbe spezzato chiunque con una nuova forza che l'aiutava ad affrontare la vita.
- Oh, scusa. Che gaffe! Mi dispiace, non avrei dovuto parlare a sproposito. - Balbettò Ludo.
- Tranquilla Ludovica. - Le regalò un meraviglioso sorriso. - Non potevi saperlo. Altra cioccolata? -
- No, grazie. Io sto apposto così. -

- Certo che dev'essere brutto crescere un figlio da sola. Brendon è un così bel bambino! Come ha potuto abbandonarlo suo padre? - 
Mi strinsi nelle spalle continuando a camminare. Erano le 19 e la stavo accompagnando in macchina. Avevamo passato un bel pomeriggio spensierato insieme a parlare del più e del meno come vecchi amici. Quando Brendon si era svegliato, Ludovica aveva giocato con lui distraendolo dal malore che il piccolo doveva avere a causa della febbre che era di nuovo salita. 
- Grazie del bel pomeriggio Cris. - Disse con un sorriso dolce che le illuminava il viso. - Ne avevo proprio bisogno. E poi Naki è davvero una persona stupenda. In una situazione come la sua, riesce comunque a ridere e ad essere sempre positiva. -
- Naki fa questo effetto, sì. - 
Poggiò la sua mano delicata sulla mia spalla e si sollevò sulle punte. Mi baciò delicatamente la guancia sinistra e mi fissò negli occhi. - Anche tu sei una bella persona. Tutto il contrario dell'idea che mi ero fatta. - 
- Credevi fossi uno stalker! - Ridemmo entrambi. 
Salì in macchina. - Ci vediamo domani. -
- Stai attenta per strada. -
Mi fece la linguaccia, mise in moto e partì. 

Camminando lentamente tornai a casa di Naki. Le avevo promesso che avrei cenato con lei per darle una mano col bambino e poterle raccontare ciò che era successo. Quando rispose al citofono per aprire, sentii le urla di Brendon che mi accompagnarono anche durante tutto il tragitto fino alla sua porta. Era socchiusa così entrai trovando Naki quasi in preda al panico, mentre passeggiava nervosamente per il salottino cercando di confortare il piccolo che improvvisamente aveva iniziato un pianto isterico e disperato. 
- Non capisco cos'abbia. -
- Può essere la febbre? -
- Sabato non faceva così e la febbre era molto più alta. -
- Forse qualche colica? -
- Non lo so, non ne ha mai avute. -
- Magari con la febbre ha digerito male il latte o tu hai mangiato qualcosa che ha reso il latte poco digeribile. -
- Come fai tu a sapere tutte queste cose? -
- Le ho sentite. Non so se sono vere. Ma mi pare di ricordare una cosa che si può provare. Posso? - Le tesi le braccia indicando che volevo prendere in braccio il bambino.
Lei prima mi guardò preoccupata ed incerta, poi, al limite con la disperazione, me lo abbrandonò e crollò sul divano. 

Brendon non si dava pace e inizialmente entrai in confusione non sapendo cosa fare. Avevo in mente una cosa che avevo sentito dire a mia nonna, ma all'atto pratico non sapevo come manovrare un bambino senza fargli male. Mi sedetti sul divano accanto a Naki, poggiandolo sulle mie ginocchia. Mentre si dimenava piangendo, gli aprii la tutina finché il pancino non restò coperto solo dal body di cotone. Con due dita iniziai a massaggiargli il basso ventre. Inizialmente lo sfioravo appena non ottenendo nessun effetto se non quello di farlo piangere più forte a causa del freddo che sicuramente sentiva. Naki se ne accorse e corse ad aumentare i riscaldamenti. Mi convinsi ad imprimere una forza leggermente maggiore. Sentivo sotto i miei polpastrelli ed attraverso il cotone tutti i movimenti delle sue piccole membra. Luì sembrò gradire e il suo pianto rallentò. Quando ormai non era più che un lamento, richiusi la tutina e lo voltai a pancia sotto, stando attento a non fargli sbattere il faccino contro le mie gambe. Portai una mano sotto di lui continuando a massaggiargli delicatamente il pancino. Con l'altra davo delle leggere pacche sul culetto ad intervalli regolari. Pian piano anche il lamento finì e ci accorgemmo che si era addormentato. 
- Cris. Tu devi essere un mago. O forse di più! Una specie di divinità mandata per aiutarmi! - Mi disse mentre riprendeva in braccio il figlio per portarlo sul letto.
- Non esagerare adesso. Ho solo avuto fortuna e una nonna che ci sapeva fare coi bambini. - 

La accompagnai in camera da letto e la guardai sorridendo mentre lo coccolava, carezzandolo e baciandolo. Lo poggiò sul letto e lo coprì col piumone. Sistemò la trasmittente e tornammo in cucina. 
- Mi hai salvato davvero. Ero entrata nel panico. -
- Credo sia normale. -
- Non mi era mai capitato, giuro. - Si passò una mano sulla fronte. Era ancora un po' scossa. - Dai, adesso inizio a cucinare. -
- No, no, no, no. - La presi per le spalle costringendola a sedersi. - Tu stai qui e ti calmi un po'. Faccio io. Cosa dovevi preparare? -
- Volevo fare qualcosa di semplice. Delle fettine di carne arrostite in padella e un po' d'insalata. -
- Posso farcela senza bruciare nulla. - Risi. - Non è che per caso avresti anche delle sottilette? -
- Dovrebbero esserci. - 

Mi affaccendai in cucina mentre le raccontavo quanto successo, dalla sera al pub fino alla scenata che era successa a pranzo.
- Grandissimo figlio di puttana! -
- Esattamente quello che penso anch'io. -
- Non so come hai fatto a reagire in quel modo controllato. Io solo a sentirtene parlare ho un'incredibile voglia di spaccargli la faccia. - 
Sorrisi tra me. Non era ancora il caso di raccontarle come ero stato costretto a migliorare il mio autocontrollo. 
- Dobbiamo fare qualcosa. L'idea di Ludovica non è male. -
- Quale idea? -
- Quella di farle capire che non è una relazione normale la loro, di farle vedere come è giusto che un ragazzo tratti una ragazza. -
- Il problema è come. -
Ci pensò su un attimo e poi inizio a ridere. - Ti scervelli per una soluzione quando ce l'hai sotto il naso ogni mattina? -
- Che vuoi dire? - La guardai perplesso. 
- Tu sei la soluzione! -
- Io? - Il mio stupore aumentò.
- Sì, tu. Tu la vuoi da più di un anno, giusto? -
- Non è esattamente così. -
- Va beh, ma la vuoi, giusto? -
- Diciamo che mi attira. -
- La vuoi. Punto. - Disse risoluta.
- Ok, ok! - Non riuscii a non ridere vedendola tanto seria.
- Questa è la volta buona che prendi due piccioni con una fava. -
- Continuo a non capire. -
- Devi iniziare a provarci con lei. Ma non provarci nel senso fisico del termine. Devi corteggiarla. In questo modo lei capirà che il suo ragazzo è un decelebrato che merita di marcire da solo. Inoltre tu la potrai conoscere meglio e lei conoscerebbe meglio te, così potreste anche finire insieme. -
La fissai. Era davvero convinta di quello che stava dicendo. A me sembrava una gran cazzata! Non che fosse illogico, anzi per come l'aveva esposto lei il ragionamento filava a meraviglia. Ma a me sembrava una trovata da film americano. Non avrebbe mai potuto funzionare. - Secondo me hai visto troppi film, tu! - Risi.
- Vedi che dico sul serio. Secondo me è l'occasione giusta per farti sotto. -
- Ma dopo oggi lui la convincerà ad odiarmi. Probabilmente da domani non mi rivolgerà più la parola. Non può funzionare. Lui se la sa lavorare troppo bene. -
- A me lei non sembra una demente come la stai descrivendo tu. -
- Meg è intelligentissima, non sto dicendo questo. Ma lui sa circuirla e farle fare tutto ciò che gli pare. L'ho visto coi miei occhi. -
- Lei è solo presa da lui. Lo vuoi il mio parere? Lei si sta coprendo gli occhi consapevolmente. Fa finta che sia tutto apposto solo perché ha paura di rimanere da sola, di rompere questo legame, di dover ricominciare da capo. Cris, ascoltami. Meg sta solo aspettando che qualcuno le dia la forza di svegliarsi, qualcuno che riesca a farle capire che è meglio stare da sole piuttosto che soffrire nelle mani di un melmoso di quel tipo, qualcuno che la faccia sentire di nuovo quella che è. -
- Non posso farlo io. - Abbassai gli occhi.
- Per quale motivo? -
- Te l'ho detto già. Non sono tipo da legami. Non voglio scatenare un putiferio per farla innamorare di me sapendo che magari dopo due mesi mi sarà passata la voglia di stare con lei e la farò soffrire di nuovo. Se fosse stata un'altra situazione magari, ma lei ha già sofferto tanto. -
Lei mi fissò per un attimo, poi si alzò dalla sedia e andò a prendere il pane. - Ti ho dato il mio parere, adesso devi decidere tu. Preferisci birra o coca cola? -
- Birra, grazie. -
Lei deviò dall'argomento iniziando a parlare di Ludovica che le era piaciuta molto come ragazza. Cenammo continuando a parlare di lei e di altri amici di Meg, ma lei non fu più nominata per quella sera.

- Pronto mà. -
- Cris ciao. Come stai? -
- Bene. A casa? Tutto ok? -
- Come è andato il viaggio oggi? -
- Tranquillo come sempre. Come state voi? -
- A lezione tutto bene? -
- Mamma, perché eviti di rispondermi? Che è successo? -
Silenzio dall'altro capo del telefono. 
- Mamma non farmi preoccupare. Bepi come sta? Gli è successo qualcosa? -
- Cris non allarmarti. -
- Se fai così mi allarmo eccome. - Alzai un po' troppo la voce, tanto che Naki mi guardò preoccupata dalla cucina dove stava lavando i piatti. 
- Stai calmo. -
- E tu parla allora. -
- Oggi ha avuto una crisi. -
Piantai un pugno al divano su cui ero seduto. - Forte? -
- Pesantuccia, sì. Il dottor Giannusi vuole ricoverarlo. -
- Il dottor Giannusi vuole solo spillarti un altro po' di soldi con un ricovero in clinica. -
- Cris non dire queste cose. Vuole fargli degli esami per sistemargli la cura, perché se ha queste crisi così forti vuol dire che non va bene. -
- E se ne accorge adesso? -
- Senti! Smettila adesso. Non sai niente e ti permetti di parlare così, quando invece quel povero dottore sta facendo di tutto per curare al meglio tuo fratello! Sei un ingrato. Francesco si è rivelato un ottimo sostegno per Bepi da quando tu hai deciso che eri troppo importante per studiare in una piccola facoltà vicino casa e sei dovuto andare per forza in una grande città. - Quelle parole furono per me peggio di una mitragliata in pieno volto. Mi ferirono a morte, ma cercai di non darlo a vedere.
- Chi è sto Francesco adesso? -
- Giannusi! Non sai come si interessa di lui mentre tu non ci sei. Dovresti mostrare più gratitudine verso un uomo tanto buono. -
- Da quando hai questa confidenza con il dottore? -
- Da quando è diventato l'unico che mi sostiene. - Di nuovo mi fece del male. Stavolta non ebbi la forza per nasconderlo.
- Afferrato il concetto. - Terminai la chiamata senza attendere oltre. 

Mi alzai lasciando il cellulare sul divano ed uscii in balcone. Appoggiai le mani sulla ringhiera umida e aspirai profondamente il freddo pungente di quella sera. Sapevo di essere stato un po' troppo egoista scegliendo di andare fuori sede a studiare, ma sentirmelo sputare a quel modo in faccia mi aveva distrutto. 
Sentii una mano poggiarsi sulla mia schiena. Mi voltai. Naki era di fronte a me col mio telefono in mano. Stava vibrando. - E' tua madre. - Mi disse lasciandomelo e tornando in casa.

- Pronto. - Risposi freddamente nel tentativo di non far notare il tremore nella mia voce. 
Dall'altro capo si sentivano solo rumori. Inizialmente indistinti, pian piano si delinearono sempre più chiari. Mia madre stava piangendo a dirotto. Uno di quei pianti che avevo visto tante volte nel primo periodo in cui affrontavamo la malattia di Bepi. Nei momenti più impensabili, quelli in cui sembrava più forte, mentre affettava il pane per la cena o mentre rammendava un calzino. Improvvisamente scoppiava in singhiozzi. 
Se fossi stato a casa, l'avrei presa tra le braccia e accarezzata come una bambina finché non avesse ripreso la forza che l'ha sempre constraddistinta. Ma non ero a casa e in quel momento me ne pentii amaramente. 
- Mamma, non piangere. Vedrai che Bepi starà meglio. Gli cambieranno la cura e si riprenderà. -
- Non piango per lui! - 
- E per chi allora? -
- Per te. -
- Mamma, cosa c'è da piangere per me? -
- Per quello che ti ho detto prima. Sono stata cattiva. Scusami, ti prego. Sono stanca e scossa e come sempre me la sono presa con te. Sei un ragazzo ancora, devi costruirti il tuo futuro, non pensare a una povera vecchia come me. Hai fatto bene ad andartene di qui, a scappare. -
- Mamma io mi preoccupo per te, per Bepi e per papà. Sai che faccio tutto quello che posso. -
- Lo so, non lo dimentico mai. Fai anche più di ciò che qualcun altro farebbe al posto tuo. Bepi è felice quando ci sei tu a casa, è rilassato e contento. -
- Lo so. -
- Cris io vorrei averti accanto sempre. Ma per il momento devi pensare al tuo futuro. -
- Sì, mamma. -
- A proposito. Quel week-end studio? Si sa qualcosa? -
- Oggi hanno pubblicato la data. -
- E quando sarà? -
- Che importa? Tanto non ci andrò. Il fine settimana devo stare con Bepi. -
- Oh per una volta non ci farà niente! Tuo fratello capirà. Non è mica stupido. Hai bisogno di staccare un po' la spina. In più mi pare di averti sentito dire che ci saranno anche dei convegni importanti, no? -
- Ci saranno delle conferenze su argomenti che mi interessano molto e che potrebbero aiutarmi per il mondo del lavoro. - 
- E allora è deciso. Hai il mio permesso. Devi solo parlarne con papà. Allora, che giorni sarà? -
- Il week-end prima delle vacanze natalizie. Dal 16 al 18 Dicembre. -
- Ci sono esami in quel periodo? -
- Esami no. Qualche prova in itinere può darsi, ma non credo che le puntino giusto in quei giorni perché è una cosa che riguarda tutto il corso di laurea. E nemmeno subito dopo perché ci sono gli appelli della sessione straordinaria. -
- Hai detto che verrebbe 30€ a notte? -
- Sì. Sarebbero tre notti, quindi 90€ in tutto ed il viaggio è pagato dalla facoltà. -
- Tu quanto hai da parte? -
- Io ho circa 100€ da parte, ma non vorrei intaccarli tutti. Li sto conservando per un eventuale aumento della seconda rata della tassa. -
- Sempre previdente il mio Cris! Comunque tu potresti mettere 30€, altri 30€ li metto io, così tuo padre non farà troppe storie se gli chiedi 30€ soltanto. -
- Mamma ma sei sicura? -
- Non chiedermelo ancora se no cambio idea. - Adesso stava ridendo. Si era calmata del tutto.
- Grazie mamma. -
- Adesso fammi chiudere che devo andare a caricare la lavastoviglie. -
- Buonanotte mamma. Salutami papà e tienimi aggiornato su Bepi. -
- Domani decidiamo dove fare il ricovero e ti faccio sapere. Buonanotte. -

Rientrai in casa visibilmente più sereno e mi gettai sul divano accanto a Naki. 
- Come ti senti? - Mi chiese.
- Perché me lo chiedi? -
- Prima mi sei sembrato un po' agitato. - Stava sorseggiando dell'infuso di finocchio per aiutare la digestione. 
- Mio fratello ha avuto una crisi forte e vogliono ricoverarlo per cambiargli cura. -
- Oh, mi dispiace. - Mi accarezzò il braccio.
- Non cambia cura da tre anni perciò e normale. Ci hanno detto che col tempo il corpo entra in una specie di assuefazione perciò c'è bisogno di modificare periodicamente qualcosa. -
- Vedrai che starà bene. -
- Bene è un parolone nel suo caso, ma troveranno la cura giusta anche stavolta. Mia madre è a pezzi. -
- Posso immaginarlo. - Istintivamente guardò verso la camera da letto e prese in mano il ricevitore per verificare che non si fosse acceso. 
- Mi ha detto un po' di cose non tanto belle. -
- Cosa ti ha detto? -
- Mi ha rinfacciato il fatto di aver insistito per venire a studiare qui invece di restare a casa ed iscrivermi alla sede lì vicino. Diceva che l'ho lasciata sola. In realtà è così, ma io avevo bisogno di staccare. Poi ha iniziato a piangere perché si sentiva in colpa per aver esagerato. E alla fine, udite udite, per farsi perdonare ha acconsentito a farmi andare al week-end studio. -
- Almeno avessi questi risultati anch'io quando litigo coi miei nonni! - Rise.
- Non è male, no! Solo una cosa ancora mi lascia perplesso. -
- Cosa? -
- Ha detto una cosa che non mi è quadrata tanto. Innanzitutto ha chiamato il dottore per nome, cosa che non aveva mai fatto. E poi ha detto che dovrei mostrare più gratitudine perché è un uomo tanto buono. Questa proprio mi è sembrata una cosa molto strana detta da mia madre. -
- Non saprei. - Non poté aggiungere altro perché dal ricevitore iniziarono ad arrivare gli urletti di Brendon, perciò corse in camera da letto. 

Tornò col bambino appena svegliato e me lo poggiò in braccio mentre andava a preparare un po' di acqua bollita. - Nonna mi ha detto che se ha le coliche è meglio evitare il latte per questa poppata e ricominciare domani mattina. - Mi disse. 
Giocai un po' con lui, ma non mi diede molto conto. Si vedeva che era ancora mezzo addormentato. Infatti dopo aver bevuto, con un po' di lotta, l'acqua bollita con l'alloro ed essere stato un po' tra le braccia della mamma che lo coccolava dolcemente, tornò nel mondo dei sogni. Naki lo riaccomodò sul letto, poi tornò in salotto. 
- Vuoi vedere un film? - Mi chiese sbadigliando.
- Naki stai morendo di sonno. Si vede da un miglio. Vai a letto, io torno a casa. -
- Ma è tardi ormai. Non voglio che fai la strada con questo buio. C'è freddo, poi. - Negli occhi le era apparsa una strana espressione d'ansia. 
- Che c'è? Hai paura che congeli per strada? - Dissi prendendola in giro.
- No, è che sono più tranquilla se resti qui a dormire stanotte. -
- Naki, dimmi la verità. -
Mi fissò ancora un po', poi sbuffò. - Se Brendon ha di nuovo un attacco isterico come quello di prima non saprei che fare, entrerei di nuovo nel panico. Sapere di non essere da sola mi farà stare più tranquilla. -
Sorrisi. Le accarezzai la pelle morbida di una guancia. - Se è per Brendon resto volentieri. -
Sembrò rilassarsi e, sorridendo, iniziò a sistemare il divano.

Avevo stranamente preso subito sonno e stavo sognando un sogno senza senso. All'improvviso mi sentii scuotere e mi svegliai sussultando.
- Cris! Cris svegliati per favore. -
- Che c'è? Che è successo? - Chiesi sbarrando gli occhi e saltando in piedi.
- Brendon ha di nuovo le coliche. Ho provato a imitare quello che facevi tu, ma non riesco a farlo smettere di piangere. -
Mi trascinai in camera da letto e rieseguii perfettamente quello che avevo fatto poche ore prima, stavolta con più sicurezza e spiegando come fare a Naki. Fu un po' più dura, ma alla fine si addormentò di nuovo. Restai seduto sul letto a guardarlo, mentre Naki sdraiata al suo fianco lo accarezzava. 
- Torno a dormire. - 
Feci per alzarmi, ma Naki mi bloccò per il polso. - Resta qui. -
La guardai un po' confuso. Un flash del sogno fatto la prima notte passata in quella casa mi turbò. La rividi vestita della sola sottanina di raso bianco mentre infilava le unghie nella mia schiena. Sapevo che era solo l'immagine di un sogno ma rabbrividii.
Non volevo spiegarle perché mi turbava tanto quella sua richiesta, perciò acconsentii e sorridendo mi stesi sul letto accanto a Brendon. La fissai mentre cedeva al sonno e riposava con un espressione dolce tenendo le mani del figlio. Era incredibilmente bella.

Dormii poco, solo nelle prime ore del mattino. Mi svegliò un gridolino nelle orecchie. Saltai a sedere sul letto mentre Brendon mi guardava spaventato. Stava gattonando sul letto e lo divertiva guardarmi dormire, perciò non fu contento della reazione che ebbi. 
- Aiuto che è successo! - Si svegliò di soprassalto anche Naki che dormiva beatamente e saltò in piedi. 
- Niente. Brendon mi ha svegliato. - Sorrisi. - Mi dispiace se ti ho svegliato. -
- Oddio, credevo fosse successo qualcosa. Che ora è? -
Guardai la sveglia poggiata sul comodino dal suo lato del letto. - Le otto. -
- Cosa? - Rispose allarmata. - Devo essermi dimenticata di puntare la sveglia! -
- Dovevi fare qualcosa oggi? -
- C'è lezione, no? Fisica 2. -
- Naki, oggi è martedì. -
Si lasciò cadere sul letto con un sospiro di sollievo. Io, invece, mi alzai. 
- Dove vai? -
- Io ho lezione anche sta mattina. - 
- Allora vado a prepararti il caffè. - 
- No, tranquilla. Devo passare da casa comunque. Resta a letto. - Mi abbassai a baciarle una guancia. 
Si sedette sul letto prendendo il figlio in braccio.
- Come mai non si è svegliato piangendo per la fame? -
- Si è svegliato alle sei stamattina perciò manca ancora un'ora, ma poi siamo crollati entrambi a dormire di nuovo. -
- Non vi ho sentiti. -
- Strano. Con quegli urli avresti potuto sentirlo anche da casa tua. -
- Dev'essere perché mi ero appena addormentato. -
- Non hai dormito? - Mi guardò dispiaciuta. 
- Non sono abituato a dormire accanto a un bambino così piccolo. Avevo paura di schiacciarlo. - Mentii. Avevo passato buona parte del tempo a fissarla con quell'aria deliziosamente serena.
- Mi dispiace. -
- Tranquilla. L'importante è che sei stata più tranquilla. - Le feci l'occhiolino, la salutai ed uscii. 

Mentre mi richiudevo la porta alle spalle mi imbattei in un ragazzo che sembrava avere circa la mia età, forse appena qualche anno di più. Non più di venticinque anni, comunque. Alto circa quanto me, con un fisico asciutto ma ben composto, capelli scuri portati corti e ordinatamente sistemati, occhi azzurri celati dietro un paio di lenti da vista dalla montatura nera. Stava arrivando dal piano superiore e fin dal primo sguardo non ebbi dubbi che si trattasse di Daniele. 
Per pochi istanti non fece caso a me, ma quando il rumore della porta che si chiudeva attirò la sua attenzione mi puntò con uno sguardo stizzito. 
- Salve. - Educatamente lo salutai abbassando poi lo sguardo al pavimento. 
- Cris hai dimenticato la borsa. - Naki si era precipitata alla porta con il mio zaino in mano. - Oh Daniele. Ciao. -
- Ciao. - Rispose a lei con un tono notevolmente irritato. 
- Daniele lui è Cris. - Continuava a sorridere fingendo di non accorgersi della tensione che in pochi secondi si era venuta a creare. 
- Il tuo collega? -
- Sì, quello che mi aiuta con Algoritmi e con Brenond in facoltà. - 
- Piacere. - Continuava a puntarmi come un cane da caccia con la preda.
Mi limitai a rispondere con un cenno cercando di evitare i suoi occhi e mi congedai velocemente prendendo la mia borsa. Lui rimase lì sul pianerottolo a fissare Naki. 

Appena finii la prima rampa di scale sentii che parlavano così mi fermai ad ascoltare.
- Come mai usciva da casa tua alle otto di mattina? -
- Dani, io ti voglio bene e ti ringrazio per tutto quello che fai per me, ma non sei mio padre. -
- Lo sai che lo dico per il tuo bene. -
- Non sono una bambina. -
- Lo so, proprio per questo non mi fa molto felice l'idea che un ragazzo che hai conosciuto una settimana fa si infili nel tuo letto. -
Sentii la risata di Naki, quella sarcastica che avevo imparato a riconoscere. - Ma per favore! Cris non si è infilato nel mio letto. Mi ha solo aiutato con Brendon che aveva le coliche. E poi nel mio letto faccio infilare chi voglio io. -
- Fa come vuoi. - 

Sentii dei passi scendere e la porta sbattere, perciò mi affrettai a finire le scale e ad uscire dal portone. Appena fuori ripresi un'andatura normale, scendendo verso casa mia. 
- Ehi tu! Cris. - Sentii urlare dopo poco. 
Mi voltai e vidi Daniele che mi fissava chiuso nel suo cappotto lungo fino a mezza coscia. - Stai attento a quello che fai con Naki o dovrai risponderne a me. -
- Naki è una mia amica. -
- Tu stai attento e basta. - Mi voltò le spalle e si diresse verso la sua auto. 

Ripresi la mia strada un po' sconcertato da quello che era successo, ma con un dubbio su di lui che era quasi più una certezza. Decisi di non pensarci molto e mi affrettai verso casa. Feci una rapida doccia, mi vestii e salii in facoltà. Riuscii ad arrivare con qualche minuto in anticipo, giusto quanto mi serviva per prendere un caffè e mettere qualcosa nello stomaco. 
Mi diressi alle macchinette e presi un pacchetto di biscotti al cocco dalla prima. Vidi passare il professore, stranamente in anticipo, quindi li gettai nella borsa e abbandonai a malincuore l'idea del caffè. Mi infilai in aula mentre lui si dirigeva come sempre a prelevare il microfono dalla guardiola degli collaboratori. Trovai i ragazzi seduti nella solita fila. Daniela e Ludovica mi sorrisero, mentre Marco mi faceva cenno di sedermi accanto a lui. Meg era seduta sul banco della fila posteriore. Teneva un piede poggiato sulla spalliera della sedia su cui si sarebbe seduta e l'altro sul tavolo di fronte. Era impegnata a mangiucchiarsi le unghie in silenzio. 
- Ciao Meg. - 
Mi rivolse uno sguardo acido, molto simile a quello che mi ero beccato la mattina da Daniele. Non disse nulla e tornò ad interessarsi delle sue mani. 
- Mi puoi fare passare? Dovrei andare al mio posto. -
- Il tuo posto? Quando l'hai comprato? - Non le avevo mai sentito usare un tono tanto velenoso. Evitò perfino di guardarmi mentre mi parlava.
- Ti sei alzata col piede sbagliato stamattina? - Cercai di sdrammatizzare, ridacchiandoci su, ma lei si limitò a darmi un'altra occhiataccia. 
Restammo così a fissarci in cagnesco negli occhi. Anche così era stupenda. Teneva il viso contratto, così il naso le si arricciava un poco ai lati. Se non avessi saputo che quello sguardo voleva gridarmi di stare lontano, le avrei preso il viso tra le mani per baciarla in quel preciso istante. 
Solo quando entrò il professore si decise a farmi passare e solo perché anche lei doveva raggiungere il suo posto. In realtà le sarebbe toccato sedersi accanto a me, ma fece uno scambio in fretta e furia con Umberto. 

La lezione passò lentamente e soporiferamente. Più di una volta fui sul ciglio di cadere addormentato con la testa penzoloni. Fortunatamente Marco mi assestava delle puntuali gomitate che mi impedivano di farlo. A fine lezione grazie a lui ero riuscito a restare sveglio, ma il mio fianco non lo ringraziava affatto.
- Notte brava? - Mi chiese facendomi l'occhiolino mentre sistemavamo la nostra roba quando il professore fu uscito.
- Notte bianca. -
- Soffri d'insonnia? -
- Solitamente no, ma stanotte ho dormito poco. E per di più oggi non ho avuto nemmeno il tempo di prendere il caffè prima della lezione. -
- Ci credo che crollavi ogni dieci minuti, allora! -
- Grazie per le gomitate, a proposito. - Gli dissi ridendo e toccandomi il fianco. - Per poco non mi rompevi una costola. -
- Sei fatto di cristallo per caso? -
Mentre ridevamo mi sentii toccare delicatamente la spalla. Quando mi voltai, trovai Terry che mi guardava immobile ed un po' imbarazzata. Teneva tra le braccia i suoi libri e l'astuccio in cui conteneva le sue mille inseparabili penne, di ogni forma e colore possibile. 
- Cris ti ho portato questi. - 
Mi porse un fascicoletto di poche pagine rinchiuso dentro una cartellina trasparente. 
- Cos'è? - Lo presi in mano e lo aprii. Dentro c'erano le fotocopie degli appunti della lezione di Reti che mi ero saltato il pomeriggio precedente. - Terry non dovevi disturbarti a fare le fotocopie, avrei potuto... - Lasciai la frase incompiuta perché alzando gli occhi mi ero accorto che se ne era già andata. 
- Che ti ha portato? - Disse Marco togliendomi il fascicolo dalle mani. - Piccola vipera! - Esclamò quando si accorse che erano suoi appunti. - Cosa le hai dato in cambio per convincerla a darti i suoi appunti? Li passa solo a Ludovica e Meg! - 
- Non le ho dato niente. In realtà non ho nemmeno avuto il tempo di chiederglieli. Sono gli appunti di ieri. -
Mi guardò perplesso. - Devono averla sostituita gli alieni con un clone. Non c'è altra spiegazione. - 
Mi ripresi gli appunti. - Intanto questi li tengo io. - Li infilai in borsa e ci diedi sopra due pacche, orgoglioso del mio bottino. In realtà pareva strano anche a me che Terry mi avesse portato i suoi appunti senza che nemmeno li avessi chiesti. Considerando quello che mi aveva appena detto Marco sembrava ancora più strano.

- Ehi ragazzi che fate? - Daniela si infilò in mezzo a noi. 
- Io sto scendendo a casa. - Rispose Marco. - Tu che fai? Scendiamo insieme? - Chiese rivolto a me. 
- Io prima devo cercare Paolo, il rappresentante. -
- Hai deciso di venire al week end? - 
- Per una volta possono fare a meno di me. - Ammiccai guardandolo. 
- Verrai anche tu allora? - Il sorriso che le era spuntato illuminava tutto il suo viso. 
Annuii e lei mi saltò quasi in braccio urlando di gioia. Molti di quelli ancora presenti in aula si girarono a guardarci. Totalmente imbarazzato, rimasi immobile finchè lei non smise di salterellarmi contro, mentre Marco se la rideva di gusto. 
- Ok, ok Daniela. Basta così che me lo spaventi. - Ludovica venne in mio aiuto. 
Le mimai un 'grazie' labiale e lei ammiccò. Si era già cambiata per la loro solita corsetta. Aveva indossato una tuta rossa larga con una maglietta bianca ed aveva legato i capelli rossi in una treccia. Dietro di lei vidi Terry che aveva indossato un paio di pantaloni sportivi neri e una maglietta grigio fumo. Infine arrivò anche Meg in un completino bianco che la fasciava quasi completamente ed una maglietta nera che sbucava fuori dalla felpa e la copriva fin sotto il sedere. I ricchi erano stati tirati e rinchiusi in una coda altissima ed aveva già infilato le cuffie del lettore mp3 alle orecchie. Sulla soglia dell'aula si fermò, portandosi un braccio al fianco. 
- Ludo, dobbiamo aspettare ancora tanto? - Chiese nervosa. 
- Arrivo. - Salutò distrattamente tutti e raggiunse le amiche, dirigendosi immediatamente fuori. 
Le guardai finché potei, senza riuscire a staccare gli occhi da quell'apparizione meravigliosa vestita di bianco cercando di non pensare a come mi avesse trattato quel giorno.
- Terra chiama Cris. Terra chiama Cris. - Andrea mi passò la mano di fronte agli occhi facendomi trasalire. - Ti eri bloccato a guardare quei bei culi che andavano via? -
- Ero solo sovrappensiero. -
- A me puoi dirla la verità. Io li guardo pure. Quello di Terry cerco di evitarlo, ma gli altri due, mmmm. - Si portò la mano con le dita chiuse vicino alle labbra e se ne baciò le punte. 
Feci finta di non aver sentito e mi rivolsi a Marco. - Mi aspetti mentre cerco Paolo e facciamo strada insieme? -
Accettò. Salutammo Andrea ancora preso dall'eccitazione di tutto quel ben di dio che gli era passato sotto gli occhi e Daniela che ci fissava innervosita con le braccia incrociate sul petto.

Erano circa le 15 e me ne stavo seduto a fissare lo schermo del computer annoiato dallo scorrere dei nuovi tweet sotto i miei occhi e un po' alterato dalla chiamata fuori orario che avevo avuto a pranzo con mia madre. Quando le avevo detto che avevo confermato a Paolo la mia presenza, aveva iniziato a lamentarsi dicendo che l'avevo presa troppo in parola, che me lo aveva detto solo per dire, ma non era ancora niente di definitivo. Le avevo risposto che ormai sarei dovuto andare e avevo cercato di chiudere al più presto la chiamata che durò comunque per tutto il mio pasto. 
Mi ero finalmente deciso a smettere di cazzeggiare annoiandomi e di iniziare ad annoiarmi studiando, quando il telefono iniziò a vibrare. Convinto che fosse di nuovo mia madre che cercava dei metodi per farmi saltare il week-end, decisi di non rispondere subito. Radunai tutto il necessario e lo disposi sulla scrivania, poi presi in mano il telefono. La chiamata era già terminata e non proveniva da mia madre, bensì da Naki. Decisi di richiamarla, ma mi precedette e il telefono iniziò nuovamente a vibrare. Stavolta, ovviamente, risposi.
- Che fa il secchione? Sta studiando? -
- Buongiorno! Grazie, sto bene. Tu? -
Ricevetti in risposta una pernacchia. - E allora, studiavi? -
- Stavo per iniziare. -
- Anche oggi con la bella giornata di sole che c'è? -
- Ci sarà pure il sole, ma il freddo è quasi polare. Almeno questo mi ha detto il pinguino qui alla mia destra. -
La sentii ridere. - Senti una cosa, hai qualche esame tra breve o puoi saltare un altro pomeriggio di studio? -
- Che succede? Ti serve qualcosa? Brendon sta ancora male? -
- No, no! Brendon si è ripreso. Solo che oggi Daniele è a casa perciò vorrei approfittarne per lasciargli Brendon un paio d'ore e studiare senza distrazioni. -
- Vuoi che venga da te per studiare? -
- L'intenzione era quella di studiare insieme perché vorrei una mano con Algoritmi, ma preferirei venire io da te. -
- Come mai? - Quella proposta mi suonò parecchio strana.
- Se non vuoi, non fa niente. -
- Per me va bene, solo che mi sembra strano che tu voglia venire qui. Non fosse altro per essere nello stesso palazzo del tuo bambino. - 
- Non prendermi per una madre snaturata Cris, ma ho bisogno di un po' di pace mentale e di uscire fuori da queste quattro mura. Per non parlare del fatto che oggi Daniele mi ha fatto la paternale quando ti ha visto uscire da casa mia perciò non so cosa direbbe sapendo che gli lascio il bambino per far venire te a casa. -
- Scusa se te lo dico, ma non sei un po' grandicella e responsabile per avere la paternale da un vicino di casa? Soprattutto dato che è grande quanto te. -
- In realtà Daniele a trent'anni anche se ne dimostra molti meno. E poi, lui è fatto così. Si sente responsabile per me, un po' come se fossi sua figlia. -
Dubitavo che l'interesse di Daniele per Naki fosse esattamente quello di un padre con la figlia, ma lo tenni per me. - Se sta bene a te. -
- Posso venire da te o no? - Si era alterata un po', come se la mia ultima affermazione l'avesse offesa. 
- Ohi, vedi che scherzavo. Casa mia è aperta. - 
- Devi dirmi dove è di preciso. -
- La prima traversa a destra dopo casa tua, la casa col cancello verde. Il cancello esterno è sempre aperto e riconosci il nostro ingresso perché è l'unico abitato. -
- Ok, tra massimo mezz'ora sono lì. -

Appena misi giù il telefono iniziai in fretta a sistemare alla meno peggio la mia stanza. Lei, pur essendo una giovane stundentessa madre, riusciva a mantenere la sua casa in ordine e splendore. Ciò poteva significare solo che fosse una specie di maniaca della pulizia e il putiferio della mia camera avrebbe potuto anche causarle un infarto. Liberai la scrivania, rifeci il letto e cercai di nascondere nel cesto della biancheria sporca tutti i vestiti che ormai arredavano la stanza. Andai in cucina per accertarmi che i miei coinquilini non avessero lasciato il solito porcile. Ovviamente, invece, la cucina era in uno stato pietoso. Non avevo il tempo, purtroppo, di pulire, così optai per impilare tutte le stoviglie nel lavandino e di passare una pezza umida sul tavolo e sul piano cottura per far in modo che attraversando la stanza velocemente desse meno nell'occhio. Nascosi l'enorme sacco nero tra i due armadietti e decisi di mettere a bollire un po' d'acqua per il the in modo che quando lei fosse arrivata sarebbe stato pronto e non ci sarebbe stato motivo di restare in cucina. E poi, avrei usato la solita efficace scusa: "La cucina è luogo comune perciò abbiamo deciso che ognuno può occuparla solo per mangiare, altrimenti deve chiedere il permesso agli altri". 

Fortunatamente Naki ritardò un po' e bussò appena ebbi finito di sistemare il the. Mi precipitai alla porta mentre due dei miei coinquilini si erano già affacciati per sapere chi fosse. Mi limitai a dire che era per me ed aspettai che fossero rientrati nelle loro camere prima di aprirle. 
- Qui fuori si gela! - 
Le misi una mano sulla bocca intimandole poi di stare in silenzio o, almeno, di parlare a bassissima voce. Se i ragazzi avessero sentito una voce femminile si sarebbero fiondati come degli avvoltoi e la cosa non mi piaceva per niente. Non erano i tipi che presenteresti ad un'amica, diciamo. 
- Mi buttano fuori se parlo? - Mi chiese sarcastica muovendo le labbra senza quasi far uscire suoni.
- Arrivati in camera mia puoi parlare quanto vuoi, ma non è il caso che sappiano adesso che sei qui. -
- Di chi stai parlando? -
- Degli animali che ho in casa. -
Rise cercando di fare meno rumore possibile. 

Le feci cenno di seguirmi e raggiugemmo la stanza dopo aver percorso il lungo corridoio cercando di non far cadere il the ancora bollente che trasportavamo. Quando chiusi la porta, iniziò a parlare a un tono normale, forse appositamente un po' più alto.
- Posso parlare adesso o c'è ancora pericolo che mi assalgano i tuoi coiquilini? -
- Il pericolo c'è sempre! - 
- Sono così allupati? -
- No, sono peggio! - 
Le feci posare il giubbotto e la borsa sull'appendiabiti che mia madre mi aveva costretto a portare e che veniva usato per la prima volta. Mentre sistemava il suo libro sul tavolo le chiesi di Brendon. 
- Fortunatamente sta meglio. Oggi l'ho portato dal pediatra per un controllo, non si sa mai. -
- Ti ha dato qualcosa? -
- No. Sono solo coliche come avevi detto tu, la febbre che ha avuto sabato non centra nulla. Mi ha detto di fare comunque un po' di cautela, di evitare di mangiare troppo pesante e di dargli un po' d'acqua bollita con l'alloro la sera. -
- I vecchi rimedi di nonna, eh! Infallibili. -
- Ora è tranquillo. L'ho lasciato da Dani che dormiva. Mi ha detto che quando si sveglia mi chiama. Comunque gli ho lasciato la frutta e gli ho detto che se continua ad essere tranuquillo non torno subito a casa. Se diventa irrequieto, vado subito. -
- Mi sembra giusto. - A quel punto mi sorse spontanea una domanda. Lì per lì credetti che l'avrebbe fatta arrabbiare, ma decisi che in fondo era una domanda innocente e non avrebbe dovuto prendersela. - Senti un po'...e che gli hai detto? Non credo gli avrai detto che venivi da me dopo quello che mi hai accennato al telefono. -
- Assolutamente no. Ho detto solo che uscivo, senza specificare per andare dove. Sa che vado spesso al parco o in qualche biblioteca a studiare. - 
- Capito. -
- Daniele non è cattivo e non vuole comandarmi. Si preoccupa per me perché sa quanto ho sofferto. - Mentre lo diceva con una voce dolce che assomigliava a quella di una bimba, si fissava le mani intente a incastrarsi tra loro nei modi più strambi. 
- Perché me lo stai dicendo? -
- Stamattina non ti ha trattato benissimo. -
- Non preoccuparti, non ci ho fatto neppure caso. - Sorrisi per rendere credibile la bugia che avevo appena detto. L'avevo notato eccome e, conoscendo il comportamento maschile, avevo dato una certa spiegazione ai suoi sguardi e alle sue parole. - Dove eravamo arrivati l'ultima volta? - Cambiai argomento, aprendo il suo evidenziatissimo libro di Algoritmi.
- Avevamo finito il primo capitolo. -
- Bene, allora oggi iniziamo a parlare di strutture vere e proprie. -

Quel pomeriggio studiammo parecchio. Seguimmo il libro, ma integrammo molti appunti che avevo preso seguendo le lezioni per il mio passatempo. Daniele aveva chiamato verso le 17, dicendo che Brendon si era svegliato, aveva fatto merenda e si era imbambolato a guardare i cartoni in TV. Verso le 18, invece, chiamò avvisando che lui mezz'ora dopo sarebbe dovuto uscire.
- Torno a casa, lo prendo e ritorno qui. -
- Qui? Con Brendon? - Mi guardai intorno fissando la stanza che non veniva pulita a fondo da parecchio tempo. 
- Perché? -
- Non credo sia una stanza adatta a un bambino. -
Si diede uno sguardo intorno anche lei e fu daccordo con me. 

Naki, però, voleva andare ancora avanti con gli argomenti quella sera. Era entrata nel meccanismo, le cose iniziavano a piacerle, ma soprattutto voleva fare una specie di maratona di studio per provare l'appello straordinario a Dicembre. Perciò decidemmo che lei sarebbe tornata a casa e che io verso le 19 l'avrei raggiunta, dando giusto il tempo per far scomparire Daniele dal raggio d'azione. Mi sentii un po' sedicenne che si organizza per andare a casa della fidanzata mentre i genitori sono fuori, ma accettai per farla contenta e non avere discussioni. 
Mentre aspettavo che si facesse l'orario giusto per andare da lei, in uno sprazzo di entusiasmo, che in realtà era dettato dalla vergogna che avevo provato quando Naki era convenuta con me che la mia stanza non era in condizioni igenico sanitarie appropriate, lavai la stanza. Quando finii, mi diedi una rinfrescata in bagno ed uscii. Erano circa le 19:15, perciò il pericolo Daniele avrebbe dovuto essere scomparso già da un bel pezzo. 

Mentre camminavo per strada fissavo tutti i volti che incontravo, nella speranza di non incontrarlo, più per Naki che per me in effetti. Improvvisamente scorsi un viso noto, ma non era il suo. 
- Cris, che ci fai qui? Stai salendo in facoltà a quest'ora? -
- Ciao Ludo. Sto andando da Naki. -
- Non è che c'è del tenero tra te e la mammina, eh? - Mi diede delle gomitate ammiccando. 
- Ma che dici? La aiuto con Algoritmi, lo sai. -
- Io non so niente. - Disse scherzosamente alzando le spalle. 
- Tu, invece, dove vai? -
- Passo da mio cugino e poi dovrei vedermi con Meg che al momento è col tuo amico. - Sottolineò sarcasticamente le ultime parole.
- L'amico al massimo è tuo, non mio! -
Scherzammo ancora per poco, poi ci salutammo e ognuno riprese la sua strada.

- Pomodoro e mozzarella oppure una carbonara? -
- Opterei per la prima. -
- La mia carbonara è da record, vedi. -
- Opto comunque per la prima. -
- Va bene. Ma non sai cosa ti perdi! -
Erano le 21:30, avevamo studiato per quasi altre due ore e finalmente potevamo concederci relax e cibo, entrambi tanto sperati. Andai a giocare nell'area soggiorno con Brendon, mentre Naki metteva su l'acqua per la pasta. Adoravo quel bambino ogni istante di più, almeno quanto amavo il fatto che lui sembrasse ricambiare il sentimento. Quando il mio cellulare squillò, lo posai nel girello e lui iniziò a seguirmi. Per evitare che uscisse, lo rimproverai di non seguirmi, ma quando lo vidi imbronciarsi non potei fare a meno di tornare a prenderlo in braccio. 
- Dai cucciolino, stavo scherzando. - Lo coccolai e lui riprese a ridere. Mi spiaccicò le manine sul viso, dandomi delle sberle da ambo i lati. Mi faceva un po' male, ma per vederlo ridere lo avrei accettato. Nel frattempo il telefono aveva smesso di squillare.
- Brendon, fermo con quelle mani! Fai male a Cris. - Lo rimproverò Naki mentre gettava la pasta. 
- Lascialo fare, tranquilla. -
- No, deve imparare a tenere le mani a posto altrimenti prenderà il vizio. - Si avvicinò e lo rimproverò con aria più severa. 
Brendon mise di nuovo il broncio e mi chiesi come facesse Naki a rimanere tanto seria di fronte a quel labbruccio tenero, ma non mi intromisi. Quando iniziò a piangere, me lo tolse dalle braccia ed iniziò ad accarezzargli la testa continuando a ripetere le stesse cose, ma con un tono più dolce. Mentre lo faceva andò a rifugiarsi in camera da letto, così ripresi il mio cellulare.
La chiamata persa proveniva, come avevo previsto, da mia madre, così uscii in balcone e la richiamai.

- Ti sembra scotta? -
- No, credo che sia a cottura perfetta. - Presi un'altra forchettata di pennette e me le gustai. 
Brendon cercava di richiamare l'attenzione dal seggiolone. Poi iniziò a piangere. 
- Ha fame. -
- Credo di sì. L'orario è quello. - Si sbrigò a ripulire il piatto e poi lo prese. - Finisci pure con calma e poi metti tutto nel lavandino per favore? - 
Annuii e lei si recò di là. Prima andò in lavanderia a fargli il bagnetto e poi in camera per dargli l'ultima poppata. Io finii con molta calma la mia porzione abbondante di pennette e iniziai a sparecchiare. Passò quasi un'ora prima che Naki tornasse in cucina. 
- Mi dispiace. Non ti ho potuto fare nemmeno un po' di secondo. -
- Tranquilla, sono a posto così. -
- Vuoi un po' di frutta? Oggi nonno mi ha portato un po' di arance. Oppure un po' di gelato alla vaniglia. -
- Davvero Naki, non preoccuparti. -

Non feci in tempo a finire la mia frase che il citofono iniziò a suonare, come se qualcuno ci fosse rimasto appiccicato sopra. 
- Chi è sto cane? - Iniziò a sbraitare Naki, ovviamente preoccupata che il rumore facesse svegliare il bambino. 
Si precipitò a rispondere e io la seguii.
- Si può sapere chi è e cosa c'è da suonare in questo modo a quest'ora? - Si voltò verso di me facendo una faccia stranita. - Sì, è qui. - Aggiunse. Poi il suo volto si fece spaventato. 
- Che succede? - Le chiesi, ma non mi rispose. Era troppo concentrata ad ascoltare la persona all'altro capo.
- Certo, sali. Secondo piano. Lo mando giù a darti una mano? - Pigiò il bottoncino apri-portone e rimise rumorosamente a posto la cornetta. Quasi ansimando raggiunse la porta di ingresso e la aprì affrettandosi sul pianerottolo.
- Naki, mi dici che succede? -
Iniziò a parlare a raffica, con la voce tremante. Non capii nulla di ciò che mi disse, tranne due parole: Ludovica e Meg.
- Naki calmati. - La afferrai per le braccia e la scossi. - Parla piano, spiegati. -
Ma non fece in tempo a spiegarmi di nuovo quello che voleva dirmi. Ludovica comparì dalla tromba delle scale. Era visibilmente sconvolta e reggeva Meg a spalla aiutandola a salire le scale. Meg riusciva a stento a tenersi in piedi. Era sporca di fango e sangue ovunque. Entrambe erano bagnate fradice.
- Che cazzo è successo? - Mi precipitai per le scale e tolsi il peso di Meg dalle spalle di Ludovica prendendola in braccio e portandola in fretta dentro. 

Ludovica piangeva e non riusciva a parlare. Continuava a farfugliare parole che solo lei probabilmente riusciva a capire. Naki la prese tra le braccia e la accompagnò dentro.
- Naki, presto. Prendi una coperta. -
Ne portò due. Una la stese sul divano dove adagiai Meg, tremante. L'altra la avvolse alla spalle di Ludovica. Mi porse anche degli asciugamani puliti.
Continuavo a guardare il corpo di Meg senza riuscire a formulare un pensiero. Ripetevo sempre la stessa domanda a cui mai mi si dava risposta. Che cazzo era successo? Il panico regnava sovrano.

Con uno degli asciugamani le iniziai a pulire le gambe, le braccia e il viso. Per capire se stesse sanguinando da qualche parte. Aveva un lungo graffio sulla fronte, delle escoriazioni lungo il labbro ed un grande ematoma sotto l'occhio destro. La camicetta bianca era squarciata da un lungo taglio obliquo all'altezza del ventre. Asciugai la pelle che si intravedeva e mi accorsi che fortunatamente il taglio era stato superficiale. Le gambe quasi nude, coperte da delle calze ormai totalmente stracciate e da una gonnellina a pieghe scozzesi, erano piene di lividi. Il sangue continuava a scorrere da sotto la gonna e impallidii all'idea che mi balenò la mente. Alzai piano la gonna e vidi che il taglio, fortunatamente non troppo profondo da aver tranciato la femorale, era ben visibile all'interno della coscia sinistra. Vidi le mutandine azzurre che portava e, fortunatamente, erano intatte e non macchiate di sangue. L'idea che qualcuno l'avesse stuprata era quindi molto probabilmente esclusa. 

- Ha bisogno di essere portata in ospedale. -
- No! - Ludovica si liberò dall'abbraccio di Naki che cercava di riscaldarla. - Non possiamo andare in ospedale. -
- Ma la vedi come è conciata? -
- Se la portiamo in ospedale le chiederanno chi l'ha ridotta così. -
- Ed è una cosa negativa? -
- Lei non lo accuserà mai. Non lo denuncerà mai! Dirà che è stata lei a farsi queste cose da sola. Di nuovo. E stavolta la rinchiuderanno. - Continuava a piangere senza sosta.
Mi allontanai dal corpo martoriato di Meg con aria seria. La afferrai e la costrinsi a guardarmi. - Dimmi chi è stato. -
- Lo sai già. -
- Jeff? -
Annuì tra le lacrime. 
- Giuro che gliela farò pagare. Te lo giuro. - La strinsi. - Vai in bagno ad asciugarti. A lei pensiamo noi. - Le baciai la fronte.
Mi guardò con i due grandi occhi azzurri annegati di lacrime, in fondo ai quali si poteva vedere una piccola luce di speranza che riusciva ancora a sopravvivere. - Grazie. - Mormorò.

Si face accompagnare da Naki in bagno ed io ripresi ad occuparmi di Meg, pur non spendo effettivamente cosa fare. Continuai ad asciugarle il corpo mentre lei si era addormentata, in attesa che Naki tornasse. 
- Credo serva del disinfettante. E bisogna asciugare pure lei. Il taglio nella coscia forse ha bisogno di punti. Dovremmo portarla lo stesso in ospedale. -
Naki mi poggiò una calda mano sulla spalla. - Vado a chiamare Daniele. Ha passato un paio d'anni come volontario nel corpo dei paramedici. Credo possa aiutarci. -
- Sicura? -
- Certo. Tu intanto togliele questi vestiti bagnati e coprila con la coperta di pile. - 

Uscì dalla porta senza darmi il tempo di proporle un inversione di ruoli. Avrei preferito subire gli sguardi fulminanti di Daniele. Vedere il corpo di Meg era stata una mia fissa, ma vederlo per la prima volta in quello stato non era certo il mio sogno. Primariamente mi imbarazzava. Mi sembrava quasi di stare approfittando della situazione, di starla violentando ulteriormente dopo la violenza che già aveva subito. Le tolsi le scarpe, delle delicate decolletè nere con un tacco non troppo alto che in una delle due era saltato via. Passai a toglierle il cardigan nero che teneva aperto sulla camicetta. Per farlo dovetti sostenere di nuovo il peso del suo corpo abbandonato. Sentii il profumo della sua pelle entrarmi prepotente nelle narici, intensificato dalla pioggia che l'aveva colpita e per niente assopito dal fango. Le sfilai delicatamente la gonna dopo aver aperto i due piccoli bottoncini. Le fissai le belle gambe quasi tumefatte e irrorate ancora da qualche rivolo di sangue che continuava a uscire dal taglio. Un getto di rabbia mi prese. Avevo un unico pensiero in testa: trovare Jeff e ridurlo in poltiglia. In un modo o nell'altro non gli avrei mai più permesso di ridurla in quello stato.

Daniele e Naki entrarono dalla porta affannati. Il ragazzo portava con sè una valigetta nera che mi spiegò essere il suo kit per le emeregenze: da quando aveva avuto l'esperienza coi paramedici lo teneva sempre rifornito ed efficiente. Gli lasciai il mio posto accanto a Meg e lo guardai mentre esaminava le ferite. Naki si recò, invece, da Ludovica per portarle qualche vestito asciutto da poter indossare. 
Daniele disinfettò i graffi che Meg aveva sul volto e sul ventre, poi si dedicò al taglio sulla gamba. 
- Ha avuto fortuna. Sono tutti e tre tagli potenzialmente mortali. - Disse mentre iniziava a medicare la ferita. - Specialmente quello all'addome e questo qui. Recidendo la femorale si muore in pochissimi minuti. Quella, invece, avrebbe potuto prendere la milza e provocare un'emorraggia interna, che comunque non possiamo escludere senza una visita più accurata. -
- Non vuole essere portata in ospedale. -
Usò una sostanza simile a colla per chiudere la ferita e vi pose sopra dei cerotti per tenerla più salda. - Non ho ago da sutura qui, perciò ho usato la colla sintetica anche se non è il massimo per tagli del genere. Le controllerò l'addome io, ma ricordatevi che non sono un medico. -
- Fai quello che puoi Dani, ti prego. - Naki lo guardò con occhi supplichevoli e Daniele si rimise a lavoro. 
Le tastò l'addome e poi ci disse che non era rigido, nè estremamente livido perciò il rischio era minimo. - Per il momento lasciatela riposare. Tenetela al caldo e domani mattina cercate di convincerla ad andare al pronto soccorso. Ha bisogno di essere visitata. - Poi anche lui fece la domanda che ronzava ancora nella testa di tutti noi. - Ma si può sapere che cazzo è successo a sta povera ragazza? -

- Io non c'ero. Non so cosa è successo di preciso. So solo che è stato lui. - Ludo cercava di scaldarsi stringendosi nella felpa che le aveva prestato Naki e tenendo tra le mani la tazza di camomilla fumante che le aveva preparato.
- Come fai ad esserne sicura? Potrebbe essere stato un malvivente che l'ha aggredita mentre ti aspettava. - Daniele fissava la sua tazza mentre cercava di capire cosa fosse successo.
Io e Naki eravamo in piedi accanto a loro. Aveva Brendon in braccio. Il trambusto che c'era stato lo aveva svegliato e si era addormentato da poco. 
- Ne sono sicura ti dico. Non so come, non so perché, ma so che è stato lui. Un malvivente qualunque non avrebbe avuto il tempo di ridurla così, nè tanto meno il motivo. -
- Beh magari ha cercato di violentarla o di derubarla. -
- Ti dico che non è possibile. Mi aveva mandato un messaggio. Mi chiedeva di passarla a prendere prima dell'orario stabilito perché avevano litigato. Non le ho risposto subito perché stavo dando da mangiare ai figli di mio cugino. Poco dopo mi ha mandato un altro messaggio con su scritto "Sbrigati, ti prego". Fortunatamente avevo appena preso il telefono perciò l'ho letto immediatamente e mi sono precipitata da lei. L'ho trovata seduta per terra sotto la pioggia in questo stato. -
- Perché non l'hai portata in ospedale? -
- Per il suo bene. Avrebbe negato fino alla morte che era stato lui pur di non denunciarlo. E allora l'avrebbero rinchiusa nel reparto psichiatrico. -
- Il suo bene è essere curata da un medico. -
- In quel momento non ero lucida nemmeno io. La prima cosa che ho pensato è stato cercare qualcuno che mi desse una mano. Mio cugino copre le mie cazzate volentieri, ma per una cosa del genere avrebbe dato di matto. L'unico era Cris. Sapevo che era qui e non ho avuto dubbi che mi aiutasse. - La voce aveva ripreso a tremarle. 
- Basta Daniele, dai. - Disse Naki con voce dolce, andando ad accarezzare le braccia di Ludovica. - Le cose sono andate così e per fortuna c'eri tu che hai saputo aiutarla. Ora, però, facciamo andare a letto sta povera ragazza. Anche lei ha avuto uno stress da non sottovalutare. -
- Oh, grazie. Ma non devi disturbarti. Andrò a dormire da mio cugino. -
- Non se ne parla, Ludo. Tu resti qui stanotte. Dormi nel lettone con me e Brendon. Vieni con me. - La spinse ad alzarsi.
Ludovica aveva gli occhi lucidi e sorridendo si lasciò sfuggire una lacrima. - Grazie. - Sussurrò. Si voltò verso di noi. - Grazie a tutti di tutto, davvero. - Poi seguì Naki verso la camera da letto.

Restai in cucina con Daniele. Il silenzio dominò per molto tempo, almeno fnché entrambi non finimmo di bere la nostra camomilla. 
- E così, sei un paramedico. - Dissi per spezzare la tensione che si era creata. 
- Lo sono stato per un periodo. Volontariato. -
- Adesso di cosa ti occupi? -
- Mi sono convinto a prendere in mano l'azienda di mio padre. Cercava di farmelo fare da quando mi sono laureato, ma non avevo mai accettato. Volevo farcela da solo. Sai, sogni da giovincello pieno di vita. Poi affronti la vita e capisci che anche se hai 27 anni e una laurea in Fisica, nessuno vuole darti un impiego. Così sono stato costretto a cedere, pur di sistemarmi e andare via di casa. -
- Da quanto abiti da solo? -
- Abito qui circa da quando ci si è trasferita Naki. Ho saputo dell'appartamento libero grazie a suo nonno che è nostro cliente da sempre. Sono davvero brave persone. -
- Non avevo dubbi su questo. -
- E Naki è una ragazza d'oro. - S'interruppe per un attimo, poi ricominciò a parlare fissandomi torvo. - Dolce, bella, fragile. -
- Fragile non molto. Ha affrontato una situazione che avrebbe depresso chiunque e anche ora va avanti come un treno. -
- Ma è sempre una ragazza che ha bisogno di protezione, no? Facile preda per i ragazzi malintenzionati. - Il suo sguardo si incupì ancora di più.
- Credo che ti sbagli. Penso che Naki sappia benissimo cavarsela da sola. -
Se gli occhi avessero avuto il potere di sparare fulmini, credo che mi avrebbe incenerito all'istante. Ma continuavo a sostenere il suo sguardo con noncuranza. 
- Che intenzioni hai con lei? - Finalmente mi saprò in faccia la domanda che lo tormentava. 
- Non voglio assolutamente nulla da Naki. -
- Perché hai già avuto quello che cercavi? -
Un sorriso obliquo e sarcastico mi uscì spontaneamente. - Cosa pensi che abbia avuto? Sesso? -
- Magari. - Mi ricambiò il sorriso sarcastico.
- Fossi in te non ci spererei così tanto. Se io in una settimana fossi riuscita a portarmela a letto mentre tu in più di un anno non sei riuscito nemmeno a sfiorarla, da parte tua mi preoccuperei. -
Lo fissai con aria volontariamente presuntuosa mentre il suo viso perdeva colore e assumeva l'espressione tipica di chi viene beccato in flagrante. 
- Io... Non... - Si schiarì la voce con dei veloci colpi di tosse. - Non so di cosa tu stia parlando. -
- Andiamo Daniele! Sono un uomo tanto quanto te e conosco certi sguardi. Stamattina mi hai fulminato come se avessi trovato un ladro nella tua proprietà e non sto certo parlando della casa. -
- Ti sbagli. Io sto solo cercando di proteggerla. -
A vederlo tentare di nascondere ancora i suoi sentimenti che a me erano palesi come se fossero direttamente illuminati dal sole, un sentimento di comprensione mi assalì. - Non c'è niente di male, vedi. - Cercai di assumere l'aria più amichevole che mi riuscisse bene. - Non stai cercando di approfittare di lei. Anzi, se ne sei davvero innamorato potresti farla molto felice. -
- Non sai di cosa stai parlando. - Innervosito scattò in piedi piantando le mani sul tavolo. 
- Come vuoi. - Mi alzai anch'io, tenendo le mani vicino al volto per sottolineare che cedevo le armi. - Allora non ti dispiacerà se ci provo io. -
- Volevi arrivare a questo? - Scattò in avanti, mi afferrò per le felpa e mi appiattì, quasi sollevandomi da terra.
Risi cercando di non svegliare nessuno. - Vedi che è come dico io? - 
Mi fissò ancora infuriato per un attimo, poi mi lasciò andare. Mi rimisi a posto la felpa sorridendo.
- Non c'è bisogno di farne un dramma. -
Evitò di rispondermi e guardò l'orologio. - Per me si è fatto tardi. Domani devo andare a lavoro. Salgo a casa a dormire. Tu che fai? -
- Resto qui con Meg. -
- Domani non avete lezione? - Mi chiese mentre ci dirigevamo verso la porta.
- Sì, ma non so se ci andremo. -
Capì a cosa mi riferivo. Dovevamo prenderci cura di Meg e se questo significava saltare qualche lezione eravamo tutti disposti a farlo. - Convincetela ad andare in ospedale. Inventate una scusa se proprio non si convince a denunciarlo, ma fate vedere quel taglio ad un medico. -
Anuii. - Buonanotte. - 
- A te. - Lo seguii con lo sguardo salire le scale, poi richiusi la porta. 

Andai in cucina e ripulii tutto. Misi le tazze nel lavandino insieme al bollitore e riposi i biscotti che Naki ci aveva offerto all'interno della dispensa. Andai nel bagno e gettai tutti gli asciugamani sporchi di fango e sangue nella cesta dei panni sporchi. Poi, finalmente, andai da lei. 
Mi sedetti sul bordo del divano, guardando il suo petto muoversi lentamente al ritmo dei respiri. Il suo viso adesso aveva un'espressione così beata che, se non fosse stato per lividi e graffi, nessuno avrebbe immaginato cosa aveva passato. Eh già. Cosa aveva passato? Cosa le aveva fatto quello stronzo? 

Presi una delle sue mani tra le mie. La sua pelle era morbida e liscia, fredda quasi non ci circolasse più il sangue. Tornai a riporla sotto la coperta che le rimboccai bene fino al mento. Le guardai ancora il viso. Quanto era bella, dannazione! Come si poteva ridurre in quello stato un così bel bocciolo di rosa? E come poteva una ragazza che sembrava così energica e piena di vita, lasciare che potesse succedere senza ribellarsi in nessun modo? 

Le sfiorai la fronte, spostandole un riccio. Lei sorrise ed un brivido mi percorse la colonna vertebrale al solo vedere le sue labbra incresparsi in quel modo così dolce. Meg si mosse nel sonno rannicchiandosi su un fianco dandomi la schiena. Le misi addosso un'altra coperta. Mentre lo facevo lasciai che le mie mani indugiassero sulla sagoma delle sue spalle. Quando stavo per ritirarle, sentii che lei me ne aveva delicatamente afferrata una. Persi un respiro e qualcosa dentro di me iniziò a contorcersi. Restai immobile fissando le sue piccole e rosee dita appoggiate sulle mie tozze mani. Si rigirò verso di me. I grandi occhi nocciola aperti a guardarmi. 
- Ciao. - Disse con voce impastata dal sonno. 
- Ciao Meg. Come ti senti? -
- Come se un treno mi fosse passato addosso a tutta velocità. -
Cercò di mettersi a sedere ma la bloccai per le spalle.
- No, Meg. Sta giù. Devi riposare. -
Sbadigliò. - E tu non riposi? -
- Tra un po'. - Le accarezzai i capelli sorridendo per rassicurarla. 
- Dove siamo? - Sbadigliò di nuovo.
- Ricordi Naki? - Sbadigliai anch'io, contagiato. - Siamo a casa sua. -
- E tu hai dove dormire? -
- Tranquilla Meg, pensa a riposare. Io dormirò qui per terra. -
- No. - Mi afferrò la mano con decisione tirandomi verso di lei. - Staremo tutti e due sul divano. -
- Staresti scomoda Meg, lascia stare. Non è un problema per me. - 
- Per me sì, invece. - Disse decisa. 
Si appiattì contro lo schienale del divano e mi tirò con tanta forza da farmi cadere sdraiato. Risi. - Meg, vedi che non ci entriamo. Stiamo entrambi scomodi e non possiamo dormire. -
- Io dico che ci entriamo. -

Con una forza che non sospettavo potesse ancora conservare e combattendo il dolore che sicuramente le provocava il brutto taglio alla coscia si spinse verso le mie gambe e le sistemò entrambe sul divano. Ci sistemò sopra parte della coperta e tornò a sdraiarsi. Mi lasciai posizionare come meglio credeva, divertito dalla caparbietà che dimostrava e rassicurato dal fatto che si fosse ripresa così in fretta. Mi fece mettere a pancia in su con un braccio, quello rivolto dal lato dove era lei, alzato. Si sistemò sul fianco poggiando la testa sul mio petto e tirò su la coperta per coprirci entrambi. 
- Vedi che ci siamo entrati? -
- Credo comunque che saresti stata più comoda da sola. - Mentii spudoratamente. L'idea di passare l'intera notte restante abbracciato a lei era una sensazione stupenda. Sentivo il suo corpo tiepido contro il mio. Addosso le era rimasta l'umida camicetta squarciata sul ventre e le calze praticamente distrutte. 

La sentii sbadigliare e poi pian piano assopirsi nuovamente. Io non riuscii a dormire. Il suo odore si era impossessato della mia mente

Mi ero assopito da poco, abbracciando la schiena di Meg che nella notte si era voltata di nuovo e cercando di non cadere spinto via da qualche suo movimento, quando sentii gli urletti di Brendon. Vidi accendersi una piccola luce in camera da letto, così mi alzai cercando di non fare rumore, facendo scivolare il braccio da sotto la testa di Meg. Mi stiracchiai e mi avviai verso la camera da cui continuava a provenire la voce di Brendon, ma in cui si era spenta la luce. Sulla porta incontrai Naki con in braccio il bambino.
- Ti ha svegliato? - Mi chiese sbadigliando. Aveva la faccia piuttosto distrutta di chi non ha per niente riposato bene e i capelli arruffati. 
- No, non dormivo già di mio. -
- Credo abbia fame. Sono le sei. - Si avviò verso una sedia dell'angolo cucina. 
- Resto qui, io. -
Non mi rispose, probabilmente troppo insonnolita per darmi retta. Si sedette dandomi le spalle e dopo poco Brendon afferrò un suo seno e smise di piangere. 

Mi sedetti in bilico su ciò che restava del divano e mi chiesi come aveva fatto Meg ad insistere che saremmo stati entrambi comodi a dormire lì. Le sistemai meglio la coperta e ricominciai a guardarla dormire. 

- Cris! - Naki mi chiamò sottovoce, ma nel silenzio della casa la sua voce quasi rimbombò. - Vuoi prendere il mio posto a letto? Tanto io non torno più a dormire. Alle nove c'è lezione e, anche se credo che voi restiate qui, io dovrei andarci. E poi anche ieri notte non hai dormito molto bene. Hai bisogno di riposare. -
- Non ho sonno. - Quelle parole, puntualmente, risvegliarono una serie continua di sbadigli. 
- Meno male che non avevi sonno. - Rise e vidi le sue spalle muoversi come se stesse cercando di trattenersi per non fare rumore. - Meg come sta? - 
- Si sta riprendendo. Già ieri sera quando se ne è andato Daniele si è svegliata e riusciva a muoversi bene. Certo, si sente come se fosse stata schiacciata da un tir. -
- E credo che all'incirca ci siamo come similitudine. -
- Cerco di non pensarci. - Dissi amaramente, mordendomi le guance per frenare la rabbia che saliva. - Daniele mi ha detto ancora di provare a convincerla ad andare da un medico. -
- Non ci andrà, lo sai. -
- Non so come abbia chiamato Ludovica stavolta, quindi dubito fortemente anch'io che si lasci convincere. -
- Potete restare qua quanto volete. Fate come se foste a casa vostra. Io manco le due ore della lezione e poi torno qui. -
- Non so cosa avesse intenzione di fare Ludovica, ma credo che dovranno tornare a casa, non pensi? -
- Non lo so. Non credo che tornare a casa in quelle condizioni sia fattibile. -
- Non è fattibile nemmeno sparire finché non scompare tutto. - Sbadigliai di nuovo. La stanchezza iniziava a pesare. 
- Cris, vai a letto? Te lo chiedo come favore personale. -
- No, non è sonno. Solo che stare al buio mi stimola gli sbadigli. - 
- Che cazzata stai sparando? - Rise mentre cambiava posizione a Brendon per fargli prendere un po' di latte anche dall'altro seno. 

Risi anch'io e cambiai drasticamente l'indirizzo del discorso. - Credo che alla fine io e Daniele abbiamo chiarito la situazione. -
- Ti ha fatto il terzo grado ieri quando sono andata via? -
- Abbiamo parlato, sì. Gli ho spiegato chiaramente che può stare tranquillo con me. -
- Che poi proprio non lo capisco. Avevi ragione tu ieri pomeriggio. Io sono un'adulta ormai e non può trattarmi come una bambina. - 
Sorrisi. Quella di Daniele non era una paternale da padre preoccupato, ma una scenata di gelosia da innamorato nascosto. Ma lei questo non poteva saperlo e di certo non potevo dirglielo. - Si preoccupa per te. -
- Ma deve lasciarmi fare le mie scelte. Non può opprimermi. -
- Ma se fino a ieri te lo difendevi! -
- Ieri è ieri. La prossima volta che mi farà una scenata del genere lo metterò in riga io! -
Cosa da fare: avvertire Daniele di lasciar perdere le paternali e passare al contrattacco dichiarandosi apertamente. Risi del mio pensiero. 
- Che ridi tu? Non era quello che volevi? -
- Sei sempre così? Senza mezze misure? Per te o è bianco o è nero, tutta la scala di grigi non la consideri neanche. - 

Mi ero lasciato prendere un po' perciò avevo alzato la voce. Me ne accorsi sentendo Meg muoversi nel divano per cambiare di nuovo posizione. Vidi per qualche istante una smorfia di dolore sul suo viso, poi tornò a rasserenarsi. 

Naki finì di allattare il piccolo e si ricompose. Si avvicinò a me porgendomi Brendon. - Sai fargli fare il ruttino? -
- Veramente... - Risposi nel panico alla sola idea. 
- Ti insegno. - Me lo appoggiò sulla spalla. - Tienilo così e batti piano qui. - Mi indicò il punto tra le scapole poggiandoci la mia stessa mano.
- Ma se gli faccio male? -
- Non devi mica fare percussioni! Delle pacche leggere e regolari basteranno. Io vado a lavarmi, poi passo a riprenderlo. - Si diresse spedita verso il bagno. 
Iniziai a fare come mi aveva detto, col solo risultato di vedere la testa riccioluta di Brendon salterrare come quei piccoli cagnolini con le molle che si appiccicavano sui cruscotti delle macchine. I suoi grandi occhi verdi e il bianco della pupilla sembravano brillare al buio, mentre si mordicchiava le manine. Sentii l'acqua della doccia iniziare a scorrere e pregai che non perdesse troppo tempo. D'improvviso il piccolo Brendon esplose in un rutto da far invidia al miglior alcolizzato. Risi tra me e bussai piano alla porta del bagno. Ovviamente Naki non mi sentì, perciò tornai in soggiorno.
- Niente, mamma non ci sente. -
Vedendogli la testa già ciondolante, lo misi in posizione orizzontale e lo cullai dolcemente. Tentò per qualche minuto di tenere gli occhi aperti, ma poi li serrò addormentandosi. Sorrisi guardando quel piccolo fagotto scuro, accoccolato in una morbida tutina azzurra, dormire beato ignaro di tutto il male avvenuto in quelle ore. Pensai per un attimo che la vita che lo attendeva non era per niente facile. Sperai che l'assenza di un padre al suo fianco non incidesse troppo negativamente sulla strada che avrebbe preso da grande. Poi, non so perché, mi venne in mente Daniele. Per quanto amore provasse e tenesse nascosto nei confronti di Naki, quello che provava verso Brendon era talmente palese che chiunque poteva notarlo. E l'avrebbe cresciuto come un figlio suo, se solo gli fosse stata data la possibilità. 

Sentii il rumore dell'acqua cessare e dopo qualche minuto ancora vidi Naki uscire dal bagno avvolta in un grande accappatoio viola. - Una doccia mi ci voleva proprio. Ho fatto più in fretta che ho potuto. L'ha fatto il ruttino? -
- Ne ha fatto uno peggio dei miei! -
- Ha preso tutto da sua madre. - Rise. 
- Si è riaddormentato. - Le dissi posandolo tra le sue braccia.
- Oh, grazie. Allora io vado in camera così lo metto un altro po' a letto e finisco di prepararmi. Sperando di non sveglire Ludo. -
- Va bene. - 

Dopo averla vista chiudersi in camera, tornai ad appoggiarmi sul divano. Meg si era nuovamente raggomitolata sul fianco dandomi le spalle, ma stavolta si era avvicinata molto allo schienale del divano e lo spazio a mia disposizione poteva essere sufficiente per me se solo mi fossi coricato su un lato anch'io. Così mi sdraiai infilandomi sotto le coperte. Piegai il braccio per farmi da cuscino, mentre l'altro lo poggiai su quello di Meg.
La stanchezza doveva aver preso il sopravvento perché mi sentii immediatamente cadere nel torpore. A farmi rinvenire immediatamente ci pensarono i movimenti di Meg. Nel sonno incrociò le gambe con le mie. Tirò il braccio che avevo piegato e che le poggiava sulla nuca finché non si stese completamente a farle da rialzo per il collo. Infine trascinò verso di sè anche l'altro bracciò finché non fu totalmente rinchiusa dal mio corpo. Sapevo che quelli erano movimenti fatti nel sonno, che lei non era nemmeno cosciente di starli compiendo. Mi rendevo conto che lei non capiva che ero io ad abbracciarla, che potevano essere movimenti istintivi fatti con chiunque o, peggio ancora, poteva essere convinta di stare abbracciando quello stronzo del suo ragazzo. Ma la cosa mi fece tanto piacere da farmi aumentare i battiti cardiaci all'inverosimile. Respirai i suoi capelli che sbattevano delicatamente sul mio volto. Quell'odore, che niente aveva perso nonostante l'acqua e il fango che avevano cercato di corprilo, mi riempì i polmoni. Stavolta l'effetto fu contrario. Invece di lasciarmi sveglio a tormentarmi su ciò che avrebbe significato averla mia, mi fece scivolare in un sonno fatto di bei sogni, dove lei era perfettamente conscia che quello che l'abbracciava ero io e ne era felice. 

"Non avevi sonno? Secondo me volevi approfittare della situazione! Io sono in facoltà, fate come se foste a casa vostra." Questo era il messaggio, accompagnato da un paio di smile, che Naki mi aveva lasciato su un post-it appiccicato alla mia fronte. La prima cosa che feci dopo averlo letto fu ringraziare di essere stato il primo a svegliarmi. Le mandai immediatamente un messaggio. "Grazie del post-it. E se l'avesse visto qualcuno? Mi avresti rovinato la copertura!" Anch'io aggiunsi uno smile prima di inviarlo, giusto per non dare un tono troppo acido alle parole. 

Guardai allora l'orologio. Erano le nove e mezza passate da poco. Le due ore circa di sonno che mi erano state concesse erano giovate, ma avevo fisiologicamente bisogno di un caffè. Lasciai il divano dove Meg dormiva ancora beatamente ed aprii lo sportello dove sapevo che Naki teneva tutto il necessario per la colazione. Misi su il caffè e andai a leggere il messaggio che era arrivato sul cellulare.
"Stringendola in quel modo te la sei fatta saltare da solo la copertura! Le cose per la colazione sai dove sono. Per qualsiasi cosa chiedi a Dani. Piano di sopra, porta a sinistra."
Sorrisi e lo poggiai sul tavolo. Aprii il frigo e ne uscii la bottiglia di succo di frutta, il cartone del latte, l'acqua e la marmellata. Apparecchiai la tavola per tre e poi aspettai che il caffè salisse prima di andare in camera a cercare di svegliare Ludovica. 

La trovai attorcigliata nelle coperte fin sopra i capelli. Spostai il piumone finché non riuscii a trovarla. Appena la sfirai, saltò in piedi agitata. 
- Calmati Ludovica! - 
Si rilassò sbuffando. - Scusa, stavo facendo un brutto sogno. -
- Che avevi sognato? -
- Che beccavo Jeff. - La tuta che le aveva prestato Naki le stava larghissima perché l'aveva acquistata in gravidanza e le dava un'aria casalinga che non avrei mai detto le donasse tanto.
- Lo menavi? -
- Direi di sì. - Disse grattandosi la testa e sbadigliando senza nemmeno provare a coprirsi la bocca.
- Allora era un bel sogno, no? - 
Riflettè sulle mie parole, guardandomi con l'aria poco intelligente di chi si è appena svegliato. - In effetti hai ragione. -

Ludovica si sdraiò accanto a Meg abbracciandola e dandole un bacio sul collo. Lei sorrise e si arricciò. Per un attimo sperai che lo facesse perché pensava fossi io. 
- Piccola, svegliati. - Le sussurrò mentre versavo il caffè nelle tre tazzine. 
- Che ore sono? - Chiese lei senza aprire gli occhi.
- Sono le dieci meno venti. - Le diede un altro bacio sulla fronte.
- E oggi che giorno è? -
- Mercoledì. -
- Mercoledì? - Urlò, prima di saltare in piedi facendo precipitare Ludovica giù dal divano. - Siamo in ritrdissimo! - Si agitò per la stanza.
- Vuoi dirmi che avevi intenzione di andare a lezione? - Disse Ludo mentre si rialzava da terra massaggiandosi la schiena. 
- Perché no? -
Ci limitammo a fissarla. Lei ricambiava il nostro sguardo perplessa. Poi ebbe una specie di illuminazione. Fu come se si fosse ricordata solo in quell'istante ciò che era successo. Portò una mano alla fronte, sfiorando con due dita il lungo graffio. Il livido sotto l'occhio si era fortunatamente e quasi miracolosamente ridotto durante la notte. La camicia squarciata lasciava intravedere ancora la ferita sull'addome, sulla quale lei si affrettò a porre una mano.
- Sì, in effetti. Non credo sia il caso di andarci così. -

- La colazione è pronta. - Intervenni sorridendo, fingendo di non essermi accorto di nulla. 
Le ragazze mi raggiunsero e si sedettero a tavola. Consumammo insieme qualcosa in modo rapido e silenzioso, poi Ludovica convinse Meg a fare una doccia. Lei avrebbe rimesso i suoi vestiti, ormai asciutti, così le avrebbe dato la tuta di Naki per coprirsi.
Mentre la accompagnava per effettuare questo scambio di vestiti e per raccomandarle di far attenzione al taglio nella gamba, io sparecchiai ed iniziai a lavare ciò che avevamo sporcato. 

- Sei un uomo dalle mielle risorse. - Mi disse Ludo trovandomi intento a sciacquare le tazze. 
- Diciamo che ho dovuto imparare vivendo da fuori sede. -
Mi si avvicinò in silenzio, con le braccia incrociate sul petto. Aveva sistemato i capelli tirandoli in una coda alta e aveva ripreso il suo look curato, pur senza trucco. - Volevo dirti grazie. - Fu poco più di un pensiero e riuscii a cogliere quella frase a stento tra il rumore dell'acqua che scorreva. 
- Per cosa? -
- Per averci aiutato. - Continuava ad avvicinarsi, era ormai ad un passo. 
- Non potevo non farlo. -
- Sei davvero un bravo ragazzo, Cris. Mi dispiace di averti valutato male inizialmente. - Si fermò solo quando le punte delle sue scarpe coincisero con le mie. 
- Sono un ragazzo normale. - Sorrisi, imbarazzato. 
Era estremamente vicina e continuava ad avvicinarsi. I suoi occhi azzurri erano limpidi, ma nascondevano una strana luce che fino alla sera precedente non c'era. Posò le sue mani sulle mie per fermarmi dall'asciugare i coltelli usati per spalmare la marmellata. Si alzò sulle punte sporgendo il suo viso verso il mio. Chiuse gli occhi. Restai immobile a fissare le sue labbra rosate appena pronunciate che si avvicinavano a me. Tutto durò un instante, ma a me sembrò infinito. La vidi dischiudere le labbra, mentre sentivo le sue mani salire ad accarezzarmi le braccia. Infine deviò e le poggiò sulla mia guancia non rasata. Riaprì gli occhi, liberi da ogni strana luce, e mi sorrise. - Grazie. - 

Si allontanò da me rapidamente per gettarsi sul divano.
- Cosa hai intenzione di fare con Meg? Non può tornare a casa in quello stato. -
- Oh sì che può tornarci. -
- Ma i suoi genitori... -
- Meg non vive coi genitori. -
- No? Io credevo non fosse... -
- Fuori sede? No, no. Vive qui, ma non con loro. -
Mi rassegnai all'idea che non avrei avuto una spiegazione, ma Ludovica stranamente riprese a parlare. 
- I servizi sociali l'hanno tolta ai genitori quando aveva tredici anni. Vive in una specie di casa famiglia. O meglio, una specie di dormitorio per ragazzi in questa situazione. Ha la sua stanza e molta libertà. -
- Come fa a permettersi l'università? - Chiesi sinceramente incuriosito. 
- La mantiene un parente, un vecchio zio che è diventato suo tutore. Non l'ha presa in casa perché abita fuori Italia e lei non voleva andarsene. Per fortuna si è trovata subito bene lì dove l'hanno mandata e crescendo ha avuto sempre più indipendenza. Adesso è come se vivesse da sola. -
- Capito. - Il mio sguardo fu, però, troppo loquace e scrisse sul mio viso la domanda a cui desideravo una risposta. 
- Ti stai chiedendo perché l'hanno tolta ai suoi genitori, vero? -
Lo ammisi, vergognandomi di essere sembrato così indiscreto e invadente.
- Suo padre. Indovina un po'? La picchiava. -
- E sua madre? -
- Faceva finta di non vedere. Anzi, la convinceva che era sua la colpa perché era monella. -
- Mi ricorda qualcosa. - Dissi sogghignango. 
- Quello che ti ha detto al pub, vero? Ho pensato la stessa cosa mentre me lo raccontavi. Con Jeff è come se avesse rivissuto la sua infanzia. -
- La sua situazione familiare sicuramente l'ha segnata dentro. Non solo la violenza di suo padre, ma soprattutto quella psicologica di sua madre. Per questo adesso è convinta di meritarsi queste cose, per questo non reagisce. -
- Per questo dobbiamo trovare il modo di salvarla. - I suoi occhi si riempirono di lacrime e fece un grande sforzo per trattenerle.
In quell'istante mi tornò in mente quello che mi aveva detto Naki. Il suo piano adesso mi sembrava illuminante, splendido, ai limiti del perfetto. - La salveremo. - Le poggiai la mano sulla spalla. 
Non sapevo ancora come avrei agito, né se avrebbe funzionato. Sapevo solo che era la cosa giusta da fare. 

Meg uscì dal bagno indossando la tuta e con un asciugamano in testa a mò di turbante per raccogliere i capelli bagnati. Sì, l'avrei conquistata. Stavolta avrei messo tutto me stesso per averla. E sarebbe stato per una giusta causa, non solo per scoparmela.
Arrivò da noi sorridendo e massaggiandosi la testa. - Devo chiedere a Naki dove ha comprato quel delizioso balsamo alla vaniglia. Stavo svenendo dalla voglia di mangiarlo, tanto era buono quel profumo. -
Ludovica la raggiunse baciandole una guancia. - Dovresti asciugarli questi capelli dopo una nottata passata coi capelli bagnati. -
- Ora li asciugo. -
- Non il tuo "ora" che corrisponde a domani. Adesso! Fila in bagno! -
Meg le fece il verso, ma davanti all'insistenza dell'amica andò sbuffando ad asciugarsi la chioma riccia. 
- Fate sempre così? - Risi.
- Te l'ho detto che sono protettiva con lei. -

Qualcuno bussò alla porta.
- Chi è? - Mi avvicinai a guardare dallo spioncino. 
- Sono Daniele. Volevo sapere come va. - Lo vidi in giacca e cravatta sporgere l'orecchio verso la porta in attesa di una risposta. 
Tolsi la catenella ed aprii la porta. - Entra. Naki è a lezione, tornerà tra poco. - 
- La ragazza? Come sta? - Aveva in mano la valigetta che aveva sceso la sera precedente.
- Pare essersi ripresa. Si è appena fatta una doccia. -
- Doccia? Non avrebbe dovuto con quel brutto taglio. Non so se la colla potrebbe essersi tolta, ma sicuramente non avrebbe dovuto farci andare dell'acqua! -
Io e Ludovica ci guardammo preoccupati. Corse in bagno a chiamare Meg. Quando la ragazza arrivò, Daniele le spiegò cosa le aveva fatto per curarla e la convinse a farsi controllare dato che insisteva nel non voler andare in ospedale. Io fui relegato in camera da letto mentre lei si spogliava. 

- Come è andata? - Chiesi tornando in salotto.
- Come immaginavo la ferita si era riaperta. L'ho ripulita e sistemata nuovamente. Non è eccessivamente profonda quindi si sanerà nel girò di due o tre giorni se la terrà asciutta e aperta. Gli altri tagli sono lievi e già cicatrizzati. L'addome non ha segni di emorraggia interna e anche gli altri lividi si stanno riassorbendo velocemente. -
- Fortunatamente sei passato stamattina. -
- Ho pensato che prima di andare a lavoro era giusto passare a dare un'occhiata. - 
- Grazie. - Ludovica gli si gettò al collo, baciandolo sulla guancia. Quel gesto mi rasserenò parecchio, dopo ciò che era successo prima. 
- Dovrei essere io a baciarlo! - Scherzò Meg. 
- Ti bacio io, allora. - Daniele le si avvicinò, baciandole la tempia. Poi ci salutò tutti ed uscì. 

- Credo che dovremmo andare anche noi, Meg. -
- Vorrei salutare prima Naki e ringraziarla. Le ho portato parecchio disturbo in casa e con un bambino immagino quanto sia difficile. -
- Naki tornerà tra un'oretta. Dopo Fisica 2 dovrebbe scendere. - Mi intromisi io. 
- Aspetteremo qui. - 
- Io magari chiamo i miei, prima che chiamino l'esercito. - Ludovica prese il cellulare ed andò in camera.
Io mi sedetti accanto a Meg sul divano. 
- Anche tu sei stato molto gentile. - Mi disse, sorridendo e avvicinandosi, ma fissandosi le ginocchia. 
- Non ho fatto nulla che non avrebbe fatto anche qualcun altro. -
- Conosco almeno una persona che non l'avrebbe fatto. - Mi guardò. Continuava a sorridere, ma il suo sguardo era opaco, triste, avvelenato dalla violenza che tornava prepotente a farsi sentire. 
- Parlavo di gente normale. - Azzardai.
Distolse lo sguardo. Le mani iniziavano a torturarsi. Le bloccai dolcemente, chiudendole tra le mie. Mi guardò quasi spaventata. Le sorrisi fissando quegli enormi cerchi nocciola e la sentii tremare. Lasciai le sue mani per abbracciarla. Lei non si mosse, tremava e basta mentre io la stringevo a me, infilando le dita tra i suoi ricci ancora un po' umidi. 
- Va tutto bene, Meg. - Le sussurrai. - Non ti farà più del male. -
Non rispose, ma pian piano smise di tremare. Sentii il suo corpo farsi meno rigido e rilassarsi abbandonando il peso su di me. 
- Brava, così. - La allontanai leggermente, sostenendola ancora per le braccia. - Non permetterò che ricapiti. -
Gli occhi rossi, allagati di lacrime che trattenevano per sè. La pelle del viso chiara come porcellana, segnata da una lunga striscia marrone e un cerchio scuro. Le labbra naturalmente rosse. Le labbra estremamente morbide. Le labbra che chiedevano solo di essere baciate. Dovetti distogliere lo sguardo per non farlo. 

- Tutto ok. Ho detto che ho dormito da te. - Ludovica rientrò in salotto fissando il cellulare, così ebbi il tempo di lasciare Meg senza che se ne accorgesse. 
- Come sempre. - Le fece l'occhiolino. Sembrava quasi che i pochi minuti che erano appena passati non fossero mai esistiti.
- Che facciamo mentre aspettiamo Naki che torna? - 
- In frigo dovrebbe esserci del gelato se non mi sbaglio. -
- Ci guardo io. - Si offrì Meg.
Tornò da noi con la vaschetta, tre cucchiai e il mio cellulare.
- Ha vibrato. - Mi disse lanciandomelo.
In effetti c'erano due messaggi. Uno era di Naki che mi diceva che sarebbe rientrata prima perché il professore doveva anticipare la fine della lezione. Il secondo era di Daniela che mi chiedeva come mai non fossi andato a lezione e se doveva conservarmi un posto per le lezioni successive.

Naki rientrò dopo poco. Brendon piangeva. Lo mise tra le braccia di Ludovica, che lo teneva sospeso in aria quasi impaurita all'idea di toccare un bambino, ed iniziò a frugare tra gli sportelli della cucina.
- Scusate se non vi saluto per bene, ma Brendon deve mangiare la frutta e non so dove mia nonna ha ficcato la scorta di riserva. -
Meg andò in aiuto dell'amica togliendole il bambino dalle braccia ed iniziando a carezzarlo e a parlargli con voce dolce per cercare di farlo calmare. Quando Naki trovò gli omogeneizzati di frutta nell'ultimo sportello, Meg insistette per dare da mangiare al piccolo personalmente. 
- Ci sono abituata. Diciamo che ho tanti piccoli fratelli. - Sorrise. 
- Quanti siete in famiglia? - Chiese Naki, ignorando il passato di Meg.
- In realtà non sono miei veri fratelli. Aiuto le ragazze di una casa famiglia. - Disse una mezza bugia e la capii per questo. Non era certo facile raccontare il suo passato a degli sconosciuti.
- Che bella cosa! - Disse entusiasta Naki, porgendole il necessario per la pappa. 
Meg si mise al lavoro e riuscì a saziare Brendon senza nemmeno farlo sporcare troppo. Naki, nel frattempo, insistette con tutti noi perché restassimo a pranzo promettendoci delle squisite lasagne. 
- Ti abbiamo dato fin troppo fastidio. - Controbbatteva Ludovica, ma Naki era decisa e tanto fece finché tutti accettammo. 

- Squisite signora Angela. Davvero ottime! - Meg si leccò i baffi dopo aver spazzolato tutto dal piatto.
Quando Naki aveva specificato che le lasagne erano fatte in casa da sua nonna, nessuno aveva capito che l'invito a pranzo si sarebbe tenuto a casa della cuoca.
- Sono contenta che vi siano piaciute. Cris e Daniele ne vogliono un'altra porzione? - Disse la nonnina ammiccando da dietro le spesse lenti.
- Io sì, Angela. Le tue lasagne sono sempre perfette. - Daniele, che conoscendo i nonni da parecchio tempo era l'unico tra noi a dargli del 'tu', si alzò per servirsi un'altra porzione di quelle deliziose lasagne che aveva cucinato. 
Io cercai di rifiutare il bis, anche se in realtà mi sarei sbranato l'intera teglia. 
- Metti una porzione anche a Cris, Daniele? Qui non si devono fare complimenti! - Mi fissò, ammiccando nuovamente. - E mettine una pure a Naki che le serve per il latte. -
- Bibi, no! Ne ho mangiate già più di tutti. Prima con la scusa che ero incinta e il bambino doveva crescere, ora con quella che serve per il latte. La verità è che vuoi farmi diventare una cicciona! - Rise divertita, Naki.
- Insistesse con me per prendere un'altra fetta di lasagne non farei tutte queste storie. - Intervenne il signor Giovanni, che continuava a guardarmi in modo torvo. 
- Tu sta zitto! Alla nostra età dobbiamo stare attenti a quello che mangiamo. Loro sono ancora giovani. -
- Vorresti dire che sono un vecchio? -
- No Babu! Sei più giovane di me. - Lo prese in giro la nipote. 
- Signora, le dispiace se ne prendo un altro po' anche io? Sono davvero squisite. - Chiese Meg arrossendo. 
- Ma certo. Daniele per favore porti una porzione a questa bella ragazza di buona forchetta? -
- Oddio signora non dica così che mi fa sentire in colpa! Domani dovrò correre un'ora in più! -
- Ma che dici che stai benissimo! Voi ragazze di oggi e la vostra fissa delle ossa di fuori. Un po' di carne serve, anche per piacere agli uomini. Sentiamo quelli che ci sono qui, dai. Inizia tu Giovanni. Come ti sembra questa ragazza? Grassa? -
- Se lei è grassa io posso andare alla NASA a registrarmi come nuovo pianeta. - Tutti ridemmo alla battuta inaspettata del nonno.
- Per me ha ragione Angela. Stai bene Meg, anzi oserei dire che qualche chiletto in più non ti guasterebbe. - Aggiunse Daniele appena smise di ridere. 
- Ora tocca a te Cris. Che ne pensi? - Mi ingunse sorridente la signora Angela. 
Sotto il tavolo Naki mi diede un calcetto e continuava a guardarmi trattenendo a stento le risate. - Beh credo che... - Sentii il viso avvamparmi. La mia timidezza stava per prendere il sopravvento.
- Andiamo, puoi dirlo che mi vedi grassa. - Disse Meg alzandosi in piedi ed avvicinandosi a me.
Mi prese una mano e se la portò su un fianco facendomi stringere tra le dita un piccolo rotolino che, a suo parere, doveva dimostrare la sua obesità. - Questi devono sparire. - Disse continuando a guardare la signora Angela divertita. 
- Questi stanno bene dove stanno. - Ribattè la signora. 
- E ci stanno benissimo. - Aggiunsi sottovoce, senza quasi accorgermi che il mio non era stato solo un pensiero. Fortunatamente nessuno mi sentì, o almeno nessuno fece capire di avermi sentito. 

Ludovica diede un passaggio a me e Naki fino in facoltà. Lei poi avrebbe accompagnato Meg ed infine sarebbe tornata a casa. Quando mi salutò, Meg mi prese il viso delicatamente tra le mani e premette forte le labbra sulla mia pelle non rasata. Quel bacio così inaspettato mi lasciò per un attimo interdetto, poi Naki mi diede in mano il seggiolino con Brendon che giocherellava e ritornai in me. 
Aiutai Naki a sistemarsi in aula studio e mi recai nell'aula dove ci sarebbe stata lezione di Reti. Trovai tutti i ragazzi lì intenti a chiacchierare a vari gruppetti tra loro. Mi avvicinai a Marco, ma Daniela mi intravide e mi corse incontro. 
- Ciao Cris. - Mi gettò le braccia al collo per salutarmi e poi mi tolse di mano la tracolla per posarla accanto alla sua borsa. 
- Ehi, quello era il mio posto. - Protestò Marco.
- Ti ho spostato solo di uno, non rompere. - Lo zittì Daniela con la sua solita aria autoritaria. - E allora, che è successo stamattina? -
- Oh niente. Ho avuto da fare. -
- Non c'erano nemmeno Ludo e Meg. -
- Lo so. Non verranno nemmeno questo pomeriggio. -
- Come fai a saperlo? - Mi guardò sospettosa.
- Ci siamo sentiti a pranzo. -
- E perché vi siete sentiti a pranzo? - Continuava a guardarmi con aria sempre più nervosa.
- Perchè ci siamo sentiti. Non ci siamo sentiti anche noi due stamattina? - Sorrisi, dandole un buffetto sulla guancia per cercare di deviare la sua attenzione e cambiare discorso. - A proposito. - Mi voltai verso tutto il resto del gruppo. - Non è che qualcuno sarebbe così gentile da prestarmi gli appunti delle lezioni di questa mattina, vero? - 
Quasi tutti si giustificarono dicendo che non prendevano mai buoni appunti. In effetti, non era una scusa ma una cosa reale che avevo potuto costatare guardando qualche foglio che mi passava sotto gli occhi dopo le lezioni. Terry mi guardò senza dire una parola. Se era vero quello che mi aveva detto Marco, la magia di ricevere appunti da lei non si sarebbe mai più ripetuta. 
- Eccoli. - Marco mi passò un piccolo malloppo di fogli a quadretti. - Non sono quelli della secchiona laggiù, ma dovrebbero aiutarti lo stesso. Comunque ti sei perso poco. Esercizi più che altro. -
- Porca! Proprio quelli che mi interessano. -
- Io sono brava con gli esercizi di Fisica 2 perché l'ho studiata al liceo se ti serve una mano. - Si propose Daniela aggrappandosi al mio braccio e posando una mano sul mio petto. 
- Daniela, potresti venire un attimo? - Qualcuno la chiamò dall'altra parte dell'aula. Si allontanò da me continuando a guardarmi con un pizzico di troppo di malizia e ancheggiando più del necessario. 
- Oh-oh. Mi sa che qualcuno è appena diventato la nuova preda di Daniela! - Mi sussurrò Marco, con una piccola gomitata sul fianco.
- Ma no, che dici? -
- Se non mi sbaglio qualcuno ti ho già spiegato come è lei. -

Qualcuno ci interruppe, bussando sulla mia spalla. Voltandomi trovai Umberto. - Posso parlarti? - Mi chiese serio.
Ci allontanammo di qualche passo, raggiungendo un angolo vuoto dell'aula. 
- Come sta Meg? -
Non risposi. Rimasi a guardarlo in silenzio. 
- Rispondimi, cazzo! So cosa è successo ieri, Ludo mi ha informato. Voglio sapere come sta lei. -
- Sta bene. Deve fare cautela per qualche giorno per un taglio un po' più profondo, ma è stata fortunata. - 
- Fortunata un cazzo. - Aggiunse, visibilmente arrabbiato. - Fortunata ad essere quasi massacrata dal suo ragazzo. - 
Ora, io non sono un tipo che parla e giudica più di tanto. Ma quella volta fu più forte di me. Avevo in corpo tanta di quella rabbia per quello che era successo e per tutti i modi che ci sarebbero stati per evitarlo, che non resistetti. - Fortunata sì. Fortunata a non esserci rimasta secca prima, dato che quelli che si spacciano per suoi migliori amici non hanno mai fatto niente per aiutarla. - Sputai velenoso la mia sentenza, restando immobile, quasi insensibile.
- Non permetterti di parlare così. Tu non sai niente. - Umberto si agitò ancora di più e parlò puntandomi contro l'indice destro.
- So quanto mi serve. So che l'unica persona che ha cercato di fare qualcosa di pratico è stata Ludovica. So che quando l'altro giorno lui si è permesso di trattarla male davanti a tutti voi, nessuno si è azzardato a muovere un muscolo. Io, da semi sconosciuto, mi sono dovuto mettere in mezzo. Sapere questo mi basta. - Me ne andai, lasciandolo di stucco. 
Restò con il dito a mezz'aria, il viso che impallidiva, le labbra che si contraevano in una smorfia che mi piacque interpretare come vergogna. Almeno avrebbe significato che si rendeva conto di cosa aveva fatto. Anzi, di cosa non aveva fatto. 

Arrivai al mio posto in tempo per l'arrivo del Professore. Sorridente più che mai, esponeva orgogliosamente ma in modo non troppo vistoso da essere volgare, il succhiotto che la moglie doveva avergli lasciato la notte precedente. 
- Ma tu e Umberto che vi siete detti? Ha una faccia! - Mi chiese sussurrando Daniela, cercando di stringersi a me.
- Niente. C'è rimasto male quando gli ho detto che sono etero. Poverino, si è innamorato di me. - Scherzai con un pizzico di acidità dettata dalla rabbia ancora non definitivamente sbollita.
- Nooo! - Un'espressione di pettegolo stupore comparì sul bel viso di Dani. - Ma davvero? E io che sono sempre stata convinta che volesse farsi Meg! -
- E invece vuole farsi Hercules! - 
Ridemmo entrambi un po' troppo forte.
- Ragazzi, per favore! - Ci rimproverò un po' accigliato, ma pur sempre col viso illuminato, il Professore. 
- Ci scusi. - Mi avvicinai all'orecchio di Daniela. - Vedi che scherzavo. -
- Su cosa? Su Umberto gay o su te etero? - Mi chiese sorridendo maliziosa.
- Su me etero. - Aggiunsi nel modo più tranquillo che potei, voltandomi poi ad ascoltare il Professore.
Mi costò fatica perché non mi sarei voluto perdere la sua faccia per nulla al mondo. Quella di un cacciatore che insegue una preda convinta che sia un bel leprotto grasso ed invece si ritrova tra le mani un topolino anoressico. 

"Non c'è trippa per gatti, Daniela. Non sarò gay, ma sono di un'altra. Anche se lei ancora non lo sa."

Il giovedì trascorse nella noia più totale. Meg non venne a lezione, restò a casa per fare cautela al taglio. Ludovica fu presente, ma si vedeva che aveva il pensiero rivolto altrove. Io cercai di seguire il professore, ma sembrò essere troppo soporifero anche dopo una buona nottata di sonno. Daniela cedette volentieri il suo posto accanto a me a Marco e continuava a guardarmi con occhi pieni di un misto di tristezza e delusione.

- Stasera ci sei? Andiamo al solito posto. - Mi invitò Marco mentre percorrevamo la strada verso casa che si era già fatta l'ora di pranzo.
- Credo che vada bene. -
- Confermiamo per telefono allora. -
- Ci sentiamo dopo. -

Ci separammo e mi avviai in fretta verso il portone di casa per ripararmi dalle prime gocce che stavano iniziando a cadere. In cucina trovai due dei miei coinquilini che avevano appena messo l'acqua per la pasta a bollire. 
- Ohi Cris, devi ancora pranzare? -
Annuii scrollandomi le gocce che si erano arrivate a infiltrare tra i capelli. 
- Buttiamo un po' di pasta anche per te e mangi con noi? -
- Perché no? -
Non era uno dei miei sogni nascosti quello di mangiare con due semi animali, ma l'idea di non dover aspettare ancora per mangiare mi allettava parecchio. Mi accorsi poi che, presi a piccoli gruppi e a piccole dosi, potevano risultare una compagnia accettabile. Condimmo il pranzo con una conversazione allegra e leggera, che con mia sorpresa riuscì a non cadere nel volgare. 
Finito il mio piattone di pasta al pesto, mi offrii di lavare i piatti. Mi avrebbe permesso di ritardare un po' l'inizio dello studio. Mentre ero in moto, lavai anche il bagno che vide un po' di lustro dopo molte settimane. Finii di far tutto che erano circa le 15:30 ed andai a rilassarmi in camera promettendo a me stesso di iniziare a studiare mezz'ora dopo. 

In realtà appena toccai il letto, l'effetto della lezione mattutina unito alla stanchezza che non avevo ancora del tutto smaltito, mi fece piombare in un sonno profondo condito da sogni in cui Meg mi buttava le braccia al collo e mi baciava passionalmente o cercava di possedermi sui banchi dell'aula. Bei sogni, non c'era di che lamentarsi! 

Mi svegliò il suono del cellulare. Prima di rispondere guardai l'orologio e vidi che avevo dormito per due ore piene. 
- Pronto mà. -
- Ma buongiorno! Chi non muore si risente, eh! Sei scomparso da due giorni. Ti ricordi ancora di avere una famiglia qui o siamo buoni solo a mandarti i soldi dell'affitto? -
Mia madre era incazzata nera, ma la cosa più fastidiosa era che non potevo darle torto. Avevamo saltato solo una chiamata, quella del giorno precedente, e per un motivo giusto, cioè il fatto che mi ero addormentato subito dopo cena crollando dopo la notte insonne. Ma dirle che stava esagerando avrebbe significato farla incazzare ancora di più. - Scusa mà. Come state? -
- Oh, benone! Grazie dell'interesse. -
- Papà? -
- Si lamenta. Nulla di strano. -
- E Bepi? Com'è finita con quella storia del ricovero? -
- Francesco dice che potrebbe ricoverarlo già Lunedì e fare tutto nel giro di un paio di giorni. -
- Mà, potresti continuare a chiamarlo Dottor Giannusi? -
- Ti da così fastidio che lo chiami per nome? -
- Mi fa strano tutta questa improvvisa confidenza. -
- Almeno lui mi aiuta e mi sta vicino. - 
Quell'affermazione non mi piacque per niente. Mi suonò strana, puzzava di marcio. La lasciai cadere al momento, ma nella mia mente in realtà restò ben impressa. - Ma Bepi come l'ha presa? -
- Come al solito non vuole sentirne parlare. Infatti mi chiedevo se tu... -
- Sì, mamma. Lo convincerò io. -
- Veramente non mi riferivo solo a quello. -
- E a cos'altro? -
- Credo che Bepi starebbe più tranquillamente in clinica se avesse l'assistenza di qualcuno di cui si fida. -
- Mi stai chiedendo di... -
- Di andare in clinica con lui. -
Imprecai silenziosamente. Non era quello il momento di assentarmi. Avevo una missione da compiere dov'ero, non potevo perdere tempo. D'altro canto, Bepi era mio fratello ed aveva bisogno di me. Sapevo che era una cosa giusta da fare e che solo il pensiero di non volerci andare era tacciabile di egoismo allo stato più puro, ma non riuscivo a non pensare che se volevo conquistare Meg non potevo stare via chissà per quanto tempo. 
- E allora? Lo prendo come un no? -
Sospirai cercando di non farmi sentire e, approfittando del fatto che non potesse vedermi, alzai gli occhi e le braccia al cielo. - No, ci andrò. -
- Oh, benissimo. Lo dirò subito a Francesco... scusa, lo dirò subito al Dottor Giannusi. -
- Per il resto devi dirmi qualcosa? -
- Non mi pare. -
- Allora io tornerei a studiare. -
- Va bene. Ciao Cris. Ti voglio bene. -
- Ciao mà. -

Chiusi il telefono e lo poggiai sul comodino. Mi alzai stiracchiandomi e sbadigliando copiosamente. Ripresi il cellulare per controllare se qualcuno si era fatto vivo nel pomeriggio, ma l'unica cosa che trovai furono tre chiamate perse da mia madre. 
Decisi di fare una bella doccia calda, lunga e rilassante. Portai con me la radio e misi in sottofondo un cd a caso dalla pila sulla mensola. Master of Puppets. 
Uscito dalla doccia, asciugai i capelli lasciando che si formassero i miei ricci naturali invece di dargli una leggera lisciatura. Accorciai la barba e tornai in camera con un lungo asciugamano avvolto sui fianchi. Passando dallo specchio notai con dispiacere che la tanta fatica in palestra fatta in passato ormai era stata cancellata, anche se ancora il mio fisico poteva considerarsi decentemente messo bene. 

In camera trovai il telefono squillante e mi precipitai a rispondere prima che la chiamata fosse staccata. Era Marco. 
- Oh Marco. Scusa, ero in doccia. -
- Tranquillo. Per stasera il pub salta. - 
- Come mai? -
- Non so perché ma stasera nessuno ha voglia di andarci. - 
In realtà nemmeno io, ma non mi andava di far saltare tutto. - Non hanno voglia di andare al pub o non hanno proprio voglia di muoversi da casa? -
- Perché? Cosa proponi? -
- Potremmo vedere un film. -
- In quale cinema? -
- Non parlavo di cinema. Intendevo a casa di qualcuno. Anche a casa mia si può fare. - Mi pentii immediatamente di aver fatto quell'invito. La mia stanza era un mezzo disastro e i miei coinquilini erano tutti in casa. 
- Posso proporlo. -
- Fammi sapere allora. -
- Ti richiamo. -

Nell'incertezza di cosa sarebbe successo, mi diedi alla disperata ricerca di un modo per far sembrare camera quanto meno abitabile. Infilai tutto ciò che potei nella parte bassa dell'armadio, spostai in dispensa tutto quello che avevo ancora lasciato sparso per la valigia, rifeci il letto e accatastai alla meno peggio tutti i fogli sulla scrivania. Il telefono squillò di nuovo.
- E allora, alcuni vogliono proprio stare a casa, altri hanno accettato la proposta. Verso che ora veniamo? -
- Quando volete, tanto io sono qui. - Sperai che mi dessero il tempo almeno di spazzare a terra. - Chi sarete? -
- Io, Andrea, Dani, Ludo e Meg. - 
- Perfetto. - L'idea che Meg avrebbe visto la mia stanza senza che avessi la possibilità di pulirla decentemente mi mandava ancor di più in crisi.
- Ci vediamo dopo cena allora. - 
- Ok. -
Mandai velocemente un messaggio a Naki per chiederle se voleva unirsi a noi, poi afferrai la scopa ed iniziai a sfrattare i batuffoli di polvere che si erano appropriati della mia camera. 
Dopo poco mi arrivò il messaggio di risposta. Mi chiedeva se poteva portare anche Daniele. L'aveva invitata ad accompagnarlo ad una mostra pomeridiana perciò avrebbero cenato insieme. Per un attimo mi pentii di rovinare il dopo cena di quella che forse sarebbe stata la sera in cui Daniele si sarebbe deciso a fare qualche passo in avanti verso di lei, ma non potevo più annullare l'invito, così mi limitai ad acconsentire a farlo unire a noi. 

Mangiai in fretta qualcosa ed informai gli altri abitanti della casa che la sera avrei avuto ospiti, più per lasciare intendere di stare lontani da camera mia che per altro.
Erano appena le 21:30 quando suonò il campanello per la prima volta. Erano Naki e Daniele. Lei mi spiegò in breve che Brendon aveva iniziato a piangere disperatamente quindi avevano preso solo un pezzo di pizza al bar ed erano corsi a casa. Daniele era visibilmente deluso dalla piega che aveva preso la situazione. 
- Ma come mai piange così? - Il bambino continuava a piangere ininterrottamente. 
- Non lo so. - Naki era nel panico. - Prova a fare quella cosa che fai tu che lo fa calmare. -
- Credi che siano coliche? - Afferrai il bambino ed iniziai a massaggiarlo. 
- A quanto pare sì. - In effetti, il pianto pian piano si assopì. - Per stasera niente latte! Solo acqua bollita tesoro mio. -
- Ma tutte queste coliche sono normali? -
- Non lo so. -
Istintivamente tutti e due guardammo Daniele. - Perché mi fissate? Non sono un pediatra! -
- Lo sappiamo, ma magari potresti sapere qualcosa. -
- No, mi dispiace. -
Nel frattempo Brendon aveva smesso di piangere, anche se continuava a lamentarsi sommessamente. - Secondo me non sono coliche. Sentigli le mani. Sono freddissime. A mio parere si era preso di freddo e voleva il calore del corpo per essere riscaldato. Proviamo una cosa. Indossi una canottiera? -
Mi guardò perplessa.
- Mia madre dice spesso che i bambini hanno bisogno dell'odore della mamma per confortarsi. Se lo avvolgi in una cosa che ha il tuo odore e lo copri bene, dovrebbe calmarsi. -
- Certo che per essere uno che non aveva mai preso in braccio un bambino, ne sai parecchio. -
- Diciamo che ho buona memoria. - 
Naki si recò in bagno, mentre noi uomini andavamo in camera. 
- Come è andata la mostra? -
- Non come avrei voluto. - Mi fece intendere che avevo ben capito le sue intenzioni. - Brendon non è stato molto tranquillo, perciò non ci siamo potuti godere a pieno il tempo, diciamo così. -
- Troverai il modo. - Dissi ammiccando. 
Naki rientrò in camera con una maglietta intima in mano. La avvolse attorno a Brendon. - Posso poggiarlo sul letto? Così sta più comodo. -
- Certo, fai pure. -
Lo cullò fino a farlo addormentare e lo sistemò sul mio letto, coprendolo con la sua copertina e con il mio piumone. - Duni mpenzi! Povero tesoro. Si è stancato tanto a furia di piangere. Spero non vi disturbi durante il film. -

Bussarono alla porta della mia camera. - Avanti. -
La porta si aprì e si presentò il più allupato dei miei coinquilini. - Sono arrivate due per te. Due belle porche. Perché non inviti quando viene gente come questa? -
Lo fissai arrossendo, mentre Naki scoppiò a ridere. - Perché gente come questa non sta con gente come te. - Dissi mentre andavo alla porta d'ingresso e lui mi seguiva. - Potevi portarle in camera invece di lasciarle sulla porta. -

Naki guardava il film dal letto, sdraiata accanto a Brendon. Daniele era seduto per terra accanto alla sua testa. Vicino a lui si era posizionata Daniela. Fin da quando aveva varcato la soglia della mia camera, era chiaro a tutti che il suo fascino maturo ma giovane l'aveva colpita. O forse era solo il fascino di una nuova preda.
Noi altri eravamo sul pavimento al centro della stanza, sopra una vecchia coperta che previdentemente aveva portato Ludovica. Meg aveva di nuovo coperto il livido con una buona dose di correttore e fondotinta, come aveva fatto prima di pranzare a casa dei nonni di Naki. I capelli le ricadevano studiatamente sul viso per proteggere il graffio sul volto. Quando era arrivata, approfittando che ancora non ci fosse nessun altro, Daniele aveva dato uno sguardo veloce alle sue ferite. Si era stupito di come stessero guarendo velocemente e tutti fummo felici di sentirglielo dire.
Adesso lei stava accucciata tra le gambe di Ludovica, ma ogni tanto la vedevo distrarsi dal film per lanciarmi qualche sorriso. Illuminato solo dalla luce bluastra della televisione, quel sorriso era reso ancor più mozzafiato. Io fingevo di fissare le immagini scorrere, mentre mi sarei incantato a guardarla per ore. 

A circa metà film Brendon si svegliò, reclamando del cibo. Il film fu messo in pausa e Daniele tentò di scollarsi di dosso la sua omonima al femminile prendendo in braccio il piccolo. Naki mi chiese se poteva riscaldargli del latte ed io l'accompagnai in cucina.
- Come ti sembrano? - Le chiesi, mentre versava il latte nel pentolino sul fuoco.
- I ragazzi? -
Annuii. Era solo per fare conversazione, ma avevo la strana sensazione di desiderare che le stessero simpatici. Come se la sua approvazione fosse diventata importante per me. 
- Simpatici. - Disse in modo volutamente superficiale.
- Che è quel tono? Dimmi la verità. -
- Non li conosco quindi non posso dare un giudizio così, su due piedi. -
- Questa cosa mi fa intuire che c'è qualcosa che non ti quadra. -
- Qualcosa c'è in effetti, ma è una schiocchezza. - La vidi arrossire un po' e concentrarsi a fissare il latte che iniziava a frizzare un po' ai bordi.
- Cosa sarebbe? Scommetto che è Andrea. Anche io ancora non l'ho capito bene. Ha certi atteggiamenti che non mi piacciono. -
- No, non parlavo di lui. In effetti è un po' strano, ma non più di tanto. -
- E di chi parli? Non dirmi che Marco ti sta antipatico! Davvero Naki, è uno dei ragazzi più apposto che io abbia mai conosciuto. -
- Si vede. Non mi riferivo a lui, infatti. -
- E a chi? - Domandai perplesso. Poi capii. Il pensiero che a darle fastidio fosse Daniela era più che plausibile. E che a infastidirla fosse addirittura il suo stare appiccicata a Daniele mi faceva sorridere. 
- No, nulla. Te l'ho detto. Una sciocchezza. -
Tombola! Era gelosa e, per di più, non voleva ammetterlo. Questo poteva significare solo una cosa. Anche lei aveva una mezza cotta per Daniele. Avrei voluto trovare il modo per farla parlare, ma fui interrotto. 
Daniele, quasi si sentisse chiamato in causa, sbucò in cucina con Brendon tra le braccia. Aveva smesso di piangere, concentrandosi sul ciuccio che gli era stato dato, ma ancora ogni tanto tirava via un grindolino per non farsi dimenticare. 
- Quanto ci vuole? - Domandò. 
Naki spense il fuoco e versò il latte, ormai bollente, nel biberon. Lo provò sulla pelle. Era ancora molto caldo. - Cris mi porteresti il borsone di Brendon? Ho dimenticato a prendere il granulato. Fa in fretta, prima che si raffredda. -
Corsi in camera ed afferrai il borsone. Dovetti rallentare un attimo, perché il sorriso che Meg mi aveva rivolto appena entrato mi aveva lasciato senza fiato. Tornando in cucina, li sentii parlottare. Restai un attimo nascosto dietro la porta ad origliare.
- Quella è una specie di zecca. Non la sto sopportando più. -
- A me sembra che ti piaccia. -
Bingo. Avevo azzeccato tutto. Entrai facendo finta di nulla.
- Ecco il borsone. - 
Naki lo afferrò. Si era un po' imbronciata. Vi frugò dentro fino a trovare un barattolo di biscotto granulare. Ne mise due cucchiaini nel biberon ed iniziò ad agitarlo. Forse un po' troppo forte. 
- Non stai facendo la ricotta, vedi. - Sottolineò ironicamente Daniele.
Lei gli fece una smorfia in risposta, ma rendendosi conto di star esagerando rallentò. Quando si fu completamente sciolto prese il bambino e finalmente lo saziò. Mentre ancora Brendon ciucciava, tornammo in stanza. 
- Ragazzi se volete possiamo riprendere il film. Lui non vi disturberà più. - Si sedette sul letto incrociando le gambe e appoggiandoci sopra il bambino che teneva tra le manine il biberon. 
Daniele si sedette accanto a lei passandole un braccio dietro le spalle e accarezzando la testa del piccolo. Daniela non si arrese e si sedette accanto a lui, sorridendo visibilmente innervosita.
Spensi la luce ed andai a sedermi al mio posto, mentre Andrea faceva ripartire il film. Avevamo scelto Wanted, un film intricato ma non troppo, che riuscisse a tenere svegli gli uomini ma non scandalizzasse troppo le donne. Meg, però, si era coperta spesso gli occhi durante le scene un po' più crude. In quegli attimi credevo che avessi sbagliato ad accettare quel film. Magari quella violenza poteva farle male, farla pensare a brutti ricordi. 

Mentre scorrevano le immagini di una delle scene più toccanti, quella in cui il protagonista si rende conto che l'uomo che ha appena ucciso per vendicare suo padre era in realtà il suo vero padre, sentii qualcuno appoggiarsi al mio braccio. Era lei. Vidi solo in quel momento che Ludovica si era appallottolata tra Andrea e Marco, mentre Meg era da sola accanto a me. Si intrufolò sotto il mio braccio, come una piccola bimba in cerca di protezione.
- Non ti piace questo film? - Le sussurrai.
- E' interessante. - Mi rispose altrettanto piano.
- Sicura che non ti faccia impressione. -
- Perché dovrebbe? - Mi guardò un po' stranita.
- Non lo so. Magari ti risparmieresti questa violenza gratuita, dopo quello che ti è successo. - Stesi attento a non far capire che Ludovica mi aveva parlato di suo padre. 
- Tranquillo. E' solo un film. - Sorrise ancora e prima di voltarsi a guardare il film mi baciò sulla guancia. 

Finito il film, ci trattenemmo a parlare mentre Brendon dormiva beatamente tra le mie lensuola. Daniela era sempre più nervosa e continuava a voltare il suo sguardo inacidito da Naki a me. 
- Ragazzi, io vi saluto e vado a casa se no domani a lezione non ci arrivo. - Disse Marco alzandosi. 
- Vai via a piedi? - 
- Eh sì. Non vi rubo nessuno. -
- Ma no, dai. Tanto è tardi per tutti. Ti accompagniamo noi. - Propose Ludovica, saltando in piedi anche lei.
- Allora accompagnate anche me. - Si intromise Andrea. 
Mentre iniziavano a infilarsi i giubbotti, mi alzai in piedi ed aiutai Meg a sollevarsi. Continuava a guardarmi sorridendo. La aiutai a mettersersi il piumino bianco con cui era arrivata. 
- Ti serve un passaggio? - Disse Daniela sorniona rivolgendosi a Daniele. 
- No, tranquilla. Ho la macchina. E poi abito qui vicino. -
- Mi dai una mano con Brendon? - Si intromise Naki, con un tono leggermente innervosito, ma ostentando un bel sorriso. 
- Subito. - Si precipitò a prendere il bambino per iniziare a sistemarlo. 
Tornai a pensare che Daniele sarebbe stato senz'altro un ottimo compagno per Naki e uno stupendo padre per Brendon. Sorrisi, ripensando al fatto che quei due non si erano detti che provavano la stessa cosa per l'altro. 

Ci salutammo tutti sulla soglia della porta e restai solo. Tornato in camera, mi resi conto di non avere un briciolo di sonno nonostante l'orario si fosse fatto parecchio tardo. Continuavo a pensare a quando quei due si sarebbero finalmente messi insieme, a Daniela che aveva preso il secondo asso di picchie in meno di ventiquattro ore, ma soprattutto pensavo a lei. Ai sorrisi che mi aveva regalato, a quel bacio dolce che mi aveva posato sul viso. Istintivamente mi accarezzai la guancia lì dove le sue labbra l'avevano toccata ed annusai l'aria cercandoci una traccia di lei. Decisi di infilarmi a letto, convinto che pensarla mi avrebbe aiutato a passare bene la notte. "Se anche non dormirò" mi ripetevo "almeno occuperò il tempo in una maniera piacevole". 
Mi rigiravo nel letto, ma qualsiasi posizione mi sembrava scomoda dopo averla tenuta tra le mie braccia, seppur solo per vedere un film. Mi rendevo conto che più tempo passava, più ogni fibra del mio essere richiedeva lei, la sua presenza, il suo profumo, i suoi grandi occhi nocciola. La desideravo come non avevo mai fatto prima. Desideravo proteggerla, farle da scudo contro i mille e più dolori che la colpivano.

Il telefono squillò. Guardai l'ora prima di rispondere a quel numero sconosciuto. Erano le due e i ragazzi erano andati via appena un'ora prima anche se mi sembrava che fosse passato molto più tempo. Risposi fingendo una voce insonnolita.
- Pronto? -
- Cris, dormivi già? - La voce femminile dall'altro capo del telefono sembrava essere su di giri per la felicità. 
- No, Ludo, tranquilla. Che c'è? E' successo qualcosa? -
- Mi chiedi se è successo qualcosa? Certo che è successo qualcosa! - Urlava dalla gioia per un motivo ancora sconosciuto. - Qualcosa di incredibile. - 
- Se ti fa chiamare a quest'ora ci credo che è incredibile. A proposito, da chi hai preso il mio numero? -
- Me lo ha dato Marco un paio di giorni fa. Problemi? - Disse scherzosamente minacciosa. 
- No, era solo per sapere. - Ridacchiai sedendomi sul letto. - E allora. Cosa è successo? -
- Quando ho accompagnato Meg a casa, abbiamo trovato Jeff. - Il sorriso sparì dalla mia faccia. Non poteva esserci niente per cui sorridere quando c'era in mezzo quel tipo. - Ha iniziato ad aggredirla chiedendole dove era stata e con chi, così io sono scesa dalla macchina, ma non ho avuto il tempo di raggiungerli. Meg gli ha tirato un ceffone da fargli girare la testa ed ha iniziato ad urlargli di scomparire dalla sua vita, che stavolta aveva esagerato. Gli ha detto che finalmente aveva aperto gli occhi e non si sarebbe mai dovuto ripresentare se non voleva farla incazzare sul serio e poi piangerne le conseguenze. Dopo di ché se ne è entrata in casa tranquilla, tranquilla lasciandolo come uno stoccafisso lì impalato a centro di strada a guardare stupefatto il vuoto. - Scoppiò in una grande risata. - Dovevi vederlo Cris! Era sconvolto, stava quasi scoppiando a piangere. Si è infilato in macchina e se ne è andato. Finalmente Meg ha avuto il coraggio di lasciarlo. -
La cosa che mi aveva appena raccontato mi riempiva di gioia, ma non riuscivo ad essere totalmente tranquillo. - Potrebbe sempre essere un falso allarme. -
- Non l'avevo mai vista così. -
- Speriamo bene. -
- Ehi, ma non sei contento? -
- Certo che sono contento, ma prima voglio capire che resterà così. -
- Certo che sei un grande guastafeste, eh! Una ti chiama tutta contenta e tu le smonti l'entusiasmo. -
- Scusa, sono fatto così. Non riesco ad essere positivo più di tanto. - 
- E l'ho capito! Va beh, io resto felice alla faccia tua. - Rise.
- Fai bene. - Risposi anch'io ridendo. 
- Buonanotte Cris. -
- Buonanotte. -

Arrivai in facoltà con poco anticipo rispetto alla lezione, molto affaticato dalla corsa a cui mi ero sottoposto essendomi svegliato parecchio in ritardo. Nell'area delle macchinette tutti gli altri erano già insieme con i rispettivi bicchieri di caffè in mano. 
- Ciao a tutti. - Salutai a voce alta e con un gesto della mano, dirigendomi speditamente a mettermi in fila per prendere anch'io una sana dose di caffeina mattutina. 
Meg sbucò fuori dal gruppo afferrandomi per il giubbotto. - Ehi. Dove scappi? -
- A prendere il caffè. -
- Tieni. - Mi porse un bicchierino. - E' un po' zuccherato, ma meglio di fare la fila e rischiare di non arrivarci. Umberto me lo ha appena preso, ma a me non va. -
- Grazie. - Le tolsi il bicchiere dalle mani e sorseggiai quel caffè troppo caramelloso per i miei gusti cercando di non darlo a vedere.
- Naki non sale oggi? -
- Non lo so. -
- Non ha lezione? -
- Sì, ma la sua inizia più tardi. -
- Ho capito. - Mi sorrise e ritornò a parlare con Andrea. 

Gettai il bicchiere vuoto nella pattumiera vicina e mi diressi in aula. Ludovica mi seguì.
- Ehi, ehi! - Mi afferrò per il braccio. - E allora, sei contento? -
- Per cosa? - La guardai perplessa.
- Per quello che ti ho detto ieri sera, no? - Il suo viso era illuminato più del solito. Gli occhi le sprizzavano felicità, il sorriso era più sereno.
- Ludo, ti ho già spiegato come la penso. Non voglio entusiasmarmi finché non capirò che la sua è una presa di posizione definitiva. -
- E' definitiva, ti dico! -
- Come fai a saperlo? Come fai a sapere che domani lui non si ripresenterà con l'aria da cagnolino e mille promesse e lei non ci ricascherà? -
- Lo so perché non ha mai fatto una cosa del genere. Meg non gli ha mai dato uno schiaffo, non gli ha mai parlato così, non è mai stata così fredda è impassibile con lui. - Iniziò a parlare a bassa voce, vedendo che gli altri iniziavano a comparire dalla porta. 
- Vedremo Ludo, vedremo. -
Mi fece una smorfia e andò a sedersi vicino a Meg. 

Il professore arrivò ed io presi posto, come sempre, accanto a Marco. Dall'altra parte si sedette Daniela. 
- Senti, devo dirti una cosa. - Iniziò sorridente e vispa. 
- Non puoi dirmela dopo? Il professore sta per iniziare. -
- No, adesso. Tanto è veloce. -
Sbuffai. - Va bene, sbrigati. -
- Daniele per caso è single? Avresti il suo numero? -
- Sì, è single. No, non ho il suo numero. - Single, sì. Ma per poco se le cose sarebbero andate come dovevano.
- Peccato. - Un'espressione insoddisfatta comparì per qualche secondo, subito sostituita nuovamente dall'espressione raggiante di chi è stato appena folgorato da un'idea. - Non è che Naki potrebbe farmelo avere? -
- Non lo so. Chiedilo a lei. - Nella mente mi immaginavo già la scena di Naki che la strozzava allegramente. Mi trattenni dal ridere davvero per poco. 
- Glielo chiederò. - Sorrideva ancora, poi tornò a fare una faccia dubbiosa. - Un'ultima cosa. Non è che l'altro giorno mi hai preso per il culo? - Mi puntò addossò l'indice, fissandomi.
- Quando? -
- Quando mi hai detto che sei gay. Io mi ricordo che mi hai raccontato della tua ex. -
Risi e mi voltai verso il professore, lasciandola senza una risposta. 
- Mi hai preso per il culo, vero? - Insistette lei con tono serio, ma non arrabbiato. 
- Shhh. - Mi voltai verso di lei portandomi l'indice alle labbra. - Il prof sta iniziando. -
- Lo sapevo. - Tornò ad illuminarsi. - Lo sapevo che non potevi essere gay. - 
Usò un tono di voce un po' troppo alto per l'aula che era calata nel silenzio in attesa che il professore iniziasse a spiegare. Molti risero. Il professore si alzò in piedi intimandoci al silenzio, più nervoso del solito. 
- Che dici, tu? Sua moglie non gliel'ha data oggi? - Mi disse sottovoce Marco, dandomi una delle sue solite gomitate al fianco.

Finita la lezione, ci recammo di nuovo tutti alle macchinette. Vi trovai anche Naki che prendeva una cioccolata calda durante la pausa della lezione di Basi. Brendon si era appena addormentato perciò mi limitai a carezzargli una guancia e a guardare la piccola smorfia che ne conseguì. Dopo aver bevuto la sua bevanda, Naki si precipitò nuovamente in aula, lasciandomi con i ragazzi. 
Daniela stranamente, ma forse non più di tanto, mi venne ad abbracciare mentre parlottavamo della prova in itinere che il professore aveva puntato poco prima. 
- Non so se lo fa per farci un favore oppure per divertirsi alle nostre spalle. -
- L'importante è che non l'abbia fatta a sorpresa. Abbiamo cinque giorni per studiare. -
- Beh, non abbiamo tutti cinque giorni. - Dissi accarezzandomi la nuca, pensieroso.
- Che vuoi dire? La prova sarà Mercoledì prossimo. - 
- E' semplice. Oggi non posso studiare perché devo tornare a casa. Sabato e Domenica idem, perché avrò mille cose da fare. Mi restano solo Lunedì e Martedì. Considerando che Lunedì abbiamo sette ore di lezione, mi resta solo Martedì. Un po' meno di cinque giorni, non pensi? -
- Non puoi restare qui questo fine settimana? - Chiese Daniela, accarezzandomi il braccio. 
- Facciamo un bel gruppo studio. - Intervenne Meg. 
Fissando il suo sorriso avrei voluto accettare all'istante. Nulla mi sarebbe piaciuto di più che passare molto, molto, molto tempo con lei, anche se ci fosse stato di mezzo lo studio. 
- Non posso restare, mi dispiace. Studierò la notte. - Alzai le spalle, minimizzando il problema che invece mi lasciava piuttosto pensieroso. 
- Dai ragazzi, inutile stare qui a deprimersi. - Si intromise Ludovica. - Chi vuole un passaggio? -

- Mà, sono a casa. - Erano ormai le 19.
Le due ore di viaggio erano state più pesanti del solito. Pensavo in continuazione a come avrei fatto a studiare. L'ansia non mi aveva fatto chiudere occhio, cosa che solitamente contribuiva a farmi sentire di meno la nausea da viaggio. Invece avevo dovuto fare appello a tutto il mio autocontrollo per non vomitare sulla tappezzeria. Anche il mio iPod aveva deciso di mettersi in sciopero, abbandonandomi dopo mezz'ora di viaggio. Sceso dall'autobus, ringraziai di essere arrivato, cosa che non mi succedeva da molto tempo. Mio padre mi stava aspettando in macchina, innervosito dal quarto d'ora di ritardo che avevo avuto, e non aveva parlato per tutto il tragitto. 
- Come è andato il viaggio stavolta? - Mamma mi venne a baciare. Assaporai il suo profumo, lo stesso che mi aveva accompagnato per tutta l'infanzia. 
- Ne ho avuti di migliori. Bepi? -
- In stanza. -

Entrai dopo aver bussato. Trovai mio fratello che guardava la TV steso sul mio letto. La sedia a rotelle era aperta lì accanto. Posai la valigia e lo salutai con la stretta di mano che avevamo inventato da piccoli. - Come stai? -
- Oggi un po' stanco. - 
- Come mai? Che hai fatto oggi? - Mi tolsi il giubbotto e lo scaraventai sulla scrivania.
- Siamo stati dal dottore. -
- Che ti ha detto? -
- Mi vuole ricoverare. -
- E tu? - Mi tolsi le scarpe da ginnastica, rabbrividendo a contatto con il pavimento ghiacciato. 
- Io non voglio. - 
- Vuoi o non vuoi devi farlo e basta. - Si intromise bruscamente mamma, catapultandosi nella stanza. 
- Non ho due anni. Sono maggiorenne e decido io. - Urlò Bepi, cercando nervosamente di mettersi a sedere. 
- Tu fai quello che dico io. -
- No, cazzo! Non mi rinchiuderete in ospedale. - 
- E' per il tuo bene. -
- No! - 
Vedendo mio fratello agitarsi così tanto e mia madre arrivare al limite delle lacrime, la presi per le spalle sospingendola fuori. Richiusi la porta alle nostre spalle appena in tempo per schivare il telecomando che Bepi aveva lanciato.
- Non eravamo rimasti che dovevo parlarci io? - Rimproverai mia madre.
- Ma lui deve capire che noi lo vogliamo per la sua salute. -
- E ci penso io a farglielo capire. Se gli dici le cose così lo fai solo innervosire e non concludi nulla. - 
Mi fissò in silenzio. Gli immensi occhi verdi colmi di lacrime, ma duri come la pietra. I capelli biondi erano raccolti in modo scomposto e le ricadevano sul viso. Si asciugò le mani sul grembiule bianco e rosso. Nel suo gesto lessi tutto il nervosismo che aveva sicuramente accumulato durante la settimana. 
- Va a lavarti. Tra poco mangiamo. - Mi voltò le spalle e si diresse in cucina. 
La saguii con lo sguardo, intravedendo anche mio padre che aveva preso la sua solita posizione disteso sul divano a leggere il giornale senza dar ascolto a nulla di ciò che succedeva. Bel rientro a casa, non c'è che dire. 
Tornai in stanza, dove trovai Bepi che passava dal letto alla sedia. Non l'aiutai perché ormai avevo capito che quel gesto lo aiutava a sentirsi autonomo. Un aiuto lo avrebbe demoralizzato ed umiliato. Restai comunque a guardarlo, pronto ad intervenire se fosse caduto. 
- Non dovresti parlare così a mamma. - Mantenni un tono calmo. - So che ti fa incazzare, ma è già stressata di suo. Lo sai poi che se tu le parli così se la prende a male. -
- Il ricovero decido io se accettarlo o no. -
- Perché non vuoi accettarlo? - Mi sedetti sul letto di fronte a lui. 
- Perché se entro in ospedale non mi faranno più uscire. -
- Che cazzate stai dicendo Bepi? Fai le analisi e torni a casa. -
- No, è una scusa per lasciarmi lì. Io non voglio restare in ospedale. -
- Ma non ci resterai. Perché dovresti restare lì? -
- Per papà sono un peso, una cosa da nascondere, il figlio riuscito male. Mamma non ce la fa più a starmi dietro. E tu ci sei solo due gironi su sette. - Si fissava le ginocchia. La voce tremava.
Mi resi conto che aveva ragione, che aveva capito tutto ciò che avevamo sempre cercato di non fargli sapere. Era un epilettico, mica uno stupido. Questo noi non l'avevamo mai capito, in realtà. 
Gli poggiai la mano sulla spalla e lui sollevò lo sguardo su di me. - Ti giuro che non lascerò mai che ti facciano restare in ospedale. Farai le analisi e tornerai a casa. Te lo giuro su quello che vuoi tu. - 
- Giuramelo su Brendon. - Il weekend precedente gli avevo raccontato tutto ciò che era successo, incluso l'affetto che mi era preso subito per quel fagottino scuro. 
- Te lo giuro su di lui. - Dissi ridendo. - E a proposito, devo raccontarti un bel po' di cose. -
- Su chi? Naki? Hai dormito di nuovo da lei? -
- Sì, ma non è questa la novità. -
- Centra quella ragazza? Com'è che si chiamava? -
- Meg. Sì, centra lei. Diciamo che è stata una settimana movimentata. - 
- Non te la sarai scopata, vero? -
- No, ancora a quella fase non ci sono arrivato. -
- Cris! La doccia! Qui è quasi pronto. - Urlò mia madre dalla cucina.

Me la presi comoda quel giorno e mi alzai dal letto che era già passato mezzogiorno da un bel pezzo. Pranzai poco dopo. Quella settimana mi ero trattato bene tra pizza, cene da Naki e le lasagne di sua nonna. Ma, come si dice? La mamma è sempre la mamma, no? 
Dopo pranzo uscii con mio fratello. Come di consueto, ci andammo ad accampare dentro il negozio del ragazzo che era ormai diventato il mio migliore amico. Un mezzo sfasato, pittore nato con la cresta rossa e la media di un tatuaggio a centimetro quadro. Una corazza di ferro che racchiudeva un cuore buono come il pane e, strano a dirsi, un ragazzaccio romanticone fino al midollo. Per alcuni anni aveva vissuto di quel poco che gli fruttavano i suoi disegni, ma un paio d'anni prima aveva deciso di diventare un tatuatore. Il negozio non era una miniera d'oro, ma lo aiutava a tirare avanti. Il sabato pomeriggio era sempre pieno di appuntamenti, perciò solitamente noi andavamo in negozio per dargli una mano coi clienti. 
- Cazzo Daril, perché hai preso sei appuntamenti in un pomeriggio? -
- Tranquillo, uno deve solo confermare il disegno e un altro deve fare il controllo dopo il primo mese. -
- Quattro disegni sono comunque tanti. Finiremo fuori orario. -
- Come sempre, no? - Mi diede una pacca sulla spalla e si infilò nella saletta. 
- Senti una cosa. - Gli chiesi dalla hall, alzando un po' la voce. - Questa Miriam, è chi penso io? -
- Mi sa proprio di sì. - Sentii la sua voce molto attutita tramite le spesse pareti, ma la notizia arrivò comunque a segno. 
- Ma porca puttana Daril, potevi dirmelo! Pure al primo appuntamento è. Arriva da un momento all'altro e non mi dici niente. -
- Oh, me lo sono levato di mente, che vuoi? -
Posai bruscamente l'agenda sulla scrivania, facendola sbattere rumorosamente. Bepi dovette tenere la palla di cristallo con dentro la neve finta per non farla rotolare giù dal tavolo. 
- E dai, che sarà mai? - Mi chiese minimizzando. - Neanche ti avesse lasciato lei! -
- Che centra? - Sbuffai.
- Se ti avesse lasciato lei ci starebbe pure che non vuoi vederla, ma l'hai lasciata tu quindi dovrebbe essere lei a non volere vedere te. -
- Non voglio vederla e basta. Sai cosa farà quando arriverà e mi troverà qua. -
- Cosa? - Fece il finto scemo.
- Lo sai benissimo che inizierà a fare la vittima. Farà finta di essere ancora triste e depressa, per rinfacciarmi di averle "rovinato la vita". - Sottolineai virgolettando con le dita.
- Cosa pretendevi? Che facesse i salti di gioia? -
Mi innervosii ancora di più. - Va beh. Io torno tra un po'. -

Uscii velocemente dal negozio, sperando di non incrociarla sul marciapiede. Odiavo il fatto che la mia famiglia prendesse le sue difese. Soprattutto sapendo quanto era stata falsa con loro solo nella speranza che mi convincessero a lasciare l'università, iniziare a lavorare e sposarla. Ma purtroppo questo potevo saperlo solo io. 
Iniziai a camminare a passo spedito, con la testa per aria, sentendo la musica uscire dalle cuffie dell'iPod ma non ascoltandola veramente. Respiravo a pieni polmoni l'aria fredda che pungeva, nonostante il pallido sole cercasse di risplendere. Ero a pochi passi da casa e decisi di rientrare. Avrei aspettato un'oretta e poi sarei tornato in negozio, tanto per essere sicuro che Miriam fosse già andata via. 

Aprendo la porta di casa, la trovai stranamente silenziosa. Il sabato pomeriggio mia madre restava da sola in casa e solitamente ne approfittava per stirare cantando o per giocare alla Wii. In entrambi i casi avrebbe dovuto sentirsi la sua presenza, invece rimbombava uno strano silenzio. Il suono della porta chiusa e delle chiavi che appoggiai sul mobiletto dell'entrata, sembrò echeggiare per la stanza. 
- Chi c'è? - Sentii la voce di mia madre, quasi spaventata.
- Sono io, mà. - Mi tolsi il giubbotto ed entrai nel corridoio.
- Come mai sei tornato così presto? - 
Arrivai in cucina, ma non vi trovai nessuno. - Daril aveva appuntamento per un tatuaggio con Miriam e non volevo incontrarla. -
Presi una bottiglia d'acqua per bere. In quel momento mia madre apparì dalla porta della stanza da letto. Indossava la vestaglia sopra il pigiama, i capelli scompigliati e la faccia ansiosa.
- Eri a letto? - Le chiesi guardandola perplesso.
- Sì, mi ero messa a letto. - Si portò una mano alla fronte per poi passarsela sulla testa a cercare di addomesticare la sua chioma. - Non mi sento molto bene. Mi è scoppiato il mal di testa. - Si accarezzò nervosamente la nuca, come ero solito fare io nei momenti di imbarazzo o quando qualcosa mi preoccupava.
- Sicura che è solo mal di testa? - Mi avvicinai a lei e le toccai la tempia. Non era calda, la febbre era da escludere.
- Sì, sì. Sono un po' scombussolata. Sai, cose di donne. - Arrossì. - Ma dov'è Bepi? -
- E' rimasto in negozio a dare una mano a Daril. Io ci torno tra un'oretta, il tempo che Miriam finisce il lavoro e va via. - 
- Ah, capito. - Si sedette su una sedia accanto al tavolo. - Come mai non vuoi vedere Miriam? - Lei lo sapeva, lo sapeva benissimo. Così come sapeva che quando prendeva quel discorso io mi alteravo in men che non si dica.
- Mi sembra logico, mà. - Afferrai un pezzo di pane dalla cesta e lo addentai.
- Ma l'hai lasciata tu. -
- E ancora con questa storia! Smettetela tutti! Saranno fatti miei se non ci stavo bene insieme, o no? - Dissi mentre masticavo.
- Certo è solo che lei non se l'aspettava. -
Deglutii cercando di non strozzarmi. - Non se l'aspettava? Tzè! Solo perché sperava che tu mi convincessi a sposarla. -
- Che male c'è se una ragazza si vuole sposare? -
- Se una ragazza si vuole sposare con uno che non la vuole solo per sistemarsi economicamente, c'è il male mà! - 
- Tu sei sempre stato convinto di questo, ma lei ti voleva bene davvero. -
- Mi voleva bene, mi voleva bene. Ma che ne sapete voi? - Iniziai ad innervosirmi di nuovo. - Dovete farmi un favore. Non parlate più di questa storia. Mai più. Non voglio più sentire nessuno di voi che se la difende come una povera orfanella indifesa. - Addentai nuovamente il panino. - Me ne vado a prendere un po' di aria, che è meglio! - 

Uscii di corsa, quasi dimenticando di infilare il giubbotto e sbattendomi la porta d'entrata alle spalle. Certe volte sembrava che mia madre lo facesse di proposito a farmi incazzare. Ripresi a camminare nel freddo, quando un pensiero mi fulminò. Nemmeno cinque giorni dopo ci sarebbe stata la prova in itinere di Reti e non potevo permettermi di perdere tempo in recriminazioni inutili. Dovevo approfittare di ogni istante libero per iniziare a studiare. Istanti liberi come quell'ora di tempo da passare fuori al freddo, finché non ci fosse stato campo libero.

Tornai così sui miei passi e rientrai a casa. Stavolta, però, a colpirmi non fu il silenzio. Appena aperta la porta sentii la voce di mia madre.
- Ti ho detto che non può sospettare niente. Ho trovato il modo di cacciarlo senza che nemmeno se ne accorgesse. - Che cazzo stava succedendo? Con chi stava parlando? 
Decisi di non farle sapere che ero tornato. Chiusi la porta delicatamente, senza farla scattare. Poggiai le chiavi sul divano. Entrai piano in corridoio e mi accostai alla porta della stanza da letto che aveva un piccolo spiraglio aperto. Vidi il letto sfatto, ma vuoto. A terra una cravatta blu scuro. La riconobbi. Era quella di mio padre. Mi tranquillizzai al pensiero che fosse solo mio padre rientrato dal lavoro per godersi un po' di vita coniugale in pace. Non restai a guardare oltre e distolsi lo sguardo appena in tempo. Li sentii cadere di peso sul letto ed iniziarono i risolini maliziosi. Nonostante mi fossi rassicurato, pensare ai miei genitori nudi che scopavano mi faceva alquanto ribrezzo. Mi diressi silenziosamente ma velocemente in camera, afferrai i miei appunti ed altrettanto velocemente uscii di casa senza farmi sentire mentre il loro amplesso si faceva sentire più forte.

In strada, scoppiai a ridere. Non riuscii a trattenermi. Sembravo un pazzo ubriaco, ma era tanto l'imbarazzo di aver quasi sorpreso i miei genitori a fare sesso, che non riuscivo a trattenermi. Sembrava niente anche dover incontrare Miriam. Infatti, per la prima volta, decisi che non sarebbe cascato il mondo se l'avessi incontrata e salutata civilmente, non facendo caso all'aria da vittima che avrebbe assunto. Mi diressi dritto in negozio. 
- Come mai sei tornato? Vedi che è ancora dentro. -
- Lo so, ma non mi interessa. - Risposi mentre ancora ridevo.
- Che hai da ridere? -
- Ho trovato mamma e papà che scopavano. - Risi più forte. - Dopo questo posso sopportare tutto. -
Continuai a ridere, ma Bepi non rideva affatto. Vidi palesemente la mano tremargli e la guancia pulsargli. Come se stesse per avere un attacco.
- Ehi, hai capito? - Mi avvicinai a lui. Posai gli appunti sul tavolo e gli poggiai la mano sulla spalla. 
- Sì. - Rispose seccamente. Poi si voltò a guardarmi. - Ma mi fa un po' schifo pensarci. - Rise. 
- Bepi, sei nervoso? - Lo fissai serio. 
- No, tranquillo. -
- Non è meglio se prendi il tranquillante? Ho visto che ti tremava la mano. Magari hai dormito male stanotte. -
- Già. Tu russi sempre troppo forte. - Rise di nuovo ed estrasse un tubetto arancione trasparente dalla tasca della giacca. Ne estrasse due pilloline lilla e le ingurgitò, bevendoci su un bel sorso d'acqua dalla bottiglietta che aveva accanto. 
- Va meglio? - 
Lo vidi chiudere gli occhi. Pian piano potei notare i muscoli del suo viso distendersi. - Adesso sì. - Mi sorrise e poi riprese a giocare. 

Mi sedetti accanto a lui ed iniziai a leggere gli appunti che avevo preso a lezione, confrontando con quello che c'era nella piccola dispensa che avevo scovato su Internet. Non ci si capiva molto e le mie speranze di riuscire ad affrontare bene la prova calavano ogni riga di più. 
Passò un'altra ora prima che Miriam e Daril uscissero dalla saletta.
- Mi raccomando. Coperto per quattro ore circa, poi lo sciacqui bene con acqua tiepida e levi le bende. Niente sapone, stai attenta. Più lo puoi tenere all'aria aperta meglio è, ma non farci appoggiare vestiti o cose simili. Olio tre volte al giorno e non ti azzardare a grattartelo. Tra una settimana torna che ti do la crema. -
- Va bene. - Solo dopo che Daril le aveva dato tutte le direttive, posò i suoi grandi occhi azzurri su di me. - Ciao. - Glaciale, ma allo stesso tempo con un velo di voce rotta. Esattamente come me l'aspettavo. Prevedibile, incredibilmente prevedibile. La sentii stranamente come una vittoria, anche se nessuno poteva capirne la falsità oltre me.
- Ciao. - Un sorrisetto bastardo mi affiorò alle labbra. - Ti sei decisa a farti tatuare? -
- Qualcosa per sempre dovrà pur esserci. - Mi disse con aria da piccola fiammiferaia. Solo io potevo notare il veleno che in realtà stava sputando. 
- Ah beh, vedi che anche il tatuaggio se non lo tratti bene può scolorire. - 
La vidi avvampare. Salutò tutti in fretta ed uscì. Ero stato cattivo. Me ne rendevo conto. Ma in quel momento mi sembrò giusto così.

Eravamo tornati a casa alle cinque del mattino. Avevamo passato una delle nostre tranquille serate immersi nelle nostre chiacchiere, al freddo dei gradini della piazza riscaldandoci solo con il tepore che ci scatenava in corpo la birra. Bepi, solitamente il più loquace della compagnia, era stato in silenzio per la maggior parte del tempo e sembrava anche non essere molto interessato ai nostri discorsi. Anche quando avevo raccontato di Meg e di ciò che era successo, non aveva detto quasi nulla. Persino quando nostra madre ci svegliò urlando le solite cose che gridano le madri quando i figli hanno fatto le ore piccole non fece nessuna delle sue lamentele.

- Ehy Bepi, sicuro di stare bene? - Gli chiesi quando dopo il pranzo coi nonni ci rintanammo in camera. 
- Perché? - Il suo tono era aspro, quasi ce l'avesse con me.
- Non lo so, t'ho fatto qualcosa? Da ieri mattina sei strano. Parli a stento e di solito bisogna imbavagliarti per farti stare zitto quando racconto qualcosa perché adori interrompermi. - Ridacchiai sperando di vederlo fare altrettanto. Invece rimase in silenzio a fissarsi i polpastrelli. 
Mi avvicinai a lui che se ne stava seduto a letto col portatile sulle gambe. Gli poggiai una mano sulla spalla. - Sei preoccupato per il ricovero? -
Mi fissò con degli occhi che ricordavo benissimo, quelli del giorno in cui gli fu detto che non avrebbe più potuto muoversi come un tempo, che avrebbe ripreso ad essere autonomo ma mai del tutto come prima. Pieni di dolore e di paura. Occhi che mi avevano fatto improvvisamente diventare il fratello maggiore del mio fratello maggiore. Spostò il portatile sul comodino vuoto e poggiò la sua mano sulla mia continuando a non dire una parola.
- Bepi te l'ho già detto, non succederà niente. Verrò io con te. Starò in clinica con te così non ti terranno un solo istante in più del necessario. -
Un sorriso malinconico gli solcò le labbra.
- Hai paura che vadano male gli esami? Non sarebbe peggio non cambiare la cura se necessario? -
Respirò profondamente gettando uno sguardo verso il soffitto, poi tornò a guardarmi col viso un po' più sereno. - Sicuro che vuoi stare chiuso in clinica con me non si sa per quanto tempo? Non hai un esame da fare? -
- Mercoledì ho una prova. - Dissi abbastanza preoccupato. Il solo pensiero mi metteva l'ansia. - Ma non preoccupati, posso saltarla. -
- Non devi saltarla per me. Posso stare in clinica da solo. -
- Posso stare con te, tornare in città solo per la prova e poi ritornare qui. -
- E quando dovresti studiare? No, non se ne parla. Domani torni in città come avresti fatto. -
- Lascia almeno che ti accompagni io in clinica domani mattina! Partirò domani all'ora di pranzo e arriverò in tempo per la lezione del pomeriggio. -
- Non ti fidi di papà? - Rise.
- Quello è capace di dimenticarselo. -
- O di far finta di dimenticarselo. - Sapevamo entrambi che quelle risate erano tutt'altro che di gioia, ma ridevamo comunque.
- E ora fila a studiare e lasciami al mio dolce far nulla. - Mi disse gesticolando freneticamente con le mani, come il cappellaio matto di Alice. Quello Disney, s'intende!
Mi avviai sorridendo verso la mia scrivania mentre si infilava le cuffie e ripeteva "Santo streaming che tu sia benedetto!". 

Accesi il mio pc, eseguii l'accesso a MSN e scrissi un bello stato auto-incoraggiante. "Reti, ti sconfiggerò". Già, nulla di eccezionale, niente di nuovo o di eclatante. Un tempo mi piaceva scrivere, mettermi lì davanti al foglio bianco e lasciare scorrere attraverso una biro tutte le mie emozioni. Avevo scritto anche un paio di canzoni un tempo, ma chissà dov'erano finite. Ormai non riuscivo più a mettere una parola dietro l'altra. Qualcosa mi era venuta a mancare e non alimentava più la mia ispirazione. Non sapevo cos'era, ma solo che per un motivo a me ignoto era scappata via. 
Mi ero immerso nei miei appunti quando sentii l'odioso trilletto. Qualcuno mi aveva contattato. Decisi di ignorarlo e non guardai nemmeno chi fosse, continuando a leggere. Il trillo suonò nuovamente e ancora dopo poco. Poi divenne un trillo continuo, così mi decidetti a dar ascolto a quella finestrella lampeggiante.

Marco mi aveva contattato chiedendomi come andava e se stessi studiando. Poi aveva aggiunto alla conversazione Andrea, Ludovica e Daniela. Risposi alla conversazione e tra uno scarabocchio e l'altro dei miei fogli d'appunti cercavo di seguire quello che dicevano e di partecipare. Tutti erano in crisi perché credevano di non arrivare a finire il programma della prova. Stavo per salutare tutti, dicendo che dovevo proprio concentrarmi a studiare, quando Ludovica invitò nella conversazione Meg. 
Indeciso se tornare a studiare o meno, continuavo a guardare la stupenda foto del profilo che la ritraeva con un enorme sorriso che le faceva strizzare gli occhi. I ricci erano in parte tirati verso la nuca, lasciando il suo viso dolcissimo in bella mostra, ma la maggior parte le ricadeva in morbidi ricci sulle spalle che la maglietta estiva lasciava scoperte. La pelle fatta color del miele dall'abbronzatura estiva sembrava quasi brillare. La fissavo incantato continuando a chiedermi se era troppo presto per inviarle la richiesta di entrare nella mia lista contatti, dato che era l'unica che ancora non avevo avuto il coraggio di aggiungere su MSN. 

Mi ero convinto a lasciare perdere ed uscire comunque dalla conversazione per il bene del mio studio. Salutai tutti, ma appena chiusa la finestrella se ne aprì un'altra. Meg mi aveva aggiunto alla lista dei contatti. Accettai la sua richiesta e dopo poco mi contattò nuovamente, ma in privato. 
"Scusa se ti disturbo, so che stai studiando e dovrei farlo anch'io, ma ho una cosa che magari ti può interessare."
"Non mi disturbi, tranquilla. Non avevo ancora ripreso."
Immediatamente mi arrivò l'invio per la condivisione di un file. 
"Cos'è?" Chiesi incuriosito mentre accettavo l'invito. 
Meg non mi rispose. Guardai la barra di download avanzare ed infine potei aprire il file. Era un pdf con dentro uno studiatissimo riassunto delle lezioni di Reti che si erano tenute fino ad allora con tanto di figure riprodotte e qualche esempio di esercizio.
"Oddio, Meg. Ma sono tuoi?"
"Spero che ti possano essere utili. So che non hai molto tempo per studiare perciò magari avere un buon materiale ti può aiutare. Poi magari tu hai preso appunti centomila volte migliori e nemmeno ti servono, ma io per sì o per no volevo farteli avere."
"Mi saranno utili? Mi salveranno il culo!" Mi lasciai andare ad un'espressione colorita che probabilmente non avrei mai usato parlandole dal vivo, ma rendendomene conto solo dopo averla inviata.
Lei rise e poi mi salutò augurandomi un buono studio. 

Ero su di giri. 
Meg di sua spontanea volontà mi aveva aggiunto. 
Meg di sua spontanea volontà mi aveva contattato.
Med di sua spontanea volontà mi aveva dato i suoi preziosi appunti preoccupata che non arrivassi a studiare.
Mi convinsi ancora di più che era un angelo, il mio angelo. E prima o poi anche lei l'avrebbe saputo. Già il fatto che non fossi più un fantasma per lei mi gratificava. Adesso, addirittura, sembravamo avviarci verso un rapporto più stretto. Certo non credevo minimamente che lei avrebbe potuto mai provarci con me, ma di sicuro almeno come amico non le ero indifferente. E a me per il momento bastava, me lo facevo bastare. 
Stampai il file che mi aveva mandato e iniziai a studiarci sopra. Leggere quelle parole fu come accendere una luce dopo aver brancolato nel buio per giorni. I concetti erano spiegati in modo chiaro e conciso, usando un linguaggio semplice ma allo stesso tempo tecnico. Erano perfetti e quel pomeriggio riuscii a portami avanti un bel po' di lavoro. 

Erano circa le 18 quando decisi di staccare e andare a prendere un po' d'aria con Bepi. Andai in cucina lasciando mio fratello in camera libero di vestirsi da solo. Trovai mia madre seduta a tavola intenta a guardare un programma di cucina, mentre mio padre sul divano sonnecchiava facendo finta di leggere il solito giornale. Quando mi vide entrare in cucina scattò in piedi quasi fosse stato morso da una tarantola. Mi osservò mentre aprivo il figro e ne tiravo fuori un'arancia bella tonda. Mentre la sbucciavo iniziò a parlarmi con un tono a metà tra il mieloso e il malaticcio.
- Cristiano quand'è che tu dovresti partire? -
- Cris, papà! Cris! Perché inisisti a chiamarmi Cristiano? Ormai anche il nonno mi chiama Cris. -
- Sulla tua carta d'identità c'è scritto Cristiano. Quando ci sarà scritto Cris ti chiamerò in quel modo. - Disse alzando la voce irritato, tradendo la sua fin troppo conosciuta messa in scena dell'uomo affaticato dai mille impegni della vita. Tossicchiò e si ricalò nella parte. - Allora, quando dovresti partire? -
- Dovresti saperlo. Da più di un anno parto sempre il lunedì alle sei meno un quarto. - Non sapeva che avevo già deciso di rimandare la partenza per accompagnare Bepi in ospedale. Volevo vedere cosa si sarebbe inventato per farmelo fare.
- No, perché sai, mi chiedevo... Siccome tuo fratello dovrebbe sbrigare quella cosa del ricovero... Sai, mamma non guida... Io non posso assentarmi da lavoro proprio domani. Arrivano degli importanti agenti dal nord. E poi, non mi sento nemmeno molto bene. Già da qualche giorno ho un senso d'influenza addosso. Forse domani avrò la febbre. Anzi forse ce l'ho adesso. Prendo il termometro. - 
Fece per andare verso il mobiletto medico, ma lo bloccai. - Pà non ti preoccupare. Lo porto io Bepi in ospedale. Parto a pranzo. - Presi la mia arancia sbucciata e tornai in camera. 

Ormai mi ci sarei dovuto abituare, ma non riuscivo a farlo. Ogni volta che si tirava indietro così spudoratamente, inventando le scuse più assurde, solo per rinnegare di avere un figlio malato d'epilessia la voglia di tornare quello di un tempo, che spaccava nasi con la quotidianità con cui ci si lavano i denti, mi invadeva. Il pensiero che non si facesse problemi a comportarsi così anche davanti a lui, facendolo sentire in colpa, mi distruggeva. In colpa di cosa poi? Di un brutto scherzo della genetica? Era mio padre, ma riusciva a farmi schifo.

Entrato in camera trovai mio fratello già preparato, così mi infilai le scarpe da tennis e una felpa un po' più pesante e lo portai fuori da quella casa.

La clinica Fenner era un posto familiare, ormai. Quel grande palazzo orribilmente vecchio esternamente e che all'interno si rivelava, invece, ben ristrutturata e accogliente. Le pareti della hall tinte in parte di un lieve rosa pesca e in parte di bianco, facevano risaltare il verde delle piante che la adornavano. Non era una clinica psichiatrica: mio fratello non era pazzo. Era una clinica neurologica ed il Professor Alderigo Fenner che l'aveva fatta nascere era il miglior neurologo esistente. Aveva preso a cuore il caso di mio fatello, anche se credo che fosse più attirato dalla possibilità di fare ricerche su di lui per scoprire qualcosa di più sull'epilessia per poterci ricavare un bel po' di soldi. Il dottor Giannusi era la sua punta di diamante e lo aveva quasi costretto a seguire Bepi, sperando che riuscisse a tirar fuori qualcosa di interessante. In realtà a me Giannusi non sembrava proprio il gran dottorone di cui tutti decantavano le lodi, ma forse era solo quella strana sensazione che mi trasmetteva a pelle a non farmi notare la sua bravura. 

Erano le nove in punto quando Giannusi varcò la soglia della hall stretto nel suo lungo cappotto. 
- Siete già qui? - Ci salutò con un gran sorriso. Dovevo ammettere che era un uomo con un certo fascino. Si notava principalmente da come l'infermiera dell'accettazione lo fissava ogni volta come un angelo in terra. Doveva essere il capello brizzolato o forse quei grandi occhi azzurri che spiccavano sulla carnagione non troppo chiara.
Ci fece cenno di seguirlo nello studio. Lo trovammo immerso nel solito ordine maniacale. Spostai una delle due sedie vicino alla scrivania e avvicinai mio fratello con la sedia a rotelle. Io mi sedetti sull'altra. 
- Mi fa piacere che tu abbia acconsentito al ricovero, Bepi. Tua madre mi ha detto che inizialmente non volevi accettare. - Ci disse con la sua voce profonda, mentre si toglieva il cappotto per sostituirlo con il camice bianco.
- Non sono molto favorevole nemmeno adesso. - 
- Come mai? Non ti sei trovato bene le altre volte qui da noi? - Si infilò il tesserino e si sedette alla scrivania. 
Sotto il camice aveva una camicia azzurra ed un maglioncino grigio perla. La cravatta era di un blu scuro intenso. Mi soffermai ad osservarla mentre lui discuteva pacificamente con Bepi sui motivi e la durata del ricovero. Ero come ipnotizzato dalle piccole pagliuzze argentate che brillavano alla luce del sole che entrava dalla finestra. Le fissavo quasi incantato, senza capirne realmente il motivo. Non ero tipo a cui piacevano le cravatte così tanto da sentire il bisogno impellente di fissarle. Eppure sentivo che quella cravatta meritava il mio sguardo.

Riuscii a spezzare l'incantesimo solo quando la vidi muovere, accorgendomi che Giannusi si era alzato dalla sua sedia. Lo osservai piegarsi sull'interfono a parlare con l'infermiera che ci aveva accolti. - Melissa, per favore, mandami qualcuno. Abbiamo il ricovero Liotta. - Poi tornò a rivolgersi a noi. - Tra poco arriveranno e ti porteranno in stanza. Inizieremo subito con i controlli. Cerchiamo di fare tutto in due giorni, ok? - 
Bepi annuì, ma vedevo chiaramente che qualcosa non andava. Il cellulare di Giannusi ricevette una chiamata. Lui uscì a rispondere ed io approfittai per parlare con Bepi.
- Che c'è che non ti convince? - Gli chiesi sfiorandogli la gamba. 
- Lui. - Lo disse freddamente, fissando la porta chiusa.
- Sai come la penso su di lui, ma dobbiamo fidarci. -
- Non parlo di lui come medico. Quello lo sa fare per fortuna. -
- E di cosa parli? -
Si voltò a fissarmi. Lo sguardo in fiamme. - Parlo di quello che è. Dell'uomo che è. -
- Come fai a sapere che uomo è? - Chiesi perplesso. - Hai tutta questa confidenza con lui? -
Esaminò il mio sguardo, poi un piccolo sorriso storto e sarcastico apparve sulle sue labbra. - So più di quanto vorrei, te lo giuro questo. - Si voltò a guardare nuovamente la porta, mentre cercavo di decifrare quello che aveva detto. - Entrerà dalla porta e dirà che deve lasciarci per una chiamata urgente. Poi andrà via. - 
- Sei diventato un veggente? -
- Conosco i miei polli. Stai a guardare e mi saprai dire. -
La porta si riaprì dopo qualche istante. Giannusi entrò dirigendosi verso il suo cappotto. - Ragazzi mi dispiace immensamente, ma ho ricevuto una chiamata urgente e devo proprio scappare. - Vidi lo sguardo divertito di Bepi che mi fissava. - L'infermiera, comunque, sta arrivando. Vi accompagnerà in stanza. Cris, tu ovviamente puoi restare quanto vuoi. Anzi, una compagnia per tuo fratello non sarebbe male affatto. -
Mi limitai ad acconsentire con un cenno del capo, troppo confuso per realizzare qualche frase. Lo vidi afferrare il cappotto, salutarci ancora scusandosi ed uscire.

- Come hai fatto? - Chiesi stupito a Bepi.
- Te l'ho detto. Conosco i miei polli. -
- Cos'è questa storia Bepi? -
Rise in modo isterico. - Vuoi davvero saperlo? Non credo. Io lo so e vorrei dimenticarlo. -
Continuai a fissarlo serio, preoccupato da quanto mi aveva detto. Istintivamente tornai a rivedere nella mia mente quella sua cravatta blu. 
- Cris, ascoltami. - Mi afferrò per il giubbotto e mi attirò verso di sè, iniziando a parlare ad un volume più basso. - Non restare qui ad aspettare con me. Lascia il mio borsone sul pavimento, lo farò portare io dall'infermiera. -
- Dove dovrei andare? -
- A casa. -
- Perché? - Per un momento ebbi paura di dirlo. 
Mi lasciò andare e tornò a ridere. - Devi ancora finire la valigia, lo so. Oggi pomeriggio hai lezione e non la puoi saltare perciò devi sbrigarti a finirla. Se resti qui perderai un sacco di tempo e rischi di perdere perfino l'autobus. -
- Esagerato! Resto qui, tranquillo. -
- Cris, vai a casa. -

In quel momento varcò la soglia una bellissima ragazza vestita di lilla. Aveva un fisico longilineo e la divisa da infermiera non riusciva a nascondere il suo bel seno prosperoso. I lunghi capelli neri erano racchiusi in una coda alta che lasciava totalmente scoperto il viso allungato dai lineamenti delicati su cui dominavano grandi occhi scuri coperti da dei piccoli occhiali dalla montatura trasparente. Il piccolo naso alla francese era costellato, così come la pelle bianca delle guancie, da leggere lentiggini. 
- Ciao Bepi. - Disse sorridendo, con una voce incredibilmente sensuale.
- Ciao Diana. - Il viso di mio fratello sembrò illuminarsi.
- E tu chi sei? - Disse rivolgendosi a me. 
- Sono Cris. Suo fratello. - Dissi porgendole la mano. 
La afferrò stringendola in modo deciso, rivelando una forza che nessuno attribuirebbe alle sue esili braccia. Poi si diresse alle spalle di mio fratello ed iniziò a spingere la sua sedia. La seguii prendendo sulla spalla il borsone. Vedendola ondeggiare così sicura di sè tra quei corridoi, forte di un mestiere non facile, sexy senza cadere nel volgare, capii perché mio fratello voleva essere lasciato da solo. Sorrisi tra me pensando che si fosse preso una cotta per lei. Cotta che probabilmente era ricambiata per quanto avevo potuto notare. Non me ne aveva mai parlato e questa gliel'avrei fatta pagare. Ma in quel momento il mio dovere era sparire. 

Arrivati nella stanza che avrebbe occupato, poggiai il borsone sul letto e sistemai velocemente tutto il necessario. Diana ci lasciò soli qualche minuto, per controllare gli altri pazienti. 
- Perché non mi hai detto che volevi restare solo con l'infermiera? -
Bepi rise di nuovo, senza rispondermi. 
- Dobbiamo iniziare subito con gli esami. Sei pronto? - Disse la bella Diana, tornando da noi con in mano la cartella di mio fratello. 
- Io vado, allora. Mamma e papà verranno stasera. - Salutai mio fratello con la nostra solita stretta da bambini e mi allontanai.

L'aria era terribilmente fredda, ma fortunatamente il cielo era comunque sereno. Posteggiai la macchina di fronte casa che erano quasi le undici. Entrai in casa con in mente un unico scopo: completare la valigia nel minor tempo possibile, mangiare qualcosa al volo e precipitarmi alla stazione. Non volevo perdere l'autobus delle dodici, altrimenti avrei saltato la lezione di Reti e con l'imminente prova in itinere era davvero l'ultima cosa che potevo permettermi. Non avevo preventivato, però, quello che sarebbe successo. 

Di nuovo uno strano silenzio assordante aveva avvolto la casa interrotto solo da strani fruscii. Mi diressi in camera mia, aguzzando le orecchie e cercando di non fare rumore. Poi la vidi. La cravatta blu e le sue pagliuzze argentate brillavano. Era poggiata accanto ad un cappotto scuro sul divano avana della cucina che riuscivo a vedere grazie alla porta lasciata aperta. 
Cambiai allora direzione, precipitandomi in cucina. Nessuna immagine mi ha più sconvolto così tanto. Mia madre, seduta sul tavolo. Tra le sue gambe Francesco Giannusi. Non erano nudi, non del tutto almeno. Il dottore aveva gettato il maglioncino grigio perla sul piano cottura e la sua camicia azzurra era adesso completamente aperta. Mia madre esponeva il suo abbondante seno da mamma nel solito reggiseno di pizzo nero che avevo visto milioni di volte. La sua felpa blu era volata accanto alla TV. Possedeva avidamente la sua bocca, sorreggendole la schiena con braccio, mentre con l'altra mano le carezzava il collo. Entrambi tenevano gli occhi chiusi. Non si erano accorti di me. Ed io non riuscivo a farmi notare. Ero pietrificato. L'unica cosa che mi veniva in mente era vomitare anche l'anima lì, mentre mia madre si dava alla passione con un altro.

Le chiavi mi scivolarono via dalle dita, richiamando l'attenzione dei due amanti. 
- Cris! Oddio! - Mia madre spinse via il dottor Giannusi cercando di coprirsi con le braccia. 
Continuavo a fissarla senza riuscire a trovare la forza per pronunciare parola. 
- Cris, io... io posso spiegarti. - Scese dal tavolo e andò a raccogliere la propria felpa per indossarla velocemente, mentre un imbarazzato e silenzioso Giannusi riabbottonava la camicia. 
Le tremava la voce, almeno quanto le labbra, mentre mi chiedeva di non tratte conclusioni affrettate. 
- Cris, ascoltala. - Furono le uniche parole che pronunciò il dottore. E furono la scintilla che risvegliò il vecchio me. 
Continuando a restare in silenzio, lo afferrai per le braccia ed in un attimo lo scaraventai a terra bloccandolo con un piede sul petto. 
- No, Cris! Fermo! - La voce di mia madre mi arrivava alle orecchie, ma non riuscivo davvero a sentirla. A fermarmi non fu lei. Fu l'immagine di Meg pestata a sangue da Jeff. La rividi stesa sul divano di Naki, fradicia di pioggia e sporca di fango e sangue. 
Respirai profondamente. Tolsi il piede e lo aiutai ad alzarsi. Poi gli intimai di sparire.

Vagavo per la cucina come un leone in gabbia, evitando anche di guardarla. Lei stava seduta sul divano, con le gambe portate al petto. Chiusa a riccio continuava a piangere singhiozzando. 
Mi fermai, infine, ad osservarla. Portai una sedia esattamente davanti a lei e anch'io mi misi a sedere. Le gambe divaricate, i gomiti poggiati alle ginocchia, le mani tra i capelli.
- Da quanto va avanti questa storia? - Le chiesi fissando il pavimento.
- Circa un mese. - Farfugliò tra le lacrime. 
Non resistetti e mi alzai di nuovo, avvicinandomi al muro. Picchiai duro il pugno sul cemento e l'intonaco di un arancio delicato quasi cedette sotto il colpo. Poi tornai a sedermi. La fissai e per un attimo mi sembrò di avere di fronte a me un cucciolo abbandonato e disperso. 
- Perché? -
- Cris, cosa posso dirti? -
- Il motivo. Cosa ti abbiamo fatto di male per farci questo? -
Il suo sguardo si trasformò. Capii cosa passava nella sua mente in quel momento ed in un attimo fui io quello che si vergognava. Mi vergognai di aver detto una cosa simile, perché in fondo sapevo già qual era il motivo. La vidi asciugarsi le lacrime e cercare di ridarsi contegno.
- Credi che lo abbia fatto per farvi del male? -
- No, mamma. Scusa. Non volevo dire questo. -
- Sai cosa significa per una donna ritrovarsi da sola pur essendo sposata? Sai cosa significa che tuo marito non ti cerca più per nessuno motivo e preferisce guardare i porno di nascosto in ufficio? Il mio unico sostegno eri tu, ma adesso non ci sei più in casa. E non te ne faccio una colpa, perché non è il tuo ruolo. Tu sei diventato grande prima del tempo. Per Bepi sei diventato un fratello maggiore e non un fratello minore. Sei diventato un padre. Ma non puoi e non devi diventare per me un marito. Francesco è l'unica persona oltre te che mi da sostegno. Nessuno dei due voleva che succedesse una cosa del genere. All'inizio parlavamo soltanto. Parlavamo per ore. Mi ascoltava, mi consigliava. Era come se fosse un'amica, una delle tante che per colpa di tuo padre non ho più potuto frequentare. Poi, però... Sai come vanno certe cose tra uomini e donne. Hai già una certa età e non credo di dover essere io a spiegartele. Forse, però, per un figlio, la mamma è solo la mamma. Ma io sono una donna e ho i miei bisogni. -
- Mamma ti prego smettila! - Le intimai, ma con dolcezza. Lei tacque. Le lacrime avevano iniziato nuovamente ad inondarle il viso. - Non giustificarti più. So quanto è difficile per te. Non giustifica il tradimento. Avrei preferito che avessi lasciato papà. Noi ti avremmo sicuramente seguito. -
- Non posso! Mi sento uno schifo a dirlo così, ma ho bisogno dei soldi di tuo padre. Non per me, ma per Bepi, per le sue cure. -
La fissai dolcemente, sorridendole. Mi avvicinai a lei e le carezzai la nuca. - Tu resterai sempre mia madre. -
- No. Io sarò sempre la tua mamma. - Si gettò tra le mie braccia e riprese a piangere.

- Ma dove te ne sei scomparso oggi? - La chiamata di Naki era arrivata imprevista, mentre accompagnavo mia madre a far visita a Bepi quel pomeriggio. Come prevedibile mio padre aveva accampato ancora scuse per non venire con noi. 
- Ho avuto un imprevisto e non sono potuto partire. Tranquilla, sono vivo. -
- Qualcosa di grave? -
- Ti ho detto di stare tranquilla o mi sbaglio? -
- Sì, ma cosa è successo? -
- Ricordi che ti ho raccontato di mio fratello? Il dottore ha voluto degli accertamenti quindi lo ha fatto ricoverare, perciò ho dovuto accompagnarlo. -
- Non poteva farlo tuo padre? -
- Già, mio padre... - Dissi in tono sarcastico, poi feci cadere la domanda nel nulla. - Che avete fatto oggi a Fisica? - 
- Ha spiegato qualcosa, ma se mi chiedi cosa credo di non sapertelo dire! - 
- Andiamo bene. - Ridacchiai.
- Che ti ridi tu? Tanto hai la super secchiona che ti fornisce gli appunti. -
- Meg non è una super secchiona. -
- Io parlavo di Terry in realtà. Qualcuno qui per caso ha il pesiero fisso? -
- No, scema. - Mi aveva beccato. Cambiai nuovamente argomento. - Brendon come sta? -
- Bene. Da sabato abbiamo iniziato con gli omogeneizzati. Era anche ora, direi! Tra poco compirà sette mesi e ancora la pediatra insisteva a tenerlo solo con il mio latte, un po' di aggiunta e la frutta. Non ti dico che macello combina! Però sembra che gli piacciano. -
- Sarà una buona forchetta da grande. -
- Come suo padre. - Nel dirlo la sua voce tremò un istante. 
- Sta dormendo? -
- No, sta distruggendo il salotto. -
Risi nell'immaginare quel piccolo terremoto che col girello si divertiva a curiosare. - Va bene Naki. Noi ci vediamo domani, io ora devo chiudere. -
- Va bene. Ci vediamo domani. - 
Terminai la chiamata e mi sfilai l'auricolare. 

- Chi era? La tua ragazza? - Mi domandò timida mia madre mentre posteggiavo l'auto. 
- No, è solo una collega che sto aiutando in questo periodo. -
Mi sorrise scendendo dall'auto. - E ti piace? -
- No, mà. -
- Puoi dirmelo. Non ci sono problemi. -
Ridacchiai, ma non le risposi. Non potevo spiegarle la situazione abastanza complicata in pochi minuti.

- Da quando lo sai? - Chiese mia madre a Bepi.
Gli aveva confessato quello che era successo e lui le aveva confermato, come già avevo sospettato, di essere già a conoscenza di tutto.
- Non da molto. Da Venerdì. -
- E come... -
- Vi ho visti che vi baciavate mentre mi rivestivo dietro il separè. -
Lei avvampò dall'imbarazzo. 
- Certo che un po' di discrezione... - Mi sfuggì senza riflettere.
- Lo so. - Ammise
- Cosa dobbiamo fare adesso? - Chiese Bepi.
- Non lo so. - Stava per ricominciare a piangere. 
- Non è una bella situazione e se me lo chiederanno negherò di averlo detto, ma la mamma deve decidere cosa vuole fare da sola. Noi non dobbiamo intrometterci. -
- Ma... - Cercò di obiettare, ma lo bloccai. 
- No, Bepi. La mamma ha trovato qualcuno che la sostiene, finalmente, e tu sai meglio di tutti noi quanto poco meriti nostro padre. -
- Quello lo so bene. - Disse amaramente. - Ma perché non potrebbe lasciarlo? -
- Se lei lo lasciasse, lui troverebbe la scusa definitiva per non curarsi più di noi, di te. Invece deve farlo. Quello che non ci ha mai dato in affetto, ce lo prenderemo in utilità. Non credi che ce lo meritiamo? -
- Questo discorso non mi piace per niente. -
- Non piace neanche a me. Ma io ho preso la mia decisione. Mamma potrà fare quello che vuole per me. Che rompa questa relazione o meno, non mi interessa. Tu fai la tua. -
Bepi fissò gli occhi in quelli di mamma, enormemente verdi proprio come i nostri, e ormai nuovamente inondati di lacrime. Le afferrò il braccio e la tirò verso di sè. La abbracciò stretta mentre si lasciava definitivamente andare ai singhiozzi. - Ti voglio bene mamma. - 
- Anche io cucciolo mio, anche io. -

Avevo deciso di partire, ormai, l'indomani. Il resto del pomeriggio lo dedicai a studiare. Immerso negli appunti che mi aveva fornito Meg, quasi dimenticai come in un solo giorno la mia vita era cambiata. Sì, in fondo non sarebbe cambiato nulla in senso pratico. Mia madre sarebbe stata sempre lì per noi e mio padre avrebbe continuato a non esserci. Ma la cosa mi aveva comunque scosso più di quanto cercavo di dare a vedere. 

Cenai con i miei, immersi nel solito gelo che ci accompagnava, e poi mi chiusi in camera. Avevo finito di studiare tutti gli appunti a mia disposizione, ma non ricordavo quasi nulla. Avevo deciso che l'indomani avrei studiato tutto il giorno, saltando anche la lezione di Sistemi per avere più tempo. Dovevo assolutamente passare quella prova in itinere. 

Appena presi il pc, fui contattato da Marco che mi aggiunse in un'altra conversazione multipla dove erano presenti Terry, Daniela, Andrea, Ludo e Meg. Mi chiesero come mai non fossi tornato e spiegai molto vagamente che avevo avuto degli impegni con la mia famiglia. Poi tutti ci concentrammo sulla prova di Reti che ci attendeva. Quando la conversazione degenerò in una depressione collettiva, venne trasformata in un cazzeggio totale da Meg e Ludo che iniziarono a postare video di canzoni alquanto oscene. 
Con l'avanzare del tempo, pian piano tutti abbandonarono la conversazione per andare a letto. Restammo solo io e Meg. Mi ero deciso a salutarla e andare a letto anch'io visto che mi sarei dovuto svegliare solo quattro ore dopo, alle cinque del mattino. Ma lei mi bloccò. 
"Gli appunti ti sono utili?"
"Ma certo. Senza quelli non so a che punto sarei ancora! A proposito... grazie ancora."
"E di cosa? Mi fa piacere aiutare un amico."
"Siamo amici adesso, allora?"
"Dopo quello che hai fatto per me, hai il coraggio di chiedermelo?"
"Di cosa parli?"
"Non fare il finto tonto. Mica ho dimenticato quello che è successo!" 
Non avevamo mai parlato di quella sera da soli. "Non devi ringraziarmi per nulla."
"Cris, davvero. Tu e Naki siete stati speciali. E anche Daniele, povero. Si è preoccupato tanto anche lui."
"L'importante è che tu stia bene."
"Sto bene."
"E che starai bene anche in futuro."
"Lo spero."
Per qualche minuto nessuno dei due parlò.
"L'ho lasciato."
Feci finta di non saperne nulla. "Sul serio?"
"In che senso?"
"Definitivamente?"
"Sì, credo di sì."
"Meg, io non voglio immischiarmi. Sono l'ultimo arrivato per te e non ho il diritto di decidere per te. Ma voglio solo ricordarti che ti ha fatto rischiare la vita e che potrebbe rifarlo."
"Ma lui non voleva farlo. L'ho fatto arrabbiare, l'ho fatto ingelosire. Lui è un tipo geloso."
"Stai dicendo che te la sei cercata?" La rabbia stava iniziando ad invadermi. Non potevo sentirla parlare in quel modo.
"Non dico proprio questo, però..." Lasciò la frase in sospeso. "So che tutti lo considerate un mascalzone e non posso farvene un torno, ma io lo conosco da tanto tempo e so come è dentro."
"Spero che farai la scelta giusta." Restai sul vago e trovai una scusa per chiudere in fretta la conversazione. 

Ultimai la borsa e mi misi a letto, preparandomi a una notte insonne, ad un viaggio scomodo e ad una giornata dedicata al ripasso. Presi il telefono e scrissi un messaggio per Ludovica. Le dicevo che avevo ragione ad aver paura, che Meg stava ricadendo in trappola e si stava spingendo da sola verso la forca. Poi cancellai tutto. Non mi sembrò il caso di non far dormire neanche lei. Posai il cellulare sul comodino e resti a fissare il soffitto.

Appena arrivato in casa, dopo un viaggio di due ore seguito a una notte senza sonno, caddi addormentato sul letto. A nulla servirono i buoni propositi di prepararmi per la prova. Dormii quasi fino a mezzogiorno, quando mi arrivò una chiamata da Daniela. 
- Ma non dovevi venire stamattina a lezione? -
- Sì, ma ho deciso di restare a casa a studiare per domani. - Dissi cercando di nascondere la sonnolenza della mia voce.
- Capito. Se vuoi, noi stiamo organizzando un mega ripasso di gruppo questo pomeriggio. -
- Grazie, ma sono troppo indietro. Preferisco studiare da solo. Magari un'altra volta. -
- Come vuoi. Ci vediamo allora. -
- Ciao. -
Appena posai il telefono, mi alzai stiracchiandomi. Andai in cucina e mi preparai un caffè. La casa immersa nel silenzio era proprio quello che mi serviva. Tornai in camera e mi immersi tra i libri.

Erano le quattro di pomeriggio quando il mio stomaco mi implorò di mandargli qualcosa da digerire. Mi recai nuovamente in cucina e mi preparai un paio di piadine. Mentre le cucinavo, il cellulare suonò nuovamente. 
- Ehi, secchione. Sei chiuso in casa a studiare per domani? -
- Ciao Naki. Sì, sto provando a prepararmi per domani. Ma non la vedo molto positiva come cosa. -
- Dai che non è poi così tragica. Una prova in itinere si recupera se va male. -
- Ma io non voglio recuperarla. Voglio passarla. -
- Lo so. Era solo una supposizione pessimistica. Comunque, dai. Ti lascio studiare. Io tra poco esco con Brendon. Daniele ci accompagna al nuovo centro commerciale che hanno aperto. -
- Salutameli allora. - Sorrisi. In cuore mio feci un in bocca al lupo a Daniele.
- Certamente. -
- Ci vediamo domani. -
- Sicuro che domani mattina non vuoi stare a casa a ripassare ancora? -
- Non lo so. Me la devo pensare. Ma comunque ci vediamo di pomeriggio. -
- Va bene. Ciao, ciao. -
- Ciao Naki. -

Mi sbrigai a togliere dal fuoco l'ultima piadina che rischiava di bruciarsi. Le mangiai mentre erano ancora fumanti. Avevo troppa fame per aspettare che si raffreddassero ed inoltre potevo approfittarne per riscaldarmi un poco. Quelle quattro mura sembrava quasi che non esistessero per la quantità di aria fredda che riuscivano a far passare. 
Tornato in camera mi avvolsi nella coperta, accesi la luce della scrivania perché ormai si era fatto buio e mi rimisi a studiare. 

Dopo poco, un trillo proveniente dal computer mi fece intendere che qualcuno mi aveva cercato su msn. Avvicinai il computer e vidi che era stata Ludovica. 
"Cris, devo dirti una cosa che non ti piacerà."
Vedendo che non le rispondevo, scrisse ancora.
"Quando fai una pausa contattami."
La cosa mi preoccupò. Fui tentato di rimandare la risposta, ma ero sicuro che non avrei potuto studiare molto con quel tarlo in testa, così risposi.
"Sono qui. Cosa devi dirmi?"
"Si tratta di Meg."
Ebbi uno strano sentore e pregai di sbagliarmi. "Cosa è successo? Sta bene?"
"Non per molto, purtoppo."
"Ludo, parla!"
Per qualche secondo non rispose, poi arrivò la doccia fredda che mi aspettavo. "Meg ha richiamato Jeff. Sono tornati insieme."
Tombola. Esattamente come avevo sospettato. Le parole che Meg la sera prima mi aveva detto mi frullavano ancora in testa. Erano un campanello di allarme. Forse se avessi detto subito a Ludovica quello che era successo, non sarebbe accaduto. No, sarebbe accaduto lo stesso perché Meg voleva farlo riaccadere. In quel momento la visulizzai come una suicida. Sapeva di andarsi a far male, ne era cosciente. Mentiva a sè stessa per negarlo. Forse per paura di rimanere da sola o per qualche altro strano motivo che io non potevo conoscere. Una sorta di sindrome di Stoccolma.
Dopo tutto, cosa potevo saperne io di cosa succedeva nella mente di una ragazza che aveva subito abusi dal padre ed era cresciuta poi in una casa famiglia? Non riuscivo a comprendere cosa succedesse nella mia, che solo un giorno prima avevo scoperto mia madre ed il suo amante, e avrei potuto comprendere lei?
"Ci sei ancora?" Mi chiese Ludovica, vedendo che non le rispondevo.
"Sì, stavo pensando a quello che mi hai detto."
"Sconvolgente, vero?"
"Credo che io lo sospettassi già."
"Me lo hai detto subito."
"Ma ieri ne ho avuto un indizio ancora più forte. Ha iniziato a dirmi che era stata lei a farlo arrabbiare quella sera che l'ha picchiata, che lui non era così. Cose di questo genere."
"Cris, io non so più che fare. Non so se continuare ancora a cercare di salvarla. In fondo, si sta andando ad inforcare con le sue stesse mani."
"Meg non è lucida, secondo me. C'è qualche meccanismo in lei che la porta a cercarlo. Dobbiamo sconfiggerlo."
"Non è una bambina a cui puoi comandare di non fare le cose."
"Vorrei che fosse così semplice. Ma lei a quanto mi hai detto è cresciuta in un modo non facile e forse nella sua mente quella è una protezione."
"Non lo so più. Forse è lei che lo vuole."
"Non dire cretinate. Così dai ragione a quello che dice, che se le cerca lei le botte. Sai che non è così. Sai che non deve essere così."
"Lo so. Ma aveva trovato la forza di lasciarlo."
"Forse lo stress della prova l'ha fatta sentire di nuovo fragile e ha cercato la sua protezione."
"Non lo so. So solo che ho paura."
"Ce l'abbiamo fatta una volta, ce la faremo di nuovo."
"Non possiamo aspettare di nuovo che la massacri. Stavolta potrebbe non uscirne viva."
"Non aspetteremo."
"Ti lascio studiare, se ci riesci adesso. Mi dispiace averti dato questa notizia."
"Hai fatto bene, invece. Tranquilla, in qualche modo farò. Pensa anche tu a fare qualcosa."
"Sì. Ciao Cris."
"Ciao Ludo."

Quasi istintivamente andai a vedere il profilo Facebook di Meg. Sulla bacheca nulla indicava il ricominciare della sua relazione con Jeff. Ma sapere che il cambiamento, anche se non pubblico, era avvenuto mi fece montare la rabbia. Spensi il computer e lo poggiai sul comodino. Così facendo lo salvai dalla furia che si sfogò subito dopo. La scrivania ricolma di appunti e altra roba sparsa, fu l'oggetto della mia rabbia. Gettai tutto in terra, picchiando forte i pugni sulla superficie bianca. Tentai di soffocare i miei urli, mordendomi le labbra. Poi un fulmine mi colpì la mente. Le parole di Naki. Aveva ragione. In quei pochi giorni avevo avuto una piccola speranza che Meg non fosse indifferente a me. Io, invece, ero sempre più invaghito di lei. La soluzione era sempre la stessa. Cercare di conquistarla per strapparla dalle grinfie di quel mostro. 

Mi rituffai negli appunti, ma come previsto non riuscivo a concentrarmi su niente che non fosse qualcosa da poter fare per conquistarla. No, non andava per niente bene. Se avessi continuato in quel modo avrei finito per provarci in modo troppo spacciato e l'unico risultato sarebbe stato farla scappare. No, dovevo continuare a restare calmo e far venire le cose con i loro tempi ed i loro modi. Come era successo nei giorni precedenti. Decisi che dovevo schiarirmi la mente così mi andai a chiudere in doccia, lasciando che l'acqua calda e il vapore ripulissero il mio animo agitato. 

Chiamai Naki. Mi disse che erano già tornati a casa e si stavano preparando per cenare insieme. Mi resi conto che accettare il suo invito avrebbe significato farmi odiare da Daniele, perciò, nonostante l'avessi chiamata per cercare compagnia, rifiutai tutte le volte che mi chiese di raggiungerli. 

Chiamai allora Bepi. Gli accertamenti procedevano e gli avevano confermato che sarebbe uscito l'indomani. In più, grazie alla compagnia di Diana, non aveva sofferto per niente di essere rinchiuso tra quelle mura. 
- Credo che se ci fosse lei con te, accetteresti anche di restarci lì dentro. -
- Tanto posso solo guardarla. Per lei sono solo un paziente. -
- Dagli sguardi che ti lanciava ieri, non credo che ti consideri solo un paziente. -
- A una come lei non può piacere uno come me. -
- Uno come te? -
- Sai cosa intendo. -
- Bepi, il tuo problema non ti impedisce per niente di avere una vita normale con una ragazza. -
Dall'altra parte calò il silenzio. 
- E secondo me Diana non vede l'ora di provartelo. - Sghignazzai.
- In che senso? -
- Che vuole saltarti addosso secondo me. -
- Ma finiscila! Pensa alla tua Meg. -
- Già. La mia Meg. - 
Il tono con cui lo dissi dovette risultare troppo pensieroso. - Che hai? Successo qualcosa? -
- Si è rimessa con quel coglione. -
- Ah! - Seguì un attimo di silenzio. - Scusa eh, ma a questo punto è proprio cogliona forte! Quello quasi l'ammazza e lei ci torna? Se la cerca davvero. - 
Per un attimo sentii di nuovo la rabbia crescere. - Non è esattamente così. - Dissi tentando di trattenerla. 
- Sarà, ma a me non sembra molto logica. -
- Va beh, Bepi. Sto chiudendo che tra poco finisce il credito. - 
- Ma non hai le chiamate gratis verso il mio numero e quello di mamma? -
- Buonanotte. - Terminai la chiamata e mi gettai sul letto.

Non avrei più dovuto parlarne con nessuno. Argomento chiuso. Solo io sembravo capire cosa poteva averla spinta a fare quel gesto. Solo io sembravo capire quanto era importate, soprattutto in quel momento, starle vicino.

Riaccesi il computer e mi collegai nuovamente. Cercai di distrarmi cercando un bel film da guardare in streaming, quando mi contattò nuovamente Ludovica. Stavolta, però, eravamo all'interno di una delle solite multi-chat. Oltre a noi erano presenti Marco e Meg. Mi fece strano vederla lì con noi a discorrere del più e del meno, a cazzeggiare come se niente fosse successo. Anche la naturalezza di Ludovica mi stranì, ma feci finta di nulla. Tenni il loro gioco, fingendo di non sapere nulla. 

Era circa l'una quando Ludo e Marco ci diedero la buonanotte ed io di nuovo restai da solo in chat con Meg. Mi chiese se fosse tutto ok, perché mi aveva visto piuttosto assente durante la conversazione. 
"No, tutto ok. Tranquilla. Sono solo un po' stanco. Sai, ho studiato praticamente tutto il giorno." Le risposi, mentendo.
"Ah, ti capisco. Anche io sono stata buttata tutto il giorno su Reti e ho comunque paura per domani."
Non sapevo cosa fare, ma lei continuò a parlarmi nel modo più tranquillo possibile. Tirò fuori uno strano discorso sui mille animali che aveva allevato, tra cui non ultimo un maialino rosa a macchie nere di cui mi inviò anche una foto. Poi il discorso, senza che io lo volessi, divenne più serio e confidenziale. Mi confessò dove viveva anche se non mi specificò molto sul motivo che l'aveva portata lì. Restai a seguire le sue parole fino alle tre, quando mi disse che non si reggeva più in piedi e voleva andare a letto.

Una volta infilato a letto, non riuscivo a capacitarmi di cosa succedeva. Perché Meg, pur essendo tornata con Jeff, restava a parlare fino alle tre del mattino con me? Perché Ludo, che fino a poche ore prima mi aveva contattato allarmatissima, sembrava adesso non ricordare nemmeno cosa mi aveva confidato?

- Che culo! - Dissi tra me leggendo le due domande che facevano parte della prova in itinere di Reti. Entrambe riguardavano l'unico argomento che non ero arrivato a ripassare. La mattina, infatti, avevo saltato le lezioni, ma avevo scelto di studiare in aula studio. Meg e Umberto avevano avuto la mia stessa pensata e mi ero ritrovato a passare le ore ascoltando lei ripetere e a sfuggire gli sguardi odiosi che mi regalava Umberto. Sì, perché da quel famoso mercoledì lui, che già apprezzava poco la mia compagnia, aveva deciso di odiarmi. Decisione che venne convalidata e aggravata quando notò l'allontanamento di Meg e il suo corrispondente avvicinamento a me.
Meg, invece, pareva il ritratto della felicità. Ogni traccia del "fattaccio" era stata cancellata o almeno era talmente lieve da poter passare inosservata. Persino la cicatrice sulla pancia si era volatilizzata, risultando invisibile anche quel giorno che indossava un maglioncino blu piuttosto corto che le lasciava scoperto parte dell'addome.

I ricci parzialmente tirati su alla meno peggio utilizzando una matita e l'aria concentrata sulle domande della prova, facevano rispendere ancora di più la luce che si portava dietro. La vidi mordesi il labbro. Mi fermai ad osservarla, smettendo di scrivere quel poco che ricordavo. Mozzava il fiato sul serio.

L'ombra del professore che si aggirava tra i banchi mi fece trasalire e tornai a concentrarmi sul mio foglio, che sapevo già sarebbe rimasto molto più bianco di quanto necessario per convincerlo a farmi passare la prova. Spremetti le mie meningi, ma riuscii a scrivere comunque solo poche righe per domanda. Poi passai all'unico esercizio che c'era. Grazie alla memoria fotografica che mi avevano trasmesso i geni di mia madre, riuscii a ricordare la volta in cui avevamo svolto un esercizio simile in aula. Seguii lo stesso ragionamento. Dato che i risultati sembravano essere coerenti col resto del problema, mi convinsi che avevo svolto almeno una parte della prova in modo sufficiente. Avendo svolto le parte teorica, anche se in modo molto scarso, potevo sperare in un 15 che avrebbe significato passare con riserva, il che era meglio di essere bocciato.
Guardando l'orologio notai che il tempo rimasto a disposizione era poco. Mi voltai per cercare con lo sguardo i ragazzi. Quasi tutti dovevano già aver consegnato, perché seduti ai loro posti vedevo solo Andrea e Daniela. Rilessi ciò che avevo scritto per assicurarmi, almeno, di averlo fatto in modo comprensibile. Controllai nuovamente l'esercizio. Poi mi decisi a consegnare.
Il professore scorse velocemente con lo sguardo il foglio che aveva appena preso dalle mie mani mentre registravo l'ora della mia consegna e apponevo la firma nel suo piccolo registro. Mi fissò con un sorriso beffardo che fece crollare quelle poche speranze che ero riuscito a costruirmi. Uscii dall'aula sentendomi teso come una corda di violino.

Appena fuori gli altri mi furono addosso, chiedendomi come pensavo mi fosse andata.
- Non bene, questo è sicuro. - Non riuscirono a farmi dire altro.
Mentre loro continuavano quasi nevroticamente a confrontare le domande che avevano dovuto affrontare, le loro risposte e i risultati degli esercizi, io mio allontai cercando di non farmi notare. Ci riuscii perché nel frattempo la porta si era nuovamente aperta e ne era uscita Daniela, esultando di essere riuscita a scrivere ben due pagine per ciascuna risposta. Mi diressi alle macchinette e mi feci preparare un buon the caldo. L'aula in cui eravamo stati era una delle più grandi e di conseguenza una delle più fredde, tanto che nemmeno l'ansia per la prova aveva potuto farmi provare più caldo. Avevo le mani completamente ghiacciate.

Un brivido, non di freddo, mi salì lungo la schiena quando qualcuno mi poggiò una delicata mano sul braccio. Voltandomi leggermente avevo potuto incrociare gli occhi nocciola di Meg che sembravano in quel momento pieni di piccole luci, quasi come se mi fossi affacciato dal balcone in piena notte e guardassi adesso lo stupendo manto illuminato della città.
- Credi sia andata così male? -
- Bene non è andata. - Dissi prelevando il mio the con l'altra mano, lasciando che la sua riposasse sul mio braccio.
- Che domande ti sono capitate? -
- Ti prego non chiedermelo! -
Meg ritirò la manina delicata. In viso un velo d'ombra oscurò la luce della sua allegria. - Scusa. - Mi disse cercando di non guardarmi più negli occhi.
- No, Meg. Non te la prendere. - Sorrisi accarezzandole con due dita la guancia. Aveva la pelle morbida esattamente come la ricordavo da quella notte. Ed ero sicuro che il suo profumo mi sarebbe rimasto sulla pelle per ore, nonostante il nostro contatto fosse stato minimo. - Non è per te. - Dissi allontanando la mano e tornando a miscelare lo zucchero del mio the, per evitare che continuare a toccarla mi facesse definitivamente perdere i sensi. - Odio parlare di un esame dopo l'esame. Mi mette ansia. Fino a domani non voglio più sentirne parlare. -
Le sorrisi e lei ricambiò, illuminandosi di nuovo.

- Ragazzi, stasera pub? - Disse a gran voce Marco arrivando vicino a noi.
- Per me va bene. - Dissi prima di iniziare a sorseggiare il mio the.
- Io ti faccio sapere quando torno a casa. Dove volete andare? Solito posto? -
- No, volevamo cambiare. Lì il mercoledì è uno schifo, lo sai. Pieno di matricole e truzzi. -
- E dove vorreste andare? -
- Dani dice di conoscere un locale carino dove si mangia bene e non si paga molto. -
Come se fosse apparsa all'improvviso, Daniela si catapultò su di me afferrandomi un braccio e rischiando di farmi ustionare rovesciando la bevanda dal bicchiere. - E allora? Te l'ha detto per stasera? -
- Sì, sì. Vengo anch'io. - Con un po' di sforzo sfuggii alla sua presa.
- Dillo anche a Naki, ovviamente. E se vuole porta anche quel suo amico, Daniele mi pare si chiami. -
Vidi Meg sbuffare a ridere cercando di nascondersi dietro Marco.
- Posso dirglielo. -
- Ok, vi passo a prendere io alle otto. - Mi baciò la guancia ed andò via.
- Avessi scommesso su quello che ti doveva chiedere, sarei miliardaria. - Disse Meg continuando a ridere.
- Parli di Daniele? -
Annuì ancora ridendo e Marco iniziò ad imitarla.
- Tu non hai ceduto ed ha trovato la sua prossima vittima! - Osservò lui poggiandomi la mano sulla spalla. - Fattene una ragione. -
- Oh che mondo crudele! - Scherzai portandomi il dorso della mano sulla fronte e alzando gli occhi al cielo.

- Tieni, tieni, tieni! - Naki arrivò quasi correndo, lasciò il seggiolino con Brendon sul pavimento e scappò nuovamente via.
Marco e Meg la guardarono un po' allibiti. - Tranquilli, sta solo andando in bagno. - Mi accovacciai per prendere Brendon che se la rideva giocando con il suo pupazzetto. - Ehi, campione! - Quando mi vide si fermò un attimo e poi scoppiò di nuovo in una risata. Lasciò cadere l'orsetto e iniziò a tamburellarmi felice sulle guancie. - Sì piccolo, anche io sono felice di vederti! -
- Ti vuole proprio bene. - Commentò Meg, avvicinandosi ad accarezzargli una manina paffuta. - Ha degli occhi meravigliosi. Quasi assomigliano ai tuoi. - Disse sottovoce.
La fissai arrossiere per il complimento che si era lasciata sfuggire, ma non lo sottolineai.
- Oh, grazie! Se non ci fossi tu non saprei proprio come fare. - Disse Naki mentre tornava trafelata, ancora sistemandosi per bene la felpa verde. Salutò distrattamente e prese in braccio suo figlio. - Come è andato l'esame? -
Mi limitai ad esprimere con l'espressione facciale quello che pensavo. E lei mi capì. Ormai ci riusciva sempre.
- Ragazzi io vado, altrimenti anche volendo non ci arrivo per stasera. - Disse Meg. Salutò tutti e poi si avvicinò a me. Mi prese il viso tra le mani e, alzandosi sulle punte, mi stampò un dolcissimo sorriso sulla guancia tenendo gli occhi teneramente chiusi. La guardai andare via mentre sentivo il suo profumo scendere a scaldarmi come nemmeno il the aveva saputo fare.
- Andiamo anche noi? - Mi chiese Naki, con una piccola gomitata per farmi tornare alla realtà.
Salutammo tutti e ci avviammo verso casa.

- Vedo che stai facendo progressi con Meg. - Mi disse maliziosa mentre il freddo ci tagliava il viso.
- Non saprei se chiamarli progressi. -
- Perché? -
- Ieri Ludociva mi ha detto che si è rimessa con Jeff. -
- Cosa? - Si bloccò urlandolo.
- Già. -
- Dimmi che stai scherzando. -
- A quanto pare no. -
- No, non può essere. Lei non mi sembra tanto stupida. E poi cos'erano tutti quelli sguardi che ti mandava? E quelle mezze coccole? -
- Lei è fatta così. Prima lo faceva con Umberto. Ora ci sono io come amico. - Dissi alzando le spalle quanto mi permetteva il peso di Brendon dentro il seggiolino.
Naki riprese a camminare, ma restò pensierosa. - Qualcosa non mi torna. -
- Cosa? -
- Io l'ho vista passare in macchina mentre uscivamo dalla facoltà. Di solito non la veniva a prendere lui? -
- Di solito sì, ma magari hanno cambiato abitudini ora. -
- Non mi convince per niente. - Continuava a ripetermi sottovoce.
- Non so se possa convicerti o meno. Ma che motivo avrebbe Ludo di dirmi una cosa simile che non fosse vero. -
Stavolta fu lei a fare le spallucce.
- Cambiando argomento, stasera tu e Daniele avete impegni? -
- No. -
- Perchè i ragazzi mi hanno detto se volete unirvi a noi. -
- Posso chied... ma aspetta un attimo! Perché parli di me e Daniele come se stessimo insieme? -
- No, no. Dicevo solo che mi hanno detto di dirlo sia a te che a lui. Tutto qui. - Sorrisi sperando che non mi leggesse ancora. In realtà avevo proprio parlato considerandoli una coppia, perché, che lei lo sapesse o no, lo sarebbero diventati. Ne ero sicuro.
- Comunque, io e Brendon siamo liberi. Per Daniele, chiedi a lui. -
Arrivati davanti al suo cancello, la salutai e citofonai a Daniele. Anche lui accettò l'invito con piacere, contento di poter passare ancora del tempo con Naki. E stavolta con qualcuno che poteva badare al bambino mentre lui provava a farle capire quello che provava.

Arrivai a casa, chiamai mia madre per raccontarle della prova. Era in macchina con mio padre. Erano appena andati a prendere Bepi in clinica. Giannusi aveva detto che gli esami erano andati meglio del previsto e aveva prescritto la cura adatta, modificando i farmaci e le dosi. Parlammo poco e mi sembrò molto nervosa. Parlai anche con Bepi che, a mezze frasi, mi fece capire che mio padre aveva cercato in tutti i modi di non andarlo a prendere e per questo mamma si era per l'ennesima volta incazzata con lui. Poi, con la voce di chi sta sorridendo sornione, mi disse che aveva delle novità su Diana, ma che me le avrebbe dette solo quando avesse potuto parlare tranquillamente. Fui più sereno nel sentirlo in quel modo dopo tanto, troppo tempo. Così mi iniziai a preparare con più tranquillità cercando di concentrarmi sulle buone notizie e dimenticare quella prova andata male.

Il locale non era molto affollato. Appena entrammo mi colpì la sua semplicità che però non risultava affatto squallida. Piuttosto lo rendeva familiare. Come se stessi entrando in casa di un amico per trascorrere una serata tranquilla. Predominava la pietra lavica che insieme al pavimento in cotto davano la sensazione di essere nel rustico di famiglia. L'illuminazione gialla arricchiva il tutto donandogli calore e rendendo tutto più corposo. Quasi avesse il potere di mettere serenità ed allegria nell'aria. Sulla destra si apriva un piccolo arco che conduceva nella sala dove i tavoli di legno scuro coperti con delicate tovaglie rosa cipria erano sparpagliati a riempire lo spazio. Uno di essi era occupato da una coppia di ragazzi giovani ed imbarazzati. La rosa a stelo lungo poggiata sul tavolo faceva pensare ad un primo appuntamento. Poco distanti da loro cenava una famigliola. La coppia adulta, seppur ancora molto giovane, lottava per far stare in tavola il piccolo angioletto biondo che faceva i capricci perché desiderava correre libero, mentre la sorella maggiore non staccava gli occhi dal cellulare.
Daniela parlò con il ragazzo che ci venne incontro. Capimmo che era un cameriere solo per il piccolo grembiule bianco che portava ripiegato sui fianchi. Per il resto, nei suoi jeans sdruciti e maglietta rossa senza alcun logo, poteva benissimo essere scambiato per uno dei clienti. 
- Giovanni, siamo in otto, ma ci servirebbe un po' di spazio in più perché c'è pure un bambino piccolo. - Disse indicando il seggiolino di Brendon tenuto da Daniele. - Nell'area divertente, grazie. - Sottolineo infine sarcastica. 
- Dovrebbe esserci un po' di spazio. Seguitemi. - 
Nessuno aveva capito che Daniela si riferiva davvero ad un'altra area del piccolo locale e tanto meno potevamo pensare che quello che lei intendeva era passare una serata al karaoke! 
- Oddio Dani! Ma che schifo è? - Fu il primo commento di Andrea, che espresse a voce alta ciò che tutti noi stavamo educatamente cercando di trattenere. - Il karaoke? Che siamo? Dodicenni? -
Daniela, per niente risentita o avvilita dal commento sgradevole, si limitò ad aggiungere. - Sono pronta a scommettere quello che vuoi che alla fine ti sarai divertito più di tutti. - 

La sala era vuota, o quasi. L'unico tavolo occupato era in un angolino quasi nascosto. Vi era seduto un uomo sulla quarantina. Pancia grossa e naso taurino, pelata lucida come una palla da bowling, era intento a divorare la sua pizza piena di condimento. Lo faceva, però, con tanta classe che sembrava credesse di trovarsi nel ristorante della prima classe del Titanic.
Mi sedetti e accanto a me, sul lato sinistro, fu appoggiato il seggiolino di Brendon che, avendo mangiucchiato prima di uscire, se ne stava pacifico indeciso se addormentarsi o no nel silenzio che ancora regnava. Naki prese posto accanto al suo bambino e Daniele non aspettò nulla per sedersi accanto a lei. Vedevo come cercasse di fare il galante, offrendosi di aiutarla a togliere il pesante cappotto o spostandole dolcemente la sedia per facilitarle la seduta. Naki, purtroppo, non sembrava notarlo più di tanto. Chi sicuramente non si perdeva una sua mossa era Daniela. Lo fissava e quasi non lo faceva respirare tanto gli stava appiccicata addosso. Infatti, spostò malamente Marco che aveva creduto di prendere posto vicino a lui. Ridacchiai guardando la scena.
- Posso sedermi qui? - Mi chiese Meg, poggiandomi la mano sulla spalla. 
Quando mi voltai verso di lei, mi stava sorridendo. Credetti di essermi sciolto perché incrociare il suo sguardo così profondo, reso ancora più intenso da un trucco blu clobalto, pesante ma non eccessivo, fece accendere un incredibile fuoco di emozioni dentro di me. Le sue labbra, tinte solo di un gloss trasparente, mi stavano supplicando di tuffarmici dentro. Ma mi trattenni. Deglutii e mi concentrai per far in modo di parlare correttamente. - Certo. Sposto il giubbotto. - Non potei dire di più.

- Come mai Meg è da sola? -
- Credo che le cose siano cambiate davvero stavolta. -
- In che senso? -
- Che pare che stia comandando lei per adesso. -
La breve conversazione con Ludovica fu interrotta da Meg che tornava dal bagno per lavarsi le mani prima di mangiare. 

Mangiammo le nostre pizze accompagnati dalla voce del signore solitario che si rivelò, fortunatamente e a sorpresa, un ottimo cantante. Spesso lo incitavamo con forti applausi e, infine, quando decise di andarsene, tutti fummo daccordo nel chiamarlo al nostro tavolo per complimentarci con lui. 

Quando tutti ebbimo finito di cenare, Daniela aprì le danze canore. Pian piano, tutti ci gasammo un po' e, complice la totale assenza di altre persone, anche gli altri si improvvisarono canterini. Chi con risultati decenti, chi meno. 
Brendon rideva divertito mentre gli davo la sua pappetta di pasta tempestina ed omogeneizzato. L'aveva rifiutata per tutta la cena, facendo disperare Naki e ancor di più Daniele che si vedeva di nuovo ignorare da lei. Il fatto che Daniela gli avesse dato il tormento per tutta la cena, era un aggravante. Dopo aver finito la mia pizza, avevo deciso di darle il cambio e, per uno strano caso, si era finalmente deciso a mangiare. 
Approfittando di essersi liberato di Daniela, impegnata a cantare, e di Brendon, che aveva finalmente lasciato in pace la mamma, si fiondò in una fitta conversazione con Naki. Non sentivo ciò che si dicevano ma dal rossore sul viso di lui intuii che dovesse essere qualcosa per avvicinarsi al punto. Lei lo guardava sorridente, sembrava prendere un po' troppo poco sul serio quello che le stava dicendo.
Quando Brendon finì di mangiare, ripulii tutto con i tovagliolini e posai piattino e quant'altro all'interno del borsone stando attento a non sporcare nulla. Mi voltai verso destra, ma non trovai Meg che fino ad allora era stata l'unica oltre me e la "coppietta" a non lasciare il tavolo. La cercai con lo sguardo e la trovai davanti allo schermo del karaoke. Tutti sembravano aver frenato il loro entusiasmo per appiattirsi lungo la parete a fissarla estasiati.

Abbassarono le luci, lasciando vivo solo il faretto bianco che la illuminava. La maglietta blu notte scintillava quasi fosse un cielo pieno di stelle. I jeans chiari che la fasciavano sembravano adesso fatti essi stessi di luce. Le mani giunte tenevano il microfono a pochi centimetri dalle sue labbra carnose. Teneva gli occhi chiusi. Sembrava quasi stesse pregando e avvolta in quel fascio di luce assomigliava quasi ad un'apparizione spirituale. Naki e Daniele si erano interrotti e la guardavano affascinati. Persino Brendon sembrava essere stato rapito da quella visione.
D'un tratto poche note si sentirono e la sua voce iniziò a cantare. Melodiosa si insinuò tra la melodia di una canzone per niente semplice, quale è "Strano il mio destino" di Giorgia. L'emozione che traspariva dalla sua incantevole voce ci lasciò tutti senza fiato. Il mio stomaco iniziò a fare le capriole e dovetti fare un sincero sforzo per evitare di commuovermi. Poi, il pensiero che in quelle parole lei ci leggesse Jeff, mi fece morire. 
Sforzandomi, distolsi lo sguardo da lei. Presi in braccio Brendon e mi recai in fondo alla sala. Lui inizialmente scalciò, preso com'era anche lui da quella voce che sembrava fatata. Mi appollaiai su una sedia e lo cullai. Si lasciò calmare e poi, vinto dal sonno, si addormentò. 

Vidi le luci riaccendersi e Ludovica correre ad abbracciare Meg mentre Andrea le urlava che era un mito. Lei si voltò verso il tavolo e poi iniziò a guardarsi intorno. Quando mi vide si avviò verso di me. 
- Come mai sei qui? -
- Shhh! - Mi portai un dito alle labbra e poi indicai Brendon. 
- Oh, dolce! - Si abbassò a posargli una leggera carezza sulla tempia. - Questo bimbo è davvero stupendo. Naki, poi, è davvero un angelo. Per caso Daniele ci sta provando con lei? - 
La domanda mi spiazzò, ma feci finta di nulla. - Perché? -
- Bho, così, per sapere. -
- Ti piace Daniele? - Dissi ironico.
- Potrebbe darsi. - Mi si gelò il sangue nelle vene Era seria. Non c'era aria di scherzo in lei. - Ma già Daniela gli sta addosso. Se poi lui è pure innamorato di Naki, nemmeno mi ci metto. -
- Co...cosa stai dicendo? Non sei tornata con Jeff? -
Mi guardò spalancando gli occhi. Un lampo di paura le attraversò lo sguardo. - Cosa ti fa credere una cosa simile? -
Non potevo dirle che era stata Ludovica a dirmelo. - Credevo di sì, visto cosa mi hai detto l'altra sera. - 
- No. - Abbassò lo sguardo. Riprese ad abbassarsi freneticamente le maniche, come non le vedevo fare da un po'. 
- Ok. Scusa. - Decisi di cambiare argomento in fretta. - Comunque, credo che Daniele sia già da un bel po' innamorato di Naki. Mi dispiace. - 
- Peccato. - Disse fredda continuando a torturarsi le maniche. 
Si voltò e tornò al tavolo senza aggiungere nulla.

Venne verso di me Daniele, sorridente. - Amico, credo che sia fatta! - Disse prendendomi Brendon dalle braccia. 
- In che senso? - Dissi, ancora pensando a quale motivo aveva potuto spingere Ludovica a dirmi una cazzata del genere.
- Le ho fatto un discorso molto generico, giusto? Ma credo che abbia capito che mi piace. E credo che le stia bene. - Sorrise come non gli avevo mai visto fare. 
- Grande! - Gli diedi una pacca leggera sulla spalla. 
- Ora torniamo a casa noi. Ti faccio sapere come va. - Sembrava quasi che fossimo amici da una vita. Forse perché ero l'unico a sapere cosa provasse in realtà per lei, ma aveva il desiderio di confidarsi con me. E questo mi faceva piacere. 

Tornammo dagli altri e lui insieme a Naki ci salutarono per imboccare l'uscita del locale, lasciando Daniela con un palmo di broncio. Si riprese subito, gettandosi nuovamente sul micorfono a cantare a squarciagola. Meg, invece, stava seduta sulla sedia, tenendosi le ginoccia e continuando a tormentarsi le maniche.
Continuai a fissarla mentre gli altri si divertivano a fare bordello cantando. Improvvisamente ricambiò il mio sguardo. I suoi occhi nocciola erano arrossati, quasi avesse pianto per ore. Eppure non una sola lacrima aveva rigato il suo viso. Si alzò continuando a stare in silenzio, si avvicinò al ragazzo che gestiva il karaoke e prese un microfono. Le luci si abbassarono ancora e la sua voce, ancor più emozionata ed emozionante di prima, si inerpicò a cantare "Broken Pieces" degli Apocalyptica in featuring con Lacey. Avevo sempre adorato questa canzone che riusciva a farmi venire i brividi, ma lei riuscì a farmi tremare. E non solo perché si era rivelata particolarmente portata al canto. Dopo aver preso il microfono si era voltata verso di me. Aveva cantato con tutto ciò che aveva dentro continuando a fissarmi negli occhi. Mi sentii come rinchiuso in una stanza buia con solo lei che mi urlava una richiesta di aiuto, una confessione di tutto ciò che stava cercando di nascondere in quei giorni.

Si avvicinò a me in silenzio. Gli occhi ancora arrossati e una sottile linea nera che le segnava la guancia. Le labbra le tremavano leggermente. La fissai in silenzio mentre eretta davanti a me sembrava un'impeccabile statua di marmo scolpita dalle mani più abili. 
- Wow, se hanno una canzone del genere in repertorio rischio di tornarci in questo posto. -
- Non ce l'hanno. - Disse piano, tanto che a stento capii le sue parole nella musica che era ricominciata. Si sedette nuovamente al suo posto afferrandosi le ginocchia. - La porto sempre con me quando vado in locali simili. - Mi mostrò una piccola chiavetta USB. - Ci tengo le basi delle mie canzoni preferite, così se non ce le hanno posso cantarle comunque. -
- Sei molto brava. - Le sorrisi avvicinandomi a lei.
- Grazie. - Non si voltò a guardarmi. 
- Meg, cos'hai? Stai bene? -
- No. - Una risposta secca che non avevo previsto. Credevo avrebbe uscito qualche scusa dovuta alla stanchezza come tutti facciamo ad una domanda del genere.
- Cosa è successo? -
- Scusa, ma non voglio parlarne. -
- Oh, ti capisco. Tranquilla, non volevo obbligarti. - Mi sentii terribilmente in imbarazzo. - Se vuoi, io ci sono. - Sorrisi mentre lei si voltava a guardarmi. 
- Grazie. - Non sorrise. Tornò a fissarsi la punta delle scarpe.
Avrei voluto avvicinarmi a lei, accarezzarle le spalle e rassicurarla. Avrei voluto continuare a parlarle cercando di far andare via i pensieri che affollavano la sua mente. Avrei voluto far qualcosa per farla stare meglio. Ma qualcosa, puntuale come un orologio svizzero, si intromise nella nostra stanza buia. 

- Ehi, tu ancora non hai cantato! - Sentii la voce di Daniela urlante che si catapultava verso di noi. - Ormai stiamo per andarcene e manchi soltanto tu! - Iniziò a tirarmi per il braccio nonostante continuassi a ripetere che non avevo alcuna intenzione di cantare. Mi trascinò a forza verso il centro del salone e la scena dovette essere piuttosto comica perché vidi Meg alzare lo sguardo e sorridere divertita. Forse era quello il modo migliore per farla smettere di pensare. Rendermi ridicolo per farla ridere. L'avrei accettato allora. 
Marco mi prese sottobraccio e insieme iniziammo a cantare "Balliamo sul mondo" dimenandoci come fossimo a un concerto e gridando come dei forsennati. Il ritmo ci fece scatenare. Stonammo alla grande, ma ci divertimmo. Tutti si unirono a noi, inclusa Meg che ci raggiunse andando ad abbracciare Ludovica e iniziando a saltare. Quando finimmo tutti stavamo ridendo.
- Ragazzi, siete rimasti solo voi. - Ci disse il ragazzo che ci aveva accolto inizialmente, entrando nella sala sorridente. 
- Un modo gentile per dirci di scomparire, eh Giovanni! - Disse Daniela continuando a ridere. 
- Per me potreste restare fino a domani mattina, ma il capo di là vuole tornare a casa. - 
- Andiamo via subito. - 

Meg accompagnò a casa Daniela e Terry, mentre noi ragazzi salimmo in macchina con Ludovica. Come al solito, Ludo lasciò a casa tutti ed infine accompagnò me, restando un po' a parlare sotto il mio portone. 
- Ludo, devi dirmi una cosa. - Dissi diventando improvvisamente serio dopo aver scherzato sulle nostre esibizioni canore. 
- Che devo dirti? No, non te lo farei mai incidere un disco. - Continuò a scherzare lei. 
- No, Ludo. Una cosa seria. - 
Fece finta di riflettere un po', poi cerco di darsi tono, tirando su il colletto della camicia bianca che sbucava dal profondo scollo del maglioncino nero. - Cosa vuole detto, signor Liotta? - 
- Perché mi hai detto quella minchiata su Meg? -
Sembrò che un fulmine l'avesse colpita in pieno petto da come sussultò sul posto di guida. - Quale minchiata? -
- Che si è rimessa con Jeff. - 
Fissò per un attimo il volante, seria. Poi le sfuggì un piccolo sorriso. - Come hai scoperto che non era vero? -
- Me l'ha detto lei oggi. -
- Quando? Come? Perché? -
- Poco fa. Mi ha chiesto se Daniele fosse interessato a Naki perché le piace. - Non riuscii a nascondere molto il tono amareggiato con cui ripensavo alle sue parole. - Così le ho chiesto come mai me lo dicesse dato che credevo si fosse rimessa con Jeff. -
- Sei pazzo? Le hai detto che ti ho detto una cosa simile? - Disse allarmata.
- Non sono così scemo! Quando mi ha detto che non era vero e come mi era venuto in mente le ho detto solo che era una mia supposizione dato quello che mi ha detto sera scorsa. - 
- Fiù! - Tirò un sospiro, passandosi il dorso della mano sulla fronte. - Per un pelo. -
- Questo non risponde alla mia domanda, però. -
- Beh... è un po' complicato. -
- Spiegamelo allora. - Insistetti serio. 
- Volevo vedere come reagivi. - 
- Cosa? - Dissi incredulo.
- Ho fatto una prova, mettiamola così. Per vedere se quello che ho pensato poteva essere vero o no. -
- Ma cosa? -
- Volevo vedere che reazione avresti avuto sapendo una cosa del genere. - Sembrava imbarazzata e distoglieva continuamente lo sguardo.
- Per quale motivo vorrei sapere! -
- Per vedere se eri interessato a lei. - 
- Cosa? E perchè? Cosa avresti scoperto, sentiamo! - La cosa mi aveva dato un po' fastidio. Mi sentivo quasi come se stesse cercando di spiarmi. 
- Non sono arrivata a scoprire niente perché quel gran genio di Meg ti ha detto che non era vero! - Rise nervosamente.
- Ludovica. - Dissi prendendole il viso e costringendola a guardarmi. - Dimmi perché volevi sapere una cosa del genere. E soprattutto perché non sei venuto a chiedermelo invece di architettare una cosa di questo tipo. -
- Perché tu avresti negato anche se fosse stato vero. Non l'avresti mica detto a me che sono la sua migliore amica! E poi non è stata proprio una bugia, ma solo una piccola esagerazione della verità. -
Le lasciai il viso. - Come? -
- Lui è tornato alla carica e io ho paura che lei ci ricaschi. Così volevo trovare qualcuno che la distraesse, che potesse essere interessato a lei e che a lei potesse interessare. So che è una cosa meschina, ma ho troppa paura che torni con lui. -
- Perché ti sarei venuto in mente io? - Dissi ridendo, cercando di non far capire che in realtà ero interessato a sapere perché credesse che Meg si potesse interessare a me.
- Beh, sei l'unico che conosciamo da poco, che è vicino ma che ancora non è considerabile un amico asessuato. -
- Un amico asessuato? - Risi a quella strana affermazione.
- Sì, per noi ragazze è un po' così. Quando un ragazzo è nostro amico, ma amico nel vero senso della parola, può anche essere il più bel ragazzo del mondo, il più sexy, ma per noi sarà sempre un amico! Un amico asessuato! - Rise ancor più di me. - Prendi Umberto. Senza dubbio è un bel ragazzo e chiunque capirebbe che è pazzo di Meg. Ma per lei è un amico, punto. Un essere che ha la funzione di amico. Il fatto che sia un maschio è una pura coincidenza. -
- Oddio che discorsi! - 
- A quest'ora che discorsi vorresti fare, me lo spieghi? - Continuavamo a ridere entrambi, riuscendo a stento a parlare.
- Dai, ti lascio andare a casa. - 
Ci salutammo e scesi dall'auto. 

Pur essendo già abbastanza tardi in quanto era già l'una passata, non avevo nessuna traccia di sonno. Pur di non passare un'altra notte a rigirarmi nelle coperte inutilmente, decisi di cercare un modo che riuscisse a coinciliarmelo. L'unica cosa che ci riusciva era rilassarmi leggendo un bel libro. Purtroppo, però, tutti i miei libri erano al sicuro nella mia stanzetta e a mia disposizione trovai solo gli appunti di Reti. Di sicuro leggere quelli avrebbe avuto come unico risultato quello di farmi salire l'ansia invece di farmi rilassare. Perciò decisi di accendere il pc per cercare qualcosa da leggere su wattapad o efp. Lì riuscivo sempre a trovare qualcosa che potesse interessarmi e se non trovavo nulla di nuovo potevo sempre rileggere nuovamente i racconti che avevo scovato già in passato. 
Mi sedetti quindi sul letto con le gambe incrociate, vi poggiai sopra il pc e mi collegai ai siti iniziando a sfogliarne le raccolte. Mentre cercavo qualcosa che potesse essere di mio gradimento, si aprì una chat di msn. Meg mi aveva scritto. Un semplice 'ci sei?' che mi sembrò, però, parecchio strano. 
"Come mai ancora sveglia?" Le risposi.
"Potrei domandarti la stessa cosa."
"E io ti risponderei che stavo cercando qualcosa da leggere per conciliarmi il sonno. Qual è la tua scusa?"
"Nessuna scusa. Non prendo sonno facilmente in questo periodo."
"Nervosismo?"
"Non lo so. Non so la causa, so solo gli effetti."
"Capita spesso anche a me, tranquilla."
"E poi un po' speravo che fossi collegato."
La cosa mi lunsingò parecchio, ma cercai di fare l'indifferente. "Perché?"
"Parlare con te mi aiuta a dormire."
"Ah, vuoi dire che sono noioso?" Cercai di ironizzare.
"No, no! Non volevo dire quello, anzi."
"Anzi?"
"Mi fai rilassare. Questa non è una cosa negativa."
"Sono felice di aiutarti, allora."
"Sono felice io di aver trovato chi mi aiuta."
"Lo avevi già, no? Ludo, Umberto..."
"Umberto eliminalo!"
"Che è successo tra di voi? Ho visto che siete un po' più distanti."
"E tali resteremo."
"Se non vuoi dirmelo, ti capisco. In fondo ci conosciamo da poco."
"Diciamo solo che non si è dimostrato un vero amico. Tu, pur conoscendoci da poco come hai detto, hai fatto molto più di lui per me."
"Non ho fatto nulla."
"Hai fatto tantissimo. E devo chiederti scusa per stasera."
"Cosa è successo stasera?" Di nuovo finsi di non aver capito.
"Mi sono irrigidita. Non ce l'avevo con te, ma quell'argomento mi scotta un po' ancora."
"Meg, non preoccuparti. Credo sia normale essere scottati da una cosa del genere."
"Credo di sì. Grazie."
"Ancora? Ti ho detto che non devi ringraziarmi."
"E io invece lo faccio! Ok?" 
Immaginai di averla lì con me e di vedere il suo visino che si contraeva in una smorfia buffa. Non riuscii a fare a meno di riderne. "Va bene, va bene! Non ti agitare!"

Continuammo a parlare per circa un'ora, cazzeggiando del più e del meno. Quando ci salutammo spensi il computer anche se ancora il sonno non decideva ad arrivare. Preferii restare a guardare il soffitto pensando a lei, immaginando qualcosa che forse non sarebbe mai accaduta. Quella che all'inizio era una piccola speranza era diventata per me una bellissima utopia. Mi resi conto che lei forse mi considerava già come un amico asessuato, per dirla come avrebbe fatto Ludovica. Se da un lato lo constatavo con amarezza, perché avrebbe significato non poterla mai 'avere' del tutto, dall'altro mi faceva contento, perché in un modo o nell'altro le sarei stato vicino e avrei potuto difenderla. E poi forse non eravamo destinati a stare insieme e col tempo mi sarei accorto che l'amicizia era la miglior cosa che ci potesse capitare. Non potevo saperlo, ma, anche se non proprio di gran voglia, mi preparai ad accettarlo.

Era passata una settimana da quella strana sera al karaoke ed io credevo di aver trovato il mio equilibrio. Pensare che Meg non potesse mai essere 'mia' come io avrei voluto mi bruciava ancora un po', ma la sua amicizia iniziava ad essere sempre più profonda e piacevole.

La sera dopo quella strana uscita, eravamo rimasti nuovamente a chiacchierare su msn fino a tarda ora. All'improvviso si era scollegata senza dire nulla. Inizialmente la cosa mi aveva lasciato tra l'infastidito e il triste. Poi, però, tornò a collegarsi. Si scusò perché il computer le dava un po' di problemini e, surriscaldandosi, si spegneva senza preavviso. Poi mi disse: 
'Lasciami il tuo numero. Così la prossima volta non dovrò ricollegarmi per dirti che il computer si è spento.' 
Convinto che quella non poteva assolutamente essere la frase di una ragazza interessata a qualcosa più di un amico, le scrissi il mio numero accompagnato da una stupida battuta di quelle a cui puoi ridere solo alle tre di notte dopo una giornata stressante. 
Da quel momento, avevamo iniziato a scambiarci sempre più spesso messaggi. Raramente, infatti, le mandavo per primo un messaggio, spaventato di poterla infastidire o disturbare. Lei, invece, mi cercava spesso. Persino durante il week end, mentre io ero tornato a casa, passavo molto tempo col cellulare in mano a risponderle.

Mio fratello, dopo tutto, non aveva più molto bisogno della mia compagnia. Diana, infatti, gli si era praticamente gettata tra le braccia prima che uscisse dall'ospedale. La bella infermiera mora e tutta lentiggini si era invaghita di lui, che un bel ragazzo lo era sempre stato. Ma durante le varie chiacchierate tra un esame e l'altro in quegli anni aveva iniziato anche a conoscerlo e allora non aveva più potuto sottrarsi al suo pensiero. Non si erano proprio messi insieme, ma passavano le ore al telefono o a parlare abbracciati sul prato del parchetto accanto casa nostra. Non avevo mai visto mio fratello così felice e sperai che non fosse solo una di quelle storie che si accendono tanto facilmente per spegnersi con altrettanta velocità appena la scintilla iniziale finisse di avvampare. 

Mia madre, invece, sembrava più strana che mai. Aveva un'aria perennemente triste e la testa continuamente per aria. Lo sguardo vuoto vagava per le pareti di casa. Di Giannusi non c'era stata traccia per tutto il tempo e per un attimo pensai che quella tristezza fosse dovuta ad una loro separazione. Non le chiesi nulla, però. Dopo tutto avevo detto io stesso che poteva far ciò che voleva basta che io non ne fossi coinvolto. Non potevo aspettarmi che venisse a confidarsi con me. 

Un'altra assente era stata Naki. Per una settimana l'avevo vista solo a lezione e sempre di corsa. Il suo, però, era tutt'altro che un viso triste. Sembrava, invece, più sorridente e luminosa che mai. Più di quanto non lo fosse già per sua natura. Intuivo quale fosse il motivo, ma non avevamo mai trovato un momento per poterci vedere e parlare tranquilli. 
Quel Giovedì, dopo aver seguito la lezione di Sistemi seduto accanto a Meg che si teneva stretta al mio braccio e ogni tanto disegnava sul foglio in cui prendevo appunti una delle sue strane faccette, mi recai a casa di Naki. Ci eravamo sentiti la sera precedente, riservandoci a vicenda un pranzo per poter finalmente parlare e un pomeriggio per studiare insieme. 
- Oh mamma mia quanto sei cresciuto! - Mi disse prendendomi in giro appena varcai la soglia. Mi strinse le mani sulle spalle. - Ti sei fatto grande. Ma guardati! Non sembri nemmeno tu! Ti è pure cresciuta la barba. - Disse accarezzandomi il viso che non rasavo da quattro giorni.
- Guarda che non sono io ad essere sparito. Non sfottere, quindi. - Le dissi scostandogli scherzosamente la mano. - Dov'è piuttosto il mio ometto? - Cercai Brendon per la stanza. Vidi il girello vuoto accantonato in un angolo vicino alla televisione. - Sta dormendo? -
Naki non rispose. Sorrise e mi indicò il divano. Guardando meglio scorsi un batuffolo di riccioli neri sbucare fuori da dietro il bracciolo bianco del divano. Risi senza far rumore e mi avvicinai quatto, quatto. Quando fui abbastanza vicino mi gettai sul divano facendo sbucare la testa dalla sua parte. - Buh! - Urlai.
Brendon fece finta di spaventarsi e iniziò a gattonare via correndo, con il ridolino dolcissimo che addirittura lo faceva saltare per i singhiozzi. 
- Dove credi di andare? - Mi gettai per terra inseguendolo, finchè non lo afferrai per i piedini della tutina. Lo tirai verso di me, delicatamente, mentre lui continuava a ridere a crepapelle. Mi sdraiai sulla schiena e lo feci volare sopra di me, mentre lui tutto eccitato batteva le manine. 
- Ok, ho sbagliato. Invece di crescere ti sei rimpicciolito. - Osservò Naki sarcastica per poi recarsi all'angolo cucina. 
Posai il bambino per terra e mi sollevai. - Cosa pretendi dopo che non lo vedo da una settimana quasi? - 
Brendon si mise carponi e mi seguì fino in cucina, aggrappandosi continuamente ai miei jeans per attirare l'attenzione. Lo guardai sorridendo e mi abbassai per prenderlo in braccio. Lui iniziò a darmi buffetti sul viso e poi a lavorarlo con i pugnetti quasi fosse pasta da stendere. Tentai di fermargli le mani, tra le sue risate che non accennavano a diminuire. - Da quando ha iniziato a gattonare? -
- Da un paio di giorni. Ormai ha sette mesi. Li ha compiuti Lunedì. Tenta pure di iniziare a parlare, sai? - Mi disse entusiasta. Prese il bimbo tra le braccia, tutta sorridente ed iniziò a parlargli in tono dolce. - Chi sono io, Brendon? Mimi ni nani? Come mi chiamo? Dillo. Mam-ma. Mam-ma. -
Brendon rise e poi farfugliò qualcosa. Lei si esaltò ancor di più e battè le mani emozionata. I suoi occhi brillavano. - Hai sentito? -
- Non per spegnere il tuo entusiasmo, eh. Ma ha solo farfugliato. - 
Naki mi fulminò con lo sguardo, poi tornò seria a rivolgersi al bambino. - Brendon, facciamogliela vedere a questo scemo dello zio Cris! Forza, coraggio. Dillo bene. Chi sono io? -
Brendon inizialmente la guardò quasi spaventato dal tono aurotitario che aveva usato. Si portò le manine alla bocca restando in silenzio. Quando, però, lei si sciolse in un sorriso, lui si illuminò. Gli uscì un gridolino felice e si aggrappò con le manine alle sue guancie. - Mam-ma! - 
Stavolta lo sillabò in modo tanto chiaro che perfino io mi emozionai. Naki lo strinse forte riempendolo di baci. 

- Si è addormentato finalmente? -
- Sì. Quando ci sei tu in giro ormai non vuole più dormire. Me lo emozioni troppo il bambino! Non va bene. - 
Mi rimproverò, ma continuava a sorridere perciò mi fu difficile crederle. Si sedette accanto a me che avevo preparato nel frattempo delle belle tazze di infuso di finocchio, ottimo per la digestione, visto che ultimamente Brendon aveva avuto di nuovo delle coliche dopo aver preso il latte. 

- Come è andata questa settimana, allora? Progressi con la ricciolina? -
- Continuerai a chiamarla così, vero? - Risi.
- Mi piace. E allora? Novità? -
- Non credo che ce ne saranno mai. - Dissi un po' sconsolato accarezzando il bordo della mia tazza fumante. 
- Per quale motivo? - Mi guardò perplessa.
- Beh, sai. Ho capito che forse lei mi vede come amico e quindi non vorrà mai essere la mia ragazza. Però mi sto iniziando ad abituare all'idea. - Le raccontai di ciò che era successo da quella sera al karaoke, non tralasciando nessuna delle nostre conversazoni quasi continue e fino a tarda notte. 
- Se posso dire la mia, non so fino a che punto tu abbia ragione, eh! Poi, certo, io non la conosco bene. Può essere, come dici tu, che lei è così sempre con gli amici. -
- Lo è, fidati. Ma ora tocca a te parlare. Sputa il rospo. -
- Quale rospo? - Arrossì e per cercare di nasconderlo fece finta di voltarsi di qua e di là per cercare qualcosa.
Le afferrai il viso con una mano, stringendole le guance in una morsa delicata. Le labbra si sporsero in avanti mentre sbarrava gli occhi sorpresa. Era parecchio buffa perciò mi fu difficile restare serio. - Quello che ti sei ingoiata da una settimana. - 
- Nessun rospo. - Cercò di dire mentre le tenevo ancora le guance pressate.
Il risultato fu così comico che non potei più trattenermi e scoppiai a ridere liberandola dalla presa. Lei mi diede un pugno, anche parecchio forte, sulla spalla e prese a massaggiarsi il viso. - Non c'è nessun rospo, idiota! - Sorrideva imbarazzata. 
- E dai Naki! Di che ti vergogni? -
- Ho detto che non c'è niente. -
- Ma io lo so che non è così. -
- Non è vero. - Arrossiva sempre di più.
- Si che è vero. -
- No. -
- Dai, dai, dai! - Iniziai a piagnucolare come un bambino, scuotendola. 
- E va bene. - Si scollò le mie mani di dosso. Passeggiò nervosamente per la cucina, poi si fermò poggiando le mani sul tavolo, fissandolo. - Credo che mi piaccia Daniele. Ecco l'ho detto! - Parlò velocemente e si sedette nascondendo il viso tra le braccia.
- Tombola! - Urlai ridendo. - Lo sapevo che era questo! Ci avrei scommesso. -
- Scommettici ste palle! E' una tragedia! -
- Perchè è una tragedia? Daniele è un bravo ragazzo, un bel tipo e vuole bene a Brendon. Cosa vuoi di più? -
- Ma lui non sarà mai interessato a me! Lui mi vede come una bambina da proteggere, non come una donna. -
Dentro di me sprizzavo dalla voglia di urlarle che lui era innamorato di lei, ma non potevo farlo. Mi limitai ad appoggiare una mano sulla sua spalla tamburellando. - A noi maschi, piacciono le ragazze da proteggere. -

Come fosse stata colpita da un'illuminazione, alzò il viso verso di me. - Ho trovato. - Esclamò. 
Si alzò in piedi e, veloce come un lampo, mi prese con le mani il viso tirandolo verso il suo. Chiudendo gli occhi appoggiò le labbra sulle mie. Tentai di divincolarmi senza farle male, ma le sue mani sembravano saldate alla mia pelle mentre sentivo le sue morbide labbra premere sempre di più sulle mie. 
Infine riuscii a staccarmi. - Che fai Naki? Sei pazza? - Chiesi mentre mi allontanavo.
Lei mi seguiva con lo sguardo quasi vuoto, come se non fosse in pieno contatto con la realtà. - Non capisci che è la cosa migliore? Così tu dimenticherai Meg se davvero ti vuole solo come amico e io dimenticherò Daniele. Saremo tutti più felici. -
- Naki non dire sciocchezze. - 
- Non ti piaccio, forse? So che non è così! Hai già provato a baciarmi in passato. Ci ho scherzato sopra allora, ma me lo ricordo benissimo. -
Ero arrivato con le spalle al muro. Naki davanti a me che cercava di accarezzarmi le braccia. Si avvicinò di più ed alzandosi sulle punte dei piedi iniziò a baciarmi la pelle del collo. Sapevo di essere più forte di lei. Con una sola spinta, neanche troppo forte, avrei potuto mandarla lontano da me senza neppure farle male. Avrei potuto allontanarla, respingerla, staccarla da me. Ma lei era sempre stata così maledettamente bella e perfetta. Ed io non sentivo il contatto con la pelle di una donna da troppo tempo.

Continuò a stuzzicare la mia pelle salendo verso le labbra fino a conquistarle. Le sue erano ancora più calde e morbide di come le avevo immaginate. Quando le dischiuse leggermente e sentii il tepore umido della sua lingua cercare di dischiudere le mie, un fremito mi percosse le ossa. Chiusi gli occhi e mi abbandonai lasciando che i visi di Daniele e Meg si dissolvessero. Le circondai la vita con un braccio e riuscii già così a sollevarla. Continuai a baciarla muovendomi a memoria in quella casa che in meno di un mese era diventata un po' mia. 
- Non in camera. - Mi sussurrò tra le labbra, non accennando a lasciarle libere. 
Feci toccare terra ai sui piedi vicino al divano, mentre continuavo ad accarezzarle le braccia scoperte. La pelle di seta fremeva sotto il mio tocco. Poggiò le sue mani sul mio petto, scostandomi. La guardai ubriaco dal desiderio di tutta quella femminilità che sprigionava ad ogni singolo respiro. Sorrise maliziosa e mi spinse giù, facendomi finire sdraiato sul divano bianco, lo stesso su cui avevo dormito più volte, lo stesso su cui l'avevo sognata quella prima notte. Si adagiò su di me. Sentii il suo corpo aderire al mio quasi perfettamente e il mio desiderio aumentò a quel contatto.
Mi sollevai piano fancendo dolcemente sdraiare lei. Presi posto su di lei che mi cinse subito le gambe in vita ed infilò le mani sotto la mia felpa ad accarezzarmi il ventre. Restai sollevato sulle braccia a fissarle il dolcissimo viso diventato d'un tratto così provocante. Afferrò la zip della felpa e la scese mordendosi il labbro. La fece volare sulla tv e prese a fissarmi seducente ed allusiva accarezzandomi la schiena ormai nuda. Vi conficcò piano le unghie e lì un uragano si scatenò nelle mie interiora. Mi tuffai su di le afferrandola e spingendo la mia bocca nella sua. La sentii ridere leggermente, una risata piena di desiderio e passione. Mi fece eccitare ancor di più. Delicatamente le accarezzai le cosce e salendo verso il ventre le infilai le mani sotto la canottiera leggera con cui era rimasta dopo aver allattato Brendon. Incarcò la schiena e delicatamente la sfilai per mandarla a far compagnia alla mia felpa. Come avevo sognato, il suo seno non sembrava affatto quello di una madre, ma solo quello di una stupenda ragazza di ventiquattro anni. Mi calai ad impossessarmene. Chiudendo gli occhi temetti di svegliarmi di nuovo. Sentendo i suoi mugolii di approvazione mi rassicurai. Era vero. Stringevo di nuovo una ragazza tra le braccia e tra non molto mi sarei unito a lei per tornare a provare le stupende sensazioni del sesso. 

Quel pensiero mi sconvolse. Stavo davvero pensando di fare sesso con lei? Con una eccitante ragazza di ventiquattro anni che mi si era fiondata tra le braccia vogliosa ed insistente? Con una ragazza che in un momento di confusione voleva fare l'amore con me per dimenticare un altro? Con la madre abbandonata di un bambino di sette mesi che dormiva nella stanza accanto? Con la prima amica che fossi riuscito a trovare in quella città dopo un anno di solitudine? Con la mia Naki? 

Mi bloccai. Di scatto mi sollevai a sedere mormorando un inutile 'scusami'. 
- Che succede? - Mi chiese con voce invitante. 
Si mise a sedere alle mie spalle cingendomi ancora la vita con le gambe. Iniziò ad accarezzarmi il petto passando le braccia sopra le mie spalle mordicchiandomele. Le fermai le mani e mi voltai leggermente verso di lei. Vidi i suoi occhi neri resi ancor più profondi dal forte desiderio ridimensionarsi lentamente e la luce dell'impulso placarsi. Ritirò le gambe permettondimi di alzarmi e tentò di coprirsi il seno con le braccia. Non osava rivolgere il suo sguardo su di me e fui quasi sicuro che quello fosse l'inizio di un grande pianto. Recuperai i nostri indumenti e le porsi la sua canottiera, voltandomi per permetterle di infilarla privatamente. Rimisi anch'io la mia felpa, lasciandola sbottonata perché ero ancora accaldato. 

Tornai a sedermi accanto a lei ed in silenzio la abbracciai. 
- Scusami, ma non posso. - Mormorai di nuovo, baciandole i capelli. 
- Devo essere io a scusarmi con te. - Rispose con voce estremamente e stranamente calma. Avevo dimenticato quanto forte sapesse essere.
- Sei stupenda, davvero. Non posso negare di avere provato a baciarti, come non posso negare che se avessi seguito i miei istinti meno umani ti sarei saltato addosso già molto tempo fa. Questo ci distingue dagli animali, no? La coscienza. Saper frenare gli impulsi quando capiamo che non sono giusti. Noi siamo amici e in fondo sai pure tu che continuare non risolverebbe nulla. Tu non dimenticheresti Daniele. -
- Lo so. - La voce le tremò leggermente. - Credi che questo cambierà qualcosa tra di noi? -
- No, se noi non vogliamo che cambi. -
- Il sesso cambia sempre le cose. -
- Ma noi non l'abbiamo fatto! - Cercai di sdrammatizzare usando un tono allegro, ma lei non rise. 
Si alzò in silenzio dirigendosi verso la stanza da letto. La seguii e la fermai prendendole il polso. - Ehi, vieni qui. - La attirai delicatamente a me, abbracciandola di nuovo. - Non deve cambiare nulla tra noi. - Le sollevai il viso per farmi guardare. - Io ti voglio troppo bene per andare via. -
Si staccò da me ed iniziò a girovagare per il salottino fissando il tetto. - Sono così imbarazzata! - Disse afferrandosi il viso.
- Perché Naki? Non esserlo. -
- Sono stata una cogliona. Mi sono lasciata prendere dall'emotività. Credevo fosse una soluzione quando sarebbe diventato solo un problema forse ancora più grande. Per non parlare del fatto che mi sono comportata da puttana ninfomane. -
- Non dirlo nemmeno per scherzo. -
- Già, una puttana ti avrebbe detto il prezzo prima! -
- Naki, smettila! - Le afferrai nuovamente i polsi. - I momenti di debolezza capitano a tutti. Anche io sono stato un coglione perché dovevo farti rinsavire ed invece mi sono fatto prendere dagli ormoni. - 
Si liberò di nuovo le mani e fissò per un attimo il pavimento. Sbuffò a ridere lasciandomi perplesso. Mi guardò ancora ridendo. - A una cosa è servita però. -
- A cosa, scusa? -
- A farmi capire che so ancora rendermi desiderabile. - Disse muovendosi verso la stanza da letto ancheggiando in modo comico.
Eccola la mia Naki, la sua forza d'animo, la sua luce di pace e serenità. Risi con lei. - Ora non ti montare la testa! Sono io che sono a stecchetto da tanto. E, sai come si dice, no? A tempo di carestia... - 

Si voltò a guardarmi in cagnesco, poi si infilò nella stanza da letto. Ridendo mi sedetti sul divano cercando con gli occhi il telecomando per accendere la tv. Quando improvvisamente qualcosa di morbido e bianco mi colpì in pieno volto. Vidi Naki nel corridoio con le mani sui fianchi che mi guardava soddisfatta per il centro fatto. Ebbi appena il tempo di prendere il cuscino che mi aveva lanciato che me ne lanciò addosso un altro. 
- Vuoi la guerra? L'avrai! - La inseguii per il salotto.
Sembravamo due bambini dispettosi, due cuginetti che si rincorrono mentre i grandi giocano a carte intorno al tavolo di Natale. Quello che era successo prima era già stato cancellato, archiviato nello scaffale più polveroso, bruciato via insieme a ciò che non è mai esistito. 
Quando ci fermammo, le nostre risa furono sovrastate da Brendon che strillava. Naki corse da lui ancora ridendo. Tornò dopo poco col bambino in braccio che si stropicciava gli occhi. 

- Deve aver pensato a un invasione barbarica sentendoci distruggere il salotto. Povero piccolo. - Dissi baciandogli una guancia ancora umida di lacrime. 
Mi guardò con un labbruccio sporgente che faceva venir voglia di mangiarselo in un istante. Agitò le braccine cicciose verso di me con i suoi tipici gridolini che stavolta sembravano ancora spaventati. 
- Tio. -
Lo guardai spalancando gli occhi, restandone pietrificato, mentre Naki già urlava esultante e felice. 
- Tio. - Ripetè il piccolo Brendon sorridendo e continuando ad agitarsi verso di me.
Lo presi in braccio ancora incredulo. Lui mi si strinse al collo per poi iniziare a impastarmi la faccia coi suoi pugnetti. 
- Tio! - Ripetè più forte, stavolta ridendo. Ed il mio cuore si sciolse.

- Daccordo Dani. Ci vediamo tra mezz'ora. Ciao. - Naki chiuse il telefono e mi guardò mordendosi il labbro. 
- E allora? Dovete uscire? -
- Mi ha detto che mi deve parlare di una cosa importante. -
- Di cosa? - Ancora una volta feci il finto tonto.
- Non lo so. - Iniziò a pizzicarsi i palmi. - Ma dice che sarà qui tra mezz'ora. -
- Allora è meglio che io vada. -
- No, ti prego resta! - Lo disse troppo velocemente e quasi impaurita per non tradire l'emozione che l'aveva presa. 
- Ma se ti deve parlare non credo che gli farebbe piacere avere me tra i piedi. Non sappiamo mica cosa deve dirti. - Io lo sapevo, in realtà.
- Hai ragione, ma... - Pensò ad una scusa e la trovò quasi subito. - Potresti tenere Brendon di là così non ci interromperà mentre parliamo. -
- Non mi pare il caso, Naki. Sul serio. Se vuoi che tenga Brendon lo farò, ma col tuo permesso io e questo pasticcione ce ne andremo a fare un giro. - Dissi pizzicando la guancia del piccolo che si era tutto sporcato cercando di mangiare da solo il suo omogeneizzato di frutta.
- Dove lo porti? - Disse lei, rassegnata. 
- Non lo so. Facciamo un giro per strada. -
- Due traverse più in basso c'è una piccola ludoteca. Potresti fargli fare qualche giretto sulle giostre. - 
- Va bene. -

Se ne andò in camera portando con sè il bambino. Mentre lo lavava e vestiva, suonò il campanello di casa. 
- Vedi chi è? - Mi urlò dall'altra stanza. 
Mi avvicinai allo spioncino. Daniele era arrivato prima della mezz'ora che avevano concordato. Mi sentii stranamente in imbarazzo, ma cercai di apparire normale quando aprii la porta. Lui, invece, dovette esserci rimasto parecchio male per essersi trovato me di fronte.
- Ciao. - Farfugliò.
Vedendo come mi fissava, mi ricordai di avere la zip aperta. La chiusi senza riuscire a trovare il coraggio per ricambiare il saluto. 
- Dici a Naki che passo dopo. Anzi, non passo proprio. - Si avviò per le scale a passo spedito. 
- Oh, Daniele! Fermo! Che t'è preso? - Lo rincorsi.
- Niente Cris. - Si fermò e tornò indietro. Si piantò davanti a me, ergendosi in tutta la sua altezza con aria minacciosa. Parlò lentamente e pacatamente anche se da ogni sibilo traspariva la sua rabbia. - Dovevo sospettarlo. Dirti quello che provavo è stata una cazzata. Spero ti sia divertito. Ma se lei ci starà male giuro che ti verrò a prendere e ti farò rimpiangere questo momento. -
Ripensando a quello che stava per succedere poco prima mi sentii una merda. Ma quello non era successo, perciò dovetti trovare il coraggio di ribattere.
- Daniele, ma che cazzo stai dicendo? Ancora con questa storia di me e Naki? Ma sei pazzo? -
Continuò a fissarmi nello stesso modo. Deglutì e le vene del collo sembrarono gonfiarsi ancor di più. 
- Senti, pensala come vuoi! Io volevo solo portarmi via Brendon così potevate stare tranquilli, ma se non vuoi me ne torno a casa da solo. - 
Scesi nuovamente le scale e lo vidi rilassarsi tirando un sospiro di sollievo. - Scusami, sono solo un po' nervoso per come andrà oggi. -
Gli feci l'occhiolino e rientrai.

La ludoteca era abbastanza piccina, ma a Brendon dovette sembrare un paradiso a giudicare da come iniziò a ridere appena varcata la soglia. Le pareti ricoperte con soffice tessuto gommato erano piene di colorate immagini dei cartoni. Buona parte della piccola stanza era occupata dai giochi gonfiabili per i bambini più grandi. La ragazza che mi venne incontro, mi indicò che in un angolo c'era un box abbastanza grande riempito di palestrine e giocattoli più appropriati all'età di Brendon. Gli tolsi le scarpette e lo infilai lì dentro. Lui, gattonando, corse subito dalla bimba che si trovava già lì dentro ed iniziò a giocare con lei. 
Mi sedetti sulla panchina accanto al box, di fronte a quella che doveva essere la madre della piccola. Una raffinata signora sui trentacinque anni, ben vestita, con i capelli tirati indietro in una crocchia allungata e un paio di occhialoni neri da donna in carriera sul naso. Gli occhi di un verde intenso scrutavano da dietro le lenti lo schermo di un tablet bordano di nero. Solo sporadicamente alzava gli occhi sulla figlia, accennando un sorriso e dedicandole non più di un attimo di attenzione. 
Anche se guardare Brendon giocare con la sua nuova amichetta e ridere divertito da tutti quei giochi era molto bello e rilassante, divenne presto un po' noioso. Invidiai lo strano da fare che sembrava avere la donna seduta lì davanti e rimpiansi di non essermi portato almeno qualche appunto da leggere. Presi il cellulare ed iniziai a sfogliare i vecchi messaggi. Ce ne erano ancora alcuni di Miriam. Senza rileggerli, li cancellai uno per uno. Non avevo più motivo di tenerli lì e se c'erano ancora era stato solo per pigrizia, non per altro!
Quando arrivai a quelli di Meg, un sorriso mi increspò le labbra. Pur essendo dei normali messaggi che non contenevano nulla di speciale, ai miei occhi erano stranamente dolci. Forse non tanto stranamente. Almeno non quanto il fatto che mentre rileggevo un suo messaggio il telefono iniziò a vibrare per una sua chiamata. 

Inizialmente non risposi pensando che magari volesse solo farmi uno squillo. In realtà il telefono squillò per molto, così che infine risposi. 
- Pronto? -
- Ciao Cris! - La sua voce cristallina e squillante risuonò nelle mie orecchie così forte da farmi quasi male, ma continuai a sorridere.
- Ciao Meg. Come stai? -
- Oh, io bene! Tu? -
- Non mi lamento. Come mai mi hai chiamato? E' successo qualcosa? -
- Ti ha dato fastidio? - 
- Ovviamente no. Solo che mi sembra strano. -
- Non ti ho visto collegato. Sei a casa? -
- No, sono fuori con Brendon. -
- Salutami Naki allora. -
- Lei veramente non c'è. E' rimasta a casa. Doveva sbrigare una cosa perciò ho portato Brendon in ludoteca. -
- Parli di quel buco accanto alla farmacia? -
- Sì, quella. -
- Ma perchè non me lo dicevi che vi portavo io in una ludoteca decente? -
- Certo! Ti chiamavo per questo? -
- Passavo un pomeriggio fuori almeno. -
- Ti stai annoiando? -
- Un po'. Non ho voglia di studiare. Ludo è in palestra. Perciò passo il tempo a contarmi i nei. -
Risi e sentii ridere anche lei. - Lavoro interessante? -
- Non potresti mai immaginare quanti ne ho scoperti. Jeff dice sempre che... - Si bloccò all'improvviso. 
- Meg? Tutto ok? -
- Sì, sì. Tranquillo. -
- Sicura? -
Per qualche istante restò in silenzio.
- Meg. Non rispondere non è il modo più sicuro per farmi stare tranquillo. -
- Davvero. Non è niente. Solo che ci sono momenti... - Di nuovo silenzio.
- Questi momenti passerebbero se avessi un po' di compagnia? -
- Io... credo... credo di sì. - La voce sembrava rotta da un pianto che tentava di diventare sempre più forte.
- Allora fai una bella cosa adesso. Chiudi il telefono, ti fai una bella doccia e ti prepari. Io nel frattempo vedo di organizzare qualcosa per stasera. -
- Ma... non devi farlo per me. -
- Anche io volevo uscire stasera. Dai, chiamo Marco e ti faccio sapere. -
- Cris, grazie. - Sembrò leggermente più rincuorata. 
- Ci sentiamo dopo. -

Tornai a guardare il box. Brendon era seduto da solo a mordicchiare le orecchie di un povero orsetto. Durante la mia chiamata la signora si era portata via la figlia senza che nemmeno me ne accorgessi. Gli strappai di mano poco delicatamente il pupazzo, terrorizzato all'idea che potesse prendere qualche infezione mettendo in bocca quel portatore di microbi. Lui mi guardò stranito, cercando di comprendere cosa era successo. 
- No, amore. Questo non si mette in bocca. Lo toccano tutti i bimbi e ci sono i mostriciattoli cattivi che sono piccoli piccoli e ti vanno nel pancino per farti la bua. -
Brenond mi guardò ancora più sconvolto, aprendo ancora di più gli occhioni verdi e sporgendo il labbro che iniziava a tremare. 
- No, niente pianti. Tanto questo non te lo do lo stesso. Anzi... - Guardai l'orologio. - ...adesso andiamo via che sono passati tre quarti d'ora. -
Quando mi sporsi per afferrarlo, iniziò a piangere aggrappandosi alla rete del box. - Dai, non fare così! - Provai a incitarlo, ma non riuscii a calmarlo. 
Mi sporsi di più e delicatamente staccai le sue manine dalla rete. Mentre continuava a piangere e a dimenarsi, gli infilai le scarpine. Tenendolo in braccio andai a pagare. La ragazza mi guardò sorridendo intenerita dalla scena. Dovetti sembrarle in preda al panico perché si sentì in obbligo di rincuorarmi sottolineando che tutti i bambini fanno così quando sono portati via. 
Durante il tragitto, mentre Brendon da solo diminuiva il suo pianto ormai rassegnato all'idea di tornare a casa e si lasciava cadere pian piano nel sonno, chiamai Marco. Decidemmo che saremmo andati al solito pub. Lui avrebbe avvertito gli altri mentre io avrei parlato con Meg e Ludovica. 

Quando suonai al citofono, qualcuno mi aprì senza nemmeno rispondere. Salii le scale ed entrai dalla porta lasciata socchiusa. L'atmosfera che trovai fu del tutto diversa da come me l'aspettavo. 
Daniele, seduto sul divano, fissava la TV con l'aria totalmente assente. Naki, accanto a lui con le gambe incrociate, si alzò di scatto nel vedermi entrare. La sua espressione non era molto più vivace, però. 
- Dorme? - Mi chiese sottovoce. 
Annuii e mi fece cenno di seguirla nella stanza da letto. Poggiai Brendon nel lettone e la guardai. - Che è successo? - Dissi piano.
- Dopo ti spiego. - Non mi guardò nemmeno, intenta a sistemare bene il bimbo.

La lasciai così per tornare in salotto. Daniele si era alzato. Adesso era ritto al centro della stanza, le mani infilate nelle tasche dei pantaloni e lo sguardo perso a fissare il corridoio.
- Ma che è successo qui? - Gli chiesi mantenendo un tono di voce basso.
Voltò gli occhi verso di me. Erano incendiati di una strana luce. Uno sprezzante sorriso beffardo gli incarcò le labbra verso destra. Si avvicinò a me continuando a tenere le mani in tasca finché ci separarono solo pochi centimetri. - Sei uno stronzo, lo sai? -
- Cosa? - Non capii davvero le sue parole perché le disse tenendo i denti serrati.
- Stronzo. Sai cosa vuol dire? Quello che vedi ogni mattina guardandoti allo specchio. - Stavolta lo disse in modo chiaro, ma continuai a non afferrare ciò che stava succedendo.
- Daniele, ma che... -
Non riuscii a completare la frase. Un pugno mi colpì in pieno volto, dritto sotto lo zigomo sinistro. Era stato così veloce che non mi ero neanche accorto che avesse uscito le mani dalle tasche. 
- Ma che sei impazzito? - Dissi parando un altro colpo, diretto stavolta al mio stomaco.
Altri pugni continuarono a cercare di colpirmi, ma tutti furono parati. Quando ne ebbi piene le scatole reagii e, raccolte le forze, gli bloccai i polsi. Girai le sue braccia costringendolo a seguire i miei movimenti se non voleva rischiare di averle rotte. Lo schiacciai con la faccia al muro, premendo sull'incavo delle ginocchia con le gambe cercando di non fargli male.
- Ti sei calmato ora? -

Naki non aveva sentito nulla perché entrambi eravamo stati attenti a non far rumore. Quando arrivò in corridoio, perciò, la scena la sorprese parecchio.
- Cris, che stai facendo? - Urlò, fregandose del bambino che dormiva a poca distanza.
Lasciai la presa e Daniele si voltò ricomponendosi come se nulla fosse successo. Anch'io mi atteggai a normalità. - Ti spiego tra poco. Daniele adesso ha un impegno e deve andare, giusto? - Lo fissai minacciandolo con lo sguardo.
Conscio di aver afferrato che fisicamente non poteva battermi e non avendo intenzione di ripetere la sfuriata davanti a Naki, si limitò ad annuire e ad andarsene in silenzio.

- Mi spieghi cosa significa quello che ho visto? - Mi chiese Naki infuriata appena se ne fu andato.
- No, sei tu che devi spiegarmi cosa è successo mentre non c'ero. Quello che hai visto ne è stata sicuramente una consegnenza ed io mi sono beccato un pugno in faccia senza nemmeno sapere il motivo! E adesso tu devi spiegarmelo. -
La notizia sembrò quasi rallegrarla. Il suo viso stranamente si illuminò lasciandomi ancora più perplesso. Sorrise. - Davvero ti ha dato un pugno? -
- Se è per questo me ne ha dati più di uno, ma gli altri sono arrivato a pararli. Vedo che la cosa ti diverte. - Dissi ancora più irritato. 
- No, no. Scusa. - In realtà non riusciva a smettere di sorridere. 
- Prendi per il culo, allora. -
- Nemmeno quello. Solo che... -
- 'Solo che' cosa? Parla, Naki! -
- Beh, lui è venuto qui per parlarmi, no? -
- E fin qui c'ero anche io. -
- Quando è arrivato si è messo a divagare e parlare di banalità. Non credo sia venuto qui per questo. Così ho deciso di approfittare della cosa per testare il terreno. - Si morse il labbro inferiore.
- Cosa intendi con 'testare il terreno'? - Lo chiesi anche se qualcosa l'avevo già intuita.
- Beh, sai com'è. Vedere se potrebbe essere interessato a me o no. Così gli ho iniziato a dire che mi piaceva un tipo e che ci stavo bene insieme. Lui non reagiva in nessun modo, così gli ho detto che ci sono stata a letto. -
- No, Naki. Non dirmi che hai fatto quello che penso! -
- Mi sa di sì. -
- Gli hai detto che ero io! - 
- Già. - Si morse di nuovo il labbro.
- Oh, Naki! Hai fatto un casino! - Dissi gettandomi a sedere sul divano mettendomi le mani ai capelli.
Lei, invece, sembrava non concentrarsi su quello che aveva combinato. - Ma non è bellissimo che abbia reagito così? Il fatto che ti abbia dato un pugno significa che è geloso e quindi che ci tiene a me! -
- Naki tu ti sei fritta il cervello oggi! Ma proprio di brutto! Daniele è dal primo giorno che pensa che mi voglio approfittare di te, lo sai. Adesso che ero riuscito a conquistarmi la sua fiducia, tu che fai? Gli dici che siamo stati a letto insieme? -
- Beh non è così distante dalla verita poi! - Mi disse ridiventando seria ed incrociando le braccia al petto.
- No, eh! Non riusciamo questa storia. Mi pare che entrambi eravamo daccerdo che non se ne sarebbe parlato più. -
Mi fissò un altro po' seria, poi tornò a sorridere e saltellando tornò in camera da letto. - L'importante è che Daniele è geloso di me. Vuol dire che anche lui in fondo prova qualcosa. -
La vidi scomparire dietro la porta. Mi buttai a peso morto in posizione supina, con la faccia tra i cuscini bianchi del divano. - E ora chi glielo fa capire a quel pazzo che io non centro niente in questa storia? -

Il solito locale era abbastanza pieno nonostante la pioggia che era cominciata fitta proprio mentre salivo nella macchina di Ludo. E la gente che lo riempiva non era la solita.
- Se avessi saputo che avevano organizzato sta serata truzza mi sarei stato a casa volentieri. - Mi disse Marco al quanto schifato dalla musica che propinavano ad alto volume. 
Le luci erano più basse del solito ed una postazione da dj era spuntata dal nulla nell'angolo più fondo del locale. I tavoli erano stati spostati per creare una piccola pista da ballo che al momento era vuota.
- Vi prego! Vi prego, andiamocene! - Ludovica si avvicinò supplichevole con le mani intrecciate in una preghiera. 
Daniela invece insistè per rimanere dicendo che ogni tanto anche noi dovevamo fare qualcosa di diverso ed adattarci alle situazioni. Meg, stranamente, le diede corda e si precipitò ad occupare un tavolo proprio a bordo pista. Io, perso com'ero a guardarla, neanche mi resi conto di seguirla. 

Da quando l'avevo vista non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso. Portava una gonna di una bella fantasia tartan sul verde scuro. La fascia stretta in vita sottolineava ancor di più le curve morbide dei suoi fianchi accarezzati dalle pieghe che scendevano fino a metà coscia. Un cardigan nero la fasciava coprendo la camicia bianca un po' troppo leggera. Le belle gambe erano coperte da calze scure e dagli stivali senza neanche un accenno di tacco che le coprivano completamente i polpacci. I ricci lasciati morbidi sulle spalle, una lieve linea di eyeliner a sottolineare i grandi occhi da gatta e un filo di gloss trasparente a rendere le labbra ancora più invitanti, la facevano sembrare quasi una ragazzina scappata da un collage inglese. Un'affascinante ragazzina scappata da un collage inglese. Diciamo pure una sexy ragazzina. 
L'unica cosa che notai oltre all'ondeggiare leggero delle pieghe ai suoi passi, furono gli sguardi che si posavano sul suo corpo, rivelatori di sogni erotici non nascosti. 

Il nostro aperitivo si trasformò in cena e la cena in fiumi di birra. Quando furono abbastanza brille da mettere da parte l'imbarazzo, ma non troppo da non potersi reggere in piedi, le ragazze si allontanarono dal tavolo infilandosi nella piccola mischia che si era venuta a creare nella pista. 
Marco e Andrea continuavano a parlare e, teoricamente, ero anch'io incluso nella conversazione. In realtà non capivo una sola parola di quello che si dicevano. La mia attenzione era tutta per quello splendido sorriso che ballava sotto una luce bianca che voleva quasi sottolineare i suoi tratti angelici. Anche se di angelico nel suo sguardo restò ben poco quando un ragazzo le si avvicinò ballando.
Un bel tipo di quelli che fanno di solito impazzire le ragazze. Alto, coi capelli gellati e l'orecchino in vista. Il fisico scolpito messo in evidenza dalla maglietta aderente e la faccia da stronzo. L'aria da superfigo, la convinzione di essere ammirato dalle donne e la certezza di poter avere ognuna che avesse voluto. E in quel momento sembrava aver puntato Meg. Qualcosa mi si smosse dentro. Un fuoco, una rabbia, la stessa che avevo sentito mille volte quando vedevo Jeff venire a prenderla in facoltà. 

- E voi non venite? - Daniela, puntuale come sempre, era tornata al tavolo per convicerci a ballare con loro. 
- No carina! Ci hai convinti a fare karaoke ma non riuscirai mai a vederci ballare! - Marco l'ammonì avvalorando la sua tesi con una delle facce schifate che non si era risparmiato quella sera. 
Continuavo a tenere gli occhi fissi su Meg, ma sentivo lo sguardo di Daniela su di me. 
- Come mai Naki non è venuta stasera? - Mi disse dandomi una botta al braccio per farsi prestare attenzione.
- Non voleva uscire il bambino e poi questo non è posto per lui. -
- E Daniele? -
- Non lo so. - Cercai di liquidarla.
Purtroppo non funzionò. Mi si gettò in braccio e, sistemandosi sulle mie gambe, accavallò le sue, fasciate da dei leggins neri su cui portava un vestitino corto di un verde mare molto intenso. 
- Che fai? - Le dissi istintivamente, quasi infastidito.
- Resto qui. Mi fanno male i piedi. - Mi disse con tutta tranquillità indicandomi le scarpe dai tacchi parecchio alti.
Cercai in tutti i modi di far capire che la cosa non mi piaceva, ma lei non si mosse. Anzi, ai miei movimenti che volevano trasmettere la mia scomodità, lei rispondeva con occhiate maliziose e sorrisi accattivanti. Cercai allora di introdurmi nella conversazione tra Marco e Andrea. 
Fortunatamente dopo un po', vedendo che veniva ignorata si alzò e tornò a ballare, non senza aver sculettato fissandomi da sopra la spalla. 

Appena se ne andò cercai Meg tra la folla, ma non la trovai. Scrutai allora il locale e la vidi seduta al bar. Tra le sue mani, un cocktail. Sul bancone, due bicchieri già vuoti. Accanto a lei, il belloccio. Sorrideva accattivante e le accarezzava il braccio con due dita. No, la situazione non mi piaceva per niente. 
Senza dir nulla mi alzai dal nostro tavolo e mi avvicinai a loro. Mi affiancai a Meg fissando il Ken di turno continuando a non dire una parola. Lui si accorse di me e mi rivolse uno sguardo da cacciatore infastidito. 
- Fatti un giro, fratello. - Mi disse con tono derisorio.
Anche allora non risposi. Ma Meg si voltò accorgendosi di me. 
- Ciao! - Urlò gettandomi le braccia al collo. Era visibilmente ubriaca, molto più della prima sera che eravamo usciti insieme. Sul bancone i bicchieri vuoti erano molti più dei due che avevo visto. Mi stupì il fatto che non avesse ancora vomitato. 
- Lui è Davide. - Mi disse in preda alle risa appoggiandogli una mano sulla spalla. - Lui è un calciatore professionista, sai? E l'anno prossimo giocherà in serie A! - Parlò come se mi stesse confidando un segreto di cui andava orgogliosa. - Qual è la squadra che ti vuole? Ah, ma chi se ne importa! Tanto io nemmeno lo seguo il calcio! - 
Ricominciò a ridere e quasi cadde dallo sgabello. Il Ken-Davide si sporse per prenderla, ma lo scansai sorreggendola per primo. 
- Meg, adesso saluta il calciatore e torniamo al tavolo. - Dissi fraternamente e cercando di mantenere la calma.
- No, non voglio di tornare con te. Voglio parlare con lui. E' tanto simpatico! - Si imbronciò cercando di divincolarsi dalle mie braccia, non capendo che erano quelle a tenerla in piedi.
Davide non perse l'occasione e la afferrò saldamente per un braccio cercando di strapparmela da dosso. Mi fissò torvo. - L'hai sentita, no? Non ci vuole venire con te. Vuole restare con me. -
- Toglile le mani di dosso o stasera ti finisce male. - Fui categorico. La voce ferma e fredda che lasciava comunque trasparire la rabbia. Non avrei voluto picchiarlo perché ero conscio che in quel momento non sarei stato capace di fermarmi. Avevo dentro troppo da sfogare. E sarebbe finita come ai vecchi tempi, tempi che non volevo più ripassare. Ma se fosse stato necessario, l'avrei fatto. 
Lui non accennò a lasciarla. - Ti ho detto di lasciarla. -
- Ma lei vuole me, non te. - Mi disse canzonandomi.
- E tu vuoi sentire i denti in gola a quanto pare. -
Lasciò il braccio di Meg, spingendola verso di me. Lei, forte di quella spinta, si divincolò dalle mie braccia e si accasciò sullo sgabello. 
- Ohi Meg, piano. Reggiti. - 
Stavo per riprenderla tra le braccia, quando un pugno mi colpì possente al centro delle scapole. Il respirò mi mancò e il dolore mi percorse la schiena fino alle gambe. Cedetti sotto quella botta accasciandomi accanto a Meg. Mi sentii strattonare e rivoltare. Mi appoggiò con la schiena al bancone tenendomi per la felpa. 
- Così impari a non farti i cazzi tuoi. Chi è che sentirà i denti in bocca adesso? - Mi sibilò a denti stretti. 
Serrai le palpebre. Respirai profondamente. Gettai uno sguardo verso Meg che era riuscita a sedersi sullo sgabello abbandonandosi sul bancone. Fissai il belloccio negli occhi di un profondo marrone scuro. Respirai ancora. Presi fiato. Raccolsi forza. 
- Tu. - Fu poco più di un sospiro, forse non mi sentì neppure. Ma altrettanto non si potè dire del resto. In pochi attimi la mia testa era finita con gran velocità e potenza al centro della sua faccia da egocentrico, dritta sul suo naso. Sentii le ossa nasali scricchiolare sotto il colpo. L'istinto di protezione lo portò a piegarsi per tamponare la zona colpita, ma ciò facilitò soltanto lo scontro del suo ventre contro il mio ginocchio che casualmente viaggiava nella direzione opposta. La botta lo fece sobbalzare e allora arrivò un colpo di gomito sulla spina dorsale che lo lasciò a terra a gridare tramortito per il dolore. 
Lo fissai respirando affannosamente, più per l'adrenalina che per lo sforzo. Mi passai una mano sulla fronte. Sangue, non mio. Sicuramente del suo naso. Mi guardai attorno e vidi lo sguardo delle persone che mi circondavano. Un misto di ammirazione per aver agito in difesa di una ragazza sbronza e di paura per aver steso in pochi secondi un bestione con le spalle due volte più larghe delle mie. Come ai vecchi tempi, esattamente come ai vecchi tempi. 

Presi Meg tra le braccia. Si era quasi addormentata. La schiaffeggiai delicatamente cercando di farle aprire gli occhi. Mi guardò e mi sorrise stringendo le braccia attorno al mio collo. Con lei così rannicchiata addosso, andai al tavolo. Quando i ragazzi mi videro arrivare si agitarono. Non si erano accorti di nulla. 
- Chiamate le ragazze. Penso sia arrivato il momento di andarsene. Intanto porto Meg fuori di qui. -
Afferrai il giubbotto di Meg per metterglielo sulle spalle e mi voltai senza aspettare risposta. Uscii dal locale passando accanto al Ken che si teneva il naso ancora gocciolante e mi prometteva vendetta, circondato da qualche amico che non osava neppure guardarmi. Restai fermo sotto la tettoia del locale. La pioggia era diventata quasi torrenziale. Ludovica e gli altri si precipitarono fuori dopo poco. 
- Ma che cazzo è successo si può sapere? - Chiese Daniela mentre mi poggiava il giubbotto di pelle sulle spalle.
Raccontai loro del belloccio e del suo probabile naso rotto. I ragazzi restarono in silenzio a fissare Meg che ormai si era addormentata tra le mie braccia. Daniela era visibilmente sconcertata, ma probabilmente aumentava intenzionalmente il suo stupore e i suoi complimenti sul mio coraggio e la mia prontezza. Ludovica, invece, mi guardava dritto negli occhi. I suoi si stavano inumidendo sempre di più. Le labbra tremanti si mossero in un ringraziamento che restò senza voce.

Era ormai l'una passata quando arrivammo a casa mia. Cercando di non far troppo casino, anche se probabilmente gli altri non erano in casa, entrammo in camera. Portavo Meg in braccio perché dopo che si era addormentata nulla era riuscito a svegliarla. La adagiai sul mio letto e la ricoprii con tutti i piumoni che riuscii a trovare.
- Dovresti cambiarti, altrimenti ti prenderai un accidente. Ti sei completamente bagnato. - Mi disse sottovoce Ludovica.
- Tu non sei da meno. - Risi piano guardandola lì al centro della stanza, tutta gocciolante ed infreddolita, col mascara che, tra lacrime e pioggia, le si era sciolto macchiandole le guance. 
- Ma tu puoi farlo. Io no! - Accennò un mezzo sorriso. 
- E chi l'ha detto? - Mi avvicinai all'armadio e ne tirai fuori una tuta ancora pulita. - Tieni. Il bagno è la seconda porta a sinistra. Cerca di non fare troppo rumore, però. - 

Sorrise ed uscì dalla camera. Mi sedetti accanto a Meg, accarezzandole la fronte bagnata. Nonostante avessi cercato di ripararla il più possibile, era anche lei bagnata fradicia. Rividi per un attimo la scena di quell'orribile Martedì sera e rabbrividii al solo pensiero. Mi chinai per baciarle la fronte e lei, con una piccola smorfia, si voltò verso di me. Aprì piano gli occhi e sorrise. - Ehi. - 
- Ehi. - Le risposi sorridendo.
Si mise a sedere rabbrividendo per il freddo e tirandosi al petto le coperte. Si voltò a guardare la camera e poi si toccò i capelli bagnati. - Credo di intuire che la serata non sia andata proprio bene. - 
Ridacchiai prendendola in giro. - Ma ci riesci a stare una serata senza metterti nei guai, tu? -
- Credo di no. Cos'è successo stavolta? -
- Non ricordi niente? - La guardai stupito. Non credevo fosse ubriaca al punto di non ricordare niente neanche un'ora dopo. 
Si grattò la testa. - E' un problema? -
- Dormi che è meglio, dai! - La spinsi delicatamente per farla ricadere sdraiata.
- Ma non ho sonno! - Iniziò a fare la bimba capricciosa.

- Che sta succedendo? - Chiese Ludovica rientrando in camera con la mia tuta addosso che le stava visibilmente grande. 
- Si è svegliata e dice che non si ricorda niente. -
- Tutta scena! Lo fa ogni volta e poi ha i ricordi più lucidi di me. - 
Si avvicinò all'amica e le diede un pugno in testa. Lo fece per scherzo ma credo che le fece male davvero. Meg si contrasse in una smorfia di dolore e si portò le mani a tenersi il punto colpito. - Sei scema? -
- No, sei tu la scema! Ora i ricordi ti si sono schiariti? - 
Fissai Ludo che sembrava essersi davvero arrabbiata stavolta. Anche Meg la guardava perplessa. - Ludo, che ti prende? -
- Che mi prende? Hai il coraggio di chiedermi che mi prende? Sono stufa, Meg! Sono stanca di vedere queste cose ogni volta che esco con te. Ogni volta, ogni singola volta, ogni stramaledetta volta devi esagerare e finire con il vomitare o con lo svenire o con l'addormentarti sui banconi. E quando non lo fai ti limiti a dare corda a dei depravati che vogliono procurarsi una scopata per la notte. Ed io sono stufa di dovermi preoccupare per te. Vorrei godermi una serata ogni tanto e non dover restare a dormire con te per evitare che la direttrice ti scopra. Vorrei passare una sera fuori con la mia amica che l'indomani non faccia finta di essersi dimenticata tutto solo perché si vergogna come una ladra di come è andata. Io non ce la faccio più. Ho smesso di farti da balia. Con oggi ho chiuso. Te lo giuro. -
Non urlò, ma pianse amaramente ogni singola parola. Quanto male stava facendo a sè stessa nel dirle le si leggeva negli occhi azzurri, due lucciole in mezzo ad una notte nera. 
Meg ascoltava a testa bassa. La vidi tremare ad ogni frase e sobbalzare ad ogni cambiamento di tono. Scorsi una lacrima caderle dalle guance sulle mani e la sentii trattenere i singhiozzi. 
Io mi sentivo estremamente a disagio. Era la mia stanza, ma stranamente ero io ad essere fuori luogo in quella situazione. 
Quando Ludovica finì di parlare si voltò ed andò ad appoggiarsi alla parete dandoci le spalle. Continuava a piangere tenendo i pugni sul muro vicino alle tempie. La vedemmo scivolare giù fino ad abbandonarsi a terra, ormai totalmente sconvolta dal pianto, mentre teneva ancora la testa appoggiata alla parete con i capelli rossi ancora umidi che le si appiccicavano al viso. 

Ne seguì mezz'ora di silenzio. Di imbarazzante, terribile, tagliente silenzio. Le due ragazze sembravano essersi tramutate in statue di cera tanto restarono immobili. Io, ormai, avevo contato tutte le crepe sul tetto e fatto la media delle venature che comparivano sui vari cassetti del'armadio. 

Improvvisamente mi accorsi di quanto due ragazze riescono ad essere psicologicamente collegate quando l'amicizia tra di loro è vera ed autentica. Nello stesso istante alzarono lo sguardo l'una verso l'altra. Senza dire una parola entrambe si alzarono e si diressero al centro della stanza. Si fissarono in silenzio, poi si abbracciarono. La scena quasi mi sconvolse. Dentro di me si agitò qualcosa, come se fossi di fronte ad un'esperienza trascendentale.
Meg si scusò di essere così imprudente ed immatura a volte, mentre Ludovica si scusò della scenata. Si asciugarono le lacrime e scoppiarono a ridere continando ad abbracciarsi.

- Ti porto a casa, scema. - Disse Ludovica scompigliandole ancora di più i capelli.
- Non mi va proprio e poi sono in uno stato pietoso. - Meg mise il broncio e fece i soliti occhioni dolci a cui è impossibile rifiutare qualcosa.
- E cosa vorresti fare? Sentiamo. -
Meg, come ricordandosi improvvisamente che anch'io ero presente, si voltò verso di me. - Non è che hai un'altra di queste tute che sto morendo di freddo? - 
- Vorresti uscire con una mia tuta? - Dissi come caduto dalle nuvole. 
- No, cretino. Restiamo qui, parliamo un po', il tempo che si asciugano i vestiti e poi andiamo. -
Le guardai un po' perplesso. Poi vidi Ludovica stringersi nelle spalle scuotendo la testa rassegnata e mi diedi da fare. Procurai un'altra tuta a Meg che si andò a cambiare in bagno ed accesi la piccola stufetta elettrica accanto a cui appoggiarono i vestiti bagnati per farli un po' asciugare. Infine mi andai a cambiare anche io e, tornato in camera, trovai Ludovica sdraiata sul mio letto e Meg intenta a frugare tra i miei dvd. 
- Oddio! Hai PiGreco! Lo cerco da una vita! - Disse tutta esaltata estraendo il disco dalla sua foderina di plastica ed inserendolo nel lettore.
Vederla così a suo agio nella mia stanza, come se si trovasse in quella di un vecchio amico, mi fece piacere e sorridendo mi andai a sedere accanto a lei ai piedi del letto.

- Ma sto film è una palla! Non ci si capsice niente! - Si lamentò Ludovica dopo circa un quarto di film.
In effetti il film, che vedevo per la prima volta pur avendolo da molto tempo, era parecchio pesante ma se riuscivi ad entrare nel meccanismo poteva affascinarti, come sembrava aver fatto con Meg. 
- Zitta tu, che non capisci un cazzo di cinema impegnato. -
- Tu lo chiami cinema impegnato, io lo chiamo cinema noioso. - Sbuffò e poi di nuovo calò il silenzio.

- Stupendo. Sono passati almeno quattro anni da quando ne ho sentito parlare per la prima volta, ma ne è valsa la pena. - Meg era entusiasta del film.
A me era piaciuto pure, anche se non ai suoi livelli probabilmente, mentre Ludovica si era annoiata al punto di crollare addormentata.
- E ora che si fa? - Mi disse Meg ridendo.
- La svegliamo. - 
- No, dai. Poverina è stanca. Lasciamola dormire. -
- E come torni a casa? -
- Non ci torno. - Lo disse come se fosse la cosa più naturale al mondo e tornò a sedersi per terra incrociando le gambe. - Tranne che tu sia stanco. Se vuoi dormire, la chiamo così ti lascia il letto libero e ce ne andiamo. -
La guardai. Avrei mai potuto mandare via quegli enormi occhi nocciola che mi facevano tremare l'anima? 

Mi sedetti accanto a lei e parlammo. Parlammo di tutto e di niente, fino a non capire più quanto tempo fosse passato e quanti argomenti avessimo toccato. Poi iniziammo a parlare del week-end di seminari a Torre del Vetro. Erano successe così tante cose che quasi me ne ero dimenticato.
- E così ti sei deciso ad andare pure tu. -
- Già. Tu ci sarai? -
- Devo ancora decidere. -
- Ma non è un po' tardi? -
- Prossima settimana scade il termine. -
- Da cosa dipende la decisione? -
- Senza girarci intorno, dai soldi. Devo contare quanto ho messo da parte. -
- Il problema di tutti insomma. - Ridemmo entrambi, poi tornai serio. - Posso farti una domanda indiscreta? -
- Spara. -
- Come mai non tutti sanno la tua situazione? -
- Quale situazione? -
- Il fatto della casa famiglia. Mi ricordo chiaramente che qualcuno ti ha ricordato che dovevi parlare coi tuoi prima di decidere se venire o meno. -
- Non è che non lo sanno. Tutti fanno finta di niente quando siamo con altri. L'ho chiesto io. Non voglio che la cosa si sappia più di tanto tra gente che non conosco. So che non c'è niente di male, che è il mio passato e non me lo sono scelto io. Ma credo che potrebbe esserci qualcuno che non capirebbe. -
- Certo è un argomento delicato. - Per un attimo rimasi in silenzio e mi sentii imbarazzato di quello che stavo per chiederle. - Come mai allora a me l'hai detto così tranquillamente? -
- Non saprei dirlo. Mi hai ispirato fiducia. - Prese a turturarsi le dita, fissandosele. - So che è una cosa strana, ma è come se sentissi da subito che tra noi c'era qualcosa. - 
Quelle parole mi stordirono, lanciando il mio stomaco in una catapulta di emozioni. 
- Come se sapessi che tra noi c'era un feeling, come se percepissi che saremmo diventati amici così. - 
Il suo sorriso mi disarmò e mi lanciò in un burrone. Sì, era definitivo. Eravamo amici. Eravamo amici e dovevo accettarlo. Dovevo accettarlo e starle vicino come se niente fosse. Come se tutto fosse regolare, come se tutto fosse al suo posto. 

Mi limitai a sorridere. Fissandola in silenzio. La voce nella mia testa urlava parole che non avrei mai avuto il coraggio di dirle.
- Meg, in questo momento credo che tu mi abbia ucciso. Non ti rendi conto di averlo fatto, ma hai preso un pugnale e l'hai conficcato dritto e prepotente al centro del mio cuore. Perché quello che mi stai chiedendo di fare adesso, in questo preciso istante, è qualcosa che non credo di poter fare. L'ho fatto fino ad adesso, ma se continui a guardarmi così non potrò più farlo. Ho finto con tutti, persino con me stesso, cercando di convincermi di non averlo già capito. Ma non potrò continuare così a lungo. Come se tutto fosse normale. Come se non ti amassi già. -

Aprii gli occhi. La luce di un pallido sole entrava fioca dalle fessure della serranda chiusa lasciando la stanza ancora nella penombra. Sentii il collo dolorante e la schiena indolenzita. Cercai di muovere le gambe che sentivo pesanti e solo allora ricordai di aver dormito seduto per terra.
Meg si era sdraiata sul pavimento e si era addormentata con la testa appoggiata sulle mie ginocchia coprendosi con il mio giubbotto. Per diverse ore ero rimasto sveglio a vegliare su di lei, ad osservare il suo viso che si rilassava in un sorriso dolce, a sentire il suo respiro delicato e regolare, ad innamorarmi di lei mille volte di più quando si muoveva piano per rannicchiarsi meglio. Poi, però, devo esser crollato anch'io, con la testa gettata all'indietro appoggiandomi sul letto in cui Ludovica non accennava a svegliarsi.
La guardai. Aveva il viso contratto in una buffa smorfia e teneva il labbro inferiore sporgente. Il desiderio di scendere a morderlo fu tanto forte che dovetti mordere il mio per non farlo. Quello di accarezzarla, però, non riuscii a frenarlo. Delicatamente le passai le mani tra le ciocce e in risposta lei si mosse assumendo un'espressione più rilassata. Piano si rigirò poggiando la schiena sul pavimento e tenendo il viso inclinato verso la mia pancia. Mosse le mani portandole a coprire gli occhi, forse infastiditi dalla poca luce che arrivava. Poi, lentamente li aprì. Sbattè qualche volta le palpebre per abituarsi e si stiracchiò come un gattino. Restò per un po' immobile a fissare il soffitto, poi si voltò di nuovo verso di me. Sorrise. Un sorriso che non dimenticai mai più.
- Buongiorno. - La sua voce sembrava essere resa ancor più dolce dal lieve arrochimento causato dal sonno.
- Buongiorno. -
Stavo per abbassarmi con l'intenzione di posarle un bacio sulla fronte, ma lei mi anticipò. Si sollevò e venne a baciarmi la punta del naso in un gesto che sconvolse qualsiasi briciolo di razionalità fossi riuscito a racimolare. Continuava a fissarmi sorridente con lo sguardo più sexy che avessi mai visto. Avete presente quando fate l'amore con una ragazza e il mattino dopo lei vi guarda invitante cercando di farvi capire che vuole farlo di nuovo? Lo sguardo che Meg mi diede mi rimestolò gli ormoni mille volte di più.

Si alzò lasciandomi intontito a fissare il vuoto. Si sdraiò sul letto accanto a Ludovica, baciandole la fronte ed accarezzandole i capelli come poco prima avevo fatto io con lei. Le sussurrò delle frasi delicate per farla svegliare.
- Oddio! - Ludovica scattò a sedere urlando.
- Calma, calma. - Le disse Meg ridendo.
- Che cacchio è successo? Che ora è? Dove siamo? - Ludo era ancora visibilmente interdetta dal sonno e si guardava intorno come un randagio sbandato.
- Siamo da Cris. Ti sei addormentata mentre vedevamo il film e non ti abbiamo voluto svegliare. E sono esattamente le... - Si guardò il polso, ma non c'era orologio. - Che ora è? - Mi chiese.
Controllai la sveglia sul comodino. - Quasi le otto. -
Ludovica si gettò sconsolata sul letto battendo i pugni sulle coperte. - Un'altra sera fuori senza avvisare. I miei mi uccideranno! -

Arrivai a lezione puntuale solo grazie al passaggio che Ludovica mi diede prima di tornare a casa con Meg. I ragazzi erano radunati davanti alla porta dell'aula e il professore era poco distante a discutere con gli assistenti tecnici, sicuramente per i soliti problemi di compatibilità del proiettore.
- Come è finita con Meg? Si è ripresa? - Mi chiese Marco dopo avermi salutato.
- Quasi subito, ma per sicurezza sono rimaste entrambe a dormire da me. Infatti non verranno a lezione. Non era il caso di venire qui combinate come ieri sera. -
- Io avrei apprezzato. - Commentò Andrea, con una delle sue battute di dubbia simpatia.
- Perché sei un porco. -  Aggiunse Daniela che si era stranamente rabbuiata alla notizia. E condì il tutto con un bel pugno sulla spalla di Andrea prima di entrare in aula senza aggiungere parola.
- Che le è preso? - Chiese Andrea massaggiandosi la spalla.
- Si sarà alzata dal letto col piede sbagliato. -
- O si sarà alzata dal letto sbagliato. - Rispose, continuando imperterrito a non voler cucirsi la bocca.

- Ragazzi, la prima ora di lezione la useremo per comunicare i risultati della prova. Quindi adesso proietterò la lista delle matricole con accanto il voto. Chi volesse vedere il compito scenda alla cattedra e potrà farlo. Prima di farvi vedere i voti devo dirvi che molti di voi hanno fatto davvero uno schifo assoluto. Altri sono stati abbastanza soddisfacenti. Solo pochi sono stati perfetti. Non ho fatto passare nessuno con riserva perché non credo ci sia motivo dato che questo non è l'esame finale. Per il futuro, sappiate che io amo le risposte concise. Non mi piace chi divaga uscendo fuori argomento per cercare di prendermi per il culo e non rispondere alla domanda che ho posto. Prima va una risposta concreta, poi si può pensare ad una minima contestualizzazione. Quindi non stupitevi di essere stati bocciati pur avendo scritto chilometriche risposte, ok? Non voglio sentire lamentele del genere! -
Dopo questa premessa che aveva fatto rassegnare un po' tutti, proiettò una tabella ben ordinata in cui comparivano a destra tutte le matricole che non avevano superato la prova e a sinistra quelle che l'avevano superata con accanto la votazione. Immediatamente cercai la mia matricola nella colonna di destra, convinto che un compito come il mio non avrebbe mai potuto meritare la sufficienza piena. Con mia grande sorpresa e felicità, però, la mia matricola lì in mezzo non c'era. Mi affrettai allora a cercarla nella colonna di sinistra. No, non era possibile! Doveva sicuramente esserci stato uno sbaglio. Sicuramente avevo confuso le righe o lo aveva fatto il professore. Non poteva essere quello il mio voto. Non potevo aver preso 30. Mi precipitai alla cattedra a chiedere il compito al professore senza accennare minimamente ad un possibile sbaglio. Guardai i vari fogli. Nessun segno rosso era stato apposto. Al termine di ogni foglio comparivano tre voci: contenuto teorico, esposizione e sinteticità. In ogni foglio erano tutti accompagnati da un segno di spunta. Il professore aveva scambiato la mia brevità causata dal poco ripasso con la sinteticità da lui ricercata. Non sapevo se sentirmi una merda per aver preso un voto così alto per un'incomprensione del genere o se gioirne. Decisi di gioirne. Riconsegnai il compito con un sorriso che andava da un orecchio all'altro e gongolante tornai al mio posto. 
- Da quel sorriso devo dedurre che ti sia andata bene. - Affermò Marco.
- Discretamente, diciamo. - Dissi compiaciuto. - A te? -
- Pensavo molto peggio, invece è andata bene: 27. -
- Ottimo. -

Anche gli altri avevano superato la prova, tranne Andrea e Umberto che lo sospettavano già. Terry, nonostante avesse la sua matricola nella colonna di sinistra, era sull'orlo delle lacrime. La sua media del 30 si vedeva minacciare da un "misero" 24 e questo la mandava in crisi. Scese a chiederne spiegazioni al professore che la liquidò brutalmente dicendo che se il voto non le stava bene poteva rifiutarlo e presentarsi all'esame invece di godere delle agevolazioni che avrebbero dato le prove in itinere. Per lei fu quasi una sfida e tornò a sedersi talmente infuriata che mi stupii di non veder fumo uscirle dalle orecchie.

- A Ludo e Meg come è andata? Qualcuno ricorda le loro matricole? - Chiesi.
- Se non le ricordo male sono passate entrambe. Ludo dovrebbe aver preso 26 e Meg il solito 30. Comunque sta pubblicando i risultati anche sul forum, così li possono vedere. - Mi rispose Daniela mantenendosi piuttosto acida nel tono.
- Glielo dico allora. -
Daniela sbuffò e si girò irritata dall'altra parte.
- Ma che cacchio gli prende? - Commentai con Marco mentre prendevo il telefono.
- Credo gli roda il fatto che calcoli più Ludo e Meg di lei. -
Sorvolai sul rispondere finché non ebbi inviato il messaggio a Meg. - Credevo le fosse passata dopo che si era fissata con Daniele. -
- Ma ora sa che Daniele non lo può avere ed è tornata in fissa. -
- E che palle, però! -
Marco mi fissò un po' sconcertato. - Palle? Che una ragazza te la sbatte sotto il naso? Sicuro, sicuro di non essere gay? -
- E smettila co sta storia Marco! Te l'ho già spiegato. Ma Daniela non mi interessa proprio e mi secca che debba fare la gelosa. Già le scenate non le sopportavo dalla mia ragazza, figurati se le sopporto da una che nemmeno mi interessa! -
- Sarà. - Mi disse visibilmente dubbioso.

Entrai in camera mia e la trovai vuota. Poggiai la valigia e mi buttai a peso morto sul letto.
Mia madre entrò in camera sorridente asciugandosi le mani umide sul grembiule a fiori. - Come è andato il viaggio? - Si avvicinò a baciarmi.
- Per un pelo non ho rischiato di viaggiare per tutto il tempo in piedi. Bepi dov'è? -
- Con Diana in cucina. L'ho invitata a restare a cena da noi stasera. - Ammiccò. Le risposi con un sorriso. - Sembra una ragazza davvero simpatica. -
- L'importante è che gli voglia bene. -
- Già. - Mi disse dolcemente, accarezzandomi il viso stanco. - Adesso vai a farti una bella doccia che tra mezz'ora è in tavola. - Mi diede un altro bacio ed uscì.

Rannicchiato al caldo delle mie coperte, felice del bel voto ricevuto la mattina e della serata trascorsa così tranquillamente senza che nemmeno mio padre creasse problemi, distrutto dopo una notte passata alla meno peggio sul pavimento, emozionato al ricordo di Meg e del suo sguardo, ero proprio a un passo dalle braccia di Morfeo.
- Cris! Ehi, Cris! Stai già dormendo? - La voce di mio fratello, nonostante volesse essere un sussurro, mi strappò al sonno tanto sperato.
- No, che c'è? - In realtà ero già più addormentato che sveglio.
- Domani potresti accompagnarmi dal dottore? -
- Cosa? - La domanda mi fece sobbalzare e scattai a sedere. - Ti senti male? -
- No, è che dovrei chiedergli una cosa. -
- Che devi chiedergli? -
- Una cosa che non posso chiedere a Diana. -
- Ma cosa? -
- Vedi, io... Con Giannusi non abbiamo mai parlato di... Se io potessi... -
- Bepi che cosa stai dicendo? Non ti capisco. -
Restò in silenzio.
- Bepi, parla. Se no non capisco niente. -
- Devo chiedergli se posso ancora fare l'amore con una ragazza. -
La sua voce era un misto di imbarazzo ed emozione. Mi fece intenerire. - Non credo dovrebbero esserci problemi, basta usare una posizione che puoi mantenere facilmente. -
- Io vorrei parlarne col dottore, per essere più sicuro. Non voglio rischiare imbarazzi con Diana. Lei è talmente bella, ed io... - Lasciò in sospeso la frase, ma capii che ne traspariva tutta l'insicurezza che prima della malattia non lo aveva mai sfiorato.
- Domani andremo da Giannusi, non preoccuparti. Ora dormi, però. -
- Ok. Grazie Cris. -
- Di niente Bepi. -

- Ma non è stato un po' imbarazzante andare proprio da lui a parlare di sesso? - Mi chiese Naki prima di avventarsi su un'altra forchettata di pennette al pesto. 
- Imbarazzante no. Irritante, forse. -
- Comunque, che v'ha detto? -
- Gli ha detto che può farlo. Anzi, gli farebbe bene perché lo aiuta a rilassarsi. -
- E... ci hanno già provato? - Abbassò la voce, come se qualcuno potesse sentirci.
- Ci sono pure riusciti se è per questo. -
Scoppiò in una gran risata e poi, con aria curiosa, mi chiese di raccontarle come era andata.
- Domenica pomeriggio ho portato fuori mia madre con una scusa per lasciargli casa libera e quando sono tornato mio fratello era stranamente tranquillo. -
- Non ti ha raccontato niente? -
- Sì, ma questo non te lo dirò! - Dissi, dandogli un leggero colpetto di forchetta sul naso. 
- Sei cattivo! Non puoi lasciarmi così! -
- Ma guarda un po' se questa deve impicciarsi della vita sessuale di mio fratello! - Dissi parlando all'aria.
- E va bene. Se non vuoi raccontarmelo non fa niente. - Si fiondò a consolarsi con un'altra forchettata di pasta. 

Brendon gattonava per la cucina cercando di esplorare gli sportelli che, però, erano stati precedentemente chiusi in modo sicuro. Ogni tanto urlava arrabbiato per non riuscire ad aprirne qualcuno che lo incuriosiva particolarmente. Io continuavo a mangiare osservandolo e sorridendo.

- E con tua madre? Come va? -
La fissai un attimo disorientato. Poi mi sbloccai. - Bene. Tutto ok. -
Lei continuò a guardarmi finché non mi convinsi a continuare. 
- Si vede di nuovo con Giannusi. -
- Come l'hai scoperto? -
- Sono stato io a consigliarglielo. -
- Cosa? - Mi guardò sbalordita.
- Non l'aveva più visto. L'aveva lasciato del tutto. Ma era sempre più triste. Si era spenta. E non riuscivo a vederla in quel modo. Dopo tutto mio padre non la vede più come una moglie, ma solo come la governante di casa. Non dico che sia giusto quello che lei sta facendo, ma non è giusto nemmeno quello che fa lui. -
- Non è una bella situazione. -
- Per niente. - 
Stavo fissando il piatto da quando avevo iniziato a parlare e solo la leggera carezza che mi fece al viso riuscì a farmi sollevare lo sguardo.

- Cambiamo argomento, dai. Come è finita con Daniele? -
- Beh, Daniele... - Arrossì e non disse altro. Prese a guardare il bambino che nel frattempo aveva preso a giocare con la tovaglia che ricopriva il tavolo. 
- Daniele, cosa? -
Sentii dei rumori provanire dall'ingresso, come se qualcuno stesse aprendo la porta. Io mi misi in allarme, ma vidi che Naki era rimasta tranquillamente seduta al suo posto, mordendosi un labbro e arrossendo sempre di più. Sentii la porta aprirsi del tutto.
- Cucciola, sono arrivato. -
Mi voltai a vedere chi fosse e rimasi sorpreso. Daniele entrò senza guardarsi intorno. Richiuse la porta dietro di sé e si tolse il pesante giaccone gettandolo sul divano. 
- Oggi è stato un inferno. - Si voltò verso di noi. - Oh Cris, ciao. Come stai? - 
Nessun tono aspro, nessun rancore velato. Solo un enorme sorriso. Venne verso di me e mi diede una forte pacca sulla spalla, abbassandosi poi per abbracciarmi, mentre io ancora stupito non mi ero alzato e non riuscivo ad aprire bocca. Si avvicinò a Naki che gli sorrideva e le posò un delicato bacio sulle labbra. Poi si rivolse a Brendon, prendendolo in braccio e iniziando a giocare con lui.
Naki mi guardava adesso sorridente, sicuramente divertita dall'espressione sbalordita e idiota che avevo assunto. - Beh, io e Daniele ci siamo messi insieme. - 
- E quando? - Fu l'unica cosa che riuscii a dire mentre ancora immagazzinavo la notizia. 
- Da Giovedì sera. -
Continuai a guardarla. Ero confuso, stupito e contento, ma non riuscivo ad esprimere l'ultima senza far prevalere le prime. 
- Quando sei andato via, Naki mi ha chiesto di tornare qui. - Disse Daniele avvicinandosi a lei tenendo ancora in braccio Brendon. - Mi ha chiesto perché avessi reagito in quel modo ed io le ho detto la verità, anche se non in modo carino. Ero arrabbiato, moltissimo. E lei continuava a sorridere. Credevo mi stesse prendendo in giro e questo mi faceva arrabbiare ancora di più. Ma appena finito di sbraitare, lei mi ha afferrato e baciato. E lì mi sono sciolto. -
Lei ridacchiò visibilmente gratificata dalla dolcezza nell'espressione di Daniele. - Poi gli ho spiegato che tra me e te non era successo niente. All'inizio non c'ha creduto molto, ma alla fine si è convinto. -
Mi decisi a parlare, finalmente. - E perché me lo avete tenuto nascosto tutto sto tempo? - Abbracciai Naki, stringendola forte. 
- Perché tu mi hai nascosto che sapevi quello che provava lui! - Mi disse dispettosa.
- Non sai quanto sono contento che vi siate decisi a dirvi la verità. Davvero, sono felice per voi. -
- Grazie Cris. - Daniele mi poggiò una mano sulla spalla, guardandomi felice come non l'avevo mai visto. - Credo che se non fosse stato per te non avrei mai trovato il coraggio di farlo. -
- Mi sono beccato un bel pugno per questo, ma mi sta bene così! -
- Neanche tu ci sei andato leggero con me! -

Li guardai tenersi le mani teneramente. Vidi negli occhi di Naki una luce nuova, ancora più potente di quella che avevo conosciuto. Finalmente qualcuno si sarebbe di nuovo preso cura di lei come meritava. Ero felice, estremamente felice che il destino avesse deciso di far girare le cose per il verso giusto. Finalmente si era accorto del gran casino che aveva fatto e stava provando a mettere le cose a posto. 

Erano le 19 ed io cercavo da quasi tre ore di mettere ordine tra gli appunti, ma qualsiasi cosa leggessi mi sembrava sempre più confusa di quella precedente. Decisi di finirla per il momento e mi dedicai al puro cazzeggio. Poco tempo dopo essermi connesso, Meg mi contattò. Era diventata ormai una bellissima abitudine parlare con lei. Anche Marco e Ludovica mi contattarono, separatamente, poco dopo. Per un attimo pensai all'anno precedente in cui le mie conversazioni su msn si limitavano solo a qualche piccola conversazione con Bepi e a quelle infinite e pallose con Miriam. Risi di me a quel pensiero. 

Poco dopo, una nuova finestrella mi si aprì davanti agli occhi. Stavolta era stata Daniela a contattarmi. 
'Salvami Cris, ti prego!'
'Ehi Dani, che è successo?'
'Tutta la flotta dei miei parenti si è riversata a casa mia. Devo scappare di qui. Usciamo?'
'Che vuoi fare?'
'Qualsiasi cosa, basta che mi porti fuori di qui!' 
'Sto giusto parlando con Marco. Ora glielo propongo.' 
Il fatto che non mi rispose subito mi fece intuire che l'uscita di gruppo non era quello che aveva sperato. Forse aveva ragione Marco a pensare che fosse di nuovo in fissa con me. E la cosa in quel momento non mi sembrò poi così tragica.
Il classico chiodo-schiaccia-chiodo non aveva senso e l'avevo rifiutato fino a pochi giorni prima, ma in realtà quella sarebbe stata una situazione differente, no? Daniela, a quanto mi avevano detto, aveva la passione per fare un po' la civetta e gli piaceva capire che le persone che puntava la corteggiavano. Io avevo bisogno di tornare a scoprire che al mondo esistevano altre ragazze oltre Meg. Nessuno dei due voleva arrivare al punto di concludere fisicamente qualcosa o ad innamorarsi perdutamente perciò uscire una sera da soli insieme non avrebbe di certo ucciso nessuno. Anzi, avrebbe fatto bene ad entrambi. Lei avrebbe creduto che avevo ceduto alle sue avance e forse sarebbe servito a farla di nuovo smettere di puntarmi. Io avrei passato una serata fuori senza pensare a Meg e valutando una compagnia femminile diversa dalla sua.
'Sai che ti dico? Che ne pensi se facciamo da noi?' Le scrissi.
'Che vuoi dire?' 
'Ad organizzarci tutti adesso perdiamo un sacco di tempo e probabilmente molti non vorranno uscire comunque. Se facciamo una cosa solo noi due ti va?'
Anche stavolta non mi rispose subito. Attese qualche secondo prima di scrivere la sua risposta. 'Cinema e McDonald ti va bene?'
'Che film?' 
'Andiamo al multisala e scegliamo?'
'Va bene. A che ora mi faccio trovare pronto?'
'Ce la fai a sistemarti in quaranta minuti?'
'Io sì. E tu ce la fai ad essere qui in quaranta minuti?'
'Mi sottovaluti. Se questa è una sfida sarò sotto casa tua tra mezz'ora.'

Un appuntamento. Sembrava proprio un tipico primo appuntamento. Solo che era stata lei a venir a prendere me sotto casa ed io non l'avevo fatta aspettare, come probabilmente sarebbe successo se la situazione fosse stata ribaltata. Avevamo scelto un film d'azione e mangiato dalla stessa cesta di pop corn. Diverse volte le nostre mani si erano sfiorate e ogni volta lei mi aveva sorriso con aria piccante. Avevamo camminato per strada spalla a spalla, ognuno stretto nel suo cappotto, commentando la trama poco innovativa e prendendo in giro la recitazione poco professionale di alcuni protagonisti. Il suo sguardo provocante riuscì spesso a mettermi in imbarazzo nei momenti di silenzio che calavano mentre mangiavamo i nostri panini, rigorosamente e galantemente pagati da me. Ed anche quando restammo in macchina sotto casa mia mi sentivo turbato dal modo insistente con cui il suo sguardo seducente mi penetrava. Era come se avessi un senso di colpa, come se sentissi di star tradendo Meg. Di certo il mio piano di non pensare a lei non era riuscito.
Uscimmo un argomento dietro l'altro ed ogni volta ci spendevamo sopra poche frasi per poi tornare in silenzio. Prima la prova di Reti, poi il famoso progetto che era stato ormai abbandonato, per arrivare alla convention di Torre del Vetro che sarebbe stata ormai la settimana successiva. Qualsiasi cosa per spezzare quel silenzio che sarebbe stato facilmente concluso se avessi trovato la forza di scendere da quella macchina. Ma avevo paura che facendolo sarebbe scattato qualcosa e me la sarei ritrovata incollata alle labbra o tra le lenzuola. Eppure, prima o poi sarei dovuto scendere e continuare quel gioco di sguardi avrebbe peggiorato la situazione.

- Dai Dani, si è fatto tardi. Ti lascio andare a casa. -
- Va bene. - Restò al suo posto continuando a sorridere e questo mi rassicurò che non sarebbe successo nulla.
- Grazie per la serata. -
- Grazie a te. - Sorrise ancor di più e percepii un accenno di malizia in quelle parole.
- Ci vediamo domani a Fisica 2, allora. -
- Sì. - 
Improvvisamente si mosse verso di me. Temetti che la mia previsione si avverasse, ma in realtà si era solo sporta per darmi un bacio della buonanotte sulla guancia. Lo fece in un modo che non poteva essere considerato innocente. Era stato un bacio lascivo, sensuale, quasi erotico. Ma era pur sempre rimasto un bacio sulla guancia. E come tale lo accettai. 
Le sorrisi, pur non nascondendo l'imbarazzo. - Buonanotte. - Scesi dall'auto.
Mi affrettai ad entrare in casa, credendo di sentire lo sportello di Daniela aprirsi da un momento all'altro. Invece sentii il motore avviarsi e l'auto ripartire. Solo allora tirai un sospiro di sollievo e potei prendermela con me stesso per il ragionamento idiota che mi aveva portato in quella situazione, che prevedevo sarebbe diventata scomoda. 

- Che hai fatto poi ieri? Sei andato da Naki? - 
La domanda di Meg mi fece andare di traverso il solito secondo caffè prima della lezione di Web Programming. Tossicchiai e lei mi battè piano il palmo della mano tra le scapole. Sentire la voce di Daniela rispondere, peggiorò le cose. 
- No, veramente siamo andati al cinema insieme. - 
Meg smise di battermi sulla schiena. Tossicchiai ancora un po' e alzai lo sguardo. Vidi che Daniela mi si era avvicinata ancora di più e aveva preso ad accarezzarmi proprio nel punto in cui Meg fino a poco prima batteva. Lei, invece, sembrava essersi quasi rattristita o forse fui io a voler leggere un po' di delusione del suo sguardo. Tanto per illudermi di non esserle in fondo del tutto indifferente. 
Si portò la mano chiusa accanto alle labbra ed emise qualche colpo di tosse palesemente finto per schiarirsi la voce. - E che avete visto? - Si riprese sorridendo.
- Ah, niente di speciale. Non mi ricordo nemmeno come si intitolava. - Continuò a rispondere Daniela con aria sempre più soddisfatta. - E poi sai come vanno certe cose, no? -
Le rivolsi uno sguardo stupito. Perché stava facendo credere a Meg che tra noi c'era stato qualcosa? 
- Beh, certo. Va beh, ragazzi. Io rientro in aula. - 
Non feci in tempo a vedere la sua reazione perché quando tornai a guardarla si era già voltata e aveva preso la sua strada. Tornai a fissare Daniela. Aveva uno strano sorrisetto da vipera che avrei volentieri cancellato dal suo viso. Mi limitai a scuotere la testa e ad allontanarmi. 

Mi avvicinai a Ludovica e con lei e Marco tornai in aula. Meg era seduta al suo posto con le gambe raggomitolate sulla sedia e si osservava le unghie staccando ogni tanto qualche pellicina. Andai a sedermi accanto a lei che continuò a mostrare più attenzione alle sue mani che non a quello che le succedeva attorno. Le sorrisi. Ricambiò, ma le si leggeva negli occhi che qualcosa non andava. Non ero così presuntuoso da credere che fosse gelosa di me, ma l'idea continuava a frullarmi in testa. Probabilmente più perché era gratificante pensarlo che per la vaga speranza che potesse essere vero.

Avevamo pranzato tutti in una strana aria di tensione. Sembrava che tutti, per un motivo o per l'altro, stessero rinchiusi nei loro pensieri. Era una giornata iniziata male per tutti e si capiva benissimo. Tranne per Daniela, ovviamente.
Meg si era seduta il più lontano possibile da me e l'avevo vista per tutto il tempo parlottare sommessamente con Ludovica che, di tanto in tanto, alzava gli occhi su di me senza alcun cenno di espressività. 
Avevamo ormai tutti finito, ma nessuno si decideva a scollarsi dal tavolo su cui era di nuovo calato il silenzio. 
- Ragazzi, non so voi, ma io rientro. - Dissi infine alzandomi. Non sopportavo più quel silenzio.
- Vengo con te. - Daniela esibì un sorriso che le riempì il viso e in meno di tre secondi era agganciata al mio braccio.
Mi bloccai e la guardai nuovamente storto regalandole una delle occhiataccie di fuoco che sembrano sparare a vista. Sul suo volto sembrò comparire un grande punto interrogativo, come se quello che si stava comportando in modo insolito e ingiustificato fossi io e non lei. Le ressi il gioco, non so nemmeno per quale motivo, forse per non umiliarla davanti a tutti, e conitnuai a camminare verso l'uscita. Appena fummo lontani dagli sguardi degli altri le presi la mano e, delicatamente ma in modo energico, la staccai dal mio braccio. La feci aderire al suo fianco e ci diedi due pacche sopra, sottolineando il tutto con un sorriso sarcastico per indicare che quello era il suo posto. Poi iniziai a camminare. Lei restò impietrita per qualche istante prima di riprendere a camminare a testa bassa, probabilmente imbarazzata da quel tacito rimprovero. Non era stato niente di ché ma per lei doveva essere stata una coltellata in pieno orgoglio. Credetti che a ferirla di più fosse stato un pizzico di senso di colpa perché avevo avuto la delicatezza di farlo fuori, mentre lei mi stava mettendo in una situazione scomoda un po' con tutti. Non ebbe il coraggio di avvicinarsi ancora a me. 

Quando entrammo in facoltà Daniela silenziosamente rientrò in aula mentre io mi avvicinai alla macchinetta e selezionai il '31' per il mio desiderato caffè. Poco dopo averlo estratto, vidi Meg e Ludovica entrare dalla porta a vetri. Si scambiarono un breve sguardo. Meg proseguì verso l'aula mentre Ludovica venne da me.
- E meno male che il cirripide non era il tuo tipo, eh! - Mi disse con un tono da frecciatina malefica, ma con un'espressione abbastanza serena.
- Chi? - 
- Sai quella che ti stava appiccicata, che si era scollata e ora si è tornata ad appiccicare? -
- Daniela? -
- E già. Non ti piaceva proprio, eh! - Rise e non capii se stesse scherzando o se fosse una specie di rimprovero.
- Non era il mio tipo prima e continua a non essere il mio tipo adesso. - Fui categorico, quasi drastico. Il mio tono non poteva di certo essere scambiato per uno scherzo.
- Ehi, non ti incazzare! -
- Non mi sto incazzando. Mi da fastidio che faccia credere una cosa per un'altra. -
- Aspetta. Non siete usciti insieme ieri sera? - Sembrava confusa.
- Sì, non è quello. -
- E allora cos'è? -
- Non era un appuntamento. -
Ludo mi guardò ancora smarrita. 
- Il succo è che non è successo niente e non succederà niente tra di noi, ma lei sta facendo credere a mezzo mondo il contrario. -
- Non è successo niente, quindi? - Fece quella domanda con un tono quasi esitante.
- Nada! -
- Nemmeno un bacio della buonanotte di sfuggita? -
- Proprio no. -
- Quindi suppongo che non abbia nemmeno passato la notte da te. -
- Cosa? - Mi alterai palesemente e alzai il tono della voce senza quasi accorgermene.
- No, Cris. Non ti incazzare adesso. -
- Non mi incazzo? So io come mettere a tacere quella piccola vipera. - Partii per l'aula, ma Ludo mi fermò afferrandomi per le spalle.
- Cris fermo. Non darle tutta questa importanza. Dovresti averlo capito come è fatta. -
- Non capisco questo attaccamento contro di me. Ha fatto così con tutti quelli che ha conosciuto? E non dirmi di sì perché non ci credo. -
- No, Cris. Non ha fatto con tutti così. Credo che tu sia una questione personale. -
- Che significa? Che ho fatto per essere una questione personale? -
- C'è che sei diventato amico di Meg. C'è che hai preso il posto di Umberto. E come l'hai preso per Meg, l'hai preso per Daniela. -
Fui io allora a fissarla stralunato e confuso. - Non ci sto capendo niente. - Mi portai una mano a massaggiarmi la tempia che, nel frattempo, aveva iniziato a dolermi.
Ludo guardò l'orologio e si diede uno sguardo attorno. - La storia è lunga e il professore starà arrivando. -
- Non mi interessa proprio. - La afferrai per le spalle e la costrinsi a sedersi su una delle panche dell'area-relax. - Adesso sputi il rospo e pure in fretta. -

Mi guardò un po' incerta, poi capì che non l'avrei fatta alzare finché non avessi avuto risposte ed iniziò a parlare. - Umberto è stato con Daniela per un periodo. Una cosa breve, tutta nata dal solito fatto che ormai conosci che Daniela deve farsi adorare da qualsiasi maschio che conosce. - 
- E fin qui non vedo dove centro io. -
- Daniela ha troncato con Umberto quando ha capito che lui ci stava solo per fare ingelosire Meg e tentare di farsi notare da lei, senza risultati aggiungerei. Quando è finita denifinitivamente, Umberto è tornato ad incollarsi totalmente a Meg come li hai visti fino a poco tempo fa. -
- Sì, mi ricordo. - Una punta di acidità venne fuori, ma probabilmente passò inosservata.
- Per Meg è sempre stato solo un amico, ma Daniela questa storia di essere stata scavalcata proprio non la sopportava. E qui entri in gioco tu. -
- Io? - La situazione nella mia testa non era migliorata per nulla. Non capivo affatto dove volesse arrivare.
- Sì, tu. -
- E che centro io? -
- E chi dovrebbe centrarci? Mio nonno, buon'anima? -
- Non capisco cosa centro io! -
- Eh! Se mi fai finire magari lo capisci! -
- Ok, ok. Continua. -
- Da quando Meg si è allontanata da Umberto, con chi ha stretto il rapporto? -
- Con me. E fin qui ci sono. -
- Esatto. Quindi tu per Daniela ora sei una questione di principio. Non sei più solo il nuovo arrivato da cui farsi adorare. Sei una preda da strappare a Meg. -
- Ma io e Meg non stiamo insieme. -
- Sì, lo so. Ma lei ti vuole bene. -
- Ma anche se tra me e Daniela succedesse qualcosa, non dovrebbe necessariamente cambiare le cose tra me e Meg. -
Ludovica rise un attimo. - Non hai capito. -
- Cosa mi è sfuggito? -
- Tra Daniela e Meg c'è rivalità. A partire da quella volta sono diventate le due antagoniste perfette. E' come se tra loro ci fosse una perenne lotta. In questo momento sei tu che decidi chi sta vincendo. Per ora è Meg, ma se succedesse qualcosa tra te e Daniela sarebbe lei a vincere. Lo so, sembra un ragionamento da quattordicenni, ma purtroppo Daniela è l'orgoglio fatto persona e Meg... - Restò in silenzio. Si incupì, ma subito dopo sorrise di un sorriso sincero. - Meg è tornata quella che era. - La sua voce sembrava quasi commossa nel pronunciare quelle parole.
Sorrisi anch'io con lei, avendo capito a cosa era stato dovuto quell'attimo di silenzio. Poi risi apertamente, tornando a parlare di ciò che mi aveva appena spiegato. - E così sarei l'oggetto del desiderio, eh? - Cercai di darmi un tono, sistemandomi la felpa e passando la mano tra i capelli. - Lo so, sono irresistibile. -
Ludovica mi guardò ridendo. - E' arrivato Brad Pitt! - Mi diede uno spintone parecchio forte che mi fece quasi scivolare sulla panca.
- Sono tutte follemente innamorate di me. Non posso farci nulla! -

Restammo ancora a parlare seduti su quella panca, senza accorgerci del tempo che passava. Solo l'arrivo di Naki mi fece rendere conto che era passata ormai più di un'ora. 
- Ehi, che ci fate qui? - Disse salutandoci e appoggiando il seggiolino con Brendon.
- Abbiamo saltato la prima metà di lezione perché dovevamo parlare di una cosa. -
- Non avrete mica litigato! -
- No, noi no. Dovevamo discutere di una cosa che è successa. -
- Oh Cris, quanto sei enigmatico! - 
- Poi ne parliamo. - Le dissi sottovoce. 
- Ok. - Mi rispose così piano che non riuscii a sentirla ed intuii la sua risposta solo grazie al labiale.
- Ma non ci sta stretto qui dentro? - Disse Ludovica che, presa dal bambino, non aveva ascoltato la nostra conversazione.
- Abbastanza purtroppo, ma non ho come farlo stare seduto a lezione. - Naki si sedette accanto a lei. 
- Dovresti chiedere a qualcuno se puoi entrare in aula il passeggino. Lì starebbe più largo, no? -
- Effettivamente hai ragione. Devo proprio farlo. -

Era passata esattamente una settimana. 
Una settimana da quel giorno in cui Naki mi aveva detto di essersi messa con Daniele. Avevo tenuto Brendon per un paio d'ore ogni giorno in modo da lasciarli da soli. Ormai quel piccolo che mi chiamava zio aveva preso a mettere i dentini, ma per fortuna stava bene e la piccola ludoteca vicino casa gli piaceva sempre di più. Sembrava addirittura essersi innamorato della piccola bimba che trovavamo perennemente lì insieme alla sua mamma manager, tanto da mettersi in mezzo quando qualche altro bambino tentava di avvicinarla.
Una settimana da quando Daniela aveva fatto credere a tutti che me la fossi portata a letto. Sembrava non aver capito che doveva staccarsi da me, ma almeno mi stava vicino in modo più discreto. Quando vedeva che la guardavo storto, abbassava gli occhi colpevole e si allontanava con una scusa. 
Una settimana da quando Ludovica mi aveva confessato che ero stato messo in mezzo a una sorta di contesa tra Meg e Daniela. E stava ancora vincendo Meg. Quando Ludovica le aveva raccontato, me presente, come si erano svolti i fatti l'avevo vista rasserenarsi quasi come se la cosa l'avesse sollevata, come se ci fosse in ballo molto più di quel semplice, anche stupido se vogliamo, conflitto.
Eppure non le interessava tenermi lontano da Daniela. Lo notavo da come reagiva quando lei continuava a girarmi intorno. Lo notavo da come non la cercava con gli occhi mentre mi regalava un abbraccio o una carezza, cosa che invece l'altra faceva costantemente con lei. Era come se il "gioco" fosse sentito solo da Daniela. Allora perché reagire in quel modo una settimana prima?

Mancavano due giorni alla partenza per Torre del Vetro. Il nostro gruppetto aveva dato la conferma quasi al completo, anche quella secchiona di Terry si era decisa a staccarsi dai suoi libri. Era l'unica che fosse interessata quasi esclusivamente ai seminari. Anche a me incuriosivano molto, ma avevo anche altro in mente pensando ai tre giorni che ci aspettavano.
Il rappresentante degli studenti indisse una riunione speciale con tutti coloro che avrebbero partecipato per definire gli ultimi particolari. Perciò dopo la lezione di Reti, restammo tutti seduti ai nostri posti. Guardammo la maggior parte degli studenti uscire dall'aula e qualcuno entrare. Alla fine eravamo presenti in poco più di una ventina. Il Professore restò in aula con noi e il rappresentante iniziò a spiegarci cosa era stato deciso.
Saremmo partiti il giorno dopo, Giovedì, a metà pomeriggio, verso le 17.00, in modo da essere sicuri di arrivare al villaggio in tempo per la cena. Dopo tutto ci separavano quasi tre ore di autobus e a queste si dovevano aggiungere le soste che sicuramente avremmo fatto! Arrivati a Torre del Vetro avremmo dovuto sbrigare in modo indipendente le pratiche per le stanze. Per agevolare il tutto fece passare un paio di fogli in cui chiedeva di scrivere una sistemazione delle camere che avevano a disposizione tra i tre e i quattro letti, indicando per ogni stanza una specie di capogruppo che si sarebbe interessato di andare a prendere la chiave e pagare anticipatamente la stanza. Io, Marco e Andrea formammo una stanza e i ragazzi delegarono me perché Andrea era troppo scansafatiche e Marco disse che non ci sapeva fare con le cose burocratiche, nonostante si trattasse solo di pagare una stanza. Le ragazze formarono una stanza quadrupla: Meg, Ludo, Terry e Daniela. Risi sotto i baffi a leggere quella combinazione e pensando a cosa sarebbe successo con quelle due nella stessa camera.
Una volta che tutti avevano deciso come sistemarsi, prese la parola il Professore che ci indicò gli orari e i temi più importanti, quelli che non potevamo per niente al mondo perderci. Poi ci consigliò di evitare di prenderla troppo come una vacanza evitando di fare le ore piccole per non rischiare di perdere qualche seminario importante. Fece poi un annuncio che ci riempì di stupore.
- Parlo un attimo coi ragazzi di secondo anno o che stanno seguendo il mio corso adesso. Non posso dare punti in più a chi partecipa ai seminari, perché non tutti gli studenti hanno la possibilità di farlo. Ma mi sono informato e c'è una cosa che posso fare. Si tratta di una permuta. Chi ha superato la prova in itinere, può saltare la seconda se dimostra di aver seguito i seminari. Dovrà comunque sostenere l'orale che potrà riguardare anche argomenti di quella parte di programma. In pratica non potete evitare di studiarla ma vi eviterete lo stress psico-fisico che comporta lo scritto. -
In quel momento credetti di adorarlo. Solo un dubbio restava.
- Ma come dovremmo dimostrare di seguire i seminari? - Andrea, molto più sfacciato di me, lo espresse prima che trovassi il coraggio di vincere la timidezza e alzare la mano per fare la mia domanda.
- Questa è stato un problema deciderlo, perché non credo che le firme bastino. Non è la presenza fisica che mi interessa, ma quella mentale. Allora ho deciso di chiedervi delle relazioni scritte sugli argomenti trattati. Ovviamente non posso richiedere da ognuno di voi una relazione per ogni seminario altrimenti non potrei leggerle mai al mondo! Innanzitutto i seminari che riguarderanno le relazioni sono solo quelli fondamentali che vi ho elencato in precedenza. Secondo punto, sarete divisi in coppie e ad ogni coppia verrà affidata la relazione su un particolare seminario. Ma questo avverrà solo al nostro ritorno, per evitare che ognuno vada a seguire solo il seminario di cui dovrà fare la relazione. Credo sia meno stressante di fare uno scritto, no? - 
La reazione della maggioranza non fu molto positiva. Dal discorso che aveva precedentemente fatto, si erano già abituati all'idea di saltare la seconda prova in itinere senza dover fare nulla in cambio. A me personalmente l'idea delle relazioni non dispiaceva perché avevo comunque l'intenzione di seguire i seminari in modo attento. Sarebbe bastato prendere qualche appunto o fare qualche registrazione se fosse stato concesso. 

La riunione fu sciolta poco dopo. Decidemmo, vista l'ora che si era fatta, di restare insieme per la cena. Marco propose di andare a casa sua, libera dai coinquilini, ed ordinare delle pizze a domicilio. L'idea fu accettata da tutti. L'unico a non venire con noi fu Umberto che, da quando aveva "rotto" con Meg, si stava allontanando sempre più da tutti.

Camera di Marco non era molto grande, ma in compenso la terrazzina a cui si arrivava grazie alla porta-finestra era qualcosa di delizioso. Essendo all'ultimo piano di un grande palazzo, regalava una vista della città davvero mozzafiato. Sfidando il freddo pungente, dopo aver divorato con una fame da lupo la mia pizza, mi andai a rintanare lì da solo, birra alla mano, osservando la costa disegnata dalle luci e le onde increspate illuminate dal chiarore della luna piena.
- Bellissimo qui fuori, vero? - 
La voce di Meg mi fece sussultare perché ero totalmente immerso nei miei pensieri. - Già. -
- Ho invidiato questa terrazza a Marco dal primo momento. Si vede la città come non puoi fare da nessun altro posto. Sembra quasi magica. - Mi si affiancò camminando piano. 
- Già. - Era l'unica cosa che riuscissi a dire. Non potevo di certo dirle ciò che pensavo davvero. Non potevo rivelarle che era la luce della luna che si rifletteva nei suoi grandi occhi nocciola ad essere magica e a togliermi il fiato.
Sorrise e le guance le si incresparono. Non riuscivo a vedere le sue labbra, coperte dalla sciarpa rosa che le avvolgeva buona parte del viso. Si strinse nel giubbotto nero voltandosi verso il mare. Chiuse gli occhi e respirò profondamente. - Sembra quasi di sentire l'odore del mare. - Aprì le palpebre. - E' talmente romantico. -
- Già. - Ancora una volta non trovavo nulla da dire. Il cuore aveva iniziato a scoppiarmi nel petto e sentivo la gola inaridirsi mentre le mani iniziavano a sudare.
Si avvicinò al mio fianco ancora di più, appoggiandovisi. Mi mossi piano per cingerle le spalle col braccio. La sfiorai appena, quasi avessi paura che le desse fastidio, quasi come se non volessi rischiare di rompere l'incanto. Fu lei ad avvicinarsi ancora di più. Mi afferrò la mano incrociando le sue dita con le mie, mentre continuava a guardare l'orizzonte scuro, illuminato solo da una luna solitaria.

Credetti di impazzire. La situazione era perfetta. C'era una vista mozzafiato, il mare, la luna e l'aria fredda. C'era lei accanto a me che guardava il paesaggio totalmente rapita. C'era lei che si era stretta al mio fianco. C'era lei che aveva intrecciato le dita alle mie. C'ero io che volevo più di ogni altra cosa scostarle quella sciarpa rosa e tuffarmi nelle sue labbra rosee. C'ero io che impazzivo dalla voglia di confessarle le miriadi di emozioni che mi dava solo il suo pensiero. C'ero io già totalmente innamorato di lei, come forse non mi era mai capitato prima.
- Meg. - Mi trovai a sussurrare il suo nome, senza capire effettivamente cosa volessi dirle.
- Che c'è? - Sussurrò in risposta. 
Facendolo si voltò verso di me. Gli occhi grandi e limpidi splendevano di una luce immensa. Il lieve venticello che si era alzato le spingeva qualche ricciolo sulla fronte. Le labbra, sfuggite leggermente alla sciarpa, sorridevano leggermente quasi tremando. Era vicina, a pochi centimetri. Sarebbe bastato abbassare la testa un po' di più per baciarla. E lei non si sarebbe opposta, lo sentivo. O almeno, lo speravo. 
- Meg. - Avvicinai il viso al suo ripetendo quel nome a voce ancor più bassa, come la formula magica di un incantesimo che hai paura di pronunciare. 
- Che c'è? - Forse lo disse, forse no. 
Non la sentii davvero. Usò un tono troppo basso per percepire le sue parole. Ma vidi le sue labbra muoversi, le sue stupende labbra che avevano completamente catturato tutta la mia attenzione e il mio desiderio. E sentii il suo respiro che mi fece rabbrividire. Quell'attimo mi sembrò eterno. I suoi occhi sempre più luminosi mi attiravano. Le sue labbra sempre più tremanti sembravano supplicarmi di prenderle.
Mi avvicinai ancora e non si mosse. Continai ad avvicinarmi e continuò a non muoversi. Ero a un respiro dalle sue labbra, con gli occhi persi nei suoi. Sembrava essersi pietrificata, l'unico movimento fu quello, probabilmente istintivo, di stringermi la mano. Nel suo sguardo si leggevano tanti di quei sentimenti diversi che la confusione nella mia testa aumentò. Ci vedevo desiderio, ci leggevo imbarazzo, ci sentivo paura. Io, invece, mi sentivo nel panico. 
Voltai la testa e le baciai una guancia, ma mi sporsi troppo oltre e il mio bacio le arrivò vicino all'orecchio. Sentii il suo fremito e un leggero sospiro le sfuggì dalle labbra. Quando tornai a guardarla negli occhi, tutto il resto era sparito. Era rimasto solo desiderio. Dentro di me, invece, sempre la paura di interpretare i suoi segnali come a me faceva piacere e non come erano davvero. 

Avrei provato di nuovo a baciarla, forse. Ma la porta-finestra si aprì di botto facendo un gran rumore e i ragazzi si fiondarono allegri e un po' brilli a guardare il panorama insieme a noi. 
Meg mi sorrise e sciolse la sua mano. Si allontanò, ma io restai immobile ancora scosso da mille emozioni.

Quando uno dei vicini si affacciò al balcone con aria minacciosa per il baccano che si era creato, nonostante non fosse ancora neanche mezzanotte, rientrammo in camera. Sul tavolo erano rimaste le ultime due bottiglie di birra piene. Le due di vodka, una al melone e l'altra alla fragola, erano vuote per più di metà come pure lo Jägermeister. Nessuno ci badò, però. Non eravamo lì per ubriacarci. Ci bastava passare una serata tranquilla insieme. 

O così pensavamo. Una sola persona tra noi non smise di fissare quelle bottiglie e, cercando di passare inosservata, andò a scolarsele. Non era abituata a bere tanto, non era abituata a mischiare alcolici differenti, non reggeva l'alcool già di natura. Ce la ritrovammo ubriaca, senza neanche accorgercene. Improvvisamente, saltò al centro della stanza. A stento riusciva a reggersi in piedi da sola. Rideva senza un motivo vero e proprio e d'improvviso diventò seria. 
- Voi siete amici. Credete che io vivo solo per i miei libri. Ma non è vero! - Trascinava le finali delle parole in un modo da parlare tipico dell'ubriaco. Mancavano solo i singhiozzi. - Io vi voglio tanto bene e voi non lo capite. - Iniziò a piagnucolare e iniziò a ondeggiare visibilmente. 
- Ohi Terry! - Ludovica e Meg si precipitarono a sorreggerla appena in tempo prima che crollasse sul pavimento. 
- Ma che caz... - La frase di Andrea restò incompiuta quando notò che aveva pulito tutte le bottiglie. - S'è scolata tutto quello che era rimasto! -
- Eh già! - Disse Terry ridendo a crepapelle mentre scivolava dalla presa delle ragazze e finiva a rotolarsi sul pavimento.
Tutti restammo a guardarla in silenzio a metà strada tra lo sbalordito, il preoccupato e il divertito. L'unico suono che si sentiva era la sua risata isterica e sproporzionata. Smise di rotolarsi a terra e pian piano si calmò. Respirò profondamente e si mise a sedere. Aiutandosi con le mani si spostò fino a raggiungere il letto su cui io ero stato tutta la serata accanto a Marco e Meg. Vi si arrampicò e sembrò che ciò le costasse una fatica immane. La aiutai afferrandola da sotto le braccia. Arrivata sul letto si accasciò lì, poggiandosi la mano sulla fronte.
- Ti viene da vomitare, per caso? - Le chiesi, un po' preoccupato, mentre le sistemavo il braccio destro che penzolava ancora dal letto.
- No, da vomitare no. Mi viene da parlare tanto, tanto, tanto. Come se non potessi fermarmi. Ho perso il filtro che mi sceglie cosa dire e cosa tenere per me. Adesso io posso dire tutto. - Fissava il soffitto come se fosse una visione aulica, quasi divina.

Per qualche minuto l'attenzione fu totalmente su di lei, poi si tornò alla normalità. Almeno per gli altri. Io restai seduto sul letto ad ascoltare i discorsi senza filo conduttore di Terry e a darle retta, controllando che non si sentisse male improvvisamente. Ogni tanto mentre parlava si bloccava e si reggeva la testa stringendola alle tempie come se qualcosa le stesse trapanando, ma poi ricominciava a parlare più sciolta di prima. Meg era seduta per terra accanto a Ludovica e ogni tanto la vedevo guardarmi e regalarmi un piccolo sorriso. Ma erano solo brevi attimi perché quasi subito distoglieva lo sguardo, abbassandolo o tornandolo a posare su chi in quel momento stava parlando.
Mi ero distratto a guardarla, quando Terry richiamò ancora la mia attenzione strattonandomi la felpa degli Opeth. 
- Sei uno stronzo. Lo sai, Cris? - Mi disse ancora palesemente fuori di sè e continuando a coprirsi gli occhi col braccio. 
- Io? Perché? - Non sapevo se ridere o essere sorpreso da quello che mi aveva detto.
- Perché sei uno stronzo e basta. Quando ci siamo conosciuti ho pensato che fossi l'unico che mi avrebbe trattato come una persona normale. E invece pure tu hai iniziato a prendermi per una secchiona da scroccare. - Dal modo in cui parlava sembrava quasi starsi addormentando. Parlava a voce molto bassa, a una velocità altissima, mangiandosi parte delle finali e trascinando le altre.
- Terry, ma non è vero. - Le dissi dolcemente, carezzandole il braccio. 
- Sì, è vero! Ancora aspetto che ci andiamo a iscrivere in palestra. Invece i miei appunti sei venuto a prenderteli! Non hai avuto nemmeno il coraggio di venire tu, mi hai mandato Ludovica. Sei uno stronzo. - Si voltò su un fianco, appallottolandosi. 
- Ma che stai dicendo Terry? - Continuai con un tono dolce e consolante.
- Sì. - Si raggomitolò ancora di più, addormentandosi improvvisamente. 
La osservai intenerito. Si teneva una mano accanto alle labbra sporgenti e l'altra accanto all'orecchio. Aveva assunto le sembianze di una bambina dormiente. Finalmente avevo capito il perché del suo cambiamento nei miei confronti. In realtà io non volevo prenderla solo come la dispensa-appunti, ma purtroppo mi ero proprio tolto di mente la piccola promessa che le avevo fatto la prima sera che uscimmo insieme. E, subito dopo, tutto il trambusto con Meg mi aveva distratto da qualsiasi altra cosa. Mi dispiaceva vederla in quel modo perché riuscivo a capire il suo disagio, ciò che significava non sentirsi apprezzati davvero da chi ti sta intorno, sentirsi isolati anche in mezzo alla gente. Mi avvicinai di più e le posai un leggero bacio sulle dita prima di alzarmi.

Il resto della serata passò tranquillamente e Terry continuò a dormire beata per tutto il tempo. Infine nessuno ebbe il coraggio di svegliarla, così restò a dormire nel letto di Marco, che si sistemò sul divanetto che utilizzava per le occasioni in cui suo cugino saliva a trovarlo. Noi andammo via tutti insieme. Daniela nemmeno tentò di domandarmi se volevo un passaggio e, silenziosamente, andò via portando con sè Andrea, lasciando me libero di tornare a casa, senza alcun intoppo, in auto con Ludo e Meg.
Lei, dopo la prima oretta, aveva ripreso un comportamento normale nei miei confronti. Eppure io non riuscivo neppure a guardarla senza rivivere quei pochi attimi che mi avevano fatto sperare che lei desiderasse quel bacio almeno quanto me. Ogni volta mi pentivo di averla baciata sulla guancia ed ogni volta mi ringraziavo per averlo fatto. Una guerra era in pieno svolgimento dentro di me. 

Quando scesi dalla macchina, entrambe mi seguirono per salutarmi meglio. Non so se fu una cosa organizzata in precedenza o solo una semplice coincidenza, ma appena Ludovica mi salutò le squillò il telefono e si infilò in macchina a discutere animatamente con sua madre. Meg restò fuori, appoggiata alla portiera dell'auto. Sembrava improvvisamente di nuovo imbarazzata.
- Non avevo mai visto Terry ubriaca, sai? - Nel silenzio che si era creato, la sua voce suonò come quella di una bimba impaurita di fronte a un maestro troppo severo.
- E' sembrata strana pure a me. - Anch'io non mi sentivo per niente a mio agio. 
Avevo sulla pelle fremiti incontrollabili e nella mente un unico pensiero fisso. Fu difficile trattenermi ancora dal tuffarmi in quelle labbra morbide che continuava a mordicchiarsi. La difficoltà aumentò quando mi accorsi del suo sguardo che correva frenetico per ogni angolo del mio viso. Cercai di distrarmi, pensando a Terry. 
- Mi ha fatto tenerezza per quello che mi ha detto. - 
- Che ti ha detto? - Sembrava non avermi neppure sentito. La sua risposta era stata quasi automatica. Non perché non le interessasse di Terry. Semplicemente sembrava su un altro pianeta.
- Crede che la trattiamo come una fornitrice di appunti e basta, senza interessarci di lei. - Davvero ero dispiaciuto per quello, ma in quel momento non mi sarei creduto nemmeno io. Mi ero di nuovo perso, meravigliosamente perso nel mare rosso fragola delle sue labbra.
- Capisco. - No, non mi stava ascoltando. Altrimenti non avrebbe risposto a quel modo. 
Ludovica abbassò il finestrino e suonò un colpetto di clacson per richiamare la nostra attenzione. - Meg, sali. In fretta, che devo tornare a casa di corsa. -
Meg mi fissò ancora per qualche istante, come se non avesse ascoltato neanche Ludo, come se non volesse andare via, come se mi stesse chiedendo di invitarla a restare. Poi sembrò risvegliarsi improvvisamente. - Sì, Ludo. Subito. - Non mi salutò nemmeno e si infilò in auto.
Mi avvicinai al finestrino del guidatore. Ludo tamburellava nervosa sullo sterzo e muoveva freneticamente le gambe. - Successo qualcosa? -
Si fermò e si voltò sorridendomi. - No, niente. Mi è solo impazzita la vecchia. -
- In che senso? - Perplesso le domandai.
- Mia madre ha dato di matto perché credeva che anche stasera non sarei tornata a casa senza nemmeno avvertire perciò ho il tempo giusto per accompagnare Meg e arrivare a casa prima che cambi la serratura. - Fece un'espressione sconsolata, anche se appositamente esagerata, che mi strappò un sorriso.
- Dai, allora. Andate. -
- Ci vediamo domani, Cris. Hai bisogno che ti venga a prendere? -
- No, grazie. Tranquilla. -
- Se cambi idea chiama. -

Partirono. Le seguii con lo sguardo finché furono fuori dal mio campo visivo. Restai immobile a fissare la strada vuota, col freddo che mi congelava le mani e il naso, ma con le guance ancora infuocate al solo pensiero del viso di Meg così incredibilmente vicino al mio. Non riuscivo a smettere di assaporare l'emozione che mi avevano dato i suoi occhi talmente limpidi da potermici specchiare dentro. Le sue labbra avevano riempito i miei pensieri. 

Salii in casa camminando svogliatamente, gettando i passi uno davanti all'altro senza volerlo davvero. Le mani infilate nelle tasche dei jeans e la testa bassa a fissare il pavimento che in realtà non focalizzavo realmente perché nei miei occhi c'era ancora solo lei.
Arrivato in camera mi gettai sul letto senza togliermi nemmeno il giubbotto. Ero fisicamente stanco, ma ero sicuro di non riuscire a dormire ancora una notte lontano dalle sue braccia. Iniziai a fantasticare su cosa sarebbe potuto succedere passando tre notti fuori nella stanza accanto alla sua. Immaginavo le scene con una ripresa degna di un ottimo regista. Sapevo di star esagerando. Lei non sarebbe mai entrata nella mia stanza, mentre io ero solo, vestita solo di una vestaglietta nera di raso che le lasciava scoperte le morbide gambe. Non si sarebbe mai infilata nel mio letto, mentre io dormivo sprofondato nel cuscino, ad accarezzarmi la schiena finché non mi svegliassi.

Proprio mentre la immaginavo rotolarsi tra le mie braccia in un grande letto di albergo, vibrò il telefono riportandomi alla realtà. Vi lessi un messaggio. Un suo messaggio.
"Guardare il mare di notte è sempre un'emozione strana. Magari qualche sera ti ci porto a vederlo da vicino. Per il momento pensiamo a domani! Sono nel panico: dovrò portarmi 200 valigie! Va beh, tu starai già dormendo. Buonanotte."
Sorrisi. In quel momento una nuova immagine mi venne in mente. Meg in un pigiamone comodo, di un colore e di una fantasia improponibili. Completamente struccata e con gli occhi un po' arrossati dal sonno. I capelli un po' arruffati sparpagliati sul cuscino ed il cellulare in mano per scrivere un messaggio. 
L'avrei amata subito anche in quel modo.

Ore 16:30. Stranamente in largo anticipo, stavo aspettando che arrivasse qualcuno di mia conoscenza seduto sul marciapiede accanto al borsone in cui avevo infilato l'indispensabile o poco più per quel week-end. L'aria era fredda e il sole era già quasi sparito all'orizzonte. Avevo da poco sentito mia madre al telefono. Era nel panico. Non era preoccupata per mio padre che mi voleva a casa, perché entrambi sapevamo fin dall'inizio che probabilmente non avrebbe notato la differenza. Non era preoccupata per Bepi, perché Diana aveva riempito le sue giornate e stava benissimo. Credo fosse preoccupata per sè. Forse non era preoccupata. Cercava solo il modo per sentirsi meno in colpa. Non l'aveva detto, ma il modo in cui mi parlava mi faceva sentire che era quello il problema. Sapeva che io ero a conoscenza del fatto che di nuovo frequentava Giannusi e non aveva ancora capito che, se me ne teneva fuori, a me poteva andar bene anche così. Voleva discolparsi dedicandomi del tempo, probabilmente. In quella settimana mi avrebbe tenuto al telefono per ore intere se io non l'avessi costretta a chiudere per studiare, per andare a lezione o altro. Capivo come si sentiva. Stare con il Dottor Francesco la faceva sentire donna e amata, ma quando lui non c'era la cosa era diversa. Non era più come prima in cui il segreto tratteneva dentro di lei tutte le belle sensazioni cancellando i pensieri negativi. Era diverso. Spesso si sentiva vuota, piena di vergogna, in colpa. E stava male più di prima. Facevo del mio meglio per cercare di farle capire che per me era tutto come prima, che era sempre mia madre e che le volevo lo stesso bene. Alcune volte se ne convinceva, altre no. Quel giorno, fortunatamente, lo fece così che potei partire un po' più tranquillo.

Guardando la piccola folla dei ragazzi che si erano già riuniti, vidi arrivare Marco e Andrea che tiravano ognuno il proprio piccolo trolley. Insieme a loro, Terry si trascinava in avanti visibilmente affaticata dalla salita fatta portando a spalla un grande borsone stracolmo e uno zainetto, pieno anch'esso, senza il minimo aiuto da parte dei baldi giovani che la precedevano. Quando arrivarono vicino a me, Terry gettò il borsone per terra e ci si scaraventò sopra ancora ansimante senza neppure salutare. Era stravolta in viso, non solo per la camminata faticosa, ma sicuramente anche per la sbronza della sera precedente. Infatti si teneva la testa comprimendosi forte le tempie con le mani. 
- Stai bene? - Le chiesi dopo aver salutato i ragazzi.
- Ho un trapano in testa. - Tenne gli occhi serrati come se la luce la infastidisse.
- Hai dormito bene stanotte? -
Alzò gli occhi su di me mostrandomi due profonde occhiaie scure.
- Lo prendo come un no? - Scherzai ridacchiando. 
- Ho dormito, ma non ero nel mio letto. Non ho riposato per niente e mi sono svegliata più distrutta di prima. -
- Normale per un post-sbronza. Ti ci abituerai. -
- Avete intenzione di farmi bere ancora? -
- Nessuno ti ha costretto, eh! - Risi ancora. - Anzi, hai fatto proprio tutto da sola. -
Mi guardò un po' imbarazzata e si voltò a guardare l'asflato. - Non so cosa mi è preso. Io volevo solo... soltanto... -
- Tranquilla Terry. - Le sorrisi, accarezzandole una tempia. - Non è morto nessuno. -
Mi guardò di nuovo, stavolta sorridendo, anche se ancora le sue guance erano colorate di rosso.

Meg e Ludovica avevano compresso dentro i loro borsoni quasi tutta casa. Daniela arrivò, invece, con ben due trolley, quasi avesse dovuto star via un paio di mesi. Durante il viaggio in autobus, buona parte dei partecipanti era su di giri come se fossero ragazzini delle medie alla prima gita fuori porta. Altri facevano gli uomini (o donne) maturi e cercavano di distinguersi dalla massa. 
Terry mi si era seduta accanto e si era addormentata quasi immediatamente abbandonata su di me. Perciò rimasi al mio posto in silenzio, tenendola al caldo con il giubbotto ed osservando gli altri, sorridendo quando incrociavo lo sguardo di Meg. 

Le ore passavano lente, soprattutto perché, anche se non lo facevo per una buona causa, avrei voluto sgranchirmi le gambe durante le soste. Quando arrivammo mi sentivo come se avessi passato le ultime ore dentro un frullatore e avevo lo stomaco in subbuglio. Svegliai Terry nel modo più delicato possibile. La vidi arricciarsi prima di aprire gli occhi e stiracchiarsi. Mi ringraziò, baciandomi frettolosamente una guancia prima di alzarsi per scendere a recuperare il borsone. Io fui l'ultimo a scendere e notai che solo Terry mi aveva aspettato prima di andare verso l'entrata.
Alla reception c'era un gran affollamento, per cui, insieme a Terry che era "rappresentante" dell'altra stanza, aspettammo pazientemente che la marea si calmasse prima di sbrigare le pratiche per avere la camera, mentre tutti gli altri sembravano essere scomparsi. Recuperate le chiavi ci avviammo verso l'esterno dove piccole casette, ognuna contenente quattro stanze, erano schierate l'una accanto all'altra. Lì trovammo gli altri che ci attendevano, ansiosi di poter andare a posare la roba in camera e fiondarsi a cena.

Dopo aver riempito i piatti al buffet, trovammo posto a un tavolo in cui erano già seduti tre ragazzi che scoprimmo provenire dalla facoltà di Ingegneria poco lontana dalla nostra. Scoprimmo anche che occupavano la terza stanza della nostra casetta. Lo scoprì Meg, più che altro. Uno di loro, dal viso schifosamente perfetto su cui spiccavano grandi occhi azzurri che si abbinavano perfettamente ai capelli biondi che portava scompigliati, passò la serata accanto a lei monopolizzando quasi la sua attenzione. Cercavo di non pensarci, continuando a parlare con Terry che era molto felice delle attenzioni che le davo. Ma quando sentivo la sua risata cristallina, derivante forse da qualche battuta di quell'idiota col fisico da modello, non riuscivo a restare tranquillo. Lanciavo uno sguardo infuocato che cadeva nel vuoto e mi bloccavo per qualche istante. Dovetti spesso prendere dei respiri profondi per mantenere il controllo e ricordarmi che, in fondo, Meg era libera di fare quello che voleva.

- C'è qualcosa da fare qui nel dopo cena? - Chiese Andrea al ragazzo che venne a sparecchiare il nostro tavolo.
- Non essendo in stagione non c'è moltissimo, soprattutto perché molti arriveranno domani. Ma l'American Bar dovrebbe essere aperto. Non è granché, ma si può passare la serata. - 
Andrea fu parecchio interessato alla cosa e ci lasciò quasi immediatamente per andare a "mettersi qualcosa di più adatto", come disse lui. Quell'espressione mi fece sorridere perché solitamente è la frase che dicono le donne che vanno a mettersi in lingerie.

Aspettammo che lui tornasse e poi ci recammo tutti all'American Bar, seguiti ovviamente da Diego, che continuava a non volersi scollare da Meg, e dai suoi compagni di stanza. Osservandoli mi chiesi per un attimo se alla facoltà di Ingegneria facessero dei test d'ingresso simili più a concorsi di bellezza. La loro presenza, sicuramente più curata della nostra, mi metteva un po' in imbarazzo. Ma più che altro mi dava fastidio il fatto che Meg sembrasse già adorare la loro compagnia quando io avevo impiegato più di un anno per farmi notare. Ludovica e Daniela, sembravano darle corda, unendosi amabilmente a loro. Così ci separammo una volta all'interno del locale. Presi posto su uno dei pochi sgabelli accanto al bancone circolare che si trovava al centro della stanza e mi fiondai in un rapporto parecchio stretto con qualsiasi tipo di alcool che potessi ottenere. Fortunatamente, reggendolo bene e avendo mangiato come un porcello all'ingrasso, non rischiavo di far la fine di Terry, a sproloquiare senza rendermene conto. Lei, seduta sullo sgabello accanto al mio, andò avanti a parlare e bere acqua tonica. 
Vedemmo Andrea e Marco attaccare bottone con le ragazze che avevano la quarta stanza della nostra casetta. Non erano proprio da candidate a Miss Universo, come i ragazzi che avevano conosciuto le nostre, ma erano abbastanza carine comunque. Dopo non molto le vedemmo uscire dal locale dopo averli guardati con una risatina ocheggiante. I ragazzi si avvicinarono a noi.
- Wow! Perché le avete lasciate andare da sole quelle due? Vi si spolpavano con gli occhi. -
Marco, imbarazzato, abbassò gli occhi al pavimento, mentre Andrea, spavaldo, disse che non si svendeva per ragazze di livello così basso.
- Ah, certo. Te se non le paghi non sei contento? - Non potei evitarmi quella battuta acida e velenosa. Avevo rabbia in corpo da sforgare perché avevo appena visto Meg andare verso l'uscita con Diego che la seguiva poggiandole una mano sul fianco. 
- Loro dovrebbero pagare me, non il contrario. - Stranamente non si alterò come avevo immaginato. Aveva lo sguardo strano di chi ha in prospettiva qualcosa di piccante.
- Certo, ti stiamo credendo tutti! - Si intromise Terry, stranamente disinvolta in discorsi che vertevano sul sesso.
- Che mi crediate o no, io sono distrutto. Qui dentro non c'è niente di interessante per un figo come me, perciò me ne vado a dormire. - Annunciò. 
- Oh, vengo con te allora! - Terry si tuffò dallo sgabello un po' troppo alto per lei e gli si appoggiò addosso per non cadere. 
- Sì, sì. Ma fili nella tua stanza, eh! - Disse lui, scherzando. Poi bussò sulla spalla di Marco. - Vieni? -
- Arrivo. - Disse lui che sembrava ancora imbarazzato. 

Così mi lasciarono solo al bancone. Afferrai l'ultimo cocktail buttandolo giù d'un fiato. Vidi Ludovica ancora seduta su un divanetto a parlare con uno dei bellocci, mentre Daniela sembrava essere scomparsa. 
Stavo per andarmene, quando vidi Meg rientrare. Era da sola e sembrava serena. Cercò con lo sguardo all'interno del locale. Cercò me. Quando mi trovò, sorrise e mi venne in contro. 
- E allora... lo andiamo a vedere o no questo mare di notte? - 
- Cosa? - La guardai un po' spaesato. Fino a tre secondi prima sembrava essersi totalmente dimenticata di me e adesso era lì con un sorriso dolcissimo a chiedermi di andare a vedere il mare.
- Vieni. - Non aggiunse altro. Mi prese la mano e mi tirò fuori dal locale. 
- Ma il belloccio dove l'hai lasciato? - Gli chiesi mentre mi trascinava verso la spiaggia. 
Si fermò un attimo a guardarmi perplessa. - Chi? -
- Quel Diego o come si chiama. Ti ho visto uscire con lui. -
- Ah! - Riprese a camminare velocemente, strattonandomi quasi. - L'ho solo accompagnato in camera perché le chiavi le aveva il suo compagno che non si trova più. Probabilmente è a trombare con Daniela in qualche angolo del villaggio. -
Si fermò di botto senza darmi il tempo per accorgermente e quasi le arrivai addosso. Si voltò piano verso di me con gli occhi stretti in uno sguardo indagatore. - Sei geloso per caso? -
Un pilastro di cemento armato. Avrei voluto solo un pilastro di cemento armato per sbatterci contro la testa finché non avessi spappolato quel mezzo criceto che mi ritrovavo e che aveva avuto la brillante idea di chiederle di Diego!

Si sciolse in un sorriso e riprese a trascinarmi verso la spiaggia.
Era deserta, senza nemmeno i soliti ombrelloni piantati o le sdraio allineate. Il mare era calmo perché, nonostante il gran freddo, non c'era un filo di vento. La luna, come nei migliori film, era rigorosamente piena e si specchiava argentea nelle acque limpide. Le nuvole nel cielo si addensavano scure e le stelle erano per questo invisibili, ma la luna regnava sovrana e incontrastata, quasi le nuvole, per rispetto, evitassero accuratamente di coprirla. L'odore della salsedine mi invase le narici ed era tanto forte che chiudendo gli occhi poteva quasi sembrare estate. Il rumore delle piccole onde, leggero e regolare, era una colonna sonora perfetta. 
Ero in piedi, stretto nel mio giubbotto, con le braccia penzolanti, incantato da tanto spettacolo che mi distoglieva anche dalla sensazione che mi aveva preso da quando eravamo usciti. Quella di essere osservato. 
Mi sentii tirare per le dita della mano destra. Meg si era accovacciata sulla soffice sabbia bianca e con lo sguardo da bambina mi chiese silenziosamente di sedermi accanto a lei. Mi poggiai in terra rabbrividendo al contatto con quella morbida distesa che sembrava quasi congelata e tornai a guardare il mare. Anche lei lo guardava, rabbrividendo. 
- Senti freddo? - Le chiesi cercando di non far intuire quanto la voce mi tremasse.
Mi fissò un secondo, poi si spostò, venendosi ad infilare in mezzo alle mie gambe e portandosi le mie braccia intorno al collo. - Così va meglio. - Mi disse, continuando a sorridere.
Il cuore, che già precedentemente aveva accellerato i battiti, impazzì iniziando a saltellarmi nel petto desideroso di schizzar fuori. Spostò i capelli al di là delle mie spalle, poggiò la testa sul mio petto e così le vidi di nuovo. Le sue labbra, quelle stupende labbra che erano diventate il mio chiodo fisso, quelle morbide labbra che non ero ancora riuscito a conquistare e che tanto avrei voluto assaggiare. 

Restammo abbracciati a guardare il mare in silenzio per un tempo che non saprei calcolare. Ogni tanto ci guardavamo e sorridevamo. Sembrava sempre più una scena da film. E la conclusione della scena sembrava scontata. I due protagonisti infine si sarebbero guardati per più tempo, poi si sarebbero avvicinati piano l'uno verso l'altra e si sarebbero baciati mentre la musica dolce aumentava in sottofondo. La telecamera avrebbe zoommato sulle loro labbra e poi ci sarebbe stata una bella sfumatura verso il nero. E zac, alla scena dopo sono due innamorati che passeggiano per mano ridendo degli uccellini che cinguettano e facendosi i dispetti.

Uscendo dai miei flash mentali, mi accorsi che lei si era assopita così tentai di svegliarla dolcemente. Le baciai la fronte con molta delicatezza e la chiamai piano. Lei si arricciò ed aprì gli occhi. 
Eravamo di nuovo a un respiro di distanza. Le nostre labbra sembravano già sfiorarsi mentre mi perdevo nel riflesso argentato che la luna provocava nel mare scuro dei suoi occhi. 
- Ti eri addormentata. - Non so dove trovai la forza per parlare perché sentivo la gola chiudersi sempre di più.
- Già. - Stavolta sembrava lei a corto di parole.
Le sue guance iniziarono leggermente a colorarsi, così come sicuramente stavano facendo le mie. Quasi non sentivo più il freddo pungermi il viso tanto era il calore che mi sprigionava dentro il desiderio di baciarla. Mi accarezzò una guancia increspando leggermente le labbra in un sorriso. Al contatto con la sua pelle morbida e fredda, alla visione di quel sorriso tenero e quasi impaurito, cedetti. Chiusi gli occhi e mi tuffai sulle sue labbra.

- Buonanotte, allora. - Eravamo sulla soglia della nostra casetta. Entrambi imbarazzati. 
- Devo entrare anch'io, ricordi? - 
- Ah, già! Le stanze sono tutte qui dentro. L'avevo dimenticato, scusami. - 
Meg aprì la porta usando le chiavi comuni e si diresse verso la loro stanza che si trovava in fondo al piccolo corridoio accanto a quella dove erano alloggiate le altre ragazze, mentre io mi appoggiai alla porta della nostra. La guardai finché non scomparve all'interno della stanza. 

Non provai nemmeno ad aprire la porta che sicuramente Andrea e Marco avevano lasciato aperta per permettermi di rientrare. Appoggiai la schiena al legno bianco e mi lasciai scivolare fino al pavimento, sconfortato. Ero stato uno stupido a convincermi che lei si fosse innamorata di me quanto io di lei. Ero stato uno stupido a perdere il controllo e cercare di baciarla. Si era spostata. Lei si era spostata! Di qualche centimetro, sì. Non era saltata via urlandomi di starle lontano. L'aveva fatto con molta delicatezza, ma il punto era lo stesso. Aveva rifiutato il mio bacio. Aveva chiuso gli occhi e tremato, ma mi aveva porto la guancia. Poi, continuando a sorridere, si era alzata ed aveva proposto di rientrare. Tutto era caduto nell'oblio come se non fosse mai successo ed io mi sentivo spezzato.

Qualcosa distrasse i miei pensieri. Sentivo delle voci provenire dall'interno della stanza. Riuscivo a capire le parole ma non distinguevo l'appartenenza delle voci. Qualcuno diceva "non possiamo, tra poco ritornerà". Qualcun'altro rispondeva "non mi interessa se ritorna, al massimo si scandalizzerà". Sorrisi tra me pensando che probabilmente Andrea e Marco si erano alla fine rimorchiati le due ragazze e probabilmente erano nella piccola anticamera a discutere se fosse giusto scoparsele subito o aspettare che fossi rientrato. Decisi di non disturbarli, così, visto anche che il sonno non mi avrebbe accompagnato, mi rialzai ed uscii di nuovo nel freddo della notte. Mi sedetti sullo scalino dell'ingresso fissando il mare che si intravedeva tra gli alberi e riflettendo su come probabilmente avevo rovinato tutto. 
Vidi Ludovica arrivare camminando al fianco del compagno di Diego di cui non ricordavo il nome. Fu, ovviamente, sorpresa di vedermi e mi si avvicinò lasciando il belloccio a pochi passi.
- Ohi, Cris. Che ci fai qui? -
- Pare che nella mia camera ci sia una specie di orgia, così sono venuto qui fuori. - 
- Ma non puoi stare qui fuori tutta la sera! - Mi disse preoccupata. Sembrava aver preso anche con me l'abitudine di essere protettiva.
- Tranquilla Ludo. Gli lascio un'oretta di divertimento. Credo che gli basti. - Risi, spacciandola per risata sarcastica. In realtà ero solo nervoso. - Tu, ti sei raccattata il belloccio? -
Lo guardò un attimo e si volse di nuovo verso di me estremamente sorridente. - Si chiama Giacomo, ma tutti lo chiamano Jay e che tu ci creda o no abbiamo scoperto che da bambini ci conoscevamo perché abitava nel mio stesso quartiere prima di trasferirsi. - Le stelle che non c'erano in cielo, erano tutte nei suoi occhi. 
- Mi piacerebbe che tu mi raccontassi la storia della vostra infanzia, giuro! Ma credo che lui non sarebbe molto contento di aspettarti due ore. - Risi di cuore stavolta. Vederla così stranamente contenta mi metteva allegria.
- Sì, scusa. Buonanotte allora. -
- Buonanotte. - Entrarono insieme ed ognuno si diresse nella sua stanza. 

Rimasi ancora un po' fuori, ma poi non ce la feci più. Le mani mi si erano ghiacciate e non riuscivo più a sentirmi il naso. Rientrai nella casetta progettando di entrare in stanza discretamente. Dato che all'interno le stanze erano ulteriormente divise da dei piccoli separè in due zone, volevo infilarmi subito nel mio "scomparto" non interrompendo eventualmente quello che stava succedendo.
Aprii la porta delicatamente e vidi che la luce era spenta, fortunatamente. Entrai cercando di non fare rumore e cercando di non sentire gli ansimi che provenivano dalla parte della stanza in cui c'era il letto dei ragazzi. Mi infilai velocemente dietro il mio separè e feci un sospiro di sollievo. Mi infilai nel letto togliendomi solo il giubbotto e tentai di addormentarmi. 

Era passata quasi un'ora da quando ero rientrato e gli ansimi non accennavano a smettere. Anche se erano stati per tutto il tempo discreti e non avevo mai sentito robe da film porno, come mi sarei aspettato, non riuscivo a dormire. Decisi di fare notare che ero rientrato. Pensai che, in fondo, i ragazzi non avrebbero avuto problemi se li avessi visti e le ragazze, dopo aver accettato una cosa a quattro alla prima sera, non dovevano essere proprio delle santarelline timide e riservate. 
Mi alzai e uscii dal separè. Accesi la luce e parlai ad alta voce mentre mi avvicinavo alla loro zona, permettendogli così, se volevano, di coprirsi. Dall'altra parte i rumori erano improvvisamente aumentati. Si sentiva un gran frusciare di lenzuola e diverse imprecazioni.
- Ragazzi a me fa piacere se vi divertite, ma io dovrei anche dormire! Sono le tre quasi e domani la colazione la danno alle 7:30! Potreste rimandare ad un altro momento o almeno fare più piano? - 
Ero arrivato al separè e questo si aprì improvvisamente. Marco era visibilmente affannato. Aveva il viso rosso ed era parecchio sudato. 
- Buongiorno. - Gli dissi scherzando e ridendo. - Alla fine quelle ragazze non erano poi così male, eh! - Aggiunsi sottovoce cercando di non farmi sentire dall'altra parte. 
- Beh, già! Non sono male. - Era visibilmente imbarazzato, quasi nel panico. Si capiva sempre di più che non ci sapeva fare con le ragazze.
- Non vi voglio rovinare la festa, ma anche a voi conviene dormire. Potete fare con calma domani. - Gli diedi una pacca sulle spalle e un buffetto. L'avevo preso come il fratello minore che non avevo.
- Sì, sì. Le mandiamo via subito. - Si affrettò a dire. 
Contiuava a girarsi verso l'interno della stanza, dentro cui tutto taceva, e a rivoltarsi verso di me. Capii che aveva fretta che me ne andassi e decisi di lasciarlo andare. Tornai dietro il mio separè e mi misi a letto. Non sentii le voci delle ragazze, ma qualcosa che mi lasciò un po' perplesso. Marco cercava di parlare piano. - Te l'avevo detto che ci avrebbe scoperto. -
- Non ha scoperto niente. - Gli disse Andrea.
Poi, un rumore di lenzuola e lo schiocco di un bacio. Niente più. Solo silenzio. Sorrisi pensando che probabilmente le ragazze sarebbero rimaste a dormire nel loro letto, anche se mi lasciava perplesso che parlassero di scoprire qualcosa. 

Appena chiusi gli occhi, mi venne in mente il viso di Meg, imbarazzato dopo che avevo tentato di baciarla. E questo mi fece cancellare tutto il resto.

La colazione era abbondantemente servita sul tavolo da buffet. Arrivai nella sala piena già di uomini in giacca e cravatta che inzuppavano il cornetto nel cappuccino o che parlavano al telefono. Meg salutò frettolosamente, arrossendo, per precipitarsi al tavolo con il suo vassoietto stracolmo. La seguii con lo sguardo finché non si sedette ad un posto libero accanto a Ludovica, al tavolo di Diego. Con un po' di amaro in gola e pronto a godermi una giornata d'inferno, afferrai un cornetto alla crema e lo mangiai restando in piedi accanto alla porta d'entrata per poi servirmi un'abbondante tazza di caffè forte. Non smisi un attimo di guardarla. Era stranamente silenziosa. Ogni tanto faceva un sorriso e un commento per non restare totalmente esclusa dalla conversazione, ma sembrava assente.

- Ciao Cris! - Terry sbucò alle mie spalle facendomi trasalire. 
- Oh, ciao Terry. - Mi stampò un bacio sulla guancia.
- Che c'è di buono? Ho una fame! - 
Si allontanò diretta verso il buffet. Osservandola notai che si era vestita con particolare cura e riusciva a confondersi con le persone d'affari che giravano per la sala. Portava una camicetta bianca molto semplice, sopra un paio di jeans scuri a cui aveva abbinato un cardigan blu scuro e degli stivali blu. Aveva legato i lunghi capelli mori in una treccia ordinata ed ero sicuro che per chi non la conosceva era facile scambiarla per una Professoressa o qualcosa di simile. 

Mi soffermai a pensare che probabilmente ero l'unico ad essere sceso per far colazione senza essere già pronto per i seminari. Guardai l'orologio. Il primo era esattamente un'ora dopo. Avevo a disposizione più del tempo che mi serviva, ma iniziai ad avviarmi verso la stanza, anche per svegliare i ragazzi che non avevano ancora dato segni di vita. Mentre camminavo sovrappensiero, urtai qualcuno.
- Mi scusi. - Alzando gli occhi notai che si trattava del nostro Professore di Reti.
- Oh, non si preoccupi. Buongiorno signor... - Ci pensò un attimo su.
- Liotta. - Gli suggerii.
- Già, già. Liotta. Una delle migliori prove in itinere di quest'anno se non ricordo male. Sapresti dirmi da che parte devo andare per prendere la stanza? Sono appena arrivato. -
- La reception è in quel palazzo blu, quello un po' più alto degli altri. -
- Perfetto, grazie. E mi raccomando, segua attentamente i seminari! Non la voglio vedere alla prossima prova in itinere. - Mi sorrise e andò via. 
- Sicuramente. - Alzai un po' la voce per farmi sentire dato che già si era allontanato. 
Restai ancora un attimo interdetto dal fatto che il Professore fosse riuscito a ricollegarmi al compito che avevo fatto, ma presto ricominciai a camminare verso la stanza. 

Non avevo portato con me le chiavi perciò suonai il campanello. Aspettai un po' dietro la porta e poi, finalmente, Andrea in accappatoio arrivò ad aprirmi. Aveva l'aspetto di uno che si era incazzato di primo mattino. Mi grugnì un 'buongiorno' e mi fece entrare in camera. Sentii l'acqua scorrere dalla doccia e mi sedetti sul letto, tenendo il separè aperto. Andrea si tolse l'accappatoio e iniziò a vestirsi. Non chiuse nemmeno lui il separè, ma almeno si voltò dandomi le spalle. 
L'acqua smise di scorrere ed io mi alzai preparandomi per entrare in bagno. Dopo qualche secondo Marco, completamente nudo, uscì dalla porta bianca. Inizialmente fischiettava, ma quando si accorse di me quasi urlò e si infilò velocemente da dove era uscito per prendere l'accappatoio.
- Ehi! Non ti mangio mica. Credevi di essere solo? -
- Veramente... - Era visibilmente imbarazzato e non riuscivo a capire il motivo. 
Andrea lo guardò con lo stesso sguardo torvo con cui mi aveva aperto la porta. Poi si concentrò nell'alzarsi i jeans. - Neanche io dovevo esserci. Ho fatto la doccia dalle ragazze. -
- Già! Quindi credevo di essere solo. - Si affrettò ad aggiungere Marco.
Il suo comportamento era parecchio strano. - Sicuro di star bene? -
- Certo! - Mi sorrise e come se nulla fosse andò verso la sua valigia per tirarne fuori la roba da mettersi. 
Ancora un po' perplesso mi infilai in bagno e mi godetti la mia meritata doccia calda. 

Durante i seminari Meg sembrava essere tornata di nuovo quella di prima. Si sedette accanto a me e non era più imbarazzata nel parlarmi. Riusciva anche a guardarmi negli occhi senza arrossire. La cosa mi fece molto piacere perché voleva dire che non avevo rovinato tutto. E molto contribuiva anche il fattore che sembrava non considerare più di tanto Diego, che di tanto in tanto veniva a cercarla durante le pause. Ludovida sembrava aver momentaneamente abbandonato Jay, con cui già aveva scambiato il numero di cellulare. Terry si era perfettamente calata nella parte della donna in carriera. Mentre gli esperti parlavano scriveva come una forsennata e finché loro parlavano non si distraeva neanche per sollevarsi le maniche della giacca che le ricadevano sulle mani. Daniela, invece, ai seminari sembrava non pensarci proprio. Nelle pause che si prendeva dal fare la civetta con qualsiasi ragazzo fosse presente, la vedevo fissarmi con uno sguardo strano e un sorriso quasi cattivo sulle labbra. Marco era sempre più cupo, tanto che decisi di avvicinarlo prima di pranzo e cercare di parlare con lui a quattr'occhi. Andrea, al contrario, una volta arrivato tra la folla si era totalmente ripreso. Si andò a sedere tra le due ragazze nostre "vicine" a fare il galletto. 

Era appena finito l'ultimo seminario prima della pausa pranzo. Meg mi prese sottobraccio e quando la guardai notai che era un po' arrossita. 
- Hai fame? - Le dissi baciandole una tempia.
- Abbastanza. - Sorrise come solo lei sapeva fare. 
- Allora vai a mangiare. - Sorrisi anch'io.
- Non vieni? -
- Sì, ma prima devo fare una cosa. -
- Ok, ma non ti assicuro che ti lascerò qualcosa. - Mi diede un bacio sulla guancia e si allontanò quasi saltellando. 

La seguii fin quando potei, poi mi voltai. Di fronte a me, a qualche passo di distanza, Daniela era al centro tra tre o quattro tizi mai visti prima. Ma mi fissava ancora in quel modo assurdo. Mi voltai roteando gli occhi. Cercai Marco e lo vidi allontanarsi verso la stanza. Prima che potessi raggiungerlo, però, davanti a me sbucò improvvisamente il Professore. 
- Ehi Liotta! Mi vuoi scaraventare a terra per forza oggi? - Rise di gusto gettando la testa all'indietro. 
- Mi scusi di nuovo Professore. Stavo cercando di raggiungere... -
In realtà non mi stava ascoltando infatti mi interruppè. - Come ti sono sembrati questi primi seminari? Interessanti, vero? -
- Certo, certo, molto interessanti. - Cercavo un modo che mi potesse liberare non sembrando troppo scortese. Era pur sempre un Professore con cui ancora dovevo fare esami.
- Se solo il vostro caro Presidente del Corso di Laurea mi avesse permesso di introdurlo nel programma! Ah, che rabbia! Vedi che fa fare quando mettono un matematico a dirigere corsi come il nostro? Che portano avanti le cose che loro reputano importanti e tralasciano quelle che lo sono davvero! Va beh, ma non è con te che dovrei lamentarmi di questo. Andiamo a mangiare, dai! - Mi diede una pacca sulla schiena così forte che quasi mi fece soffocare.
- Sì, sì. Sicuramente. Lei vada, io arrivo tra poco. - 

Anche stavolta non mi stava ascoltando ed era già lontano quando terminai di parlare. Mi sbrigai ad arrivare in stanza. Suonai per farmi aprire e Marco arrivò dopo poco. - Sì, sì. Vengo! - Disse senza neanche guardarmi dopo aver aperto la porta. Poi mi inquadrò e si sorprese. - Che ci fai qua? -
- Potrei chiederti la stessa cosa. - Risi entrando.
- Beh, io... Sono venuto a posare gli appunti. - Mi indicò il suo zaino che era stato scaraventato per terra accanto al letto. 
- Quali appunti se, sì e no, avrai scritto due frasi oggi? - Lo guardai cercando di fargli capire che ero lì perché volevo aiutarlo, non per accusarlo di essere stato distratto.
- Beh, io... Io... -
- Eri pensieroso. L'ho capito da solo questo. - Mi avvicinai mentre lui rimaneva in silenzio e mi sedetti sul suo letto. - Vuoi parlarne? Cos'è che ti preoccupa? -
- No, va beh. Non ti preoccupare. -
- Marco, sono tuo amico. Puoi parlare con me. -
Lo vidi guardarmi con lo sguardo quasi spaventato. - Non è una cosa facile da dire, anche se sei mio amico. -
- Se non vuoi, non ti posso costringere. Ma se vuoi, io posso ascoltare di tutto! - Poggiai i gomiti sulle ginocchia.
Mi guardò ancora e poi sbuffò. - Si tratta di ieri sera. - Passeggiava per la stanza evitando di guardarmi e gesticolando vivacemente con le mani. - Io non so se tu hai capito. -
- Non ho capito? Ma se sono dovuto anche intervenire perché non mi facevate dormire! - Risi.
- Vedi, è che io non credo che tu abbia capito davvero come è la mia situazione. -
- La tua situazione? Che vuoi dire? -
- Che è diverso da come pensi tu. -
Lo osservai camminare formando un cerchio e fissandosi la punta delle scarpe, cercando di decifrare le sue parole. Poi ebbi un'illuminazione. Come avevo fatto a non pensarci prima? - Sei vergine! - Lo dissi con troppo entusiasmo.
Marco si fermò e mi fissò con il suo sguardo ancora spaventato.
- Cioè, eri vergine. Questo è il problema? - Tornai a ricompormi, comprendendo che probabilmente per lui era stato un problema. 
Alzò gli occhi al soffitto. - Circa. - Poi tornò a guardarmi sbuffando. - Sì, diciamo che il problema è quello. Io non l'avevo mai fatto e credevo che la prima volta sarebbe stata diversa. Non così... così... -
- Con una ragazza sconosciuta? -
Di nuovo si bloccò e sbuffò prima di ricominciare a parlare. - Sì, diciamo di sì. Non credevo di farlo con una persona a cui realmente non interessa di me e che vuole solo scopare. -
- Beh, dovevi immaginartelo, no? Con una ragazza appena conosciuta non può essere grande amore. -
Di nuovo gli occhi al soffitto, di nuovo lo sbuffo. - Non volevo che andasse così. -
- Marco io ti capisco. La mia prima volta sai con chi è stata? Avevo 17 anni e sono andato con una venticinquenne rimorchiata in un bar. Non sapevamo neppure come ci chiamavamo. Me ne sono pentito anche io, ma si supera. Alla fine la vera prima volta non è quasi mai la volta in cui perdi la verginità. La prima volta vera è quella in cui lo fai per la prima volta con la persona della tua vita. E lì è tutto diverso e nuovo anche se l'hai fatto milioni di volte. -
Mi fissò in silenzio. Vidi i suoi occhi diventare lucidi. - E quando una è la persona della tua vita, ma tu non lo sei per lei? Che si fa? -
Mi avvicinai a lui, poggiandogli una mano sulla spalla. - Non stai parlando di quelle ragazze, vero? -
Non rispose, ma scosse la testa in segno di negazione.
- Beh, quando ti innamori di una persona che non è innamorata di te... - Non riuscii a continuare la frase. Faceva troppo male. Lo guardai e cercai qualcosa che potesse sdrammatizzare la situazione, perché credetti che fosse sull'orlo del pianto. - In quel caso ci sono solo tre cose che possono aiutare. -
- Cosa? - Mi chiese speranzoso. 
- Picchiare tutte le persone che ci provano con lei, strafogarsi di alcool e imbottirsi di nutella. -
Lo vidi ridere. - Credo che opterò per la terza. -
- E allora muoviamoci che magari un po' di nutella ce la rifilano a pranzo, oggi. -
- Sempre che ci abbiano lasciato qualcosa! - Disse dopo essersi stropicciato gli occhi per far andare via le lacrime.
- Ah, lo spero bene! -

I seminari che si tennero il pomeriggio non erano tra quelli che il Prof ci aveva "caldamente consigliato", perciò quasi tutti fummo subito daccordo nel saltarli a piè pari. Terry, infatti, aveva intenzione di seguirli tutti. "Per conoscenza personale" diceva, in realtà sapevamo tutti che aveva il terrore che qualche relazione da fare fosse su argomenti trattati in seminari che aveva saltato. Con un po' di pazienza, però, riuscimmo a convincere anche lei a lasciar perdere e a godersi un po' di meritato riposo.
Essendo pieno inverno e vista anche la forte pioggia arrivata dopo pranzo, ovviamente, buona parte dei servizi del villaggio erano inutilizzabili. Restavano comunque la piscina coperta e il percorso benessere che erano a nostra completa disposizione. Le uniche persone con cui dovevamo dividerle erano le poche mogli che avevano accompagnato alcuni dei relatori e qualche altro ragazzo che, come noi, aveva ben pensato di marinare qualche seminario. 
Non avendo portato con me il costume, disgraziatamente dimenticato a casa, restai per un po' a bordo piscina a rilassarmi. Meg, Ludo e Terry erano tutte dentro l'acqua a sguazzare come paperelle nello stagno. Marco era ancora abbastanza giù. Stava quasi appisolato sulla sdraio accanto a quella dove mi ero sistemato io, mentre Andrea lì vicino sfoggiava quel poco di muscoli che si trovava pavoneggiandosi con le ragazze che si trovavano lì vicino. Daniela esibiva il suo di corpo, in un bikini bianco tanto minuscolo da sembrare inesistente. Per un attimo mi ritrovai anch'io ad osservare le sue forme che, dovevo ammetterlo, avrebber fatto venir voglia a chiunque. Distolsi lo sguardo quando notai come lei mi stesse di nuovo fissando in modo strano. Gli ormoni mi avrebbero senz'altro portato a fissare ancora quelle onde morbide ed invitanti e a studiare per bene il piccolo tatoo, rappresentante l'impronta di un cagnolino, che esponeva maliziosa vicino all'inguine, leggermente all'interno della coscia destra. Me lo impedii con tutto me stesso per non darle alcun tipo di soddisfazione nel trovarmi a sbavare su di lei, anche fosse stata solo una questione ormonale e null'altro. 

La mia tranquillità finì quando vidi arrivare Diego e Jay, accompagnati da altri loro colleghi. Con i loro costumi a vita bassa e i fisici scolpiti nonché leggermente abbronzati anche se a metà Dicembre, sembravano una squadra di modelli pronti per un servizio fotografico. Mi venne quasi di guardarmi intorno nella sicurezza di trovare da qualche parte un telone bianco a fare da sfondo, delle luci ben piantate e tutto lo staff necessario per qualche campagna pubblicitaria. Persino le signore lì vicino li guardavano non tentando nemmeno di nascondere i pensieri erotici che passavano per le loro menti attempate e che non assaggiavano bei ragazzi giovani chissà da quanto tempo. Coi loro sorrisi smaglianti, rischiavano quasi di accecare gli sguardi di noi poveri studenti mortali. Quello che fecero sicuramente, fu appiccicare su di loro quelli di tutte le ragazze presenti, inclusa Meg. Sapevo che non potevo e non dovevo essere geloso di lei, ma la cosa mi fece parecchio incazzare. Come nei migliori film americani, tutti quei bellocci decisero di infilarsi in acqua. Che Ludovica a quel punto sarebbe corsa ad accogliere Jay non avevo dubbio, ma vedere anche Meg tutta eccitata nell'accogliere Diego mi fece alterare ancora di più. Non avrei potuto sopportare di vederli, di vedere lei sorridergli come faceva con me, di vedere lui metterle le mani addosso con la scusa dello scherzo acquatico. Mi alzai cercando di non dare a vedere lo scuro che mi era preso in volto.

- Dove vai? - Mi chiese Marco, svegliandosi d'improvviso. 
- Credo che approfitterò del percorso benessere. Un po' di sauna non può farmi male col freddo che c'è fuori. -
- Ho sentito parlare di percorso benessere? - Andrea, privato dell'attenzione delle ragazze da fisici molto migliori del suo, si catapultò accanto a me. - Ho proprio bisogno di una bella femmina che mi massaggi! - 
Marco, con faccia schifata, si voltò dall'altra parte. A me, invece, venne da ridere. - Non ne hai avuto abbastanza stanotte? Marco sembra distrutto! -
- Non mi basta mai. - Mi fece l'occhiolino. - Vi aspetto negli spogliatoi. - Iniziò ad avviarsi da solo.
- E allora, vieni? - Dissi scuotendo Marco dal sonno in cui sembrava essere rientrato. 
- Lo eviterei volentieri. -
- Eddai! Non so se riesco a sopportortarlo da solo. -
- E va bene. - Sbadigliando, si alzò e ci avviammo anche noi.

Ringraziai il cielo che Marco si fosse convinto ad accompagnarmi perché la spavalderia di Andrea, che si godeva la sauna comodamente stravaccato sui gradini completamente nudo, era una cosa parecchio imbarazzante. Per non parlare delle battute volgari che gli uscirono di bocca vedendo arrivare una delle massaggiatrici, una biondona mozzafiato. Io e Marco facemmo finta di non conoscerlo e lo mandammo avanti da solo aspettando che uscisse seduti sull'apposita panchina avvolti nei nostri accappatoi. Quando fu il nostro turno vidi Marco, imbarazzato ed impacciato più che mai, mentre restava in mutande davanti a quella bella ragazza. Lo guardai sorridendo e lo vidi diventare completamente rosso dalla vergogna. Faceva quasi tenerezza. 
Mi accomodai sul lettino e, con gli occhi chiusi, cercai di immaginare che quelle mani che tastavano la mia schiena fossero di Meg. Capii che era tempo di smetterla quando mi iniziai ad eccitare. Doversi girare o alzare mostrando la mia eccitazione sarebbe stato molto probabilmente più imbarazzante che ascoltare Andrea fare apprezzamenti sul seno della bionda massaggiatrice. Anche se continuavo a cercare di pensare alle cose meno eccitanti esistenti sulla faccia del pianeta, quando dovetti girarmi quella parte di me era comunque leggermente sveglia. Le ragazze, con molta probabilità abituate a reazioni simili, non ci fecero caso e continuarono a lavorare molto professionalmente.
Quando finimmo mi sentivo estremamente più rilassato, ma anche con una grande voglia di fare l'amore in corpo. Arrivammo nello spogliatoio in tempo per incrociare Andrea che tornava in piscina. Eravamo soli mentre ci cambiavamo. 
- Oddio, certo che è parecchio imbarazzante! - Commentai ripensando al massaggio.
- Cosa? - Marco sembrò non capire a cosa mi riferivo. 
- Il massaggio dico. Quelle sono ragazze stupende. E' stato molto difficile non eccitarsi. E non ci sono riuscito del tutto! - Mentre io ridevo vidi Marco diventare di nuovo rosso in viso. - A proposito Marco. Ma quella tappetta tutta tette di cui mi parlavi? Non l'ho vista mica! - Cercavo di metterlo a suo agio, ma sembrava totalmente assorto nei suoi pensieri e nel suo imbarazzo.
- L'ho incrociata stamattina. -
- Hai intenzione di provarci? - Gli misi una braccio intorno al collo dandogli un piccolo pugno sulla spalla. - Dato che hai già fatto colpo! Magari chiodo scaccia chiodo, no? -
- Magari sì. - Mi disse un po' sconsolato. 
- Oh, Marco! Riprenditi ti prego. -
- Pare facile. -
- Non è facile, lo so. - Eccome se lo sapevo! Fino a due ore prima ero dovuto scappare dalla piscina perché solo il pensiero di vederla scherzare con quel cazzo di modello mi faceva uscire di testa. - Ma non rovinarti la vacanza per quella! - 
Mi sorrise un po' sarcastico. - Non sarebbe una vacanza questa. -
- Una mezza vacanza. - 
Finalmente sorrideva sinceramente. 

Uscii dalla camera dopo essermi sistemato con cura. Avevo tirato e legato i capelli in una piccola coda. Indossavo un paio di jeans leggermente larghi, una maglietta a maniche lunghe nera e una camicia, leggermente felpata, con una fighissima fantasia tartan su marrone scuro e nero con le maniche arrotolate fino al gomito. Raramente mi facevo dei complimenti, ma quella sera ero proprio uno strafigo. Mi ci ero messo d'impegno appositamente per cercare di attrarre l'attenzione di Meg rubandola a Diego. E per un po' c'ero pure riuscito. Quando mi vide entrare nel salone per la cena, la vidi illuminarsi e sorridere. Mi sedetti nell'unico posto disponibile accanto a lei perché l'altro era già occupato da Ludovica. Mi guardò per qualche secondo ancora stranamente entusiasta. 
- Cris, stai benissimo! -
- Grazie. - Quel complimento fatto così spontaneamente mi strinse la gola e per poco non soffocai con la mia stessa saliva. 
- No, davvero. Non sembravi nemmeno tu! I capelli legati ti stanno meravigliosamente. Risaltano i tuoi occhi. -
- Grazie. - Mi sentivo un ebete. Mi trovavo di nuovo a non riuscire a formulare frasi di senso compiuto. 

Diego, invece, appena arrivato e dopo essersi accaparrato il posto di fronte a lei, la cinse in una fitta conversazione. Si vedeva ad occhio nudo che era un tipo abituato a trattare con le donne, un po' come ero sempre stato io. Solo che con Meg mi sentivo un ragazzino alle prime armi, tutto mi sembrava banale e scontato, qualsiasi cosa era inadeguata. Dopo tutto, non mi era mai capitato di essere inamorato così. 
Anche dopo cena, quando ci spostammo di nuovo all'American Bar, Diego continuò la sua spacciata corte nei suoi confronti. Anche in modo più spinto della sera precedente. Lo vedevo cercare di abbracciarla e avvicinarsi tentando di baciarle il collo. Puntualmente lei si scostava e questo mi risollevava dal tuffo che mi prendeva al cuore ogni volta. Anche se in modo educato e senza fare scenate, cercava di fargli capire di non esagerare. Infine decise di alzarsi dal divanetto, probabilmente stanca della sua insistenza. Uscì fuori, ma lui la seguì. Non potevo restare fermo al mio posto e non fare nulla. Mi accodai discretamente anch'io e rimasi nascosto dietro un pilastro d'entrata ad osservarli e ascoltarli. Fortunatamente questo Diego, nonostante fosse visibilmente un playboy, si dimostrò anche un bravo ragazzo. Mi ricordava sempre di più me ai vecchi tempi. Quando lei gli spiegò che le stava molto simpatico ma non cercava niente di più, anche se visibilmente deluso, sorrise, abbassò lo sguardo e rientrò. 

Meg non mi aveva ancora visto, ma io continuavo a guardarla. La luna quella notte era coperta dalle nuvole che avevano smesso di rovesciare pioggia, ma la leggera luce che emanava riusciva comunque ad illuminarla donandole un'aria quasi divina. La vidi sedersi sull'unica panchina di ferro che c'era sotto il portico d'entrata. Si portò le ginocchia al petto raggomitolandosi e fissando un punto non meglio precisato all'orizzonte. 
- Guardi il mare anche stanotte? - Le dissi. Parlai piano, ma lei comunque sobbalzò perché credeva d'essere sola. 
- Stavolta lo guardo da lontano, però. - Mi sorrise prima di tornare a fissare l'orizzonte. - La sabbia sarà diventata fango con la pioggia di oggi. -
- Se vuoi possiamo tentare. -

Aveva ragione. La sabbia era estremamente bagnata e sembrava quasi fanghiglia. Ma Meg non si preoccupò più di tanto. Si tolse le scarpe e, infilando le mani sotto il vestito, tirò via anche i pesanti collant scuri che le coprivano le stupende gambe. Guardai il mare per evitare di fissarla con troppo desiderio. Lei sembrò approfittarne. Si sfilò il giubbotto ed il vestito velocemente gettandolo sopra le scarpe sul muretto che ci separava dalla spiaggia. La vidi sfrecciare accanto a me. Corse senza fermarsi un attimo e, prima che potessi stupirmene, si tuffò in acqua. Pensai che fosse impazzita. Doveva senz'altro essere impazzita. Chi, sano di mente, si getterebbe in acqua il 16 Dicembre, di notte, in biancheria intima? Mi tolsi velocemente scarpe e calzini ed arrotolai i jeans fino al ginocchio. Mi affrettai ad arrivare a riva portando con me la sua roba che poggiai sulla spiaggia cercando di non farla sporcare troppo. La vidi sguazzare tranquillamente come aveva fatto per tutto il pomeriggio in piscina. Tra lo scintillio dell'acqua e quello della luna, sembrava la sirena di un racconto epico e come tale mi stava totalmente ammaliando, facendomi dimenticare ciò che dovevo dire. 
- Ma sei pazza? - Le urlai infine. - Esci subito o ti ammalerai! - 
- Non sono pazza, sono libera! - Mi rispose urlando prima di tuffarsi nuovamente sott'acqua. 
- Ti prego, Meg! Esci. -
- Vienimi a prendere! - Scherzava ancora.
Io non sapevo se sperare che uscisse per la sua salute o sperare che restasse ancora a farsi ammirare in quella strana luce. - Dai Meg. Non fare la bambina! -
- Uffa! E va bene! Hai portato il vestito? -
- Sì. E anche il giubbotto. Sono qui accanto a me. -
- Allora girati. - Si avvicinò alla riva cercando di mantenersi sotto il livello dell'acqua. 
- Perchè? -
- Me lo chiedi pure? Vuoi vedermi in lingerie? -
- Oggi ti ho visto in costume, non cambia molto. - 
- Ma il costume non è trasparente! Quindi girati o resto qui tutta la notte. -
Leggermente imbarazzato per la risposta che avevo ricevuto, mi voltai tendendo l'orecchio ad ascoltare cosa succedeva. Vidi la sua mano sporgersi per prendere il vestito e successivamente il giubbotto. Poi prese in mano le scarpe e le calze. 
- Ora possiamo andare. - Disse portandomisi di fronte.
- Muoviamoci prima che congeli. - Anche se non voleva darlo a vedere, stava tremando terribilmente. 

Appena arrivammo al muretto, mi ripulii alla meno peggio i piedi e infilai calze e scarpe. Poi la presi in braccio e, più in fretta che potei, la portai in camera. Nuovamente avevo dimenticato le mie chiavi, perciò entrammo nella sua.
- Infilati immediatamente in doccia, pazza! - 
Mi fece la linguaccia prima di infilarsi nel bagno. 

Seduti sul suo letto, parlavamo di tutto e di niente, ridendo come due schizzofrenici. Si era infilata un morbido pigiamone azzurro con disegnate delle allegre mucche. Era una visione dolcissima e tenera che ispirava tutto l'amore possibile. Nel guardarla così bella e pulita, senza un filo di trucco e con i ricci morbidissimi e gonfi dopo essere stati asciugati di fretta, la voglia di averla mi prese più forte che mai. Non volevo possederla, no. Volevo amarla, farla stare bene, unirmi a lei nel modo più dolce che fosse mai stato sperimentato. Era strano pensare che stare seduto su un letto a parlare davanti ad una ragazza in pigiama fosse più rilassante ed eccitante di un massaggio quasi totalmente nudo da parte di una ragazza procace e sexy. 
Quel pensiero mi fece bloccare. Mi si fermò una risata. Mi ritrovai a guardarla con gli occhi pieni di tutto il sentimento che mi stava scoppiando in petto. Anche lei smise di ridere, sorridendo soltanto. Le guance erano ancora un po' arrossate dal calore della doccia calda. Con una mano si spostò un ciuffo dal viso portandoselo dietro le orecchie mentre con l'altra giocherellava con l'orlo del pigiama. Si morse le labbra e lì impazii. Il cuore mi saltò fuori dal petto per correre ad abbracciarla. Tremante avvicinai una mano al suo viso per accarezzarlo. La sua pelle era tiepida e ancora più morbida del solito. I suoi grandi occhi nocciola mi guardavano e avrei voluto che leggessero tutta la mia anima per scoprire ogni goccia del mio amore per lei. 
Mentre continuavo ad accarezzarle la guancia mi avvicinai verso di lei. Meg, quasi istintivamente, tentò di allontanarsi inclinando il busto all'indietro. Le sorrisi. Non avevo intenzione di baciarla. Almeno se non l'avesse voluto anche lei. La abbracciai. Una volta avvolta dalle mie braccia sembrò rilassarsi. Mi abbracciò a sua volta, cingendomi intorno al collo le sue braccia. Sentivo il suo petto muoversi contro il mio al ritmo lento del suo respiro e non riuscivo a smettere di pensare che quello era il momento più perfetto che avessi mai avuto. Se mi avessero chiesto in quell'istante se ero felice, non avrei avuto alcun dubbio sulla risposta. Le baciai la guancia e lei mi ricambiò baciando la mia. Le diedi un altro bacio e lei fece lo stesso. E ancora e ancora. Pian piano si spostava sempre di più lungo il mio volto, arrivando al limite con le mie labbra. Chiusi gli occhi per la vertigine che provai quando ne sfiorò l'angolo sinistro. Non potevo credere che stava per accadere. Non realizzavo ancora che probabilmente mancavano pochi attimi al bacio che avevo tanto desiderato. 

Infine accadde.
Posò le labbra sulle mie, delicatamente, senza far pressione, come se non fosse reale. Una carezza, quasi. Erano tante le emozioni che correvano nelle mie vene, che non riuscii a muovermi. 
Lo fece di nuovo. Mi baciò ancora, ma premendo leggermente di più le labbra sulle mie. Una scintilla scoppiò dentro di me. Tutto ciò che avevo represso per tanto tempo venne fuori. La strinsi di più nelle mie braccia e mi lasciai andare a quel bacio, assaporando finalmente il sapore di quelle labbra. Erano dolci, come le avevo sempre immaginate, anche di più. Sapevano di caramelle di bambina, quelle latte e miele che ti si appiccicavano ai denti ma erano talmente buone che non riuscivi a staccartene. Sapevano di labbra da cui non mi sarei più staccato, con cui avrei voluto passare il resto dei miei giorni. Sapevano di primo bacio. Il nostro primo bacio, così in sintonia da far invidia alle coppie più affiatate.
Mentre non volevo staccarmi dalle sue labbra le accarezzavo la schiena e le giocava coi miei capelli raccolti. Poi ci svegliammo da quel bellissimo sogno. Ci staccammo senza che nessuno dei due lo volesse realmente, restando a fissarci negli occhi per qualche attimo, entrambi interdetti e ancora completamente disorientati. Ci tuffammo in un nuovo bacio, ancora più intenso, ancora più vivo, ancora più nostro. Più la assaporavo, più capivo che avrei voluto averla mia per sempre, più cresceva in me il desiderio. Ma non potevo spingerla a sdraiarsi sul letto e saltarle addosso. Non volevo rovinare tutto facendole credere che fosse solo un'avventura da una notte in un villaggio turistico lontano da casa. No, lei era molto di più. E meritava molto di più. 

Quando ci separammo di nuovo, sorridevamo. Ero al settimo cielo, o forse più in alto. Mi sentivo felice, uno stato interiore che non provavo da diverso tempo. Avrei potuto fermare il tempo e restare in quel modo vita natural durante. 
- Ciao. - Mi disse sottovoce, tenendo ancora gli occhi chiusi.
- Ciao. - Le baciai la punta del naso.
- Da quanto tempo volevi farlo? - Una risata cristallina e spontanea le uscì di gola e le fece incarcare la testa indietro. 
Ne approfittai per posarle un piccolo bacio sul collo, vicino alla clavicola. La sentii rabbrividire leggermente. 
- Ehi, ehi. Calmati un attimo. - Mi disse, continuando però a ridere.
- Ma io sono calmo. -
- Non mi sembra proprio. - Disse sottovoce accanto al mio orecchio. 
Inizialmente non capì cosa avesse detto. Ma poi il suo sguardo malizioso e la sua smorfia con la lingua tra i denti mi fecero intuire che probabilmente si era accorta che tutto il desiderio che provavo per lei, nonostante volessi frenarlo, avevano svegliato la mia virilità.
- Scusa. - Dissi imbarazzato cercando di coprire il rigonfiamento con la camicia. - Sai, è che tu sei così bella. -
- Grazie! - Mi baciò piano le labbra, con un misto di soddisfazione e imbarazzo. - Anche tu sei bellissimo. - Continuò a darmi piccoli baci sulle labbra.
- Ma no, non è vero. - 
I suoi baci si spostarono verso l'orecchio e poi scesero lungo il collo. Persi il respiro tante volte da perderne il conto e rischiai di perdere anche il controllo delle mie azioni. Mentre mi accarezzava il petto attraverso la maglietta e mi mordicchiava la pelle che ricopriva la clavicola, dovetti stringere forte le lenzuola tra i pugni per padroneggiarmi. Infine decise di smettere quella dolce tortura. Mi baciò sulla fronte e si sdraiò sul letto. Porse le mani verso di me invitandomi a sdraiarmi accanto a lei. 
- Sei sicura? - Le dissi.
- Non è la prima volta che dormiamo insieme, mi pare. -
- Non mi pare il caso di dormire qui. Le ragazze rientreranno. - Mi pentii immediatamente di averlo detto, anche se era la cosa più corretta da fare.
Tornò a sedersi e mi guardò un po' dispiaciuta. - E va bene. -
- Non preoccuparti, Meg. - Le accarezzai i capelli e le baciai la fronte. 
- Ma io volevo dormire con te. - Strinse le labbra facendo sporgere quello inferiore in un adorabile broncio. Si avvicinò a me, infilandosi di nuovo tra le mie braccia.
- Anch'io vorrei. Mi piacerebbe farti le coccole tutta la notte. - Sì, volevo farle le coccole. E poi farci l'amore. E poi riempirla di nuovo di coccole. E poi farci di nuovo l'amore. E così via, all'infinito.

Ci baciammo ancora e poi mi alzai dal letto per uscire dalla stanza. In quel momento, puntuale come un orologio svizzero, la porta si aprì facendo comparire Daniela. Inizialmente sembrò sorpresa dalla mia presenza nella stanza, ma poi lo strano sguardo ritornò sul suo viso. 
- Bene, bene. Interrompo qualcosa? - Disse entrando.
- Solo un saluto. - Le rispose acida Meg. Quasi mi spinse fuori dalla porta. 
- Allora, buonanotte. - Le dissi un po' imbarazzato. 
Ma lei mi bloccò, tirandomi per la camicia e stampandomi un altro bacio sulle labbra. - Buonanotte. Lascia la porta aperta, non si sa mai non riesca a dormire. - 
Non lo disse sottovoce. Sapevo che erano solo parole rivolte a Daniela, per farla morire di gelosia. Eppure ci volli credere e lo feci perché tutto il resto che c'era stato era stato vero. Ne ero sicuro. Le sorrisi. Di sfuggita incrociai lo sguardo di Daniela che, al contrario di quanto immaginavo, era stranamente soddisfatto. Baciai ancora Meg, che stavolta si limitò a regalarmi un altro stupendo e dolce sorriso. Poi andai nella mia stanza.

Bussai per farmi aprire perché dalla luce che traspariva dalla fessura capii che c'era già qualcuno. Venne ad aprirmi Marco, già in pigiama e ancora giù di morale. Appena fu tornato a letto, tolsi la chiave dalla toppa, in modo che nessuno potesse chiudere la porta. Nel mio cuore speravo davvero che Meg arrivasse nel cuore della notte.

Ero ancora sveglio quando, alle due di notte, sentii aprire la porta. Istintivamente saltai giù dal letto, ma vidi che era solo Andrea, ubriaco come una spugna, che rientrava quasi carponi in stanza. Lo guardai camminare ondeggiando finché non lo vidi scomparire dietro il separè. Tornai al mio letto, un po' deluso e mi abbandonai sotto il piumone a pancia in giù.

Per un bel po' non riuscii a dormire, ma alla fine la stanchezza ebbe ancora una volta il sopravvento su di me e mi gettò in uno stato di dormiveglia tale che non riuscivo a distinguere il sogno dalla realtà. Sentii di nuovo la porta aprirsi e dei passi avvicinarsi nella mia direzione, ma non riuscii in nessun modo a muovermi. Mi convinsi facilmente di star sognando. Eppure lo sentii distintamente. Sentii il tocco di mani sul mio corpo. Era come se il mio fisico fosse nel sonno più profondo mentre la mia testa ancora non si era decisa a seguirlo. Non riuscivo a far altro che mugolare piano e muovermi leggermente, ma sentivo in modo chiaro le mani che mi accarezzavano la schiena scendendo verso le gambe. Le sentii passare sopra i glutei e poi cercare di forzare il mio busto a girarsi. Ancora intorpidito e indeciso se fosse un sogno o meno, accompagnai il movimento ritrovandomi sdraiato sulla schiena. Le mani presero ad accarezzarmi il petto ed io iniziai a svegliarmi completamente, riusciendo a dischiudere un poco gli occhi. Non riuscii comunque a vedere nulla, tra l'oscurità totale che regnava nella stanza e gli occhi che ancora non rispondevano bene ai comandi. Distinsi solo la sagoma di Meg che si muoveva per sdraiarsi sul mio petto, mentre le sue mani continuavano ad esplorare il mio corpo. Sorrisi e chiusi gli occhi, godendomi adesso quel tocco abile, capace di far impazzire qualsiasi uomo. Mi stupii nello scoprirla audace. Con abilità e rapidità mi sfilò i pantaloni della vecchia tuta che usavo per dormire, prima di farsi sempre più spinta nelle sue carezze. Sentii le sue labbra poggiarsi sul ventre, sotto l'ombelico e non trattenni un sospiro. Ero totalmente sveglio, ma ancora incapace di reagire perché stordito dagli ormoni che avevano iniziato a far festa. La voglia che avevo di lei mi aveva già ubriacato mentre la baciavo nella sua stanza. E mentre mi stava volontariamente stuzzicando in modo sempre più esplicito, persi ogni controllo. I suoi baci, che prima erano saliti verso il petto, scendevano sempre più in basso, arrivando all'orlo dei boxer per poi fermarsi. Si fece spazio divaricandomi leggermente le gambe e vi si inginocchiò continuando ad accarezzarmi le cosce. 

Non potei più restare immobile. Scattai in avanti, gettandomi su di lei, abbracciandola, palpando la sua pelle e impossessandomi della sua bocca con tutta la passione che mi aveva risvegliato in corpo. Accarezzandola mi accorsi che indossava solo la biancheria intima. Continuavo a non vedere nulla, ma al tatto sembrava essere pizzo. Doveva essere maledettamente sexy, ma dopo tutto lo era anche non riuscendo a vederla. Passai le mani sul collo ed infilai le dita tra i suoi ricci che si erano completamente asciugati ma che, forse colpevole l'acqua di mare, erano leggermente più ispidi del solito. Scivolai le mani nuovamente lungo la sua schiena mentre i nostri baci si facevano sempre più intensi e pieni di desiderio, di voglia di appartenersi. Lei si fece ancora più audace, sorprendendomi di nuovo. Staccò una mano dalla mia schiena, dove aveva fino ad allora conficcato le unghie facendomi impazzire ancor di più. La portò indietro e afferrò una delle mie, facendola scivolare oltre il bordo di pizzo e schiacciandola poi contro la sua natica. Quel consenso esplicito mi scatenò ancora di più. Afferrai in modo saldo, con entrambe le mani, quel sedere soffice e sodo allo stesso tempo. A quel tocco, con un piccolo balzo mi agganciò le gambe in vita, avvigghiandosi totalmente a me. 
Cercando di mitigare la passione con la dolcezza, la feci sdraiare, reggendomi sulle braccia per non schiacciarla. Mi fermai dal baciarla, tentando di scoprire nel buio il suo bel volto. Sentivo la necessità di fissarla negli occhi per farle capire che con lei ci sarebbe stato molto di più del sesso per me, ma non riuscii a farlo. Appena mi concentrai abbastanza da riuscire a distinguere i contorni della figura, lei mi spinse via, facendomi tornare in ginocchio sul letto. Mi voltò le spalle e, prese le mie mani, se le portò sul ventre. Inarcò la schiena, poggiando il collo sulla mia spalla col volto girato verso il muro. Le baciai la pelle fresca godendo dei suoi mugolii sempre meno silenziosi. Portai le mani ad accarezzarle il viso cercando di farlo voltare verso di me, ma di nuovo me lo impedì. Mi afferrò le mani scostandole dalle sue guance. Ne portò una a far palpare il suo seno. L'altra la fece scivolare di nuovo sul ventre, abbandonandola solo oltre il pizzo. Ancora una richiesta esplicita che mi lasciava stupito. Perplesso oserei dire. Non accettai quell'invito e, allontanando anche la mano dal suo seno, tornai ad accarezzarle il ventre piatto. 

Mentre io mi facevo sempre più dolce, lei continuava in silenzio a diventare sempre più esplicita pur continuando a sfuggire il mio sguardo, arrivando perfino a bendarmi con un fazzoletto appositamente portato con sè. Quando infine mi spinse indietro facendomi sdraiare per provare a togliermi i boxer, le fermai le mani. 
- Ehi piccola. Ma che ti prende? - Le chiesi del tutto perplesso, ma con voce dolce. - Non ti vanno più le coccole? - Le accarezzai il viso cercando di togliermi la benda.
Mi bloccò le mani. 
- Sta zitto. - Parlò piano e la sua voce sembrava quasi del tutto trasformata dal desiderio, tanto era ansimante. 
Si mise a sedere sul mio petto muovendo il bacino in modo tanto volgare che mi sembrava di essere entrato un film porno. Tutta la mia voglia era scomparsa. Non provavo più desiderio, ma solo voglia di fermare tutto. Non volevo averla a quelle condizioni. Non volevo averla solo per soddisfare una pulsione sessuale, per quanto forte potesse essere.

Appena lasciò libere le mie mani, mi tolsi la benda velocemente in modo che non avesse il tempo di bloccarmi. Le afferrai il bacino, bloccandola, mentre gli occhi si abituavano velocemente al buio. 
- Ferma. - Le intimai. 
Non mi ascoltò. Si gettò velocemente all'indietro, facendo aderire la schiena al mio corpo e tenendo le gambe aperte a pochi centimetri dal mio volto. Ormai riuscivo a riconoscere i contorni del suo corpo. Vedevo nettamente tutto ciò che mi voleva mostrare, ma vidi anche qualcosa che credo avesse dimenticato di dovermi tenere nascosta. 
- Che cazzo significa? - In bella mostra all'interno della gamba destra, proprio vicino all'inguine, c'era l'impronta di un cagnolino. 
Mi alzai, facendola cadere dal letto. Non mi interessava che potesse farsi male. Non sapevo se essere più incazzato con lei che aveva cercato di approfittarsi della situazione o con me che, come un coglione, avevo creduto che quella fosse Meg. Ero stato preso nel sonno e c'era buio, ma nulla poteva giustificare il non aver riconosciuto prima che qualcosa non andava. 

Era ancora sul pavimento a massaggiarsi la schiena. La presi per le braccia costringendola ad alzarsi. 
- Che cazzo avevi intenzione di fare piccola puttana? - Le urlai in faccia, dimenticando che a poco più di un metro di distanza, dormivano Andrea e Marco. Fortunatamente non si svegliarono.
Quel sorriso da vipera non era ancora scomparso dal suo viso. Si gettò nuovamente su di me, togliendosi l'insulsa parrucca a riccioli e tastandomi i boxer. - Qualcosa che sembrava piacere anche a te. - 
La spinsi via facendola ricadere sul letto. - Sai benissimo che non era te che volevo. -
Rise e il suono che emise mi ricordò la risata malvagia della strega di Biancaneve, unica cosa che mi piaceva in quel cartone. - Certo che no. - Si alzò, avvicinandosi di nuovo a me, ancheggiando. - Tu volevi la cara, dolce e angelica Meg. Non è così? - Si mise a girarmi intorno con l'indice sinistro poggiato sulla mia pelle. - Cosa ci trovi poi di così eccitante in quella? Vuoi una bambina ingenua, quando qui hai una donna che saprebbe farti godere come poche sanno fare. -
Le presi il polso, girandolo su sè stesso costringendola a seguirne il movimento. Ricordando che era comunque una femmina, anche se poco me ne sarebbe dovuto importare in quel momento, cercai di non farle male. - Ora sparisci di qui e non ti fai più vedere. - 
Rise. - E se qualcuno mi vedesse uscire in mutande dalla tua stanza e lo raccontasse a Meg? -
- Non me ne fotte un cazzo. Voglio solo che tu sparisca. - La trascinai verso la porta, la aprii, la gettai in corridoio e gliela richiusi quasi in faccia. 
- Troia! - Dissi tra i denti, sbattendo i pugni chiusi sul legno bianco. Avevo tanta rabbia in corpo che per un attimo avevo rimpianto di essere cambiato, di non essere più quello che spaccava nasi e rompeva costole con la stessa serenità con cui si mangiano le fette biscottate al mattino. Poi mi ricordai che anche se fossi stato quello di un tempo, non avrei mai toccato una ragazza. Qualsiasi cosa avesse fatto. 

Vidi una piccola luce accendersi dietro il separè dei ragazzi e Marco venirne fuori stropicciandosi gli occhi. Parlò con voce ancora impastata dal sonno. - Cris, che è successo? Ho sentito urla e pugni alla porta. Me lo sono sognato? -
- Sì, devi essertelo sognato Marco. Ho richiuso la porta perché l'ho trovata aperta. Probabilmente Andrea si è dimenticato di richiuderla. - Cercai di parlare nel modo più tranquillo possibile, reprimendo la rabbia nell'angolo più nascosto di me.
- E' possibile. - Disse sbadigliando. - Tanto era ubriaco che mi chiedo come ha fatto a ricordarsi la stanza. - Mi guardò con la faccia poco intelligente di chi ha gli occhi aperti ma sta ancora dormendo. - Che ci fai in mutande? Non stai morendo di freddo? -
- Hai ragione. Devo essermi agitato durante la notte e nel sonno mi sarò tolto i pantaloni. -
- Ok. - Sbadigliò di nuovo. - Vado a pisciare e torno a letto. - Si trascinò in bagno tenendo un occhio chiuso ed uno aperto. 

Sapevo che non avrei chiuso occhio e sdraiarmi il quel letto mi faceva schifo. Continuavo ad accampare scuse e giustificazioni, ma dentro di me sapevo che mi ero solo fatto trasportare dalla voglia di sesso che mi tenevo dentro. Avevo paura di ammettere che se mi fossi accorto che era Daniela mentre già lo stavamo facendo, probabilmente non mi sarei fermato. E per quello mi facevo schifo. 

Mi infilai velocemente i jeans e afferrai il giubbotto. Prima che Marco uscisse dal bagno mi precipitai fuori dalla stanza. In corridoio trovai Daniela, ancora in biancheria intima, ferma dietro la porta della stanza di Diego. Mi rivolse un altro dei suoi sorrisi da vipera. Restai fermo qualche attimo, ancora schifandomi di me stesso più che di lei. La porta alle sue spalle si aprì e uno dei colleghi di Diego la avvolse con le braccia baciandole il collo, senza neanche degnarmi di uno sguardo, come se trovarla in mutande di fronte alla sua porta fosse la cosa più naturale del mondo. Il mio schifo allora si rivolse a senso unico verso di lei, che non era più una ragazza ai miei occhi, ma solo una cagna in calore che cercava senza pudore di alcun tipo qualcuno disposto a scoparsela.

Rimasi a camminare cercando di non assiderare per tutto il resto della notte, rientrando in stanza che erano ormai quasi le sei. Mi sdraiai sotto il piumone, tremando di freddo. Il tepore che subito iniziai a percepire, coinciliò ancor di più il sonno che già desideravo molto. Così mi addormentai quasi istantaneamente. 

La sveglia suonò solo un'ora dopo. Fece l'effetto di un martello pneumatico puntato dritto alle tempie. Non ebbi neppure la forza di staccarla o posticiparla. Mi limitai a premere il piumone contro le orecchie cercando di attutirne il suono. Dopo poco, però, arrivò Andrea a smuovermi, non molto delicatamente. 
- Stacca sta sveglia se non vuoi che la distrugga contro il muro. - 
Mentre lo diceva mi diede due strattoni e mi strappò di dosso il piumone. L'istinto sarebbe stato quello di appenderlo al muro, ma non avevo la forza neanche per quello. Staccai la sveglia e lo guardai allontanarsi dondolante verso il suo letto tenendosi la testa con entrambe le mani. Probabilmente, visto la sbornia che si era preso, temeva di perderla rotolante per la stanza. Mi alzai e andai ad infilarmi in doccia.

Passai mezz'ora lì dentro, godendomi l'acqua calda che mi cadeva addosso, con la testa appoggiata al muro cercando di svegliarmi e convincermi che quell'ora di sonno mi fosse bastata. Uscito dal bagno, trovai Marco pronto a prendere il mio posto, mentre di Andrea non c'era neppure l'ombra in giro per la stanza. Mi affacciai al loro separè e vidi che era ancora arrotolato nelle coperte occupando l'intero letto trasversalmente. Risi tra me, un po' più sveglio di prima, ed andai a vestirmi prima che il freddo tornasse ad entrarmi nelle ossa. Guardando fuori dalla piccola finestrella che avevamo, avevo notato che il tempo era grigio e prometteva pioggia, perciò infilai gli scarponcini pesanti sopra i jeans e una maglietta piuttosto pesante sotto un maglioncino che si richiudeva con la zip. Infilai il giubbotto, presi lo zainetto con tutta la roba necessaria per il seminario, afferrai il cellulare e uscii dalla stanza.

Arrivai nella sala della colazione, molto più affollata e rumorosa del giorno precedente. Gli uomini in giacca e cravatta si erano moltiplicati e molti avevano al fianco anche le mogli che spettegolavano ad alta voce tra un biscotto e una fetta biscottata imburrata. Mi fiondai a bere il primo caffè della giornata, riempendo, al posto della semplice tazzina, metà di un mug in ceramica. Non ci misi zucchero. Avevo bisogno di una sberla di caffeina forte e precisa, dritta in faccia. 
Feci vagare gli occhi nella sala alla ricerca di qualcuno di mia conoscenza, mentre finalmente assaggiavo il primo sorso di caffè caldo. Troppo forte anche per la situazione in cui mi ritrovavo, rischiò di farmi vomitare. Tornai indietro a buttarci dentro due cucchiaini di zucchero, che erano anche pochi per la quantità di bevanda contenuta in quella tazza. Mentre miscelavo il tutto, non avendo incrociato nessun viso conosciuto, mi avviai verso l'unico tavolino vuoto in fondo alla sala. 

Quando avevo ormai terminato di sorseggiare il mio caffè, vidi entrare dalla porta Ludovica accanto a Jay. Aveva legato i lunghi capelli rossi in una treccia e la pelle chiara sembrava quasi emanasse raggi di luce lunare mentre sorrideva al palestrato che l'accompagnava. Mentre buttava qualsiasi cosa commestibile sul vassoio, mi notò e si precipitò verso di me accompagnata da lui.
- Ohi Cris. Buongiorno. - Mi stampò un bacio sulla guancia e si sedette. - Conosci già Jay, no? - 
Lui mi fece un cenno con la testa e prese posto accanto a lei. Ricambiai con un cenno simile, ancora incerto se farmelo piacere o meno. Ludovica afferrò un cornetto e lo addentò con poca grazia, facendomi scappare una piccola risata. 
- Che ridi? - Mi disse masticando a bocca aperta.
L'immagine che mi ero fatta di lei, di una sofisticata ragazza sempre negli schemi, andava giorno per giorno a farsi benedire. Jay rideva insieme a me, cercando però di nascondersi alla sua vista con la mano.
- Si può sapere che avete da ridere? - Chiese, scrutandoci, dopo aver ingoiato il boccone. 
- No, niente. Solo che un camionista affamato è più fine di te a colazione. - Dissi ridendo, facendo l'occhiolino a Jay.
- Ha ragione il tuo amico. - Disse lui, indicandomi e iniziando a sbellicarsi dalle risate senza più nascondersi. 
- Tzè! Sentiteli. Si scandalizzano per una ragazza che fa colazione mangiando di gusto. - Voltò la testa, alzandola un po', con aria di superiorità. 
- Ohi, ohi. La principessina si è offesa. - Disse Jay abbracciandola e baciandole piano il collo. 
Vidi le guance di Ludovica tingersi immediatamente di rosso e le sue labbra aprirsi in un sorriso spontaneo che avrebbe potuto accecare tanto era luminoso. Sorrisi anch'io guardandoli. Sembrava che Jay fosse riuscito in così poco tempo a far emergere la serenità negli occhi di Ludo. Dentro di me non sapevo ancora fidarmi ciecamente di lui e non l'avrei fatto finché non avrebbe dimostrato che non era solo un'avventura da villaggio turistico, ma in quel momento mi sentii più tranquillo anch'io. 

- Ehi, tu! Non me la sciupare! - La voce di Meg arrivò cristallina alle mie orecchie. Alzai gli occhi su di lei e vederla così bella e dolce mi stravolse. Indossava un'enorme felpa blu con stampato il profilo di Mickey Mouse sopra un paio di jeans molto stretti. Teneva i ricci sciolti e questo le dava ancor di più l'aria di una bambina. Ma era una bambina ben cresciuta e dannatamente sexy anche dentro quella felpa. La guardai, incapace di parlare e indeciso sul come comportarmi. La vidi abbracciare Ludo, strappandola quasi dalle braccia di Jay. Poi si venne a sedere accanto a me. 
Mi sorrise e notai che aveva le guance un po' arrossate. Si avvicinò piano portando una mano dietro la mia nuca, mentre io non riuscivo a muovere un solo muscolo. Riuscii solo a chiudere gli occhi mentre lei, con adorabile lentezza, premeva le labbra contro la mia pelle. Un bacio a mezze labbra, angolo contro angolo, quasi fosse un bacio d'amico ma con la mira sbagliata. Dovetti comunque chiudere gli occhi perché la vertigine provata era la stessa della sera precedente. 
- Buongiorno. - Mi sussurrò. 
- Buongiorno. - Le risposi anch'io, ma incapace di alzare la voce.
- Hai fatto colazione? - 
- Ho preso solo il caffè. -
- Allora andiamo a prendere qualcosa, dai. - Si alzò ed iniziò a tirarmi per il giubbotto finché non mi decisi a seguirla. 
Mi costrinse a caricare il vassioio di cornetti, biscotti e ciambelle varie, mentre io avrei solo voluto prendere dell'altro caffè. Me ne riempii comunque una tazza. Tornammo al tavolo mentre ancora lei, continuando comunque a ridere, mi rimproverava perché troppo caffè fa male. Sentirla ridere in quel modo mi aveva fatto dimenticare il sonno perso e mi avrebbe anche fatto dimenticare ciò che era successo quella notte se non fosse arrivato qualcos'altro a ricordarmelo. 

Daniela era seduta al nostro tavolo. Con lei erano arrivati anche Diego e l'altro palestrato, quello che si era scopato dopo che il suo piano con me era fallito. Il sorriso da vipera era ancora in bella mostra sul suo viso da stronza, mentre sorseggiava il suo caffè fissandomi. Io mi bloccai un momento e Meg dovette tirarmi ancora per farmi riprendere. 
- Scompari. Questo è il nostro posto. - Disse a Daniela mentre le smuoveva la sedia, cercando di camuffare la sua serietà con una risatina. 
Daniela, stranamente ma poi non tanto, si alzò senza ribattere ed andò ad accomodarsi sulle gambe del Ken che si era portata dietro. Soddisfatta, perché all'oscuro dei veri motivi della stronza, Meg mi fece accomodare per poi prendere posto sulle mie gambe ed iniziare a far colazione. Io non toccai nulla di ciò che avevamo preso, neppure il caffè. Qualcosa mi diceva che Daniela non aveva finito la sua opera. Doveva avere qualche asso ancora da giocare. Dopo tutto, mi aveva dimostrato che era pronta a tutto pur di "farla pagare" a Meg. Non ci era ancora riuscita del tutto. Nella sua testolina bacata sicuramente c'era qualcos'altro da compiere.

- Ragazze, si è fatto tardi! - Annunciò Ludovica, dopo poco, alzandosi. - Il primo seminario inizia tra mezz'ora. - 
- Voi andate. Noi arriviamo tra poco. - Disse Meg, sorridendo. 
I futuri ingegneri/fotomodelli ci salutarono ed andarono via.
- Ma Andrea e Marco? - Mi chiese Ludovica mentre si rimetteva il giubbotto.
- Non ne ho la più pallida idea. Marco era in doccia quando sono uscito e Andrea ancora dormiva. -
- Credi che siano ancora in stanza? - Mi chiese Daniela, illuminata, quasi aspettasse da tutta la mattina per chiedermelo. 
- Non lo so. - Le risposi freddo.
- Va beh, io provo a citofonare. Così mi riprendo la sciarpina. - 
A quelle parole raggelai. Non domandai nulla perché sapevo a cosa si stava riferendo e sapevo anche a cosa puntava con quella affermazione. Sperai che nessuno facesse domande e che lei non aggiungesse nulla. Ma le mie speranze furono vane. 
- Che sciarpina? - Chiese Meg. 
- Il fazzoletto che metto nei giorni di vento come questo. L'ho dimenticato stanotte nella stanza di Cris. - 
Lo disse continuando ad ostentare il suo sorriso stronzo e fissando Meg. Voleva godersi la sua vittoria e l'ebbe tutta. Meg sbiancò e il suo sorriso si spense. Si voltò a guardarmi. Negli occhi una profonda ferita, la fiducia che si sgretolava. Anche Ludovica mi fissava interdetta. 
- Ne prenderò un'altra. Ciao ragazze. - Daniela, dopo aver raggiunto il suo scopo, andò via, ancheggiante e soddisfatta.

- Che significa che l'ha dimenticata nella tua stanza? - Mi chiese Meg, d'un fiato. La sua voce tremava leggermente. 
- Meg, ti assicuro che non è come sembra. -
- No, sta zitto. - Si alzò. Quasi barcollava, si muoveva freneticamente ma come se avesse dimenticato come si coordinano i movimenti. - Non è successo nulla. Tu... tu sei libero di fare quello che vuoi. E hai fatto bene. - Iniziò ad avviarsi verso l'uscita.
- No, Meg. Aspetta. Posso spiegarti. - La seguii.
- Non c'è niente da spiegare Cris. - Si fermò a fissarmi. Gli occhi già bagnati di lacrime. - Non c'è assolutamente nulla. - Andò via.
Non ebbi la forza per seguirla. O forse me ne mancò solo il coraggio perché il senso di colpa era tornato più acuto di prima. 

Ludovica si avvicinò al mio fianco. Ritta e fredda come una lastra di marmo. - Non so cosa sia successo, né perché Meg abbia reagito così. Ed io, invece, una spiegazione la voglio. E spero che sia plausibile. - Poi si voltò a guardarmi. - Ricordi cosa ti ho detto su Meg? -
- Che vuoi sempre proteggerla. - Mi sentivo sotto accusa. Lo ero. Me lo meritavo, forse.
- Devo pensare di avere fallito fidandomi di te? - Il suo sguardo era fuoco puro.
- No, Ludo. C'è una spiegazione a tutto questo. Te lo giuro. -
- Lo spero. - Anche lei andò via, lasciandomi da solo.

Era l'ultima sera da passare lì ed io ero seduto al bancone dell'American Bar da solo. Come unica compagnia, il barista che ormai mi aveva preso in simpatia e mi faceva pagare solo la metà di quello che bevevo. Era una di quelle sere in cui odiavo saper reggere così bene l'alcool. Avrei voluto una scusa per non ricordarmi nulla, perdermi e ritrovarmi soltanto il mattino dopo.

Andrea e Marco erano spariti poco dopo essere arrivati lì. Li avevo visti di sfuggita parlare di nuovo con le ragazze della stanza accanto alla nostra. Terry aveva di nuovo ceduto al fascino dei libri e non si era voluta muovere dalla stanza. Daniela non volevo neanche sapere dove si era caccaita. In quel momento per me sarebbe pure potuta esplodere in mille pezzetti e non avrei versato neanche mezza lacrima. Ludovica e Meg, invece, le avevo sempre sotto gli occhi. Erano sedute dritto di fronte a me, insieme a Diego e Jay. Non so perché ma ci avrei potuto scommettere che sarebbe andata così. Meg aveva passato l'intera giornata insieme a lui e Ludovica aveva avuto per me solo sguardi dispiaciuti, delusi. Non avevo avuto il modo di parlare a nessuna delle due. E forse non volevo neppure, perché sapevo che la situazione non sarebbe cambiata. La mia parte di colpa ce l'avevo e facevano bene ad odiarmi. Ogni tanto cercavo di risollevarmi, scusandomi e pensando che fosse una reazione esagerata la loro. Dopo tutto non stavamo insieme, non l'avevo tradita. Ma solo pensarlo mi faceva sentire una merda ancora di più. 

In quel momento, mentre mandavo giù l'ennesimo sorso di alcool che sarebbe servito solo a bruciarmi la gola, mi stava fissando. Vedevo chiaramente gli altri tre accanto a lei ridere, ma Meg era come bloccata in un'altra atmosfera. Una vecchia videocassetta che qualcuno aveva costretto a un fermo immagine. Gli occhi puntati su di me erano, però, diversi da quelli a cui mi ero abituato nell'ultimo tempo. Non erano dolci e sereni. Sputavano rabbia, rancore, tristezza. Tutto condito con un pizzico di delusione e paura. Le labbra serrate a voler dimenticare di essersi donate a me, a voler cancellare il mio sapore, a voler eliminare ogni possibilità di ritorno. 
Distolse lo sguardo. Rise guardando Ludovica e rispose ad una battuta di Jay, mentre passava la mano sulla schiena di Diego. Lui la desiderava. Lo capivo da come la fissava in continuazione, cercando in modo quasi spasmodico un contatto con lei. Le prendeva le mani mentre parlava, le accarezzava il ginocchio scoperto mentre la ascoltava, le scostava i capelli dal viso. Lei gli permetteva tutto. Non si tirava indietro a nessuna carezza. Gli aveva aperto la porta. O almeno di questo lo stava convincendo. E lui non si tirava indietro di certo, anzi. Continuava a tentare di accarezzarla sempre più spesso, ad accarezzarla sempre più a lungo, a spingersi verso nuovi campi. 

Ludovica e Jay avevano preso a parlare fitti tra loro, abbracciati sul divanetto, scambiandosi coccole da innamorati provetti. I loro sguardi lanciavano pioggia di dolcezza e passione. Poco distanti da loro, invece, di dolcezza sembrava esserci rimasto poco. Meg e Diego parlavano, ma si capiva da molte miglia lontano cosa stessero facendo. Sembrava di vedere il pavone esibirsi nella sua ruota e la pavonessa ammicante andarglisi a strusciare contro. Era come se lo spirito di Daniela si fosse improvvisamente impossessato di Meg. E il mio senso di colpa andò a farsi friggere. 
Scolai l'ultima birra e salutai il barista che mi ricambiò con un enorme sorriso, felice probabilmente dell'incasso che aveva ricavato da quella mia serata in solitaria. Decisi di tornare in camera. Non potevo più restare lì a guardare Meg fare la troietta con quello. Che lo facesse sul serio o che stesse solo facendo finta di essere disponibile per poi rifilargli un altro due di picchie non mi interessava. Non potevo sopportarlo comunque. Arrivato sulla porta d'ingresso mi ricordai che le chiavi le aveva tenute Marco. Preso dalla mia incazzatura gliene mandai quattro. Perché avevano dovuto dare a me la responsabilità della stanza quando poi loro si portavano a spasso la chiave? Imprecando mentalmente mi appoggiai alla porta, scoprendo che era stata lasciata aperta. Entrai nella casetta pensando che almeno avrei atteso il loro rientro al riparo dal temporale che sembrava prossimo visti i tuoni che si sentivano. Loro sarebbero comunque rientrati da lì, sia che avessero di nuovo scelto camera nostra, sia che avessero optato per quella delle ragazze. Sperai solo che non fossero già dentro. 

Solo allora mi venne in mente Terry. Era sicuramente in camera, molto probabilmente a rivedere gli appunti, o forse a dormire. Decisi di farle compagnia e mi avviai verso la sua stanza, sperando di non disturbarla. Anche a me sarebbe servito parlare con qualcuno in una serata come quella. Passando davanti alla porta della nostra stanza, però, mi accorsi che non era chiusa. Una lieve fessura dimostrava che chi era entrato o uscito di lì come ultimo, lo aveva fatto con molta fretta, troppa per accertarsi che la porta fosse realmente incastrata o per dare un giro di chiave. Vidi che dalla fessura passava un raggio di luce. Probabilmente la fretta aveva anche fatto dimenticare di spegnere qualcosa. Leggermente, o un po' di più, irritato dal fatto, entrai. Immediatamente mi pietrificai.

- Oh cazzo! - Non potei fare a meno di esclamarlo a voce alta. Mi coprii gli occhi voltandomi, imbarazzato come poche volte ero stato in vita mia. - Scusate, scusate! Credevo aveste dimenticato la porta aperta e la luce accesa. - 
Sentivo alle mie spalle rumore di vestiti che frusciavano. Andrea e Marco si stavano rivestendo alla meno peggio. 
- Hai lasciato la porta aperta? - Chiese sottovoce Marco ad Andrea. 
- Ero di fretta! - Rispose questo altrettanto piano.
- Oh, ma non preoccupatevi. Mi dispiace di avervi interrotto. - Dissi, afferrando la maniglia della porta. - Levo il disturbo. -
- No, no. Fermo. - Marco si precipitò a fermarmi. 
Mi voltai e vidi che aveva ancora i jeans slacciati. - Tranquillo, vado a fare una passeggiata. Voi continuate pure. -
- Continuare? Con questo qui? - Disse Andrea, visibilmente scocciato. - Tranquilli, vado via io. - Finì di stringere la cintura e afferrò la felpa da terra.
- Dove stai andando? - Gli chiese Marco.
- A concludere qualcosa, una cazzo di volta. - Disse irritato infilandosi la felpa e prendendo il giubbotto. 
- Ah certo. Vai, vai pure. - Marco mi scostò dalla porta, afferrandomi pesantemente per il braccio. 

Lo lasciai fare totalmente confuso da quello che stava succedendo. Vidi Andrea andare via sbattendo la porta. Poi Marco mi lasciò e andò ad infilarsi dietro il loro separè. Restai ancora per un po' immobile a fissare il vuoto, cercando di fare un breve riassunto nella mia mente di ciò che era capitato. Era la prima volta che mi capitava una cosa simile e trovare Andrea e Marco a fare sesso appoggiati al muro mi aveva lasciato alquanto interdetto. Quando sentii i singhiozzi che provenivano da Marco, decisi di andare da lui.
Restai fermo sulla soglia del separè a guardarlo piangere. Teneva il viso tra le mani, poggiando i gomiti sulle ginocchia. Non si era accorto di essere guardato e, probabilmente, credeva di non essere sentito. Aveva i soli jeans addosso. Vederlo piangere a quel modo, con il suo fisico abbastanza minuto, per un attimo mi riportò alla mente Bepi nei primi tempi dopo il brutto attacco che l'aveva ridotto sull'orlo dell'incapacità. La tenerezza che avevo già provato per lui si fece di nuovo avanti. Dopo tutto, era o no il fratello minore che non avevo avuto?

- E così... - Esordii dopo essermi schiarito la voce. - Era questo che cercavi di dirmi l'altra sera. -
Nel sentirmi ebbe quasi un sussulto. Annuì e si asciugò il viso con i palmi. Intrecciò le mani e mi guardò. 
- Ed io non ho capito un cazzo, giusto? -
- Beh, direi di no. - Disse lui, lasciandosi sfuggire una piccola risata che gli increspò il viso arrossato. 
- Sono un coglione. Scusa. -
- Tranquillo. Sono io che non ti ho parlato chiaramente. -
- Da quando state insieme? - Gli sorrisi, avvicinandomi e prendendo posto accanto a lui sul letto.
- Io e Andrea? O vuoi sapere da quando ho scoperto di essere gay? -
- Quello che vuoi dirmi tu. -
- Ho avuto la certezza da qualche anno, pur avendolo sempre sospettato. Non ero uno di quei bambini che si mettono i vestiti della mamma o provano a truccarsi. Non mi sono mai sentito femmina e non mi ci sento nemmeno adesso. Solo che durante gli allenamenti della scuola calcio, negli spogliatoi mi ritrovavo a rimanere seduto da solo a guardare gli altri imbarazzato. Volevo sempre fare la doccia per ultimo, quando tutti erano andati via per paura che qualcuno si accorgesse che mi eccitavo. Non sapevo se fosse normale. Credevo che potesse essere una questione legata ad altri fattori. Ma quando poi ebbi la mia prima fidanzata mi accorsi che l'eccitazione che provavo con la mia ragazza era minore di quella provata nello spogliatoio del calcetto. - 
- E Andrea? Da quando va avanti? -
- Da mai. -
- Cosa? -
- Già. Non stiamo insieme. -
- Ah, quindi è solo una cosa da villaggio? - Sorrisi. 
- Non proprio. -
Restai a guardarlo in silenzio, cercando di capire se volesse continuare a parlare. 
- Lui non è proprio gay. Dice di essere bisessuale. Io credo che in realtà sia solo un porco malato di sesso. Pur di farlo si accontenterebbe anche dei buchi nei muri. Solo che io ho fatto l'enorme sbaglio di innamorarmi di lui. -
- E' lui quello a cui ti riferivi? - Dissi stupito.
- Sì. Non chiedermi perché. Non te lo so spiegare neppure io. Se ci penso a mente fredda credo che sia un porco bastardo, che adesso probabilmente è a rimorchiare qualcuno pur di rimediare un orgasmo. Ma l'anno scorso ci siamo ritrovati da soli una sera. Abbiamo parlato di moltissime cose e mi ha stregato. Alla fine ho provato a baciarlo. Non l'avevo mai fatto. Lui ricambiò il mio bacio, ma dal giorno seguente... puff, come se non fosse successo nulla. Ho continuato ad innamorarmi in silenzio, di nascosto, senza dare a vedere nulla. Fino a giovedì notte, quando l'abbiamo fatto. -
- Vi ho interrotto, vero? -
Annuì ancora. - Era la mia prima volta. Con un ragazzo, intendo. -
- E come è stato? - Sorrisi vedendolo così imbarazzato e cercando di metterlo a suo agio.
Lo vidi illuminarsi. - Stupendo Cris. E' stato stupendo. Mi sentivo in cielo e all'inferno contemporaneamente. Fisico e mente erano arrivati a cime che non credevo raggiungibili. - Di colpo si bloccò e la luce sparì. - Poi, però, è finito tutto. -
- Mi dispiace di avervi interrotto. Se avessi saputo... -
- Non è stata colpa tua. - Mi interruppe. - Sarebbe successo comunque, lo so. Per lui non ero altro che la scopata sicura della prima notte nel villaggio. E oggi era lo stesso. - La sua voce iniziò a spezzarsi. - Non mi ama, non mi amerà mai. Ama solo scopare. Non ama altro. - Stava per scoppiare nuovamente a piangere. 
- Vuol dire che non ti merita. Sei un ragazzo dolcissimo e in gamba. Troverai qualcuno che ti apprezza. Tutti lo troviamo prima o poi. - Frase banale, probabilmente senza senso per un innamorato a senso unico. Ma ero sincero.
Mi guardò sorridendo. - Già. Lo spero. Ora se vuoi scusarmi, preferisco restare un attimo da solo. -
- Oh, certo! Come vuoi. Io prima stavo giusto andando da Terry che è rimasta sola tutta la sera. Se hai voglia di compagnia mi trovi lì. - Mi alzai e lui si sdraiò sul letto. 
- Cris. - 
Mi voltai a guardarlo di nuovo.
- Grazie. - Mi sorrise, ma con gli occhi già pieni di nuove lacrime.

Bussai alla porta di Terry. Non sentii nessuna risposta. Riprovai a bussare, ma ancora una volta mi rispose il silenzio. Pensai che stesse già dormendo ed ero pronto a tornare in camera, quando la porta si aprì d'improvviso. Terry era in pigiama, coi capelli arruffati e la faccia spiegazzata. 
- Cris, hai bussato tu? - Mi disse con la voce un po' insonnolita.
- Sì, sono stato io. Ti ho svegliato? Volevo farti un po' di compagnia. -
Sbadigliò coprendosi la bocca con la mano, mentre con l'altra si grattava leggermente dietro l'orecchio. - Mi ero addormentata sulla scrivania. - Mi disse aprendo di più la porta e facendomi cenno di entrare. 
- Stavi studiando? - Varcai la soglia e lei richiuse la porta.
- Ci ho provato. - Si diresse verso uno dei letti e vi si sedette sopra incrociando le gambe. - Come mai non sei con gli altri? -
- Te l'ho detto. Volevo farti compagnia. -
Mi guardò malamente, con lo sguardo ancora un po' assonnato. - E dovrei crederti? -
- Perché non dovresti? -
- Forse perché stare con gli altri al bar è leggermente più divertente di passare la serata a studiare con una secchiona come me? -
Risi. - Non ho detto che sono venuto a studiare. Ho detto che volevo farti compagnia. Mi dava fastidio l'idea che dovessi stare rintanata in camera da sola. -
Mi guardò ancora per un attimo con un'espressione stranita, poi si sciolse in un sorriso. Mi avvicinai alla sua scrivania e afferrai gli appunti, per poi andarmi a sedere di fronte a lei sul letto. Li sfogliai. Come sempre erano estremamente accurati. - Fortunato chi capiterà in coppia con te per la relazione! - 
- Già. - Disse con un tono un po' troppo amaro. - Credo che molti spereranno di esserlo. E molti altri magicamente si riscopriranno miei grandi amici. - Mi tolse di mano gli appunti, ma lo fece delicatamente, non con rabbia. Sospirò un attimo. - Certe volte vorrei saper essere meno preoccupata di queste cose. -
- Di cosa? -
- Questi. - Mi mostrò gli appunti e poi li gettò sul letto. I fogli si sparpagliarono sul piumone e qualcuno cadde in terra. - Non riesco a prendere niente con leggerezza. Non mi stupisco che mi cerchino solo per farsi aiutare. -
- Non è vero Terry! - 
- Sì che è vero. -
- Ti dico di no. Ti vogliamo bene davvero. -
- Non tutti. -
- Forse è vero. Qualcuno che cerca di approfittarsene ci sarà. Ma non sono tutti. Meg e Ludovica stravedono per te. Anche Marco. -
Abbassò gli occhi. - E tu? - Sussurrò quasi.
- Io? Certo che ti voglio bene. - Poggiai la mano sulla sua spalla.
Alzò di nuovo gli occhi a guardarmi. Erano del colore dell'ambra e leggermente allungati, dal taglio un po' orientale. Le guance paffute erano arrossate e su di una si potevano ancora vedere le pieghe causate dal quaderno su cui aveva dormito. Il sorriso le rendeva ancora più tonde facendo venir voglia di spremerle. 
- Che hai da fare Martedì dopo la lezione? - Le chiesi.
- Io? Nulla. - Mi chiese, di nuovo stupita.
- Che ne dici di andare ad informarci al centro sportivo? -
- Per cosa? -
- Te lo sei dimenticato? - Le sorrisi. - La prima sera che siamo usciti insieme. Ti ho promesso che ci saremmo informati per iscriverci a qualche corso. Poi ho avuto un po' di pensieri e non ho potuto dirtelo. Ma martedì credo che ci potremmo andare. -
La vidi illuminarsi. - Certo. Non ho niente da fare. Dico alle ragazze che non corro con loro e ci andiamo. - Sorrideva come una bimba davanti a un regalo inaspettato. 

Parlammo per ore senza essere mai interrotti ed erano quasi le quattro del mattino quando Ludovica arrivò in camera. Lo sguardo sognante, i vestiti zuppi di pioggia e le gambe un po' traballanti, quasi non si accorse di me. Quando lo fece, dopo essere uscita dalla doccia indossando il pigiama, la sua espressione cambiò e mi fissò arrabbiata. Dal modo in cui mi si avvicinò capii che doveva aver bevuto troppo.

- Che ci fai qua? - 
- Ho fatto compagnia a Terry che era da sola. -
- Ah! Abbiamo a che fare con un'anima pia. - Disse, alzando la voce e camminando per la stanza. Poi si fermò e corse verso di me. Poggiò le mani sulle mie gambe e mi fissò minacciosa. - Vuoi fare compagnia a un po' troppe persone tu. -
- Stai parlando senza sapare. - Le risposi, serio.
- Ehi, ma che succede? Non sto capendo niente! - Si intromise Terry, confusa. 
- Lo sappiamo noi due che succede. - Affermò Ludovica, continuando a fissarmi torvo. 
Sostenni il suo sguardo in silenzio. A quell'attacco così diretto che non voleva darmi la possibilità di difesa, il mio senso di colpa scomparve. 

- Non dici nulla, caro benefattore. -
- Se vuoi parlo. Ma se parlo devi essere disposta ad aprire bene le orecchie e ad ascoltarmi senza aver già tratto le conclusioni. -
Si allontanò sedendosi sul suo letto. Accavallò le gambe e vi pose sopra le mani. - Siamo tutti ansiosi di ascoltare la storia del cavaliere senza macchia. - Disse in tono di scherno.

Raccontai ciò che era successo la sera prima. Lo feci nonostante mi imbarazzasse confessare così apertamente quello che avevo tanto tentato di nascondere. Dissi del bacio con Meg, di Daniela che si era infilata in camera mia, di me che credendo e sperando si trattsse Meg volevo fare l'amore con lei, di come avevo iniziato a dubitarne e poi avevo scoperto di essere stato ingannato. Conoscendo Daniela, nessuna delle due ebbe alcuna difficoltà a credermi. Sapevano sia quanto fosse cocciuta quando si metteva in testa di avere qualcuno, sia quanto volesse rubare tutto ciò che Meg aveva. Nessuna delle due sembrò, inoltre, stupita dal fatto che mi piacesse Meg. Forse, però, non avevano capito fino in fondo quanto io in realtà l'amassi già. 

- E adesso cosa hai intenzione di fare? - Chiese Terry. Mi aveva guardato per tuto il tempo con lo sguardo di chi sta leggendo un bel libro d'amore ed è curioso di sapere come il protagonista riuscirà a far innamorare di sè la dama ambita. 
- Oltre ad uccidere atrocemente Daniela, intendi? - Per me rispose Ludo. Lei più di chiunque altro sapeva come la mente di Daniela potesse architettare piani anche più contorti di quello. Non mi chiese mai scusa per aver dubitato della mia lealtà e amicizia, ma il suo sguardo bastò a farlo.
- Già, credo che Meg ci tenga a te. Altrimenti non avrebbe reagito così. -
- Nessuno può saperlo. - Dissi, ma istintivamente guardai Ludo dritto negli occhi. Anche Terry si voltò a guardarla. Se qualcuno poteva saperlo, quella persona era Ludovica. 
- Perché mi guardi in quel modo? - Chiese, sentendosi troppo osservata. 
- Magari puoi dirmi qualcosa che io no so. -
- Oh, non iniziamo! Io non so niente. -
- Sai che non possiamo crederti. - La incalzò Terry.
- Non abbiamo mai parlato di te. - 
Capii che probabilmente stava mentendo, ma non potevo insistere. Non potevo pretendere che mi raccontasse le confidenze della sua migliore amica, così come io non avevo confessato da quanto ero innamorato di lei. - Beh, stasera sembrava essersi consolata in fretta con Diego. Quindi non credo che sia molto interessata a me. Magari mi vuole bene come amico e ieri sera è stata solo una cosa momentanea. Sapete, no? Quelle cose che capitano perché ci si lascia prendere da quelle atmosfere da telefilm americano. - Dissi cercando di minimizzare la faccenda. 

Ci fu un attimo di silenzio nella stanza. Poi Ludovica scattò in piedi visibilmente allarmata. - Oddio! - Iniziò a urlare per la stanza.
- Che succede? - Chiedemmo all'unisono io e Terry, guardandola interdetti.
- Meg. Meg. Oddio. Oddio. - Continuava a ripetere. 
Mi alzai e la bloccai afferrandola per le spalle. - Meg, cosa? -
- Che ora è? Che ora è? - Sembrava non ascoltarmi. 
- Sono le cinque meno un quarto. - Rispose Terry dopo aver visto l'ora sul display del cellulare.
- Oddio, Meg! Meg! - Iniziò a piangere e continuava ad agitarsi nonostante cercarsi di tenerla ferma. 
- Ludovica stai ferma. - La scossi forte. - Dimmi perché stai facendo così. Cosa è successo? -
Si fermò chiudendo gli occhi. Respirò profondamente. Poi iniziò a parlare piano, anche se ancora un po' piagnucolante. - Meg è andata via dal locale alle tre insieme a Diego. -
La lasciai andare e mi risedetti sul letto. - E allora? Cosa c'è da essere così allarmati? - Cercai di sembrare calmo mentre dentro di me qualcosa si era rotto. Era andata via con lui. Forse l'aveva portato sulla spiaggia come aveva fatto con me ed erano romanticamente a fare l'amore sulla sabbia sotto la pioggia. Oppure erano andati nella sua camera e stavano selvaggiamente dando sfogo ai loro ormoni. Non potevo sopportarlo. Solo il pensiero che lui potesse toccarla, che in quel preciso momento ci fosse la possibilità che lui stesse baciando le sue labbra, mi tramortiva. Era una lama affilata che tagliava via il mio cuore a fettine sottili mentre un frullatore riduceva tutto il resto in poltiglia per darlo come cena ai cani randagi.
- C'è da essere allarmati! - La voce preoccupata di Ludovica mi riportò in quella stanza. - Diego è tornato dentro dopo neanche dieci minuti. Era incazzato per essere andato di nuovo in bianco. Ha detto che Meg si sentiva stanca e voleva andare a dormire. - 
- Cosa? - Mi alzai dal letto, allarmato a mia volta. 
- Ha detto così. -
- Non ha detto di averla accompagnata in camera? -
- No. Solo che lei voleva andarci. -
- Qui non si è visto nessuno. Nessuno ha citofonato e l'unico a bussare è stato Cris. - Disse Terry, quasi giustificandosi di non poter far altro per risolvere la situazione. 
- Se non è qui e non è con Diego, significa che è ancora in giro da sola. - Affermai iniziando a ragionare su dove si potesse trovare. 
- Non sarebbe un gran problema se non fosse che fuori hanno deciso di innaugurare la seconda parte del diluvio universale! -
Ci fissamo tutti e tre. In silenzio e pieni di preoccupazione. 
- Vado io. - Mi mossi verso la porta.
- Dove vai? - Mi seguì Ludo. 
- A cercarla, ovvio. -
- Ma non mi hai sentito? Lì fuori sta crollando il cielo! -
- Appunto per questo devo trovarla. -
- Vengo con te allora. - Disse Ludovica voltandosi per iniziare a togliersi il pigiama. - Mi vesto in un attimo. - 
- Non se ne parla Ludo. Vado da solo. - Non le diedi il tempo di ribattere. Uscii, sbattendomi alle spalle la porta e corsi fuori. 

La pioggia era ormai divenuta torrenziale, tanto che facevo anche fatica a tener gli occhi aperti. In pochi attimi fui completamente zuppo, ma non me ne importava. Per le stradine del villaggio, ormai totalmente infangate, non si vedeva anima viva. Magari aveva fatto una passeggiata sovrappensiero e, colta dalla pioggia, si era infilata nel primo caseggiato che aveva trovato. Vagai per qualsisi costruzione che potesse dare un riparo. Tremavo per il freddo, ma quasi non lo sentivo perché dentro di me ardeva un forte fuoco. Dovevo trovarla. "Meg, dove cazzo sei finita?" pensavo. Poi una piccola lampadina si accese. - So dov'è! -

Non sbagliai. Dopo tutto, dove poteva trovarsi se non sulla spiaggia? Era tutto esattamente come avevo sospettato. Meg era appallottolata sulla sabbia fangosa. Si stringeva le gambe e fissava il mare tempestoso. L'acqua le scrosciava addosso ma lei sembrava non accorgersene. Si riparava sotto il cappuccio del giubbotto nero, ma ormai era anch'esso totalmente fradicio. I lampi squarciavano il cielo illuminando la sua figura. Ero impietrito. L'unico movimento che mi si permetteva era quello di tremare per il freddo. E non solo per il freddo. 

Mi avvicinai a lei con passi delicati. Avevo allo stesso tempo paura che mi sentisse e voglia che si accorgesse di me. Credo che abbia percepito la mia presenza perché quando mi accostai a lei non trasalì. Continuò a fissare il mare. 
- Meg che ci fai qui? Sta diluviando! - Banale e scontato, ma era l'unica cosa che ebbi il coraggio di dirle. 
Si voltò a fissarmi. Contrariamente a quanto immaginavo, non stava piangendo. Anzi, in lei si vedeva quasi una luce di serenità. Avrei azzardato a dire che si sentisse felice, ma sembrava quasi che fosse così. Se non fosse per lo sguardo assente. - Rientra allora, non bagnarti. -
Sorrise, ma quel sorriso non era per me. Sembrava uno di quei sorrisi generici, destati dall'interiorità della persona più che da qualcosa che la circondi. Un sorriso zen.
- Anche tu ti stai bagnando! C'è da prendersi una broncopolmonite qui fuori. - Dovetti urlare perché il rimbombare dei tuoni si faceva sempre più forte.
- Non ho paura di quattro gocce d'acqua. - Continuò a parlare piano, con calma. Non sembrava lei. Non era lei. Era la versione lobotomizzata di Meg. Per un attimo mi ricordò la sera in cui Jeff venne a portarla via dal locale. Poi sembrò rinvenire. 

Mi guardò finalmente con aria del tutto presente, perfino un po' incazzata. - Come mai non sei con Daniela? - Il suo tono era volutamente dispregiativo.
- Mi hai visto con lei stasera? - Risposi in tono dolce.
- Questo vuol dire che non vai due sere di seguito con la stessa ragazza? - Acida, appositamente. 
Per un attimo non seppi come argomentare la mia difesa. Non sapevo cosa dirle nè come dirlo. Poi decisi di lasciar perdere le descrizioni di quello che Daniela aveva o non aveva fatto. Avrebbe significato dovermi esporre troppo e non ne avevo il coraggio. Sì, avevo paura. Di cosa non saprei dire. Forse di essere preso per uno sciocco, forse di esser preso poco sul serio, forse di perderla, forse di amarla e poi ferirla. 
Decisi di ridere. - Ma davvero credi che mi sporcherei con quella zoccoletta? - Non sapevo come altro descrivere Daniela non cadendo eccessivamente nel volgare. Ma lei lo era troppo per descriverla con una parola candida e pura. 
- Vorresti dire che ieri sera non era nella tua stanza? - Il suo sguardo divenne una sfida. 
- Nella mia stanza c'è entrata. - Mi fissò con l'aria soddisfatta di chi ha appena vinto una scommessa. - Solo che io l'ho buttata fuori. - 
- E dovrei crederti? - Non era del tutto convinta. 
- Che tu mi creda o no la verità non cambia. Ma se vuoi una conferma, chiedi al compagno di Diego. Quando l'ho buttata fuori è andata da lui. - Risposi sereno, anche se dovetti alzare la voce per non essere coperto dal tuono. - Ora, però, perché non ne parliamo dentro che qui ci ammaliamo tutti e due? - 

Tenevo gli occhi stretti perché la pioggia scrosciante mi dava molto fastidio, però riuscivo comunque a vederla nitidamente. Guardò il mare e poi si fissò le dita. Sobbalzò in una piccola risata, poi mi guardò sorridente. Sorrideva davvero, però. Sorrideva a me. - Perché sei qui Cris? - Mi disse ancora sorridendo.
- Per convincerti a tornare dentro. -
- Ma io non voglio rientrare. -
- Puoi guardare il mare un'altra volta, non credi? - La supplicai. 
Rise ancora. - Non è il mare che mi tiene qui adesso. - 

Fissò i suoi occhi nocciola nei miei e una luce che avevo già visto si riaccese. Quella luce che le si era accesa negli occhi solo la sera prima, mentre soli nella sua stanza ancora non sapevamo come sarebbe stato baciarsi. Mi si seccò la gola e dimenticai la pioggia. C'erano solo quegli immensi laghi scuri che si avvicinavano sempre di più. Scomparvero dietro le sue palpebre. Guardai un attimo il suo viso, bagnato dalla pioggia e protratto verso di me. Avrei voluto respirare il suo odore mescolato a quello della sabbia bagnata, ma persi il respiro. Meg me ne donò uno nuovo, incollando le labbra alle mie. 
Mi persi nel suo bacio, nel nostro bacio. Il mare in tempesta ci faceva da cornice e l'acqua che non accennava a fermarsi ci faceva da coperta. Le nostre bocche si tenevano incatenate a vicenda, si desideravano, si rincorrevano. La strinsi tra le braccia e cademmo tra la sabbia. Ci infangammo rotolandoci dentro, ma nulla importava perché le meravigliose sensazioni che il suo corpo, anche se coperto da mille strati, mi regalava erano qualcosa che nessuno avrebbe potuto spiegare. L'intensità di quelle emozioni mi travolgeva, mi stordiva, mi faceva morire e mi riportava in vita. Non ero in me. No, non c'ero più. Cris non esisteva più. Eravamo noi. Un solo ritmo, un solo respiro, un solo battito. Un solo corpo. Sì, un solo corpo. Perché prima che me ne rendessi conto eravamo entrambi nudi sotto la pioggia, a far l'amore sporchi di sabbia. Lì, sulla spiaggia. All'aperto, senza neppure tentare di nasconderci. Col rischio che qualche sventurato passasse e ci incontrasse. Lì, sotto la pioggia e col mare in tempesta. La febbre non faceva più paura, perché l'avevamo già presa. Ma era quella del cuore, quella che non si può curare, quella a cui devi lasciar fare il suo corso. 
L'avevo. Meg era mia nel senso più completo del termine. Ed io ero suo, ero parte di lei. Mi muovevo dentro di lei guidato dai suoi sospiri. Non la dominavo, non ero dominato. Guardavo il suo viso e non riuscivo a capacitarmi. Era reale? Stava succedendo davvero? Il tocco della sua pelle, che era fredda e morbida. I suoi occhi brillanti, che spesso si chiudevano. Le sue mani delicate, che mi stringevano forte. Le sue labbra carnose, che ricercavano continuamente la mia bocca. Il suo respiro affannato, che riempiva l'aria. La sua voce dolce, che sussurrava il mio nome, che chiedeva di non smettere mai, che mi implorava di non lasciarla andare. Era tutto vero.
La mia mente era troppo fragile per contenere tutto quel paradiso. Non avevo mai provato nulla di simile prima. Sentirmi totalmente svuotato e contemporaneamente non essere stato mai così colmo. Desiderare solo di farla stare bene, impazzire ad ogni sillaba che pronunciava, aver voglia di stringerla forte e di vivere il resto dei miei giorni incollato a quel viso, con le mani perse tra quei riccioli fradici. 

Amore. Del più puro che possa esistere. Di quello che ti fa dimenticare tutto il resto. Di quello che non lo dimentichi più. Di quello che ti riempie la vita anche se lo sfiori solo per un attimo. Di quello senza il quale non ha più senso vivere. Di quello che hai paura di portare a termine. Tutto, però, ha una fine in questa vita. E anche quell'unione così perfetta giunse al termine. Un termine che speravo che non arrivasse mai, ma che fu una stupenda esplosione di gioia. Come se tutto il mondo per un secondo diventasse tinto di arcobaleno. Solo allora capii fino in fondo perché qualcuno sostenesse che fare l'amore era diverso dal fare sesso. Il sesso non può portarti così in alto. Si ferma alla cintura, non sale più su. L'amore invece prende ogni singola cellula di te e la getta dentro il turbine di un ciclone. 
Mi accasciai sfinito sul suo petto che si muoveva ancora velocemente. Ascoltai il battito del suo cuore attraverso la delicata pelle del suo seno. Batteva all'impazzata, quasi quanto il mio. Chiusi gli occhi cullato da quel dolce suono. Meg mi mosse. Stirò il braccio per afferrare i nostri giubbotti e li portò a coprirmi le spalle. Mi sollevai per guardarla di nuovo negli occhi. Dolci, profondi e appagati occhi nocciola. Miei, finalmente. 

- Sai che siamo due pazzi, vero? - Le dissi, mentre la voce mi tremava. 
- Shhh! - Sorrise e mi poggiò un dito sulle labbra. 
Glielo baciai e la vidi chiudere gli occhi. Dischiuse leggermente le labbra inclinando la testa all'indietro come se stesse ancora vivendo quelle emozioni tanto forti. Era bella. Terribilmente bella. Ed io ero stato uno stupido ad amarla in quel modo, senza alcuna protezione e sotto una pioggia scrosciante. Ed ero ancora più stupido nel volerla riavere. Mi sforzai di riattivare il buon senso e mi alzai, coprendola col giubbotto. 
- Dobbiamo ritornare e farci una bella doccia calda. Domani una bella polmonite non ce la leva nessuno. - Mi accinsi a raccogliere i vestiti cercando, inutilmente, di ripulirli dalla fanghiglia di cui erano ricoperti. 
Sentii un flebile tocco sulla spalla. Riconobbi la sua mano. Mi voltai. Il suo corpo si offriva ancora totalmente scoperto alla mia vista ed io per la prima volta mi soffermai a guardarla in quel modo. Le spalle piccole ma ben formate. Il seno sodo, prosperoso ma non esagerato. Il ventre piatto ma morbido su cui solo una sottile linea bianca lasciava ricordare il brutto taglio. Le gambe lunghe e slanciate. Tutta quella perfezione continuava a lasciarmi senza fiato. 
- Se il prezzo da pagare per questo è la polmonite io l'accetto volentieri. - La sua voce sensuale risuonava alle mie orecchie come un dolce incantesimo, solleticando le parti più interne dei miei desideri e spingendomi ancor di più ad afferrarla e farla di nuovo mia. 

Respirai profondamente e le porsi i suoi vestiti. Lei ridacchiò. Aveva notato che la desideravo ancora e la cosa le faceva piacere. Non mi avrebbe rifiutato, ne ero certo. Ma il pizzico di ragione che ero riuscito a ritrovare mi tratteneva. Ci rivestimmo in silenzio e, finalmente, accettò di rientrare in casa. La pioggia stava diminuendo anche se il cielo continuava ad essere completamente coperto. Corremmo verso la casetta, come se questo potesse evitare di farci bagnare fradici com'eravamo. Erano le sette e mezza quando vi entrammo. Ludovica e Terry passeggiavano preoccupatissime per la stanza. 
- Che cazzo di fine avevi fatto? - Urlò Ludovica correndo ad abbracciarla con le lacrime agli occhi come una madre che accoglie il figlio appena tornato dalla guerra. Le tastò le braccia e la scrutò da capo a piedi, mentre Meg non smetteva di ridere. - Forza, fila in doccia e poi asciugati bene. - La spinse verso il bagno.

Io ero rimasto fino a quel momento del tutto ignorato, fermo sulla soglia appena oltre la porta chiusa. 
- Dov'era? - Mi chiese Terry, mentre Ludovica rimaneva sulla soglia del bagno tendendo l'orecchio per assicurarsi che Meg filasse subito in doccia. 
- Era sulla spiaggia. - 
- E ci sei stato più di due ore per trovarla? - Mi chiese quasi sottovoce. Sembrava che non volesse farsi sentire da Ludo.
- No, l'ho trovata quasi subito. Solo che non ne voleva sapere di rientrare. - Sbadigliai. La stanchezza iniziava a farsi sentire. 
Terry mi scrutò, con un'aria maliziosa e divertita. - E la sabbia qui come c'è arrivata? - Disse mentre spolverava via un po' di sabbia dai miei capelli.
Sorrisi come un bambino colto con le mani nel vasetto della marmellata.
- Non è che avete... - Lasciò la frase incompleta ed io mi limitai ad alzare le spalle. Non riuscivo a negarlo, anche se sapevo che sarebbe stato scorretto farne troppa pubblicità. Terry capì. Si illuminò e rise, ma sempre senza farsi sentire. - Siete pazzi. -

- Che state bisbigliando voi due? - Ludo si avvicinò e Terry capì che avremmo dovuto parlarne in un altro momento. Lei sarebbe stata sicuramente informata da qualcun altro.

Era passata poco più di un'ora da quando eravamo rientrati. Non avevo dormito per nulla, ma non ne sentivo la necessità. Stavo bene, più che bene. Tutto intorno a me sembrava più calmo, più sereno, più luminoso. La sala della colazione non mi era mai apparsa un luogo così bello. Ero in piedi davanti alla porta, con le mani in tasca, a dondolarmi sui piedi aspettando di vederla arrivare. Mi ero regalato una breve doccia calda, ma poi il mio unico pensiero era stato rivederla. 
Quando vidi arrivare Terry il mio cuore fremette un attimo, convinto che alle sue spalle avrei visto sbucare Meg. Ma non fu così. Era sola e mi si avvicinava sorridente nonostante le visibili occhiaie che non aveva neppure tentato di coprire col trucco. 
- Eh allora, rubacuori! - Mi disse dandomi una bella pacca sulle spalle. Istintivamente mi voltai ad osservare la stanza per assicurarmi che non ci fosse nessuno di nostra conoscenza. Non volevo che si spargesse la voce. Era una cosa troppo bella ed intima per farla sporcare sulla bocca della gente. - Ora mi devi raccontare tutto. -

Ci sedemmo ad un tavolo parzialmente nascosto che si trovava dietro uno dei pilastri laterali. Davanti a noi c'erano due enormi tazze di caffè. Terry accompagnava il suo con un'ottima brioche appena sfornata. Io accompagnavo il mio con una buona dose di chiacchiere. Le raccontai quello che era successo, evitando i particolari, ma aprendole la porta delle mie sensazioni più profonde come non avevo mai fatto prima. Non era da me parlare così apertamente dei miei sentimenti, ma quello che provavo per Meg e che aveva significato per me quella notte era talmente grande e forte da non poter stare rinchiuso. Terry mi confessò di aver sempre sospettato che provassi qualcosa per lei, ma di non averne mai fatto parola con nessuno. 

- Sono contenta che abbia trovato te dopo quello che ha passato. Se la merita un po' di felicità. - Sorrideva.
Quelle parole e quel sorriso ebbero su di me l'effetto di una martellata in testa, un colpo di spugna a tutta la felicità che mi riempiva. Mi resi conto solo in quel momento che quella notte per lei poteva non aver significato nulla. Mi resi conto di star correndo una corsa senza che nessuno l'avesse organizzata. Fu come se improvvisamente mi togliessero uno spesso velo dagli occhi. E sentii un grosso peso cadermi sulle spalle.
Dovette essere palese la mia reazione perché anche Terry si spense. - Ho detto qualcosa che non va? - Mi chiese preoccupata.
- No, figurati. Solo che non so ancora se per lei fosse così importante. Siamo adulti e non ci scandalizziamo per queste cose. Se una ragazza è sessualmente attratta da un ragazzo può benissimo decidere di avere una storia momentanea, no? - 
Terry mi guardò per un attimo perplessa, quasi non riuscisse a seguire il mio ragionamento. Poi sembrò comprendere. - Beh certo. Non ci avevo riflettuto. - Vedendomi rimanere in silenzio ricominciò a parlare, quasi si sentisse in dovere di scusarsi. - Ho fatto i conti senza l'oste. Non so perché non ho neanche valutato questa ipotesi. Forse perché vi vedrei bene insieme. E anche perché mi farebbe piacere per te oltre che per lei. Certo non sono io a decidere. Ho tratto una conclusione felice troppo in fretta forse. - Sembrava essere diventata un fiume in piena. Si costringeva a parlare per riempire il silenzio.
- Ehi, ehi Terry! - Decisi di fermarla, facendomi vedere più sorridente. - Ferma un attimo. Sembra che tu ne stia facendo una tragedia! - Cercai di spostare il macigno che mi era caduto sulle spalle e sorridere di cuore. 
Terry mi guardò ancora dispiaciuta. - Vuoi dell'altro caffè? - Mi disse di nuovo sorridente, prendendo la mia tazza vuota. 
Le fermai la mano e scossi la testa. - Sono già abbastanza sveglio. In caso di bisogno, ne prendo un altro prima di andare al seminario. - 

Alzai gli occhi per scrutare la sala. Notai Marco entrare da solo, con gli occhi bassi e la stessa espressione triste che aveva quando si era svegliato. Sorpassò Andrea, seduto ad un tavolo con un gruppetto sconosciuto e si fiondò al buffet della colazione. Lo richiamai muovendo il braccio per farmi notare e mi rispose con un piccolo cenno della testa. 
- Allora vi eravate nascosti qui! - Urlò una voce alle nostre spalle. 
Era Ludovica. Aveva in mano un vassoio con due tazze di caffè e una fetta di crostata per ogni tipo disponibile. Grandi occhiali scuri le coprivano buona parte del viso oltre agli occhi arrossati dal sonno e aveva legato svogliatamente i capelli in una treccia fermata con un piccolo elastico bianco. Scaraventò il vassoio sul tavolino e trascinò una sedia vuota da un tavolo vicino. Ci si scaraventò sopra rumorosamente.
- Credo di addormentarmi tra qualche secondo. Anzi, credo di stare già dormendo. - Ci annunciò dopo aver nascosto il viso tra le braccia poggiate sul tavolo. 
- Sonno? - Le chiesi ridendo.
Alzò il viso verso di me e si sollevò gli occhiali. Gli occhi azzurri erano cerchiati di viola e il trucco non centrava proprio nulla. - Mi stai prendendo per il culo? -
Risi. - Oh! Dovrei essere io a lamentarmi. Tu almeno sei stata al calduccio nella stanza stanotte. -
- Non puoi lamentarti proprio tu! - Mi disse lanciandomi un'occhiataccia. - Me lo ha detto Meg che siete stati in piscina. E quella è riscaldata. -
- Davvero ti ha detto che... - Chiesi un po' stupito. Terry mi guardava con la stessa espressione, ma Ludo non se ne accorse.
- Certo. Era forse un segreto? - 
Non capii se lo stesse dicendo convinta che Terry non sapesse nulla o se davvero Meg le aveva inventato quella balla. Preferii lasciar cadere il discorso. - Toh! Mangia! - La zittii mettendole in mano uno dei pezzi di crostata che lei addentò con la raffinatezza da camionista che avevamo imparato a conoscere.
Marco ci raggiunse portando con sé un bicchierino di caffè e un cornetto, una colazione nulla rispetto a quella che si era preparata Ludovica.
- A proposito. Ma che fine ha fatto Meg? Quando sono uscita si stava vestendo. - Chiese Terry con un tono piuttosto normale, ma nel quale si poteva leggere un pizzico di confusione.
- Sta dormendo, credo. Il tempo di vestirmi e l'ho trovata caduta in coma tra le coperte. - Ludovica non ci badò più di tanto e continuò ad addentare le sue crostate.

Era finito il primo seminario dell'ultima giornata, uno dei più raccomandati dal Professore, e di Meg non si vedeva neanche l'ombra. Anche il seminario seguente era nella lista di quelli da non perdere, ma non potevo restare ancora lì, mentalmente assente. Avevo la strana paura che Meg si sentisse male, perciò, con una scusa, mi allontanai. 
Il nostro Professore mi vide uscire e mi corse incontro. - Liotta! Dove va? - Mi richiamò.
- Oh, Professore. Buongiorno. -
- Buongiorno. Non segue i seminari stamattina? - Mi chiese fissandomi dritto negli occhi.
- Certo, Professore. - Mentii. Feci notare il mio blocco per gli appunti, stando attento a non far vedere la pagina vuota con la data del giorno. 
- E allora perché stava andando via? Non sa che sta per iniziarne un altro? - Il suo sguardo era quasi minaccioso.
- Professore ho solo avuto un'urgenza. Devo tornare in camera un momento. - 
A quelle parole sembrò quasi ravvedersi. - Oh, mi scusi. Avevo frainteso allora. Vada, vada. Ma faccia presto. - Mi sorrise un po' imbarazzato e tornò ad avviarsi verso il palchetto su cui si alternavano i relatori. 

Corsi verso la casetta ed, entrato, iniziai a bussare sempre più forte alla porta della stanza di Meg. Credetti di star aspettando da molto tempo, mentre invece erano passati al massimo una trentina di secondi. Meg aprì la porta e non sembrava proprio che fosse stata svegliata dal mio bussare.
- Ehi, che fretta che hai! - Mi disse con un velo di malizia. 
Mi afferrò per la felpa e mi tirò dentro la stanza sbattendo la porta. Senza darmi il tempo nemmeno di capacitarmente, mi saltò in braccio cingendomi la vita con le gambe e si fiondò sulle mie labbra. 
- Ciao. - Mi disse sospirando quando se ne staccò.
Io mi ero di nuovo ubriacato totalmente da lei. - Ciao. - La baciai ancora. Lievemente, teneramente. - Credevo stessi male. -
- In realtà volvevo vedere quanto avresti aspettato prima di venire. - Rise e lasciò ricadere i piedi a terra. 
- Come sapevi che sarei venuto? - Le chiesi mentre si andava a sedere sul letto.
- Perché ho capito che tipo sei. - Intrecciò le gambe ed io mi avvinai prendendo posto accanto a lei.
- E che tipo sarei? - Le chiesi inarcando un po' le labbra verso destra.
- Sei un maschio. - 
- E questo non ci voleva una laurea a scoprirlo! - Risi interrompendola.
- Fammi finire. Dicevo... Sei un maschio protettivo. L'hai dimostrato tante volte. Quindi ci avrei scommesso che saresti venuto a controllare se avevo preso qualche malanno. - Un sorriso dolcissimo le si dipinse sul viso struccato, ma che sembrava non lasciare trasparire stanchezza. 
Deglutii cercando di riprendere contatto con me. - E te lo sei preso? Come stai? -
- Benone. - Sorrise ancora di più. - Tu? Hai preso molta più acqua di me. - 
- Io credevo che mi sarei raffreddato invece non ho niente nemmeno io. - Non capii neanche io quello che dicevo perché mi ero totalmente perso negli immensi occhi nocciola che mi fissavano dolcemente. 

- L'abbiamo scampata bella, eh! - 
Quelle parole di colpo mi riportarono in mente che non avevamo usato alcun tipo di precauzioni. - Beh, certo. Per la pioggia sì. - Dissi di nuovo improvvisamente preoccupato.
- E cos'altro, scusa? -
- Beh, sai. Io... Io non... - Che cavolo mi prendeva? Avevamo fatto l'amore poche ore prima e ancora mi imbarazzava parlarle di certe cose?
- Tu non, cosa? - Mi guardò un attimo interdetta. Poi capì. - Aaaaaaaaaaah! - Gridò sollevata, quasi ridendo. - Parli del preservativo? - 
Sembrava così sicura e tranquilla che paradossalmente mi vergognai per l'imbarazzo provato. - Sì, a quello mi riferisco. Sono stato un incosciente. Però ovviamente... - 
Mi bloccai vedendola scoppiare a ridere. Restai piuttosto sconcertato. La sua reazione mi innervosì. Non era una cosa su cui scherzare. Meg sembrò accorgersene e cercò di fermarsi e ricomporsi. 
- Scusa, scusa. Eri così serio e preoccupato che non mi sono saputa trattenere. -
- Non vedo cosa ci sia da ridere. Non credi sia normale? - Le dissi in tono di rimprovero. 
- Potrebbe esserlo. Ma io prendo la pillola da ormai due anni quindi non abbiamo corso rischi. -

Sorrise, stavolta di nuovo dolcemente, poggiandomi una mano sulla spalla per rassicurarmi. La notizia mi sollevò notevolmente. Mi si avvicinò ancor di più e mi abbracciò. Mi sentii sciogliere e mi rilassai tra le sue braccia, tanto che le bastò poco sforzo per gettarsi all'indietro tirandomi con sè sul letto. - E ora, signor Cris, lei dorme un po' qui con me perché se l'è scampata per due volte e ora la costringo. Le sta bene? -
Non le risposi. Le sorrisi e mi accoccolai sul suo seno. Ricordavo bene l'eccitazione che mi aveva trasmesso solo poche ore prima, ma in quel momento mi trasmetteva serenità e pace. Tutto divenne di nuovo più luminoso ed il battito del suo cuore era la stupenda colonna sonora di quel momento così dolce. Sorrisi e cullato da quella dolce nenia mi addormentai tra le sue braccia.

Un fortissimo rumore mi fece sussultare svegliandomi. Mi ritrovai sul letto di Meg, da solo. Mi stropicciai gli occhi voltandomi a cercarla. Sorrisi vedendola in piedi alla finestra. Senza far rumore mi alzai e mi avvicinai a lei, abbracciandola da dietro e baciandole il collo. 
- Sta crollando il cielo. - La sua voce tremava leggermente. 
Fissava fuori la pioggia torrenziale che era ricominciata e i lampi che squarciavano il cielo. Un altro forte tuono ruppe il silenzio e la sentii sussultare aggrappandosi alla mia mano. 
- Ehi, non avrai mica paura dei temporali! - La presi in giro scompigliandole i ricci.
- No. -
- Eppure stai tremando. - Era vero, perciò la strinsi ancora di più. Lei rimase immobile, lo sguardo totalmente rapito da ciò che c'era al di là del vetro. 
Guardai l'ora dall'orologio appeso al muro. - Non è passato molto! Credevo di aver dormito per ore. -
- No, hai dormito solo un'oretta scarsa. - Continuava a fissare il temporale, quasi ne fosse ipnotizzata. 
La voltai verso di me, abbracciandola nuovamente. - E mi hai lasciato dormire da solo? -
- Mi sono alzata solo due minuti fa. - Sembrava ancora non esserci totalmente.
- Russavo troppo per te? -
- Ma no, scemo. Erano i tuoni che non mi facevano dormire. - 
In quel preciso istante, un altro tuono, ancor più forte, arrivò accompagnato da un lampo che rischiarò per qualche secondo l'intera stanza. Meg si strinse contro il mio petto chiudendo gli occhi. Le accarezzai i capelli e la presi in braccio, allontanandola dalla finestra. - No, non hai paura! - Dissi sarcastico, prendendola ancora bonariamente in giro.
- Non ho paura, ti ho detto. - Ripetè, ma continuando a restare aggrappata alla mia felpa, mentre la posavo dolcemente sul letto.
- Vedi che non devi vergognarti. Anche io avevo paura dei temporali da bambino. - 
La guardai dolcemente, mentre apriva gli occhi e mi fissava con un misto di broncio e aria da bambina. - Cosa vorresti dire? -
- Che sei la mia bambina. - 

Non so esattemente perché lo dissi. Quella situazione mi aveva talmente coinvolto che nella mia testa sembrava che fossimo insieme da anni. Immediatamente mi pentii di essermi lasciato andare così tanto, ma cercai di apparire normale. Lei, invece, si irrigidì visibilmente. Di nuovo divenne assente, fissando un punto non meglio precisato sul pavimento. Dovevo aver esagerato, ma non sapevo come avrei potuto rimediare. Cercai di spezzare l'atmosfera parlando di altro, del pranzo, del seminario a cui avevo assistito, del Professore che mi stava attaccato alla gola. Ma nulla servì a farla tornare in sè. Lo sguardo perso vagava per la stanza, quasi a cercare una via di fuga. Le sue risposte erano stentate, monosillabiche, forzate, dettate solo dalla buona educazione. Capii che quello non era più il mio posto. Non volevo lasciarla sola, ma si era rinchiusa nel suo mondo e lì io non potevo entrare nemmeno restando nella stessa stanza. Il suo stato quasi catatonico sembrava aver cancellato addirittura la sua avversione per i tuoni. Così le dissi che avrei fatto meglio a tornare per l'ultima parte del seminario se non volevo che il Professore mi frustasse. Mi salutò stentatamente e si raggomitolò nelle coperte. Avermi lì era per lei palesemente un peso e non nascose di essere sollevata dal mio andare via. Mi richiusi la porta alle spalle e imprecai silenziosamente, maledicendomi.

La lavata di testa del Professore per essere mancato troppo tempo. Il resto del seminario di una palla mortale. Il temporale che non accennava a placarsi, ma anzi aumentava sempre di più la sua intensità. La telefonata di mia madre preoccupata perché aveva sentito al telegiornale che nella zona dove mi trovavo stava per scattare lo stato d'allerta. Marco che mi raccontava incazzato nero qualcosa che gli avevano riferito sulla nottata di Andrea. Terry che mi guardava preoccupata. Tutto mi arrivò addosso come uno tsunami sulla barchetta di un povero pescatore solitario. Mi sentivo sballottato da forze superiori, in preda a qualcosa che non potevo controllare. Perché in effetti mi ero ritrovato a non avere più il controllo nemmeno su di me. Mi rendevo conto che il mio telecomando era in mano a Meg. I suoi sorrisi, i suoi occhi, le sue reazioni. Quello era ciò che realmente dettava legge su di me. Ed in quel momento io ero a pezzi. Mi aveva strappato dal paradiso in cui mi aveva accompagnato per mano. Si era resa conto di aver fatto una gran cazzata con me e non tentava nemmeno di nasconderlo.

Entrai nel salone del pranzo accompagnato da Marco che continuava a parlare, non capendo quanto fossi in realtà distante. Lei era seduta al solito tavolo, accanto a Ludovica, col solito enorme sorriso stampato in faccia. Entrai in una confusione ancora maggiore. Non sapevo se essere contento perché sembrava essere tornata quella di prima o se dispiacermene maggiormente interpretandolo come un chiaro segno che ero io il problema. Quando arrivammo accanto al tavolo, evitai di andarmi a sedere sulla sedia vuota accanto a lei e rimasi in piedi con le mani appoggiate allo schienale della sedia che le si trovava di fronte. Sperando che nessuno la occupasse nel frattempo, aspettavo che mi facesse un cenno, che mi facesse capire che non le dispiaceva, che potevo. Lei discorreva tranquillamente con Ludovica che, a quanto capii, le stava parlando dei seminari che si era persa. Non si era accorta del nostro arrivo. 
Terry arrivò come un fulmine, togliendosi di dosso l'impermeabile e scrollandosi l'acqua dai capelli. - Oh, ragazzi. Qui tra un po' ci vorranno le canoe per tornare in stanza. Vorrei proprio sapere come hanno intenzione di riportarci a casa! - 
Senza neanche guardarsi intorno si andò a sedere proprio nel posto che avevo sperato di prendere io. Abbastanza deluso mi sedetti di fronte a Meg. Terry si accorse del mio sguardo dispiaciuto e si morse le labbra guardandomi desolata. Le feci un mezzo sorriso per farle capire che non ce l'avevo con lei.

Finalmente Meg alzò lo sguardo. Quando mi vide per un attimo il suo sguardo ridiventò di ghiaccio. Rividi nei suoi occhi la freddezza che si era impossessata di lei in camera. Ma fu solo un attimo, subito cancellato da un grande sorriso. La confusione in me non fece altro che aumentare. 
Mangiammo serenamente come avevamo sempre fatto. Anzi, oserei dire che si respirava un'aria ancor più tranquilla. Marco, come avevo già notato, senza Andrea accanto era molto più spigliato e divertente. Terry, con la gran dose di sapienza che aveva acquistato in quei giorni, sprizzava felicità da tutti i pori. Su tutti noi, inoltre, influiva positivamente l'assenza di Daniela e del suo comportamento da troietta stronza. Era l'ultimo pasto che avremmo mangiato insieme a Torre del Vetro e tutti sembravano volerselo godere. Anche Meg, che non era più passata da quel brutto stato di freddezza, neppure mentre mi guardava o parlava. Mi convinsi pian piano che il problema non dovevo essere stato io. Probabilmente era solo la troppa paura per il temporale e la voglia di nascondersi dai fulmini infilandosi sotto il piumone che l'avevano bloccata in quel modo. La prova l'avrei avuta solo successivamente, provando a restare di nuovo solo con lei. Anche se la cosa sarebbe stata ardua perché tutti dovevamo fare le valigie per ripartire alle 17, avrei dovuto provarci. 

Avevamo appena terminato di mangiare la nostra fetta di cheese-cake, quando qualcosa richiamò la nostra attenzione. Entrò nella sala quello che si presentò come il proprietario del villaggio insieme all'organizzatore della multi-convention. Si posizionarono al centro del salone e ci chiesero di ascoltarli. 
- Signori mi dispiace del forte disagio, ma purtroppo il meteo non è prevedibile. Organizzando una convention in questo periodo dell'anno era stato messo in conto che potesse esserci brutto tempo, ma nessuno credeva che si arrivasse a tanto. - Esordì l'organizzatore dell'evento. 
Passò poi la parola al proprietario di Torre del Vetro. - Siamo stati fortunati qui. In paese la pioggia non si è fermata da ieri pomeriggio. Le strade sono impraticabili in questo stato. Parlo principalmente coi ragazzi che sono venuti con il pullman. Mi dispiace, ma non potrete tornare a casa finché non si fermerà questa pioggia. A chi è venuto in auto io sconsiglierei vivamente di andare via, ma non posso obbligarli. Per gli studenti, invece, la decisione è stata presa dalle facoltà di responsabilità. -
Un gran mormorio si sparse per la sala a quella notizia, che per alcuni fu positiva mentre per altri fu molto negativa. 
- Quando potremo andare via? - Chiese qualcuno dall'altro capo del salone. 
- Non lo sappiamo con precisione. Le previsioni dicono che entro stanotte la pioggia dovrebbe cessare. Se sarà così domani per ora di pranzo dovreste poter ripartire. -
Di nuovo il mormorio dilagò. 
- E chi la paga quest'altra notte? - Chiese un ragazzo, piuttosto innervosito, da uno dei tavoli accanto al nostro. 
- E già. Chi la paga questa notte? - Ripetè il proprietario voltandosi verso l'organizzatore. 
L'uomo nel suo elegante vestito blu, reso ancora più scuro dall'acqua che aveva preso, esitò. Tentennante guardò i nostri visi, resi tutti preoccupati da quella domanda che a molti non era nemmeno passata di mente. 
- Beh, certo non potremo chiedere ai ragazzi di pagarla, no? Non sono loro a voler restare. - Tutti fummo sollevati a quelle parole. Tutti meno il proprietario del villaggio che non aveva la minima intenzione di vedere sfumare il suo guadagno, specialmente dopo aver reso tutto disponibile a Dicembre più che inoltrato. 
- Ma è anche vero che qualcuno dovrà pagare. - Continuò l'organizzatore fissando il proprietario il cui viso si rilassò visibilmente. Tentennò ancora un po', cercando di prendere tempo, di trovare una soluzione nei visi dei suoi collaboratori.
- Credo che sia nostra responsabilità coprire i costi. - Ammise, con l'amaro in bocca, sospirando e assaporando già i coltelli che gli amministratori della sua società gli avrebbero conficcato.
- Data la situazione straordinaria credo che potremmo accordarci per un forfet. - Venne in suo aiuto il proprietario facendogli l'occhiolino. - L'importante è che i ragazzi stiano al sicuro e non ricada su di loro una colpa che non hanno. - 

Scattò un applauso, fondamentalmente insensato, ma che lo fece sentire come la versione maschile di un'Evita Perón dei nostri tempi. Io mi sentii più rasserenato. Avrei avuto a disposizione più tempo per riuscire a scoprire se Meg mi considerava uno sbaglio o no.

- E andate in un'altra stanza se dovete copulare! - La voce di Terry si levò alta in mezzo alle risate che già scoppiavano, mentre la ciabatta di Ludovica volava nella direzione di Daniela intenta a pomiciare rumorosamente con il solito compagno di stanza di Diego, di cui nessuno ricordava il nome.

Il proprietario del villaggio aveva pensato bene di chiudere l'American Bar, sia per evitare di pagare un'altra serata ai dipendenti che lavoravano lì, sia per diminuire il rischio di incidenti con il quadro elettrico dato che i lampi continuavano a cadere copiosi. Ognuno era stato pregato di rimanere nella propria stanza o comunque di non uscire dalla casetta assegnatagli. Così dopo cena, per non uccidere definitivamente la serata, tutti, ma proprio tutti, gli appartenenti alle quattro stanze della nostra casetta ci eravamo riuniti nella stanza più grande, quella delle due ragazze. Anche loro erano di Ingegneria, colleghe di Diego and company anche se non si erano mai calcolati tanto. A quanto pare, però, le regole di bellezza imposte ai ragazzi non erano le stesse per le ragazze, che erano sì accettabili ma di certo non delle modelle come i loro colleghi. Si rivelarono però estremamente gentili e simpatiche, specialmente con Marco. Probabilmente una di loro si era presa una stracotta per lui perché non gli si scollava da accanto per nulla al mondo. Lui, dal canto suo, non faceva nulla per scollarsela, un po' per far ingelosire Andrea, un po' perché trovava piacevole la sua compagnia, anche se non come lei avrebbe sperato. 
I bei modelli smisero la loro veste da super fighi rimorchiatori di pollastre e scesero al livello di noi comuni mortali. Tutti tranne il pollastro che aveva adescato Daniela. Da quando aveva varcato la soglia e ci aveva salutato non lo avevamo più sentito, se non in qualche leggero mugulio scappato durante le coccole tutt'altro che caste che si scambiavano sul pavimento in un angolo della stanza. Dopo aver ricevuto una ciabattata in testa si alzarono e lasciarono la stanza. Lui sembrava del tutto ricretinito dagli ormoni, anche se probabilmente il suo quoziente intellettivo non era molto più alto anche considerato in situazioni normali. Lei continuava imperterrita a mantenere l'atteggiamento da vipera stronza e malvagia che aveva assunto da quando l'avevo buttata fuori dalla stanza. Avevo la vaga impressione che la sua durata nel nostro gruppetto si accorciasse di minuto in minuto.
Jay era seduto accanto a Ludovica e la teneva abbracciata, nonostante partecipassero entrambi attivamente alla conversazione. A chiunque li avesse guardati sarebbero sembrati una coppia ben affermata e consolidata da anni di unione. Una di quelle coppie che non ha bisogno di baciarsi in continuazione o di chiamarsi con diabetici nomignoli. Una di quelle coppie che sprizza amore da ogni poro pur non mettendo in imbarazzo nessuno. Sarebbero finiti insieme, me lo sentivo troppo. 
Diego, invece, sembrava aver mollato Meg ed essersi preso una bella pausa dal lavoro a tempo pieno di play-boy. Mi ero quasi stupito vedendolo entrare in stanza con gli occhiali da vista a coprire gli occhi azzurri e una tuta larga che non metteva per niente in risalto il fisico palestrato. Anche Meg non gli dava retta più di tanto sotto "quel" punto di vista, mentre Terry sembrava quasi incantata dal movimento morbido delle onde bionde dei suoi capelli e lo guardava con una cascata di cuoricini che le fuoriuscivano dagli occhi. Si era poi dimostrato anche un grande conversatore, un compagnone che tiene banco con aneddoti e riflessioni strambe. Uno di quelli che riesce a tenere viva una serata anche quando dieci persone semi sconosicute si ritrovano in una stessa stanza durante un temporale pazzesco. Tutto il contrario di me, che in un gruppo riuscivo si e no a dire due parole ogni tanto. Quella sera in particolare, dato che tutta la mia concentrazione era riversata sullo studiare ogni singolo respiro di Meg.
Era seduta sul pavimento a pochi centimetri da me. Ogni tanto mi sfiorava distrattamente le mani, guardandomi poi con sguardo dolce e uno dei suoi sorrisi mozzafiato. Si avvicinava sempre di più, quasi volesse farmi capire che voleva essere abbracciata ma chiederlo l'imbarazzasse troppo. Non era da lei, ma mi rincuorava almeno il fatto che non mi stesse lontana.

- Ehi, ehi! Ragazzi. Guardate che cosa ho qui! - Lucy, una delle due ingengere, si piantò al centro della stanza agitando una bottiglia di vetro. 
- Ohi, Vodka! - Andrea saltò in piedi a strappargliela dalle mani. - Ma è vuota! - Disse deluso, lanciando poi la bottiglia verso Marco, che fortunatamente aveva i riflessi belli pronti e la afferrò. 
- Che dovrei farci? - Gli chiese irritato.
- Ah, non lo so. Usa un po' di inventiva. - Gli rispose acido, velenoso. 
Non era una delle sue solite battute stupide. Era mirata a ferirlo, a farlo imbarazzare. E c'era riuscito. Il viso di Marco, già abbastanza chiaro, sbiancò ulteriormente e immediatamente riavvampò diventando rosso come i suoi capelli. Restò in silenzio, stringendo le labbra. Solo io potevo capire perché. Nessuno sapeva. Sarei voluto intervenire, ma non sapevo come l'avrebbe presa Marco. 
Fortunatamente gli altri sembrarono non accorgersi della tensione che si era disegnata sul suo viso. Lucy gli ristrappò di mano la bottiglia di Vodka vuota e la poggiò sdraiata per terra. - Mettetevi a cerchio, forza. - 
- Cosa? Vuoi davvero fare il gioco della bottiglia? - Chiese un po' schifata Ludovica.
- Sì, dai! - Maria, l'ingegnera che si era fissata con Marco, sembrò essere l'unica esaltata all'idea oltre la sua compagna di stanza.
- Spero che voi stiate scherzando, ragazze! - Intervenne Diego. - Nessuno qui ha tredici anni. - 
- Beh, l'ultima volta che abbiamo fatto una cosa da tredicenni mi pare che ci siamo divertiti, no? - Osservò quasi timidamente Meg, forse per paura di essere linciata supportando un'idea del genere.
- Io direi che non è una cosa da tredicenni, se si gioca alla nostra maniera. - Affermò Lucy, improvvisamente ammiccante e maliziosa. 
- Quale sarebbe la vostra maniera? - 

Una versione sexy, ai limiti del porno, di obbligo-verità miscelato col gioco della bottiglia. Era questa la loro maniera. Baci, lingue, giochini semi erotici. E se ti rifiutavi venivi bombardato di domande imbarazzanti su gusti ed esperienze sessuali. Inizialmente tutti facemmo i puritani, ma alla fine, grazie anche a un paio di bottiglie di Vodka che comparirono magicamente dalle loro valigie, la prendemmo più alla leggera. Marco sembrò essersi svegliato da un lungo coma. Era il più allegro di tutti e fece molto allegra anche Maria accettando tutto ciò che gli si proponeva con lei. Con questo non dimostrava di non essere gay. Al contrario, mi sembrò che cercasse di nasconderlo molto meno, specialmente quando dovette scegliere a chi palpare il sedere e si fiondò immediatamente su quello tonico di Diego. L'importante, però, era vederlo finalmente più sereno. 
Quasi tutti preferivano rispondere a domande sconce piuttosto che accettare determinate richieste. Solo Meg accettò spesso di fare cose imbarazzanti, pur di evitare domande che lo erano estremamente di più. Vederla baciare Diego mi scombussolò notevolmente, soprattutto perché le mani di lui avevano vagato un po' troppo sul suo corpo per i miei gusti e il sorriso di lei era stato un po' troppo soddisfatto. Non sapevo neppure se l'aveva fatto per evitare di rispondere sulla questione sesso orale oppure se le piaceva proprio l'idea di baciarlo. Ma non potevo mettermi lì a fare una scenata di gelosia, né pestarlo come avrei desiderato. Incassai il colpo e restai in silenzio rifugiandomi nel pensiero che magari l'avesse fatto per vedere la mia reazione. 

Ore tre. Avevamo esaurito la voglia di continuare in quel modo o forse avevamo esaurito solo le domande stronze e le richieste sconce. Comunque sia, ci ritrovammo di nuovo a parlare del più e del meno. Presto molti iniziarono a sbadigliare. Anch'io iniziai a sentire il peso della notte passata senza dormire, così come Meg che si era appoggiata su di me e aveva già chiuso gli occhi. Le accarezzai i capelli sorridendo, incantato come sempre dal suo visino pacifico. Lei si mosse ed aprì gli occhi. 
- Andiamo a letto? - Mi chiese con voce addormentata. 
- Vuoi che ti porti a letto? - Le domandai.
Lei annuì richiudendo gli occhi. Mi alzai sostenendola di peso e la presi in braccio. - Terry, mi apri camera vostra? La signorina qui sta morendo di sonno. - Le chiesi sottovoce per non disturbare Ludovica che aveva preso a coccolarsi con Jay. 
Mi seguì un po' a malincuore perché era riuscita a rubare il posto accanto a Diego e ad attaccare bottone con lui. Mi aprì la stanza e restò sulla soglia mentre appoggiavo Meg, già addormentata, sul letto. 
- Resti qui? - Mi chiese, mettendomi fretta, vedendomi perder tempo a fissarla. - No, perché io tornarei da Die... cioè, tornerei dagli altri. - Aggiunse, non vedendomi muovere. Aspettò ancora un po' che le rispondessi oltre a guardarla sorridente, poi tornò ad incalzarmi. - Ok, qui c'è la chiave, resta quanto vuoi. - Chiuse la porta e andò via.

Il rumore fece sobbalzare Meg che aprì gli occhi e vedendomi, sorrise. Allungò il braccio cercando di toccarmi ed io mi avvicinai per accarezzarglielo. 
- Vieni qui. - Mi sussurrò spostandosi su un fianco per farmi spazio.
Mi sdraiai accanto a lei e tirai il piumone per coprirci entrambi. La abbracciai e lei si appallottolò poggiandosi su di me. Mi baciò l'incavo del collo vicino all'orecchio. Fremetti a quel contatto. Si avvicinò poi alle mie labbra, tenendo gli occhi aperti. Erano sempre gli stessi enormi occhi nocciola, ma ogni volta che li avevo così vicini qualcosa dentro di me smetteva di funzionare, la mia parte razionale andava a farsi una vacanza, lasciandomi in balia della parte più emotiva di me. Aspettava una mia mossa e quella arrivò presto. Chiusi gli occhi premendo le mie labbra sulle sue, delicatamente, per augurarle la buonanotte. Ma a quello ne seguirono molti altri. Delicati e soffici all'inizio, come se stessimo in realtà dormendo. Ma pian piano ci svegliammo e ci aggrappammo sempre di più l'uno alla bocca dell'altro. 

- Meg, perché stamattina mi hai cacciato dalla stanza? - Non era il momento migliore per le domande, ma la feci lo stesso.
- Cosa? Io non ti ho cacciato! - Mi disse mentre continuava a mordermi. 
- Qualcosa di simile. - Continuavo a non tacere, anche se avrei dovuto farlo perché il mio cervello era già stato allagato dalla voglia di lei. - Ho detto qualcosa che ti ha dato fastidio? Perché ti sei irrigidita proprio. -
Improvvisamente Meg si fermò. Si bloccò di nuovo. Mi guardò assente, mi baciò la punta del naso e si appallottolò accanto a me. Avevo di nuovo spinto il tasto sbagliato.
- Ehi, che fai? - La abbracciai cercando di rimediare.
- Sono molto stanca. Abbracciami e dormiamo. - Lo disse dolcemente, come se non fosse all'improvviso caduta in un oblio o come se non volesse darmene atto. Si voltò verso di me e mi strinse a sua volta. Appoggiò la testa sul mio petto e non parlò più.

Il secondo diluvio universale era finito nelle prime mattinate venendo sostituito da un bellissimo sole che faceva quasi illudere di non essere così vicini al Natale. Il comunicato che ci venne fatto a colazione dall'organizzatore diceva che le strade sarebbero state agibili già da dopo pranzo, perciò gli autobus sarebbero stati pronti a partire per le 15. Tutto nel villaggio era stato reso non disponibile a causa di scarsità del personale. Il proprietario, infatti, per non rimetterci troppo, aveva tenuto nel villaggio solo lo stretto indispensabile dei dipendenti per mandare avanti la cucina e la pulizia. Tutto ciò che ci venne concesso fu l'uso della piscina fino alle 11. 
Tutta la marmaglia che era stata costretta a rimanere, noi compresi, si riversò nella piscina interna e riscaldata. Anche io mi decisi a infilare il costume gentilmente prestatomi da Jay e rilassarmi, anche se con un po' di imbarazzo, in acqua. Il fisico di Jay era molto più curato del mio e poteva permettersi quel boxer aderente nero. Io, abituato al mio classico e santissimo bermuda, non mi ci vedevo proprio, ma pur di non passare una mattina seduto sulla sdraio, a far nulla oltre che a sudare per i riscaldamenti, mi ci ero costretto. 
Una volta in acqua, non ne uscii più, sia perché non volevo provare un imbarazzo ancora maggiore uscendo dall'acqua con quei boxer bagnati che disegnavano ogni mia forma, sia perché stare immerso mi aveva sempre fatto star bene. Mi appoggiai alla parete e andai sott'acqua, lasciando che questa lavasse via i miei pensieri e le mie preoccupazioni. Fermo nel mio angolino, restai lontano da tutti. La mia presenza non fu più notata. Meg, come il resto del mondo, sembrava essersi dimenticata della mia esistenza.

Quando si fece l'orario in cui dovevamo lasciare libera la piscina, decisi di aspettare che tutti fossero andati via prima di uscire. E fu allora che Meg si ricordò di me. Nuotò nella mia direzione.
- Perché sei stato tutto il tempo qui? - Mi chiese sorridendo.
- Volevo rilassarmi un po'. - In realtà volevo meditare per trovare una plausibile spiegazione ai cambiamenti improvvisi che non avevo mai notato prima in lei, ma lo tenni per me.
- Anche a me piace rilassarmi in acqua, sai? - Si appoggiò al muro della piscina accanto a me e, chiusi gli occhi, si lasciò scivolare sott'acqua fino a farsi coprire le orecchie. Tornò su dopo qualche secondo tirando un grande respiro. - Ti senti meglio dopo, non è vero? -
- Sì, senza dubbio. - Risposi con un tono amaro, non perché stessi mentendo, ma perché non capivo come faceva a comportarsi come se nulla fosse successo.
- Provo ad indovinare anche perché ancora non sei uscito? - Ridacchiò e non mi diede il tempo per inventare una scusa. - Non ti piace il pantaloncino di Jay, vero? - Si portò davanti a me e si avvicinò aderendo al mio corpo, poggiando le braccia sulle mie spalle.
- Non mi ci trovo bene. Non l'ho mai portato. - Non volevo arrossire, ma lo feci lo stesso. 
- Si vedeva da come sei entrato. Cercavi in tutti i modi di passare inosservato. Eppure non stai per niente male, sai? - 
Mi baciò la punta del naso e strinse le gambe attorno alla mia vita. Si strinse ancor di più a me ed iniziò a baciarmi il collo. Una vertigine mi prese.
- Lo stai facendo apposta per caso? - Le dissi con una voce che dimostrava quanto mi bastasse per impazzire di lei.
- Un pochino. - Usò un tono palesemente provocante, reso ancora più accattivante dalle carezze subacque che aveva preso a fare sul mio petto.
Le giovani inservienti della pulizia entrarono e ci intimarono di andare via con tono autoritario. Meg, come se nulla l'avesse turbata, uscì dalla piscina dandosi la spinta con le braccia. Io, in preda all'imbarazzo, la seguii. Cercai di nascondermi correndo ad arrotolarmi nella stuoia di Meg, ma lei per dispetto la prese al volo e fuggì via, lasciandomi sotto lo sguardo divertito delle ragazze che già ridacchiavano maliziose.

L'autobus partì puntuale. Poco prima avevamo salutato i ragazzi e le ragazze di Ingegneria, con la promessa di ritrovarci al più presto. Probabilmente sarebbe stata una delle solite cose dette dopo un viaggio alle persone con cui l'hai condiviso, ma quella volta la situazione era differente. Jay e Ludo non si sarebbero facilmente persi di vista dopo essersi ritrovati, o almeno così pareva a tutti vedendo quanto in fretta si erano presi. E poi c'era il fattore distanza. O meglio, il fattore non-distanza. La loro facoltà distava solo qualche chilometro dalla nostra, perciò abitavamo tutti, chi da fuorisede e chi no, nella stessa città, seppur in zone differenti. Ritrovarsi non sarebbe stato difficile ed i presupposti c'erano tutti. In fondo la cosa non mi dispiaceva. Lucy e Maria si erano rivelate simpatiche ed anche Jay e Diego non erano male, una volta superato l'ostacolo iniziale della loro figaggine estrema, ma soprattutto dopo che Diego aveva definitivamente smesso di puntare Meg. 
Già, Meg. Probabilmente a lei non sarebbe dispiaciuto che lui avesse continuato a farlo. O forse no. Ero confuso. Dopo quella strana situazione in piscina, non si era più avvicinata a me. A pranzo avevo di nuovo trovato posto accanto a lei, ma per tutto il tempo mi aveva rivolto solo qualche sorriso sporadico. Avevo cercato di avvicinarla dopo aver preparato velocemente la valigia, perché non mi andava l'idea di tornare a casa mentre eravamo ancora in quella situazione di stand-by. Purtroppo tutti gli imprevisti del mondo sembrarono riversarsi su di noi non appena restavamo soli per tre secondi, da Daniela che entrava in camera cercando la scatola di preservativi per l'ultima scopata, a Ludovica che non riusciva a far rientrare tutto in valiga, a Marco che cercava costantemente di starmi appiccicato. Speravo di poterle stare accanto almeno durante il viaggio in autobus, ma andò a sedersi, senza nemmeno un momento di tentennamento, accanto a Ludo e accanto a me si posizionò Marco. 

Per evitare che il viaggio mi scombussolasse di nuovo e per recuperare un po' del molto sonno perso, infilai gli auricolari sparandomi nelle orecchie gli Apocalyptica, appoggiando la testa al vetro del finestrino e sperando che mi aiutasse a rilassarmi e dormire un po'.
- Wow! Guarda che caso! - Mi urlò nell'orecchio Marco, staccandomi un auricolare. Aveva letto il titolo del CD che stavo ascoltando sullo schermo del lettore e non era riuscito a trattenersi. - Guarda! - Mi indicò la sua maglietta, su cui compariva proprio una copertina degli Apocalyptica, quella di 7th Symphony.
L'espressione del suo viso mi ricordò Brendon appena entrato in ludoteca. Sorrisi anch'io, più per quella strana associazione di idee che per altro. Ripresi gentilmente dalle sue mani il mio auricolare, mentre sfilavo l'altro. - Bell'album! - 
- Ti ho disturbato? - Mi chiese rabbuiandosi un po', vedendo che non mostravo molto entusiasmo.
Cercai di rassicurarlo, ma facendogli capire di non ripeterlo più per il momento. - Tranquillo. Stavo cercando di dormire perché il viaggio mi scombussola un po'. -
- Oh, allora non ti disturberò più. Tranquillo, dormi. - Si voltò dall'altro lato.
Infilai di nuovo entrambi gli auricolari e tentai di nuovo di addormentarmi.

Non so quanto tempo passò, ma sentii qualcuno che mi accarezzava il petto e mi scompigliava i capelli. Sobbalzai a quel contatto ed aprii gli occhi. Accanto a me, Meg mi guardava sorridente ed un po' imbarazzata, come se non volesse che la vedessi.
- Ti ho svegliato? Scusa. - Ritirò le mani dal mio corpo.
- Puoi continuare quanto vuoi. - Le sorrisi anch'io, ancora stordito dal sonno, togliendomi le cuffie.
- Ma ti ho disturbato. -
- Non sapevo fossi tu. - 
Arrossì di più ed io la attirai a me passandole un braccio dietro le spalle. 
- Come sta Ludo? -
- Pensa a Jay. Spera che non gli passerà tutto appena tornato a casa. -
- Spero di no. Per lui, dico. Altrimenti saremo costretti a cerettargli i capelli. - Dissi scherzosamente, pur di vederla ridere. 
E ci riuscii. Rividi quel bellissimo sorriso che riusciva a farmi innamorare ogni istante di più e a farmi dimenticare qualsiasi sua lunaticità. 
- E Marco dov'è? - Le chiesi, poi. 
- Accanto a lei. Ho chiesto io di fare cambio. - Di nuovo, avvampò. 
Non chiesi spiegazioni, non feci domande, non volevo rischiare di dire di nuovo qualcosa che l'avrebbe fatta scappare. Mi limitai ad abbracciarla. Poggiò la testa sulla mia spalla ed io mi appoggiai ai suoi riccioli, sprofondando dopo poco nuovamente nel sonno.

Dormii per quasi tutto il resto del viaggio, dolcemente aggrappato a lei. Quando arrivammo a destinazione non mi sentivo uscito da un frullatore come all'andata. Al contrario, avrei voluto che quel viaggio durasse in eterno per poterla ancora tenere tra le mie braccia. Invece, dovetti svegliarla. Le baciai la fronte e le accarezzai le guance finché non aprì gli occhi. Sbattè le palpebre e si stiracchiò le braccia facendo uno strano verso che sembrava più quello di un animale ferito.

- Buongiorno. - Mi disse, insonnolita.
- Al massimo, buonanotte. - La canzonai divertito io. Il buio intorno a noi era pesto, nonostante non fossero da molto passate le 18. 
- Va bene uguale. - 
Si strofinò gli occhi, pasticciando il mascara sulle guance, poi lo portò via strofinandoci sopra le mani. Infine si sporse a baciarmi. Solo un piccolo bacio, come se fosse d'abitudine. Invece io non c'ero per niente abituato. Anche se nessuno ci aveva visto, quel gesto in pubblico mi sembrò un grande passo in avanti, ma cercai di non illudermi.

Scendemmo dall'autobus per ultimi e recuperammo le valigie che qualcuno aveva gentilmente buttato sull'asfalto.
- Dove si saranno cacciati adesso? - Chiese ad alta voce Meg, scrutando tra la piccola folla al buio. 
- Non saprei. -
- Oh, non facciamo scherzi! Il padre di Ludovica deve riportarmi a casa. - Disse quasi ansiosa di non riuscire a tornarvi.
- Se è già andata via puoi restare a dormire da me, tanto hai tutto il necessario in valigia, no? - La buttai lì, una battuta come un'altra. In realtà era il mio modo per farle capire che il tempo insieme a lei non mi bastava mai.
Lei, per tutta risposta, mi guardò e sorrise. 
- Non c'è proprio bisogno che ti scomodi così tanto. La accompagno io a casa! - 
Una voce alle mie spalle si intromise tra di noi. Quella voce. La sua voce. Avevo imparato a riconoscerla pur avendola sentita poche volte. E se non l'avessi riconosciuta, mi sarebbe bastato guardare il viso improvvisamente pallido di Meg per capire.

Un conato di odio mi riempì il petto. Serrai le labbra tanto da farle diventare bianche e strinsi i pugni tanto da lacerarmi la pelle nonostante le unghie cortissime. Meg era pallida ed immobile. Non disse una parola. Lo fissava soltanto, con gli occhi enormi pieni di paura in cui scintillavano due lacrime che non avevano il coraggio di cadere giù. 
- Ti sei divertita stellina? - Sorrise smielato e Meg sembrò quasi cedere di nuovo alle sue stregonerie.
Si fece avanti per abbracciarla, ma mi misi in mezzo. Alzò gli occhi a fissarmi in cagnesco. - Togliti di mezzo coglione. - Mi disse aspramente. 
- Qui l'unico coglione che deve togliersi di mezzo sei tu. -
Mi afferrò per le spalle e cercò di strattonarmi via. Ero più alto e più possente di lui perciò non riuscì a smuovermi. Gli afferrai i polsi e li spinsi via.
- Non provare di nuovo a toccarmi. - Gli intimai. Cercavo di mantenere la calma e controllarmi, ma sentivo sempre di più il vecchio me tentare di risorge. 
- Altrimenti che succede? - Mi fissò con aria di sfida, avvicinandosi a me. 
Dovette mettersi sulle punte per guardarmi negli occhi senza alzare la testa, ma questo sembrava non trattenerlo dal fare lo spavaldo, provocandomi.
- E meglio se non lo scopri. Ti do tre secondi per andare via. -
- Qui quello che deve andare via sei tu, se non l'hai ancora capito. - 
Continuava a sporgersi verso di me. Sarebbe bastato un minimo di forza per piantargli un pugno sullo zigomo che gli facesse dimenticare dove si trovava. Strinsi le dita e caricai il braccio, ma in quel momento sentii la mano di Meg poggiarsi delicatamente sulla mia spalla. Mi voltai a guardarla e la seguii mentre, con aria nuovamente assente, si spostava accanto a me. Sul viso di Jeff si disegnò un sorriso di vittoria. 
- Che vuoi ancora? - La voce non le tremava come avevo creduto, ma era completamente atona, priva di ogni componente emozionale. 
- Come sarebbe a dire cosa voglio? - La voce di Jeff era nuovamente dolce in modo stucchevole. - Voglio te, amore mio. Voglio tornare con te, recuperare. - Le prese le mani e le portò alle labbra, baciandole. 

Guardavo la scena smarrito, frenando a mala pena gli istinti più bassi che mi avrebbero ordinato di farlo a pezzi in pochi secondi. Speravo in una reazione di Meg che mi dimostrasse quanto mi ero sbagliato a dubitare del fatto che fosse riuscita ad uscirne del tutto. Ma non arrivò. Continuò a tenere lo sguardo nel vuoto mentre lui le baciava spasmodicamente le mani. 

- Ora vai. - Disse all'imrpovviso, ritirando le braccia ed infilando le mani nelle tasche del giubbotto. - Io devo andare a casa. -
- Ti accompagno io! - Ripetè lui, sempre calato nei panni del dolce ragazzo innamorato.
- Vado con il padre di Ludo. - 
I suoi occhi cambiarono, si accesero di una fiamma che avevo già visto purtroppo. La afferrò per il braccio strattonandola verso di sè. - Ti ho detto che ti accompagno io. -
Meg improvvisamente tornò ad avere l'espressione di una bimba terrorizzata da un brutto sogno. Solo che quello non era un mostro che riesci a mandare via chiudendo forte gli occhi. Intervenni di nuovo. Lo afferrai e lo scossi finché non lasciò il braccio di Meg. Poi lo spinsi via. Lui perse l'equilibrio e si ritrovò sull'asfalto umido e leggermente gelato. - Ti ha detto di andartene! - 

Cercai di abbracciare Meg, ma sfuggì alle mie braccia. Mi guardò ancora impaurita e, afferrato il borsone, attraversò la strada di corsa. Sentii un clacson suonare frenetico. Una macchina la scansò per poco, rischiando di perdere il controllo per l'improvvisa sterzata che dovette fare. Il guidatore sbraitò qualcosa abbassando il finestrino ma Meg continuò a correre. Volevo correrle incontro ma improvvisamente sentii le gambe cedere e mi ritrovai per terra, sorreggendomi sulle mani. Qualcuno mi aveva dato un calcio dalle spalle in corrispondenza del ginocchio. Non avevo alcun dubbio su chi fosse stato. Cercai di rialzarmi ma un altro calcio, stavolta sulla schiena, mi appiattì del tutto sul marciapiede. Nascosti come eravamo dietro l'autobus fermo, nessuno poteva vederci. Si accostò al mio viso mentre cercavo di nuovo di rimettermi in piedi. Rise malvagiamente e il suono della sua risata mi perforò i timpani. Fu la scintilla finale, il giro di chiave che aprì le porte della prigione al vecchio me.
Lo fissai rabbioso e raccolsi le forze. Vincendo il dolore alla schiena, mi sollevai sulle ginochcia. Vidi la mano di Jeff partire per colpirmi, probabilmente al ventre. La schivai, afferrando poi il suo braccio. Lo ruotai senza dosare la forza. Sentii le sue ossa piegarsi al mio volere. Il sapore dei vecchi tempi tornò in tutto il suo splendore ad annebbiarmi gli occhi. Lo costrinsi a terra, piantandogli un ginocchio sullo stomaco. Strinsi il pugno e caricai il braccio.

- Cris! Dove sei finito? - 
Sentii una voce familiare che mi chiamava, ma ero così annebbiato da non capire di chi fosse. Riuscii, però, a fermarmi. Mi alzai, lasciandolo già un po' dolorante sul marciapiede. - Vai via. E non farti più vedere. - Mi voltai e tornai alla mia valigia. Scossi i vestiti cercando di cancellare le tracce di quello che era stato e mi massaggiai i lombi doloranti. Poi andai nella direzione della voce. 
Ludovica camminava per la strada cercandomi. - Ehi, Ludo! Sono qui. -
- Ma dove eri finito? Qui sono andati via tutti e non ti si trovava da nessuna parte. - 
- Voi dove eravate? - 
- Siamo entrati in facoltà a prendere un caffè. Ma Meg? Credevo fosse con te. -
- Lo era, ma è scappata via. -
- Come scappata? Dove? Perché? - Ludovica si allarmò.
- Vedi. C'era Jeff... -
Ludo entrò nel panico solo a sentirlo nominare. - Jeff? Cosa? Che le ha fatto? - 
- Non le ha fatto niente, ma lei prima si è pietrificata e poi è scappata via. - 
- E perché non l'hai seguita? O fermata! O che ne so! - 
Potevo dirle quello che era successo? Probabilmente avrebbe capito. Anzi, sicuramente avrebbe approvato o mi avrebbe incalzato chiedendomi perché mi fossi fermato. Senza alcun motivo, però, decisi di tenerlo per me. - Me ne sono accorto tardi. - 
- Ma sei coglione? E ora dove sarà finita? - Si agitava sempre di più.
La fermai per le braccia. - Calma! Fare così peggiora solo le cose. Prendi il telefono e chiamale! -
- Telefono, chiamale. Sì, buona idea. -
Le tremavano le mani e per uscire il cellulare dalla tasca ci impiegò un bel po'. Fortunatamente non dovette comporre il numero ma lo ripescò più facilmente dalle ultime chiamate. Ancora tremante si portò il telefono all'orecchio. 
- Meg! Dove sei? - Cercò di sembrare calma ma solo attraverso la cornetta, forse, avrebbe potuto essere credibile. Sembrò, comunque, rasserenata dalla risposta che ricevette. - Ok. Noi siamo in facoltà. Ti aspetto qui fuori. - Chiuse e posò il telefono di nuovo in tasca. - Dice che è in cartoleria. - 
- Dice. - Sottolineai.
- Sta tornando comunque. Questo è importante. -
- Va bene. Allora io vado. -
- Dove vai? - Mi guardò dubbiosa.
- Dove vuoi che vada? A casa, no? -
- E perché? Non aspetti? Scendi coi ragazzi. -
- No, no. Sono troppo stanco. Voglio tornare a casa il prima possibile. E poi ho promesso a Naki e Daniele che sarei passato da loro. -
- Ah, quei due ora convivono pure? -
- Non che prima abitassero in città diverse, eh! E poi non è una cosa ufficiale. Sai com'è. I nonni di Naki hanno sempre la mentalità dei loro anni. -
- Va beh, comunque. Salutameli. Io aspetto Meg qui. -
- Ci vediamo domani. -

Mi incamminai verso casa, massaggiandomi di tanto in tanto la schiena che a tratti mi faceva ancora male. Da lontano riconobbi la sagoma di Meg che tornava trascinando piano il suo borsone. Mi fermai, aspettando che arrivasse più vicina, ma lei fece altrettanto appena mi vide. Allora ripresi a camminare e mi fermai nuovamente solo quando fui a un passo da lei. 
- Perché sei scappata via? - Le chiesi con un tono duro e quasi autoritario, senza alcuna paura di dire la cosa sbagliata. Non mi rispose, così le ripetei la domanda, con un tono più dolce.
- Non potevo più stare lì. Mi faceva male. -
- Hai avuto paura? -
Annuì. I suoi grandi occhi castani pieni di lacrime che non volevano uscire brillavano ancora di più alla luce dei lampioni che si erano già accesi.
- Non ti farà più del male. Non quando ci sono io. -
- E tu? - 
Quella domanda mi spiazzò. - Io? -
- Sì, tu. - Una lacrima più coraggiosa delle altre si tuffò sulla sua pelle delicata segnandole la guancia.
- Vuoi dirmi che hai avuto paura di me? -
- Non dovrei? Sembravi come lui. - 
Il sangue mi si gelò nelle vene. I polmoni si rifiutarono di immetere altro ossigeno nel corpo. La mente si oscurò. Era come se mi avesserò staccato la spina. Ed era stata lei, con quelle parole. 
- Come lui? - Quasi balbettai. 
- Sì. -
- Ma io non ti farei mai del male. -
- Anche lui me lo diceva. Ed io gli credevo. Sempre. - Le lacrime ormai le inondavano il viso.
- Ma io lo dico davvero. -
- Perché dovrei pensare che sei diverso da lui? -
Avevo la risposta perfetta a quella domanda. Io l'amavo ormai perdutamente ed avevo reagito in quel modo solo perché non sopportavo nemmeno l'idea che qualcuno potesse farle del male. Ma non lo dissi. Restai in silenzio. Lei mi guardò per un po', poi sorrise amaramente. Riafferò il suo brosone e riprese a camminare, aggirandomi. 

Mi voltai a guardarla, a sentire il mio cuore rompersi ogni volta che un suo piede toccava terra. Lei non si voltò mai. Mi dissi che probabilmente quella era la mia ultima occasione. Se avevo una minima possibilità che tutto non fosse andato in fumo era quello il momento di muoversi. 
Lasciai andare il borsone che cadde pesantemente sull'asfalto. Corsi, le corsi dietro fino a raggiungerla. Le afferrai la mano mentre ancora camminava. Si voltò a guardarmi sorpresa. 
- Meg, fermati ti prego. -
- Che c'è Cris? -
- Perché pensi che io sia come lui? -
- Ho visto i tuoi occhi, Cris. Erano diventati cattivi. -
Un'altra coltellata in pieno volto. Aveva ragione. L'avevo sentito. Era il vecchio me che ricalcitrava per essere lasciato libero. Aveva ragione. Ero come lui. Le lasciai la mano. 
- Scusa. - Sussurrai. - Scusa per tutto. - 
Mi voltai e tornai sui miei passi. Riafferrai il borsone e continuai a camminare. Sperai che lei mi sarebbe corsa incontro, ma nel profondo di me sapevo che non l'avrebbe fatto. Forse l'avevo persa per sempre. Il solo pensiero mi uccideva, ma mi aggrappai con tutta la speranza che avevo a quell'unico, piccolo, misero forse.

Qualcuno bussò forte alla porta, tanto da svegliarmi. Da quando ero tornato da Torre del Vetro mi ero rintanato in camera. Stranamente, ma forse non più di tanto, mi ritrovavo a non aver voglia di uscire né di far altro se non restare acciambellato sotto il piumone ad ascoltare i miei pensieri, accompagnati ora dalla pioggia ora dal vento ora dal vociare dei miei coinquilini. Nemmeno loro mi avevano visto più di tanto perché cercavo di uscire dalla stanza solo quando ero certo di non trovarli per i corridoi. Ero in uno stato pietoso e il peggio era che non avevo probabilmente neanche un valido motivo. O forse sì, non saprei. 
Bussarono ancora alla porta, più forte di prima. - Cris sei lì dentro? - 
La voce di Naki mi solleticò le orecchie attraverso il piumone. Lo scostai ma ero talmente intorpidito da non riuscire neppure a uscire dal letto. Aprii gli occhi e restai a fissare la porta a cui Naki bussò nuovamente. - Cris ci sei? -
- Credi che si sia sentito male? - Le chiese qualcuno a un tono molto più normale del suo. 
- Spero di no, ma di certo non è normale. -
Raccolsi la forza di volontà e mi alzai, trascinandomi alla porta dietro cui Naki continuava a chiamarmi. La aprii e mi trovai di fronte Naki e uno dei miei coinquilini.
- Ok, è vivo. - Lui voltò le spalle e andò via, mentre Naki entrò in camera senza dire nulla.

Quando chiusi la porta, mi squadrò dalla testa ai piedi. Avevo addosso l'unico pigiama che tenevo nell'armadio e che non avevo mai messo, le pantofole ai piedi e i capelli disordinati. Si avvicinò preoccupata, venendomi a tastare i polsi e la fronte.
- Dov'è Brendon? - Le chiesi.
- A casa con Daniele. Hai la febbre? - Mi chiese scrutandomi ancora disorientata.
- No. Perché non l'hai portato? - Le sorrisi lievemente.
- Ho preferito non uscirlo con questo freddo. Sei stato male? -
- No. Sta bene? - Le sorrisi di nuovo.
- Sì, benone. Allora perché non ti sei fatto vivo? Nessuno ti ha più visto nè sentito da quando sei sceso da quell'autobus. -
- Naki, è passato solo un giorno. - Guardai l'orologio. Era quasi l'una. - Anzi, poco più di un giorno e mezzo. Credo sia presto per allertare i marines. - 
- Idiota! Non solo mi preoccupo per la tua incolumità. Devo pure essere presa in giro! - 

Si avvicinò e mi diede un pugno sulla spalla. Non fu forte ma lo scossone fece riaffiorare il dolore alla schiena e con esso il ricordo di quello che era successo. Mi passò tutto davanti agli occhi come un filmino a velocità triplicata. L'amore con Meg sulla spiaggia sotto la pioggia, la sua paura dei tuoni, la sua freddezza. E poi Jeff, il suo tentativo di riaverla, la sua aggressione alle spalle. E poi di nuovo Meg, il suo pianto, il suo accostarmi a lui. Mi massaggiai la schiena e chiusi gli occhi, non potendo evitare una smorfia di dolore. Sentii il bisogno di sedermi, così mi accostai al letto.
- Vedi! Vedi! Lo sapevo che stavi male. Che ti è preso? Che hai? La sciatica? Un colpo della strega? - 
Naki mi costrinse a sdraiarmi e volle a tutti i costi controllarmi la schiena, quasi credesse di poter individuare il problema tastando a caso. Cercai di fermarla, anche perché spesso premeva proprio sul punto in cui avevo ricevuto la botta facendomi saltare in aria dal dolore. Ma dovetti girarmi e bloccarle i polsi per farla smettere. 
- Smettila di spremermi. Ti ho detto che sto bene. -
Mi fissò con sguardo inquisitorio. - Credi di potermela dare a bere così facilmente? -
- Senti Naki, non sono in vena oggi. Ce la fai a farmi un favore e a non fare troppe domande? - 
- Che favore vuoi? - 
Mi voltai dandole di nuovo le spalle e mi alzai la maglietta del pigiama. - Vedi qualcosa? - 
- Oh mio! Cris, ma che diavolo hai combinato? Hai un livido bruttissimo proprio al centro della schiena. - Iniziò a tastarmi nuovamente, provocandomi ancora dolore.
- Attenta. Fa male. - Riabbassai la maglietta e mi voltai di nuovo.
- Si può sapere come te lo sei fatto? - Naki era ancor più preoccupata.
- Vuoi la versione breve o la versione lunga? - Cercai di sdrammatizzare. 
- Quella che ti piace di più. - 
- A me non piace nessuna delle due. -
- Allora voglio quella lunga. - Guardò l'ora. - Tra mezz'ora devo essere a casa perchè Daniele deve andare a lavoro. -
- Credo che non basti il tempo per quella lunga, allora. -
Il suo sguardò si stupì maggiormente. - E che cacchio è successo che non ti basta mezz'ora? -
- Ne sono successe parecchie di cose. Se vuoi ti racconto la versione breve e ci leviamo il pensiero. -
- Ho un'idea migliore. - 
- Sentiamo. - 
- Ora ti fai una doccia veloce e ti vesti. Saliamo a casa mia e mentre siamo in strada mi racconti la versione breve. Pranziamo, andiamo a lezione e stasera a cena mi racconti la versione lunga. Ti va bene? -
- Veramente io... -
- Veramente tu, cosa? Non volevi andare a lezione nemmeno oggi? Qualsiasi cosa sia successa non puoi fare l'eremita in eterno. Non servirà nascondersi in camera. -

Mentre percorrevamo la strada verso casa sua le raccontai in breve che il livido me l'aveva procurato Jeff, aggredendomi alle spalle perché mi ero messo in mezzo tra lui e Meg. Naki fu orgogliosa di me, ma allo stesso tempo mi rimproverò di usare più prudenza con gente del genere. Di certo non poteva immaginare come la prudenza fosse proprio da escludere nello stato in cui ero, preso dalla fuga di Meg, né poteva sapere che il livido e tutto il resto erano l'ultimo dei miei problemi.

Dopo pranzo mi chiese perché c'era anche una versione lunga di quella storia. 
- Quella inizia Giovedì, quando siamo partiti per Torre del Vetro. -
- Caspita! Ci credo allora che non ti bastava mezz'ora. Ma non cercare di fregarmi. Abbiamo detto che me la racconti a cena. Ora muoviti e dammi una mano a sistemare questo macello. Tu pensa alla cucina che io sistemo Brendon. Anzi. - Guardò l'orologio alla parete che segnava le 14:30. - Vai, devi sbrigarti. - 
- Non sali con me? -
- Sistemo tutto e salgo anche io. Ti ricordo che la mia lezione inizia dopo della tua. -
- Sì, sì. Mi ricordo. -
- Certo, se poi c'è il rischio che invece di andare a lezione torni a rintanarti sotto il piumone per chissà quale motivo, ti accompagno in aula tenendoti per la manina. - Scherzosamente mi prese la mano e iniziò ad ondeggiarla prendendomi in giro.
- No, no. Non c'è questo pericolo, tranquilla. -

Arrivai a lezione che il Professore era già entrato in aula. Fortunatamente stava ancora armeggiando per cercare di connettere bene il portatile al proiettore. Voltandomi verso i banchi vidi Marco agitare la mano per richiamare la mia attenzione. Andai ad infilarmi al posto che mi aveva conservato cercando di non fare troppo rumore e salutando tutti sottovoce. Meg era seduta accanto a Ludovica sul lato più interno della fila e mi regalò solo un sorriso tremolante.

- Come mai ieri non c'eri? - Mi chiese un Marco raggiante che quasi avevo dimenticato.
- Troppo stanco. - Mentii.
Il Professore richiamò la nostra attenzione annunciando che stava per proiettare la scelta che aveva fatto delle coppie per le relazioni sui seminari. Io finii in coppia con Terry e Ludo con Daniela, mentre Marco, Andrea e Meg capitarono con altri colleghi. Accanto ad ogni coppia c'era il titolo del seminario che avrebbero dovuto trattare. 
- Dato che ogni seminario è durato dalle due alle tre ore, credo che le vostre relazioni non debbano essere inferiori a quattro pagine. Ovviamente se volete fare un lavoro più accurato integrando delle vostre personali ricerche saranno ben accette ma cercate di non superare le otto pagine, altrimenti la correzione sarà infinita. - Rassicurò poi tutti quelli che non avevano partecipato che questo non avrebbe assolutamente influito negativamente sulla loro votazione né positivamente sulla nostra, ribadendo che avevamo solo la possibilità di evitare la seconda prova in itinere, ma che avremmo poi dovuto portare comunque gli argomenti all'orale. - Se qualcuno ha dei dubbi o vuole esporre qualche problematica, lo prego di venire da me durante la pausa. Adesso iniziamo la lezione seria. -
Sostituii lo schema delle coppie con le slide sul Livello di Trasporto ed iniziò a spiegare. 

Durante la pausa avvicinai Terry per chiederle come potevamo organizzarci per scrivere la relazione e lei mi disse che probabilmente non l'avremmo fatta insieme. La guardai perplesso e mi spiegò che voleva chiedere al professore di avere assegnata una relazione in solitaria per migliorare il voto preso alla prima prova. Dopo di ché si voltò e raggiunse la cattedra. 
Raggiunsi allora tutti gli altri alle macchinette e presi il mio caffè con loro. Mentre parlavamo sotto il gazebo esterno mi sedetti sullo scalino accanto a Meg e lei sembrò improvvisamente irrigidirsi. Non volevo forzarla a starmi vicino se non voleva farlo più, perciò cercai una scusa e rientrai in aula. 

Terry era già al suo posto e guardava con interesse i suoi appunti. 
- Che ti ha detto il Prof? - 
- Mi ha assegnato una relazione solitaria. Ma devo fare anche quella con te. Mi ha praticamente preso per una fanatica, ma mi ha accontentato. -
- Ah, contenta tu! - Le scompigliai i capelli.
- Senti, a proposito di contento e non contento. Ma con Meg come è finita? -
Improvvisamente ebbi voglia di correre nella mia stanza e infilare la testa sotto il piumone, di alzare quella morbida barriera tra me e il mondo. - Beh, credo sia finita e basta. -
Terry ne sembrò delusa. - Mi dispiace. Te l'ho detto che speravo... - Si zitti di colpo. Alzando di più gli occhi e poi riabbassandoli in fretta sugli appunti, ma guardando in realtà nel vuoto.
- Va beh Terry. Capitano queste cose, no? - Cercai di farmi forza da solo dicendo quelle parole e allo stesso tempo di decifrare quello strano comportamento. Poi mi sentii bussare sulla spalla.

Voltandomi anch'io mi bloccai. Il Professore era in piedi davanti a me, sorridente. - Signor Liotta, mi raccomando. Mi aspetto tanto dalla sua relazione. Con chi è in coppia? -
Indicai Terry, senza essere capace di aggiungere una parola.
- Ah, la signorina! Lei pure è una buona speranza. Sono sicuro che lavorando insieme uscirà qualcosa di molto buono. E lei... - Aggiunse fissando Terry. - ...non si preoccupi per il voto finale. Avrà sicuramente quello che merita. -
Come sempre, si voltò senza aspettare risposte e tornò alla cattedra. Io e Terry ci guardammo straniti, voltandoci poi a controllare quanti dei nostri colleghi avessero assistito alla scena. 

- Ma questo è scemo? - Mi chiese Terry sottovoce. 
- Credo anch'io che abbia qualche rotellina fuori posto, sì. -
- E io credo che si sia innamorato di te. - Rise.
- Non dire scemenze! -

Naki aveva messo a letto Brendon dopo il bagnetto. Mi era dispiaciuto un po' poter stare così poco tempo con lui, ma aveva bisogno di riposare perché non stava molto bene. Io e Daniele ci eravamo subito azionati per sistemare la cucina dopo l'ottima cena che lei aveva cucinato, perciò quando tornò in cucina ci sedemmo tutti attorno al tavolo ed iniziai il mio racconto. Entrambi mi ascoltarono in silenzio e quando finii di raccontare il silenzio durò ancora. Fu Daniele il primo ad esprimersi.

- Secono me la tizia non ha tutte le rotelle a posto. - 
Naki si voltò verso di lui, guardandolo sbalordita. - Che cosa stai dicendo? -
- Quello che penso. Scusate, ma non mi sembra normale questo comportamento. Lo bacia, ci fa sesso e poi lo caccia. Lo cerca di nuovo e poi lo caccia di nuovo. Lui la difende e lei scappa via terrorizzata. Ditemi voi se è normale! -
- No che non è normale, ma non centrano le rotelle a posto. - Naki sembrava scossa, quasi provata, da quel discorso. - Non è normale per una persona che non ha avuto un certo passato. Ma sai che cosa ha passato lei? Dovresti ricordarlo. -
Daniele si zittì immediatamente. Capì il rimprovero che gli veniva fatto e mi sentii rimproverato anch'io. In mezzo a tutto il trambusto emotivo che mi era passato dentro, avevo dimenticato di pensare a quella motivazione, la più logica, la più plausibile. Tutte le sue reazioni potevano essere, e molto probabilmente erano, legate a ciò che l'aveva segnata in passato.
- Ha ragione Naki. -
- Già! - Disse lei alzandosi di scatto e con la voce che le tremava leggermente. - Con quello che ha passato già è tanto che riesca a fidarsi degli altri. - Si allontanò verso la parte del salotto.
Quelle parole mi raggelarono definitivamente. La sua forza e il suo enorme sorriso sempre presente mi facevano dimenticare ogni volta quanto anche lei avesse sofferto, come anche lei fosse stata pugnalta da alcune delle persone a cui teneva di più. Non stava parlando solo di Meg in quel momento. Stava venendo fuori la Naki ferita, quella che era stata sepolta per amore di Brenodn e grazie alla sua enorme forza d'animo. 
Anche Daniele si incupì. Era probabile che stesse pensando alla stessa cosa. Si alzò e le andò vicino, abbracciandola. Naki si voltò per ricambiare il suo abbraccio e la luce artificiale fece brillare la piccola lacrima che aveva tentato di non far notare. Nascose il viso tra le braccia di Daniele solo per alcuni attimi, lasciandosi accarezzare le spalle. Poi si staccò, si asciugò il viso e tirò un profondo respiro. 
- Ok, è passato! - Annunciò con un grande sorriso. 
- Scusa. Io... - 
Naki zittì le scuse di Daniele poggiandogli l'indice sulle labbra e poi dandogli un piccolo bacio. - Basta. Ho detto che è passato. -

Tornò al tavolo, tenendogli la mano. Lo fece sedere e si poggiò sulle sue gambe. Sorrideva di nuovo e la fiamma dei suoi occhi era sempre lì al suo posto, a bruciare di vita e gioia.
- E quindi? - Disse guardandomi.
- Quindi, cosa? - Mi ero perso e non capii cosa volesse dirmi.
- Quindi cosa hai intenzione di fare? -
- Non lo so, Naki. In questo momento sono soltanto molto confuso. Forse, semplicemente, devo accettare il fatto di non sapere come starle vicino. -
- Come fai a dire una cosa del genere? -
- Beh, mi sembra ovvio. Tu hai subito capito che poteva esserci di mezzo la sua esperienza passata, io no. -
- Ma non sei tu a dover pensare al passato. Tu devi farla pensare al presente. C'eri riuscito! -
- Dici? -
- Non credo che si sarebbe aperta con te in quel modo se fosse stata sotto lo strano effetto che le fa Jeff, no? -
- E quando dice aperta credo che si riferisca anche all'apertura delle gambe! - Daniele, che era stato quasi messo da parte, se ne venne fuori con una battutaccia e ricevette in cambio due occhiate di fuoco da parte nostra. - Ok, ok! Sto zitto! Certo che con voi non si può scherzare. - Disse, alzandosi.
- Dove vai ora? - Gli chiese Naki. 
- Cucciola, ho avuto una giornata pesante e domani devo alzarmi presto. -
- Dai, Dani, resta. Vado io a casa. -
- No, Cris, davvero. Dormire a casa per una volta non mi farà male. - Si abbassò a baciare le labbra di Naki. - Anche perché Giovanni ha già iniziato a guardarmi male! - Rise continuando a baciarla. 
- Sicuro che non vuoi restare? - Gli chiese Naki, guardandolo negli occhi in modo languido. - Puoi metterti a letto se sei stanco. -
- Tranquilla cucciola. Ci vediamo domani a pranzo. - La baciò di nuovo. - Buonanotte Cris. - 
Mi alzai per salutarlo e poi andò via. 

- Wow! Certo che se l'è data una bella calmata da quando mi ha preso a pugni. Non è più geloso? -
- Oh, si che lo è! Credo che non prenderà sonno finché non ti sentirà uscire di casa. Ma ha capito che non deve soffocarmi troppo. In fondo sono abituata alla mia libertà, ai miei ritmi. Dobbiamo solo trovare il modo per incastrarci. -
- E quando dici incastrarci, intendi... - Aveva parlato guardando la porta con uno sguardo così innamoratamente perso che non ero riuscito a trattenermi dal riproporre la battuta di Daniele, anche se squallida. 
Ricevetti in cambio un pugno ben assestato sulla spalla. - Mi mancavano i tuoi pugni. -
- Ne puoi avere quanti ne vuoi! - Mi guardò minacciosa. 
Le feci una smorfia e cambiai discorso. - Credo che sia il caso di andare, comunque. Così Daniele può dormire tranquillo. E anche tu. - 
- Per me non ci sono problemi se resti, lo sai. -
- Lo so, ma preferisco tornare a casa. - Sorrisi.
- Vuoi andarti a rintanare sotto il piumone e non uscirne più per altri due giorni? -
- Vorrei, sinceramente. Ma non posso. -
- E non devi! - Sottolineò lei donandomi un altro pugno. 
- Sì, sì, lo so. Non si risolvono così le cose. - Le feci il verso, continuando a massaggiarmi la spalla. 
- Devi smuoverti se le vuoi sistemare. -
- Ma facendo cosa? Ha paura di me ormai. - Alzai un po' la voce. Mi dava fastidio ammetterlo, odiavo che fosse successo. 
Naki capì, si fermò e sorrise dolcemente. Mi accarezzò il braccio cercando di rassicurarmi. - Non è vero. Ha avuto paura di come si è sentita in quel momento. Fai un passo alla volta. Devi capire che lei è come se fosse bruciata, ha addosso un ustione di terzo grado, o forse più forte. Se tocchi le croste probabilmente non fa tanto male, ma se inizi a punzecchiare la carne, lì sì che si muore dal dolore. Però per guarire la carne deve essere scoperta, no? Devi superare le croste e curarla. Riavvicinati a lei, senza forzare troppo. Un po' alla volta. Vedrai che si scioglierà di nuovo. Anzi, secondo me sarà lei stessa a cercarti ancora, come ha fatto la prima volta. Ci vuole tempo. Per guarire ci vuole sempre tempo. Tempo e tanto amore. Tu vuoi darle la seconda ma devi sforzarti di portare pazienza e dare anche la prima. Se dai una delle due cose senza l'altra, il risultato non sarà mai quello che vuoi. Devi dosarle bene, in modo equilibrato. E tutto andrà per il meglio. - 

Si avvicinò e mi baciò la guancia, delicatamente. Sentii tutto il calore del suo affetto e della sua fiducia in me. Fu come se qualcuno mi avesse fatto il pieno di energia, mi sentivo magicamente rinnovato. Avevo sempre pensato che la positività e la forza di Naki fossero contagiose, ma in quel momento lo provai in prima persona. E fu una cosa fantastica. Mi sentii un portatile con la batteria scarica che viene finalmente collegato all'alimentatore, un cellulare a cui viene caricata la batteria dopo un pomeriggio di segnali acustici. Mi sentii pronto ad affrontare la sfida che avrebbe comportato riconquistare la fiducia di Meg e riuscire a farmi permettere di starle di nuovo accanto.

Sorrisi, contagiato e sereno. - Ora vado. - Le baciai la guancia. - Grazie, Naki. -
- Non devi ringraziarmi di niente. -
Ricambiò il mio saluto e mi diressi verso la porta. 

Il telefono aveva vibrato per quasi tutta la sera. Chiamate e messaggi di mia madre che si chiedeva, preoccupata ed incazzata in egual misura, dove fossi finito straripavano. Addirittura Bepi mi aveva mandato un messaggio dicendomi di farmi sentire il più presto possibile perché mamma era sull'orlo di un esaurimento nervoso. E aveva pure ragione! L'ultima volta che c'eravamo sentiti era stata Domenica e le avevo detto che dovevamo restare al villaggio per il temporale troppo forte. Sapevo benissimo quanto fosse apprensiva mia madre, perciò sicuramente immaginavo bene cosa poteva passarle per la testa. Mi stupivo che non avesse ancora allertato la difesa nazionale e che non avesse preso il primo autobus per venirmi a cercare personalmente, limitandosi invece a inondarmi di chiamate e messaggi. Evitai di chiamarla a quell'ora, ma le inviai un messaggio inventandole una balla e dicendole che avevo avuto problemi col telefono per cui non avevo potuto farmi vivo, ma che stavo bene e mi dispiaceva averla fatta stare in pensiero.
Inaspettatamente mi telefonò quasi istantaneamente. Mi urlò dietro per circa mezz'ora mentre io cercavo di trattenermi dal ridere. Le ripetei almena una ventina di volte la scusa del cellulare che aveva perso vita e di come magicamente ero riuscito a salvarlo grazie all'aiuto di Marco. Non mi era mai piaciuto dirle cavolate, ma stranamente quella sera mi divertii a farlo. Quando si calmò definitivamente, mi salutò un po' freddamente e andò a letto. Sapevo che mi aveva già perdonato, ma doveva farmela pagare a modo suo. Avrebbe fatto la sostenuta per un paio di giorni e poi sarebbe tornata la madre di sempre. Mandai un messaggio a Bepi scherzando sullo sclero telefonico di mamma, ma lui non mi rispose. Probabilmente stava già dormendo o era con Diana. 

Eliminai tutti i messaggi di mia madre dalla memoria. Facendolo mi accorsi che uno dei messaggi non letti era di un numero che non conoscevo. Era Terry ed era arrivato poco dopo che avevo lasciato la facoltà. Aveva preso il numero da Ludovica e mi chiedeva se potevamo iniziare con la relazione subito, vedendoci a cena. Risposi anche a lei, scusandomi per averla fatta aspettare tanto.

Infine, mi misi a letto. Raggomitolato sotto le coperte che non mi servivano più come scudo contro il mondo, meditai sulle poche cose che Naki mi aveva detto. Meg non si era richiusa del tutto. Un piccolo spiraglio era stato lasciato aperto ed io a quello dovevo puntare. Con dolcezza, senza forzare.

Era l'ultimo giorno di lezione prima dell'inizio dello stop natalizio ed io non me ne ero nemmeno reso conto. Me ne ricordai solo quando, al termine della lezione di Sistemi, il professore ci augurò delle buone vacanze incoraggiandoci come sempre a non abbandonare del tutto lo studio. 

Uscii dall'aula un po' sconcertato. Ero arrivato a perdere la concezione del tempo così tanto da non rendermi conto che sarei presto partito per il mio paese?
Il mio pensiero volò per un attimo all'anno precendente, circa dello stesso periodo. Avevo segnato sul calendario il conto alla rovescia che mi separava dal ritorno a casa con enormi caratteri rossi. Capitò più di una volta di far il conto perfino dei minuti che mi separavano dall'autobus che mi avrebbe riportato a casa. Volevo tornare in un ambiente che non fosse del tutto ostile, in cui trovassi qualcuno ad accogliermi. Perfino i litigi con Miriam, che già erano iniziati, non mi preoccupavano. Urlare era sempre meglio che stare in silenzio, in fondo. 
Mi resi conto di quanto quei pochi mesi mi avevano profondamente cambiato, di come erano cambiate le mie necessità e i miei affetti. Tornavo a casa, in un ambiente che rispetto agli anni passati poteva essere considerato idilliaco, con mio fratello innamorato e mia madre più serena, senza una ragazza rompicoglioni e libero di godermi la mia libertà insieme agli amici. Eppure avrei preferito restare chiuso nelle mie quattro mura decrepite, convivendo con mezzi animali, pur di avere la speranza di poter stare vicino a Meg. Ma poi capii. Capii che quella separazione era necessaria. Ero consapevole del fatto che non sarei riuscito a non forzarla alla mia presenza, come mi ero ripromesso, se avessi avuto libero accesso a lei. Starle lontano mi avrebbe permesso di lasciarle i suoi spazi e avrebbe permesso a me di cercare un equilibrio. Avrei provato a farmi sentire, così da vedere la sua reazione. Forse il fatto di poter scappare dalla conversazione molto più facilmente l'avrebbe tranquillizzata. E magari saremmo potuti tornare come prima, quando comunicavamo a qualsiasi ora del giorno. 

Ludovica mi fece uscire dai pensieri. Gli altri erano ancora in fila per il caffè. Io non ne avevo voglia e mi ero rintanato da solo, fuori, sotto il gazebo. Ludo arrivò all'improvviso alle mie spalle e mi abbracciò. Non l'aveva mai fatto, perciò capii che dovevo mostrare uno sconforto maggiore di ciò che provavo. O forse era lei ad essere dispiaciuta. Mi strinse forte, poggiando il viso sulla mia spalla. 
- Che c'è Ludo? - Le chiesi dolcemente, sorridendo.
Si staccò da me, quasi imbarazzata, scrollandosi la maglietta e guardandosi intorno come se provasse a capire se qualcuno l'aveva vista lanciarsi in quel gesto d'affetto. - Ti ha dato fastidio? -
- Certo che no. Solo che non lo avevi mai fatto. -
- Non lo so. Mi sembravi giù e mi è sembrata una buona idea. -
Sorrisi nel vederla così impacciata, come non ero abituato ad immaginarla. - Non ti starai mica Megghizzando? - La presi in giro scompigliandole i lunghi capelli rossi lasciati liberi a caderle sulle spalle.
Sorrise anche lei, rasserenandosi e tornando quella di sempre. - Terry e Andrea partono nel pomeriggio. Tu parti domani come Marco? -
- Sì, non credo di arrivare a partire oggi. -
Guardò l'orologio. - Beh, il tempo non dovrebbe mancarti. Ancora è molto presto. - 
Abbassai lo sguardo fissandomi le ginocchia e mi passai la mano sulla nuca.
- Non è che forse sei tu a non voler tornare a casa? - 
La guardai e non potei evitare un sorriso amaro. Cambiai argomento, sperando in una sua caduta nel dimenticatoio. - Non andate più a correre? -
- Abbiamo perso tutte la voglia. - Rispose sorridendo, ma il suo sguardo mi fece capire che aveva notato e volontariamente sorvolato sulla mia sterzata improvvisa che deviava dalla sua domanda. - Principalmente Meg. - Lo disse guardando l'aria, come se non stesse parlando a me, ma a sè stessa. Poi continuò a parlare usando un tono eccessivamente basso. - Da quando siamo tornati da Torre del Vetro non sembra più lei. -
- Che vuoi dire? -
Scosse la testa, grattandosi poi un orecchio con le lunghe dita affusolate. - Non saprei dirlo neanche io. Forse è solo una mia sensazione, ma credo che cambi umore un po' troppo spesso. Più del solito comunque. Più frequentemente e più rapidamente. Sembra tornata come quando stava con Jeff e la cosa non mi piace per niente. -
Mi sentii in colpa e mi convinsi ancor di più che stare lontano avrebbe fatto bene principalmente a lei. - Vedrai che ha solo bisogno di una vacanza. -

- Chi ha bisogno di una vacanza? - Meg arrivò sorridente e si catapultò in mezzo a noi afferrando il braccio di Ludovica. 
- Tutti. Non credi? - Le disse lei, magicamente ritrasformata nella solita Ludo.
- Io di sicuro. - Annunciò Andrea. - Perciò vi saluto allegramente e ci vediamo a Gennaio. - Ci passò accanto agitando il braccio. Non si soffermò in lunghi saluti e andò via senza aggiungere altro.
- Vado anche io, ragazzi. - Terry fu molto più prolissa e deprimente nei suoi saluti. Dal tono che utilizzava si sarebbe detto che stava partendo per un viaggio senza ritorno. Baciò ed abbracciò tutti e poi anche lei andò via.

- Che ne dite di passare questo pomeriggio insieme? - Chiese timidamente Marco ai presenti. 
- Non dovete sistemare valigie e cose simili? - Ribattè Umberto che, stranamente, era insieme a noi.
- Io ho tutto pronto. - Rispose Marco.
- Io no, ma credo che se ci vedessimo dopo pranzo potrei arrivarci. - 
La mia risposta non piacque molto ad Umberto che di certo vedeva in me la causa prima e sola del suo allontanamento da Meg e, conseguentemente, dagli altri. Si rabbuiò mentre Ludovica dava appuntamento a tutti per le 16 a casa mia. 
- Ah, io per quell'ora proprio non ci sono. In caso ci sentiamo per la serata. - Annunciò Daniela, con visibile sollievo della maggioranza, prima di andare via sculettando.
Anche Umberto accampò una scusa per non essere dei nostri e ci salutò sommessamente prima di andare. 

I ragazzi arrivarono in ritardo e questo mi permise di arrivare a sistemare tutto. Decidemmo di non passare il pomeriggio chiusi in casa. Salimmo tutti nella macchina di Ludovica e ci spostammo al centro commerciale che si trovava poco fuori città. Meg era visibilmente serena, ma evitava di stare vicina a me. Mentre camminavamo tra i vari negozi la vedevo guardarmi di sfuggita, ma appena incrociava il mio sguardo lo voltava arrossendo. Questo succedeva sempre più spesso con il passare del tempo, come capitava sempre più spesso che, spostandosi, mi passasse accanto sfiorandomi il braccio. Infine iniziò a camminarmi vicino e a sorridermi. 

- Marco! Marco! - Sentimmo quel nome urlato da una voce acuta. 
Ci voltammo tutti cercando di capire se stessero parlando col nostro Marco o meno. Nella folla, però, non riconoscemmo nessuno e continuammo a camminare mentre qualcuno continuava a urlare sempre più forte. Ci eravamo appena fermati di nuovo quando una ragazza che non avemmo il tempo di riconoscere si gettò addosso a Marco, abbracciandolo come un koala. Scoprimmo che era Maria solo dopo che finì di riempirlo di baci sulle guance. L'aveva riconosciuto in mezzo alla folla e non voleva perdere l'opportunità per salutarlo. Dal modo in cui lo guardava si capiva che era ancora cotta di lui. Lucy si avvicinò in modo molto più normale. Parlammo con loro qualche minuto e poi le lasciammo. 
Rivederle ci portò a parlare di nuovo dell'esperienza a Torre del Vetro. Temetti che questo portasse di nuovo Meg a raggelarsi nei miei confronti, ma così non fu. Restò allegra e serena, continuando a ridere di cuore e scherzare su ciò che era successo l'ultima sera. Non accennò nemmeno a noi o a quello che era successo appena scesi dall'autobus. Nessuno sapeva nulla. Non sapevo perché, ma Meg aveva deciso di tenere tutto nascosto anche a Ludovica. Mi risposi che probabilmente lo negava anche a sè stessa e mi resi conto che quella era sicuramente l'unica cosa concreta che avessi pensato in quei giorni.

Era ormai sera quando andammo via di là. Marco volle tornare a casa perché doveva ultimare le cose da preparare, mentre le ragazze restarono da me. Chiesi a Naki e Daniele di raggiungerci, così cenammno tutti insieme arrangiandoci con l'unica cosa che era rimasta in dispensa: la pasta.
Quando per Brendon arrivò l'ora di dormire, Naki andò in stanza per sistemarlo e metterlo nel mio letto. Daniele la seguì e Ludovica insistette per dare una mano. Io e Meg restammo soli in cucina. Inizialmente tra di noi ci fu silenzio, ma il mio cuore presto iniziò a far da colonna sonora. Meg mi guardava sorridendo e lui impazzì iniziando a battere freneticamente. Quando si alzò dalla sedia, sperai e credetti che stesse venendo da me per abbracciarmi, ma la sua direzione era un'altra.

- Ehi! Metti giù le mani da quel detersivo. - La raggiunsi in un salto e le tolsi di mano tutto. - Che vorresti fare? - Le dissi in tono scherzosamente minaccioso.
- Chi cucina non lava i piatti. - Rideva sporgendosi cercando di riprendersi la bottiglia verde del sapone per i piatti. 
Rideva e continuava a sforzarsi di arrampicarmisi addosso per riconquistare ciò che aveva perso. Ridevo anch'io e continuavo a spostare il braccio per non farglielo raggiungere. Poi, fu un lampo.

Ci guardammo negli occhi e il suono delle risate cessò. Di nuovo, solo il battito del mio cuore faceva da sottofondo a quella stanza silenziosa e che improvvisamente mi sembrava troppo grande, troppo aperta, troppo luminosa. Avrei voluto abbassare le luci, lasciarne giusto un raggio delicato che disegnasse i suoi lineamenti ed illuminasse i suoi grandi occhi per poi infrangersi nei suoi ricci lasciati liberi.
Lei sorrise, intimidita e con le guance rosse. Scese dalle punte e abbassò le braccia. Distolse lo sguardo e poi tornò a posarlo dentro di me donandomi un nuovo brivido. 
- Mi mancherai. - E a me mancò il fiato. 
Lo sussurrò appena e a stento percepii le sue parole. Avrei voluto chiederle di ripeterle, per sentirmi di nuovo il respiro bloccato e il cuore balzare giù da un cornicione. Ma non ci fu bisogno. Erano già incise sul nastro del mio cuore e le sentii altre mille volte.
Mi abbracciò in silenzio, stringendomi. Chiusi gli occhi. Mi persi nel profumo dei suoi capelli e mi ritrovai su una spiaggia notturna, sotto la pioggia, a far l'amore con lei.

La stazione era affollata, piena di ragazzi come me che tornavano a casa per le vacanze, ma io non ci badavo. Io ero solo, immerso nel freddo. Freddo fuori e freddo dentro. Quel freddo che ti prende il cuore e lo stomaco quando non hai la risposta a nessuna delle tue domande. Io continuavo a chiedermi cosa significavano le parole di Meg, cosa voleva farmi capire il suo abbraccio. Mi accorgevo sempre più di quanto fosse complicata la sua mente, piena di contraddizioni, ma continuavo a giustificarla. Mi illudevo che stesse combattendo contro sè stessa, che si forzasse a non ascoltare i suoi sentimenti che la spingevano verso di me. Ma poi scuotevo la testa ed guardavo in faccia la realtà. Era appena uscita da una storia lunga e difficile. Aveva bisogno di libertà, non di altri legami. Ed io ero stato per lei una piccola libertà. Puro sesso insieme a una persona che già conosci, vantaggi senza seccature. 
Il mio autobus arrivò in anticipo, permettendoci per una volta almeno, di poggiare le valigie senza fretta. Fui tra i primi a salire per prendere posto così ebbi la facoltà di scegliere dove sedermi. Scelsi di posteggiarmi quasi alla fine, dal lato finestrino. Speravo che il posto accanto al mio non fosse occupato da nessuno, ma era quasi impossibile che succedesse. Già si poteva considerare una fortuna se non fosse rimasto qualcuno in piedi per tutto il viaggio con quella confusione. Infilai le cuffie alle orecchie, sotto il cappuccio della felpa, e mi appoggiai al vetro osservando la folla che si allargava, formando quasi dei piccoli rami di ciliegio, per riversarsi all'interno dei pullman.

Vibrò il cellulare. Restai sorpreso nel leggere il nome di Meg sullo schermo. Aprii il messaggio e quello che lessi mi stupì ancor di più.
"Parti adesso, giusto?"
Le risposi in fretta. "Sono già sull'autobus. Aspetto che parta."
Tornai a voltarmi verso l'esterno. La folla era ormai del tutto scomparsa, mentre gli autobus si erano riempiti. Anche sul mio c'era già più gente del previsto. Una ragazza dai lunghi capelli castani e i grandi occhi verdi mi chiese se potesse prendere il posto accanto al mio. Vi si sedette ed estrasse un netbook dalla tracolla. Per qualche istante studiai il suo volto, cercando di essere discreto. L'avevo vista parecchie volte a lezione, ma era una sorpresa scoprirla lì su. Di nuovo vibrò il cellulare. Era un altro messaggio di Meg.
"Voltati."

Confuso, rilessi molte volte quell'unica parola. Mi voltai istintivamente verso la ragazza che mi guardò sorridendo un po' imbarazzata. Probabilmente avrà pensato che fossi un matto e senza dubbio la mia espressione lo suggeriva. Iniziai a cercare con lo sguardo per tutto il pullman non sapendo bene in realtà cosa mi aspettassi di trovare. Di nuovo mi voltai verso il finestrino e finalmente la vidi.
Meg era al centro della piazzetta di sosta. Da sola, col cellulare in mano, mi guardava immobile. Mi appoggiai al vetro schiacciandoci contro i palmi. Poi mi alzai in piedi cercando di aprire il finestrino che non si schiodò di un millimetro. Vidi Meg abbassare lo sguardo e dopo poco il cellulare vibrò nuovamente.
"Tranquillo, volevo solo salutarti. Speravo di arrivare in tempo."
Era lì solo per salutarmi. La mia reazione fu ovvia. Volevo scendere e andare da lei. Al costo anche di perdere l'autobus e dover riacquistare il biglietto che ormai era già stato timbrato e reso invalido per altre corse. Ma non potevo. Ormai il corridoio dell'autobus era intasato e l'autista aveva già chiuso le porte. Tornai a guardare fuori, con lo sguardo che ormai più che matto sembrava proprio quello di un invasato. 

Lei non c'era già più. Era scomparsa nel nulla. Come il miraggio di una oasi per un viaggiatore assetato, mi aveva lasciato con la delusione di avere in mano solo un pugno di sabbia. Presi di nuovo il cellulare e rilessi i messaggi, solo per avere la prova di non aver sognato tutto. Ricaddi sul sedile colpendo sbadatamente la ragazza seduta accanto a me col gomito.
- Farai così per tutto il viaggio? - Mi chiese nervosa, sbuffando e chiudendo in malo modo il coperchio del netbook. 
- Scusami. - Mi limitai a dire e mi voltai di nuovo verso l'esterno, mentre l'autobus iniziava a muoversi. 
- Era la tua ragazza? - Mi chiese con un tono decisamente più dolce, dopo qualche minuto di viaggio.
La guardai. Aveva in viso un'espressione dispiaciuta, come se volesse scusarsi di essersi posta così nevrotica nei miei confronti. - No, era un'amica. -
Distolsi lo sguardo, prendendo a fissare lo schienale del sedile di fronte. Dopo qualche altro istante di silenzio mi parlò di nuovo. - Sei di Informatica, vero? - 
Stavolta sorrideva. Aveva un bel sorriso, anche se dei denti così dritti probabilmente erano frutto di anni di apparecchio. - Sì, siamo colleghi? -
- Sono di primo anno. -
- Si capisce. - Dissi indicando lo schermo del netbook che aveva riaperto. A tutto schermo si poteva vedere benissimo la finestra dell'editor che consigliavano di usare per programmare durante i primi tempi, uno di quelli che abbandoni appena inizi a capire che è un giocattolo rispetto a quelli seri.
- Tu a che anno sei? -
- Al secondo. -

Continuammo a parlare per buona parte del viaggio, senza mai presentarci ufficialmente. Sembrava una ragazza simpatica, anche se forse un po' troppo pignola. Mi ricordava tanto Terry, anche se fisicamente si trovava diametralmente all'opposto. Una matricola in piena regola, che è ancora presa dall'emozione di essere un'universitaria e, soprattutto, una fuori sede. Scese dall'autobus ad un paio di fermate dalla mia, al paese precedente. Mentre mi salutava prima di scendere mi disse di chiamarsi Arianna ed io raggelai. 
La storia del gomitolo di lana dato a Teseo mi aveva sempre affascinato fin quando lo avevo studiato alla scuola elementare. Portava il nome di un personaggio mitologico greco, così come Meg. Non avevo mai creduto tanto al destino, ma qualcosa mi disse che quella ragazza che si era seduta accanto a me stava a significare qualcosa. Non poteva essere un caso, o semplicemente ero io che volevo leggerci qualcosa di più dentro. Un segno, un indizio. Un simbolo.

- Sei troppo silenzioso stasera. - Daril mi diede una generosa pacca sulle spalle, scuotendomi dal torpore in cui mi ero rinchiuso. 
Seduto all'interno del solito locale, con il boccale di birra ormai vuoto tra le mani, mi ero perso a pensare alla mia teoria su Arianna. Volevo convincermi che fosse un segno del destino che mi indicava il mio futuro accanto a Meg, ma ogni minuto che passava senza che lei si facesse viva mi crollava addosso pesante come un anno di sofferenze. 
- Non sono molto di compagnia stasera, scusa. - 
- Se volevi restare a casa potevi dirlo bene, eh! -
Eravamo da soli al nostro tavolo. Gli altri sarebbero arrivati molto più tardi e mio fratello aveva organizzato una bella seratina con Diana. Avevo convinto Daril a vederci prima per poter passare un po' di tempo insieme dato che negli ultimi mesi ero praticamente scomparso dalla circolazione. Ed invece mi ero ritrovato a fare la mummia, lasciandolo solo a guardarmi immerso nei miei pensieri.
- Ti sei preso troppa aria di città? - Mi disse, innervosito. 
- Che centra l'aria di città ora? Sono solo un po' stanco. -
- Raccontalo a quel tizio laggiù. Forse lui ti crede. - 
Mi scrutò coi suoi occhi azzurri che dimostravano molto più affetto di quello che volesse rendere pubblico. Lo guardai, sorridendo nervosamente. Mi aveva beccato. Non potevo nascondergli niente. Per lui ero un libro aperto ormai. Riusciva a capire come stavo quando nessuno avrebbe potuto sospettarlo. Percepiva ogni mio minimo mutamento e spesso riusciva perfino a prevedere le mie reazioni nei minimi dettagli.

- Ancora quella ragazza? -
- Già. Mi ha incasinato. -
- Wow! Non ti avevo mai visto così per una tipa. - Appoggiò i gomiti al tavolo dopo aver fatto cenno al ragazzo di portare altre birre. - Non te l'ha ancora data, eh! Questo è il problema. Tu hai bisogno di una santissima scopata con la 's' maiuscola! -
Risi. - No, credo non sia quello il problema. -
- La mancanza di sesso è sempre il problema! - Disse con la sua comica aria da lord inglese facendo ruotare il boccale di birra appena arrivato come fosse un bicchiere di cognac.
Risi di nuovo. Non gli avevo ancora raccontato nulla. - Il problema invece è proprio il contrario, caro maniaco. -
Si fermò, spalancando la bocca e gli occhi. - No! - Iniziò a sorridere come un ebete. - Te la sei fatta! -
- Diciamo di sì. - 
- Brutto stronzo. - Poggiò la birra e mi diede un pugno fortissimo sulla spalla. - E per quanto tempo volevi tenermelo nascosto? -
- Non te l'ho tenuto nascosto. Non abbiamo avuto modo di parlarne. -
- Ma tu dovevi chiamarmi subito dopo e raccontarmi tutto. Com'è? Brava? Ci sa fare? Conosce qualche bel giochetto? -
- Sai che non parlo di queste cose. - 
- Certo! - Disse prendendomi in giro. - Dimenticavo che sei il grande Casanova che non vuole svelare i suoi segreti. -
- Non è questione di segreti e dovresti saperlo. -
- Ah vero! Tu sei un 'genteman'. - Mosse le mani imitando un buffo inchino.
- Si dice gentlemen. -
- Genteman o gentlemen, ti sei scopato mezzo paese meno di due anni fa. E tutto in un mese e mezzo. Non venire a fare il pudico con me ora! Sputa il rospo. -
- Posso dirti solo che avrei preferito non farlo. - Gli dissi diventando nuovamente pensieroso.
Anche lui si incupì. - E' stato così terribile? Che c'è? E' una di quelle che non si depilano? O è proprio imbranata? -
- No, no. E' stata fantastica. Il miglior sesso della mia vita, credo. E poi è stata una situazione bellissima proprio. Eravamo sulla spiaggia e pioveva. -
Probabilmente il mio sguardo si illuminò di una strana luce romantica che Daril non era abituato a vedermi, perché mi bloccò facendo una smorfia disgustata. - Ok, amico. Ho cambiato idea. Non voglio sentirla questa storia. Ho paura che tu mi dica che all'improvviso è spuntato pure quello col violino per fare la colonna sonora. E smetti di fare quella faccia da pesce lesso! Ti prego. -
Sorrisi a quella reazione. - Comunque, non è stato il sesso il problema. -
- E quello l'avevo capito. Ci mancava poco che mi ti eccitavi di nuovo solo raccontandolo. Qual è il problema allora? -
- Che questa ragazza riesce a confondermi. Un attimo prima mi guarda come se fossi l'amore della sua vita, quello dopo non mi calcola, l'attimo successivo sembra quasi che abbia paura di me e quello ancora dopo mi parla come se volesse essere mia amica. Giuro che non ci sto capendo più niente. -
- Ah, figurati io! - Mi disse guardandomi di nuovo con aria sconcertata. - Non sarà mica una di quelle schizzofreniche che cambiano personalità, vero? -
- Non credo. -
- Fai una cosa. Se vuoi scopartela e basta, scopaci. Ma non mettertici dentro se prima non la fai parlare con un bravo psichiatra! - 

La sua era solo una battuta, ma probabilmente a Meg parlare con uno psicologo non avrebbe fatto male. Se non altro l'avrebbe aiutata a superare i traumi passati. Il problema, però, era che io non potevo non mettermici dentro. Io c'ero già dentro. Con la testa, con il cuore e con qualsiasi altro organo.

- Auguri! - Il grido si levò in mezzo al rumore causato dai fuochi d'artificio. 
Era appena scoccata la mezzanotte ed eravamo tutti riuniti sulla grande terrazza che sovrastava il tetto del palazzo in cui abitavamo. I miei genitori, insieme ai nonni e agli zii, erano rimasti in casa, mentre tutti noi cugini ci eravamo riuniti per guardare i festeggiamenti da lì. Diana era con noi, rinchiusa in uno stupendo tubino blu elettrico costellato di giochi di luce che mettevano in risalto il suo stupendo corpo. Bepi, al suo fianco, era raggiante come non l'avevo mai visto e sembrava anche regger meglio la fatica. Era stato in piedi per la maggior parte della serata, ma non accennava ad esser stanco. Ogni tanto passava una piccola smorfia di fastidio sul suo volto, ma gli bastava guardare la sua ragazza in tutto il suo splendore e in meno di un secondo quella smorfia era già solo un brutto ricordo. 
Sarebbe passato ancora poco prima che ognuno di noi lasciasse casa per continuare i festeggiamenti con gli amici e tutti sprizzavano l'allegria tipica di un Capodanno in casa Liotta. Anche persone che durante l'anno non riuscivano a sopportarsi deponevano l'ascia di guerra per quella sera e ti ritrovavi a far finta di avere la famiglia perfetta, almeno una volta l'anno. Anche mia madre fingeva come tutti. Aveva indossato un bellissimo abito rosso scuro che le cadeva morbido sui fianchi, disegnando le sue forme ancora femminili, e si scollava morbidamente evidenziando il suo seno prosperoso. Aveva raccolto i capelli e, dopo anni, si era truccata. Emanava una luce incredibile e non riuscii a non pensare a quanto ancora fosse bella e donna. Stette tutta la sera al fianco di mio padre, sorridendo come se fosse la donna più felice del mondo, mentre lui era il solito taciturno ed egoista. Non fece proprio nulla per sembrare un po' più felice o almeno normale quella sera.
Ed io? Io fingevo. Fingevo di essere sereno ed allegro, felice di dare il benvenuto ad un nuovo anno pieno di buoni propositi. Ma ormai non mi veniva più difficile. Da più di una settimana fingevo di star bene, di averla superata, di non pensarci già più, di essere 'lontano dagli occhi, lontano dal cuore'. Invece ci pensavo ancora. Pensavo a lei, a quanto era bella e dolce, a come era riuscita in tempo record a entrarmi nella pelle. Pensavo a lei, venuta alla stazione per salutarmi e sparita nel nulla. Lei, che non aveva risposto al mio messaggio per ringraziarla, che non avevo più sentito da quel giorno. Guardavo la città illuminata a giorno da luci e spettacoli pirotecnici e mi chiedevo cosa stesse guardando lei in quel momento, se mi stesse pensando. Scrollai la testa per tornare alla realtà e mi tuffai nella fiumana dei miei cugini che ancora si scambiavano baci ed abbracci per farsi gli auguri.

- No, ragazzi! Vi prego. Cerchiamo una serata più adatta a noi. Metal, rock, qualcosa di decente insomma. - 
Implorai i ragazzi che volevano, per il secondo Capodanno consecutivo, trascinarmi ad un festino a sbarco stile raggae. Nessuno, però, mi dava ascolto. L'unico del gruppo a cui interessava ascoltare un po' di musica decente sembravo essere io. Tutti gli altri cercavano solo una cosa: ragazze. Possibilmente belle e dalla mentalità (e non solo) aperta. Si sa, no? Chi fa l'amore a Capodanno, fa l'amore tutto l'anno. Non cercavano di certo l'amore della loro vita, ma non avrebbero rifiutato di certo delle ragazze che volevano divertirsi. E quel posto era una manna dal cielo per chi cercava avventure da una notte. Ed in più c'erano fiumi di birra gratis. Tutto quello l'anno precedente mi era costato una settimana di litigio con Miriam. Una ragazza mezza ubriaca era venuta a gettarsi tra le mie braccia e lei non c'aveva visto più dalla rabbia. Invece di prendersela con lei, però, se la prese con me che non avevo nemmeno provato a guardarla. 
- Di cosa abbiamo parlato mille volte in questi giorni, Cris? Ancora non hai capito? - Mi chiese Daril, portandomi un braccio intorno al collo. - Devi trovarti una ragazza che ti faccia passare di testa questa mezza pazza di Meg! Apri gli occhi e guardati intorno. - Inutile negare che per quanto mi fossi sforzato lui riusciva sempre a capire cosa mi passasse per la testa. 

Mi lasciai convincere a seguirli, ma arrivati sul posto mi guadagnai un posto a sedere sul divano accanto al dispenser della birra e lì mi piantai. Con ancora indosso l'accoppiata camicia grigio fumo e cravatta bordeaux, che avevo solo leggermente allentato, utilizzate per la cena di famiglia, sopra i jeans scuri, potevo quasi confondermi in mezzo alla gente piuttosto fighettina che era rinchiusa in quella villa. Ma la cosa non mi faceva piacere più di tanto. Sarei facilmente passato per un figlio di papà altezzoso e non mi andava minimamente. Tolsi del tutto la cravatta e la arrotolai per infilarla nella tasta del giubbotto di pelle. 
Gli altri ragazzi erano spariti in cerca di prede e ogni tanto li vedevo tentare un approccio con quelle che sembravano le più disponibili, ricevendo quasi sempre in cambio un bel due di picchie. Solo Daril sembrava aver puntato la ragazza giusta e star usando le giuste tecniche. Io, fortunatamente o meno non saprei dire, non fui stuzzicato da nessuna per un bel po' di tempo. Potei così godermi la birra e fare uno dei miei "giochi" preferiti, quello di studiare i comportamenti degli altri per cercare di dedurne le intenzioni e di prevedere cosa avrebbero concluso a fine serata.

Erano passate un paio d'ore quando una nuova ondata di gente arrivò nella villa. Questa era parecchio diversa dal target che fino ad allora aveva avuto la festa e magicamente mi sentii molto più a mio agio. Si notava a mezzo miglio di distanza che erano un gruppo di metallari. Sembravano quasi essere capitati lì per caso. Per la maggior parte vestiti di nero, con moltissimi riferimenti a gruppi del settore. La maggioranza dei ragazzi portava i capelli abbastanza lunghi, mentre uno di loro aveva una cresta rosso-scolorito. Le ragazze erano un po' più mimetizzabili di loro, tranne una. La vidi di spalle. Aveva dei lunghi capelli castani che le arrivavano fino alla vita, lisci come chiudi ma lucenti e ben curati. La gonna corta a pieghe lasciava lo spettacolo di quelle gambe affusolate agli occhi di chiunque potesse goderne. Le calze nere, velate e appositamente strappate in alcuni punti, le coprivano poco e venivano protette solo da stivali a scarponcino che le arrivavano vicino al ginocchio. Portava poi un bustino, stretto dietro da un nastro di raso nero, che le lasciava soperte le spalle mostrando una stupenda libellula in bella mostra sulla scapola sinistra, mentre le braccia erano coperte da una rete nera piuttosto larga. Quando si voltò vidi che aveva anche altro in bella mostra. Il bustino, infatti, le faceva risaltare il seno come una dama d'altri tempi. Era bella da togliere il fiato, il tipo di ragazza che avevo sempre sognato da ragazzino. Il suo viso non era da meno. I lineamenti erano delicati, le labbra erano rese lucide da un filo di gloss e gli occhi erano sottolineati da un'abbondante dose di eyeliner che ne evidenziava il taglio felino. Restai per un attimo senza fiato.
Improvvisamente sembrò puntarmi ed iniziò a camminare verso di me. Si gettò sul divano, nel posto lasciato vuoto solo pochi attimi prima, mentre io continuavo ad essere come ipnotizzato da quegli occhi. 
- Ciao collega. - Mi sorrise assumendo un'espressione dolce in netto contrasto con tutto il resto. 
Restai interdetto a cercare di capire dove l'avessi già vista e perché mi chiamasse in quel modo. - Ciao. - Riuscii a trascinare almeno quella parola.
- Non mi riconosci? - Mi chiese, ridendo.
- Veramente io... - Improvvisamente ebbi come un'illuminazione. Ricordai quei denti, così perfetti da dover essere passati sotto un apparecchio, e ricordai quegli occhi verdi. Tutto il resto era irriconoscibile. - Arianna? -
- Già! Sono un po' diversa dalla tenuta per autobus, no? -
- Eh, abbastanza! - Ancora non riuscivo a crederci che quella bomba sexy fosse la stessa ragazza dal viso pulito che avevo incontrato durante il viaggio di ritorno a casa.
- Anche tu sei diverso. Molto più... più... -
- Fighetto? - Completai la frase per lei indicando la camicia. 
- Esatto! -
- Mi rompevo a cambiarmi dopo la cena coi parenti. E tu? Questo mutamento? -
- Non è un vero mutamento, ma mi vesto così solo per uscire con gli amici. Evito di arrivare in facoltà con il look da Mortisia sexy. Già è abbastanza difficile per una ragazza normale dentro la nostra facoltà così maschilista. -
- Agli esami però potrebbe aiutarti! - Risi.
Lei mi fulminò con lo sguardo. - Preferisco essere bocciata che non prendere un 30 grazie alle tette! -
- Ehi, non ti scaldare. Stavo scherzando. -

- Ari, vieni! - Una ragazza bionda che portava dei leggins neri con sopra una bella maglietta in pieno stile rock e gli occhi truccati di nero si avvicinò per portarla via. - I ragazzi vogliono andare. Dicono che abbiamo sbagliato indirizzo. -
Arianna si guardò intorno e rise. - E c'è voluta mezz'ora per accorgersene? -
- Andiamo e basta. Già non sopporto loro, non voglio sentire pure te e le tue esaltazioni da genio. - La bionda si voltò guadagnando l'uscita.
- Ciao collega, io vado. - Mi disse alzandosi. - Comunque, io mi sono presentata e tu non mi hai neanche detto come ti chiami. Bello educato devi essere. - Mi lanciò uno sguardo a metà tra il sarcastico e il divertito. 
- Chiamami Cris. -

Non mi rispose. Si voltò e andò via. Non potei fare a meno di fissare le pieghe della sua gonna sobbalzare ad ogni suo passo. Immediatamente si materializzò una scena nella mia mente.
Meg con indosso la gonna a pieghe di tartan verde e il cardigan nero sopra la camicetta bianca. Quella sera di un mese prima, quando avevo fatto a pugni per staccarle di dosso il calciatore che voleva rimorchiarsela da ubriaca. Quando poi aveva dormito da me insieme a Ludovica. Quel ricordo mi riportò i brividi a fior di pelle. Mi convinsi ancor di più che Arianna fosse per me un segno. Era la seconda volta che l'incontravo e per la seconda volta mi aveva riportato in mente lei. Non poteva essere un caso. Era strano considerare una sconosciuta come una guida, eppure sembrava quasi esserlo diventata. Era un cartello stradale con la freccia che puntava verso Meg e sopra portava la scritta "Futuro".
Estrassi il cellulare. Volevo mandarle un messaggio, farle gli auguri, cercare una scusa come un'altra per farmi rispondere. Non ne ebbi il tempo. Mentre lo estraevo dalla tasca del giubbotto, vibrò per l'arrivo di un messaggio. Di un suo messaggio. E per un attimo credetti che fosse merito di quella ragazza sconosciuta.

"Che il nuovo anno sia migliore del precedente." Il solito messaggio di auguri da copia-incolla a tutta la rubrica. Non posso nascondere che la mia reazione non fu positiva. Anzi, ci restai parecchio male. Mi sentii come se il mio ricordo fosse per lei solo un foglio scarabocchiato. Lo aveva preso, appallottolato e gettato via dal finestrino dell'auto in corsa. Solo che quello non era uno scarabocchio, ma il mio 'ti amo' per lei. Mi venne l'improvvisa voglia di lanciare il telefono il più lontano possibile da me, senza pensare se sarebbe andato distrutto contro una parete o in testa a qualche fighetto mezzo ubriaco. Volevo solo cancellare il ricordo di quel messaggio così freddo e distaccato. Avrei preferito mille volte non ricevere nulla da lei. Era meglio chiedersi se mi stesse pensando che non avere la conferma di essere solo uno dei tanti nomi in rubrica.

Vidi Arianna sfrecciarmi di fronte, urtandomi e rischiando di cadere. Voleva indicarmi qualcos'altro?
- Ma non eri andata via? - Dovetti alzare la voce più del solito perché il volume della musica era diventato molto più alto.
- Il mio amico ha dimenticato le chiavi della macchina sul tavolo. - Iniziò a frugare dentro la confusione che regnava sovrana facendo dubitare addirittura che lì sotto ci fosse stato una volta qualcosa che assomigliasse a un tavolo.
- E devi sistemare tu i casini che fa lui? - Mi alzai e mi misi di fianco a lei, impegnata a scostare bicchieri vuoti e bottiglie.
Si rialzò soddisfatta, facendo penzolare davanti agli occhi un mazzo di chiavi tenuto insieme da un geco di metallo verde. - Non le avrebbe mai trovate. - Mi guardò lanciandomi un sorriso terribilmente sensuale. - E poi non potevo farmi scappare l'occasione di salutarti di nuovo. -
Rapidamente si lanciò verso di me, poggiandomi le mani sulle spalle e sollevandosi sulle punte per baciarmi la guancia. Sentii le sue labbra morbide, umide e leggermente dischiuse premere contro la mia pelle sbarbata di fresco. Di nuovo, la prima cosa a venirmi in mente fu Meg.
- Se vuoi divertirti davvero, vieni con me. - Fece scivolare le parole dentro al mio orecchio, con voce maliziosa e facendo sapientemente sfiorare alle sue labbra il mio lobo.
Si scostò e vidi che i suoi occhi verdi contornati di nero non sembravano più quelli di una ventenne, matricola, dedita allo studio in maniera quasi ossessiva. Il mio sguardo si posò anche sul meraviglioso spettacolo del suo seno stretto in quel bustino e quando si voltò non potei far a meno di notare la stupenda curva che la sua schiena, stretta da quei nastri, disegnava. Ancora una volta mi venne in mente Meg, il suo viso così pulito e dolce quanto dannatamente bello, il suo corpo che non aveva bisogno di corsetti per disegnare delle linee perfette, i suoi occhi che sapevano trasmettere passione senza essere aiutati da dose pesanti di eyeliner. Arianna rappresentava la ragazza ideale così come la sognavo quando ero più giovane, per una notte da ricordare a lungo. Meg era la donna che avrei voluto al mio fianco, per una vita intera.
Ma Meg non era lì per me. Meg non era lì a propormi di seguirla. Meg era distante chilometri e il mio pensiero non la sfiorava nemmeno. Ero così poco importante per lei da non meritare neanche un messaggio d'auguri personale. Ero uno di quelli a cui li mandi per educazione, non di cuore. Lei non c'era e io dovevo rassegnarmi a cancellarla.
Improvvisamente non consideravo più Arianna come un segno che Meg sarebbe stata davvero la donna della mia vita. Era diventata un segnale indicante che dovevo dimenticarla. Il cartello adesso puntava verso di lei e diceva "Seguimi".

Arianna si fermò sulla soglia e si voltò a guardarmi invitandomi ancora con un gesto della mano. Misi a tacere quella grande parte di me che continuava ad urlarmi che stavo facendo un'enorme cazzata, afferrai il giubbotto di pelle che avevo lasciato sul divano e la seguii. Lei mi sorrise e appena le fui accanto mi afferrò la mano e mi trascinò via da quella casa.
Appena fuori la porta d'ingresso intravidi Daril insieme alla ragazzaa che aveva puntato. Gli urlai che stavo andando via. Lui mi guardò un attimo interdetto. Probabilmente non si era accorto che ero io dato il buio che regnava. Quando mi focalizzò, alzò il braccio per salutarmi e si rituffò tra le braccia della tipa.

- Fermati! - Lo dissi un po' troppo forte forse.
Arianna sobbalzò quasi impaurita per un attimo. Poi sorrise di nuovo maliziosa, continuando ad accarezzarmi i bottoni dei jeans.
Era arrivata a sbottonarne solo un paio, quando d'improvviso avevo sentito che non potevo. Volevo. O meglio, avrei voluto volerlo. Arianna era bellissima, sensuale ed estremamente esperta nel far impazzire gli uomini per una ventenne che sull'autobus di ritorno pochi giorni prima mi era sembrata tutta libri e studio. Eppure continuavo a pensare a Meg. Ogni volta che guardavo il suo viso e capivo che non c'era lei con me, qualsiasi cosa facesse il mio fisico non le rispondeva. Si era perfino spogliata quasi del tutto, rivelando un fisico splendido e della biancheria intima di raso e pizzi vari. Ma nulla aveva potuto risvegliare le mie voglie.
Il fatto che Meg avesse tutto questo potere su di me mi deprimeva. Si era presa il mio cuore, la mia mente, il mio corpo. Niente aveva senso senza lei accanto, neppure il buon caro sesso occasionale. Ed in più dovevo subire l'umiliazione che solo l'orgoglio maschile può conoscere, di non riuscire a combinare nulla nonostante una stupenda ragazza in bianchieria intima ti si porga su un piatto d'argento. Ma quello era nulla rispetto all'avvilimento che derivava dall'essere consapevoli di essere in balìa di una persona che era con me fredda e distaccata.
- Dai, non ti mordo mica. Anzi, voglio farti qualcosa che ti piacerà un sacco. - Insistette Arianna, facendo uscire un altro bottone dall'asola e leccandosi le labbra in modo che voleva essere provocante ma che risultò solo volgare.
Le presi le mani e le allontanai dai miei jeans, richiudendoli in fretta. Mi alzai dal divano su cui ero seduto. Eravamo andati a casa sua. Mi aveva spiegato che era libera dato che i genitori per tradizione passavano tutta la notte in casa di una sua zia materna, rincasando solo per la cena del giorno successivo. L'avevo seguita con tutte le intenzioni di riprendere, almeno per una notte, le mie vecchie abitudini d'avventuriero. Ma mi ritrovavo a volermi tirare indietro.
Si alzò da terra, fermandosi davanti a me con le mani poggiate sui fianchi e l'aria incazzata. - Che hai intenzione di fare? -
- Andare via. - Dissi mentre raccattavo da terra la camicia e la rinfilavo.
- Cosa? - Tentò di fermarmi le mani, mentre mi abbottonavo, ma io le scostai. - Che stai dicendo? Mi sembrava che tu... -
- E invece no. - Non le feci neanche completare la frase. Avevo già abbottonato quasi tutta la camicia e cercavo con lo sguardo la cravatta, finita chissà dove.
Lei mi guardò in silenzio, quasi sbalordita. Poi sbuffò. - Sei uno stronzo lo sai? - Mi disse in tono di rimprovero.
- Ah sì? Credevo di stare dimostrando il contrario. - Restai calmo e continuai a cercare la cravatta.
- Sei uno stronzo, invece. - Ormai urlava, in preda ad una rabbia che non mi seppi giustificare. - Bel piano, complimenti. I tuoi amici ti hanno visto venire via con me e i miei ci hanno accompagnato qui. Tutti sapevano che avremmo scopato! Tutti lo stanno pensando! E invece tu che fai? Ti tiri indietro! Cos'è? Dovevi dimostrare che puoi farti chi vuoi oppure di non essere frocio? -
Mi aveva sputato in faccia ogni parola come se fossero proiettili avvelenati, sperando di ferirmi. Io non le risposi e mi ficcai in tasca la cravatta che avevo finalmente trovato. Vedendomi voltare per guadagnare l'uscita si scaraventò su di me, cercando di bloccarmi. - Sappilo. Dirò a tutti che non hai fatto niente con me. Lo sapranno tutti. Anzi, dirò che ti vergognavi anche a farlo vedere perché sei dotato come un bambino di tre anni. La tua reputazione è rovinata se esci da quella porta. -

Quella sua reazione fu una specie di illuminazione. Quella che io avevo scambiato per un segnale, un simbolo quasi mistico inviato da una sorgente superiore per indicarmi il mio destino con Meg, in realtà era solo una delle tante che cercava una scopata la notte di Capodanno. Una ragazzetta che niente aveva a che fare con la mia Meg, anche se non le interessavo. Ero uscito dal giro di ragazze che si concedono troppo facilmente e ragazzi che ne cambiano anche due o tre a serata. Non volevo rientrarci. Sorrisi sarcastico guardandola. Probabilmente stava soffrendo più di me perché sapeva che se io lasciavo quella casa lei avrebbe passato la notte in bianco. Forse le sue parole erano state così dure nella speranza che il mio orgoglio ferito mi portasse a spogliarmi e a prenderla sottomettendola, per dimostrarle quanto maschio sapevo essere. Ma non sapeva che il mio orgoglio era già stato ferito quella sera e di una ferita molto più grave. 
La scostai e arrivai in pochi passi alla porta d'entrata. Presi il giubbotto di pelle che giaceva a terra e controllai che dentro ci fosse ancora il telefono. Poi uscii dalla casa, lasciando la porta sbattere alle mie spalle.

La casa di Arianna era molto distante dalla mia, perciò avevo telefonato a Daril per chiedergli di venirmi a prendere. Accettò, approfittando dell'occasione come scusa per uscire dal letto della mora che alla fine era riuscito a farsi. Era una scusa banale a cui nessuna avrebbe creduto, ma lui non era tipo che riusciva ad uscire dal letto salutando e basta.
Mentre aspettavo avevo iniziato a camminare restando sulla strada che avrebbe percorso, per incontrarlo più avanti nella via.
- Che ti ha combinato quella? - Mi chiese visibilmente su di giri. - Giochini sadomaso? Ti ha frustato? Sembrava una dominatrice in piena regola! Ora mi racconti tutto. -
- Sai che non le racconto certe cose. - Gli ricordai guardando fuori dal finestrino mentre lui invertiva il senso di marcia.
- Ma la metà del divertimento è raccontarlo agli amici! - Mi disse supplichevole.
Scossi la testa ridendo. Accesi l'autoradio e gettai la testa indietro sulla testata del sedile, immergendomi nel metal puro di Painkiller. Per un attimo cancellai dalla mente Arianna, le sue proposte e le sue minacce. Cancellai il messaggio di Meg. Cancellai tutto ciò che mi aveva creato quella gran confusione in testa. Avevo bisogno di riprendere contatto con me stesso e solo in quel modo riuscii a farlo.

Passai da casa, ma ancora non era rincasato nessuno. Tutti gli adulti della famiglia si trovavano ancora al piano superiore, quello dove abitavano i nonni, mentre i miei cugini e mio fratello probabilmente erano sgattaiolati via per finire la notte altrove. Ero quasi sicuro che Bepi avesse preparato per Diana una serata speciale, perché nelle ultime sere lo trovavo spesso a navigare su siti che proponevano offerte speciali e particolarmente romantiche per la notte del Capodanno, adatte proprio a due piccioncini come loro. Perciò ero altrettanto sicuro che la casetta al mare che mio padre aveva comprato molti anni prima, quando noi eravamo bambini e quando ancora la scoperta della malattia di Bepi non l'aveva fatto pentire di aver procreato, fosse libera. Dopo tutto lo era perennemente da anni ormai. Per mio padre era diventata solo una spesa superflua e qualcosa di non importante, come tutto ciò che riguardasse noi e la nostra famiglia quindi. Mia madre, soprattutto negli ultimi tempi in cui lo stress l'aveva portata sull'orlo dell'esaurimento, avrebbe tanto voluto godersi qualche giorno di mare ogni tanto, ma il pensiero di dover pulire e risistemare tutto dopo anni di abbandono la deprimeva ancor più dell'idea di restare in paese. Mio fratello non poteva di certo arrivarci da solo e, comunque, l'idea di passare le sue giornate lì, dove neppure la connessione ad Internet potesse fargli compagnia, sicuramente non lo entusiasmava. Chissà, forse con la compagnia di Diana avrebbe ricominciato ad apprezzarla. Almeno come l'avevo apprezzata io durante le mie notti indecenti, quando, accalappiata la preda dovunque mi trovassi, la caricavo sul motorino e la portavo lì per sperimentare tutto ciò che il corpo ci avrebbe dettato di fare. E proprio per quello, al contrario di quanto pensasse mia madre, la casa era sempre stata tenuta in buone condizioni. Certo, non ottime come quelle a cui lei avrebbe auspicato, ma le parti necessarie, come cucina, bagno e camera da letto, erano senza ombra di dubbio almeno utilizzabili senza doversi schifare troppo. 

Quella sera la utilizzai per uno scopo diverso. Avevo voglia di rilassarmi lontano dai soliti pensieri e di liberarmi dei nuovi. Così, avevo chiesto a Daril di accompagnarmi lì per passare la notte. Non se lo fece ripetere due volte e decise di accodarsi a me per una bella notte passata sulla terrazza di casa a goderci birra e chiacchiere tra amici. 
Presi il doppione delle chiavi, che mi ero fatto fare di nascosto per non destare sospetti quando utilizzavo la casa, e scesi senza far rumore. Salii nuovamente in macchina e, prima di dirigerci verso il mare, deviammo verso casa di Daril per fare scorta di birra. 

La casa, pur essendo stata usata più di quanto non si sapesse in giro, era comunque impregnata dello strano odore che emanano i mobili di legno quando sono tenuti chiusi per troppo tempo. Appena entrati, quindi, aprimmo tutte le porte e le finestre. L'aria fredda invase le stanze ed in pochi minuti si gelava già, dentro le mura come fuori. Daril portò la cassetta di birra in terrazzo per farla freddare, dato che il frigo era una delle poche cose che non avevo avuto modo o bisogno di utilizzare e non era alimentato da moltissimi anni. Io, invece, iniziai a tirare fuori piumoni e lenzuola. Nonostante fosse una casa prettamente estiva, fortunatamente l'avevo usata spesso anche in inverno, specialmente il periodo in cui stavo con Miriam, perciò l'avevo ben rifornita di tutto ciò che ci sarebbe servito. 
Ci sedemmo in terrazzo, su sdraiette malandate e cigolanti e con addosso tre piumoni ciascuno, oltre al giubbotto. Ognuno con la sua birra in mano, ci perdemmo per un po' a guardare il mare in silenzio. Quel mare piatto e tremendamente scintillante non potè far a meno di ricordarmi Meg. Ero andato lì per non pensare a lei ed invece mi ritrovavo a rivivere tutte le meravigliose sensazioni che avevo passato con lei sulla spiaggia, dalla prima passeggiata a quando si era tuffata in acqua con la sola biancheria intima addosso. E poi, ovviamente, affioravano alla mente i mille cocktail di emozioni che mi avevano ubriacato facendo l'amore con lei. 
No, non andava bene! Dovevo distrarmi. Dissi di aver troppo freddo e chiesi a Daril di spostarci dentro. Lui accettò, ma credo che avesse capito il vero motivo per cui gliel'avevo chiesto. Dopo tutto, ero pur sempre un libro aperto per lui. 
Ci sistemammo sulle brandine che avremmo utilizzato per dormire, se l'avessimo fatto. La casa era immersa nel silenzio, vuota. Probabilmente sarebbe sembrato squallido a chiunque, ma noi sapevamo che bastava iniziare a parlare per rendere tutto essenziale. Sì, essenziale. Una di quelle serate che alla fine ti lasciano con la sensazione di aver bisogno di viverle per continuare a lottare con la vita. Tu, il tuo migliore amico e una birra ghiacciata. Non importa se estate o inverno, se si trema di freddo o si suda da far schifo. L'importante è parlare a ruota libera. Passare dalle osservazioni sul culo della nuova commessa della libreria a discorsi che i migliori filosofi ce li avrebbero invidiati. Estrarre teorie che regolino la posa che assumono i fenicotteri rosa e creare quelle che stabiliscano che misura e forma deve avere il seno perfetto. Quei discorsi che ci sarebbe bisogno di una dattilografa esperta che li trascriva parola per parola per capire come si è saltati da un argomento ad un altro perché registrarli e riascoltarli avrebbe solo peggiorato le cose. 

Daril si era addormentato di sasso mentre io esponevo la mia teoria sul perché la parola 'regalo' in inglese si traducesse con il termine 'present'. Erano ormai le sette del mattino, ma il cielo era ancora di un nero cupo. Mi sentii tanto mamma chioccia mentre gli rimboccavo il piumone e ne aggiungevo un altro sui piedi per evitare che gli si gelassero. Anche io iniziavo a sentire il sonno pesarmi sulle palpebre, perciò mi assicurai che tutte le imposte fossero chiuse e che la luce del sole, debole o forte che venisse fuori, non ci disturbasse. 
Mentre ero poggiato sulla brandina, che a differenza di quanto potesse sembrare era anche piuttosto comoda, mi passarono in mente le immagini delle pazzie che avevo vissuto tra quelle mura. Non solo quelle con le ragazze, ma anche quelle con gli amici e soprattutto l'infanzia con mio fratello, quando ancora ero io il piccolo di casa. 
Un sorriso di malinconia mi inarcò le labbra mentre rivedevo il piccolo me sulla piccola bicicletta rossa e bianca appena comprata. Bepi cercava di insegnarmi a pedalare senza rotolle, ma io cadevo rigorosamente ad ogni curva. Tornavo a casa urlando, con le ginocchia sanguinanti e qualche livido. Mia madre allora urlava contro di lui perché non voleva che insistesse tanto dato che ancora ero troppo piccolo secondo lei. Lui si mortificava ogni volta, cercando di giustifarsi, mentre io gli facevo la linguaggia sorridente e poi tornavo a far finta di piangere stringendomi alla gonna di mamma. Lui allora si arrabbiava tremendamente e andava via sbuffando. Dopo aver ricevuto abbastanza coccole e un bel cerotto colorato sui tagli un po' più aperti, lo andavo a cercare e lo trovavo sempre nello stesso posto. Seduto sull'ultimo gradino della scalinata. Cercavo di farmi perdonare abbracciandolo, ma lui mi teneva il muso per tutta la giornata. 
Ero uno stronzetto, il tipico fratello minore da prendere a calci nel culo. Ma lui mi voleva bene e alla fine mi perdonava sempre tutto. Cercava di proteggermi dai bulli che mi prendevano di mira perché ero grassottello, ma finiva solo per prenderle al posto mio. Faceva il fratello maggiore, finché le parti non si erano invertite. Scossi la testa a quel pensiero. In fondo, Bepi era arrivato al punto di svolta. Grazie a Diana aveva ripreso in mano la sua vita ed aveva finalmente iniziato a reagire. 

Controllai il telefono e passai almeno una mezz'ora buona cancellando messaggi di auguri preconfezionati da parte di persone che, avendone la possibilità, mi avrebbero volentieri eliminato dal pianeta. Colmo dei colmi, trovai perfino un messaggio di Miriam! E certamente non uno di quelli standard. C'era dentro tutta l'ipocrisia che avevo imparato a conoscere in lei. Con le sue parole tentava di sembrare superiore a me e al mio comportamento, che definiva 'a dir poco meschino', non capendo che in realtà erano solo la dimostrazione di quanto avessi ragione sul suo conto. Feci un sorriso beffardo e lo cancellai senza dargli ulteriore importanza. 
Poi trovai un MMS di Naki. Una foto di lei insieme a Daniele, con Brendon in primo piano insieme ai suoi due stupendi dentini. Sotto c'era scritto solo "Auguri zio Cris". Guardando quegli occhi verdi che non vedevo da troppo tempo, rischiai di commuovermi. Mi scattai lì per lì una foto immortalando una delle facce buffe che tanto lo facevano ridere e la inviai in risposta, ricambiando gli auguri.
Trovai poi auguri anche da parte della maggior parte degli "amici di città", come li chiamava spesso Daril. Ludo e Terry furono le più prolisse e le più toccanti. Mi ringraziavano per il tempo che avevamo passato insieme, anche se non era stato molto, e si auguravano di poterne passare ancora. Poi, entrambe, quasi si fossero accordate precedentemente, mi dissero che speravano che stessi bene perché la mia scomparsa quasi totale le preoccupava. Terry aggiungeva anche, scherzosamente, che non se l'era presa se quel famoso martedì avevo saltato la lezione e dopo non ero andata con lei ad informarmi per l'iscrizione al centro sportivo e che mi ci avrebbe trascinato dopo le vacanze per smaltire le calorie delle feste. Le loro parole riuscirono a scaldarmi il cuore. Erano la conclusione adatta per una serata di quel genere. Solo un messaggio di Meg avrebbe fatto di meglio. Velocemente risposi ad entrambe e poi mi sistemai meglio sotto il piumone.

Mi meravigliai di pensarlo, ma stavo bene. Staccare la spina e svuotare la mente mi aveva fatto bene. Tutto ciò che aveva rischiato di rovinarmi le prime ore dell'anno sembrava essere stato cancellato. No, forse cancellato è la parola sbagliata. Sembrava offuscato. C'era, esisteva, non era stato rimosso, ma sembrava lontano, ombra di anni passati. Stavo bene. Solo Meg avrebbe potuto farmi stare meglio.

- Pronto? - 
Il cellulare aveva iniziato a squillare mentre guardavo in streaming una puntata di Dexter. Inizialmente avevo cercato di ignorarlo, ma alla terza chiamata avevo messo la puntata in pausa per rispondere senza neppure guardare lo schermo.
- Ma buongiorno. Credevo fossi morto o giù di lì! - 
Prima di rispondere mi accertai, guardando il mittente della chiamata, di aver riconosciuto la voce. - No, Terry. Non sono morto. - Risi.
- Meglio così. Non voglio fare la relazione da sola! -
- Relazione? - Le chiesi, inarcando le sopracciglia come se potesse vedermi.
- Già. Ricordi? Quella cosa che dobbiamo consegnare per l'esame di Reti? -
Guardai il calendario. Ancora non avevo riafferrato il senso del tempo dopo la giornata di Capodanno passata a dormire. - Sì che mi ricordo, ma non è un po' prestino? -
- Prestino? Già è giorno tre! Dobbiamo consegnarla alla seconda lezione dal ritorno delle vacanze. -
- Appunto! Questo significa che dovremo consegnarla almeno giorno undici! Vuoi iniziarla adesso? - Chiesi stupito.
- Veramente volevo iniziarla già settimana scorsa, ma ho deciso di farti passre le vacanze in pace. -
Guardai sconvolto la cornetta, sperando che scherzasse. - Ti prego Terry. Dimmi che è uno scherzo e che hai chiamato tanto per fare due chiacchiere. -
- Scherzo? Perché dovrei scherzare? -
Ok, era seria! Mi aveva chiamato al cellulare, probabilmente spendendo un capitale in credito telefonico, per farmi mettere al lavoro sulla relazione. Era matta. Non riuscii a trattenermi dal ridere a quel pensiero.
- Perché stai ridendo? - Lei, invece, era piuttosto seria.
- Dai, Terry. Ti sei divertita durante queste feste? -
- Non più del solito. Famiglia di pallosi. - Non capii perché, ma quella frase mi fece tornare in mente la sera a casa di Marco, quando mi disse che solitamente le persone la cercavano solo per approfittarsi di lei in campo scolastico.
- Io invece ho passato un Capodanno assurdo! -
- Perché? -
Le raccontai di ciò che era successo. Nonostante non le avessi detto del messaggio di Meg e del motivo per cui avevo fermato Arianna, dopo aver riso di me e di ciò che mi era capitato, mi chiese di lei. - Non l'hai più sentita? -
- Chi? Arianna? E come facevo se non ho nemmeno il suo numero? E poi credo proprio che non sopravviverei ad un altro incontro come quello! Cerco altro da una ragazza. -
- Parlavo di Meg, io. -
Sentii l'istinto di deglutire, nonostante la bocca mi si fosse improvvisamente seccata. - No, non più di tanto. -
- Che significa non più di tanto? -
- Ho provato a mandarle qualche messaggio, ma non mi ha mai risposto. L'unico suo sengno di vita è stato a Capodanno. Mi ha inviato gli auguri. -
- Beh, almeno! - Lo disse come se fosse una cosa positiva. 
- Già. - 
Dovette sentire dalla mia voce che qualcosa non andava. - Dai Cris, probabilmente sarà stata impegnata. Durante le vacanze tutti i bambini sono a casa tutto il giorno e deve dare una mano alle istitutrici. -
- Credo di sì. - Improvvisamente ero diventato io la merda che pretendeva la risposta a un messaggio quando lei era impegnata? 
- Certo, scrivere un messaggio non le costa nulla, anche in ritardo. La sera, tipo. Dopo aver messo a letto i bambini. -
Terry con quella frase dal tono un po' incerto mi strappò un sorriso. Sembrava quasi non sapere cosa dire pur di farmi parlare. Tentativo fallito, riprovare. 
- Terry, tranquillizzati. Non è mica colpa tua! -
- Lo so, ci mancherebbe. Ma mi dispiace. -
- Ma non ci sto male, davvero. - Bugia, enorme bugia. - Solo che sono un po' confuso. Un giorno si comporta in un modo e il giorno dopo nell'esatto contrario. Credo che dovrei mettermi il cuore in pace e dimenticarla. - 
- Sai, Meg è una persona un po' particolare, ma è anche una delle migliori che conosca. Nonostante ciò che le è successo si è sempre fidata delle persone, anche troppo. E credo che adesso sia in una fase di transizione, che stia cambiando, che si stia rendendo conto che deve proteggersi. E per farlo deve andarci piano. Ma piano davvero. Solo che non c'è abituata e allora sbaglia. Si lascia andare troppo e se ne pente. Torna sui suoi passi e poi si lascia andare di nuovo. Non ha trovato l'equilibrio, ma credo che potrebbe trovarlo insieme a te. -

Tutto ciò che non avevo mai capito fino in fondo, riassunto in pochi attimi. Quella riflessione di Terry mi stupì profondamente. Avevo già imparato ad apprezzarla fuori dal suo stereotipo di secchioncella, ma parlando di me e Meg aveva sempre tentennato cercando più di assecondarmi per tirarmi su di morale che di dirmi la sua opinione. Invece quella volta era stata schietta e diretta, così limpida da sembrare una bambina. Sorrisi e non seppi trovare parole per risponderle. Poi le trovai.
- Quando sono partito è venuta alla stazione per salutarmi. -
- Davvero? - La cosa sembrò stupirla abbastanza.
- Già. Solo che io ero già sull'autobus. Ho cercato di scendere ma lei era già sparita. -
- Cacchio. - Fu l'unica cosa che disse.
- Credi sia per questo che non si sia fatta sentire? Secondo il ragionamento che hai fatto prima, filerebbe alla grande. -
- Già. Meg odia le partenze, anche quando si parte per poco tempo. Evita le stazioni come i lazzaretti degli appestati. Venendo si è sbilanciata. Deve averla incasinata troppo questa cosa. -

Quando parlò di sbilanciamento, mi tornarono in mente le parole di Daril. - Terry, ascoltami. Non credi che Meg dovrebbe parlare con uno psicologo? -
- Eh? Cosa? Uno psicologo perché viene alla stazione a salutarti e poi non ti risponde ai messaggi non ti pare un po' esagerato? -
- Ma no per quello! Non vorrei sembrare uno stronzo, ma con quello che ha passato, anche con Jeff intendo... -
- Jeff? Che centra Jeff? - 
Mi morsi il labbro. Avevo dimenticato che gli altri sapevano poco di Jeff. A nessuno avevamo raccontato come l'aveva conciata. Cercai di recuperare. - Beh, non la trattava benissimo. -
- In effetti, era un po' troppo rude. Non mi piaceva troppo. A dirti la verità abbiamo sempre avuto il sospetto che la trattasse male anche in privato. Sai, violenze e cose del genere. - Già, cose del genere. Cose del genere che l'hanno lasciata sanguinante sotto la pioggia. - Ma sono solo nostri sospetti. - Già, sospetti. - Non era proprio un bravo ragazzo di certo. Sembrava più un padrone. -
- Ma ti ricordi come cambiava improvvisamente lei davanti a lui? -
- Come dimenticarlo! -
- Ecco, di questo parlo. Credo che possa essere una conseguenza del trauma che ha avuto da bambina. Sai, quando ti inculcano che ti meriti di essere picchiata, non è facile farlo uscire di mente. -
- Su questo hai ragione. Ma non credi che lì in istituto abbiano già provveduto? -
- A quanto pare no, dato come si comportava con Jeff. Non credi? -
- In effetti, non posso darti torto nemmeno qui. Solo che lei non accetterebbe mai, lo sai, no? -
- Lo so, purtroppo. - Non era voluta andare in ospedale mentre sanguinava sul divano di Naki. Come avrebbe potuto accettare di raccontare tutto a uno psicologo?
- Forse Ludovica potrebbe riuscire a convincerla. Potremmo parlarne con lei appena torni. -
- Si può provare. - Avevo dei seri subbi sulla riuscita, ma un tentativo valeva la pena farlo. - Comunque, credo di aver portato la conversazione un po' fuori strada. - Aggiunsi ridendo. 

- Eh? Quale conversazione? -
- La nostra, no? Non avevi chiamato per la relazione? -
- Relazione? -
- Quella cosa che dobbiamo consegnare per l'esame di Reti. Ricordi? - La canzonai. Si era fatta prendere tanto dal discorso da dimenticare perfino il motivo per cui aveva chiamato.
- Ma chi se ne frega della relazione! Dobbiamo parlare di cose più serie! -
Risi sguaiatamente. - Ma come? Non eri tu a dire che eravamo già in ritardo? -
- Sì, l'ho detto. Ma tanto il Professore è innamorato di te e ci farà passare comunque. -
- Io invece dico che dobbiamo fare una bella relazione coi controfiocchi così potrai alzare il voto della prima prova in itinere. Non era quello che volevi? -
- Oddio! - Improvvisamente urlò.
- Che è successo? -
- Mi ero dimenticata della seconda relazione! -
- Quella "in solitaria"? -
- Sì. Oddio, oddio! Sono in super ritardo! Se una settimana poteva bastare per scriverne una, per scriverne due sarò nei guai sul serio. - Iniziò a sproloquiare come se fosse improvvisamente caduta nel panico.
Risi nuovamente. - Terry, se continui così ci credo che non arrivi a farle ste relazioni. -
- Grazie, eh! Sei di vero conforto. - Rispose acida.
- Se continui ad essere così agitata non concluderai nulla e lo sai benissimo. Devi calmarti se vuoi avere buoni risultati. -
- Pare facile. -
- Facciamo così. Io torno a casa sabato pomeriggio. Tu quando sali? -
- Dovrei salire domenica pomeriggio, ma potrei salire anche sabato. Che hai in mente? -
- Se sali sabato pomeriggio abbiamo quattro giorni di tempo circa per dare una regolata agli appunti, rileggerli, dargli una prima organizzazione e fare qualche ricerca. Domenica passiamo tutto il giorno a casa mia o a casa tua e stiliamo per bene le relazioni. Così, se non dovessimo arrivare a finirle, abbiamo a disposizione anche lunedì sera e martedì quasi tutto il giorno, escludendo la lezione di Sistemi. Che ne dici? -
- Uhm. Fammi fare due conti. - 

La sentii per qualche secondo parlottare a bassa voce e tanto velocemente da non riuscire a decifrare neanche una parola. - Va bene! - Esclamò alla fine.
- Ma cosa hai fatto? -
- Solo un rapido calcolo. Una stima del tempo che impiegheremo per scrivere ogni pagina, moltiplicandola per le sedici pagine da scrivere come picco massimo considerando entrambe le relazioni. Ho aggiunto il tempo per eventuali pause sporadiche e per scleri vari ed eventuali. In due giorni dovremmo arrivarci. -
Solo ascoltarla mi confuse. - Davvero hai fatto questo calcolo? -
- Sì. Non ti fidi delle mie stime? - Era talmente seria che per un attimo la sua mente mi fece paura.
- No, no. Certo che mi fido. Solo che... -
- Cosa? Vuoi che te le legga? -
- No, per carità! - Mi affrettai a fermarla, conscio che se avesse iniziato sarebbe stato impossibile fermarla. - Ho detto che mi fido. -
- E allora cosa c'è che non va? -
- Solo che sei pazza! -
- Tutti i migliori sono matti. - 
Citazione che mi lasciò spiazzato. Mi limitai a ridere. - Ok, ok. Non proverò minimamente a convincerti che è da malati mentali fare una cosa del genere. Mi sa che insieme a Meg porteremo anche te dallo psicologo. -
- Potrei farlo impazzire, lo sai? -
- Me ne rendo conto. -
- Vabbè Cris, devo chiudere. Il mio cane impone la passeggiatina serale prima di cena. -
- Daccordo Terry. Ci sentiamo presto. -
Chiusi la chiamata col sorriso sulle labbra. Quella ragazza era una continua sorpresa.

Non dover trascinare continuamente mio fratello fuori e non vederlo per interi giorni, rendeva i giorni passati in casa quasi snervanti. I primi giorni, sì, ammetto che lo trovai rilassante. Potevo gestire il tempo come desideravo senza dover sentirmi in colpa se volevo passare un pomeriggio nel dolce far nulla invece di tenerlo impegnato. Ma dopo quasi due settimane, era diventato terribilmente noioso. Nessuna possibilità di compagnia, a parte mia madre. Anche se per scambiare due parole con lei dovevo aspettare che si mettesse a sbrigare qualche faccenda di casa che le permettesse di avere anche una conversazione, come ad esempio stirare o cucinare.
Non entrava mai nella mia stanza per parlare quando c'era mio padre. Sapeva come sarebbe andata a finire. Lui sarebbe piombato in camera fingendo di interessarsi a qualsiasi cosa stessimo parlando e la conversazione sarebbe finita in men che non si dica. Quando lui si inventava uno delle sue mille scuse per andare in ufficio, a far cosa tentavo di non immaginarlo dopo ciò che mi aveva detto mia madre, anche lei tirava fuori una scusa banale e spariva da casa. Quando tornava a casa, non meno di due ore dopo, era sempre affannata, come se avesse corso per tutta la città. Il suo viso ancora non troppo segnato dal tempo era costantemente arrossato e i capelli rimessi insieme alla meno peggio. Appena rientrata si fiondava subito in bagno per sistemarsi e rientrare nei comodi tutoni da casa, cercando di sfuggire il mio sguardo. Ogni volta facevo finta che ci fosse riuscita, solo per evitare di far nascere di nuovo in lei il senso di colpa. 
Ormai, infatti, sembrava essere riuscita a ritrovare un equilibrio. Era come se vivesse due vite differenti che non si incontravano mai l'una con l'altra. Finché nessuno parlava di lui e nessuno vedeva alcuna sua traccia, nulla esisteva. Ed io mi limitavo ad assecondarla.
Potevo avere la sua compagnia, quindi, in maniera molto limitata. Non potevo contare neppure su Bepi perché quando non era con Diana, cioè solo mentre lei era di turno alla clinica, doveva assolutamente riposare, se non voleva arrivare a un nuovo attacco. Anche Daril era fuori gioco. Il lavoro durante le feste si intensificava, grazie spesso ai genitori che si convincevano a concedere come regalo ai figli minorenni di fare un tattoo e grazie alle vacanze che solitamente concedevano più tempo a tutti. Gli altri non li avrei considerati neppure se fossero stati disponibili. Erano più che altro persone che avevamo conosciuto mentre stavo con Miriam e, anche se non erano molto intimi con lei, erano un po' della sua pasta. Del genere che gli stai bene finché fai quello che dicono loro e ti buttano come carta straccia quando non gli servi più. Daril, sempre troppo buono nonostante si potesse credere il contrario, si era fatto coinvolgere da loro, accondiscendeva spesso alle loro richieste e dispensava favori pur non potendoselo permettere. Cercavo di fargli aprire gli occhi su di loro, ma era troppo ingenuo anche per rendersi conto di quello che era palese. Da parte mia, tentavo di evitarli il più possibile e spesso, quando tornavo a casa per il fine settimana, cercavo il modo per far sì che non ci fossero. Durante le ferie, però, specialmente nei giorni di festa, Daril insisteva perché mi unissi a loro. Ma di mia spontanea volontà non li avrei mai cercati, neppure in quel giorno di noia.

Mi ero svegliato relativamente presto, per quanto di presto si possa parlare quando metti i piedi a terra alle 10. Presto rispetto al mio solito di quei giorni in cui spesso aprivo gli occhi che già il pranzo era servito, diciamo. Decisi su due piedi che quel giorno l'avrei passato fuori casa, anche rimanendo da solo se fosse stato necessario. Mi feci velocemente una doccia e mi vestii in fretta cercando di non svegliare Bepi che dormiva beato dopo la notte passata fuori. Afferrai le chiavi della macchina e scesi in centro. 
Posteggiai la macchina poco lontano dalla stazione e dal negozietto di Daril. Entrai nel bar ed ordinai un caffè shakerato e un cornetto integrale al miele. Me li gustai in pace, seduto al piccolo tavolino con le gambe in ferro battuto sulle quali era poggiata una superficie di marmo rotonda, bianca con le venature grigie. Il posto che avevo preso era proprio accanto alla grande vetrata che dava sulla strada. Il locale del bar era tutto in stile perfettamente inglese, così strano per il paese tradizionalista in cui vivevo. Ma era proprio quello che mi piaceva. Riusciva quasi a farmi dimenticare di essere lì, ancora ancorato alle mie radici nonostante mi volessi illudere di averle strappate. Il vetro dava l'effetto studiato di un leggero appannamento, quasi a dare l'idea che fuori ci fosse un po' di nebbia, per far finta che anche fuori di lì ci si trovasse a Londra. Serviva a poco quando, nel bel mezzo dell'estate, vedevi la luce del sole risplendere più afoso che mai o quando, nelle giornate di traffico, vedevi ammucchiarsi vecchie cinquecento con targhe tutte nostrane. Serviva a poco soprattutto quando il pomeriggio, dopo l'ora del riposo, il bar si affollava di vecchietti che non riuscivano a dire due parole in fila che non fossero in un dialetto del genere più puro. 
In quell'attimo, però, rendeva alla perfezione. Dentro il bar non c'era quasi nessuno, a parte i dipendenti, una coppietta rintanata in un angolo appartato a scambiarsi effusioni, un'arzilla vecchietta che si era agghindata come se dovesse andare alla prima dell'Operà de Paris e me. Il silenzio veniva interrotto solo da qualche sporadico tintinnio provocato da un cucchiaino che urtava la ceramica della tazzina o dal piccolo tonfo di un bicchiere di vetro poggiato sul marmo. Fuori la strada era quasi deserta. Solo qualche pedone ogni tanto passava di fretta stringendosi nel cappotto per ripararsi dal freddo invernale. La fissavo e vedevo manifestarsi la vera magia di una strada londinese, con il suo cielo grigio e la nebbia a rendere tutti i contorni meno netti. Privata dei suoi contrasti netti, faceva quasi credere di essere in un sogno. 
Terminai quella colazione nella mia Londra personale. La coppietta era ancora intenta a scambiarsi baci e carezze, mentre l'anziana donna mi guardava sorridente da qualche tavolino di distanza. Ricambiai il sorriso un po' imbarazzato da quell'attenzione e mi alzai. Lasciai cadere le monete sul tavolo accanto allo scontrino e mi avviai fuori. Quando passai davanti alla vetrina, l'anziana stava ancora fissando la mia sedia sorridendo. Capii che non stava guardando me. Mi fece tenerezza pensando che probabilmente era qualche problema dovuto alla sua, sicuramente veneranda, età. 

Mi avviai verso il negozio di Daril. Appena entrato mi investì il forte odore di incenso alla cannella, perenne compagno del suo lavoro da un mese a quella parte. Diceva che lo rilassava e lo ispirava permettendogli di lavorare meglio. Nessuno ci ha mai creduto. Sapevamo tutti che era per nascondere il fatto che permettesse ogni tanto a qualche amico di fumare all'interno per evitare il freddo polare. Ethan, il fratello diciassettenne di Daril, era stravaccato sulla poltroncina con gli occhi chiusi e il viso contorto in un'espressione di puro godimento, di quello che raggiungi solo quando hai un sano riff di chitarra elettrica sparato diretto sui timpani. Ed era esattamente quello. Le enormi cuffie che gli coprivano le orecchie urlavano i Megadeth a un volume tanto alto che riuscivo a sentire quell'assolo fin dalla soglia. 
- Ma li senti i clienti entrare? - Gli urlai nell'orecchio dopo avergli strappato via le cuffie.
- Oh, amico! - Saltò giù dal divano. 
Mi strinse la mano per poi darmi una spallata da pogo. Era quello il modo di salutare di quel diciassettenne che dimostrava il doppio dei suoi anni. Nessuno avrebbe creduto che avesse anche solo meno di trent'anni. Probabilmente era colpa della vita completamente sregolata che conduceva. Non che fosse un cattivo ragazzo, ma non era di certo il figlio che tutti avrebbero voluto. Capelli neri quasi rasati ai lati della testa che al centro formavano una cresta rossa. Piercing all'angolo sinistro del labbro inferiore. Sigaretta sempre in bocca e, alla sera, più alcool che globuli rossi nel sangue. Dal fratello aveva preso la vena artistica e la bontà di cuore sotto la scorza dura come il ferro.

- Tuo fratello? -
- Sotto con un lavoro. Una strafiga da paura! E le sta tatuando "Live and let die" sul culo. - Disse in tono sommesso, quasi bisbigliando, ma gesticolando molto espressamente.
- Davvero? - Gli dissi sorridendo e avvicinandomi alla tenda che copriva la porta del laboratorio. 
- Ti rendi conto? Quando potrò farlo anch'io? - Stavolta il suo tono era molto più gasato.
- Quando farai una doccia fredda al testosterone e non rischierai una denuncia per molestie sessuali. - Tentai di scompigliargli la cresta ma mi sfuggì.
- Che vuoi farci? Sono giovane, io! -
Risi. Quando lo sentivo parlare in quel modo e vedevo come si comportava con le ragazze, mi sembrava di avere di fronte il vecchio me alla sua età.

Daril uscì dal laboratorio sudato da far schifo togliendosi i guanti, seguito da una stupenda ragazza alta almeno uno e ottanta e con un fisico da far girare la testa. Oltre a un sedere da perfetta brasiliana, madre natura le aveva donato un vitino da vespa sormontato da un seno da paura e un viso d'angelo su cui spiccavano labbra carnose e occhi azzurro ghiaccio contornati da un caschetto nero come la notte. Restai senza fiato e li seguii in silenzio mentre lui la accompagnava fuori ricordandole le precauzioni da prendere. Sulla soglia lei gli regalò un immenso sorriso e andò via con veloci falcate da modella. Calò il silenzio.

- Cazzo! - Il primo a interromperlo fu Ethan, sospirando.
- Ti assicuro che era l'unica cosa che non aveva. - Disse Daril fissando la porta d'ingresso. - Amo il mio lavoro! -
- Lo amo anch'io se mi dai il numero di quella. - Soggiunse Ethan con lo stesso tono.
Io me la ridevo tranquillamente sotto i baffi nel vederli così imbambolati davanti alla porta vuota, quando improvvisamente questa tornò ad aprirsi. E lì, restai senza fiato davvero. 

- Ciao! - Disse Daril ricomponendosi e scuotendo Ethan in modo che lo imitasse per dare un'impressione migliore. - Sono il proprietario, piacere. - Si avvicinò e le porse la mano che lei strinse senza troppo interesse. - Posso esserti utile? - Soggiunse.
Lei non disse nulla. Restò sulla soglia in silenzio, tenendo stretta in mano l'impugnatura di un piccolo borsone blu.

Mi avvicinai a lei, che continuava a rimanere immobile e in silenzio. Dal cappotto nero, che le arrivava alla vita, sbucavano un paio di jeans stretti di un blu scuro leggermente scolorito verso il ginocchio, che si andavano ad appoggiare sulle Converse rosse, vissute ma tenute in buone condizioni. Al collo portava una delle sue mille sciarpe, rossa anch'essa e non troppo pesante.
Daril aveva iniziato a guardarla in modo strano, non comprendendo perché una ragazza fosse appena entrata nel suo negozio e si ostinasse a non rivolgergli la parola, a non guardarlo neppure.

- Ciao. - Sussurrai quando ormai le ero accanto.
- Ciao. - Rispose, insicura.
Le afferrai gentilmente il braccio e la invitai a seguirmi fuori dal locale, sotto lo sguardo ancora intontito di Daril. Ethan provò ad appostarsi sulla soglia per spiarci, ma lo fulminai quasi immediatamente.
- Che ci fai qui? -
- In realtà non credevo di trovarti qui. -
- Non mi dirai che sei venuta fin qui per farti un tatuaggio. Capisco di averti parlato fin troppo bene di Daril, ma questo mi pare un po' esagerato, non trovi? - Non capii neppure io dove trovassi la forza per far uscire quelle parole insensate. Ero ancora troppo stupito. 
- No, no. Ma mi ricordavo di averti sentito dire che era vicino alla stazione. Volevo farti una sorpresa. - Abbassò la testa e prese a tormentarsi le maniche del maglioncino tirandole oltre quelle del cappotto. - Volevo chiedere al tuo amico di chiamarti per farmi trovare qui. -
- Me l'hai fatta lo stesso la sorpresa. Eccome! - Una risata nervosa mi salì sulle labbra. 
Non accennava a sollevare lo sguardo, né a smetterla di tirare giù le maniche. Quel gesto avevo imparato a conoscerlo. Lo faceva quando era nervosa, quando qualcosa la turbava dentro. Le afferrai le mani e passai l'indice a disegnare le linea della mandibola per sollevarle il viso. Vidi di nuovo i suoi occhi, grandi e nocciola, fissarmi pieni di un insolito timore, vibrare di una luce che avevo già visto in passato anche se solo per pochi istanti. 

- Meg, perché sei venuta fin qui? - Mi decisi a chiederlo, vincendo il timore di ricevere una risposta non piacevole o, peggio, che lei scappasse di nuovo via.
Stava in silenzio a guardarmi. Le guance rosse e un sorriso appena accennato che le stirava le labbra. - Non sarà mica successo qualcosa! - Aggiunsi, dato che non si decideva a rispondermi.
Scosse leggermente la testa e abbassò nuovamente lo sguardo, ma solo per pochi attimi. Quando tornò a fissarmi, il suo viso era ancora più arrossato e gli occhi ancora più luminosi. Il suo sorriso si era allargato un po' e lasciava intravedere appena il bianco dei suoi denti, allineati ma che non erano mai stati toccati dall'apparecchio. Era bella da togliere il fiato, lo pensai per l'ennesima volta. Bella in tutta la sua estrema semplicità, bella nella sua dolcezza, bella nel suo imbarazzo. Bella anche nella sua complicatezza. Sorrisi anch'io, mentre dentro ridevo di me, di come avesse potuto anche solo sfiorarmi l'idea di seguire il 'filo di Arianna', di credere che quella che si era rivelata una piccola diavoletta potesse avere qualcosa di mistico in comune con un angelo come quello che avevo di fronte.
- E allora perché? - Continuai a insistere.
- Ti dispiace? - Disse mentre il sorriso diminuiva.
- Ma certo che no. Te l'ho detto già. Vederti è stata davvero una sorpresa. -
- Esistono anche brutte sorprese. - Non aveva ancora ricominciato a sorridere.
- Certo che ne esistono. - Per un attimo quelle parole mi fecero tornare in mente Miriam. Incontrare lei era sempre una brutta sorpresa. Tutto il contrario dell'incontro appena fatto. - Ma non è questo il caso. -
- Sorpresa gradita? - Mi regalò uno dei sorrisi più dolci, raggianti e stupendi che avesse mai illuminato il mondo.
- Ma certo. - 

Non riuscii più a trattenermi. L'attrassi a me e la strinsi. L'abbracciai tanto forte che, nonostante i diversi strati di vestiti di cui eravamo ricoperti, credetti di poter sentire il calore e la morbidezza della sua pelle. La sua risata cristallina mi solleticò le orecchie. Mi strinse anche lei. Sentii le sue mani aggrapparsi saldamente al giubbotto mentre andava a nascondere il volto nell'incavo del mio collo. Sentivo il suo respiro caldo solleticarmi la pelle e la sua pelle premere contro la mia.
- Mi sei mancato. Davvero tanto. - Sussurrò.
Aiuto! Un esplosione! Nessuno la sentì, solo io. Fui io ad esplodere. Non solo una parte, un organo. Ne fui vittima nella mia interezza. Eppure non mi sentivo tanto vivo da un po'. 

- E se non mi avessi trovato? Che avresti fatto? -
- Che domanda stupida! Sarei tornata a casa, no? Avevo pensato di cercarti per un paio d'ore. Se non ti avessi trovato avrei preso un panino al volo e sarei saltata sul primo autobus. -
- Meno male che mi hai trovato allora, no? -
- In effetti, credo non avrei retto un altro viaggio in così breve tempo. -
Ridevamo entrambi su quella panchina del parco. Io ero seduto mentre lei si era sdraiata poggiando la testa sulle mie gambe. Mentre rideva, chiuse gli occhi e nella mia mente tornò l'immagine di quella sera, quella del litigio col Ken nel locale, quella di lei ubriaca addormentata tra le mie braccia sotto la pioggia, quella in cui ci aveva costretto a guardare PiGreco in piena notte, quella che avevamo passato per la maggior parte a raccontarci, quella che avevamo concluso in quella stessa posizione. Le accarezzai i riccioli. 

- Posso restare da te? -
Quella domanda mi spiazzò. Non avevo ancora riflettuto sul fatto che la presenza del borsone blu volesse indicare una volontà di rimanere, almeno per una notte se non di più. - Da me? -
- Se è un problema, non preoccuparti. Ci sono autobus fino a stasera. -
- No, no. Solo che... - Che non sapevo come giustificare una ragazza che dovesse improvvisamente passare la notte a casa mia. 
- Capito, tranquillo. - Si alzò dalla panchina guardando l'ora. Sorrideva. - Vorrà dire che tornerò in stazione, prederò quel famoso panino al volo e salterò sul primo autobus. - 
- No, no! -
- Cris, tranquillo. Capisco che possa essere un problema. Vivo in un istituto, ma ricordo ancora com'è avere dei genitori! - Rise, ma d'improvviso sembrò bloccarsi. - Un vago ricordo, sì. - 
Sembrava stesse parlando a sè stessa. Poi si riprese, scosse la testa e rise ancora. La guardai un po' perplesso. Non capivo cosa fosse successo in quei pochi secondi. Lei rise ancora più forte guardandomi. - Ehi, io posso farmele certe battute! -

Vedendola continuare a ridere senza che nessuna ombra oscurasse più il suo viso, mi rasserenai e sorrisi insieme a lei. Mi alzai dalla panchina. Il mio stomaco brontolava. - Il modo per sistemare stanotte lo troviamo, ma che ne diresti se il panino al volo lo prendiamo comuque? - 
- Ha famuccia il bimbo? - Mi chiese accarezzandomi la pancia, non smettendo di ridere. 
- Tu no? - Le presi delicatamente i polsi e la attirai a me. 
- Un pochino. - Si arricciò lasciando che l'abbracciassi.
- Allora so cosa ci vuole. - 

L'avevo portata a pranzo nell'unico centro commerciale esistente nel raggio di chilometri e chilometri. Lì c'era un piccolo ristorantino comodo, economico, familiare, ma soprattutto con un'ottima cucina. Ci servimmo abbondantemente al buffet che preparavano di solito per pranzo e mangiammo ad uno dei tavoli laterali, di quelli con le panchine che fanno molto Arnold's di Happy Days. Non fossimo stati soli, sarebbe sembrato uno dei tanti pranzi alla mensa dell'università. Aveva gradito molto quello che le avevo consigliato e si era pure offerta di pagare, facendo finta di offendersi quando glielo avevo impedito.

- Se proprio vuoi pagare, adesso andiamo a prenderci un bel caffettino post pranzo e offri tu. - Le dissi mentre passeggiavamo per tornare alla macchina.
- Eh, no! Ormai hai detto che non devo azzardarmi ad uscire il portafoglio e io ubbidirò! - 
- Oh! Finalmente ti riconosco. Lì dentro, quando hai uscito il portafoglio, per un attimo ho creduto che ti avessero sostituita gli alieni. -
- Che vorresti dire? - Mi fissò con aria minacciosa. - Che ho il braccino corto? -
- Corto? No. Hai proprio la mano attaccata alla spalla! - 
Lei strinse di più gli occhi e serrò le labbra, corrucciandole. Alzò la mano con cui teneva il borsone. Doveva essere molto pesante, eppure riuscì a sollevarlo senza molta fatica. - Rimangiati quello che hai detto. -
- Mai! - La sfidai ridendo.
- Subito! -
- Non ci penso proprio. - 
Mosse il braccio di scatto tentando di scaraventarmi addosso il borsone. Fortunatamente non riuscì a colpirmi e potei godermi la vista comica di lei che cercava di non cadere a terra trascinata dal peso che, col movimento, si fece sentire prepotente. Risi forte, indicandola col dito e tenendomi lo stomaco con il braccio per rendere tutto ancora più plateale. Lei aspettò qualche istante, abbandonando il borsone a terra e incrociando le braccia sul petto. 
- Hai finito? - Mi domandò in tono scocciato. 
La fissai smettendo di ridere per pochi attimi, ma subito dopo ricominciai a scompisciarmi ancora più vistosamente guardandola dritta negli occhi. Improvvisamente la vidi scattare in avanti e prese a darmi schiaffi sulle braccia, fortunatamente coperte dal giubbotto. Sgusciai via dal suo attacco ed iniziai a correre per il parcheggio. Lei mi inseguiva. Aveva iniziato a ridere anche lei. Ci rincorremmo come bambini, calpestando il prato dell'aiuola. Infine, mi prese. In realtà, avevo rallentato di proposito perché non volevo che rischiasse di cadere nella foga della corsa. Mi saltò addosso alle spalle, facendomi perdere l'equilibrio. Arrivammo entrambi a terra, continuando a ridere totalmente incolumi grazie al prato che aveva ammortizzato il botto. Non smettemmo di ridere finché non arrivò qualcuno. 
Un uomo che sembrava un armadio. Alto e con spalle da quarterback che indossa tanto di divisa, vestito di una divisa blu con delle strisce gialle catarifrangenti lungo le braccia e le gambe. Sul petto la piccola scritta "Security" in bianco era chiaramente leggibile. 
- Cosa succede qui? - Disse in tono autoritario. 
- Niente, stavamo giocando. - Meg rispose con un disarmante tono di tranquillità, quasi stesse affermando la cosa più naturale e ovvia del mondo. 
- E non vi sembrate un po' troppo grandi per giocare? - Rispose l'armadio, stringendosi le mani intorno alla cintura con un chiaro cenno di nervosismo.
Meg stava per sbottare un'altra delle sue risposte che probabilmente non avrebbe fatto altro che innervosirlo ancora di più. La bloccai premendole la mano sulle labbra. - Ci scusi, andiamo via immediatamente. - Dissi sollevandomi da terra ed aiutando lei a fare altrettanto.

L'armadio della security ci lanciò un ultimo sguardo, quasi di compassione, ed andò via con la sua camminata imponente. Solo quando fu lontano tolsi la mano dalle labbra di Meg. Lei mi guardò e riprese a ridere. 
- Fai tanto il rude e poi hai fifa di uno della security? -
- Se ci permetti vorrei poterci tornare in questo posto! -
- Ah-Ah! - Mi schernì un'ultima volta, mentre recuperava il borsone abbandonato sull'asflato e poi potemmo finalmente arrivare in macchina.

- Cosa vorresti fare adesso? Non credo che tua madre sarebbe contenta se dovesse passare la notte da te. - 
Stavo parlando con Daril seduti nella sua cucina mentre la caffettiera era sul fuoco. Per il pomeriggio non aveva preso appuntamenti e aveva deciso di prendersi qualche ora di libertà dopo una mattina stancante. Ethan era nella loro camera insieme a Meg. Le stava facendo vedere alcune delle sue opere e lei sembrava esserne subito rimasta particolarmente copita. Pur non apprezzando solitamente disegni di quel genere, le ragazze in stile sexy-dark disegnate da Ethan, così come i suoi assassini e i suoi mostri, sembravano affascinarla. 
- Non ci ho ancora pensato. -
- Dovresti, invece. Puoi portarla nella casa a mare. - Disse allusivo.
- Quella casa non è più in condizioni di ricevere ragazze. E poi non lo farei con Meg. - Guardai verso il corridoio, con uno sguardo che lasciava traspirare tutti i miei sentimenti per lei. 
- Ma se te la sei già scopata! - Disse lui, sottovoce ma con un espressione che suppliva alla mancanza di volume.
- Non me la sono scopata. - Controbattei sostituendo anch'io il volume con l'espressione facciale.
- Già. Avete fatto l'ammore, no? - L'espressione diventò sarcastica. 
- Esattamente. - 
- Cris, quella è venuta qui perché vuole scopare. E basta! Stavolta non fartela scappare come hai fatto a Capodanno con quella sottospecie di masochista. -
- Sei un coglione. - Roteai gli occhi e mi rassegnai all'idea che Daril fosse da troppo tempo lontano da una relazione seria per afferrare il senso di quello che stava succedendo. - E scendi il caffè che ormai si sarà bruciato! -
Anche lui mi lanciò una delle sue occhiate rassegnate e si avvicinò alla caffettiera. Secondo lui ero diventato ormai troppo schizzinoso. Ero passato da un eccesso all'altro, dallo scoparmi mezzo mondo a considerarmi troppo prezioso per regalarmi alla prima che passava. Forse aveva ragione, ma io non la consideravo poi una cosa così negativa. Ero maturato e quello che facevo prima non mi soddisfaceva più. Avevo bisogno di altro. Così, ogni volta che me lo diceva, gli facevo notare che ormai evitavo anche altre cose che un tempo mi davano soddisfazione, come rompere le costole a qualcuno in una zuffa partita da un banale litigio. Ma di quello nessuno si lamentava.

- Senti, ma se venissimo qua? - Chiesi dopo un'improvvisa illuminazione, mentre versava il caffè nelle tazzine.
- Qua? - Ripetè Daril sgranando gli occhi. - Va bene che i miei sono più liberali dei tuoi, ma non credo che si accollerebbero un'orgia in casa. -
- Ma chi ha parlato di orgia? E chi ha parlato di casa? -
- Hai detto tu 'se venissimo qua' o mi sbaglio? -
- Parlavo della stanza dietro il garage. Diciamo a Bepi e Diana se vogliono venire anche loro, così Meg non si sentirà in imbarazzo ad essere l'unica ragazza. Passiamo la notte in compagnia. -
Daril mi guardò in modo strano. - Cris, ti senti bene? -
- Perché? -
- Ti rendi conto di avere appena proposto una specie di pigiama party? -
La mia mente volò per un momento alla sera di Torre del Vetro e al gioco della bottiglia più porno a cui avessi mai partecipato. Ridacchiai. - Oh, se non vuoi fa niente. -
Mi guardò per un po' in modo interrogativo. - Sai che dovremo tenerci anche Ethan, no? - Sbuffò infine. 
- E che problema c'è? -
- E sai che ci sono solo due letti matrimoniali, vero? -
- Ecco, quello potrebbe essere un problema. Ma si può risolvere. Un materasso da mettere a terra non lo troviamo? - 
- E chi ci dovrebbe dormire? - 
- Mio fratello ha bisogno di riposare bene quindi lui e Diana vanno su uno dei due che già ci sono. Meg, non mi va di farla dormire per terra. Potrei starci io. -
Daril fece finta di pensare e si portò la mano ad accarezzarsi il mento. - Potrebbe essere interessante. Tu vai a terra con Ethan e io mi ficco nel letto con Meg. A queste condizioni potrei accettare. - 
Presi il primo strofinaccio che mi capitò a portata di mano e glielo tirai addosso. Lo sfiorai appena, ma ricadde sulle tazzine rischiando di farle cadere. Fortunatamente tutte ripresero l'equilibrio dopo aver tintinnato tra di loro.
- Ehi, che succede? - Chiese Meg entrando in cucina sorridendo. - Cos'è questo rumore? Non avrete mica buttato a terra il nostro caffè, vero? - Mi si avvicinò e si appoggiò sul mio braccio.
Istintivamente lo allargai per cingerle la vita e lei mi si strinse al fianco. - No, tranquilla. Il tuo caffé è al sicuro. -
Mi diede un leggero bacio sulla guancia e poi andò verso Daril. Versò lo zucchero nella tazzina che le porse, rigirò per un po' con il cucchiaino e poi lo mandò giù. - Forte! - Disse strizzando gli occhi. 
- Scusa, forse si è bruciato un po'. - Ammise lui, cercando di giustificarsi.

- Perché hai messo un vestito nel borsone? - Chiesi a Meg prima che si rifugiasse nel bagno della casa di Daril per rinfrescarsi e cambiarsi per la sera. 
Mi rispose, alzando un po' la voce, da dietro la spessa porta di legno dipinta di bianco. - Per sicurezza. - 
- Ah, voi ragazze! Non vi capirò mai. - 
La porta si socchiuse e il suo viso spuntò fuori da quella piccola apertura. - Se no dove starebbe il divertimento? - Chiese con aria ironica per poi tornare a richiudere la porta.
Sorrisi. - Ti aspetto di là con gli altri, ok? -
- Va bene. - Mi rispose alzando di nuovo la voce. 

Costeggiai la porta, non potendo fare a meno di pensare che lì dietro Meg si stava spogliando. Immaginavo i suoi piedi nudi che si poggiavano sul pavimento freddo. Magari li ritraeva un attimo o restava sulle punte per evitare di ghiacciarseli. Le sue gambe tornite che si infilavano delicatamente nei collant. Il suo ventre su cui non era rimasta alcuna traccia della cicatrice che veniva accarezzato delicatamente dalla stoffa del vestito che scendeva per posizionarsi al meglio. 
Ma tutto ciò che avevo immaginato non era niente in confronto a ciò che vidi quando, dopo qualche minuto, uscì da lì. Un caldo vestitino, di un bel blu denim, la fasciava morbidamente fino ai fianchi, lasciando il posto poi ad una leggera svasatura che le arrivava ondeggiante fino a metà coscia, decorata con una discreta fantasia sui toni del beige. Le gambe, coperte da invisibili collant, si infilavano, qualche centimetro sotto il ginocchio, in degli stivaletti abbastanza larghi, quasi senza tacco e dello stesso colore del disegno che terminava la gonna. Aveva portato sulla nuca i ciuffi laterali lasciando solo pochi riccioli a incorniciarle il viso. A prima vista sembrava non essersi truccata. In realtà aveva intensificato il suo sguardo evidenziando leggermente l'angolo esterno degli occhi e sottolineando le rime cigliari con della matita blu scuro. Le ciglia inondate di mascara riuscivano a rendere i suoi occhi castani ancor più grandi di quanto non fossero naturalmente. E le labbra, oh, le sue labbra! Erano stupende, lasciate libere da qualsiasi cosa che non fosse un filo di burrocacao al miele, quello che metteva in continuazione, specialemente quando faceva freddo. 

Uscì dal bagno battendosi piano la gonna cercando di farla cadere al meglio sulle gambe. Sorrideva, come me. Solo che io la fissavo inebetito per quanto mi aveva sconvolto la sua visione. 
- Com'è? - Mi chiese facendo una piccola piroetta, continuando a scrutarsi la gonna. - Come ti sembra? Eccessivo? -
- Sei... sei... - Non riuscii a terminare la frase.
Meg si voltò verso di me. Mi guardò aprendo gli occhi e ondeggiando la testa, chiedendomi di completare la frase, di dare un mio giudizio. Io frugavo e rifrugavo nella mia testa, ma tra le parole del mio vocabolario non riuscivo a trovarne una che sapesse ben indicare quanto fosse perfetta, semplice e non appariscente ma bellissima e capace di lasciare senza fiato un povero ragazzo come me.
- Non sapevo se saremmo usciti, né dove saremmo andati, così ho portato questo sperando che non fosse troppo. - Disse continuando a lisciarsi il vestito sul ventre guardandolo. - O troppo poco. -
Alzò di nuovo gli occhi a guardarmi. Stavolta lo sguardo sembrava imbarazzato, preoccupato. Vidi la sua solita luce spenta e le sue mani andare ad afferrarsi i polsi. Ero sicuro che se le maniche del vestito non le fossero arrivate più giù del gomito avrebbe preso a tirarsele. Non avendo stoffa a disposizione, invece, aveva preso a graffiarsi la pelle. Vedevo le strisce arrossate che le sue unghie lasciavano su quella porcellana delicata. Mi alzai raggiungendola in fretta. Le bloccai le mani portandole a mezz'aria. Lei prese a guardarle voltando quasi spasmodicamente la testa da un lato all'altro. Poi mi guardò. Restai immobile a fissarla negli occhi finché non fui sicuro di avere la sua attenzione. Le sorrisi e portai le sue mani sulle mie spalle. Le cinsi la vita, non avvicinandomi troppo a lei, ma accarezzando il morbido tessuto blu che le scivolava sulla curva della schiena. 
- Il vestito va benissimo. - 
La attirai di più a me, infilando il volto tra i suoi capelli. Ne respirai il profumo, una delle cose che più mi era mancato di lei. Poggiai la guancia coperta di una corta barbetta sulla sua. La sentii sobbalzare un istante, probabilmente perché le aveva fatto il solletico. Avvicinai le labbra al suo orecchio. - E tu sei perfetta. -
Mi allontanai continuando a sorridere mentre la osservavo arrossire. Il suo dolcissimo sorriso si aprì e la luce nei suoi occhi si accese di nuovo vivida. - Grazie. -

Restammo qualche secondo a perderci nel nostro silenzio, poi si scosse. Sorridente si avvicinò a me saltellando. - E allora, dove mi porti? -
- Andiamo coi ragazzi in un locale carino qui vicino. Una cosa semplice, non aspettarti niente di particolare. Ma c'è buona musica. Spesso dal vivo. Qualche volta c'ha suonato pure Ethan con il suo gruppetto. -
- Suona in un gruppo? - Mi chiese, quasi stupita.
- Il basso. Fanno qualche cover ogni tanto. Ma hanno buona probabilità di andare avanti quando cresceranno. Sono bravi. -
Si illuminò, come un bambino davanti a un negozio di caramelle. - E suoneranno stasera? Voglio sentirli! -
- No, stasera no. Non credo ci sia live oggi. Ma se ci tieni te li farò ascoltare qualche volta. Incidono ogni tanto. Casalingamente, s'intende. -
Annuì vistosamente, gasata all'idea. Si allontanò saltellando verso il bagno. - Metto il borsone nella tua auto? - 
- No. Torneremo qui stanotte. -
Si bloccò a metà del corridoio, voltandosi a guardarmi dubbiosa. - Qui? -
- Sì. Dietro il garage c'è una stanza che usiamo per le occasioni come questa. -
- Occasioni come questa? - Il dubbio sul suo volto divenne ancor più evidente.
Solo allora capii quanto male mi ero espresso. - Già, non ti avevo ancora detto nulla! - Cercai di rimprendermi ridacchiando mentre parlavo per coprire l'imbarazzo da cui cercavo di uscire. Le spiegai dell'idea che avevo avuto. Il dubbio pian piano lasciò il suo viso e lei si infilò in bagno a raccogliere le sue cose. 
Sul mio, invece, il dubbio si venne a dupingere a forti tinte. Meg non sembrava più dubbiosa. Sembrava delusa. Che Daril avesse indovinato tutto?

Il locale era abbastanza pieno per essere un Giovedì sera, ma dopo tutto durante i periodi di vacanza molte più persone si potevano permettere di fare notte anche durante la settimana. La cosa era senz'altro positiva per i proprietari e per molta altra gente, un po' meno per me. La maggior parte delle persone che avevano fatto parte del mio passato, infatti, spesso si ritrovavano lì, anche quelle che non vorresti più incontrare in vita tua, anche quelli che ti riportano alla mente episodi che vorresti cancellare. Quella sera c'era qualcos'altro che aumentava il mio stato di fastidio. Il locale era frequentato di solito da persone del nostro paese o da loro amici. Si vedevano le solite facce e trovare un viso nuovo destava sempre un po' di curiosità. Meg, quindi, sembrava aver calamitato lo sguardo di chiunque. I ragazzi ne studiavano le bellezze, le ragazze ne cercavano i difetti. Tutti, in qualunque caso, sembravano aver trovato l'attrazione della serata. 
Meg, dal canto suo, sembrava non accorgersene. Continuava a parlare come se si trovasse in un luogo familiare, come se fosse seduta al tavolo del solito pub di città accanto a persone che conosceva da una vita o giù di lì, non in un locale nuovo, in un paese diverso e con ragazzi appena conosciuti. Forse non si rendeva conto dell'effetto che la sua bellezza, nonché la sua personalità, poteva avere. Seduta di fronte a me, tra Ethan e Bepi, teneva le gambe elegantemente accavallate, ma per il resto sembrava essersi trasformata in uno di noi. La osservavo stranito dal pensiero che anche addentare voracemente un panino strabordante o controbattere a battute pesanti non la rendeva mai volgare. Anzi, la rendeva ancor più desiderabile, se una cosa del genere fosse mai stata possibile. Diana, dai modi gentili e delicati che mitigavano il carattere forte, era simpatica a tutti e si era ben integrata nel nostro gruppo composto da ragazzi che per la maggior parte erano o apparivano burberi e rozzi. Ma ai ragazzi Meg... oh Meg, sembrava un dono dal cielo! Bella da perdere il fiato, non volgare, che si comportava da maschiaccio, ma riusciva ad essere allo stesso tempo fottutamente sexy. La ragazza perfetta per uno come noi.
Tutto il contrario di quello che girava nel nostro paese. Ragazze che se la tiravano ancor prima di avere il menarca o di sapere che esistesse una cosa simile. Ragazze che volevano accanto solo quelli che loro consideravano uomini perfetti, che poi altro non erano che fantocci con vestiti di marca e il protafoglio sempre disponibile per regali e cene, ma scopano con il primo che fa l'occhiolino in discoteca. Ragazze con cui non puoi permetterti di passare una serata allo sbaraglio, così come viene. Ragazze che ti guardano storto se mangi la pizza con le mani o tracanni la birra direttamente dalla bottiglia. Ragazze come Miriam, insomma. 

Meg aveva solo una piccola pecca nella sua perfezione, pecca che conoscevo già bene: continuava a non reggere l'alcool. Dopo la seconda birra, nonostante avesse mangiato tanto da domandarsi dove infilasse tutta quelle schifezze, già era brilla. Pur essendo ancora lucida, iniziava a trascinare le parole parlando come se si fosse appena svegliata. Quando afferrò la terza bottiglia dalle mani del ragazzo che serviva al nostro tavolo, gliela sfilai dalle dita.
- Questa la prendo io. - Le dissi ridendo prima di appoggiare le labbra al vetro doppio della bottiglia e prenderne un lungo sorso. 
Lei mi guardò con in faccia un piccolo sorriso obliquo e tenendo il sopracciglio sinistro sollevato. 
Daril rise e le porse la sua bottiglia quasi del tutto piena. - Tieni bambola. - 

Aveva preso a chiamarla a quel modo da quando lei aveva notato un suo disegno su cui era raffigurata, in un angolo dietro il soggetto principale, una bambola di porcellana che la ricordava incredibilmente. E Meg non aveva opposto resistenza, anzi aveva anche lei preso a chiamarlo bambolo. Inizialmente la cosa mi aveva infastidito. Pensavo a quanto tempo avevo impiegato io per riuscire ad avere un po' di confidenza con lei ed ecco che il mio migliore amico dopo neanche un paio d'ore la chiamava "bambola"! Poi, però, mi era passata. In fondo, non so per quale strano motivo, mi faceva piacere che i miei amici riuscissero a trovarla simpatica, un po' meno che probabilmente qualcuno di loro avesse il pensiero di provarci. L'unico che sembrava pensarci molto, però, era Ethan e lui potevo scusarlo. Dopo tutto era anche l'unico a non sapere molto della storia che c'era dietro. Non che fossi al massimo della gioia quando lo vedevo fissarla riuscendo a stento a trattenere la bava o quando le faceva le tipiche battutine per tastare il terreno e capire se poteva riuscire nel suo intento o meno. Ma alla fine ci ridevo su visto che Meg, volta per volta, distruggeva i suoi piani con battute di rimando che avrebbero stroncato qualsiasi castello volante si fosse creato in precedenza. 
Ma quante personalità diverse poteva avere quella ragazza? Quante altre volte ancora mi avrebbe sorpreso e destabilizzato?

Mentre mi ponevo queste domande, Meg afferrò la birra dalle mani di Daril. Mi fece una vistosta boccaccia prima di iniziare a bere. Mandò giù tutto il contenuto della bottiglia senza fermarsi a prender fiato e fissandomi con aria soddisfatta, mentre i ragazzi al nostro tavolo ridevano e la incitavano. Quando terminò applaudirono e molti di quelli accanto a noi, quei pochi che non l'avevano già fatto, si voltarono a guardarci. Lei continuò a ignorarli e si asciugò le labbra col braccio. Poi si alzò in piedi e fece due brevi inchini girandosi verso i vicini che si erano uniti all'applauso. Si risedette e riprese a guardarmi con aria da sfida, mentre la osservavo cercando di trattenere una risata. 
L'applauso sciamò fino a concludersi e i vicini tornarono ad interessi diversi dalla ragazza sconosciuta seduta al tavolo accanto che tracanna birre da 33cl direttamente dalla bottiglia e senza prendere fiato. Solo a quel puntò si alzò nuovamente dalla sedia. Venne verso di me e si sedette su quella lasciata momentaneamente vuota da Diana che aveva accompagnato Bepi a prendere un po' d'aria fuori. Accavallò nuovamente le gambe e si sporse verso di me, sorridendo ancora vittoriosa. Mi avvicinai anch'io a lei, convinto che volesse dirmi qualcosa un po' più privatamente, ma quando fu a pochi centimetri dal mio orecchio proruppe in un rutto che credetti mi volesse sfondare il timpano. 
Quella fu l'apoteosi per i ragazzi, il sogno diventato realtà. Lei iniziò a ridere e l'applauso ripartì, ma stavolta i vicini non si unirono. Anzi, cambiarono il tipo di sguardo rivolto a quella ragazza sconosciuta, bella sì, ma così out dal loro punto di vista che meritava quasi la loro compassione. Al nostro tavolo, invece, sembrava essere aumentata la stima nei suoi confronti. 

- Ti prego, sposami! - Disse Ethan, tutto illuminato in viso e guardandola in stato quasi di venerazione. 
Meg si limitò a voltarsi per un attimo verso di lui e riprendere a ridere. A quel punto mi lasciai andare anche io in una bella risata.
Mentre ridevamo, Bepi e Diana tornarono al tavolo e Meg liberò la sedia tornando a sedersi accanto ad Ethan. 

- Ma è vero che tu suoni il basso? - Gli chiese, dal nulla, appena raggiunse la sedia. Lui annuì. - Me lo fai sentire? Ti prego, ti prego, ti prego! - Giunse le mani e gli si avvicinò facendo gli occhi da cerbiatto a cui è impossibile resistere.
Gli si era avvicinata in modo talmente improvviso che mi preparai a scattare se mai ad Ethan fosse venuto in mente di approfittarne per baciarla. Ma non ce ne fu bisogno perché sembrava anche lui parecchio sorpreso. 
- Adesso? - 
Fu lei ad annuire, con un enorme sorriso da squilibrata. - Lì non ci sono gli strumenti? - Disse indicando con l'indice il piccolo palchetto nel fondo del locale. 
- Quelli sono del figlio del proprietario. Roba che mi trancia la giugulare se provo ad avvicinarmi. - 
- E' qui questo tizio? - Chiese lei iniziando a voltare la testa frugando con lo sguardo il locale. 
- Quella bestia laggiù è il proprietario. - Disse Daril indicandolo vicino alla cassa. Era un uomo parecchio alto, che superava il metro e novanta e anche i centoventi chili. La faccia da serial killer e le mani sempre coperte da guantini di pelle che lasciavano libere le dita tozze in modo da contare meglio i soldi.
- E il figlio? - Chiese lei, dopo averlo osservato a lungo sgranando gli occhi. 
- Quello lì. - Le risposi tendendo anch'io il dito ad indicarlo. Aveva circa la nostra età e la stazza del padre.
Lo scrutò per un po' con faccia quasi disgustata, poi si voltò. Guardò Ethan, poi me, poi di nuovo Ethan. - Tu preparati, io torno subito. - Sorrise e si alzò.

- Che fai? - Le gridò dietro Ethan.
Io ero stato preso troppo alla sprovvista per riuscire a reagire. La guardai allontanarsi e raggiungere il proprietario e suo figlio.
- Ma è pazza? Che cosa sta facendo? - Mi chiese Ethan mentre Daril aveva già ripreso a ridere e noi altri stavamo ancora guardandola smarriti.
- Meg quando si mette in testa una cosa è terribile. - Dissi in modo quasi automatico, senza voltarmi a guardarlo. 
Lei, nel frattempo, conversava in modo tranquillo e rideva gettando la testa indietro mostrando il suo bel collo. Il proprietario sembrava essere stato stregato da ogni suo gesto e non le scollava gli occhi di dosso seguendone ogni movimento. Anche quando, dopo non molto, si voltò per tornare da noi, lui continuò a fissarne gli ondeggiamenti finché non si sedette di nuovo al tavolo. 

- Stefano ti sta aspettando vicino agli strumenti. Vuole sapere cosa ti serve. - Disse con nuova aria di vittoria in viso rivolta verso Ethan che ancora la fissava storidito. 
- St-stefano chi? Non parlerai mica del... -
- Del figlio di Tanuzzo, sì. - Sorrise e si voltò verso la cassa. Agitò le dita in segno di saluto verso il proprietario che ancora la guardava. - Li ho convinti a farti suonare stasera. - Si rigirò verso di Ethan. - Ti prego. - Tornò ad avere la sua espressione angelica, con tanto di occhioni da cerbiatto e labbruccio. 
- Non esiste! Non ho il mio gruppo, non ho il mio basso, non ho provato nulla! - Iniziò a sbraitare lui.
- Non vorrai mica farmi far brutta figura con Tanuzzo e Stefano, vero? Li ho convinti a farti suonare per farmi un favore e ora tu vai a suonare. - Fece lei, autoritaria. 
- Ma alla mia brutta figura non ci pensi? -
Meg sorrise più dolcemente, si alzò e lo tirò in piedi per il braccio. - Non farai brutta figura. Andiamo. -
Ethan fece ancora un po' di storie, poi si fece convincere.

Eravamo tornati a casa verso le tre del mattino. Cercavamo di non far troppo rumore pur sapendo che i genitori di Daril non ci avrebbero fatto problemi. Anzi, probabilmente se la signora si fosse svegliata avrebbe messo la pentola sul fuoco e ci avrebbe improvvisato una super cena! Adorava me e mio fratello, ma soprattutto adorava vederci mangiare.
Ethan era stato spedito a sistemare la camera e Diana aveva insistito per dargli una mano. Meg, invece, che era ancora un po' brilla, si era recata col suo borsone in bagno. Ero stato un po' accanto alla porta per sentire se avesse finito col vomitare, ma sentii solo lei canticchiare e l'acqua della doccia aprirsi. Perciò raggiunsi Bepi e Daril che mi aspettavano in cucina. Bepi era visibilmente stanco e non vedeva l'ora di infilarsi il pigiama ed andare a letto. Daril, invece, come suo solito, avrebbe potuto continuare a parlare a valanga fino al mattino seguente.

- Non fartela scappare. Sembra una ragazza fantastica. - Mi disse fissando il corridoio.
- Lo sembra perché lo è. - Sorrisi e mi avvicinai a mio fratello. Presi a massaggiargli le spalle. In fondo prendermi cura di lui un po' mi mancava.
- Non mi avevi detto che sapeva pure cantare in quel modo. -
- L'ho sentita solo una volta. - 
- Ha una bella voce oltre a tutto il resto. Credo che Ethan le chiederebbe di entrare nel suo gruppo se abitasse qui. -
- Ethan deve ringraziare che è tuo fratello, altrimenti gli avrei cavato gli occhi dopo la prima volta che l'ho trovato a fissarle il culo. -
Daril rise vistosamente ma in silenzio. - Avresti dovuto cavarli a tutti allora. -
- Già. Non è passata inosservata la tua ragazza, Cris. - Disse Bepi, mentre con gli occhi chiusi e la testa appoggiata al tavolo si godeva i massaggi. 
- Non è la mia ragazza. - Risposi con un sorriso un po' più amaro.
- Non ancora. - Bepi si alzò leggermente e mi fece l'occhiolino. 
- Ce la vedo con te. - Aggiunse Daril. - Ha un bel caratterino, però non sembra una rompicoglioni. -
- Un bel caratterino? - Disse Bepi, scostandosi definitivamente dal tavolo. - Hai visto che è successo quando è arrivata Miriam? Roba da applauso sul serio, altro che rutti! -

Già, perché era successo pure quello! Ethan si era convinto a suonare e insieme al figlio del proprietario si era messo ad improvvisare. Stefano era un chitarrista bravino, anche se credeva di essere il mago delle sei corde, ma Ethan pur essendo più giovane e avendo studiato meno aveva un talento naturale per il basso. Nonostante non si trovasse a suo agio con gli strumenti degli altri, fece la sua porca figura fin dalle prime pizzicate. Meg era rimasta accanto a loro a sentirli e si era poi gettata in un paio di canzoni. Mentre si trovava lassù, però, al nostro tavolo era arrivata Miriam. Era stata per tutta la sera in un angolo a fissarla e nessuno di noi se ne era accorto. Aveva approfittato del fatto che si fosse allontanata per venir a fare una delle sue scenate. Sembrava dover finire come sempre, con un litigio in pubblico che rovinava la serata a tutti e dava materiale su cui sparlare per un paio di settimane. Invece finì diversamente. Meg terminò la canzone e tornò al tavolo, le disse che se aveva perso il treno doveva pur aspettarsi che facesse tappa in altre stazioni, poi mi si era incollata alle labbra finché Miriam, stizzita e avvelenata, non aveva deciso di andarsene con la coda tra le gambe. 

- Sì, l'ho visto. - Risposi. Sentii le guance avvampare al ricordo di quel bacio e abbassai la testa passandomi la mano sulla nuca. 
- Ha le palle la ragazza. E non guastano mai. - Rispose Daril. - L'importante e che non le abbia da qualche altra parte. - Si alzò dalla sedia e mi venne a poggiare una mano sulla spalla. - Ma hai già controllato, no? - Un sorriso beffardo comparve sulle sue labbra. 
- Tranquillo che è tutto al suo posto lì! -
- Cosa è al suo posto? - Chiese Diana rientrando insieme a Ethan. 
- Lasciali stare, amore. - Si intromise Bepi. - Roba da zoticoni. Vieni qui a darmi un bacio, invece. -
Diana gli si avvicino sorridente e lo abbracciò iniziando a baciarlo dolcemente.
- Non è ancora uscita Meg? Qui tutti vogliamo farci una doccia. Sicuri che non si sia addormentata dentro? - Chiese Ethan.
- Tranquillo nano! - La voce di Meg risuonò nel corridoio. - La doccia è tutta tua! -

Apparve indossando un pigiama azzurro, ma di una tonalità molto più tenue e chiara di quello che avevo già visto, quasi fosse stato colorato dai pastelli di un bambino. Non c'erano mucche né altri animaletti ed era molto più aderente rispetto a quello che le avevo visto indossare a Torre del Vetro. I pantaloni erano abbastanza morbidi e solo un piccolo elastico li stringeva sui fianchi mantenendoli a vita molto bassa. La maglietta le aderiva alle forme e lasciava scoperto qualche centimetro del suo pancino, che era di nuovo completamente roseo e uniforme. Aveva i capelli sciolti con i ciuffi laterali appoggiati dietro le orecchie, il viso completamente struccato, gli occhi un po' arrossati e un sorriso un po' imbarazzato sulle labbra. 
La accompagnai nella stanza dove avremmo dormito e le chiesi di scegliere uno dei letti. Eravamo soli e percepivo un'aria troppo strana. Meg sembrava aver dimenticato quella giornata passata insieme come due fidanzatini innamorati, aveva dimenticato di aver marcato il suo territorio perfino con la mia ex. Ma in fondo io non ero il suo territorio, noi non eravamo due fidanzatini innamorati. Avevamo fatto finta. In realtà ero solo io l'innamorato e solo io a voler diventare il suo territorio. Meg continuava a tirar giù il bordo della maglietta mordicchiandosi il labbro, come se in realtà non si trovasse a suo agio in quel piagiama. Come se l'avesse portato pensando di trovare un'altra situazione, una in cui eravamo soli, una in cui potesse passare un'altra notte di sesso senza dover dare spiegazioni il giorno dopo. Come se avesse ragione Daril quando diceva che era venuta a trovarmi solo per quello. 
Il pensiero mi mise a disagio, perciò la lasciai sola a sistemarsi tra le coperte e tornai in casa. Aspettai il mio turno di entrare in doccia seduto su una sedia in silenzio, facendo finta di essere solo troppo stanco per parlare. Feci in modo di essere l'ultimo ad utilizzare il bagno e restai sotto la doccia per molto più del tempo necessario. Volevo che l'acqua calda lavasse via le mie brutte sensazioni, le mie terribili ipotesi, che cancellasse tutte la verità che non volevo vedere. Infine, però, dovetti cedere. 

Quando la testa ormai mi penzolava dal sonno, uscii fuori dalla doccia e mi infilai quello che ormai era il mio pigiama prima di tornare nella stanza. Tutti dormivano, o almeno così pareva. Le luci erano spente, solo una piccola bajour era stata lasciata accesa per farmi luce quando fossi rientrato. Probabilmente avevano smesso di aspettarmi vedendo che tardavo troppo. Dopo tutto avevo passato più di quaranta minuti sotto la doccia mentre tutti gli altri erano stati piuttosto veloci.
Nella fioca luce della lampada, vidi il viso di Meg. Aveva gli occhi chiusi ma non sembrava rilassata, anzi il suo viso sembrava essere contratto, come se stesse facendo un brutto sogno, come se qualcosa la infastidisse. Voltandomi verso l'altro letto vidi Bepi e Diana che dormivano abbraccati. Tornai a guardare Meg dirigendomi verso il letto per prendere quello che pensavo fosse il mio posto. Ma trovai l'altra metà occupata da Ethan. Ecco, in quel momento avrei anche potuto fregarmene che fosse il ragazzino che avevo visto crescere ed anche che fosse il fratello del mio migliore amico. L'avrei volentieri tirato fuori dalle coperte a suon di pedate. Ma non lo feci. Pensai che se Meg aveva accettato di farlo dormire lì al posto mio poteva voler dire solo una cosa. Aveva ragione Daril. Voleva scopare e, visto che non poteva, aveva preferito starmi lontana e tenersi accanto qualcuno che magari avrebbe accettato una sveltina silenziosa mentre tutti dormivano o che, più semplicemente, poteva portarla dentro casa lontano da occhi e orecchi indiscreti. 
Cercai di bloccare quella valanga di pensieri negativi. Non potevo pensare davvero una cosa simile di Meg! Non potevo e non dovevo. Non dovevo e non l'avrei fatto. Mi sarei limitato a sdraiarmi sul materasso improvvisato sul pavimento accanto a Daril che già ronfava come un ghiro e a dormire. Era stata mia l'idea di quella serata e qualunque cosa fosse successa ne ero almeno in parte responsabile. Mettersi a fantasticare su voglie, desideri e ripicche non sarebbe servito a nulla se non a rodermi il fegato. Ma io ero fatto così! Mi costruivo enormi castelli e poi creavo mostruosi draghi che li mandavano in fiamme. Meg era il mio castello ed il mio drago. 

Decisi infine di ascoltare i miei consigli a me stesso. Mi sdraiai accanto a Daril e chiusi gli occhi. I miei orecchi, però, non potevano essere chiusi ed iniziai mio malgrado a concentrarmi su ogni più piccolo rumore che ci fosse in quella stanza. E ad ogni fruscio, ad ogni sospiro, sussultavo. Serravo gli occhi più forte, sperando che non fosse il preludio di un amplesso. Il mio drago era sempre lì pronto a incenerire tutto, a bruciare il mio castello, a bruciare me.
Un fruscio prolungato mi fece temere per il peggio, ma anche quello non fu ciò che temevo. Sentii dei passi allontanarsi ed aprii gli occhi appena in tempo per vedere Meg, illuminata dalla luce del corridoio, chiudere la porta alle sue spalle. Probabilmente era solo andata in bagno. Poteva capitare durante la notte di averne bisogno, specialmente quando si beveva tanto la sera precedente. Ma qualcosa dentro di me mi spinse ad alzarmi e a seguirla. 

Cercando di non far rumore uscii anch'io dalla stanza. Arrivai in cucina, ma vi trovai solo il padre di Daril che, mezzo insonnacchiato, prendeva un sorso d'acqua direttamente da una delle bottiglie. Mi fece un cenno distratto con la mano e si trascinò di nuovo a letto strisciando i piedi. Vidi che la porta del bagno era aperta perciò Meg non poteva essere lì. E fu in quel momento che mi trillò dentro il campanello d'allarme e la vocina della coscienza mi disse "Vedi, te l'avevo detto io di seguirla!". "E io ti ho ascoltato, idiota!" le risposi in silenzio. Fortunatamente non erano molti i posti in cui poteva essere. Entrai in camera di Ethan. Era deserta. Similmente lo studio dove Daril disegnava. Restava solo un posto dove controllare, il piccolo giardinetto. E lì la mia ricerca si concluse.

Ferma in un angolo, seduta sul cemento bianco della pavimentazione esterna, con gli occhi chiusi e il naso al cielo per odorare la notte, c'era Meg. Aveva rubato il piumone in più che avevamo messo sul suo letto e se l'era buttato sulle spalle. La vedevo dondolarsi leggermente, come a volersi cullare da sola, per rilassarsi e tranquillizzarsi. Ma cosa poteva essere a turbarla? Forse non aver raggiunto il suo scopo. 
Fui tentato di tornar dentro dopo quel pensiero, ma mi schiaffeggiai mentalmente. Mi ero di nuovo lasciato trascinare nel decidere autonomamente cosa c'era nella testa di Meg. E non dovevo farlo. Mi avvicinai a lei cercando di non far rumore ma allo stesso tempo di far notare la mia presenza per non spaventarla. Sentendo scricciolare i miei passi, Meg aprì gli occhi e si voltò. Lentamente mi sorrise e tornò ad alzare la testa al cielo. 

- Sei un'amante della polmonite tu, vero? - Le chiesi, tenendo il tono della voce basso.
- Sono un'amante delle stelle. - Rispose continuando a fissare il cielo. 
- Puoi guardarle anche da dentro casa! Servono a questo i vetri trasparenti. A guardare fuori. - Scherzai sedendomi accanto a lei. 
Si voltò a sorridermi ancora e mi porse un po' della coperta. - Non è la stessa cosa. Non ne senti il profumo dentro casa. -
- Il profumo di cosa? -
- Delle stelle, ovvio. - Rise, quasi mi stesse prendendo in giro perché non ero arrivato a un concetto banale e scontato, tornando poi a guardare le sue amate.
- Ma che diavolerie dici? -
- Le stelle non hanno profumo! Non puoi sentire il loro odore. E poi al massimo farebbero puzza di bruciato. -
Mi fissò come se avessi appena detto un'eresia e meritassi di morire bruciato sul rogo. Poi tornò a fissare il cielo. - Le stelle profumano, Cris. Hanno un profumo diverso ogni notte. - Inspirò profondamente riempendosi narici e polmoni di quell'aria fredda. - Lo senti? Oggi sa di foglie bagnate. - 
La imitai e percepii davvero odore di foglie bagnate, ma non erano di certo le stelle a produrlo. La causa erano l'unico alberello di quel piccolo giardino e le sue foglie secche in quella fredda notte che rischiava di gelarci.
- Mia mamma me lo diceva sempre. - Continuò Meg. - Quando papà mi diceva di andare in giardino, io non volevo andarci perché era buio, c'era freddo e avevo paura. Allora mia mamma mi accompagnava e mi diceva di annusare l'aria. "Che odore hanno stasera le stelle Megara?" mi chiedeva. "Appena lo scopri puoi rientrare" mi diceva. - La voce le iniziava a tremare. - Poi chiudeva la porta. Ed io annusavo, annusavo e continuavo ad annusare finché non trovavo un profumo. E allora correvo contenta alla porta e bussavo, bussavo e continuavo a bussare. Ma nessuno apriva. - Le lacrime iniziavano a farle spezzare le parole in gola. - Pensavo che forse avevo sbagliato odore e tornavo ad annusare. E poi tornavo di nuovo a bussare alla porta. Mamma veniva ad aprire. "Mamma, mamma! Le stelle sanno di pioggia oggi" oppure "Le stelle oggi fanno puzza di cane". "Sta zitta e vai a letto. Muoviti prima che tuo padre si incazzi" era questa la sua risposta. A volte, invece, la mamma non veniva ad aprire e io continuavo a cercare l'odore giusto finché non mi addormentavo. A volte pioveva. Pioveva forte. Avevo tanto freddo. E c'erano i tuoni che facevano tanto rumore. Mi facevano male le orecchie. E la mattina papà si arrabbiava perché avevo dormito fuori. Provavo a dirgli che non era colpa mia, che l'odore delle stelle non era abbastanza chiaro quella notte. Ma a lui non interessava niente dell'odore delle stelle. Mi portava nella mia camera e poi... -
La voce le si spezzò in modo definitivo. Iniziò a singhiozzare. Il suo petto sussultava in modo spasmodico. Immediatamente la abbracciai. Mentre lei piangeva sempre più forte, io la stringevo sempre di più. 

- Non è qui. Non può farti più del male. Nessuno ti farà più del male. - Sussurrai accarezzandole i capelli quando i singhiozzi iniziarono a calmarsi. - Nessuno. Te lo giuro su quanto ti amo. - 
Non so perché lo dissi, ma lo feci. Non dovevo. Non era il momento, non era il modo, non era l'occasione. Eppure lo feci. Mi uscì dalle labbra, sfuggì al mio controllo. Era sempre stato lì quel 'ti amo', per lei. Nascosto sotto mille 'ma' e cento 'se'. Camuffato, oppresso, respinto. E adesso si era ribellato.

Meg alzò la testa e si scostò di colpo, fissandomi con occhi grandi e pieni di lacrime che continuavano a scorrere, ma solo per inerzia. - Cosa hai detto? -
La gola mi si seccò improvvisamente. La guardavo negli occhi e non avevo il coraggio per ripeterlo. La sua reazione sembrava aver chiaramente definito come sarebbe andata la cosa. Gliel'avrei ripetuto, lei avrebbe riso e sarebbe tornata in casa mandandomi a fanculo. Stavolta, però, dovevo tentare. Non dovevo aver paura. Come aveva detto Naki? "L'amore ti fa volare". Ed io volevo comprarmi un paio d'ali. Respirai e presi il coraggio a due mani. 
- Ti amo, Meg. -
Il suo volto si illuminò per un attimo, subito prima di rabbuiarsi di nuovo. - Che stai dicendo? - Domandò confusa.
Le sorrisi mentre portavo una mano a sfiorarle il volto. - Sto dicendo che sono innamorato di te. -
- Ma non è possibile. - Si alzò in piedi. - Noi ci conosciamo da così poco tempo! E poi io, io... - 
- Tu. Sì, tu. - Mi alzai anch'io e la abbracciai. - Sei una delle ragazze più belle che io abbia mai visto. Sei intelligente, simpatica. Sei unica. - 
- Non è vero. Non mi conosci. Io non sono come dici tu. Non puoi innamorarti di me. Nessuno può. - Abbassò lo sguardo. 
Capii a cosa si riferiva. Doveva essere una delle mille cose che quell'idiota di Jeff le aveva inculcato. Il mio indice le accarezzò la pelle tracciando il profilo del suo viso. Arrivò al mento e spinse leggermente per farle alzare la testa. Vidi che i suoi occhi erano improvvisamente diventati lucidi. Lacrime rilucevano sotto i raggi della luna. Una cadde dalla rima cigliare ed io la raccolsi col pollice per poi baciare il punto dove questa aveva inumidito la sua pelle. 
- Come se non ti amassi già. - Sussurrai. - Tu sei proprio il tipo di ragazza che può far perdere la testa a chiunque. E lo fai. Tu non te ne rendi conto. Non capisci l'effetto che fai sulle persone che ti conoscono. Sui ragazzi che ti vedono. Su di me. - 

- Io... - Le parole le morirono sulle labbra. Le guance le si colorarono di un rosso vivo prima che tornasse a parlare. - Non so cosa dire. -
- Dire che mi ami anche tu sarebbe una bella idea. - Io risi, ma Meg sembrò irrigidirsi. Cercai di rasserenarla prendendole il viso con entrambe le mani. - Ma non lo pretendo. Non sarebbe giusto forzarti a dire qualcosa che non vuoi. Non mi ami e lo so. Più in là nel tempo potresti farlo. Ed io sarei estremamente felice per questo. Ma potrebbe anche capitare che tu non ti innamori mai di me. E allora io ne soffrirò terribilmente, ma non te ne darò mai a vedere. Non dovrai saperlo perché dovrai continuare ad essere felice lo stesso. Non dovrai portarti il peso del mio dolore sulle spalle. Io voglio che tu sia felice. -
Si sciolse in un sorriso.

- Ma come potevi stare con una così? - Meg rideva mentre l'abbracciavo distesi sul prato al di là della pavimentavione del piccolo giardino. - Non dico che sia brutta, ma si vede lontano un miglio che è una scassa palle! -
- Abbastanza sì. Non so nemmeno io come mi sono trovato legato a una come lei. Fortuna che ho aperto gli occhi prima che mi convincesse a sposarla! - 
- Sposarla? Oddio! - Si liberò dal mio abbraccio e si alzò. - Senti tesoro. Sei uno stronzo, ok? - Iniziò a dire con la voce in falsetto imitando quella forzatamente sottile di Miriam,muovendo le mani esageranto il suo atteggiamento e tenendo la testa sollevata con il naso per aria. - Hai il coraggio ti portare qui dentro le tue troiette? Questo è il mio territorio. Non dovresti starci nemmeno tu. E quella troia è pure una cessa. - Si sedette nuovamente ed accavallò le gambe. - E ha anche il culone! - Puntualizzò flettendo il polso della mano destra in cui teneva l'indice dritto come una lancia. 
Non potei evitare di ridere. - Va beh, anche tu gliene hai cantate quattro. -
- Io? Non ho fatto niente. Ho solo detto la verità. Che è patetica a fare queste scenate per un ragazzo che l'ha mollata. Ormai il treno è passato. Ciao, ciao! -
- E lo prenderai tu questo treno? - Le domandai tirandola verso di me. 
Rise e abbassò lo sguardo imbarazzata. 
- Ehi, non voglio una risposta adesso. Stavo scherzando. - Le picchiettai sul naso con l'indice.
- Io invece una risposta la vorrei. - Mi guardò nuovamente.
- A quale domanda? -
Aspettò qualche secondo. - Quando? -
- Quando? - Ripetei. - Non so dirti un momento preciso. Ma credo che tutto sia iniziato l'anno scorso. -
- L'anno scorso? - Sbarrò gli occhi lei. - Ma non ci conoscevamo l'anno scorso. -
- Ma io ti avevo già notata. Ti guardavo spesso e mi piacevi molto. Non solo fisicamente. Avevo intuito qualcosa del tuo carattere e mi piaceva molto anche quello. C'era solo una cosa che non mi piaceva. -
- Cosa? Sono curiosa. -
- Jeff. - Ammisi velocemente, sperando che nominarlo non provocasse in lei brutte reazioni. 
Un lampo di paura passò nel lago dei suoi immensi occhi nocciola, ma subito tornò il sereno. - Ora non c'è più. -
- Già. - La abbracciai forte sotto la coperta. - Ho sempre sospettato che non fosse un tipo normale. -
- Beh, a modo suo mi amava. -
- Meg. Quello non era amore. -
Non rispose. Si zittì. Non dovevo essere così diretto forse, ma non avevo potuto evitarlo. 

- Andiamo a letto? - Mi chiese, forzando un sorriso. 
Guardai l'orologio. Erano quasi le sei del mattino. - Direi che se vogliamo dormire almeno un paio d'ore dovremmo proprio rientrare. - Le posai un bacio sul naso. Mi alzai ed aiutai lei a fare altrettanto. - Solo un'altra domanda vorrei farti. -
Mi guardò mentre le avvolgevo la coperta attorno alle spalle aspettando che gliela ponessi. 
- In realtà non so come dirtelo. - Mi passai le dita sulla nuca e mi gettai. - Non è che ti piace Ethan per caso? -
Mi fissò un attimo, poi scoppiò a ridere. 
- Che c'è? Perché ridi? - 
Continuò a farlo mentre mi stringeva le braccia intorno al collo lasciando cadere la coperta. Spinse il suo sorriso sulle mie labbra. - Sei geloso per caso? -
Mi resi conto di aver di nuovo corso. Le avevo detto di amarla, ma non avevamo concretizzato la situazione tra noi. Conosceva i miei sentimenti, ma ciò non significava che stessimo insieme. Rimasi in silenzio. Meg smise di ridere, ma il suo volto rimase rilassato e sorridente. Mi baciò di nuovo.
- Mi piaci. -
Si abbassò a raccogliere la coperta, mi prese per mano e mi tirò verso la casa.

Era domenica mattina, ma il pensiero era fisso su quel Venerdì notte. Non riuscivo ancora a credere di averle detto che l'amavo. Ma riuscivo a capacitarmi ancora meno di come lei non si fosse opposta. 

Tornati in camera mi aveva sussurrato di non voler dormire lontano da me. Non avrei mai saputo dire di no a quegli occhioni grandi che rilucevano nel buio, ma non avrei potuto buttar fuori Ethan dal letto. Mi disse che era disposta a farlo lei, ma la fermai. Una soluzione, in fondo, c'era. Mi sdraiai sulla mia metà del materasso che era stato posto a terra, spostando prima il braccio di Daril che si era impossessato del mio cuscino. L'avevo invitata a dormire sul mio petto, ma lei mi disse di no. Fu un po' come se la mia parte razionale si svegliasse e mi piantasse una sberla in pieno viso urlandomi di essere un coglione. Vedendo che non rispondevo in alcun modo e notando probabilmente il mio dispiacere, mi porse la mano sorridendo. 
- Alzati. - Sussurrò. 
Obbedii prendendole la mano, ma senza gettarle il mio peso addosso. Meg immediatamente prese il mio posto sul materasso, si sistemò per bene il cusino dietro alla testa con la mano libera e poi tirò piano la mia. Mi fece sdraiare su di lei, portando la mia testa ad appoggiarsi lateralmente sul suo seno.
- Ma ti schiaccio. - Cercai di protestare, ma lei non volle sentire ragioni e mi costrinse a rimanere in quel modo per l'intera notte. Fu la costrizione più piacevole della mia vita! Dovetti lottare contro l'istinto di liberare piano i bottoncini dalle loro asole per baciare la pelle del suo petto. Avevo un desiderio folle di fare l'amore con lei, nonostante tutto e tutti. Non riuscii a placare la mia eccitazione e lei se ne accorse. Rise maliziosa mordendosi la lingua e mi diede un bacio sulla fronte. Iniziò ad accarezzarmi i capelli e lo fece fin quando non mi addormentai. 
La mattina dopo mi ero svegliato per ultimo e l'avevo trovata in cucina a far colazione insieme ai ragazzi e ai genitori di Daril. Poi l'avevo accompagnata alla stazione e l'avevo vista partire. Il cuore mi si era rimpicciolito tanto da sembrare evaporato nel nulla lasciando solo un piccolo cumulo di dolore. Io stesso mi rimproverai quell'emozione così stupida. L'avrei rivista solo pochi giorni dopo, ma lasciarla andare in quel momento in cui avrei solo voluto stringerla fu terribile. E così avevo iniziato a pensare a lei più intensamente, più assiduamente. Se prima Meg era un chiodo fisso, in quel momento era diventata una trave portante. 

E quella domenica mattina per me sembrava essere solo l'inizio di un altro giorno di tortura che mi avrebbe tenuto lontano dalle sue braccia. Il trillo del citofono riaccese in me la speranza. Mi precipitai alla porta nonostante fossi solo in casa perché fremevo dalla voglia di vedere se il mio desiderio era stato realizzato, se a pigiare il campanello di casa era stato il ditino delicato di Meg. Spalancai la porta con un po' troppa forza e per poco la vecchia cornice di legno che la circondava non venne via insieme ad essa. Il mio sorriso si spense un po'. 
- Ciao Terry. - Dissi sconsolato. Lasciai la porta aperta e mi spinsi verso la cucina. 
Terry entrò e richiuse la porta. Mi raggiunse in cucina, accigliata. - Oh, buongiorno! - Iniziò a parlare con tono sarcastico. - Quanto è bello rivederti. Certo che queste vacanze sono state lunghe. Devo dirti che mi sei mancata. No, no, ti prego non abbracciarmi così stretta che mi disfi la maglietta. Placa il tuo entusiasmo. - Si fermò ed incrociò le braccia. 
Capii il suo rimprovero. Me lo meritavo sul serio. Mi alzai dalla sedia su cui mi ero depositato ed andai ad abbracciarla. Lei non si mosse e continuò a tenere le braccia incrociate facendo l'offesa. 
- Scusa. - Sussurrai baciandole la tempia. - E' bello rivederti. Dico sul serio. - Sciolsi l'abbraccio ma le tenni le braccia con le mani e la guardai con sguardo volutamente pietoso finché non si sciolse in un sorriso. Allora la abbracciai di nuovo e poi mi allontanai iniziando a preparare la moka senza neanche chiederle se volesse caffè. - Come sono andate le vacanze? -
- Niente più e niente meno di quello che ti ho detto al telefono. Una noia mortale. Cosa vuoi che sia cambiato negli ultimi giorni? Anzi sono stati peggio dei primi. -
Sogghignai sommessamente pensando a quanto era cambiata la mia vacanza negli ultimi giorni. - Già, cosa vuoi che cambi? -
Terry mi guardò perplessa. - Che è quella risatina sul volto? Mi stai nascondendo qualcosa? -
- No. - Mi voltai con la scusa di prendere il caffè in polvere per nascondere il risolino che ancora mi campeggiava in volto. 
Finii di preparare la moka e la misi sul fuoco. Terry continuò a squadrarmi in cerca di risposte mentre io non riuscivo a cancellare il sorriso dal volto. 
- Cris, credo di aver imparato a conoscerti e so che è successo qualcosa. E visto il sorrisetto tirerei anche ad indovinare un nome. Centra Meg vero? - 
Al solo sentire il suo nome il sorriso mi si allargò in modo spontaneo. 
- Centrato in pieno. - Disse esultando. - Ora che ti ho sgamato sputa il rospo. Vi siete sentiti? -
- No, Terry. Qualcosa di meglio. E' venuta a trovarmi. -
- Cosa? - Urlò sbarrando gli occhi. Non potei fare a meno di ridere. - Intendi dire a casa tua? A casa... casa? - 
- Circa. -

Iniziai a raccontarle ciò che era successo, di come me l'ero vista sbucare al negozio di Daril, del giro al centro commerciale, del pomeriggio a casa dei ragazzi, della sera al locale, dell'incontro con Miriam. 
- E così siamo rimasti a dormire a casa di Daril. - Conclusi versando il caffè nei bicchierini di plastica. 
- Certo che Meg è proprio una folle. Questo di certo significa che non le sei indifferente. Oserei dire che prova qualcosa per te. Intendo qualcosa di serio, di pesante. - Terry prese il suo bicchierino ed iniziò a fissare il caffè mentre lo mescolava con la bacchettina trasparente.
- Non voglio illudermi prima del tempo, ma quella sera mi sono fatto trasportare e mi sono aperto. -
- In che senso? - Mi chiese prima di iniziare a sorseggiare il caffè ancora bollente.
- Le ho detto che la amo. -
Il caffè le andò di traverso ed il bicchierino le cadde dalle mani. Iniziò a tossire, tanto che il suo viso si infiammò di rosso. Temetti che non riuscisse a respirare. Immediatamente scattai in piedi cercando di darle una mano, di tamponarle il caffè bollente che le era caduto addosso con un tovagliolino credendo di poter attutire il bruciare. Lei continuava a tossire battendosi il petto. Mi bussò sulla spalla e mi indicò il frigo mentre continuava a tossire con gli occhi chiusi. Capii che mi stava chiedendo dell'acqua, così corsi a prelevarne una bottiglia dal frigo e gliela porsi. La prese e iniziò a bere, fregandosene del galateo. Infine prese un enorme respiro e ricominciò ad acquistare colore.
- Che diavolo è successo? - Le chiesi. 
- Niente. Mi è andato di traverso il caffè. - Disse minimizzando e accarezzandosi i vestiti, in buona parte macchiati dal caffè. - Questi dovrò metterli a lavare. - Afferrò il bicchierino dal pavimento. - Non ne è rimasto neanche un po'. Peccato. - Andò a gettarlo nella pattumiera. 

- Sicura di sentirti bene? -
- Sì, sì! Certo! - Disse quasi gridando. - E allora, le hai detto che la ami? - Il suo tono sembrava strano, quasi alterato.
- Sì. - Dissi un po' tentennante continuando a fissarla stranito.
- E lei come ha reagito? -
- Bene. Cioè... era un po' sorpresa, ma alla fine non mi ha rifiutato. Anzi, abbiamo passato la notte insieme. -
- Avete fatto di nuovo l'amore? - Le sue domande sembravano quasi un interrogatorio più che le curiosità di un'amica.
- No, abbiamo dormito con gli altri. - Decisi di fermare tutto e farle la domanda che mi frullava in testa. - Ma che t'è preso tutto di botto? -
- Niente. Che m'è preso? -
- Sembri incazzata quasi. -
- Non sono incazzata, è solo che... -
- Che... continua. -
- Che mi hai preso alla sprovvista. - Passeggiava nervosamente per la cucina. - Dire a una persona che la ami non è una cosa da niente. Non credevo che lo facessi così presto. -
- Aspetta. Credo di essermi perso un pezzo. Non eri tu che tifavi per noi fin dall'inizio? Che sperava che ci mettessimo insieme? Ti dico che mi sono deciso ad aprirmi con lei e confessarle i miei sentimenti e la cosa non ti va bene? -
- Non ho detto che non mi va bene. Ho detto solo che non me lo aspettavo. Mi ha lasciato un po' spiazzata la cosa. Solo questo. Non ho detto che non dovevi farlo o che non tifo più per voi. - Sorrise. - Meg si merita un ragazzo come te. - Si fissò un attimo le scarpe e poi mi guardò di nuovo. - Posso usare il bagno un attimo? Dovrei lavarmi le mani. - Disse mostrandomi le mani impiastricciate di caffè. 

- Scusa se non ho fatto niente di quello che avevo promesso, ma ho avuto la testa da un'altra parte. -
- Tranquillo. - Disse Terry iniziando a tirare fuori dallo zainetto fogli su fogli. - Ho fatto io per tutti e due. -
- Ma il lavoro dobbiamo farlo entrambi. -
- Tranquillo ti ho detto. Ci sono abituata. -
- Ehi. - Le fermai le mani. - Mi pare di avertelo già detto che io non ho intenzione di approfittarmi delle tue capacità. Il lavoro si fa insieme o non si fa. - Le presi gli ultimi fogli dalle mani e li impilai sugli altri. - Ora leggiamo insieme questa roba, io ti mostro i miei appunti e decidiamo insieme cosa mettere dentro la relazione. Tu ti siedi qui. - La forzai ad accomodarsi sul letto e trascinai la sedia accanto al comodino. - Questa la mettiamo qui e ci mettiamo sopra il computer, così mentre io lavoro tu potrai stare comoda e riposare se vuoi. -
- Ma non hai appena detto che il lavoro dobbiamo farlo insieme? -
- Appunto! Tu hai già lavorato perciò io devo recuperare. Questo significa che la maggior parte del lavoro di oggi dovrò farlo io. Tu rilassati. Sempre che tu riesca a fidarti di me. -
Terry mi sorrise. Era molto più serena e sembrava che il malumore della mattina fosse del tutto scomparso. Anzi, sembrava quasi averlo dimenticato del tutto. 
- Certo che mi fido di te. Però... -
- Però vuoi metterci il naso anche tu. L'ho capito e per me non c'è problema. Non ho detto che da ora in poi tu non dirai mai più nulla. Ovviamente dobbiamo essere daccordo su queste relazioni, no? - Sorrisi anch'io e le carezzai il mento.
Si gettò in avanti, in un abbraccio improvviso e imprevisto. - Certo che è proprio fortunata Meg. - Sussurrò prima di schiacciarmi le labbra sulla guancia. 
Il bacio finì troppo vicino all'orecchio, così tanto che il timpano mi iniziò a fischiare e dolere. Portai la mano a coprirmi il padiglione gridando, esagerando volutamente la mia reazione per non dover soffermarmi troppo su ciò che avevo sentito ma volevo far finta di non aver afferrato.

Il mio telefono squillò poco dopo aver terminato il pranzo. Finii di versare il caffè nelle tazzine prima di rispondere. - Pronto? - - Ciao Cris, come stai? - Riconobbi la voce di Naki. - Naki, ciao. Sto bene grazie. Tu? Daniele? Brendon? - - Sì, noi stiamo bene. Sembriamo quasi una famiglia, sai? E ora a Brendon i denti stanno uscendo uno dopo l'altro. Infatti anche se non sta proprio male, si sente spesso disturbato. Ti ho chiamato per sapere quando torni. Domani ricominciano le lezioni, no? Penso che oggi pomeriggio sei qui, giusto? In caso stasera ceni da noi? - - Ehm... veramente io sono qui da ieri pomeriggio. - Naki non rispose per un attimo. Immaginai subito quale sarebbe stata la sua reazione. - Sei qui da un giorno e non ti sei fatto nè vedere nè sentire? - Disse poi in tono severo. - Hai ragione. Solo che ho avuto la testa da un'altra parte. - - Va beh, lascia stare. Ci vediamo a lezione domani. - Chiuse la chiamata prima che potessi risponderle. Fissai un attimo il cellulare, indeciso se essere dispiaciuto o meno data la reazione un pelino eccessiva.

- Si è incazzata? - Mi chiese Terry sorseggiando il caffè. - Già. - Poggiai il telefono sul tavolo. - Col rapporto che avete voi, non ha tutti i torti. - Prese un altro sorso di caffè. - Beh, anche lei da quando si è messa con Daniele non mi aggiorna di tutti i suoi spostamenti. - - Ma è una cosa diversa. - Finì il caffè. - Tu stai tornando dopo quindici giorni. Si sarebbe aspettata almeno un messaggio per dirglielo. - - Sì, su questo hai ragione. E poi dice che Brendon non è stato benissimo perché ha messo altri denti. Sicuramente non avrà riposato e sarà nervosa. - Iniziai anch'io a prendere il caffè. - Sì, dai. Non rimarrà incazzata a vita. Ti perdonerà prima o poi. - Ridacchiò. - Ma mi dispiace sul serio, Terry. Naki è come se fosse diventata una sorella per me e il piccolo Brendon mi è mancato un sacco, te lo giuro. Solo che sono stato un po' fuori fase in questi giorni. Pensavo solo a Meg e speravo che ci potessimo vedere. Ma essendo quasi scappata di casa, è in una sorta di proibizione per un paio di giorni. -

Terry fissava l'interno ormai vuoto del suo bicchierino mentre io svuotavo il mio. - Siamo arrivati a buon punto, vero? - Domandò Terry, interrompendo il silenzio e voltando argomento. - Con le relazioni? Sicuramente. Una è già quasi finita, in pratica. - - Ottimo. Ora riprendiamo. - Si alzò dalla sedia. - Ehi, con calma! Non ci morde la coda nessuno. Digeriamo un po' prima! - Mi guardò un attimo in silenzio, poi parlò. - Come vuoi. Io vado un attimo in bagno. - Scomparì nel corridoio. Sollevai le spalle quando lei già non poteva più vedermi. Mi alzai e presi a lavare i piatti del pranzo. Dopo qualche minuto tornò in cucina, si appoggiò al muro incrociando le braccia e restò a guardarmi mentre insaponavo e risciaquavo. Poi si avvicinò e prese in mano uno strofinaccio iniziando ad asciugare ciò che avevo lavato senza chiedere. Non la fermai e vidi come osservava in modo scrupoloso il lavoro che avevo fatto. - Wow. Sono più puliti di quelli delle mie coinquiline. - Osservò.

Sorrideva, ma sul suo volto si disegnò l'imbarazzo di cose non dette. Quando hai qualcosa da dire ma te lo impedisci. Vorresti ma non puoi. Potresti ma non vuoi. E quando vedevo quelle linee non riuscivo a restare indifferente. - Terry, per caso devi dirmi qualcosa? - Sgranò gli occhi e le guance le si colorarono di rosso. - Io? Cosa? No, che dovrei dirti? - - Non lo so. Sembrava che volessi dirmi qualcosa. - - No, no. - Si spostò i capelli dalla fronte. - No. - Ribadì. Non potei fare a meno di sorridere.

Il campanello trillò. Come quella stessa mattina, per un attimo sperai che fosse Meg. Terry dovette riconoscere la luce che si accese nei miei occhi. Roteò la testa e scomparve di nuovo nel corridoio, diretta in camera. Io andai sorridente alla porta. Come un quindicenne, mi sistemai tutto eccitato la maglietta e mi passai le mani tra i capelli velocemente. Aprii la porta. Naki mi travolse entrando in casa come una furia. - Sei terribilmente stronzo, ecco cosa! - Portava il borsone su una spalla e Brendon in braccio. Ansimava ed era visibilmente stanca. - Uno stronzo bastardo! Questo è quanto ci tiene in conto lo zio Cris. Pff! Zio Cris un corno, ecco cosa! - Scaraventò il borsone sul tavolo. Quando stesi le braccia per cercare di prendere il bambino, lo strattonò via. - Ehi, non pensare di prenderlo adesso. Sai come si dice qui? Dove hai trascorso l'estate, vai a fare l'inverno! E questo sai cosa significa? Che come non ci hai calcolati per i fatti tuoi, ora non ci calcoli per i fatti miei. Ecco. E sei uno stronzo, questo è quanto. - Brendon la guardava con occhi enormi, non comprendendo cosa stesse succedendo. Io cercavo di non ridere. Il modo in cui si agitava Naki era parecchio comico, ma sapevo che ridere avrebbe solo peggiorato la situazione. Quando finì di sbraitare, aspettai qualche secondo che prendesse fiato. - Ti sei calmata? - - Non dirmi se mi sono calmata, perchè è tutta colpa tua! - - Lo so. - La bloccai ed iniziai a parlare con un tono volutamente calmo e pacato. - Hai perfettamente ragione e mi dispiace tanto. Sono stato preso da mille pensieri e ho trascurato te e il bambino. Ma ti giuro che non l'ho fatto perché mi sono dimenticato di voi. Anzi, mi siete mancati tanto durante queste vacanze. Te lo giuro. Ormai siete la mia seconda famiglia e non cambierà certo per quindici giorni di assenza. - Naki mi fissò tenendo ancora le labbra corrucciate, ma mentre loro restavano immobili, i suoi occhi iniziavano ad illuminarsi della solita luce di gioia contagiosa che li contraddistingueva. Si avvicinò piano a me e, senza dire una parola, mi porse Brendon che continuava a guardarla spaesato. Anche quando passò nelle mie braccia non riuscì a staccare gli occhi da quella mamma tanto isterica che aveva appena visto. Mi guardò ancora un po' e poi, finalmente, mi sorrise. - Ti perdono per questa volta. - Sorrisi anch'io e mi sporsi in avanti per abbracciarla ma lei allargò il palmo della pano davanti alla mia faccia, indicandomi di fermarmi. - Resti comunque uno stronzo. - Aggiunse. Poi fu lei a venirmi ad abbracciare.

Stretto nel loro abbraccio mi sentii invadere dal calore della famiglia. Era vero ciò che avevo detto a Terry e alla stessa Naki. Loro due erano diventati la mia seconda famiglia. In così pochi mesi avevamo vissuto così tanto insieme, aiutandoci e sostenendoci, aggrappandoci e dandoci appoggio, che sembravano essere passati diversi anni da quel giorno di soli due mesi prima in cui mi aveva sorpreso con il suo arrivo durante la lezione di Fisica 2. Mi sentivo legato a loro da qualcosa di più forte della semplice amicizia o del rapporto che può crearsi tra colleghi che studiano insieme. Dopo tutto, avevamo anche superato la fase di attrazione sessuale. Perciò eravamo ormai davvero come fratello e sorella. La guardai per un attimo mentre pensavo a che sorella figa mi fosse finalmente capitata e mi misi a ridere da solo.

- Perché ridi? A che pensi? - - Oh, niente! Una cosa stupida, tranquilla. Andiamo in camera che c'è Terry. - - Terry? - Rispose Naki con faccia interrogativa. - La ricordi? Capelli lunghi, scuri. Occhi un po' allungati, color ambra. Un po' secchiona. - - Certo che mi ricordo chi è Terry, ma mi stupisce il fatto che sia qui. Sarebbero questi i pensieri che hai avuto? Non avrai mica una tresca con lei, vero? Vedi che metterti con una delle sue amiche non è il modo migliore per dimenticare Meg. - - No, no. Sei fuori strada nel modo più assoluto! Giovedì dobbiamo consegnare delle relazioni di Reti per quella cosa dei seminari a Torre del Vetro e dobbiamo farne due insieme. - Mi squadrò ancora interrogativa, cercando di indagare con lo sguardo per trovare qualche traccia di bugia. - E allora quali sarebbero i pensieri che ti hanno preso così tanto? - Mi accarezzai la nuca e sentii le guance che diventavano rosse. - Ok, quella faccia può significare solo una cosa. Che è successo con Meg? - - Non posso spiegartelo ora. La cosa è un po' lunga. - - E vuoi tenermi sulle spine fino a stasera? - - Sopravvivrai. - Risi e lei mi diede un pugno sul braccio con cui non tenevo Brendon. - Allora vado a salutare Terry e torniamo a casa. -

Si avviò verso la stanza ed io restai solo con il bambino. - Ehi, piccolo. - Lo strinsi forte. Ancora non ero riuscito a vedere il suo sorriso perché sembrava essere rimasto scosso dalla scenata di prima. Ovviamente un bambino non può comprendere che è tutto finito. Ha bisogno di essere rassicurato. Così iniziai a giocare con lui, finché finalmente non riuscii a farlo ridere. Mi mostrò tutti i dentini che avevano iniziato a crescere e in quel momento mi sentii riempire il cuore di gioia, come solo un bambino può fare. - Tio! - Mi era mancata la sua voce che mi chiamava in quel modo e anche le sue manine cicciotte che mi impastavano il viso.

Naki tornò in cucina, prese il bambino, ci salutammo ed uscì dalla porta. Tentai di andare dalla cucina alla mia camera, ma il telefono iniziò a suonare.

- Pronto? - Risposi di nuovo senza guardare il display. - Sei ancora vivo? Fantastico. - La voce di Ludovica squillò alla cornetta seguita da una forte risata. - Sì, sono vivo. Sono in città. - - L'ho sospettato. Sono andata da mio cugino e ho incrociato Naki che saliva a casa tua. - - Non ti si può nascondere nulla. Sei una moderna Sherlock Holmes! - - Non prendermi per il culo. Ci vediamo stasera? - - C'è Terry da me. Dobbiamo finire le relazioni di Reti altrimenti le viene una crisi isterica. E poi dovrei andare a cena da Naki. - - E non lo riesci a trovare un buco per me nella tua fitta agenda d'impegni? Credo che dovremmo parlare. - - E di cosa? - - Di una personcina che è stata messa in reclusione per due giorni. Credo che tu centri qualcosa. - Risi cogliendo il riferimento a Meg. - Non lo so Ludo. Mi piacerebbe tanto vederci, a prescindere dal parlare di questa cosa, ma non lo so se posso. Ceniamo insieme domani? - - Mmmmmm tenterò di resistere. Va bene, ti lascio andare che devo mettere a letto i miei cuginetti. - - Ciao Ludo. Ci vediamo domani. -

Chiusi la chiamata e il telefono vibrò di nuovo. Per un messaggio, però. Lo lessi in fretta mentre nella mia mente mi ripetevo che non ero mai stato così popolare e ricercato in vita mia. Mi illuminai quando vidi che il messaggio era di Meg. 'Come va la giornata con Terry? Ti sta facendo impazzire? Studiare con lei è una prova di pazienza. Io sto impazzendo tra queste quattro mura. Preferirei un milione di volte essere con te.'

Dopo una cena tranquilla, un po' di coccole a Brendon e una chiacchierata lunga ore, avevo passato la notte sul divano di Naki. Ormai avevo imparato a prevedere quando una cena lì avrebbe comportato una conversazione così lunga da farmi proporre di restare a dormire, perciò mi ero portato il cambio e per la prima volta, pur di non tornare a casa di primo mattino e pur di approfittare del passaggio di Daniele, mi concessi una bella doccia in quella casa che sentivo ormai un po' mia. 

Daniele ci accompagnò in macchina fino al cancello della facoltà, molto in anticipo rispetto alla lezione di Fisica 2 perché aveva un appuntamento a cui non poteva rischiare di ritardare. Entrammo in aula quando questa era ancora vuota, se non per due o tre persone più mattiniere di noi. Naki teneva in braccio Brendon mentre io montavo il seggiolino da sedia che i suoi nonni avevano regalato al piccolo. Ormai il piccolo stava parecchio scomodo nel guscio in cui era abituato a passare le lezioni ed inoltre non riusciva più a dormire con molta confusione intorno perché il suo sonno era diventato molto leggero a causa dell'indisposizione che provava per la nascita dei dentini, perciò quello era stato un regalo più che azzeccato sia per l'università che per altre occasioni. Dopo aver finito di sistemarlo, tolsi il borsone dalle braccia di Naki e lo poggiai sulla sedia a fianco. Posai il mio zaino nella successiva e mi avviai verso le scale. 
- Ehi! - Mi fermò Naki.
- Che c'è? -
- Hai finito? -
Tornai indietro a verificare di aver fatto bene il mio lavoro. La sediolina era ben agganciata. - Che devo fare ancora? -
- Non prendi il posto per Meg? -
Istintivamente mi voltai verso i posti vuoti che c'erano accanto al mio. - Credi che dovrei? -
- Certo che devi! -
- Non è che poi sembro un maniaco ossessivo compulsivo? -
Naki sollevò un sopracciglio. - Non è che mettere un quaderno sul tavolo sia stalking, eh! - 
Risi leggermente a quella battuta ed estrassi il blocchetto per gli appunti dallo zaino per poggiarlo sul tavolo come segna posto. Mi fermai un attimo e poi uscii dallo zaino il raccoglitore ad anelli, il porta matite e un libro che non ricordavo neanche perché fosse lì. Iniziai a poggiarli sul tavolo ad occupare i posti di seguito, elencando ad alta voce le persone a cui erano riservati. - Ludovica, Terry, Marco. Ora siamo al completo. -
Naki aveva ancora il sopracciglio alzato. - L'hai fatto per camuffare di aver conservato il posto a Meg? Credo che lo sappia ormai che pensi a lei, no? Non si stupirebbe mica. -
- No, no. Cosa vai a pensare? - Mossi la mano come se volessi scacciare quell'idea stupida appena detta, anche se tanto stupida in fondo non era. 

La porta dell'aula si aprì e per un attimo ebbi un tonfo al cuore. Speravo fosse lei, invece erano tre colleghi qualunque. 
- Sobbalzerai ogni volta che sentirai muovere una foglia finché non la rivedrai? - Mi chiese Naki mentre la raggiungevo. - Sei teso come una corda di violino. - Aggiunse sottovoce.
Le sorrisi imbarazzato non riuscendo a rispondere. Ancora una volta mi aveva letto dentro. Tentavo di nasconderlo, di mostrarmi spavaldo e disinteressato, ma dentro stavo fremendo. Non vedevo l'ora di rivederla, di abbracciarla ancora. Ma d'altro canto avevo anche una grande paura. Molte paure a dire il vero. La paura più forte era che lei arrivasse e si comportasse come se nulla fosse successo, forse. Probabilmente. Sicuramente. 

Ci dirigemmo verso le macchinette. Brendon giocava con le orecchie della mamma e la sua testa era leggermente ciondolante. Aveva passato una notte disturbata perciò probabilmente, al contrario delle nostre previsioni, si sarebbe addormentato. Fortunatamente la sediolina era leggermente reclinabile. Anche se avremmo potuta considerarla una fortuna solo se non si fosse svegliato urlando interrompendo la lezione. In ciò noi speravamo.

Arrivati di fronte alla macchinetta, inserii le mie monetine, ma non feci in tempo a selezionare il mio amato '31' che due mani si poggiarono a coprirmi gli occhi. Non ebbi bisogno di ascoltare la vocina camuffata che mi chiedeva 'Chi sono?'. Non ebbi bisogno di tastare le dita alla ricerca di indizi. Mi bastò il suo profumo. 
- Fammici pensare! - Le afferrai i polsi bloccandola e velocemente mi voltai incastrandola con le braccia incrociate. Il mio profilo a un soffio dal suo, i miei occhi dentro i suoi. - Ciao. - Le sussurrai.
- Ciao. - Ripetè dopo di me. 
- Che ci fai qui a quest'ora? -
Non mi rispose. Si alzò sulle punte dei piedi poggiando leggermente le labbra sulla mia guancia destra per un secondo. Sorrideva raggiante. Le liberai i polsi e lei mi abbracciò stringendomi in vita. 
- Stavi prendendo il caffè per me? - Disse imprimendo una forza tale che riuscì a voltarmi su un fianco.
Pigiò poi i numerini magici e la macchinetta iniziò a lavorare col solito rumore metallico. Solo allora si accorse di Naki. Mi lasciò andare e si catapultò da lei, abbracciandola ed iniziando subito a riempire Brendon di baci e carezze. Non posso nascondere che per la prima volta provai gelosia verso quelle tenere guanciotte. Avrei voluto io quelle coccole ed invece avevo dovuto accontentarmi di un piccolo bacino. Eppure non riuscivo ad essere scontento. Era comprensibile che Meg non se la sentisse subito di farci uscire allo scoperto, di mostrarci in pubblico. Almeno non prima di essere sicura che tra di noi ci fosse realmente qualcosa da mostrare. 
La macchinetta emise il suo bip ed io estressi il bicchierino dal vano. Lo mescolai soffiandoci dentro delicatamente come faceva sempre lei e poi glielo porsi. Mi ringraziò con un sorriso e continuò a mescolarlo. 
- Naki, vuoi qualcosa tu? - Dissi riavvicinandomi alla macchinetta col portamonete in mano. 
- No, grazie. Sto bene così. -
- Va bene. - Aprii il portamonete e prelevai i 30 centesimi necessari. 
- Ragazzi sto rientrando in aula. Ho bisogno di sedermi un attimo. -
- Se sei stanca posso tenere io Brendon. - Si offrì Meg. 
- La mia schiena ti ringrazierebbe! - Disse Naki porgendole il bambino.
Io mi fermai ad osservare la scena. Meg prese tra le braccia Brendon ed iniziò a fargli le smorfie. Il bambino la guardava con grandi occhi ma non accennava a sorridere. Meg smise di fare facce buffe e iniziò a fargli delle pernacchie poggiandosi sulla ciccetta paffuta delle braccia e del collo. Allora Brendon iniziò a ridacchiare, solleticato da quelle vibrazioni. Ma appena Meg si fermò tornò serio, si voltò verso Naki e le allargò le braccia con occhi che iniziavano a bagnarsi di pianto. Naki lo accolse di nuovo tra le braccia e lo consolò finché non tornò tranquillo. Vedendo che Meg sembrava dispiaciuta, mortificata quasi, la rasserenò. - Non è colpa tua, non preoccuparti. Purtroppo in questi giorni non sta molto bene, perciò vuole la mamma. Nemmeno Daniele può prenderlo in braccio certe volte! - Le carezzò il viso e poi si diresse verso l'aula. 

Sorrisi tra me e tornai a voltarmi verso la macchinetta pigiando i miei tasti preferiti. La macchinetta si azionò ed io iniziai a guardare la barra di preparazione che scorreva, cercando di affrettarla con gli occhi. Improvvisamente mi sentii spostare da terra. Traballai in avanti per un attimo prima di riprendere l'equilibrio. Meg mi si era gettata addosso, con tanto di rincorsa, senza farsi sentire e aggrappandosi alla mia vita con le gambe come un cucciolo di koala. 
- Sei pazza? - Risi.
- Mi sei mancato tanto. - Mi sussurrò all'orecchio stringendomi forte le braccia intorno al collo.
- Ti mancherò ancora di più se mi farai morire asfissiato! - Cercai di dire mentre mi comprimeva la giugulare.
Saltò giù, sbuffando. - Non sei proprio divertente, sai? -
- Nemmeno essere strangolati lo è! - Risi ancora.
Il caffè era pronto. Lo uscii dallo scomparto, diedi una mescolata veloce e lo mandai giù d'un colpo rischiando di ustionarmi l'esofago. Ma avevo troppa fretta di correre da lei che si dirigeva, a passi estremamente lenti, verso il gazebo esterno per sorseggiarlo decentemente. Uscii rapido e le corsi dietro afferrandola per la vita. La sentii ridere. Iniziai a baciarle le guance ed i capelli. Adoravo sentirla ridacchiare in quel modo così cristallino. Si voltò cingendomi di nuovo il collo con le braccia. Ci fermammo ad osservarci con le fronti appoggiate. Il sole non era ancora estremamente alto, ma riusciva comunque ad illuminare i suoi occhi di una luce mozzafiato. Quasi ci fossimo sincronizzati iniziammo ad avvicinarsi l'uno all'altro, arrivando a quel bacio che aspettavo da quando l'avevo salutata in stazione qualche giorno prima. Mi ci persi dentro, assaporando di nuovo tutte le emozioni che sapeva donarmi e stringendola a me per farle capire che non desideravo altro che non lasciarla andare più. Fu un bacio impastato di sorrisi, di risolini leggeri, della felicità di ritrovarsi, della gioia di sapere che tutto era ancora lì dove l'avevamo lasciato. 

Si iniziava a sentire il vociare di gente in arrivo, l'affollamento mattutino per il caffè, le porte delle aule che si aprivano e chiudevano in continuazione. Meg mi sorrise e, afferrandomi la mano, mi disse di seguirla. Ubbidii senza il minimo sforzo, anche perché rifiutare avrebbe voluto dire innescare una guerra contro me stesso. E l'avrei sicuramente persa, quindi tanto valeva non opporre resistenza. Mi trascinò fino al retro dell'edificio e si sedette sulla scala anti-incendio indicandomi di prendere posto accanto a lei. 
- Ora posso dirtelo. - Abbassò gli occhi a fissarsi la punta delle Converse rosse. 
- Cosa? -
- Sono venuta prima sperando di poter restare un po' con te. -
Sorrisi. Come potevo non farlo? Le portai un dito sotto il mento per sollevarle il viso. Era leggermente arrossato e gli occhi erano lucidi. No, non di pianto. Sembravano più che altro cosparsi di mille lucciole perse in quel grande mare nocciola. La baciai delicatamente e la strinsi a me.

Lì restammo abbracciati a parlare. Il tempo corse così veloce che a me sembrò essere passato solo un attimo quando il suo telefono vibrò. 
- Cacchio no! - Esclamò Meg saltando in piedi.
- Che è successo? - Le chiesi stralunato. 
- Era un messaggio di Ludo. Il prof è già in aula! - Aveva già sceso tutti gli scalini e si fiondava verso l'entrata.
- Come? Sarà arrivato in anticipo. - Tentavo di starle dietro.
- Veramente ha anche avuto venti minuti di ritardo! Forza muoviamoci. - 
Arrivammo davanti alla porta dell'aula. 
- Tu entra. Io vado un attimo in bagno prima. - Mi disse.
- Ma se c'è già il professore dentro! -
- Sì, ma... è meglio non entrare insieme. - Non disse altro e si allontanò velocemente.
Un po' disorientato fissai la maniglia della porta per qualche attimo. Scrollai la testa, che fino a poco prima era tra le nuvole e si ritrovava adesso nella solta confusionaria realtà, ed entrai.

Dopo pranzo, eravamo tutti seduti sotto il gazebo esterno. Come sempre, nonostante il freddo, prendevamo un po' d'aria prima di passare le successive ore chiusi in aula. Meg mi chiese di accompagnarla a prendere una bottiglia d'acqua alle macchinette. Appena tutti tornarono a immergersi nella conversazione, mi afferrò la mano e mi tirò verso la via di fuga laterale trascinandomi di nuovo alla scala anti incendio. Si fermò sul primo scalino e mi tirò a sè tanto velocemente da non rendermene conto. Chiuse gli occhi e mi baciò. Ebbi bisogno di qualche attimo per prendere coscienza della realtà e rispondere al bacio. 

Il tempo passato con lei, abbracciati sulla scala anti incendio, volava troppo in fretta. Quando arrivò il momento di tornare, fui tentato di chiederle di saltare la lezione. Ma non l'avrebbe fatto. Si nascondeva per baciarmi. Figurarsi se avrebbe rinunciato alla lezione di Reti dovendo poi spiegare il motivo dell'assenza. Mi sorse sulle labbra anche di chiederle perché dovessimo nasconderci. Ma conoscevo anche quella risposta. Restai in silenzio e, anche se con un sorriso amaro, le lasciai la mano mentre camminavamo per rientrare in aula. 
- Che hai? - Mi sorrise dolcemente dandomi un piccolo buffetto sul mento. 
- Niente. Che mi vedi? - Forzai un sorriso che potesse sembrare reale, consapevole di non esser molto bravo a camuffare le mie emozioni. 
- Non lo so. Ti sei ammutolito e ti è venuto il musone. - Mi pizzicò delicatamente le labbra. 
- Non ho niente. Non mi va di entrare in aula. Tutto qui. - Puntai su una mezza verità per evitare di non essere del tutto credibile.
- Dai, non è male il Professore. Certo, fossi in te mi preoccuparei. Sta un po' in fissa con te. - Rise spingendomi piano.
- Me ne sono accorto purtroppo. - Risi anch'io.
- Usciamo stasera? - 
Quella domanda mi arrivò tanto imprevista quanto piacevole. Passare del tempo con lei era ciò che di più desideravo. E Ludovica non si sarebbe offesa se avessi posticipato la nostra cena, no? 
Prima che riuscissi ad aprire bocca, fu Meg a parlare di nuovo. - Marco aveva proposto di andare al cinema. -
Ecco fatto. Il problema non sussisteva più, perché non sussisteva più il nostro appuntamento. Non si riferiva ad un'uscita da soli, come coppia, per aver la possibilità di conoscerci meglio e di comportarci come ci andava senza pensare alla gente intorno.
- Cinema? Ne parliamo meglio dopo la lezione in caso. - 
Poi una piccola lampadina mi si accese in testa. Qualcosa mi diceva che Meg fosse all'oscuro del fatto che quella sera avrei dovuto cenare con Ludovica. Saperlo che effetto le avrebbe fatto? E se non le avessi detto che era Ludo a dover venire a cena da me ma avessi parlato di un'anonima ragazza? Le sarebbe importato? Sarebbe stata gelosa? L'avrebbe fatto notare? 
- Anche se non so se posso esserci stasera. - Aggiunsi, cercando di essere credibile. 
- Come mai? - Mi chiese lei guardandomi un po' interrogativa.
- Avevo un mezzo impegno. -
- Che devi fare? - Sorrise, ma i suoi occhi restarono a scrutarmi.
- Niente di importante. Dovevo parlare con una persona. -
- Se non è niente di importante puoi rimandare, no? - Sorrise ancora di più, stringendomi il braccio. 
- In effetti no. La rimandiamo da un po' e non credo che sarebbe contenta di rimandare ancora. - Giocavo sporco. Non sapevo accontentarmi dei progressi fatti? Non potevo lasciar stare le cose quiete almeno per un paio di giorni, di settimane o forse di mesi?
- Contenta. Quindi è una ragazza. -
- In effetti, sì. Un'amica. - Un campanellino dall'allarme dentro di me era scattato, ma ero in un punto di non ritorno. Non potevo tirarmi indietro, così, dal nulla. 
- Capito. - Mi lasciò il braccio ma non smise di sorridere.

Restammo in silenzio per il resto della strada che ci divideva dalla porta dell'aula. Passai quei momenti ad insultarmi mentalmente. Perchè no, io non potevo aspettare! Dovevo avere tutto e subito! Dovevo forzarla a correre contro i propri tempi, a farle venire gelosia di un'altra ragazza. Oppure a farle credere che io con lei stessi solo giocando.

Entrai in camera quasi correndo.
- Scotta! Scotta! Scotta! - Scaraventai i cartoni delle pizze sul tavolo senza nessuna accortezza, perché il calore mi stava quasi ustionando le mani. 
Ludovica, seduta a gambe incrociate sul letto, rise leggermente. Andai in cucina per prendere tutto ciò che ci sarebbe servito per la cena e tornai in camera. 
- Mangiamo in camera per sfuggire ai tuoi coinquilini? - Disse lei ancora ridacchiando.
- Credo che ormai dovresti saperlo che tipi sono. -
Dopo la lezione di Reti non si era parlato nè di uscite, nè di cinema. Meg aveva aspettato che tutti andassero via e rimanemmo da soli per un'altra mezz'ora, sempre rifuggiati sulla scala anti incendio. Sembrava che nulla fosse cambiato e quello mi rincuorò un po'. Con Ludo avevamo confermato tutto per telefono ed ora era lì con me a mandar giù l'unica pizza decente che consegnassero a domicilio nel quartiere. 

- Parliamo di cose serie, ora! - Affermò Ludo mentre ancora masticava l'ultimo triangolino di pizza. - Mi spieghi cosa è successo? -
- Devo spiegartelo io? - Sorrisi.
- Certo, potrei provare a chiederlo alla signora che sta al piano di sopra. Ma ha una certa età e potrebbe averlo dimenticato. - Sarcastica.
- La signora del piano di sopra no, ma Meg te l'avrà raccontato già. Inutile ridirti le stesse cose. -
- Veramente Meg non mi ha detto proprio niente. - Disse arrotolando il cartone della pizza per farlo entrare nella pattumiera.
- In che senso niente? Volevi anche i particolari? -
- Quando dico niente non intendo "qualcosina". Intendo niente. -
La guardai un po' dubbioso. - Se non ti ha detto niente come sai della punizione? -
Si alzò dal letto in silenzio e si diresse verso la pattumiera. Ci gettò dentro il cartone arrotolato con tale forza da far saltare fuori tutte le altre cartacce. Tornò a sedersi sul letto. Ero perplesso. Non capivo quel cambiamento improvviso, il nervosismo che mostrava, la tensione che le si era disegnata in volto. 
- Ho chiamato una ragazza che sta nel suo stesso istituto. Ormai lei è la fonte delle notizie su Meg. -
- Che stai dicendo? Non mi sembra che non vi parliate più. -
- Già, non lo fa sembrare. In effetti ci parliamo. Lei si comporta come se niente fosse cambiato. Eppure io sento che è cambiato qualcosa. Non si confida più con me. Mi parla solo di cose banali. Studio, cosa fanno i bambini, raffreddore. E questa cosa non mi piace. - 
Si portò le mani al viso. Credetti che stesse per iniziare a piangere, ma trovò la forza per non farlo. Infilò le dita nei lunghi capelli rossi lasciati sciolti esponendo alla vista gli occhi azzurri leggermente lucidi. - La sto perdendo, Cris. Temevo di perderla per colpa di Jeff, ma la sto perdendo comunque e non so neanche il motivo. -
- Non dire scemenze Ludo. -
- Ti dico che non è più lei. -
- Se intendi che non è più la Meg che stava con Jeff non credo che ci siano problemi per nessuno. -
- Non è più Meg. Punto. Fa finta di esserlo, in pubblico magari. Ma è più lunatica. -
- Non che prima non lo fosse. -
- Cris, smettila! Sto parlando seriamente. Non parlo di una lunatica che un secondo prima ride e quello dopo ti manda a fanculo. Dentro di lei qualcosa si è gelato, si è rotto. Si è interrotta la sua linea di comunicazione. Sto parlando di una lunatica che il momento prima è normale e il secondo dopo è un'automa. - 

Era una frase strana, ma io potevo capirla. Mi venne in mente il suo sguardo a Torre del Vetro durante il temporale, quando la sua freddezza mi cacciò dalla stanza.
Mi alzai dalla sedia e mi diressi alla finestra. Attraverso il vetro potevo vedere le macchine scorrere tra le strade e le persone aggirarsi nelle stanze del palazzo dirimpetto. Non mi fermavo mai lì davanti per evitare di essere preso per un guardone, ma in quel momento non mi interessò. Ero immerso nei miei pensieri. Stavo frugando nei miei ricordi di quell'ultima settimana o poco più. Cercavo in Meg qualcosa che dimostrasse l'errore in cui era caduta Ludo pensando che le linee di comunicazione di Meg fossero spezzate. Ma non riuscivo a trovarlo. Quando mi baciava, quando mi abbracciava, quando parlava con me, mentre rideva seduta al tavolino del locale, mentre cantava accompagnata da Ethan, i suoi occhi mi erano sembrati quelli di sempre. La solita luce che avevo visto, sembrava ora nei miei ricordi essere più cupa, quasi fittizia. Scossi la testa credendo che quel pensiero fosse stato influenzato, forzato. Ma improvvisamente mi venne in mente un frame che rischiarò tutto. Gli occhi di Meg mentre eravamo nel giardino di Daril, mentre parlava del profumo delle stelle, mentre usciva fuori il suo passato. Erano diversi, c'era vera luce. Non la solita lucina che già rendeva i suoi occhi tanto belli. Era tornata una bambina. Era tornata quella bambina. Era lì ad essere presa da sua madre per un braccio e portata fuori casa. Era lì a battere sulla porta per entrare. Era lì a chiedere scusa per non aver afferrato il giusto odore. E solo in quel momento forse era venuta fuori la vera Meg, quella che era stata sepolta e dovevamo tentare di riportare fuori.

- Hai ragione. - Mi limitai a sussurrare.
- Lo so. -
- Riusciremo a riaverla. - Mi avvicinai a lei e le accarezzai il viso.
- Promesso? - Sorrise dolcemente. Un sorriso da bambina.
- Giurato. - Mi abbassai e istintivamente le posai un bacio sulla fronte. 
Ludo chiuse gli occhi e sorrise ancora. 

- E allora, mi racconti cosa è successo? - 
- Subito. - 
Mi sedetti accanto a lei ed iniziai a raccontarle tutto. Non era la prima volta che lo facevo, eppure ogni volta che ripensavo a ciò che era successo un brivido mi saliva lungo la schiena. Adesso, pensando a quanto lavoro avevo da fare per realizzare quello che finalmente mi ero deciso a portare a termine, il brivido era ancora più intenso.

Ludovica restò con me per molto tempo dopo che ebbi finito di raccontarle tutto. Mi parlò di come era stato dover collaborare con Daniela per la relazione e poi passò a Jay. Mi raccontò di come durante le vacanze si erano visti spesso, della piccola catenina con il ciondolo a forma di "L" che le aveva regalato, delle loro chiamate infinite. Gli occhi le sprizzavano cuoricini e sembrava essersi definitivamente tranquillizzata, ma poi l'argomento tornò su Meg e volle che le spiegasse cosa avevo in mente.

La lezione di Sistemi scorreva in una lenta esercitazione per la prova in itinere che il Professore ci aveva annunciato, non senza un bel po' di ribellione da parte nostra, per la lezione successiva. Verso di lui il nostro sentimento di amore/odio non fece altro che crescere. Pur sembrando parecchio buono e comprensivo, viveva nettamente nel suo mondo, fatto probabilmente di nuvole e unicorni rosa giudicando dallo sguardo perso con cui ogni tanto ci guardava. Certo è che annunciare una prova con solo due giorni di anticipo, convinto di avercelo già detto prima ancora dell'inzio delle vacanze, superava le nostre aspettative. 
Ero arrivato in ritardo ed ero subito andato a sedermi nel posto vuoto all'inizio della fila, proprio accanto a Meg che, di tanto in tanto, mi accarezzava la schiena mentre scrivevo i miei appunti. Mi sorrideva, ma il suo sorriso non coinvolgeva gli occhi. Anche se non avessi avuto la conversazione della sera precedente con Ludo, mi sarei accorto che in quel momento c'era qualcosa che non andava. 
Dopo la lezione restammo da soli. Mentre Terry e Marco si fiondarono in aula studio per studiare, gli altri andarono subito a casa. Noi ci trattenemmo sorseggiando il caffè seduti sugli scalini sotto il gazebo. Intorno a noi non si vedeva nessuno. Tutti gli studenti erano rinchiusi nelle aule per le altre lezioni o in aula studio se non in biblioteca. Solo qualche sporadico professore passava velocemente per andare via o spostarsi verso un altro padiglione. C'eravamo solo noi, il freddo e il silenzio. Osservavo il vento smuovere i suoi riccioli mentre i suoi occhi erano persi dentro il bicchiere di plastica ormai vuoto. Aveva messo il bastoncino di plastica trasparente tra i denti e lo mordicchiava delicatamente. Frugavo nella mia mente per trovare qualcosa da dire, qualcosa che la spingesse a parlare con me e a dirmi cosa le passava per la mente. 

- Come è andata ieri? - Fu lei a interrompere il silenzio. 
Il suo sguardo era ancora perso anche se si era spostato dal fondo del bicchiere alla porta di entrata. 
- Ieri? Bene. - Risposi un po' sorpreso.
- La tipa? Si è divertita? - 
- Beh, non parlerei di divertimento. Abbiamo parlato. - Mi stropicciai le mani, incapace di rimanere fermo.

Di nuovo tornò il silenzio. Ricominciò a mordicchiare il suo bastoncino, ma i colpi erano molto meno delicati dei precedenti. Lo sentivo scricchiolare tra i suoi denti.
- Tu che hai fatto? - Le chiesi dopo aver deglutito. 
Improvvisamente i suoi denti si serrarono e il bastoncino si spezzò. Un gridolino di dolore le sfuggì dalle labbra. 
- Ti sei fatta male? - Le chiesi un po' allarmato, mettendomi subito in ginocchio davanti a lei.
Meg aveva chiuso gli occhi e fatto cadere a terra sia il bicchiere che il bastoncino. Si teneva la bocca con le mani. Il bastoncino si era spezzato a metà verso l'interno e la dura plastica trasparente le aveva graffiato la lingua. Dal graffio superficiale erano cadute due goccioline di sangue e non doveva fare un gran male, ma Meg non accennava a smettere di lamentarsi.

- Lasciami! - Mi gridò infine, alzandosi.
- Cercavo solo di aiutarti. -
- Non devi toccarmi. -
Restai immobile a guardarla, non riuscendo a spiegarmi la sua reazione. Mi alzai in silenzio. Raccolsi i bicchieri e tutto il resto per gettarlo nella pattumiera. 
- Cosa speravi di fare, eh? - Mi urlò contro. 
- Vedere cosa ti eri fatta, solo questo. -
- Non parlo di adesso! - 
- Non urlare. - Se avesse continuato ad urlare in quel modo, in meno di un minuto sarebbe uscito qualche professore ad intimarci di fare silenzio. 
- Non dirmi quello che devo fare! - Urlò ancora più forte.
Non risposi. Serrai i pugno e mi voltai. Iniziai ad andare via afferrando al volo il mio zaino. 
- Dove stai andando adesso? - 
- Via! Non ho intenzione di fare una scenata in facoltà. - Mi fermai, voltandomi di nuovo verso di lei.

Meg era immobile e stringeva i pungi, ma il suo viso non sembrava arrabbiato. Era piuttosto triste. un gattino ferito da un'automobile in corsa, stordito e dolorante in mezzo ad un grande stradone. Tornai verso di lei, camminando lentamente. Meg abbassò gli occhi al pavimento di cemento grezzo. Le poggiai le mani sulle braccia e lei sembrò irrigidirsi. 
- Siediti, dai. - L'aiutai a mettersi di nuovo seduta sui gradini. - Parlami. Cosa è successo? Cosa vuoi sapere? A cosa ti riferivi? -
Mi guardò un po' spaesata. - Sono stata a casa tua ieri sera. -
- Cosa? - Sgranai gli occhi.
- Mi hai detto che mi ami. E poi che dovevi vederti con una ragazza a casa tua. Volevo vedere chi era. Poi è arrivata Ludovica. Tra tutte proprio lei. -
- No, aspetta. Hai frainteso tutto. - Cercai di bloccarla.
- Hai detto anche lei che la ami? - Continuava a parlare come un fiume in piena.
- Sei fuori strada Meg! - Tornai a interromperla.
- Ci sei riuscito a portartela a letto? - Continuò a parlare.
- Meg, fammi spiegare. -
- Con me non ci sei riuscito. - Non si fermava un attimo. - Che poi mi sono chiesta tante volte perchè avessi provato il bisogno di dirmelo. In fondo c'eri già riuscito a scoparmi, no? Sapevi che non c'era bisogno. Perché l'hai fatto? - 
- Meg, ora fermati. - Le poggiai una mano sulla bocca e con l'altra le fermai le mani gesticolanti. - Hai frainteso tutto. La ragazza che è venuta da me era Ludovica, sì, ma non centra niente quello che hai pensato tu. Dovevamo parlare. -
- E non potevate parlare in facoltà? - Fece una smorfia, come se ciò che avevo detto non minasse minimamente la sua idea.
- No. -
- E per quale motivo? -
- Quello di cui dovevamo parlare era molto importante e non è qualcosa da parlarne in un posto dove chiunque ti può sentire. -
- E cosa sarebbe quest'argomento così importante? -
- Tu, Meg. Abbiamo parlato di te! - 
Mi resi conto soltanto dopo di aver quasi urlato. Il suo atteggiamento pungente mi aveva fatto innervosire. Tendeva ad insinuare in modo sottile che le stessi raccontando balle e la cosa, seppur potesse gratificarmi la sua dimostrazione di gelosia, mi irritava parecchio. E così avevo alzato il tono della voce. Per fortuna non si affacciò nessuno per strillarci contro di sparire o zittirci perché stavamo disturbando le lezioni. 

Meg mi fissò per un attimo con occhi grandissimi. Per un attimo avevo sperato che avesse finalmente compreso che il film mentale che si era creata non era fondato su niente di vero. Ma fu solo un attimo, appunto. Quando fu passato, si alzò dal gradino spolverandosi i jeans e sistemandosi meglio il giubbotto pesante. Mi guardò con un sorriso trasversale che mi ricordò tanto quelli che mi mandava Daniela mentre meditava su come farmi cadere nella sua rete.
- Di me? Questa è la scusa più patetica che io abbia mai sentito. Mi sarei aspettata di più da te. Mi stai deludendo. - 
- Non è una scusa, cazzo! Perché non vuoi credermi? - Mi alzai anche io ed andai a bloccarla per le braccia mentre lei aveva tentato di andare via.
- E, di grazia, potresti dirmi di cosa avete parlato? Se riguarda me credo che abbia tutto il diritto di esserne messa a conoscenza, non credi? - 
Ancora quell'atteggiamento, ancora quel maledetto modo di fare che mi mandava in bestia. Non essere creduto ed essere, per giunta, sottilmente accusato di qualcosa che non avrei mai fatto, mi frustrava. Più mi sforzavo di declamare le mie ragioni, più sbattevo contro il muro della sua freddezza e dei suoi pregiudizi. 
- Lo vuoi sapere davvero? Allora apri bene le orecchie! Ludovica è preoccupata per te. Mi ha detto che sente di starti perdendo e non ne capisce neppure il motivo. Non sa più che fare. Perdere te è l'ultima cosa che vuole al mondo. -
- Ma io sono qui! -
- No, tu non sei qui! - La fermai prima che potesse ribattere. - Tu fai finta di essere qui. Vai avanti come una marionetta a fare tutto quello che ci si aspetterebbe da te, ma tu non ci sei. L'hai fatto anche con me. -
- Quando avrei fatto una cosa simile? - 
- Vuoi un esempio recente? Poco fa, a lezione. Mi accarezzavi la schiena e mi sorridevi. Hai salutato Ludovica come se niente fosse. E invece? Invece dentro eri già incazzata per quello che hai visto ieri. Perché non l'hai dimostrato? -
- Io... - Rimase qualche istante con le parole sospese in gola. - Io non volevo fare scenate in pubblico. -
Non potei fare a meno di lasciarmi sfuggire una piccola risata. - Siamo in privato adesso, forse? E poi non ci sarebbe stato bisogno di fare scenate. -
Mi guardò incrociando le braccia. Gli occhi che si arrabbiavano sempre di più, come una bambina pescata in flagrante a dire una bugia alla mamma. - E con questo cosa vorresti dimostrare? -
- Non voglio dimostrare niente, Meg. Voglio solo dirti che siamo preoccupati. Ti stai chiudendo in te stessa. -
- Anche se fosse? -
- Non vogliamo. E sono certo che se ti fermassi un attimo a ragionare non lo vorresti nemmeno tu. -
- Vuoi forse dire che non ragiono? -
- Perché rigiri quello che dico per farla sembrare un'accusa contro di te? Ti sto dicendo tutto il contrario. Noi vogliamo aiutarti. Vogliamo starti vicino. Vogliamo che ti apri di nuovo con noi. Tenerti tutto dentro non ti fa bene. -
- Non ho bisogno di essere psicanalizzata, grazie! -
- Cazzo, Meg. Ma mi ascolti quando parlo? - 
Di nuovo mi ritrovai ad urlare. Istintivamente la scossi. Meg reagì sgranando gli occhi come spaventata, quasi si aspettasse un pugno in faccia da un secondo all'altro. Le lasciai le braccia rendendomi nuovamente conto di aver esagerato. Chissà cosa le era tornato in mente in quel momento! Non avrei mai potuto saperlo perché lei si zittì e si andò di nuovo a sedere sullo scalino, raggomitolandosi per abbracciarsi le gambe. La mia voce attirò fuori dalla porta d'emergenza di un'aula il Professore di una materia di primo anno. Si limitò a tirarmi una delle sue occhiataccie di fuoco che volevano dire tutto, in cui per "tutto" si intendeva che se continuavi a fare ciò che stavi facendo potevi prepararti ad avere una dura vita all'interno della facoltà. Alzai la mano in segno di scuse e raggiunsi Meg appena fu rientrato.

La abbracciai e le parlai in tono calmo e dolce. - Meg scusa. Non avrei dovuto urlare. Ma tu ti ostini a tenere le orecchie chiuse. Noi vogliamo aiutarti. Dico davvero. Non vogliamo che tu ti faccia del male, chiudendoti. -
Meg non rispose, continuava a guardarsi le punte delle Converse e a dondolarsi sul gradino. Mi inginocchiai nuovamente davanti a lei. Le afferrai dolcemente il viso, sollevandolo al livello dei miei occhi. Le carezzai le guance e mi sporsi a baciarle la fronte. - Ti prego Meg. Lasciami entrare. -

Non mi fece entrare. Anzi, la reazione fu l'opposto di quella sperata. La porta mi venne sbattuta in faccia rischiando di frantumarmi il setto nasale. Meg rimase in silenzio. Abbassò gli occhi e mi afferrò i polsi scostando le mie mani dal suo viso. Si alzò ed io la imitai. Mi guardò con occhi vitrei, privi di qualsiasi segno di vita. Altrettanto freddamente mi salutò e andò via. A nulla servì il mio camminarle dietro cercando di afferrarla in mezzo alla piccola folla che iniziava a riversarsi nell'area delle macchinette. Non fece scenate. Semplicemente si fermò a fulminarmi con lo sguardo prima di riprendere a camminare.

Restai lì, in mezzo ai ragazzi che correvano a mettersi in fila per un caffè o guadagnavano l'uscita per andare a casa. Qualcuno, preso dalla conversazione, non mi notava neppure e veniva a sbattermi contro, ma io non mi muovevo. Restai lì, disorientato e incerto, incapace di far qualsiasi cosa che non fosse pensare "Non doveva andare così". No, assolutamente. Ma ancora una volta avevo sbagliato tutto, ancora una volta avevo dimostrato di non capirla. 

Squillò il telefono. Lo lasciai vibrare nella tasca dei jeans. Era solo un altro disturbo ai miei pensieri, un disturbo che si aggiungeva alla confusione del vociare di cui si era riempita l'area. Lo sentii vagamente fermarsi e poi riprendere a vibrare. Di nuovo lo ignorai e mi decisi a muovermi verso casa. Uscii dallo zaino il lettore e infilai alle orecchie le cuffie. Lo misi in tasca ed iniziai a camminare. Quando uscii dall'edificio, sentendo improvvisamente il silenzio regnare intorno a me una volta chiusa la porta alle mie spalle, mi accorsi che qualcosa non andava. Frugai le tasche finché non ripresi in mano l'iPod. Ero talmente sovrappensiero da essermi dimenticato di accenderlo. Lo feci, misi la riproduzione casuale e tornai a inserirlo nella tasca. 

Camminavo distrattamente verso casa, calciando un sassolino che avevo trovato poco prima del grande cancello grigio chiaro, rischiando di esser messo sotto da qualche automobilista di fretta, lasciando che la musica attravessasse le mie orecchie senza prestargli attenzione, ancora immerso nel vuoto della mia testa, incapace di realizzare un pensiero logico. Stavo messo male. L'iPod improvvisamente impazzì e, senza che l'avessi sfiorato, sparò al massimo il volume stordendomi. Mi sfilai d'istinto le cuffie. Trasalire così mi fece per un attimo sbandare ma il clacson improvviso e le conseguenti maledizioni di un motociclista che pur di evitarmi aveva rischiato di baciare l'asfalto mi fecero ritornare sul marciapiede. Ci misi un paio di secondi prima di rendermi conto di cosa era successo. Avevo camminato in modo automatico senza guardare la strada neppure per un istante. Avevo saltato da un bel pezzo la traversa di casa mia. L'iPod probabilmente aveva reagito a qualche strana combinazione di tocchi e calore così che il volume era schizzato a frantumarmi i timpani. Un motociclista aveva rischiato di mandarmi in fretta a riempire uno dei loculi della tomba di famiglia. Realizzato tutto non potei far a meno di emettere un pesante sospiro. Mi passai le mani tra i capelli e mi appoggiai al muro che costeggiava il marciapiede chiudendo gli occhi.
Il telefono riprese a vibrare. Decisi di smettere di ignorarlo. Era una chiamata di Daniele.
- Pronto? -
- Cris, dove sei? - Sembrava incazzato nero e dal rumore del traffico che proveniva dalla cornetta dedussi che era in macchina.
- Sto tornando a casa. Perchè? - Istintivamente mi piantai sulla difensiva.
- Naki ti ha chiamato un sacco di volte. Perché non rispondi? - 
- Ehi, stai sembrando mia madre! -
- C'è poco da scherzare Cris. Molto poco. -
- Si può sapere che ti prende? -
- Si deve portare Brendon al Pronto Soccorso. -
Mi si gelò il sangue nelle vene. - Che cazzo stai dicendo? -
- Esattamente quello che ho detto. - Sentii dei clacson, un rumore che mi fece intuire che il cellulare era volato dalla mano di Daniele e la sua voce sbraitare contro qualcuno al di fuori del veicolo. Recuperò il telefono. 
- Che è successo? - Accellerai il passo lungo la salita verso casa.
- Stamattina il bambino ha vomitato e aveva la febbre alta. Gli ha dato una supposta di paracetamolo, ma non è scesa di molto. Quando ha visto che non migliorava, ha aspettato che finisse il tuo orario di lezione per chiederti di andare da lei a darle una mano. Poi però Brendon ha ricominciato a vomitare ed è collassato. Allora ha chiamato me. Mi sto precipitando a casa. - Sentii altri clacson. - Tu dove sei? -
- Quasi a casa. - 
- Ci vediamo lì. -
- Cerca di arrivare intero. - 
- Fottiti! - Chiuse la chiamata.

Me ne fregai di quella chiusura brusca. Era nel panico, si sentiva anche per telefono. Dopo tutto anche io ero nel panico. Posai il telefono in tasca ed iniziai a correre rischiando di buttare a terra vecchiette con i sacchetti della spesa e motorini appoggiati al muro. Arrivato davanti al cancello rosso iniziai a suonare all'impazzata il campanello finché Naki non mi aprì senza neanche chiedere chi fosse.
Salii le scale rischiando più volte di scivolare. La porta era aperta. Mi precipitai dentro. Il salotto era vuoto. 
- Naki! Naki! - La chiamai a gran voce. 
La casa non era molto grande eppure non riuscivo a sentir nessun rumore e la cosa non fece altro che aumentare la mia preoccupazione. Mi avvicinai alla camera da letto, ma, poco prima che vi entrassi, la porta del bagno si aprì piano e ne apparve la signora Angela. Gli occhi azzurri erano cerchiati da un'ombra scura e del sorriso che mi rasserenava tanto non c'era traccia tra le rughe del suo viso che sembravano più segnate del solito. 
- Signora, dov'è Naki? Dov'è Brendon? - Le chiesi. La voce quasi mi si spezzò per l'ansia. 
Mi fece cenno di star zitto ed aprì di più la porta. Un odore di alcool denaturato mi investì facendomi scoppiare all'istante un fortissimo mal di testa. Naki era seduta per terra in silenzio. Teneva Brendon totalmente nudo immerso in una bacinella piena per metà di acqua. Era sveglio, ma non vispo come al solito. Accanto a loro una bottiglia di alcool ancora piena rotolava sul pavimento. Con un batuffolo di cotone impregnato del liquido rosa frizionava le caviglie paffute del piccolino. Lui ogni tanto roteava gli occhi e penzolava la testa lateralmente, come se fosse molto stanco. 
- Sta meglio. Calmati. - Mi sussurrò la singora Angela, vedendomi impallidito. Mi passò una mano sulle spalle e voltandomi vidi che sorrideva leggermente. 
- Daniele mi ha detto che... -
- Daniele! - Naki quasi urlò nell'impeto di un'idea che le era balenata in testa. - Bibi devi chiamarlo subito e dirgli che Brendon si è ripreso prima che si ammmazzi per strada. -
- Sì, Naki. Subito. - La signora annuì e fluttuò verso il salotto, mentre Naki tornò a concentrarsi interamente sul figlio. 
Mi avvicinai a lei e mi sedetti sul pavimento. - Faccio io. - Le tolsi il batuffolo dalle mani e continuai le frizioni. 
Naki me lo lasciò fare e prese ad accarezzargli e baciargli la fronte.
- Scusa se non ti ho risposto. - Sussurrai.
- Non ti preoccupare. Non avresti potuto fare niente. -
- Mi sento in colpa lo stesso. -
- Non devi. Non è colpa tua. - 
La signora Angela tornò ad entrare in bagno. - Daniele è ormai quasi arrivato e credo che non si calmerà se prima non avrà visto Brenodon con i suoi occhi. -
- Nadhani hivyo pia. - La guardai interrogativo. Era molto che non la sentivo parlare in Swahili e pensavo che avesse detto qualcosa che non dovevo sentire. Ma lei mi rassicurò ripetendolo in italiano. - Ho detto che la penso uguale a lei. Conoscendo Daniele sarà nel pallone. -
- Quando l'ho sentito al telefono lo era. -
- Probabilmente se la sarà presa con te. Non è vero? -
Non risposi, ma un sorrisetto sarcastico mi scappò dalle labbra senza che potessi controllarlo. 
- Non negarlo. So come è fatto. - Rise anche Naki.
- Mami, ninna. - La voce di Brendon era roca e spezzata. Le si aggrappò ai capelli cercando di sollevarsi per essere preso in braccio.
Naki guardò la nonna con occhioni pieni di dubbio e paura. 
- Sì, Naki. Prendilo in braccio e portalo a letto. Coprilo bene però. Un colpo d'aria è l'ultima cosa che gli serve. - 

Naki lo avvolse velocemente in un grande asciugamano e lo portò subito in camera da letto dove era già stato acceso il riscaldamento. Nella stanza ben calda Naki lo vestì rapidamente infilandolo in una morbida tutina e lo poggiò a letto. Non appena la sua guancia sfiorò il cuscino gli occhi di Brendon si chiusero. 
- Bibi! Bibi! Bibi! - Naki iniziò a gridare di nuovo in preda al panico.
La signora Angela, che era rimasta in bagno per ripulire, si precipitò nella stanza. - Che è successo? Vomita di nuovo? -
Naki si limitò a indicare il bambino appena poggiato sul letto. La signora si avvicinò e lo tastò. Brendon si mosse nel sonno, aprì gli occhi per pochi secondi con una smorfia e poi li richiuse tirando le gambine al petto e mettendonsi in posizione fetale. 
- Non è svenuto! Sta solo dormendo. - Annunciò sorridendo.
Naki non sembrò essersi tranquillizzata più di tanto. Si sdraiò insieme a lui, accarezzandogli la schiena. 
- Stai tranquilla Naki. Si è ripreso. Era solo disidratato e scosso per il forte vomito. Ora è normale che abbia bisogno di dormire. Credo che la febbre gli sia anche scesa. Tra un po' la misuriamo. - Si avvicinò alla nipote e le accarezzò i capelli. - Sta tranquilla. 

Sentimmo la porta d'ingresso sbattere e i passi veloci di Daniele annunciare il suo arrivo in camera. Si buttò a controllare il bambino che, disturbato, si svegliò piangendo. Naki lo prese subito in braccio cercando di calmarlo e farlo riaddormentare mentre Angela rassicurò Daniele spiegandogli che la situazione era migliorata quasi subito. Comunque il bambino aveva bisogno di essere portato dal pediatra il pomeriggio e su quello nessuno aveva dubbi. Anzi, Daniele insistette per portarlo subito in pronto soccorso comunque ma Naki si oppose dicendo che, una volta superato lo spavento, non era necessario portare Brendon, che già stava male, a rischiare chissà quali virus al pronto soccorso. La situazione si calmò un po' anche se rimase nell'aria un sintomo di ansia. 

Pranzammo insieme, per quel poco che lo stomaco ci concesse. Aiutai la signora Angela a sistamare la cucina mentre Naki e Daniele badavano a Brendon. Era la prima volta che il piccolo stava così male. Era stato il primo grande spavento. Per fortuna era passato, ma finché il pediatra non ne avesse spiegato il motivo nessuno sarebbe potuto stare tranquillo. Improvvisamente, come un lampo a ciel sereno, mi fulminò un pensiero che fortunatamente non mi aveva sfiorato nel momento di maggior panico. E se la mia cattiva stella mi avesse giocato uno scherzo di cattivo gusto? Se avessimo scoperto che anche Brendon aveva il grande male? Se anche lui fosse stato epilettico come Bepi?

Tornai a casa mentre già il sole lasciava il suo posto nel cielo a un buio appannato dalle nubi. Nonostante fosse ancora pomeriggio pieno, sembrava di essere in serata inoltrata. Camminando lungo la strada mi strinsi nel giubbotto che ormai non bastava più a proteggermi dal gelo. Sentii un potente tuono in lontananza. Alzai gli occhi temendo di veder scrosciare un improvviso temporale. Forse lo desideravo un po'. Volevo potermi perdere sotto pesanti gocce cadute come una mitragliata sulle spalle, farmi schiacciare dalla loro forza. Avrei potuto sedermi sul marciapiede a beccarmelo in pieno dall'inizio alla fine. Avevo troppa ansia da buttare via, troppi pensieri da lasciare. Ma chi si era messo a giocare con i miei fili non voleva farmi neppure questo piccolo regalo. I nuvoloni continuavano ad addensarsi, ma la luce provocata dal lampo che precedeva il tuono successivo era troppo distante per lasciarmi anche solo questa misera speranza.

Arrivato in camera, mi gettai di peso sul letto sentendo le doghe scricchiolare sotto il colpo. Chiamai Naki per sapere come stesse il bambino, nonostante l'avessi lasciato solo pochi minuti prima. Mi disse che stavano già organizzandosi per portarlo dal pediatra ma la febbre era un po' scesa e Brendon dormiva anche se era un po' agitato. Non le dissi nulla dei miei dubbi. Non potevo farla stare in ansia ancor di più per qualcosa che non aveva neppure delle fontamenta solide.
Il pensiero che Brendon potesse essere un bambino epilettico mi terrorizzava al punto che anche il pensiero di Meg e della nostra conversazione dopo la lezione era stato cancellato dalla mia mente. Accesi il portatile e me lo poggiai sulle gambe incrociate mentre appoggiavo la schiena al muro. Appena terminò l'accensione aprii il browser e sulla barra di ricerca scrissi quella parolina su cui tanto avevo cercato di documentarmi nel periodo in cui Bepi iniziò le sue cure. In realtà, grazie alla situazione d'ansia che vivevo, ne avevo capito ben poco, se non che la cultura medica era ancora molto all'oscuro su ciò che la riguardava. Ci aggiunsi accanto la parolina "infantile" e iniziai a frugare tra i risultati. Dovevo trovare qualcosa che mi rassicurasse e, fortunatamente, la trovai. L'epilessia non è l'unica causa delle convulsioni nei bambini. Scoprii che tra i 6 mesi e i 6 anni, molti bambini soffrono delle cosiddette "convulsioni febbrili" che la maggior parte delle volte, pur spaventando i genitori, non hanno alcun tipo di legame con l'epilessia né richiedono particolari accertamenti. Brendon aveva la febbre parecchio alta e, non essendo presente, non potevo neppure avere la certezza che avesse avuto una convulsione. Solo allora tirai un sospiro di sollievo pur restando leggermente sulle spine e speravo che Naki mi desse presto notizie dopo che il bambino sarebbe stato visitato.

Il freddo entrava prepotentemente dagli infissi chiusi della mia stanza e una corrente ghiacciata mi raggiunse mentre leggevo seduto sul letto. Rabbrividii tornando ad avere contatto con la mia stanza. Mi guardai intorno e il mio sguardo cadde sullo zaino lasciato a penzolare dalla scrivania. Dalla cerniera aperta si intravedeva il blocco degli appunti e questo magicamente mi riportò in evidenza la prova in itinere che era stata fissata la mattina. Considerato che l'indomani avrei avuto tutta la giornata impegnata dalle lezioni, quello era l'unico momento che avevo a disposizione per prepararmi. Saltai giù dal letto portando in braccio il portatile come fosse un bambino in fasce. Sgombrai velocemente la scrivania, vi poggiai sopra gli appunti e riaprii il browser per visitare la pagina del Docente alla ricerca di qualche dispensa che mi fosse d'aiuto.
Iniziai a studiare, ma quasi subito capii che non sarebbe stata un'impresa facile. La materia non era delle più difficili ma non era neppure come ripetere l'alfabeto. Inoltre gli appunti presi a lezione non erano più chiari di un tema scritto da bambini di quarta elementare e la dispensa che avevo trovato era schematizzata al massimo, tanto da contenere poche frasi di senso compiuto. Mi fermai a constatare che ero nei casini prima di tornare a spremermi le meningi.

Dal portatile partì un suono di avviso e a coprire l'angolo destro alto della dispensa che cercavo di comprendere si presentò una piccola finestrella lampeggiante. Era l'avviso di una mail appena arrivata dall'indirizzo di posta di Meg. La aprii curioso, non sapendo cosa aspettarmi. Probabilmente, mi dissi, era una di quelle mail stupide che inoltri a tutti i contatti, quelle che la maggior parte delle volte non vengono neppure lette fino in fondo. Quando mi apparve il lungo testo scritto in modo ordinato capii che probabilmente mi sbagliavo. Iniziando a leggere scoprii che era una mail scritta direttamente ed espressamente a me. Man mano che andavo avanti, però, mi accorgevo della confusione che doveva essersi creata durante la scrittura. Non c'era un vero filo logico che conducesse da un pensiero all'altro. Era un'accozzaglia di frasi fini a sé stesse, inutili nel loro complesso, contraddittorie e caotiche. Non riuscivo ad afferrarne il senso. Intuii soltanto che era legato all'ultima conversazione che avevamo avuto perché spesso tornava a parafrasare le mie parole. Poi il discorso iniziava a farsi un po' più chiaro, per quanto ingarbugliato restasse. Diceva di sentirsi strana, che capitava qualcosa che non era mai successa prima. Come se ogni tanto un interruttore fosse disinserito e qualcosa si spegnesse. Parlava di dover ritrovare la chiave di sé stessa, di dovercela fare da sola, di aver già pensato alla giusta soluzione che risolvesse tutto e che doveva solo trovare la giusta dose di coraggio per mettere in atto tutto. Poi lasciava il discorso nel vuoto. Finiva la mail con "Spero potrai scusarmi e smettere di amarmi senza iniziare ad odiarmi. Grazie di tutto." e il suo nome per intero, allineato sulla sinistra dopo qualche riga vuota.
Rilessi più volte il tutto con uno strano senso d'inquietudine che mi attanagliava lo stomaco. Più leggevo quelle parole, meno riuscivo a comprenderne il vero significato. Sentivo che c'era qualcosa di non detto, qualcosa che non mi quadrava bene e non mi permetteva di stare tranquillo.

Squillò il telefono. Risposi a Naki continuando in realtà a leggere per l'ennesima volta la mail di Meg.
- Pronto. -
- Ciao Cris. -
- Naki, come sta il bambino? L'hai portato dal pediatra? - Ero davvero interessato a sapere della salute di Brendon ma non riuscivo a staccare gli occhi dallo schermo e il tono che usai sembrò troppo poco naturale.
- Siamo appena usciti. Ti ho disturbato per caso? -
- No, no. Assolutamente. - Scossi la testa e di colpo chiusi il coperchio del portatile lasciando la mail di Meg in solitudine. Forse era l'unico modo per concentrarmi davvero sulla telefonata. - Che ti ha detto? -
- Mi ha detto di non preoccuparmi così tanto. Con la febbre alta e dopo aver vomitato è normale che si sia un po' collassato per la disidratazione. Mi ha dato l'antibiotico per la febbre e un farmaco antivomito da tenere in casa se dovesse esserci la necessità. -
- E Brendon ora come sta? -
- Non si sente ancora bene però si è svegliato ed è reattivo. Anche se è ancora molto intontito. -
- Tutto normale però, giusto? -
- Oh sì. Tutta colpa della febbre. Iniziando l'antibiotico stasera probabilmente già domani inizierà a rientrare in una temperatura più sopportabile. -
- Speriamo bene. Vuoi che venga a casa tua? -
- No, tranquillo. Daniele non andrà a lavoro prima di domani pomeriggio e anche nonna Angela non si muoverà da casa. -
- E tuo nonno? Oggi non l'ho visto. -
- Nonno Giovanni non riesce a vedere bambini che stanno male altrimenti si ammala pure lui. Prende l'influenza per simpatia in pratica. -
Sentire la sua voce più serenza dopo la crisi di panico a cui avevo assistito, riuscì a strapparmi un sorriso. Purtroppo la mia mente decise che proprio in quel momento doveva pensare di nuovo alla mail di Meg. La rividi come se la stessi rileggendo in quel momento nonostante il portatile fosse ancora chiuso sul tavolo.
- Ci sei Cris? Mi senti? -
- Sì, scusa. Stai tornando a casa allora? -
- S-sì. Sicuro di stare bene? Hai la voce strana. Non è che pure tu ti senti male come Babu? -
- No, tranqulla. Non ho niente, ero solo preoccupato. -
- Se ti fa stare più tranquillo puoi venire a vedere Brendon quando vuoi. Io ti dicevo di non venire solo per non farti scomodare. -
- In effetti dovrei studiare. Giovedì ho una prova in itinere. -
- Allora dovresti studiare. Ci sentiamo quando fai una pausa e ti passo anche Brendon se è sveglio. -
- Forse hai ragione. -
- Non è che stai cercando una scusa per non studiare? -
- No, non è questo... -
- Oh, decidi tu Cris. Casa mia è aperta se vuoi venire. Pensatela con calma. -
- Va bene Naki. -
- Sei sicuro che stai bene, no? Non è successo niente? -
Ero talmente turbato da farlo trasparire anche al telefono o Naki era diventata talmente brava da leggermi dentro anche a distanza?
- Sto bene, sì. -
- Sarà. Io continuo a pensare che c'è qualcosa che non mi stai dicendo. -
Non potei frenare l'istinto di aprire il coperchio del portatile. La mail era ancora lì, in tutta la sua lunghezza. Riuscivo già a ripeterne alcune frasi a memoria. E più le ripetevo più mi sembravano un grido d'aiuto. - Ne parliamo a cena in caso. E' complicato. -
- Tombola! Lo sapevo che dovevi dirmi qualcosa. Allora ti aspetto? -
- Sì, aspettami. - La mia voce era di nuovo assente.
- Studia però. -
- Sì, certo. Ciao Naki. -

Non ricordo se aspettai che rispondesse al mio saluto o mi limitai a chiudere la telefonata immediatamente. Ero immerso di nuovo nelle mie teorie. Mi ripetei più volte che dovevo essere solo sotto l'influenza dei troppi thriller visti e letti, ma non riuscivo a non dar peso alle sensazioni del mio stomaco. Sentivo la mia stessa voce urlarmi nelle orecchie, chiedermi gridando cosa cercassi in quelle parole che forse erano solo lo sfogo di una ragazza in lacrime che aveva pranzato con una bottiglia di vodka rubata dalla dispensa. Ma la stessa voce rispondeva che qualcosa da trovare doveva esserci, che era tutto troppo strano, che il mio campanello d'allarme era scattato e dovevo dargli ascolto.
"Una soluzione c'è. Non è complessa. Posso farcela. Devo farcela. Mi basta solo un pizzico di coraggio in più. Ce la farò. E tutti i pezzi andranno al loro posto."

Terry si precipitò, ansimante e sudata come dopo una grande corsa, a sedersi nel posto vuoto accanto al mio cercando di non farsi notare dal Professore di Fisica 2 che aveva iniziato la parte di lezione dedicata agli esercizi. Purtroppo per lei, non ci riuscì e si beccò una bella sgridata per essere entrata in aula con così tanto ritardo. Lei, affatto abituata ad essere trattata in quel modo, si mortificò e le si leggeva in viso che già iniziava a temere che ciò compromettesse il suo esame. In realtà era il Professore ad aver esagerato. A dar retta alle voci di corridoio che si spargevano più velocemente degli sbadigli, pareva che avesse passato la notte sul divano perché la moglie era gelosa della nuova assistente.
Quando terminò la lezione, le passai i miei appunti e lei mi diede una copia stampata e ben rilegata di entrambe le nostre relazioni. Era stato quello il motivo del suo ritardo. Quelli della copisteria, come sempre, avevano sbagliato l'ordine delle rilegature e aveva dovuto aspettare che rifacessero il lavoro. La accompagnai alle macchinette per offrirle un caffè, anche se avrebbe avuto più bisogno di una camomilla visto come sembrava agitata. Pareva che il rimprovero subito poco prima rischiasse di macchiare la sua intera carriera universitaria. Solo dopo aver fatto un lungo monologo si bloccò a farmi la domanda che mi aspettavo.
- Ma sei da solo? - Mi domandò, guardandosi intorno a cercare gli altri. - Non c'è stato nessuno a lezione? -
Annuii prelevando il mio caffè dalla macchinetta. - Credo che siano tutti a cercare di finire le loro relazioni. Probabilmente saranno in aula studio. Vuoi che andiamo a darci un'occhiata? -
- Tu non hai visto nessuno oggi? -
- Quando sono arrivato mi è parso di vedere Daniela. O almeno dal modo in cui sculettava sembrava proprio lei. E ho intravisto anche Ludovica. Probabilmente la stava cercando. -
- E Naki? -
- Brendon non è stato bene. Ieri ha avuto un febbrone assurdo! Stamattina ancora non era del tutto in forma, ma almeno la febbre non era più alta in quel modo. -
- Povero cucciolino! - Si vedeva che era davvero dispiaciuta. 
- Già. Ci ha fatto proprio spaventare! -
- L'importante è che stia meglio. - 

Iniziò a camminare, senza dir null'altro, verso l'aula studio ed io la seguii mentre continuavo a girare il bastoncino di plastica all'interno del caffè. Lo zucchero era ormai del tutto sciolto, ma quel gesto mi era sempre piaciuto. Senza un motivo particolare. Era come un anti-stress. 
L'aula studio della nostra facoltà era stata ricavata da un corridoio e, nonostante fosse stata nel tempo accessoriata di molti confort come termosifoni e condizionatori, restava comunque troppo piccola per la quantità di gente che la utilizzava. Senza contare tutte le persone di altre facoltà vicine che si infiltravano quando non trovavano spazi dove studiare all'interno dei loro dipartimenti di appartenenza. L'affollamento il più delle volte portava ad un caos tale che lo studio in quell'aula restava solo nella scritta appesa alla porta d'ingresso. Quella mattina, però, nonostante i tavoli fossero tutti stracolmi di gente, quaderni e computer, il brusìo era ridotto al minimo. Adocchiammo Ludovica seduta in un tavolo angolare. Guardava concentrata lo schermo da dietro delle lenti cerchiate di arancione che le vedevo indossare solo nei momenti in cui lavorava al computer per lunghi periodi. Accanto a lei Daniela sfogliava svogliatamente alcune pagine, tenendo le gambe ben accavallate e carezzandosi di tanto in tanto le cosce e il collo. Qualche tavolo più in là notai Andrea che faceva il pavone con una bella ragazza mentre il collega con cui avrebbe dovuto scrivere la relazione lavorava a qualche sedia di distanza. 
Mi avvicinai a Ludo. Non ci aveva ancora notato, così le passai alle spalle poggiandole delicatamente le mani vicino al collo e iniziando a massaggiarle i muscoli che sentii subito tesi. Lei sussultò e il rumore che provocò strisciando la sedia per alzarsi di scatto riempì l'aula. Tutti ci fissarono e non tornarono a farsi gli affari propri se non dopo un bel pezzo. Ludovica, invece, scoprendo che ero stato io a toccarla, tornò subito a sedersi, si sistemò gli occhiali e si rimise al lavoro dopo avermi detto uno stentato 'ciao'. Iniziai di nuovo a massaggiarle il collo sotto lo sguardo acido di Daniela.

- Come va con la relazione? -
- Andrebbe meglio se non ci fossimo ridotte ad oggi per finirla, questo è sicuro. - Stizzita strappò dei fogli dalle mani di Daniela. - Dai a me! - Ci si tuffò dentro.
- Se vuoi fare tutto da sola poi non lamentarti che non faccio nulla! - Rispose la vipera.
- Senti! - Disse Ludo poggiando i fogli sulla tastiera del portatile. - Non ho scelto io di lavorare con te e finora mi sei stata solo d'intralcio. Ringrazia il tuo santo protettore che non sono una spiona, altrimenti col cazzo che consegnavo la relazione anche a nome tuo! - Il tono di voce alto ed alterato fece nuovamente girare tutti a guardarla. - E fatevi un pacco di fatti vostri ogni tanto! - Aggiunse irritata tornando a lavorare. 
Daniela sibilò un 'vaffanculo' e si alzò sculettando via. 
- Bel ringraziamento. - Commentò Terry che fino a quel momento era stata in silenzio appoggiata al muro accanto a noi. 
- Secondo me dovresti davvero cancellare il suo nome dalla relazione. Se lo meriterebbe! - Le suggerii io.
- Non mi abbasso ai suoi livelli. - Rispose continuando freneticamente a battere sui tasti con forza.
- Vuoi che ti diamo una mano? - Mi offrii parlando anche a nome di Terry.
- No, tranquilli. Ce la faccio. - Si fermò e contò i fogli che aveva in mano, passandosi poi una mano sulla fronte come per asciugarsi il sudore. - Sto per finire fortunatamente. -
Parlava in modo più calmo e finalmente si voltò a guardarci. Tolse gli occhiali, si stropicciò gli occhi non truccati e li ripoggiò sul naso. - Credo di poter finire per pranzo se tutto va bene. -
- Speriamo vada bene allora. -
Le posai un bacio sulla tempia e lei, che proprio non era tipo da manifestazioni affettuose, arrossì leggermente prima di rituffarsi nella sua relazione.

Uscimmo dall'aula studio per tornare in quella dove si tenevano le lezioni. Il professore di Web Programming aveva già iniziato a spiegare e Terry non voleva decidersi ad entrare per paura che la rimproverassero ancora. Ci volle un bel po' per convincerla, ma infine entrammo. Il Professore non ci notò nemmeno e noi potemmo andare ad occupare i posti che Marco ci aveva preso. 
- Ohi ciao. - Mi disse sottovoce quando presi posto. - Come mai in ritardo? -
- Siamo andati a salutare Ludo. -
- Dov'è? -
- In aula studio. Sta finendo la relazione di Reti. E tu dove sei stato? -
Ammiccò sorridente. - Te lo dico dopo. - Sorrideva come un citrullo.
- Ok. - Perplesso mi voltai verso la lavagna. 

Usciti dalla lezione, proposi di tornare in aula studio per vedere se Ludovica avesse finito, ma non ce ne fu bisogno. La trovammo seduta su una panca accanto alle macchinette, la testa appoggiata al muro e gli occhi chiusi. Aveva terminato la relazione in poco tempo ma al laboratorio avevano terminato le risme di carta perciò non aveva potuto stamparla ed era corsa alla più vicina cartoleria nella speranza di non vedersi chiudere la saracinesca in faccia. Fortunatamente era riuscita a stampare tutto anche se non c'era stato tempo per rilegarla e avrebbe dovuto consegnarla ordinata in una bustina trasparente. Le giravano ancora un po' ma il pensiero di poter consegnare la relazione la tranquillizzava. 
Mentre eravamo lì a parlare delle rispettive relazioni, un ragazzo si avvicinò a noi. Alto quasi quanto me, ma molto più gracile. I capelli rasati mettevano in risalto la forma estremamente rotonda della sua testa mentre gli occhiali dalla larga montatura rettangolare gli coprivano buona parte del viso. Era stato con noi a Torre del Vetro. Lo ricordavo chiaramente perché la prima sera, mentre Meg mi trascinava verso la spiaggia, l'avevo intravisto vomitare fuori dall'American bar. 

- Scusate ragazzi. - Richiamò la nostra attenzione in modo piuttosto spavaldo, con l'aria di chi è incazzato fresco. - Se non mi sbaglio siete amici di Megara, vero? -
- E che vuoi ora? Un premio? - Rispose Ludovica sprizzando fuori ancora un po' del veleno che aveva prodotto per Daniela. 
- Non mi interessa il premio. Ditele soltanto che se non mi fa avere la sua parte di relazione andrà a finire male. - 
- Fossi in te ci andrei piano con le minacce. - Mi avvicinai a lui minaccioso, sormontandolo quasi completamente. 
Dalla sua reazione capii che non si aspettava una risposta di quel tipo. Deglutì fissandomi con occhi impauriti. Forse credeva che arrivare con l'aria da spaccone a fare minacce avrebbe intimidito qualcuno. Forse pensava di poter venire tra noi a fare il prepotente con Meg.
- Quando doveva portarti la relazione? - In meno di un secondo Ludo si mise fra me e lui.
- Ieri. - Aveva ripreso un po' della sua aria da arrogante. - Dovevamo vederci qui per unirle e rileggerle, ma non si è fatta viva. -
- Non si è fatta viva? Non ti ha avvertito? Sicuro che non abbia provato a chiamarti? -
- Sicuro! - Guardò di nuovo me e calmò le sue arie. - Sentite, io ho solo bisogno di consegnare quella maledetta relazione. -
- Cerco di contattarla e ti faccio sapere qualcosa. - Lo liquidò Ludovica. 

Il ragazzò si strinse nelle spalle e andò via con la coda tra le gambe. Ludo si voltò a guardarmi senza dire una parola. Ci eravamo già capiti.
- Non trovi che questa cosa sia un po'... - Iniziò a dire. 
- Strana. - Conclusi io per lei. - Nettamente. -
- Non è da Meg non rispettare gli impegni, specialmente se si tratta di esami. - 
- Lo so. -
- Pensate sia successo qualcosa? - Si intromise serio Marco. 
Non rispondemmo. 
- Oh, andiamo! Ha solo saltato un appuntamento con un collega semi-sconosciuto! -
- E due lezioni stamattina. - Aggiunse Terry. 
- Non è la prima volta che Meg salta una lezione. - Continuò a insistere Marco, probabilmente cercando di minimizzare l'ansia che già ci si leggeva in volto. 
- Quando l'hai sentita l'ultima volta? - Chiesi a Ludovica. 
- Secondo me la state facendo un po' troppo grossa. Pensate che qualcuno l'abbia rapita per caso? - 
- Ieri mattina. - Rispose Ludo, senza badare alle lamentele di Marco. - A lezione. -
- Allora credo di essere stato io l'ultimo ad averla vista. O sentita. - 
- Quando? -
- Ieri. Mi ha mandato una mail. -
- E che ti ha detto? -
Non scesi nei particolari. Dissi solo che era molto strana e confusa, e che alla fine vaneggiava di una soluzione.
- Una soluzione? - Ripetè Ludovica. 
- Sì, qualcosa per rimettere tutti i pezzi al loro posto. -
Lo sguardo di Ludovica divenne di pietra. - Ti ha detto di cosa si trattava? -
- No, assolutamente. Solo che aveva bisogno di coraggio. -
- Coraggio? -
- Sì. -
- Ha detto proprio così? Coraggio? -
- Sì, ti ho detto. Me lo ricordo chiaramente. -
- Cazzo, Cris. Perchè non me l'hai detto subito? - La voce di Ludovica iniziò a tremare e vidi i suoi occhi appannarsi. 
- Non credevo fosse qualcosa di... Ma che succede? - 
Ludovica mi afferrò il polso ed iniziò a tirarmi verso la porta d'ingresso. - Muoviti. Dobbiamo sbrigarci! -

Ludovica guidò come una pazza ubriaca, evitando molti incidenti solo per volontà del mero caso. Aveva terribilmente fretta di raggiungere casa di Meg ed io, dopo aver conosciuto il motivo di tanta urgenza, non cercavo minimamente di ostacolarla. 

- Circa un anno fa Meg ha passato una serata a casa mia. - Aveva iniziato a raccontare con le lacrime agli occhi mentre cercava di non andare a sbattere contro le macchine che suonavano all'impazzata maledicendola. - Non so come fosse riuscita a convincere Jeff a lasciarla andare. Stavano insieme da non molto e lui già sembrava comandarla a bacchetta. Eravamo solo noi due quella sera. I miei non c'erano e passammo la notte a svuotare il mobiluccio degli alcolici. - Si asciugò in fretta le lacrime dalle guance quasi schiaffeggiandosi. - Iniziammo a parlare. Sai quei discorsi senza senso che fai da ubriaco? Dopo passi dal ridere a crepapelle alla depressione più totale? Era uno di quei discorsi. All'improvviso lei iniziò a piangere. Parlò di suo padre, di quello che subiva. Non lo faceva da una vita. - Si fermò ancora per tirar via le lacrime. - Poi disse una cosa che mi sconvolse. Mi disse che aveva più volte pensato di togliersi di mezzo perché sarebbe stato tutto migliore, ma voleva trovare una cosa indolore. La tratteneva solo la paura del dolore. Voleva solo un po' di coraggio. - Si voltò verso di me distogliendo lo sguardo dalla strada. - Hai capito adesso? -
Le dissi solo di accellerare. Il pensiero che quella mail potesse essere una lettera di addio, che Meg stesse realmente architettando un suicidio, mi terrificava.

Imboccammo un ampio viale, fortunatamente deserto. Ludovica sterzò bruscamente, immettendosi sulla corsia opposta. Frenò altrettanto repentinamente, tanto che le ruote stridettero potentemente, lasciando la loro sagoma sull'asfalto. Dovetti reggermi al cruscotto per evitare di finire incollato al parabrezza. 
Scese di corsa precipitandosi verso l'ingresso, mentre io restai per qualche attimo a fissare la struttura, meravigliato. Mi trovavo di fronte ad una grande casa in pieno stile americano, con tanto di portico fornito di dondolo in ferro battuto, con cuscini dalla fantasia floreale. Era talmente bianca che col sole estivo avrebbe rischiato di accecarmi. Il prato, verde e ben curato nonostante la stagione, era adornato di cespugli che avrebbero dato il meglio del loro splendore in primavera. Il garage era aperto e si potevano notare, oltre a un minivan blu elettrico, moltissime biciclette di varie misure. Poco distante dalla casa, sotto una piccola tettoia, erano posteggiati alcuni motocicli e due auto, tra cui quella di Meg. 
- L'hai capito o no che dobbiamo muoverci? - Mi urlò Ludovica ferma in mezzo all'erba prima di riprendere a camminare speditamente verso l'entrata. 
- Sì, certo! - Risposi, svegliato dallo strano vuoto in cui ero entrato. 

Chiusi in fretta lo sportello e la seguii velocemente. Sparì in fretta dietro il garage e la sentii bussare forte ed urlare il nome di Meg chiedendole di aprire la porta. Tornò indietro ancora più preoccupata. 
- Non mi risponde. -
Salimmo sul patio e Ludovica aprì la porta senza bussare. La stanza in cui entrammo era enorme. La maggioranza dell'arredamento era costituita da un grande tappeto e da giochi per bambini sparsi ovunque. E dai bambini, ovviamente. Non erano molti. Cinque bimbe e tre bimbi, tutti fermi a guardarci. Sentendoci entrare si erano come immobilizzati, probabilmente nella speranza di veder entrare qualche volto che avrebbe portato speranza nei loro cuori. Riconoscendo Ludo, però, erano quasi subito tornati ai loro giochi. Una bimba con dei bei riccioli rossi, la pelle bianca come latte costellata di lentiggini ed enormi occhi castani, restò in piedi a guardarmi. Sembrava essere una delle più piccole. Quattro anni al massimo. Dondolava sui suoi stessi piedi e si mangiucchiava un ditino osservandomi curiosa. Istintivamente le sorrisi e mi avvicinai a lei, mentre Ludovica attraversava la stanza per raggiungere, oltrepassato l'arco di separazione, il grande tavolo in cui tre ragazzi appena adolescenti, due maschi e una femmina, erano intenti a fare i compiti. Mi inginocchiai accanto alla bimba che continuò a scrutare ogni mio piccolo movimento.
- Ciao cucciola. Come ti chiami? -
Non rispose. Continuava a dondolare e a guardarmi coi suoi grandi occhi. 
- Ti vergogni? Non vuoi dirmi il tuo nome? - 
- Non può dirtelo. - Una bambina di circa nove anni, uguale in tutto è per tutto alla piccola, mi arrivò alle spalle e la prese in braccio. Non ci fu bisogno che mi dicesse che erano sorelle. Non fosse stato per la differenza d'età le avrebbero facilmente prese per gemelle. - Non parla più da quando mamma è morta. - 
Il sangue mi si gelò nelle vene. - Mi dispiace piccola. - 
- Non è colpa tua. - 
Lo disse con una voce talmente matura e serena che non potei far a meno di vedere in lei una piccola Naki, dal carattere forte davanti alle difficoltà più dure della vita. Ma lei aveva solo nove anni. Il cuore mi si strinse in una morsa di dolore a pensare che avrebbe dovuto godersi la sua infanzia invece di dover lottare contro la morte. 
- Chi sei? Che ci fai qui? -
- Sono un amico di Meg. L'hai vista per caso? -
- Sarà nella sua casetta. La trovi dietro il garage. - Andò via con la piccola in braccio. 

Ludovica tornò nel salone insieme ad una donna matura che somigliava estremametne a Robin Williams travestito da Mrs Doubtfire. La signora che si presentò come Alice Brini - ma fatemi il piacere di chiamarmi Mama davanti ai bambini - era una delle fondatrici della casa famiglia e quella che, essendo zitella, vi dedicava più tempo. Ci fece una lunga predica su quanto non le fosse concesso di violare la privacy dei ragazzi ormai maggiorenni che continuavano ad abitare con lei, durante la quale Ludovica mostrava spesso la sua impazienza interrompendola per dire che era una cosa dalla priorità assoluta, perfino sulla privacy. La nostra Mrs Doubtfire continuava a parlare indispettita, facendo spenzolare il cerchio con le chiavi di scorta. 
- Senti Alice! - La interruppe infine gridando. 
- Mama! Ludovica quante volte devo dirtelo! - Le disse sottovoce ma non nascondendo la rabbia.
- Mama, come cacchio vuoi! -
- Ludovica modera i termini davanti ai bambini! -
- Oh e che ca... - Si bloccò appena in tempo. Respirò profondamente e poi riprese a parlare. - Qui è questione di vita o di morte, lo vuoi capire o no? Mi serve che apri la porta della casetta di Meg, immediatamente. Prima che sia troppo tardi! -
La signora la guardò sorridendo. - Tu sei sempre troppo apprensiva, Ludovica cara. Ti accontenterò anche questa volta ma non voglio avere alcuna responsabilità. - 
- Me le assumo tutte. Basta che ti muovi. - Le rispose con uno sguardo di ghiaccio. 

La seguimmo verso la casetta di Meg, cercando di spronarla ad accellerare il passo anche se lei non ne aveva la minima intenzione. Arrivò alla porta e, sempre con estrema calma, cercò la chiave e la infilò nella toppa. Appena aprì la stanza, dimenticando ogni forma di gentilezza e buona educazione, la spingemmo via, rischiando anche di farla cadere, per entrare. Lei ci urlò qualcosa che non sentimmo e andò via continuando a sbraitare.
La scena che ci si presentò agli occhi era agghiacciante. La stanza era totalmente in disordine. Il letto era sfatto e sembrava che fosse esplosa una bomba nell'armadio. Cd e libri sembravano aver partecipato ad una grande guerriglia e i cuscini del piccolo divanetto erano stati lanciati lontano, tirando giù l'orologio dalla parete. Sul pavimento flaconi di pillole varie si mischiavano. Alcuni erano aperti e il loro contenuto campeggiava sul pavimento, altri erano totalmente svuotati. Accanto al divano rotolavano delle bottiglie di birra vuote. 
Ludovica si portò le mani a coprire le labbra da cui sfuggì un flebile 'oddio'. Iniziò a piangere finendo presto per singhiozzare. Le gambe le cedettero e cadde in ginocchio lasciando sfogo al suo dolore e alle sue paure. Io iniziai a vagare per la stanza, ancora incredulo. Dov'era Meg? Dove si trovava? Dove aveva perso i sensi? Se non era ancora passato troppo tempo si poteva portare in ospedale e una bella lavanda gastrica avrebbe cancellato tutto. Forse.

Pregai. Sì, dopo anni mi ritrovai a pregare. Non una di quelle cose che dici tanto per dire, di quelle preghierine dette a pappagallo come una formula magica. Pregai intensamente. Pregai che non fosse passato troppo tempo. Chiesi che, se qualcuno mi stesse ascoltando, doveva aiutarmi. Non aiutare me, che non avevo fatto altro che rinnegare ogni presenza divina. Ma aiutare Meg, una povera vittima del gioco del destino. Aiutarmi ad esserle d'aiuto, a trovarla in tempo, a salvarla. E se l'avesse fatto dopo avermi inviato la mail? E se non fossimo arrivati a salvarla solo perché io non avevo afferrato subito le sue parole?
Un'illuminazione mi colpì. Mi precipitai alla porta del bagno e la aprii. La trovai. Era sdraiata esanime nella vasca, mi dava le spalle. Il lavandino era sporco di vomito e la puzza era notevole. Per terra, altre bottiglie di alcolici. 
Rimasi irrigidito sulla soglia, incapace di muovere un solo muscolo. Dovetti raccogliere tutta la mia forza di volontà per convincere le gambe a spostarsi verso di lei. Passi lenti, piccoli, ce ne vollero milioni per raggiungerla. Mi chinai su di lei, mentre il respiro già iniziava a mancarmi. Sentivo il cuore nel petto strapparsi ad ogni secondo. Le sue mani stringevano ancora una bottiglia di vodka piena per metà. I capelli le si erano appiccicati al viso, sporchi di sudore e rigurgito. Le osservavo il viso. Gli occhi serrati, le labbra contratte.

D'improvviso iniziò a tossire e si alzò a sedere. Feci appena in tempo a spostarmi dal bordo della vasca che si affacciò per rigettare ancora. Un forte odore di acido e alcool si sommò a quello che già aleggiava nell'aria. Finito di rigurgitare, tirò un profondo respiro e alzò la testa. Quando mi vide sbarrò gli occhi, sconvolta. 
- Che ci fai qui? - Trascinava le parole come se in realtà stesse ancora dormendo.
Non risposi. Mi gettai verso di lei e la tirai via da quella vasca. La strinsi forte, piangendo. Me ne fregai del vomito, della puzza, del sudore. Me ne fregai di tutto. L'unica cosa che contava la stringevo tra le braccia. Ed era viva. Le baciai le labbra non badando al sapore di rancido che vi trovai. 
- Ci hai fatto morire, lo sai? - Le dissi tra le lacrime.
Lei abbassò lo sguardo, colpevole. - Non ce l'ho fatta neanche stavolta. Sono una codarda. -
- Per fortuna, Meg. Per fortuna! - La strinsi di nuovo. - Non so cosa avrei fatto se fossi morta. Meg perché hai pensato una cosa simile? Non hai pensato a noi? A Ludovica? Agli altri ragazzi? A me? Non ci hai pensato a noi? - Continuavo a piangere. 
Meg non rispose. La strinsi più forte. - Non provare mai più a lasciarmi. -
Solo allora la sentii ridere. Ricambiò il mio abbraccio stringendomi le braccia intorno al collo. La presi in braccio e la portai nella stanza. 

- Ludo! E' qui! E' viva! - Urlai. 
Ma Ludovica non era più sul pavimento a piangere, come non c'era più nessuna delle pillole che costellavano il tappeto.

- Non ne nascono tutti i giorni come lei. - Marco cercava di trattenere la commozione, ma dovette fermarsi per evitare di singhiozzare. - Ludovica era una di quelle persone che riescono a stravolgerti la vita. L'ho conosciuta solo un anno fa ma sapevo che su di lei potevo sempre contare. Credo che fosse la generosità fatta persona. Mi ritengo onorato di averla incrociata sul mio cammino. -

- Ludovica era una persona che non ti aspetti. - Terry parlava a bassa voce. Riuscivamo a sentirla a stento. - Ricordo chiaramente che le prime volte che la vidi pensai che fosse una di quelle oche antipatiche che girano per i corridoi ammirando il loro riflesso perfino nelle maniglie delle porte. Quante volte mi sono pentita di aver pensato quelle cose! Quanto me ne pento anche adesso. -

- Io... - Jay si asciugò gli occhi bagnati di pianto dietro le lenti scure. - Io non lo so se merito di stare qui a parlare di lei. Ci siamo persi di vista per molti anni, ma ancora oggi riesco a rivedere quella bambina con le trecce rosse e le lentiggini che giocca a pallone meglio di un maschietto. Quella bimba coi pantaloncini corti e le ginocchia sbucciate, che stringeva le labbra e i pugni per non far vedere che stava piangendo quando un bambino imbecille le diceva che quelli coi capelli rossi sono figli del diavolo o cose simili. Quella bambina che amavo e a cui non ho mai avuto il coraggio di dirlo. L'ho ritrovata già donna. Una donna stupenda. Una donna che ha mantenuto il carattere di quella bambina. Ma un'altra volta mi sono lascito sfuggire l'opportunità. Non le ho detto che l'amavo. Che la amo. Credo che almeno qui, adesso, debba farlo. Ludo, ti amo. - 
La voce gli si spezzò e la smorfia di dolore che gli percosse il viso fu evidente nonostante gli occhiali gli coprissero buona parte del viso. Quando tornò al suo posto, Diego gli diede una gran pacca sulla spalla mentre un sorriso amaro gli si disegnava sul viso. Come se gli stesse dicendo "Non so che dirti amico, ma andremo avanti". 

Era il mio turno. Mi alzai in piedi e salii gli scalini con il cuore in gola. Un senso di vuoto immenso dentro. Non ero mai stato bravo a parlare in pubblico, tanto meno a un funerale. Io di solito non riesco mai a spiccicare parola davanti ai morti. Credo di non aver mai detto "condoglianze" ad alta voce. Lo mormoravo appena o muovevo le labbra senza far uscire alcun suono. Non è una parola facile da pronunciare, quella.
Avevo portato dei piccoli appunti, un paio di frasi che avevo buttato giù per ricordarla, per evitare che la tensione mi facesse fare scena muta. Ma ero lì a rigirarmi il foglio tra le mani. La bocca era completamente asciutta mentre gli occhi erano inondati. Tossicchiai cercando di sputar fuori il fiato, ma neanche quello riuscì a far rumore. I miei occhi correvano tra le persone commosse che rivolgevano il pensiero ai loro ultimi momenti con Ludovica. Alcuni ogni tanto mi degnavano di un secondo di attenzione. Pensavano "Ma cosa ci fa quel coglione lassù?". Meg era seduta in prima fila, bianca come non l'avevo mai vista. Silenziosa e fredda, rinchiusa in un nuovo dolore.
Mi voltai verso il feretro. Era ancora aperto. Dentro, Ludovica riposava serena. Un sorriso dolce le increspava il viso. I capelli le erano fatti ricadere sul seno, coperto di uno stupendo vestito bianco con intarsi in pizzo. Non sembrava una giovane suicida. Sembrava piuttosto una sposa felice, pronta per abbracciare il suo amato e promettergli fedeltà eterna. Continuai a guardare la sua pelle fresca e liscia, immaginando di sfiorarla e riuscirne a sentire ancora il calore. Calore che non aveva più. 
Persi il fiato. 
"Qualcosa si è mosso. Giuro, qualcosa si è mosso." pensai, ma non potei urlarlo. Sì, si era mosso. Ludovica aveva cambiato espressione. Il sorriso era scomparso, sostituito da un'espressione sofferente. Agli angoli delle labbra, ormai incurvati verso il basso, si affacciarono gocce di sangue che scivolarono a bagnarle la pelle. Continuarono a correre fino a macchiargli il vestito che sembrò improvvisamente impregnarsene. Il suo petto iniziò a sobbalzare velocemente, come in preda all'affanno, mentre la mia gola si stringeva. Più cercavo di urlare, più un invisibile mano si attanagliava intorno alla mia laringe. Intorno a me, nessuno sembrava accorgersi di ciò che succedeva. Tutti erano ancora lì, fermi a piangerla.
"Fate qualcosa, cazzo! Fate qualcosa! Aiutatemi. Aiutatela!" Ma rimase solo un pensiero. L'artiglio che mi tranciava il respiro non accennava a lasciarmi. Le palpebre di Ludovica si aprirono di scatto, lasciando brillare i suoi occhi azzurri alla luce delle candele, prima che anche questi fossero ricoperti di sangue. 

Mi svegliai, cadendo dal letto improvvisato su cui mi ero appisolato. Sudato e affannato, tossii fino a togliermi di dosso quell'orribile sensazione di soffocamento. 
- Ehi, tutto bene? - Terry corse a darmi aiuto, sorreggendomi per farmi sollevare da terra.
Annuii con poca convinzione, mentre continuavo ad affannare cercando di regolarizzare il respiro. Terry aprì in fretta la bottiglietta d'acqua e me ne verso un po' sulla fronte e sulla nuca, per poi bagnarmi anche i polsi. 
- Ancora quell'incubo? -
Annuii ancora, stavolta con più convinzione. Terry sorrise. 
- Vedrai, tutto andrà bene. I dottori ci hanno dato buone speranze. Questo resterà solo un brutto ricordo. -
Il chiarore del mattino iniziava ad illuminare la sala d'aspetto in cui c'avevano permesso di dormire. Marco era disteso su un grande tavolo circolare accanto alla finestra, raggomitolato sotto il suo giubbotto. Jay lottava contro il sonno seduto in terra accanto alla porta. Voleva restare vigile a tutti i costi, aspettando altre notizie, ma le palpebre gli si chiudevano da sole dopo tutte quelle ore a passeggiare nervosamente per i corridoi. Diego, che lo aveva accompagnato e non voleva lasciarlo da solo, si era accampato su un paio di sedie e cercava di riprendere il sonno perso. I genitori di Ludovica si alternavano davanti alla sua stanza. In quel momento suo padre aveva il turno del riposo, ma non riusciva a tenere gli occhi chiusi per più di dieci minuti.
- Dov'è Meg? - Chiesi. 
Ancora una volta Terry sorrise. - Dove potrebbe mai essere? -

Meg era dove fosse più logico stare. Sdraiata sul letto di Ludovica, stretta in un angolo per non intralciare i tubi. La testa sul suo petto e le braccia intorno alle sue. 
Piangeva ininterrottamente dal momento in cui avevamo ritrovato Ludo, svenuta e imbottita di medicine, nel giardino della facoltà. Come avevamo fatto a non pensarci prima? Avevamo cercato in tutti i posti che ci venivano in mente, ma solo dopo parecchie ore avevamo pensato a cercarla lì. Fortunatamente l'ospedale non era lontano e i soccorsi, per la prima volta nella storia, erano stati repentini. I medici ci avevano detto che eravamo arrivati appena in tempo. Qualche altra ora di ritardo e la lavanda gastrica non avrebbe prodotto risultati. Dopo avergliela propinata, ci avevano avvisato che avrebbe impiegato qualche giorno a svegliarsi per via dei molti tranquillanti che aveva ingerito. Non più di due giorni, comunque.

Erano passate quasi 36 ore da allora e le sue funzioni vitali erano tutte perfettamente nella norma. Il suo risveglio era ormai solo questione di momenti. Eppure io non riuscivo a scacciare via quell'incubo. Forse perché mi sentivo in parte responsabile dell'accaduto. O forse perché ero cosciente di essere preoccupato più per Meg che per lei che aveva rischiato la vita. Sì, perché i medici avevano escluso un suo peggioramento, ma nessuno poteva capire quello di Meg. Ludovica sarebbe stata obbligata a passare un paio di giorni nel reparto di psichiatria per aver tentato il suicidio, ma essendo stata la prima volta e più una cosa dettata dall'impulso che da una decisione premeditata, c'era una possibilità su un miliardo che ci riprovasse. Ma quanto tempo sarebbe passato prima che i sensi di colpa e tutto il dolore provato spingessero Meg di nuovo verso una premeditata fuga verso la morte? Quanto sarebbe passato prima che tutto ciò che era successo le desse il coraggio che le era mancato qualche giorno prima? 
Meg non diceva una parola dal momento in cui era salita sull'ambulanza per accompagnarla. Meg non smetteva di piangere da quando l'aveva avvistata tra l'erba alta. Meg non si staccava dal lettino né con la voce dolce né con le minacce. I medici avevano anche tentato di farla tirar via da uno della sicurezza, ma Meg era diventata una tigre incazzata che protegge i propri cuccioli. Gli aveva graffiato il viso e morso le braccia finché non l'aveva lasciata ed era tornata ad acquietarsi sul letto. Permetteva ai medici di visitarla e di portarla via per farle degli esami, ma poi riprendeva subito il suo posto e non lo lasciava a nessun costo. 

- Sei preoccupato per lei, vero? - Mi sussurrò Terry, mentre fermo al fianco della mamma di Ludovica le osservavo dormire al di là del vetro.
- Non lo siamo tutti? - Le risposi forzandomi in un sorriso. 
- Non far finta di non aver capito cosa sto dicendo. - Mi sfiorò il braccio, affinché la guardassi. - Ho pensato a qualcosa. -
- A cosa? -
- Potremmo usare quello che è successo come scusa per convincere Meg ad andare dallo psicologo. Potremmo andarci tutti iniziando con una seduta di gruppo. Sai, per superare il trauma e cazzate del genere. Poi lo psicologo consiglierà di dividere le sedute perché ognuno ha livelli differenti da raggiungere e, boom, il gioco è fatto. -
- Meg non andrà mai da uno psicologo. Neanche se siamo in gruppo. E anche se lo facesse, non accetterebbe mai una seduta singola. Sa che finirebbero per chiederle del suo passato e lei non vuole farlo. -
- Allora potremmo chiedere ai medici di convincerla ad un ricovero psichiatrico qui. -
Non potei trattenere un piccolo sbuffo scarcastico. - Non accetterà mai, lo sai meglio di me. -
- Non se le dicono che devono ricoverarla perché ha tentato di sfigurare uno che cercava di staccarla dal letto di Ludovica. Ma se la mettessero in altri termini? -
- Stai suggerendo di tenerla qui con l'inganno? I medici non accetteranno mai. Potrebbe denunciare l'intera struttura ospedaliera. -
- Devono solo dirle che avendo subito un trauma del genere sarebbe buono un po' di aiuto. E poi potrebbero aggiungere che farebbe bene a Ludovica, non la farebbe sentire un pazza avere un'amica vicino che la sostenga. -
Tornai a guardare dentro la stanza, l'aria serena con cui entrambe dormivano, il legame che le stringeva palpabile in modo concreto. - Non funzionerà mai. -
- Vale la pena tentare. -

Erano passate dodici ore. E poi altre dodici. Ma Ludovica non dava alcun segno di ripresa. Eravamo ancora tutti lì. Nessuno aveva voluto muoversi. Durante gli orari di visita, altri erano venuti a darle un saluto dal vetro, ma a nessuno ormai era permesso di entrare in stanza. Il medico ci aveva proibito di farlo quando, arrivato per controllare i suoi valori, aveva notato che non erano migliorati come avrebbero dovuto. Ci ha detto, in tono non molto gentile, che la colpa al 90% era nostra! Non l'avevamo fatta riposare bene con le nostre continue visite e avevamo impedito agli infermieri di tenerla d'occhio nel modo corretto. Quelle insinuazioni, quel tono così acido ed irrispettoso verso il dolore altrui, quella faccia da culo che si ritrovava: furono un mix fatale uniti alla stanchezza e allo stress accumulati. Fecero scattare il padre di Ludovica che gli si gettò quasi al collo tentando di colpirlo. Personalmente l'avrei lasciato fare, anzi probabilmente l'avrei pure aiutato tenendo fermo quello stronzo dal camice bianco. Per sua fortuna, Jay si dimostrò un ragazzo maturo e capace di padroneggiarsi. I suoi riflessi si rivelarono ottimi e riuscì ad afferrare il padre di Ludo prima che lo stesso medico si accorgesse del suo sguardo fumante.

E così eravamo tutti costretti in corridoio. Far uscire Meg dalla stanza fu un'impresa! Ci volle una buona dose di tranquillante per far in modo che potessi prenderla in braccio e portarla in sala d'aspetto. Alla fine, però, c'era rimasta senza fare sfuriate. Come prevedibile, era entrata nel suo mondo e niente riusciva a farla parlare o muovere. 
Terry aveva messo in moto il suo piano, costringendo il medico a dedicarle del tempo e riuscendo a farsi ascoltare. La risposta non fu confortante. Meg era maggiorenne e libera di rifiutare il ricovero. Non si potevano applicare le norme per il ricovero forzato in quanto non aveva direttamente tentato il suicidio. Terry provò a spiegargli che se non l'aveva fatto era solo perché noi eravamo arrivati prima che ne trovasse il coraggio. La sua affermazione era sempre la stessa: chi ha bisogno d'aiuto non ha necessità di trovare il coraggio per un atto simile. Vane erano state tutte le parole che Terry aveva sprecato per spiegargli la sua situazione, i suoi trascorsi. Il muro che il medico aveva costruito non si faceva abbattere da nulla. Aveva preso una ferma decisione e l'avrebbe rispettata: ricovero solo su richiesta diretta e personale. Lo specializzando che gli stava affianco, però, prese a cuore la situazione e le promise di provare a convincere Meg a proporsi per il ricovero.
Ma Meg non parlava con nessuno e non ascoltava nessuno. Lo stato catatonico in cui si era immersa non era smosso da nulla. Solo ogni tanto si alzava dalla sua sedia, ma solo per raggiungere il vetro da cui poteva vedere Ludovica, lasciar correre qualche lacrima e tornare al suo posto. Più volte mi ero avvicinato a lei e l'avevo abbracciata, ma era stato come stringere una statua di marmo, un burattino totalmente inerme e passivo. 

Erano le quattro di notte. Tutti avevano ceduto ormai al sonno. Persino la mamma di Ludovica si era addormentata in corridoio mentre vegliava la porta della figlia. Io, invece, mi ero appena svegliato. Tutta colpa di quell'orribile incubo che continuava a perseguitarmi ogni volta che chiudevo gli occhi. La sensazione che mi lasciava addosso era terribile. Sentivo la mia pelle ricoperta da spine. Anzi no. Era proprio come se la mia stessa pelle fossa composta da piccoli aghi che mi provocavano dolore al contatto di qualsiasi sostanza, perfino l'aria. Tremavo di un tremore interiore. Sentivo vibrarmi le ossa, i vasi sanguigni, i reni, lo stomaco. Qualsiasi cosa si trovasse rinchiusa nella gabbia spinosa della mia pelle era percorsa da un terremoto senza sosta. Ero costretto ad alzarmi, andare alla prima finestra disponibile e respirare profondamente finché l'aria gelida non avesse placato tutto. Era l'unica cosa che ci riusciva, ma solo dopo un bel po'. 
Quella volta, per evitare di svegliare tutti, andai a precipitarmi alla finestra che c'era nel corridoio. La aprii cercando di far meno rumore possibile, ma ugualmente il cigolio tuonò tra le mura come fosse un temporale. Appoggiai le mani al davanzale e mi sporsi per riuscire ad incamerare quanta più aria possibile. 

- Si sente bene? - 
Nel silenzio che era tornato a regnare, quella voce mi fece trasalire. Mi voltai di scatto e vidi di fronte a me una piccola e giovane infermiera. Magra e non più alta di un mentro e cinquanta, teneva i lunghi capelli neri e lisci rinchiusi in una coda alta. Gli occhi scuri erano grandi e mi guardavano con un filo di ansia. 
- Sì. - Sorrisi. Presi l'ultimo respiro di aria fredda e richiusi la finestra. - Avevo solo bisogno di un po' di aria. Tutto qui. -
- Ne è sicuro? Sembra un po' pallido. -
- Dice? - Guardai il riflesso poco definito nel vetro sporco e nero di notte della finestra. - Non direi. Credo di essere sempre così dopo tre notti insonni. -
- Parente o amico? - Mi chiese, sicuramente abituata alla gente che pernotta in ospedale per non staccarsi troppo dai propri cari. 
- Amica. - 
- Incidente d'auto? -
Feci un lieve cenno di negazione con la testa, mentre una smorfia di tristezza mi torceva gli angoli delle labbra verso il basso. - Tentato suicidio. -
- Oh! - La piccola infermiera si portò istintivamente una mano alla bocca per frenare il suo stupore, sgranando ancor di più gli occhi. - Mi dispiace. - Sussurrò. 
Mi strinsi nelle spalle per un attimo, tornando a guardare fuori dalla finestra il buio della notte e le fronde degli alberi che, come grandi macchie scure, si muovevano al vento.
- Vuole vederla? -
Mi voltai verso di lei, stupito. - Posso? -
- Perché non dovrebbe? -
- Beh, il medico... -
- Lasci stare cosa dice quell'esaltato! Sarà anche bravo a indovinare le diagnosi e le cure, ma coi pazienti non ci sa proprio fare. -
- E chi è? Dottor House? - Mi venne spontaneo aggiungere, condendo il tutto con una piccola risata che sembrò liberarmi il petto da un grosso peso.
- Quasi! Anzi, suppongo che gli sceneggiatori siano suoi ex pazienti e abbiano avuto l'illuminazione geniale che li ha portati al successo. Solo che loro si sono portati a casa milioni di dollari e a noi hanno lasciato 'sto catorcio! - 
Risi ancora, cercando di far silenzio.

- Insomma, viene con me o no? -
Anuii e la seguii verso la stanza. Per terra, la madre di Ludo se ne stava appoggiata con la testa cadente al muro. Dormiva profondamente e non la svegliò neanche il rumore della porta che si apriva. L'infermiera entrò con me, restando ferma sulla soglia mentre io mi avvicinai a piccoli passi al letto in cui Ludovica riposava, piena di elettrodi che le controllavano le funzioni vitali e di tubicini che la nutrivano.
Il suo viso sembrava così rilassato. La sua pelle, più bianca del solito, sembrava quasi luminescente. Avvicinandomi a lei, la sensazione del mio incubo tornò a farsi viva. Sentii le spine e per un attimo credetti di vedere del sangue scendere in rivoli dai suoi occhi delicatamente chiusi. Sentii qualcosa afferrarmi il braccio. Scattai. Mi voltai facendo quasi cadere un vassoio pieno di strumenti. Soffocai un urlo solo perché la gola mi si era stretta per lo spavento. 
L'infermiera era ferma accanto a me, con ancora l'esile mano stretta attorno al mio braccio. Gli occhi grandi di nuovo pieni di ansia. 
- Mi scusi. - Le dissi. - Ero sovrappensiero e mi sono spaventato. - Tornai a guardare il viso di Ludovica. 
La mano dell'infermiera scese, accarezzandomi la felpa, fino ad afferrare la mia. La cosa mi stupì ancor di più ma non sobbalzai. Mi limitai a guardarla incuriosito, attendendo qualcosa che desse una motivazione a ciò. E arrivò. Presa la mia mano, la diresse verso il letto, lasciandola solo nel momento in cui era vicina al braccio di Ludovica. 
- La accarezzi. - Mi intimò dolcemente. 
- Cosa? -
- Le accarezzi il braccio. Le prenda la mano. Le baci i capelli. Faccia qualsiasi cosa. Le faccia sentire che è qui. -
Continuai a fissarla. Capì cosa mi tratteneva. - Le ho detto di lasciar perdere quello psicotico del capo! Lui preferisce ignorare tutti gli studi clinici che dimostrano quanto l'affetto dei cari di un paziente riesca a farlo riprendere più in fretta. Dice che sono fandonie. Ma è vero. I malati che vengono visitati spesso dai parenti, hanno un decorso post operatorio migliore, più veloce e meno doloroso nella maggioranza dei casi. -
- Ma Meg è sempre stata vicino a lei. E non si è ripresa ugualmente. -
Un sorriso sarcastico le increspò le labbra con un piccolo sospiro. - Sa cosa è successo da quando hanno tirato via la ragazza da qui? Non è migliorata di un solo passo. Prima il miglioramento esisteva. Era piccolo ma costante. Adesso si è fermato del tutto. Le sole medicine non bastano. Ha bisogno di voi. -
Non sapevo se stesse dicendo delle assurdità o meno. Sapevo solo che in quel momento avevo bisogno di crederle. Avevo bisogno di sentirmi utile in qualche modo per lei, sapere che potevo rimediare all'enorme sbaglio che avevo fatto concentrandomi solo su Meg senza pensare a lei e alla sua fragilità. Accarezzai il braccio di Ludovica. Era caldo e morbido. Non freddo e rigido come nel mio sogno. Credetti che il suo respiro si facesse più regolare man mano che la carezzavo. Credetti di star facendo la mia parte per tirarla fuori dal mondo dei vegetanti.

Passarono dieci minuti buoni ed io continuavo ad accarezzarle il volto e baciarle le guance e a ripeterle quanto le volevo bene e volevo che si sveglaisse. L'infermiera si accostò di nuovo a me, poggiandomi una mano sulla spalla. 
- Come si sente? -
- Utile. - Le dissi sorridendo. 
- E lo è. Ma adesso devo chiederle di uscire. -
- No! - Lo dissi ad un tono un po' troppo alto. Temetti che mi si sentisse al di fuori. - La prego. -
- Devo proprio, mi scusi. Non posso lasciarla qui dentro da solo ed io devo tornare al mio giro. -
- E' sicura che non posso... -
- Sicura. Deve uscire, mi dispiace. -
La seguii fuori. In silenzio. 
- La ringrazio molto. - Le dissi una volta usciti in corridoio. 
- Non deve. -

Sentendoci parlare, la mamma di Ludovica si svegliò. Trasalì quasi e scattò in piedi. - Che succede? -
- Signora non si preoccupi. - Intervenne l'infermiera, rassicurandola . - Normali controlli. -
- Tutto bene? -
- Assolutamente sì. Ma vada in sala d'aspetto a dormire. Il pavimento è troppo freddo. Rischia di beccarsi un malanno. - 
La signora annuì distrattamente per poi andarsi ad incollare al vetro, fissando la figlia. 
- Perché non fa entrare anche lei? - Domandai sottovoce. 
- Perché i genitori non riescono a mantenere i segreti. - Mi fece l'occhiolino ed andò via, quasi fluttunado lungo il corridoio.

- P..pronto? - Risposi alla chiamata con voce sonnecchiante e facendo seguire al tutto un rumoroso sbadiglio.
- Ciao Cris. Ti ho svegliato per caso? -
- Tranquilla Naki. Avrei dovuto svegliarmi comunque prima o poi. -
- Non hai dormito nemmeno stanotte? -
- No. Mi ero appisolato da poco sul tavolino della sala d'aspetto. Di giorno c'è un po' di casino e non riesco ad andare oltre il dormiveglia. -
- Così non fai incubi, no? -
- Già. Come stai? -
- Io bene. -
- Brendon? Daniele? -
- Stanno tutti bene Cris, non preoccuparti. Dimmi, piuttosto, come sta Ludovica. Ci sono novità? -
- Il dottore è passato a visitarla dopo pranzo. -
- Che vi ha detto? -
- I valori vanno meglio ma non crede che si sveglierà oggi. Pensa che le cose potrebbero smuoversi domani. O forse lunedì. Sembra che non sia più molto sicuro che sia così veloce. -
Silenzio. Non si sa mai cosa dire in queste circostanze, no? Sembra tutto banale. Ma lei, come sapete, ormai conosceva anche i miei silenzi.
- Cris, smettila! -
- Cosa? Che ho fatto? -
- So che lo stai facendo. Non devi. -
- Cosa starei facendo? -
- Ti stai dando le colpe. - Cazzo, se c'aveva indovinato. - E non capisco perché, dato che tu non c'entri proprio nulla. -
Di nuovo restai in silenzio. La sentii sospirare.
- Va beh Cris, ci vediamo dopo. Devo portarti qualcosa? -
- No, grazie. -
- Va bene. Dai un bacio a Ludo da parte nostra. -
Naki era stata il nostro unico contatto col mondo esterno. Era stata lei ad interessarsi di parlare col Professore di Reti per spiegare la situazione in cui ci trovavamo e darci la possibilità di consegnare le relazioni, ormai pronte, in modalità elettronica. Lei stessa si era interessata di prenderle, spedirle per email e andare a ricevimento dal Professore per avere la conferma che le avesse ricevute, stampate e visionate. Sempre lei ci aveva telefonato costantemente chiedendo informazioni su Ludovica e su di noi, fornendoci tutto ciò di cui avevamo bisogno. Come una mamma, si informava se avessi mangiato e dormito. La sera arrivava con un fagottino per me nonostante le avessi detto di non voler nulla, costringendomi a mangiarlo davanti a lei. Portava sempre un po' della sua forza a tutti. Per questo i genitori di Ludovica avevano da subito preso ad adorarla e, ogni volta che le porte del reparto si aprivano, sembravano cercare il suo viso.

Meg, appallottolata su una sedia poco distante da me, sbadigliò vistosamente.
- Dovresti provare a dormire un po'. - Le dissi.
Ancora una volta non mi rispose, lo sguardo perso nel vuoto. In silenzio e continuando a guardarla, mi alzai dalla sedia e la raggiunsi a passi lenti. Presi posto accanto a lei che continuava a fissare un punto imprecisato dall'altra parte della stanza. Osservai la linea curva delle sue spalle, strette sotto l'enorme felpa che Naki l'aveva costretta ad indossare il giorno precedente. Osservai i suoi capelli, che ormai sembravano aver cambiato forma e colore, annodati in una crocchia improvvisata con due elastici e una bic. Osservai il suo profilo, reso ancora più pallido dalle profonde occhiaie che le segnavano gli occhi.
Avvicinai le mani alle sue spalle, piano, quasi potessi far male all'aria che attraversavano. Timidamente le appoggiai, tastando il tessuto infreddolito. Rimasi immobile, sperando che lei reagisse in qualche modo, ma la sensazione che ebbi fu sempre la stessa. Il freddo che sentivo sotto le mie mani non era causato dalle fredde temperature che si mantenevano all'interno della stanza. Veniva da dentro di lei.
- Lasciami entrare Meg. Ti prego, lasciami entrare. - Presi a sussurrarle poggiando le labbra sul suo orecchio. La supplicai di aprirmi le porte, di permettermi di aiutarla. Poggiai la fronte tra i suoi capelli, chiudendo gli occhi e pregando che quel contatto l'aiutasse ad accettarmi. Serrai le palpebre talmente forte che gli occhi presero a dolermi e le mani si strinsero da sole attorno alle sue braccia esili.
La sentii sfuggirmi. Sentii far forza sulle mie dita per far sì che si schiudessero e la lasciassero andare. Sentii i suoi capelli allontanarsi dal mio viso. Restai immobile, privo di forze, con gli occhi chiusi e le braccia penzolanti. Potevo percepire chiaramente le lacrime iniziare a bruciarmi dentro e il petto sobbalzare leggermente nel tentativo di fermarle.

Due braccia mi strinsero. Non ebbi bisogno di aprire gli occhi per avere la conferma che fosse lei. Le sue mani si infilarono tra i miei capelli accompagnando il mio viso a posarsi sulla sua spalla. Al contatto con la pelle calda del suo collo, ogni mia difesa parve cedere. L'oceano del mio dolore represso ruppe gli argini e mi ritrovai a bagnarle la felpa di calde lacrime senza riuscire a frenarmi.
- Andrà tutto bene. Tutto tornerà al suo posto. - Sussurrava.
Non capii se stesse cercando di convincere sè stessa o di confortare me. Seppi solo che un piccolo spiraglio di speranza si era aperto. La porta di Meg forse si era dischiusa.

- Massimo! Massimo! - La mamma di Ludovica irruppe nella sala d'aspetto urlando. - Massimo svegliati! - Corse a scuotere il marito che sonnecchiava accanto alla finestra.
- Che c'è Ilaria? - Le rispose lui, saltando dalla sedia.
- Vieni! Corri! Corri, corri! -
La signora Ilaria continuava ad urlare e ridere, trascinando il marito verso la porta. Meg li guardò stranita, mentre io mi asciugavo gli occhi e fermavo il pianto.
- Che le è preso? - Chiesi senza essermi soffermato a pensare.
- Lo chiedi pure? - Meg mi guardò con occhi nuovamente illuminati. Saltò in piedi e li seguì fuori dalla porta, tirandomi per un polso. - Se è saltata qui dentro urlando in quel modo, può voler dire solo una cosa. -

Non poteva esserci nulla di più logico, eppure mi era sfuggito. Ludovica si era svegliata! Aveva aperto gli occhi e si era messa a sedere sul letto. I suoi movimenti sembravano quelli degli zombie di qualche b-movie, ma questo era comprensibile. Aveva dormito per quasi tre giorni filati. Doveva sentirsi completamente intorpidita. Il dottore si era precipitato immediatamente nella stanza, chiamato dall'infermira di turno, e la stava controllando. Ludo non lo degnava di uno sguardo. I suoi occhi erano fissi su di noi al di là del vetro. No. Non su di noi. Su di lei. Su Meg. La guardava intensamente, con occhi stretti, quasi stesse cercando di decidere se fosse davvero lei o solo uno scherzo della sua mente. Il medico, senza pronunciar parola, fece un cenno del capo e l'infermiera, come un robottino ubbidiente, venne a tirare le tende. E Ludovica sparì dalla nostra visuale.
Passarono circa dieci minuti e il dottore, seguito dall'infermiera ubbidiente, uscì dalla porta. Chiunque l'avesse visto in quel momento si sarebbe aspettato, per lo meno, l'annuncio di un peggioramento. A vederlo così serio, anche noi ci rabbuiammo.
- Dottore, qualcosa non va? - Chiese il padre di Ludo.
- Cosa succede? - La signora Ilaria era passata dalle urla di gioia di nuovo al flebile filo di voce della tristezza.
- Signori è tutto ok. La ragazza sta bene. Si è ripresa. Tutti i valori sono nella norma. Oggi stesso provvederemo alla dimmissione e al ricovero presso il reparto psichiatrico. -
"Ed è finito il sale, comprane due pacchi". Odiavo quel suo tono di dirci le cose, come se stesse elencando la lista della spesa. Ero quasi sicuro che non sapesse neppure come si chiamasse Ludovica. Insisteva nel chiamarla 'la paziente' o al massimo 'la ragazza'. Ma ciò che ci disse fu talmente gioioso per noi che riuscimmo a superare perfino quello. I genitori di Ludovica, addirittura, gli gettarono le braccia al collo presi dall'emozione. Ma lui prontamente si divincolò dal loro abbraccio riconoscente entro pochi istanti.
- Possiamo vederla? - Chiese Terry, quasi saltellando.
- No. - Rispose secco e glaciale.
- Cosa vorrebbe dire 'no'? - Dissi istintivamente.
Il dottore mi squadrò dalla testa ai piedi e ritorno prima di rispondere. - Significa che questo non è un reparto dove potete entrare e uscire dalle stanze come volete. Vi è già stato permesso di rimanere, cosa a cui ero contrario. -
Non ci diede neppure il tempo di rispondere che era già andato via. Fortunatamente per la sua faccia, nessuno decise di seguirlo. Non credo che Jay avrebbe fatto molto per frenare i pugni del signor Massimo davanti a una frase del genere!

- Devo chiedervi di uscire dal reparto, adesso. - Ci disse l'infermiera timidamente.
Tutti la fissammo torvo.
- Sta scherzando, spero. - Disse Jay, incazzato nero.
- Non sono io a decidere purtroppo. -
- Oh, sta zitta leccaculo! - Una voce riempì il corridoio.
Ci voltammo tutti. La piccola infermiera che la notte mi aveva permesso di entrare nella camera di Ludovica si era appena richiusa alle spalle la porta di un'altra stanza.
- Levati di lì e falli entrare. -
- Non posso, Magda! - Rispose l'altra infermiera, senza smuoversi dalla porta, ma avvampando in volto.
- Puoi invece. -
- Se ora li faccio entrare e lui li scopre, quello è capace di farmi licenziare. Io non sono te. Tu hai le spalle coperte. Io no. - Disse stringendo i denti.
- Allora facciamo che li faccio entrare io, ok? -
Magda le si fermò a un centimetro di distanza. Pur essendo abbastanza più bassa di lei, sembrava quasi spaventarla. L'infermiera la fissò per qualche attimo negli occhi, deglutì. Si voltò a fissarci e poi andò via senza aggiungere una parola. Appena fu fuori dalla porta del reparto, Magda si voltò verso di noi, sorridendo. Aprì la porta alle sue spalle. Vedemmo che Ludovica era ancora seduta sul letto. Entrò in stanza e tirò via nuovamente la tenda. Poi si riaffacciò sulla porta.
- Potete entrare. Uno per volta, per favore, e teniamo la porta chiusa. Così gli altri pazienti stanno tranquilli. - Sorrise ancora e poi uscì.
Non ci furono obbiezioni quando la madre di Ludovica entrò chiudendo bene la porta dietro di sè. La vedemmo abbracciarla piangendo attraverso il vetro e anche a tutti noi scappò una lacrima.

Sentii dei passi allontanarsi e vidi lungo il corridoio la piccola ma grande Magda che si allontanava in silenzio. Quando la notte precedente mi aveva guardato con grandi occhi impauriti, mai avrei pensato che potesse avere tanta influenza e voce in capitolo.
- Signora Magda. - La chiamai, dopo averla seguita per qualche passo.
Si fermò voltandosi. - Che c'è? Avete bisogno di qualcosa? -
- No, volevo solo ringraziarla. Ancora. -
Sorrise. - Allora inizia col darmi del tu. Non sono così vecchia. - In effetti sembrava avere circa la nostra stessa età.
- Allora, volevo ringraziarti. -
- Va meglio, così. -
- Posso chiederti come mai hai tutta questa influenza? Che voleva dire la tua collega quando ha detto che hai le spalle coperte? -
Il suo sorriso si inclinò. - Capita ad essere la nipote del capo. Sono l'unica nipote del direttore sanitario. L'unica figlia della sua unica figlia femmina, nonché piccola di casa. Non mi vanto di poter permettermi certe cose e cerco di non farlo mai, ma per una giusta causa sfrutto volentieri la mia posizione. -

La nipote del capo. Può permettersi certe cose. Sfrutta volentieri la posizione per una giusta causa. Mi si aprì un mondo. Forse avevo trovato la soluzione ad un grosso problema.

- Sei in ritardo! - Mi urlò Magda appena entrai nell'ascensore. 
- L'urbano ha ritardato. Non è colpa mia. - 
- Urbano o non urbano, se mio nonno è già andato via dallo studio puoi scordarti che gli chieda un altro appuntamento per te. Mi ha già linciato per averlo fatto arrivare qui così presto di lunedì mattina. Ieri ha pure avuto la sua giocata a poker. Spera che abbia vinto qualcosa e sia di buon umore. Anche se non credo sia possibile visto come si è presentato oggi. - Non riusciva a star ferma. Continuava a specchiarsi nello specchio sul soffitto e a sistemarsi il camice. 
- Perché sei così agitata? - Si fermò e mi rivolse uno sguardo che conteneva dubbio e paura in egual misura. - Non hai detto di essere la sua nipote preferita? -
- Ma sono anche quella che gli chiede più favori. -
- E, di solito, ti accontenta, no? -
- Di solito. Ma non gli ho mai chiesto di andare contro uno dei nostri medici di punta, né di infrangere le regole dell'ospedale. - Si fissò ancora allo specchio, parlando a sé stessa. - Credo sia la cosa più stupida che io possa fare. Stavolta mi butta fuori! -
- Magda. - Le poggiai una mano sulla spalla per attirare la sua attenzione. - Dovrei dirti che puoi tirarti indietro quando vuoi, che non devi fare qualcosa che mette a rischio il tuo futuro per una sconosciuta. Vorrei tanto potertelo dire. Ma non posso. -
- Non puoi obbligarmi. - Mi disse con uno sguardo quasi odioso.
- Anche su questo hai ragione. Ma credo che ci sia qualcos'altro che ti stia obbligando. -
- Cosa? -
- La parte di te che ti spinge a fare tutto quello che puoi per una ragazza in pericolo di vita. Che è un po' quella che ti ha spinto a voler lavorare in un ospedale, no? -
Magda continuò a guardarmi. Quel piccolo sprizzo di nero che chiamai 'odio' si sciolse lasciando il posto alla luce di un piccolo fiammifero, un fuocherello tremolante. Abbassò lo sguardo e poi lo alzò a fissarsi allo specchio. Sospirò chiudendo gli occhi. Quando li riaprì ci vidi dentro la determinazione che aveva dimostrato qualche giorno prima imponendo la sua volontà a permetterci di entrare nella stanza di Ludovica. 
- Che bisogno ha la tua amica di un ricovero in psichiatria quando ha te come psicologo personale? - Disse, accompagnando la domanda con una risatina sarcastica.
Non risposi, limitandomi a sorriderle di rimando con un po' di amaro in cuore. Potevo anche essere bravo con le parole ogni tanto, ma di certo non sarebbe bastato quello a guarire le profonde ferite di Meg.

La porta dell'ascensore si aprì e lasciò il posto ad un lunghissimo corridoio estremamente luminoso, con le pareti bianche attraversate centralmente da una larga striscia di color salmone. Le poche persone che incrociammo erano per lo più gente di direzione, non medici. Ragionieri, avvocati e robaccia simile. 
Raggiungemmo la grande porta bianca, ornata lateralmente da stupende piante. La targhetta "Direttore Sanitario" riluceva ai raggi solari. Magda bussò forte. Da dietro la porta un vocione da uomo anziano chiese chi fosse. Magda socchiuse la porta infilando dentro solo la testa.
- Nonno, è arrivato il ragazzo che voleva parlarti. - Disse dopo aver constatato che fosse solo.
- Fantastico. Con soli quaranta minuti di ritardo. Lo sa questo ragazzo che il mio tempo non può essere sprecato nell'attesa dei suoi comodi? - 
Magda rimase in silenzio, con la testa dentro la stanza ed il resto fuori. 
- Fallo entrare. Muoviti! Vuoi farmi perdere altro tempo? -
Magda si affrettò ad aprire la porta del tutto ed io entrai in quello studio che toglieva il fiato. Ma non per la bellezza. Solo nel senso che avrebbe fatto venire un attacco di panico ad un claustrofobico. L'unica finestra presente era saldamente chiusa contro il freddo di Gennaio e le tende, di un color vinaccia molto intenso, erano completamente chiuse. Le pareti erano di un leggero color avorio, ma erano del tutto ricoperte da enormi mobili di legno massiccio strapieni di libri enormi e modellini di qualsiasi organo del corpo umano e non. Alla scrivania, in mezzo a tutta quella fonte di sapere, un corpulento uomo che aveva passato abbondantemente la mezza età sedeva con il naso immerso in un gran librone di conti. La schiena ricurva che riusciva a notarsi nonostante la mole delle spalle dimostrava che aveva passato il fiore della giovinezza piegato sui libri. E sembrava non averne perso l'abitudine.
Ci accomodammo sulle poltroncine di pelle marrone poste esattamente di fronte a lui. Solo allora lasciò cadere il libro sullo scrittoio, anch'esso di pelle, che ricopriva parte della scrivania provocando un tonfo sordo. Mi scrutò in silenzio e poi mi esortò, non senza rischiare di innervosirmi, a parlare. 
- Si muova ragazzino. Arrivi subito al sodo, senza far troppi giri di parole. Cosa vuole? -

Strinsi la pelle della poltrona, trattenendo i nervi e deglutii cercando le parole migliori per convincere quel bisbetico. Riassunsi brevemente la storia di Meg, cercando comunque di renderla al meglio, o al peggio vista la quantità di pene che aveva dovuto affrontare fin da piccola.
- Ormai la cosa credo sia degenerata. Non sono un medico ma credo che tentare il suicidio non sia da persone sane di mente. E così vorrei chiederle se fosse possibile avere un ricovero qui, nel reparto di psichiatria, per poterla supportare. - Conclusi.
Il Direttore mi fissò per un po' in silenzio, poi si voltò verso la nipote. - Mi hai fatto perdere tempo per chiedere un ricovero? Non lo sai chiamare da sola il Dottor Vigli? La fai spostare dal tuo reparto al suo appena le avrete lavato per bene lo stomaco. Dimentichi anche queste procedure base? - La fissò irritato.
- Il ragazzo si è dimenticato di aggiungere qualche particolare. - Magda mi fissò con aria di rimprovero, inclinando la testa. - La ragazza non è in ricovero nel mio reparto. Non è riuscita a tentare il suicidio perché interrotta in tempo da lui e da un'altra amica. - Disse, nascondendo in parte la verità. Riprese a guardare il nonno. - Per questo ci sarebbe bisogno del tuo intervento. Trini non vuole saperne di richiedere il ricovero obbligatorio. -
- E mi pare anche normale! Non può assolutamente farlo. Non avresti nemmeno dovuto chiederglielo. -
- In realtà gliel'ho chiesto io. - Mi intromisi in sua difesa. - Non sapendo come funzionano le cose gli ho chiesto se poteva fare qualcosa. -
- E perché sarebbe andato da lui a chiedere questa cosa? - Mi chiese in tono dubbioso, come se fosse convinto che stessi mentendo per coprire Magda.
- L'altra mia amica, quella grazie a cui abbiamo interrotto il tentato suicidio... - Dovetti schiarirmi la voce, tossendo. - Beh, lei... -
- Parli! Si muova! -
- Successivamente ha tentato il suicidio anche lei, è stata in reparto da Trini, Sabato si è svegliata ed oggi viene trasferita in psichiatrica per il ricovero obbligatorio. - Disse Magda tutto d'un fiato.
Il Direttore-nonno la fissò con occhi inceneritori. - Vuoi farmi fesso, forse? -
- Non mi permetterei mai! -
Lui sbuffò in una breve risata. - Non sarebbe la prima volta, Magda. - Si voltò verso di me. - Dimmi come si chiama quest'amica ricoverata. -
- Ludovica Fulco. - Risposi immediatamente. 
Il Direttore fece una telefonata per controllare che avessimo detto la verità. Quando riattaccò la cornetta dopo aver saputo di non esser stato preso in giro era visibilmente più tranquillo. 
- Ok, non mi hai preso in giro. Ma la situazione è delicata. - Si passò una mano tra i capelli candidamente bianchi. - Legalmente io non posso obbligarla a ricoverarsi. Non può farlo nessuno. Ognuno di noi può scegliere se curarsi o meno e come. Finchè concretamente non dimostra di essere un pericolo per lei stessa o per altri, abbiamo le mani legate. -
- E se il tentato suicidio dell'amica dipendesse da lei? -
La guardò torvo. - Anche l'ultimo laureato in Giurisprudenza con il minimo dei voti potrebbe far crollare questa difesa. Tutto ciò che possiamo fare è tentare di convincerla. -
- Non la conosce. - Dissi senza riuscire a frenare un sorrisetto beffardo.
- Questo è l'unico aiuto che posso darvi ed è l'unica cosa che farò. Fate in modo che sia lei ad accompagnare la ragazza al ricovero da Vigli. Lui le parlerà. Lavora con malati di mente ben peggiori, saprà come fare a convincerla. -
Lasciammo il suo studio con in mano poco più di un pugno di mosche. Magda era palesemente delusa dal non aver potuto fare ciò che aveva promesso. Avrei voluto dirle quanto la capissi, dato che io avevo praticamente infranto qualunque promessa che avessi fatto a Meg. Prima tra tutte quella di proteggerla da qualsiasi male. 

Il Dottor Vigli era un uomo maturo, di aspetto gradevole e dalla parlantina ipnotica. Anche incontrandolo in un bar e scambiandoci quattro chiacchiere avresti subito scommesso che fosse uno psichiatra, uno psicologo o giù di lì. Era seduto comodamente all'angolo destro di un divano blu, accanto ad una grande finestra da cui entrava tutto il sole possibile. All'altro angolo del divano sedeva Ludovica accavallando le gambe. Sorrideva, felice di poterlo ancora fare. Sul divanetto a fianco, Meg si torturava i polsini della felpa, continuando a tirar giù le maniche fino a nascondersi le mani. Non riusciva a trattenersi e fissava il pavimento. Io, in piedi accanto a lei, cercavo di darle un briciolo di forza, accarezzandole la spalla. 
- Vede, signorina, è necessario un ricovero dopo ciò che è successo. - Diceva con voce docile. - Sarà una cosa breve molto probabilmente. Domattina faremo una tranquilla conversazione e vedremo cosa fare. E' possibile che venga dimessa subito come che possa passare qui un giorno o due. -
- Non può contare questa come chiacchierata? - Disse Meg, agitata. 
- Signorina. - Vigli le rivolse un gran sorriso. - Non posso purtroppo. -
- Meg, io non ho nessun problema a rimanere qui. So che è la procedura. Insistere per andare peggiorerebbe solo le cose, vero Dottore? -
- E' possibile, sì. - 
- Accettare di restare qui è da pazzi, non cercare di andarsene. - Ribattè Meg.
- Signorina, qui nessuno ha parlato di pazzi. -
- Ma certo! Li chiamate diversamente solo per fare in modo che vi facciano un bel sorriso e vi dicano di sì, vero? - Meg sollevò lo sguardo su di lui per la prima volta. Era infuocato. - E questa stupida qui che ci casca pure! - Disse indicando Ludovica. 
- Meg, calmati. - Le accarezzai le braccia.
- Non toccarmi, stronzo! - Si scostò, alzandosi dalla poltrona. - So cosa vuoi fare. So cosa volete fare tutti voi. Vi ho sentito parlare, sai? Te e quell'invidiosa di Terry. Volete rinchiudermi qui dentro e ho accettato di venire qui solo per averne le prove. -
- Signorina perché si sta innervosendo? - Chiese Vigli mantenendo il suo tono pacato. Prese un tubicino bianco dalla tasca interna, ne estrasse due capsule gialle. Ne igoiò una e porse l'altra a Meg. - Vuole favorire? E' camomilla. -
- Se la ficchi in culo la camomilla. Non mi rinchiuderete mai qui! - 
Corse via, lasciando la porta aperta alle sue spalle e rovesciando il carrello del pranzo che un infermiere inconsapevole stava trasportando. Non feci in tempo a fermarla. Inebetito, fissai Ludovica per qualche secondo.
- Corrile dietro, stupido! In fretta! - Mi urlò. 

Primo giorno di lezioni del secondo semetre. Non ero pronto ad affrontarlo. Non mi ero ancora ripreso. La sessione d'esami era andata uno schifo. Gli esami di Sistemi e Fisica 2 non li avevo neanche provati, mentre avevo passato Reti per il rotto della cuffia. Solo la prova in itinere, l'ottima relazione fatta insieme a Terry e la stima che incomprensibilmente il Professore aveva per me mi avevano salvato. E un pizzico di comprensione per la situazione che avevamo passato, probabilmente. Infatti nessuno di noi fu bocciato e Terry arrivò alla sua sperata (e meritata) lode. Ma nessuno era stato in vena di festeggiare. Non senza Meg. 
Era sparita da più di un mese, saltando anche tutti gli esami. Di nostra iniziativa eravamo andati a chiedere al Professore di Reti di poter almeno congelare le sue prove, in modo che non dovesse fare tutto da capo quando e se sarebbe tornata. Anche in quel caso si dimostrò benigno verso di noi e ci promise che se Meg avesse deciso di presentarsi in un qualsiasi appello dell'anno le avrebbe concesso di beneficiare di quanto fatto. Avevamo tempo, quindi, fino a Settembre per poterla convincere a fare l'esame.

Convincerla, se l'avessimo trovata! Sembra così strano pensare a quanto una persona possa essere rapida a far perdere le proprie tracce quando non vuole essere trovata. Inutile fare i Veronica Mars della situazione! L'avevo persa tra i corridoi dell'ospedale. Correva tirandomi dietro qualsiasi cosa trovasse, mi sbarrò la strada perfino con una barella sulla quale una vecchina aspettava di essere trasportata. Cercai di starle dietro ma stava distruggendo mezzo ospedale per non farsi raggiungere ed infine il distacco aumentò così tanto che ad un bivio la persi del tutto. Cercai di arrivare il prima possibile nella hall, nonostante correrle dietro mi avesse fatto perdere l'orientamento. Corsi come un matto al posteggio ma feci appena in tempo a vedere la sua macchina sgommarmi davanti. Allora tornai dentro, da Ludovica. Ma lei non poteva uscire dall'ospedale in quanto una fuga senza autorizzazione avrebbe comportato un ricovero molto più lungo e pesante, nonstante le circostanze particolari. Andai allora da Terry, ma né lei né Marco potevano aiutarmi, non avendo un mezzo con cui spostarsi. Chiamai Daniele e gli chiesi se potesse aiutarmi, ma era a lavoro fuori provincia. Chiedere aiuto ai genitori di Ludovica mi sembrava una cosa da pazzi, dato i giorni che avevano passato e Jay era uno zombie ambulante. Il caso volle che proprio in quel momento arrivasse Diego per convincerlo a tornare a casa ora che Ludo stava bene. Non gli demmo nemmeno il tempo di salutare che lo trascinammo di nuovo fuori. Utilizzammo la sua Kawasaki Z750 per sfrecciare fino all'istituto di Meg, ma lei era già volata via. La sua stanza sembrava essere stata svaligiata dai ladri. La porta era stata lasciata aperta e i cassetti erano stati svuotati sul pavimento. Mancavano anche il portatile e la borsa che utilizzava per l'università, mentre il cellulare era in bella mostra sulla scrivania. 
Nessuno sapeva dove fosse andata, né come contattarla. Neppure le istitutrici l'avevano vista e tutti i recapiti che provarono diedero esito negativo. La signora Alice era fortemente alterata per il suo comportamento e quella che considerava una forte mancanza di rispetto verso ciò che avevano fatto per lei, continuando a urlare che era sempre stata del parere di non permettere a maggiorenni di restare a vivere lì, qualsiasi fosse la loro condizione e specialmente quando avevano dei parenti a cui potevano appoggiarsi. Le altre, invece, sembravano realmente preoccupate per lei. Anche i suoi zii furono allarmati dalla notizia e si mobilitarono immediatamente per riuscire a tracciare i suoi movimenti bancari. Ma Meg aveva fatto un unico grosso prelievo il giorno successivo alla scomparsa e nulla più. Probabilmente, supponendo che potesse essere rintracciata, aveva preferito pagare qualsiasi cosa in contanti: cibo, hotel e, perché no, biglietti aerei o simili. 
Oltre al danno, poi, subimmo la beffa! La polizia non aveva intenzione di iniziare le ricerche di Meg in quanto più e più prove portavano a supporre che si fosse allontanata di sua spontanea volontà. E così ci ritrovammo a dover solo accettare la sua assenza e provare ad andare avanti. O almeno a far finta di ciò. 

Tutti, nel nostro intimo, eravamo sconvolti da quanto successo. Anche Naki non riusciva a studiare e ci volle molta fortuna per passare l'esame di Algoritmi. Persino Brendon sembrava capire che qualcosa nell'aria non andava! A soffrire di più, sicuramente, era Ludovica. Era uscita dall'ospedale dopo appena due giorni di ricovero in psichiatria, ma senza Meg non sembrava più lei. Nemmeno Jay era capace di tenerla su. All'esame di Reti venne solo perché lui era andato fino a casa a vestirla e trascinarla in facoltà. Fece scena muta, ma fortunatamente il Professore, per i motivi che ho spiegato in precedenza, la promosse.

Ed ora ci trovavamo tutti dopo un mese e mezzo di distanza, silenzio, tristezza e preoccupazione, davanti alla porta dell'aula 22. La lezione di Ingegneria del Software sarebbe iniziata mezz'ora dopo e noi, dopo aver preso il nostro caffè nell'ormai solito silenzio, eravamo sulla soglia a guardar dentro. Cosa stessimo aspettando non saprei dirlo. Forse il coraggio di entrare in aula senza di lei, la forza di dover occupare quel posto in meno. O forse speravamo che lei apparisse con uno dei suoi soliti sorrisi e gettasse la sua borsa sul tavolo prima di scroccare un caffè a qualcuno di noi. 
- Entriamo? - Chiese Naki, sorridendoci.
Brendon era a casa coi nonni. Ormai aveva dieci mesi e di starsene tranquillo seduto per tutto quel tempo non voleva proprio sentirne. 
Ludovica e Terry la guardarono e ricambiarono il suo sorriso, ma non si mossero di un millimetro. Marco passò il braccio attorno alle spalle di Ludo e la aiutò ad avviarsi dentro. Li seguii e alle mie spalle entrarono Terry e Naki. Sembravamo un corteo funebre con i nostri passi lenti e le facce tristi. Occupammo i posti e restammo nuovamente fermi a guardarci a vicenda senza dire una parola. 

- Si è fatta viva con qualcuno di voi? - Chiese improvvisamente Ludovica. 
Tutti facemmo un cenno di diniego e lei tornò a fissarsi la punta delle scarpe. 
- Oggi sono passata all'istituto. - Aggiunse infine. - E ieri ho chiamato i suoi zii. Non sanno nulla neppure loro. Non ha contattato nessuno. -

Di lì a un secondo avrebbe iniziato per l'ennesima volta a piangere se non avessimo immediatamente combiato argomento e non potevo permetterlo. 
- Sapete cosa ho sentito dire sul Professore di Ingegneria? - Dissi con voce alta e serena. - Avete presente il Prof di Sistemi? Ecco, lui è peggio. Più soporifero e più incasinato. L'allievo supera il maestro, a quanto pare, perché è stato suo assistente per molti anni. Ma al contrario del suo mentore, è un grandissimo stronzo agli esami. -
- Già, signore. - Una voce maschile, non troppo virile. Sembrava più un adulto che avesse inghiottito un topino di gomma, di quelli che squittiscono quando gli premi la pancia. Per quanto comica potesse essere, mi fece tremare. - Ho capito a mie spese che il metodo del mio mentore, come lei lo chiama, è un po' troppo morbido e ho deciso di non farmi mettere i piedi in testa da voi studenti, come invece fa lui a volte. -
Mi decisi a voltarmi e lo feci molto lentamente. Mi si presentò agli occhi il tipico secchione delle superiori, alto nella norma e magro all'inverosimile, con occhiali dalla montatura spessa che pesavano probabilmente più di lui appoggiati sul naso leggermente aquilino. Pochi capelli sparpagliati ai lati del capo dalla forma leggermente allungata. Indossava un paio di jeans che sembravano essere almeno di una taglia più grandi, una camicia a quadretti con le maniche lunghe chiusa fino all'ultimo bottone e un gilet multicolor da far accapponare la pelle. 
- Lei è il signor? - Mi chiese con aria di sufficienza tenendo stretto il portatile e la cartelletta degli appunti sotto il braccio.
Non risposi. Stetti maleducatamente in silenzio. Naki si allontanò silenziosamente per evitare di sbuffare a ridere senza ritegno.
- Sa dire il suo nome o devo dedurre che usi la lingua solo per divulgare ingiurie sui Professori? - 
- No, Professore. - 
Deglutii. Sentivo che gli altri cercavano di rimanere seri, ma con scarsi risultati. Si allontanarono anche loro. Decisi, per la prima volta da quando ero lì, di fare lo spavaldo con un Professore. Non avevo dimenticato del tutto come fare. Lo fissai negli occhi. - Mi chiamo Cristiano Liotta. Se vuole posso anche scriverglielo così le dimostro che so fare anche quello. -
Il professore mi lanciò un occhiataccia di rimando, ma colsi nel suo viso un attimo di stupore, come se fosse la prima volta che vedesse una reazione del genere.
- Dovrà dimostrarmi ben altro che non di saper scrivere il suo nome. Quello riuscirebbe a farlo anche un cane tenendo una penna in bocca se ben addestrato a tal propostio. - Disse fissandomi, in cagnesco appunto. Si mosse per andar dietro la cattedra. - Ora vada a prendere posto. Suppongo che vorrà sedersi in fondo, da dove potrà tranquillamente dormire indisturbato. Ma le consiglierei l'aula studio per quello. Ha un condizionamento migliore. -
- Resterà stupito, allora. - Mi mossi velocemente verso i posti che avevamo occupato ed afferrai il mio zaino. - Spero che vedermi in prima fila non la disturbi. - Presi posto nella primissima fila, dove il banco era sostituito da una piccola tavoletta di legno attaccata alla sedia come nei film americani. 

Mi fissò un attimo furente, ma non rispose alla mia provocazione. Armeggiò col portatile per collegarlo al proiettore. Mentre era impegnato, mi voltai verso i ragazzi che non riuscivano a decidersi se ridere della cosa o essere preoccupati della mia reazione. In ogni caso sembravano aver dimenticato per un po' la situazione ben più grave di cui avevamo parlato fino a poco prima. E per quello io ero contento. Tornando a voltarmi, però, incontrai di nuovo lo sguardo infuocato del Professore che mi chiese se fossi comodo e se potesse iniziare la lezione. Feci un cenno di assenso con la testa, ma iniziai a focalizzare la cazzata che avevo fatto. Mettersi contro un professore ancor prima della prima lezione del corso non è per niente un buon inizio. In più sentivo le mani pungermi. Era una vecchia sensazione che avevo quasi dimenticato. Il vecchio Cris si faceva risentire. Stavolta, però, non c'era stata una causa scatenante. L'avevo fatto solo perché in quel momento mi andava. Che avesse portato ad allontanare per un attimo il pensiero di Meg era stata solo una conseguenza ben accetta. 
Non andava. Non andava bene per niente.

Dopo la lezione della mattina e lo scontro col nuovo Professore, avevo cercato di darmi una calmata. Il risultato? Una giornata di merda. Silenzioso e musone, non avevo fatto altro che peggiorare la situazione di tutti. Eravamo usciti dall'aula 22 parecchio sconvolti e provati dalla pesantissima lezione. La materia, che sarebbe stata uno dei perni centrali del nostro futuro mestiere se avessimo continuato per quella strada, era resa pallosa e quasi insignificante dal tono monotono e ripetitivo del Professore. Forse era l'antipatia che ci facevamo a pelle, ma le cattiverie che dicevano sul suo conto mi tornarono tutte. Dall'essere stronzo, all'incasinarsi da solo in mezzo al materiale, persino alla prima lezione che nulla più era che un'introduzione alla materia. 
Avevamo passato la successiva ora a cercare di riprenderci ed eravamo poi andati a pranzo, non appena Jay ci raggiunse accompagnato da Diego. Le poche ragazze presenti nella nostra facoltà sembrarono in preda a una visione miracolosa, abituate ai tanti mostriciattoli che le circondavano ogni giorno. Nemmeno la presenza del suo ragazzo, però, servì a distrarre Ludovica. Pranzammo tutti in silenzio. Persino Diego non riuscì a trovare qualcosa da dire che ci potesse ravvivare. 
Alle 16 ci eravamo già ficcati di nuovo in aula per la prima lezione di Algoritmi. Avevo già seguito la materia, ma volevo iniziare col piede corretto col Professore perciò la seguii anch'io. Purtroppo non riuscii a dare una buona impressione seduto tra le prime file con il mio sgaurdo perso nel vuoto e più volte mi sentii richiamare all'attenzione. Dopo due ore di parole al vento, il Professore ci lasciò liberi di andare.

Jay già aspettava Ludo fuori dalla porta e la portò via quasi immediatamente. Marco e Terry restarono insieme a me, probabilmente aspettandosi che avremmo percorso la strada verso casa insieme. Non avevano capito che avevo bisogno di passare del tempo da solo. Ci sedemmo sulle scale del gazebo. Daniela ci oltrepassò salutandoci velocemente, saltellando al braccio di un ragazzo. Un mezzo sfigato che, però, possedeva una delle qualità che lei più ricercava: la media del 30. Tra di loro ci sarebbe stato sicuramente un equo scambio. Lui le avrebbe dato una mano nelle materie e lei gliel'avrebbe data, punto. Poco dopo passò anche Andrea. Da solo, come da solo l'avevamo visto per l'intera giornata. Si fermò accanto a noi per salutarci.
- Come state? - Ci chiese.
- Può andare meglio. - Rispose per tutti Terry. 
Marco non schiodava gli occhi dal caffè che aveva in mano.
- Suppongo di sì. - Restò in silenzio, come a cercare un nuovo modo di attaccare discorso. - Sentite ragazzi, non voglio fare l'impiccione. Ma le voci qui girano e vorrei sapere quanto c'è di vero. - Disse poi, tutto d'un fiato.
- Di vero su cosa? - Chiesi scandendo bene le parole. Le mani iniziavano a prudere di nuovo. 
Andrea sembrò decifrare il mio tono. Quando tornò a parlare la voce gli tremava leggermente. - Su Meg. Dicono che sia scappata. -
- Dicono chi? - Mi alzai in piedi e Andrea insintivamente indietreggiò.
- Ho sentito alcune ragazze parlottare a pranzo. Non hanno detto il suo nome, ma da come ne parlavano ho creduto parlassero di lei. E poi non l'ho vista a lezione. E voi sembravate così giù che io ho dedotto... - Regnò il silenzio per qualche istante. - Beh, sicuramente mi sarò sbagliato. Non è così? Saranno le solite voce di corridoio. Scusate. Ci vediamo. - 
Si voltò e iniziò ad allontanarsi. Passi piccoli e lenti. Le mani nelle tasche del giubbino. Ogni tanto un calcio a un sasso. Guardai i ragazzi ancora seduti. 

- Dovremmo dirglielo. E' comunque un suo amico. Sembrava preoccupato. - Azzardò Terry.
- Andrea si preoccupa solo di chi sarà la prossima scopata. Non certo di Meg. - Disse Marco continuando a fissare il bicchiere ormai vuoto.
Terry si voltò a guardarlo stranita. - Com'è che in un momento come questo sai essere tanto stronzo? -
- Ho solo detto quello che penso. - Secco e freddo. Si alzò per gettare il bicchiere nella pattumiera poco distante. - Vaglielo a dire se vuoi. Così da domani quelle non saranno più solo voci, ma certezze per tutti. Potrà usarla per fare il povero ragazzo che ha bisogno di conforto. -
- No, Marco, aspetta. - Mi intromisi. - Magari non si è comportato nel modo migliore, ma non credo che arriverebbe a tanto. -
Ci guardò in silenzio. - Come volete. - Esclamò. Si avvicinò nuovamente per recuperare il proprio zaino. - Per me si è fatto tardi. Ci vediamo domani. - 
Senza aggiungere nulla, attraversò il piccolo cortile e si avviò, mentre ormai il cielo si tingeva di rosso. 
- Non fare il bambino, Marco! - Gli gridò dietro Terry. Afferrò anche lei la borsa e fece per seguirlo. 
Quando si accorse che non le ero accanto, si fermò a richiamarmi. - Non scendi a casa? -
- Tra un po'. Aspetto la chiamata di Naki per sapere se cenare da lei. - Mentii, ma ero sicuro se avessi detto che avevo bisogno di tempo da solo lei non sarebbe andata via.
Non sembrò credermi più di tanto, ma si accontentò e corse fino a raggiungere Marco.

Finalmente da solo, mi spostai verso la scala anti incendio. Quello era un po' il nostro posto, se mai di un noi si fosse potuto parlare. Da lì si godeva di una stupenda visuale della città. Non mi ci ero mai soffermato, perso com'ero negli occhi e nelle labbra più belle che avessi mai visto. Ma l'effetto col sole che tramontava in quella sera che tanto sapeva già di primavera riusciva quasi a farti dimenticare del posto in cui ti trovavi. In lontananza, il mare salutava il sole scintillando alle ultime carezze dei suoi raggi. Non riuscivo a far altro che pensare a come tutto sarebbe stato perfetto se in quel momento accanto a me ci fosse stata lei. In un attimo la sua assenza si concretizzò in tutta la sua realtà. Il dolore, la preoccupazione, il non sapere in quel momento lei dove fosse, con chi, a far cosa, se avesse bisogno di aiuto. Poggiai le braccia sulle ginocchia e vi nascosi il viso. Sentivo gli occhi bruciare e un terribile bisogno di piangere, ma non ci riuscivo. Mi sentivo bloccato, come se qualche condotto dentro di me si fosse spezzato. La cosa mi faceva impazzire. Strinsi le palpebre tanto che gli occhi iniziarono a farmi male.
Ero incazzato con me stesso. Per tutto quello che avevo fatto di sbagliato con lei, per tutto ciò di giusto che invece non avevo avuto il coraggio di fare. Per averla costretta a correre, per aver dettato legge sui suoi tempi. Per essermi innamorato di lei così perdutamente da non riuscire più ad essere razionale. Per non aver capito cosa aveva dentrò né come aiutarla. Per averla ferita. Per averla umiliata. Per averla fatta scappare. Per tutto questo, mi odiavo. 
Un'unica lacrima solitaria riuscì ad evadere scavandosi un solco tra le ciglia serrate. I pugni si strinsero come se avessero vita propria e si andarono a piantare sulle sbarre di ferro che componevano i gradini della scalinata, che tremò notevolmente sotto l'urto. Qualche goccia di sangue cadde sull'erba sottostante. 

Il cellulare squillò. Erano quasi le otto di sera, il cielo era completamente buio e la facoltà viveva solo dei pochi Professori che ancora non l'avevano lasciata. Era Naki. Come se mi avesse letto nel pensiero, mi chiese di cenare insieme a loro. Probabilmente le avrei chiesto di restare a dormire da lei. Non mi andava di passare un'altra notte da solo. Il mio bisogno di solitudine si era esaurito. 
Presi lo zaino e lo misi in spalla. Solo quando afferrai la ringhiera per alzarmi sentii le mani dolermi. Più che i graffi, pochi e molto superficiali, mi preoccupava il colorito. Si era subito formato un grosso livido che prendeva le nocche e buona parte del dorso. Stringere la mano e allungare del tutto le dita mi provocava molto dolore. Temetti per un attimo di essermi rotto qualcosa ma il gonfiore alle dita era minimo. Il problema era soltanto non farlo notare a Naki. Tenendo le mani aperte per metà, come fossi un pugile con le fasciature prima di infilare i guantoni, mi avviai all'uscita sull'acciottolato.

- Che fa ancora qui, signor Liotta? - 
La voce del Professore di Reti mi sorprese. Voltandomi lo vidi sulla porta d'ingresso, quasi sommerso dalle carte che cercava di portare senza far cadere. Eppure mi aveva riconosciuto e voluto fermare! Non sapevo se esserne contento o preoccuparmi seriamente. Lo guardai in silenzio, con il primo sorriso imbecille che mi venne in faccia. 
- Si è perso nello studio già al primo giorno di lezioni? - 
- Mi sono perso e basta. - Dissi, molto sicuro che non avrebbe afferrato il senso della mia frase ed altrettanto certo che l'avrebbe sorvolata.
- Come sono andati gli esami? A parte il mio ovviamente. In quello ha fatto faville. -
- Il suo è stato l'unico che ho fatto, in realtà. Non ho avuto molta concentrazione in questo periodo. -
- Oh che peccato! Un ragazzo come lei supponevo si sarebbe laureato in perfetta regolarità. -
- Mi sopravvaluta Professore. - Sorrisi. 
- No, no, signor Liotta. E' lei che non è conscio delle sue capacità. - Parlare con quel Professore si rivelava sempre un toccasana per la mia autostima. Anche se riusciva allo stesso tempo a farmi sentire una merda. Credevo sempre di starlo ingannando, anche se, in fondo, io non avevo fatto proprio nulla per farlo convincere che fossi un genio. - Ha perso la concentrazione per qualche ragazza, forse? - Ammiccò. 
- In un certo senso. - Abbassai lo sguardo e spensi il sorriso.
Improvvisamente il Professore sembrò colto da un fulmine. - Oh cielo, cielo, cielo! Ora ricordo. La sua amica che era scappata! Non sbaglio, giusto? -
- Già. - Ammisi debolmente. 
- Che brutta storia! E com'è finita? L'avete trovata? E' tornata? -
Scossi la testa. - Siamo ancora in alto mare. -
- Oh come mi dispiace per la signorina Megara! - Per un attimo mi domandai perché insisteva a chiamarmi per cognome quando di Meg ricordava benissimo il nome. - Tanto promettente anche lei, sa? E una così bella ragazza, siamo sinceri! Che strano, però. Ero convinto che stesse insieme a lei, sa? -
- Chi? Io? - Domandai sorpreso.
- Già. Mi devo essere sbagliato. Con tutte le cose che mi passano per la testa. - Prese a camminare continuando a discutere, probabilmente convinto che lo stessi seguendo. 
Lo osservai allontanarsi, infervorato dal suo discorso anche quando si accorse della mia assenza al suo fianco. Era proprio un personaggio! Riuscì a strapparmi una piccola risata dopo la quale mi sentii più leggero. 

Scrollai le spalle e mi avviai verso casa di Naki.

La cena era stata ottima, come sempre. Con loro tre ritrovavo la mia seconda casa e questo servì a tirarmi un po' su. Con Daniele le cose andavano nettamente meglio del nostro primo incontro. Aveva capito ormai che Naki era sua e non avevo intenzione alcuna di rubargliela. Infatti dopo cena andarono a fare una breve passeggiata insieme mentre io tenevo Brendon. Quella peste aveva ormai dieci mesi, sei dentini e una voglia incredibile di imparare a camminare. Si aggrappava a qualsiasi cosa per arrivare ad alzarsi sulle sue gambine cicciotte, ma non aveva ancora imparato bene l'equilibrio. Perciò appena si scostava riusciva a restare in piedi solo qualche istante prima di cadere sul sederino, infagottato dal pannolino, e ricominciare la prova. Si addormentò poco prima di mezzanotte, crollando sfinito sul divano. Dopo poco Naki e Daniele rientrarono. Nonostante l'insistenza di Naki, decisi di non dormire lì da loro. L'avevo voluto anche io, ma in quel momento c'era qualcosa che mi spingeva verso casa. Dissi di aver diritto anch'io alla mia passeggiatina serale e, dopo averli salutati, mi avviai verso casa. 

Camminavo lentamente, assaporando la notte che ancora regalava ricordi d'inverno col suo freddo e l'odore di pioggia nell'aria. Il mio pensiero andò di nuovo a Meg, ma stranamente non mi turbò più di tanto. Era come se qualcosa dentro di me mi dicesse che stava bene, che era al sicuro, che tutto stava sistemandosi. 

Un auto simile alla sua mi passò a fianco, facendomi saltare il cuore in gola. Mi fermai cercando di leggerne la targa ma i miei neuroni sembravano troppo affaticati dalla giornata per riuscire a concentrarsi. Non riuscii ad afferrare che le prime due lettere. Combaciavano anche quelle con l'auto di Meg. Istintivamente accelerai il passo. Quella vocina dentro di me, che non riusciva mai a tacere, mi stava urlando che era tornata e stava venendo a trovarmi. Dovevo sbrigarmi per accoglierla sotto casa mia. Corsi verso la stradina dove abitavo, ma mi fermai quando vidi che la macchina non aveva svoltato. Proseguiva dritta verso il centro della città. "Idiota, non era Meg!" dissi a me stesso "E poi, davvero credevi che sarebbe venuta da te appena tornata? Sei un povero illuso!". Continuai a rimproverarmi riprendendo il mio passo lento verso casa.
Voltando l'angolo, però, qualcosa attrasse la mia attenzione. Accanto al mio ingresso sembrava esserci qualcosa. Si intravedevano delle gambe piegate, come se ci fosse qualcuno seduto sullo scalino che permetteva di accedere al portone. Mi fermai, discutendo di nuovo con me stesso.
"E' Lei. Corri."
"Ma che dici, idiota? Non può essere lei."
"Ti dico che è Meg, corri."
"Anche se fosse, non devo correre da lei. Non se lo merita."
"Sei colpevole quanto lei della sua fuga. Non sei nella posizione giusta per decidere cosa si merita e cosa no. Quindi adesso muovi quelle chiappe mosce che ti ritrovi e corri!"
L'ultima frase la sentii nitida nella mia mente, pronunciata dalla voce di Naki, come a sottolinearne l'obiettività e la veridicità. La ascoltai. Corsi per i pochi metri che mi separavano da quell'ombra col cuore che pulsava in gola.
Sentendomi arrivare, l'ombra si alzò in piedi. Più mi avvicinavo a lei, più ne delineavo i tratti, meno veloce si faceva la mia corsa. Mi fermai di fronte a lei, con le braccia penzolanti e il cuore che tornava al suo posto.

- Ciao. - Mi disse, graffiandosi piano il dorso della mano sinistra.
- Che ci fai qui? - Le dissi serio.
- Posso salire da te? - 
Indossava un abito che non le avrei mai pensato addosso. Le scendeva morbido disegnando le sue forme abbondanti. A coprirle le spalle, una giacca forse ancora troppo leggera per le temperature notturne. Aveva gli occhi sensualmente contornati di nero in modo da sottolinearne ulteriormente il taglio felino. L'ambra riluceva sotto la luce proveniente dall'unico lampione di quella stradina diroccata.
- Certo, Terry. - Dissi scuotendomi dallo stato di torpore in cui sembravo essere caduto. - Ma che ci fai qui? A quest'ora per giunta. - Ripetei la mia domanda mentre aprivo il portone e ci dirigevamo verso la porta d'entrata.
- Niente. Ti aspettavo. - Disse mentre entravamo in casa. La sua voce era strana, quasi tremante. 
- Non ti avevo detto che andavo a cena da Naki? - La precedetti nel corridoio, parlando a bassa voce, cercando di non attirare i coinquilini fuori dalle loro stanze. 
- Sì. - Di nuovo la stessa nota nella voce. Sembrava fosse successo qualcosa.

Mi affrettai ad entrare in camera, richiudendo la porta alle nostre spalle. La osservai, ritta al centro della stanza, che mi fissava con occhi impauriti continuando a intrecciarsi le dita senza posa. 
- Perché mi aspettavi? - Non mi rispose. - Avresti potuto aspettare tutta la notte, lo sai? - Di nuovo silenzio. - Spesso dormo da loro, lo sai no? - Ancora turbante silenzio. Mi avvicinai a lei. - Terry, è successo qualcosa? Mi stai facendo preoccupare. -
Abbassò gli occhi. Quando tornò a guardarmi erano leggermente lucidi e un piccolo sorriso le addobbava il viso. - Scusa. - Mi disse, iniziando a muoversi. - Sono solo stata una stupida. - Mi sorpassò e si avviò a passo spedito verso la porta. 
Rimasi qualche istante immobile a capire cosa stesse succedendo, ma subito le andai dietro, afferrandole un polso e tirandola di nuovo dentro la stanza. Richiusi la porta e le afferrai le braccia con entrambe le mani. 
- Terry. Adesso sono molto preoccupato. Dimmi cosa è successo, ti prego. - 
Mi guardò di nuovo con occhi leggermente lucidi. Talmente belli quegli occhi. Le avevo detto milioni di volte quanto mi piacessero. Sembravano quelli di una gatta, non solo per il taglio ma anche per la capacità di adattarsi a trasmettere milioni di emozioni differenti, contraddicendo l'espressione del resto del viso di tanto in tanto. In quel momento lei sorrideva, ma i suoi occhi nascondevano qualcosa che non era affatto un sorriso. Si allontanò da me, avvicinandosi al letto. La seguii per qualche passo, ma mi fermai al centro della stanza vedendola voltarsi nuovamente. Fissando il pavimento si tolse la giacca. Tornai a camminare finché non le fui a un passo. Le sollevai il mento con un dito. Rividi i suoi occhi ambrati e avevano ancora dentro la stessa equazione irrisolvibile. 
Ci fissavamo in silenzio. Occhi negli occhi, cercavo di comprendere cosa stesse succedendo dentro di lei. Cosa aveva mai potuto spingerla ad aspettarmi sotto casa non sapendo né se né quando sarei tornato a casa? L'unica cosa che mi veniva in mente, vedendola sistemata a quel modo, era un appuntamento andato male. Ma allora, perché non mi raccontava cos'era successo? Era forse così imbarazzante? Era forse così grave? E se non lo era, perché voleva farmi preoccupare a quel modo?

Le sue mani si mossero. Le portò alla schiena. Nella mia mente si preannunciò il peggio. Subito mi tornò agli occhi per l'ennesima volta la scena di Meg insanguinata e infangata sul divano di Naki. Pensai subito che stesse tastandosi qualche ferita o qualche ematoma. Sentii il rumore della zip scendere lentamente, mentre continuava a guardarmi fissa negli occhi. 
Ma non voleva mostrarmi dove qualcuno le avesse fatto del male. In pochi istanti, il vestito le scivolò di dosso cadendo in terra. 
- Che fai? - Mi voltai sconcertato. - Rivestiti. -
Mi girò attorno, riportandosi davanti ai miei occhi. - Faccio forse così schifo? - Mi chiese con occhi pieni di lacrime. 
- No, no, no. Non è per quello. - Dissi, voltandomi ancora, ancor più confuso.
- Non riesci neanche a guardarmi! - Urlò. Piangeva ormai.
- Che idiozie dici Terry? - Tornai a guardarla. 
Era nuda di fronte a me, tranne che per un completino intimo di raso nero. Nonostante le forme abbondanti, il suo corpo era bello da vedere. Il nero che le circondava gli occhi iniziava a sciogliersi rigandole le guance. Il labbro le tremava e l'ambra riluceva ancor di più in mezzo alle lacrime che scorrevano. Forse era solo l'affetto che provavo per lei, l'essere stato tanto a stretto contatto con lei nell'ultimo periodo, il conoscere la sua stupenda persona interiore, l'esserci sorretti a vicenda, ma la trovai bellissima e dolcemente provocante. 
Le accarezzai il viso. - Sei molto bella. -
- Allora baciami. - Lo disse velocemente, slanciandosi verso di me. 
Grazie ai tacchi riusciva ad essere alta quasi quanto me perciò le bastò poco per aggrapparsi alla mia nuca e incollarsi alle mie labbra. Quel bacio sembrava essere una disperata richiesta di aiuto, ma dentro di me non mosse nulla. Era bella, sì. Le volevo bene, è vero. Ma in me c'era spazio solo per Meg. Aspettai, con gli occhi aperti, immobile, che si allontanasse. Ero glaciale, non rispondevo in alcun modo al suo bacio. 
Si accorse della mia impassibilità. Si staccò, ripoggiando completamente i piedi a terra. Non aveva il coraggio di guardarmi, fissava il pavimento. Mi allontanai. Presi il vestito da terra e glielo porsi in silenzio. Si rivestì continuando a tenere lo sguardo basso. 

- Pensi ancora a Meg, vero? - Mi chiese infine, fissando il muro. Non aspettò che le rispondessi. - Io le voglio bene, è una delle mie più care amiche. Ma in questo momento credo di odiarla. -
- Non devi. - Mi avvicinai a lei e le carezzai le braccia. 
- Invece si. - Si voltò a guardarmi. - Perché io non sarò mai come lei. Non farò mai girare la testa a tutti i ragazzi solo camminando per i corridoi. Lei non fa niente per essere così dannatamente perfetta eppure lo è. Ti sei innamorato di lei senza che lei facesse niente. Invece io ti sono stata vicino, ti ho aiutato, ti ho ascoltato. Ma tu non ti innamorerai mai di me. Non fin quando c'è lei. Speravo che la sua assenza servisse almeno a questo. Ma è talmente perfetta da riuscire ad essere presente anche se non sappiamo dove cazzo sia finita. Per questo la odio. -
- Non odiare lei. Sono io che la amo. Che amo qualcuno che è scappato via senza sentire il bisogno di portarmi con sé o almeno di cercarmi. E sto rifiutando una delle ragazze migliori che io abbia mai conosciuto. Sono io il coglione qui. - Sorridevo anche se dentro di me sapevo quanto erano vere quelle parole e che di certo non c'era nulla da ridere.
Lei riprese a piangere, singhiozzando stavolta. La abbracciai forte, accarezzandole i capelli finché i singhiozzi si calmarono e lei si allontanò da me asciugandosi le lacrime e tingendosi l'intera faccia di nero. Andai all'armadio e le porsi una delle mie tute. 
- Tieni, metti questa così sarai più comoda stanotte. Ti va una camomilla prima di andare a letto? -

Il tappo di sughero fu proiettato via dalla bottiglia di spumante. Il suo volo fu accompagnato da uno scroscio di applausi e auguri gridati sotto le gocce alcoliche che si era portato dietro. La ragazza, fasciata in un tubino nero, coi ricci rosso fuoco tirati via dal viso e adorni di una coroncina di alloro fatta in casa, sorrideva godendosi il suo momento di gloria. Chi è che ha detto che saremo tutti famosi per quindici minuti? Una laurea in Informatica te ne regala solo sei. Tanto è il tempo che ti concedono per esporre il lavoro di mesi e mesi davanti a sconosciuti e mezzi conoscenti. Ma per tutto il resto del giorno ti senti al centro del tuo mondo. Parenti e amici facevano la fila per avere una foto con la neo-dottoressa e per stringerla facendole le auguri di un futuro felice. Noi, seduti sui nostri soliti scalini, osservavamo quella calca un po' sconsolati. Il periodo delle lauree, si sa, è sempre tremendo per tutti quelli che ancora ne sono lontani. 
- Ci arriveremo mai, noi? - Disse sconsolata Ludovica. 
- Pian pianino spero di sì. - Rispose Terry stringendosi al mio braccio.
- Qualcuno prima di altri. Non è così, secchioncella? - 
Mi fece la linguaccia e io le baciai la fronte. 

Da quella sera di un mese prima erano cambiate molte cose tra di noi. Nonostante la preoccupazione per Meg esistesse ancora, era diventata latente. Latitante, oserei dire. In tutti era subentrato il rancore, il risentimento nei confronti di lei che aveva voluto punirci andando via, la rabbia per quella scomparsa così lunga che tutti consideravamo una punizione eccessiva.

Qualche sera dopo che Terry mi aveva aspettato sotto casa, ci eravamo ritrovati insieme a casa di Marco. Dal suo terrazzino guardavamo il paesaggio in silenzio. Ludovica abbracciata a Jay vicino al balcone, Marco seduto in terra con Maria che lo coccolava accanto alla sedia sui cui si era sistemato Diego, Lucy su un piccolo divanetto improvvisato con un vecchio materasso e dei cuscini insieme a me e Terry. Un silenzio di pace aleggiava su di noi. D'improvviso Ludovica si era voltata a guardarci. 
- Sento che Meg sta bene. - Sorrideva. - Credo che abbia solo deciso di continuare la sua vita lontano da qui. -
- Ludo, per caso sai qualcosa e non vuoi dircelo? - Chiese Marco, in tono preoccupato. - Se sai che sta bene, puoi solo toglierci un peso dalle spalle. -
- Non so nulla, Marco. Questa è una mia sensazione. Me lo sento dentro. -
- E se non fosse così? - Azzardò Terry.
- Non potremmo fare null'altro comunque. - Si rigirò e tornò a fissare il mare.
Quelle frasi sancirono un patto silenzioso. Era come se ci fosse dato il consenso di riprendere le nostre vite da dove le avevamo interrotte. Non era il caso di restare anni ad aspettare il ritorno di chi non avrebbe mai fatto rivedere il suo viso. Era profittevole quanto attendere che un morto si risvegliasse da solo, così all'improvviso, perché aveva voglia di sgranchirsi le ossa. Quello fu l'istante in cui ci fu il cambiamento più importante, in cui decidemmo di andare avanti.

E nel mio andare avanti c'era Terry. Il mio amore per Meg non si era cancellato, né attutito. Rimbombava allo stesso volume dentro il mio cuore. Ma volevo darmi la possibilità di vivere ancora senza di lei. Allo stesso tempo, però, non volevo illudere Terry di aver cambiato idea. Perciò la invitai a casa un pomeriggio per chiarire le cose. Le dissi che volevo approfondire la sua conoscenza come ragazza, più che come collega o amica, ma che non avevo alcuna intenzione di correre o affrettare i tempi. Volevo prima vedere se in me nascevano dei sentimenti che potevano corrisponderla, senza darle inutili e false speranze. Lei mi disse che era esattamente ciò che voleva. Si era scusata in visibile imbarazzo per aver corso troppo offrendomisi come un piatto di carne da consumare in fretta e di essere rimasta molto colpita dal fatto che non mi ero approfittato della situazione, ma che, persino adesso, avevo voluto chiarire tutto prima di poterla ferire.
E così ci stavamo frequentando da un paio di settimane. Ci vedevamo spesso, non sempre da soli. Nessuno dei due esagerava con comportamenti affettuosi più vicini a due fidanzati che a due amici, ma i nostri discorsi si facevano sempre più intimi cercando di scoprire reciprocamente cosa c'era dentro l'altra persona: gusti, pensieri, opinioni, aspettative per il futuro. Credevo sempre di più che Terry sarebbe potuta essere una stupenda fidanzata e in futuro perfetta moglie e una stupenda madre, ma potevo prendermi in giro solo quando stavo con lei. 
Da solo, nel mio letto, la notte, dopo aver spento tutto ciò che mi collegava al mondo, tornavo a pensare a Meg, al suo essere perfetta senza forzature, al modo in cui riuscivamo a completarci ancor prima di conoscerci bene, al futuro che mi ero costruito nella mente per noi. Avevo tanto sperato di non illudere Terry che ero finito per illudere me stesso. 

Quel venerdì scappammo appena possibile dalla facoltà invasa da centinaia di persone che vagavano quasi disperse alla ricerca del proprio parente laureando o dell'aula magna. Nonostante fosse divertente prendere in giro le persone per come venivano conciate o per gli strani accenti che non riuscivano a nascondere pur sforzandosi di parlare in maniera più ricercata del solito, molto prima dell'ora di pranzo eravamo già a casa. Terry si era portata dietro la valigia per tutta la mattina perché avevamo deciso che avremmo pranzato insieme così lei non avrebbe dovuto perder tempo a sistemare la cucina di casa prima di partire. Pranzammo molto presto per evitare che la zona fosse invasa dai soliti animali dei miei coinquilini e poi ci eravamo rintanati in camera. 
Mentre completavo la mia valigia, Terry giocherellava col mio computer su una piattaforma social. Quando presi l'accappatoio per infilarlo in valigia, la vidi alzarsi dal letto.
- Hai finito di giocare? -
- No, sto facendo una minuscola pausa. - Venne ad abbracciarmi. - Hai finito con la valigia? -
- Quasi. Devo infilarci altra roba da lavare. Poi la chiudo e passo allo zaino. -
- Capito. - Come se fosse la cosa più naturale del mondo mi baciò sulle labbra. 
Non ci eravamo più baciati da quel giorno e non avevo avuto intenzione di farlo finché non avessi capito che Meg era stata cancellata davvero. Ma non trovai il coraggio per allontanarmi. Di nuovo restai immobile al suo contatto fin quando fu lei a staccarsi. Ma stavolta non era triste. Sorridente tornò a sedersi sul letto. Lasciai cadere l'accappatoio nella valigia e mi andai a sedere accanto a lei. Continuava a guardarmi sorridente. Le presi il viso tra le mani ed attesi di capire perché l'avessi fatto. Forse volevo solo forzarmi a corrisponderle un bacio vero per capire cosa mi avrebbe fatto provare, per verificare se riuscisse a cancellare l'immagine di Meg che sembrava stampata a fuoco sulla mia anima. 
- Non farlo. - Mi disse piano, continuando a sorridere. 
- Perché? - Le dissi perplesso.
Mi prese le mani e delicatamente se le scostò dal viso. - In questi giorni eri tu a voler capire cosa poteva esserci tra di noi ed invece sono stata io a capirlo. -
- Non ti seguo, Terry. -
- Non potremmo mai stare insieme. Non così. Non adesso. -
- Continuo a non capire. -
- Non voglio vivere nell'ombra di Meg. Entrambi abbiamo fatto finta che non fosse così, ma è talmente palese che sapevamo entrambi che non dovevamo far altro di trovare il coraggio per dircelo. Non e' tempo per noi e forse non lo sarà mai. -
Un sorriso mi increspò le labbra. - Non riesci proprio a non citare Ligabue, vero? -
Rise. - Proprio no. -
Ci abbracciammo e finì in quel modo il nostro tentativo di aver qualcosa di più di un'amicizia, con un pizzico di paura di aver rovinato tutto e la speranza che così non fosse. 

Arrivato il momento, Terry prese la sua valigia e uscì da casa mia per andar a prendere l'urbano che l'avrebbe portata in stazione. Avevo ormai terminato la valigia. Presi il cellulare e chiamai Naki. Le chiesi se Daniele potesse accompagnarmi in stazione qualche ora dopo e se le andasse di passare col bambino per salutarci. Dopo pochi minuti era già da me. 
Brendon si muoveva per la stanza, ormai padrone degli spazi e gettato più che mai nell'idea di imparare a camminare da solo mentre Naki, seduta alla scrivania, mi esponeva i suoi progetti per festeggiare il primo anno del piccolo che sarebbe caduto meno di un mese dopo. Era indecisa sul fare una vera e propria festa o un semplice pranzo in famiglia. Le consigliai di portare semplicemente il bambino in un posto dove potesse divertirsi e passare una giornata con tutti quelli che gli volessero bene. In fondo nessuno ricorda il suo primo compleanno! Inutile spender fior di quattrini per una festa che lo stesso festeggiato non ricorderà mai se non attraverso i racconti dei parenti. Si trovò daccordo con me e pensammo a dove andare. Non fui molto d'aiuto nella decisione in quanto la mia conoscenza della città era ancora parecchio limitata. Infine Naki decise di parlarne con Daniele e scegliere insieme a lui e ai nonni.

- Come sta il signor Giovanni? - Le chiesi ironico. - Ha smesso di odiare Daniele? - 
- Non odia Daniele. Odia il fatto che stiamo insieme. O meglio, odia il fatto che io stia con un ragazzo. Bibi cerca di fargli capire che Daniele è il meglio che mi sia potuto capitare. Senza offesa, eh! - Disse battendomi sulla spalla. Le risposi con una smorfia. - Ma lui non ne vuole sapere di rilassarsi. -
- Daniele ti è stato vicino tutto questo tempo senza farsi avanti per aspettare che tu fossi pronta ad accettare una nuova relazione. Avrebbe aspettato anche anni se ce ne fosse stato bisogno. Se non è amore questo! -
Sorrise imbarazzata. Aveva i tipici occhi a cuoricino delle ragazze innamorate follemente. - Già. - Si limitò a dire. 
Il campanello di casa trillò. Tesi l'orecchio: una porta si aprì ad indicare che qualcuno dei miei coinquilini aspettava ospiti. 
- E poi ama tantissimo anche Brendon. Davvero non potevi trovare di più. -
Naki rise. - Lo sai che l'altro giorno l'ha chiamato papà? Dovevi vederlo! Era al settimo cielo. -
- Volete che lo chiami papà? - Chiesi sorridendo anch'io.
- Non abbiamo ancora deciso. Credi che non sarebbe il caso? - Mi chiese un po' rabbuiata.
Qualcuno bussò alla porta della mia camera. 
- Scusa un attimo. - Dissi a Naki. 
Mi alzai per andare alla porta. Uno dei miei coinquilini era lì dietro. - Non sono il tuo portinaio. La prossima volta che aspetti qualcuno smuovi il culo! - Mi disse.
- Vedi che io non aspetto nessuno a quest'ora! -
- Intanto è per te. Muoviti forza. - Si allontanò nel corridoio.
Mi voltai verso Naki che mi guardava interrogativa. 
- Che orario hai detto a Daniele? -
- Mi ha detto che passava appena si liberava da un appuntamento. Avrà fatto presto. - Disse alzando le spalle.
- Va beh, vado ad aprirgli. -
Mi diressi verso la porta d'ingresso. Quel cafone l'aveva lasciata chiusa, limitandosi ad aprire il portone che dava sulla strada. Lo mandai a fanculo mentalmente prima di aprire la porta.

Un lieve sorriso spaventato ed imbarazzato, un piccolo borsone blu. Il cuore saltò un battito, il polmoni scesero in sciopero. Rischiai di svenire.

Fui tentato di richiudere la porta esattamente così come l'avevo aperta e tornare in camera dicendo che il mio coinquilino si era sbagliato e la visita era per un altro abitante della casa. In realtà non mi limitai a pensarlo. Cercai anche di metterlo in pratica, ma mentre chiudevo la porta d'ingresso, Meg la bloccò con un rapido gesto del braccio. Il sorriso tremolante venne sostituito da un viso estremamente triste.
- Ti prego. - Sussurrò. 
Aprii nuovamente la porta. Vedendo che restava immobile, le afferrai il braccio e la tirai dentro casa. Cercai di farlo il meno bruscamente possibile per poi sfogare la mia rabbia sulla porta richiudendola tanto forte da far tremare la cornice di legno. 
- Piano! - Urlò il coinquilino con la camera più vicina.

Non risposi. Mi andai ad appoggiare al cucinino, con le braccia incrociate ad osservarla. Lei si mosse impaurita per la stanza, tenendo il borsone con entrambe le mani e facendolo ondeggiare leggermente. Infine lo poggiò sul tavolo e mi si avvicinò.
- Come stai? -
- Bene. Vedo che stai bene anche tu. - Le risposi freddamente. - Che sei venuta a fare? -
Meg fissò un attimo il pavimento e poi si spostò i ricci dalla fronte. - Non credevo che avresti festeggiato il mio ritorno stappando lo spumante, ma non immaginavo nemmeno un'accoglienza del genere. -
- Cosa ti aspettavi che facessi? No, dico. Sinceramente. -
- Non lo so. Che mi chiedessi dove sono stata, magari. -
- Dove sei stata? - Dissi con tono ancor più distaccato, senza lasciarla finire di parlare. 
Non mi rispose per qualche secondo. In silenzio, ricambiava il mio sguardo. - Non vuoi saperlo davvero. -
- Hai indovinato. - 
Guardò di nuovo il pavimento. - Sei la prima persona che sono venuta a cercare appena ho potuto. Volevo solo che sapessi questo. Adesso vado, se non vuoi avermi qui. -
Iniziò ad allontanarsi verso la porta, portando con sé il borsone. Dentro di me, lottavo ferocemente per restare fermo al mio posto e non correre a fermarla. Il mio orgoglio e i miei sentimenti feriti me lo impedivano. Sentii dei passi nel corridoio. Istintivamente mi mossi verso Meg. Inconsciamente cercavo ancora di proteggerla dagli sguardi indiscreti e volgari dei miei coinquilini. Quando mi sentì vicino a lei, gettò il borsone in terra e si voltò abbracciandomi. Non riuscii a muovermi, le mie braccia restarono penzolanti lungo il mio corpo mentre lei mi stringeva e affondava il volto nella mia maglietta. 

- Ti sei perso? - Chiese Naki affacciandosi in cucina con Brendon in braccio. 
Accorgendosi che qualcuno mi stava abbracciando si scusò in fretta, imbarazzata e si nascose di nuovo nel corridoio.
- Naki! Sono io. - Disse Meg, lasciandomi per seguirla nel corridoio. 
- Oddio, Meg! Sei tornata! - Urlò abbracciandola saltellante. Brendon iniziò a ridere convinto che fosse un nuovo giochino per intrattenerlo. - Wewe ni hai! Mimi nimefurahi uko hapa! Sisi wote walikuwa na wasiwasi kuhusu wewe. Wewe kutufanya wasiwasi sana. - Continuò a urlare Naki, mentre Meg rideva e le chiedeva cosa stesse dicendo. - Sei viva, sono così contenta che tu sia qui! Eravamo tutti in ansia per te. Ci hai fatto preoccupare tanto. -
- Mi siete mancati tantissimo. -
Restai immobile a fissarle, mentre Brendon protendeva le braccia verso di me come a chiedermi di unirmi a loro. La porta della stanza accanto alla mia si aprì e il mio coinquilino si presentò nel corridoio con aria minacciosa. Stavano facendo troppo macello e lui aveva un esame da fare dopo qualche giorno. Non gli diedi il tempo di parlare che le bloccai dicendo che dovevano fare più piano e andare ad infilarsi in camera se dovevano parlare. Quando mi vide far questo si limitò a rientrare in camera, non senza sbattere la porta. Un altro "piano" si levò dalla camera accanto all'entrata. 

La conversazione tra Naki e Meg mi escluse del tutto e si prolungò fino all'arrivo di Daniele. Lì capii che avrei perso l'autobus per tornare a casa. Mandai un messaggio a Bepi chiedendogli di informare nostra madre che sarei tornato il mattino dopo, inventando la scusa di un improvviso sciopero dei mezzi urbani che mi impediva di arrivare in stazione. Appurai di aver fatto la scelta giusta quando, entrando in camera e vedendo Meg, Daniele ebbe una reazione simile a quella della sua compagna e sembrò anche lui dimenticare la mia esistenza. 
- Che hai con quel muso lungo? - Mi chiese Naki, volontariamente acida, seduta sul pavimento che avevo fortunatamente pulito. 
Non le risposi. Incrociai le braccia appoggiandomi al muro. Meg si alzò e rimase per un po' a fissare il pavimento, mentre Brendon cercava di arrampicarsi sui suoi jeans. Gli sorrise leggermente, forzandosi. Posò gli occhi nei miei. 
- Credo di doverti delle spiegazioni. - Si voltò verso Naki e Daniele che la guardavano seri. - Credo di dovere a tutti delle spiegazioni. - Tornò a guardarmi. - Come sta Ludovica? -
- Fortunatamente sta bene. - Le dissi, non scostandomi dalla mia freddezza.
Si afferrò i polsini verdi della maglietta che indossava e prese a tirarli sempre di più. Era tanto tempo che non le vedevo fare quel gesto, era tanto tempo che non la vedevo così nervosa e impaurita. Non volevo essere io la causa di quello, non volevo essere di nuovo io la causa di quello. Mi scostai dal muro e mi andai a sedere accanto a Naki. 
- Ti ascolto. - Cercai di usare un tono più dolce del precedente ma non so quanto mi riuscii. 

Mi guardò ancora per un attimo, poi si sedette ed iniziò a parlare. 
- Quando ho capito che volevate farmi ricoverare in psichiatria ho avuto paura. Mi sono sentita ferita e tradita. Mi sono sentita sola. Di nuovo. Sono andata via credendo di salvarmi. - Silenzio.
- Dove sei andata? Ti abbiamo cercato dovunque. - 
- Sono andata nell'unico posto in cui ero sicura che non mi avreste mai cercata. - Abbassò la testa. Prese a graffiarsi i polsi.
Quelle parole all'improvviso mi fecero raggelare. Una sensazione orribile mi scorreva nelle vene. Ricordai di aver pensato per un attimo a una cosa impensabile e di aver scartato l'ipotesi convinto che nulla l'avrebbe portata lì. Avevo paura di sentire che, invece, era proprio ciò che era successo.
- Sono andata da Jeff. - Ammise, mentre le unghie sprofondavano nella sua carne chiara tanto da renderla livida quasi istantaneamente. 
Il gelo calò di nuovo nella stanza. Naki si coprì la bocca con la mano e lo stupore si disegnò sul suo viso. Daniele rimase immobile, come anche io. L'unico a muoversi ancora per la stanza, emettendo strani versetti era Brendon. Dopo tutto era anche l'unico totalmente ignaro di cosa stesse succedendo. 
Mi alzai sulle ginocchia per avvicinarmi a Meg. Le bloccai le mani e le sollevai il viso. Piccole lacrime le avevano inondato le guance. Le baciai via, stringendola a me come avevo in realtà desiderato fare fin quando l'avevo vista sulla soglia di casa. La abbracciai forte immergendo il viso nei suoi ricci. Avevano ancora lo stesso profumo, quello che per me era diventato quasi una droga. La sentii aggrapparsi a me, affondare le dita nella mia schiena con la stessa voracità con cui prima si sfregiava i polsi. Dentro di me le emozioni si scatenarono. La rabbia sparì sotto la loro marcia prepotente.

La lasciai, ma mi sedetti accanto a lei tenendole le mani. 
- Continua. -
Mi guardò con uno sguardo in cui c'era ancora tutta la sua paura e l'imbarazzo del doverci dire una cosa simile.
- Sono andata da lui perchè in quel momento mi sembrava l'unica cosa giusta da fare. Casa sua era l'unico posto in cui non mi avreste mai cercata e lui era l'unico che avrebbe accettato di darmi una mano lasciandovi all'oscuro di tutto. Dopo tutto, in quasi due anni qualcosa di lui l'ho capita. - Fece un sorrisetto sarcastico. - Anche se la parte più importante credo che mi fosse ancora sfuggita. -
- Cosa è successo? Che ti ha fatto? - Dissi, afferrandole le braccia con un po' troppa foga. 
- Niente. - Sorrise dolcemente. - Mi ha fatto entrare e mi ha accolto in casa sua. Sua madre è stata contenta di rivedermi e quando ha sentito che cercavo un posto dove stare per un po' mi ha subito preparato il letto degli ospiti. -
La cosa mi infastidiva brutalmente ed ero ancora convinto che Jeff ne avesse combinata una delle sue. Ma al momento le lasciai libere le braccia e provai a far finta di essere rassicurato.
- Sono stata lì circa tre giorni. Ma non avevo valutato le conseguenze negative. -
- Quali conseguenze? - Chiesi, nuovamente allarmato. 
Di nuovo un sorriso sarcastico le comparve sulle labbra. - Non avevo pensato a come lui poteva interpretare il fatto che lo avessi scelto come rifugio. Si era convinto che volessi riprovare a stare con lui. - Distolse lo sguardo da me. - E non ti nascondo che per un momento ci ho pensato davvero. -
Non riuscivo a credere a ciò che stava dicendo! Diedi un pugno sul pavimento, immaginando che lì sotto ci fosse la faccia di quello stronzo. Dal forte rumore che causò, Brendon sobbalzò, voltandosi verso di noi con gli enormi occhioni verdi sbarrati. 
- Non l'ho fatto. - Si affrettò ad aggiungere Meg. - La mattina del terzo giorno, entrò nella mia stanza mentre ancora dormivo. Si è infilato nel mio letto e... -
Un altro pugno, sempre nello stesso punto, sulla sua mascella immaginaria, con più violenza di prima. Brendon iniziò a piagnucolare spaventato. Fu anche Meg a sobbalzare e chiuse gli occhi prima di continuare a parlare. 
- ...ha provato a... -
Ancora un pugno. Brendon ormai era in lacrime. Naki lo prese di corsa in braccio e lo portò fuori dalla stanza, anche lei visibilmente agitata. Daniele cercò di convincermi a stare calmo. Non gli risposi. Non ne ero più capace. In quel momento avrei picchiato anche lui se non fosse stato per quel minimo di autocontrollo che avevo imparato. Meg piangeva di nuovo.
- Ho cercato di oppormi. - 
Pugno, mio. Singhiozzo, suo. 'Calmati', di Daniele. 
- Ma non ci sono riuscita. -
Altro pugno. Altro singhiozzo. Altro 'calmati'.
- Mi ha... -
Pugno. Singhiozzo. 'Calmati'.
- ...violentato... -
Valanga di pugni. Pianto sfrenato. Niente più 'calmati'.
- ...di nuovo. -
Meg non riuscì più a parlare. Riusciva solo a piangere, tenendosi la faccia con le mani. Le spalle le sobbalzavano sotto il peso dei singhiozzi. Io mi ero ormai alzato e rivolgevo i pugni al muro. Me la presi con la torretta dei cd, scaraventandola a terra. Naki sulla soglia impietrita. Brendon urlava. Daniele cercava di fermarmi. Mi bloccò le braccia e per tutta risposta si beccò uno spintone che per poco non lo spedì a terra. Vedendo il suo viso sconcertato dalla mia reazione, il mio campanello d'allarme iniziò a suonare. Mi bloccai, respirando profondamente, ad occhi chiusi.

Mi ci volle un po' per riuscire a sbollire, ma ci riuscii. Reagire a quel modo in quel momento non era di aiuto, dopo tutto. Mi sedetti di nuovo, fissando il pavimento, incapace di alzare gli occhi sul viso di Meg. Naki era andata ad abbracciarla, dopo aver affidato il bambino in lacrime a Daniele. Entrambi avevano ormai smesso di piangere anche se il peso della situazione era ancora presente. 
Vedendomi così, seduto con le braccia penzolanti sulle gambe e il capo chino coperto dai capelli che ricadevano lateralmente, Meg lasciò l'abbraccio di Naki e mi venne vicina. Poggiò prima il palmo della mano sul mio braccio e, successivamente, si fece spazio per sedersi tra le mie gambe. Si accucciò tra le mie braccia, baciandomi le dita e stringendosi le mie braccia intorno al corpo come fossero una coperta calda in una serata fredda. Le baciai una guancia e lei, sorridendo dolcemente, mi accarezzò il viso. 

- Meg, tesoro. - Il silenzio fu interrotto da Daniele. La sua voce era estremamente calma e rassicurante. - Hai detto "di nuovo"? -
Meg mi guardò per un attimo negli occhi, poi fece un cenno di assenso col capo.
- Quando? - Chiese Naki.
- Spesso. - Si schiarì la voce. - Anche se non lo capivo. -
- Come hai fatto a non capirlo? - Daniele lo chiese d'istinto, senza stare a pensare se fosse giusto o meno.
Meg sorrise aspramente. - Lui è stato il primo ragazzo con cui sono stata. Intendo, fisicamente. Ed è stata anche la mia prima storia seria, se così la possiamo chiamare. Anche se non avevo avuto chissà che esperienze in precedenza. - Tossì di nuovo schiarendosi la voce. - Non ho neanche avuto un bell'esempio di rapporti tra uomini e donne, diciamo. Per me perciò era tutto nuovo, tutto da scoprire, tutto bello, tutto perfetto. Credevo che fosse una specie di principe azzurro. Certe volte non mi spiegavo alcuni suoi comportamenti o alcune sue richieste, ma credevo fosse normale tra un ragazzo e una ragazza. Cioè, nella mia concezione delle cose quello era l'unico modo in cui erano sempre andate e non essendoci un modo diverso non mi ponevo neppure il problema se fosse giusto o no. Era così e lo accettavo. Prima iniziarono i litigi, poi i comandi, poi le proibizioni. Infine arrivò a picchiarmi sempre più spesso. Imparò in fretta quali erano i punti dove poterlo fare senza che nessuno se ne accorgesse. In inverno lo faceva sulle braccia, sapeva che erano sempre coperte. E poi... - Si interruppe.
- E poi? - 
- Naki! - La rimproverai. Passai l'indice sotto il mento di Meg per farmi guardare negli occhi. - Non c'è bisogno che continui se non te la senti. -
- Voglio. Te lo giuro. - Mi baciò la punta del naso e si voltò di nuovo, riprendendo a parlare. - Poi iniziò a pretendere che facessi cose che non volevo. Mi diceva che se lo amavo dovevo farlo. E quando mi rifiutavo mi obbligava. Ad esempio, durante la pausa all'università, quando pranzavamo insieme. Io non volevo quasi mai, perché mi dispiaceva perdere lezioni o arrivare tardi. Quando glielo dicevo si trasformava in una specie di bestia, sembrava uno psicopatico. Faceva tutto ciò che voleva. Quando finiva spesso io restavo immobile in posizione fetale. Lui veniva accanto a me, mi baciava la fronte, mi accarezzava la schiena e mi diceva che era sicuro che mi sarebbe piaciuto. Ma anche questo per me rientrava nella normalità. - La sentii tremare. 
- Come mai, allora, hai capito che non andava, stavolta? -
- Semplice. - Si voltò verso di me. Il sorriso le illuminava il viso e gli occhi le scintillavano come non avevo mai visto prima. - Adesso so com'è. -
- Com'è cosa? - Naki aveva la stessa espressione di un bimbo curioso mentre il papà gli racconta una favola prima di andare a letto. 
Meg tornò a voltarsi. - Essere amata davvero. - Le gote le si erano colorite improvvisamente e la voce sembrava adesso quella di una bimba.
Naki sorrise e istintivamente guardò Daniele. - Capisco cosa vuoi dire. - Aggiunse.
Lui le si avvicinò per donarle un piccolo bacio a fior di labbra. Brendon, quasi avesse capito cosa succedeva, iniziò improvvisamente a ridere e abbracciò la pancia della mamma.

- Cos'hai fatto dopo? - Chiese Daniele.
Meg tornò seria. - Non potevo più stare lì, ovviamente. Fortunatamente non avevo detto a nessuno di aver quasi svuotato il mio conto e di avere tutto il contante con me, altrimenti sono sicura che mi avrebbe anche derubato. Aspettai che andasse via e rifeci in fretta quello che avevo disfatto delle valigie. Andai in macchina e partii. -
- Cazzo la macchina! - Pensai ad alta voce.
- Cosa la macchina? - Mi chiesero.
- L'unica cosa che non abbiamo fatto rintracciare! -
- Mi avete fatto cercare? - Chiese Meg, quasi la cosa la stupisse.
- Ci siamo mobilitati tutti, anche i tuoi zii. - Spiegò Naki. - Ma le autorità non volevano aiutarci perché eri andata via volontariamente e gli altri non erano riusciti a trovare niente. Probabilmente la macchina avrebbe potuto aiutarli. -
- Ma nessuno sa la sua targa a memoria. - Aggiunse Daniele, giustificando quella piccola mancanza.
- Questo è anche vero. - 
- Ma non vi sarebbe stata molto d'aiuto neanche quella. Dopo essere andata via da casa di Jeff, ho abbandonato la macchina in un posteggio a pagamento. Diedi al proprietario ben un mese di anticipo, non sapendo cosa avrei fatto. Restai un intero giorno in giro, pensando a cosa fare. Pensai alla mia vita, a tutto quello che avevo vissuto e tenuto nascosto dentro di me. Poi ebbi una sorta di illuminazione. Avevo bisogno di aiuto, avevo davvero bisogno dell'aiuto che avevate cercato di darmi. L'avevo finalmente capito. In un internet café feci ricerche sui centri adatti al recupero di persone che hanno subito violenze. Un viaggio in treno e circa tre viaggi in autobus dopo ero alla porta del centro che mi aveva ispirato più fiducia. Ho passato lì il tempo. Mi hanno dato vitto e alloggio, ma soprattutto mi hanno dato supporto psicologico. -

Eravamo tutti rasserenati dopo quella notizia. Noi la pensavamo dispersa per il mondo ad elemosinare affetto e aiuto, invece aveva finalmente preso in mano la sua vita ed aveva fatto la cosa più giusta che potesse fare. 
- Ed è stato tutto merito tuo! - Si voltò improvvisamente ad abbracciarmi. 
- Mio? Non ho fatto niente! -
- Oh, sì che l'hai fatto! -
Mi baciò. Era la prima volta che mi baciava davanti ad altri. Era la prima volta che mi baciava dopo tanto, troppo tempo. La strinsi forte mentre mi perdevo nella sua bocca e l'emozione di riaverla vicina scatenava in me la vecchia eccitazione. 
- Ehi! Calmini che c'è un minore presente. - Sentii Naki dirlo ridendo, ma non riuscii a staccarmi da quelle labbra che desideravo ancor più dell'aria. 
Dovetti farlo. Meg mi diede un lieve morso prima di staccarsi definitivamente. 
- Tu mi hai aperto gli occhi. Mi hai fatto capire come deve essere trattata una ragazza. Mi hai aiutato a capire cosa voglio. Voglio essere felice. Non voglio che il mio passato influenzi più il mio futuro. Voglio costruirlo come se il passato non esistesse. E poi, mi hai anche fatto conoscere Naki. - Si voltò verso di lei. - Tu sei stata un esempio per me. In quel momento in cui cercavo di capire cosa fare, mi sei venuta in mente tu. La tua vita era normale ed è stata distrutta dalle persone che amavi di più. Eppure hai avuto la forza di andare avanti e crearti il tuo futuro. Io non sono forte come te, ma potrei diventarlo. -
- Oh, Meg! Tu sei molto più forte di me, te lo assicuro. Ciò che è successo a me, non è niente in confronto a... - La frase le morì in gola. 
La commozione era stata troppa ed aveva ceduto alle lacrime, anche se non erano più di dolore. Erano di felicità per l'essere a conoscenza di aver aiutato, anche se inconsapevolmente, qualcuno ad uscire da una delle situazioni più brutte che ci siano, la violenza. Anch'io mi sentii emozionato al pensiero di aver contribuito a salvare Meg, come avevo sempre voluto. 
- Come mai sei tornata adesso? Hai finito la cura? - Chiese Daniele, abbracciando la compagna.
- In realtà non sono stata proprio in cura. Non ero un caso psichiatrico e non ho avuto bisogno di psicofarmaci. Ho fatto, però, un ciclo intensivo di sedute dallo psicologo. Mi hanno aiutato molto. Sono riuscita a rimettere insieme molti pezzi. Anche riuscire a parlare qui con voi di quello che è successo per me è un grande passo avanti. Lo psicologo, però, mi ha consigliato di tornare a casa e di continuare le sedute da qui. Stare vicino ai miei affetti e vivere in un'ambiente a me familiare può aiutare il recupero, dice. Dovrò andare da lui due volte a settimana per il momento. Appena me l'ha detto sono subito andata via. Ho ripreso l'auto e mi sono precipitata qua. - Si voltò verso di me. - Speravo di trovarti a casa. Volevo fossi il primo a saperlo. -
- In realtà mi hai trovato per poco. Stavo per tornare al paese. - 
Daniele si battè la mano in fronte. - Cavolo, dovevo accompagnarti in stazione. Scusa, preso dalla cosa me ne sono dimenticato. -
- Tranquillo. Ho già avvertito che torno domani mattina. -
- E tua madre? Mi dispiace farti avere problemi con lei. - Mi disse dispiaciuta, Meg. 
- Si sarà un po' arrabbiata. Ma le passerà. - La strinsi di nuovo forte. - L'importante è che abbiamo chiarito tutto e che sei di nuovo qui. -
La sua risata cristallina ritornò a solleticarmi le orecchie. La amavo, sì. La amavo sempre di più. 

- Ok. - Disse Naki alzandosi. - Credo sia ora di andare e lasciare la felice coppietta da sola. -
- Oh no, no, no! - Disse Meg, lasciandomi. - Passiamo la serata insieme, vi prego. - Guardò me. - Ti dispiace? -
- Ma certo che no. - L'avevo tra le mie braccia. Cosa poteva dispiacermi? 
- Chiamiamo anche gli altri? Vorrei tanto vedere Ludovica. Credo che, dopo te, sia quella con cui devo chiarire più cose. -
- Credo ci sia solo lei in città. Terry e Marco sono andati via. -
- Che peccato. - Sbuffò. - Va beh, chiameremo anche loro. Almeno gli daremo la bella notizia. Ludo porterà Jay, no? Stanno ancora insieme quei due, vero? -
- Sì, certo. A dire il vero ci siamo visti spesso anche con Diego e le ragazze. -
- Facciamo venire anche loro, allora! Ho voglia di stare insieme con più gente possibile. - Una bambina in pieno stato di esaltazione sarebbe stata più calma di lei.
- Il mio vicino di stanza dovrebbe studiare. Se porto in casa una turba inferocita mi ammazzerà. - Dissi passandomi le dita sulla nuca, un po' in imbarazzo per dover smontare i piani che Meg si era fatta.
Mi guardò triste, con gli occhioni da cane bastonato. Mi sentii terribilmente in colpa. Non so se era per l'emotività che la situazione aveva creato o solo perché ormai riusciva a farmi fare tutto ciò che voleva, ma sentivo di dover accontentarla in qualche modo. 
- Potremmo uscire. -
- Sì. - Disse esaltata.
- Andare a fare una passeggiatina tranquilla. -
- Sì, sì. - Si alzò in piedi.
- Magari andiamo in spiaggia. -
- Sì! - Stavolta saltò dalla contentezza. 
- Si potrebbe fare? - Chiesi a Naki che, sicuramente, conosceva la città più di me.
- Credo di sì. Possiamo prendere le pizze da asporto sul lungomare e mangiarle in spiaggia. - Si voltò verso Daniele. - Devo vedere se posso lasciare Brendon dai nonni, però. Per non fargli prendere troppo freddo. -
- Allora andiamo a casa e ci sentiamo per telefono. - Diede la soluzione Daniele.
Ci salutammo e li accompagnai alla porta. Tornato in camera, non riuscii più a frenarmi. Afferrai Meg e la baciai, riversando in quel bacio tutto ciò che non avevo potuto darle in quei mesi.

Il signor Giovanni mi fissava torvo dal grande divano di pelle in cui era sprofondato. Faceva finta di leggere il giornale aperto davanti a sé, ma i suoi occhi erano puntati al di là dei fogli di giornale, a squadrare me. Non gli ero mai stato estremamente simpatico e continuava ad avere un atteggiamento scostante nei miei confronti. Ma avevo capito ormai che era quello il suo carattere. Perfino con sua nipote riusciva poche volte a fare il nonno buono e dolce. Era un nonno alla Heidi, se così possiamo dire. L'amava più della sua stessa vita, ma aveva il suo modo di esprimerlo. Per questo ormai consideravo il suo atteggiamento nei miei confronti come un bene espresso a modo suo. 
Meg continuava a ridacchiare, stretta al mio braccio, guardando Daniele teso come una corda di violino, ritto davanti alla porta d'ingresso. Dopo tutto lui era passato da vicino di casa amichevole a fidanzato della sua nipotina, perciò era quello tra noi che era messo peggio col signor Giovanni. 
- Possiamo andare! - Esclamò Naki, ripresentandosi in soggiorno dalla stanza da letto.
Dietro di lei, la signora Angela teneva in braccio Brendon nella sua tuta blu e bianca intento a studiare una macchina con fare assorto. Naki elencò nuovamente tutto ciò che aveva lasciato per il bambino e diede istruzioni precise su cosa preparargli per cena e quando metterlo a letto. La signora la ascoltava annuendo sorridente, ma si capiva benissimo che lo faceva solo per rassicurarla. In fondo aveva già cresciuto figli e nipoti e di certo un angelo di bisnipote come Brendon non le avrebbe creato problemi. 

Uscimmo lasciando il bambino tranquillamente accoccolato nelle braccia della bisnonna. Naki, invece, non era estremamente tranquilla, ma era normale per lei. Ogni volta che lasciava Brendon si sentiva in colpa e voleva subito tornare da lui, ma poi la sua voglia di godersi ogni tanto la sua età vinceva e riusciva a passare una serata piacevole. Aveva indossato dei jeans abbastanza stretti e delle comode scarpe di stile sportivo, accompagnando il tutto con una maglia bianca, in netto contrasto con la sua pelle da venere nera, che le cadeva morbida sulle curve e le lasciava scoperta una spalla, rendendo tutto molto elegante e sensuale. Aveva legato i lunghi capelli neri in una coda laterale e aggiunto qualche gioco di luce con gli accessori. Una vera donna, giovane, piena di vita e sensualità. 
Meg, invece, non aveva portato niente con sé nelle valigie di ciò con cui era solita uscire la sera, ma io la adoravo anche con quei jeans leggermente larghi, la felpa con cappuccio azzurra che sembrava rubata dall'armadio di un fratello maggiore e i ricci liberi di svolazzare sospinti dal vento primaverile. 

Erano appena le nove ed avevamo appuntamento con Ludovica e Giacomo mezz'ora dopo al lungomare. Le avevo chiamato io inventando una scusa banale e chiedendole di invitare anche Diego e le due ingegnere (come le chiamavamo noi), lasciando la presenza di Meg come sorpresa, sperando che non la prendesse troppo male. Se avesse avuto una reazione come la mia, la cosa avrebbe rovinato la serata a tutti, ma speravo vivamente che la loro forte amicizia riuscisse a vincere la rabbia. Avevamo poi chiamato Marco che, sentendo la voce di Meg attraverso il telefono, era scoppiato immediatamente di felicità. L'urlo che fece quando la riconobbe fu talmente forte da farmi chiedere come il cellulare potesse essere sopravvissuto. Meg volle informare anche Umberto, Daniela e Andrea del suo ritorno. In nome dei tempi passati, mi disse. Ed anche perché pensava che così facendo potesse allontanare quell'aria di negatività che si era attirata addosso e che, a dire del suo psicologo, la bloccava ulteriormente. Non se la sentiva, però, di contattarli per telefono. Così si era messa al computer chiedendomi di telefonare a Terry mentre lei inviava le mail. Le dissi di sì, ma al momento di comporre il numero di bloccai. Ripensai a ciò che era successo solo poche ore prima. Non me la sentivo di chiamare Terry tutto contento del ritorno di Meg. Immaginavo che l'avrebbe ferita. Feci solo finta di chiamarla e dissi a Meg che il cellulare non le prendeva. Le avrei detto che Meg era tornata, ma in un altro momento e, soprattutto, nel modo che avrei trovato più consono e delicato. Meg sembrò dispiaciuta di non poterla contattare, ma accettò senza alcuna forma di dubbio la mia scusa. Quando tornò ad applicarsi alle mail prima di iniziare a prepararsi per la serata, mi chiesi se non fosse stato il caso di dirle cosa era successo in quel periodo tra me e Terry.

Per colpa del traffico avevamo dovuto posteggiare la macchina molto lontano dal luogo dell'appuntamento. Mentre Naki si lamentò un po' perché Daniele non aveva seguito il suo consiglio di provare a cercare posteggio in una piccola piazza che sembrava conoscere solo lei, Meg sembrò entusiasta di quella situazione. Probabilmente Ludovica sarebbe già stata lì ad aspettarci e lei avrebbe potuto saltarle addosso alle spalle facendole una mega sorpresa. Sperai di nuovo che la reazione di Ludo non fosse quella di scaraventarla in mezzo alla strada.
Arrivati a una ventina di metri di distanza dal luogo prefissato, Meg mi tirò per il braccio eccitata e indicò qualcosa. Riconobbi Ludovica, seduta sul muretto che divideva il marciapiede dai ciottoli della spiaggia. I lunghi capelli rossi erano legati in una coda alta anticipata da una piccola bombatura nella parte anteriore. Dal giubbino leggero di pelle nera si intravedeva svolazzare un vestitino con una fantasia vivace da cui sbucavano le sue lunghe gambe, che le calze rendevano lucide e ancor più affusolate, e che si tuffavano in delle ballerine nere. Jay, nel suo tipico abbigliamento semplice ma di classe, era di fronte a lei, con le mani poggiate sul muro. I loro profili si sfioravano e si sentiva lontano un miglio l'amore che si scambiavano i loro sguardi. Avvicinandoci vidi che Diego era poco lontano da loro, appoggiato alla sua moto. Il chiodo chiuso per metà amplificava l'effetto pompato della sua muscolatura e mi fece ricordare perché e quanto ero stato geloso di lui. Istintivamente, avvolsi il braccio intorno alla vita di Meg, attirandola a me. Si voltò a sorridermi e poi mi scostò il braccio.
- Andate lì. Fai voltare Ludovica. Non rovinatemi la sorpresa. - Mi sussurrò mordicchiandosi la lingua. 

Obbedimmo. Ci avvicinammo ai tre salutandoli come avremmo fatto normalmente. Ludovica saltò giù dal muretto e venne ad abbracciarci. Era nella posizione corretta perciò Meg iniziò ad avvicinarsi a passo veloce. Nessuno si accorse, però, che Diego stava guardando esattamente in quella direzione.
- Oh dei! Ma quella è Meg! - Urlò indicandola. 
Vidi Meg immobilizzarsi al centro del marciapiede, a pochi metri da noi. 
- Oh diavolo, hai ragione! - Aggiunse Jay, voltandosi. 
Entrambi corsero verso di lei. Naki e Daniele si avvicinarono sorridenti. Vidi Meg godersi i loro abbracci nervosamente. Non era solo dispiaciuta per non aver potuto completare la sorpresa. Ludovica era rimasta pietrificata a fissarla. Non si era mossa di un millimetro verso di lei.
- Ehi amore! Ma hai capito chi c'è? - Le chiese Jay a distanza. - Credo che ci sia rimasta secca. - Aggiunse ridendo, parlando a Meg.
Ludovica si voltò di nuovo. Le spalle verso Meg e il volto verso di me. Le labbra serrate, il viso severo, gli occhi già lucidi.
- Perché sei qui? - Mi chiese con un filo di voce.
- Che vuol dire? -
- Vuol dire che sei qui invece di essere lì ad abbracciarla. Sono io a doverti chiedere cosa significa. E può significare solo una cosa. Lo sapevi. -
Recepii la sua accusa. Annuii silenziosamente. 
- Quando? -
- Poche ore fa. - 
Iniziò a camminare. 
- Che fai? Dove stai andando? - Le chiesi. Non rispose.
Mi voltai un istante verso Meg. Le braccia le pendevano lungo i fianchi. Sentii che stava per crollare. Gli altri intorno a lei erano sconcertati. Tornai a guardare Ludovica che, nel frattempo, aveva accelerato il passo e stava ormai quasi correndo. La raggiunsi velocemente afferrandola per le spalle. 
- Che cavolo stai facendo Ludo? - 
Piangeva. - Non posso, Cris. Non posso! -
- Cosa non puoi? Non puoi andare ad abbracciare la tua migliore amica che è finalmente ritornata? -
- Non sono il padre del figliol prodigo, Cris. Non siamo dentro una parabola di misericordia. Non posso fare finta che non mi abbia ferito. -
La capivo perfettamente. Sorrisi e le asciugai le lacrime con le dita, poi la abbracciai. - Ho avuto la stessa reazione anch'io. L'avrei buttata fuori casa se non ci fosse stata Naki. Ma poi ho sentito cosa aveva da dire. -
- Non ha niente da dirmi. Non voglio sentirla! - Mi interruppe, scostandomi. 
- Invece dovresti. Ha sbagliato. Non doveva sparire così e ripresentarsi solo dopo due mesi. Ma saresti contenta di sapere a cosa è servito questo tempo. -
Mi guardò ancora in silenzio. Gli occhi erano arrossati ma non grondavano più lacrime. Si passò i palmi sulle guance, portando via la matita nera che le si era sbavata nel pianto. Estrasse un fazzolettino dalla tasca del giubbino e si tamponò gli angoli degli occhi e del naso. 
- Le darò una sola possibilità. - Annunciò.
Mi sciolsi in un sorriso. - E' la scelta giusta. -

Tornammo verso il gruppetto che nel frattempo si era nuovamente stretto intorno a Meg. Supposi che stesse piangendo, ma non mi sarei mai aspettato di trovarla in quel modo. Piangeva sì, ma inginocchiata sull'asfalto del marciapiede. Naki si era abbassata ad abbracciarla e cercava di consolarla, mentre i ragazzi le fissavano facendo scudo contro le altre persone che passeggiavano spensierate e attirate da quella strana situazione. Vedendoci arrivare si aprirono di nuovo e Naki sollevò il viso di Meg per far in modo che anche lei vedesse che Ludo le stava venendo incontro. La aiutò ad alzarsi e si spostò verso il fidanzato.
Senza proferire parola Ludovica le arrivò vicino, le prese la mano e la portò via. Jay si mosse per andarle dietro, ma lo fermai. 
- Lasciamole sole. Ne hanno bisogno. -
Le guardammo scavalcare il muretto e addentrarsi nel buio della spiaggia. 

Mentre aspettavamo che si prendessero il loro tempo, andammo ad ordinare le pizze da asporto. Fortunatamente faceva ancora un po' troppo freddo e la confusione era minima, perciò non aspettammo molto per avere i nostri cartoni bollenti. Ci facemmo consegnare anche un paio di birre, dividemmo il conto tra noi ragazzi ed uscimmo. Ci sistemammo su un muretto dal quale riuscivamo a intravedere le sagome delle ragazze.
Dopo qualche tempo, mentre le pizze si erano già raffreddate, Jay ricevette un messaggio da parte di Ludo. "Raggiungeteci. Stiamo morendo di fame." Un piccolo smile al termine di quelle parole ci fece rasserenare tutti. Le cose erano state chiarite. 

Le raggiungemmo velocemente. Le trovammo scalze, sedute al limite del bagnasciuga. Ridevano ma accanto a loro si poteva notare un'enorme pila di fazzoletti bagnati, che insieme al trucco ormai cancellato erano prova del fiume di lacrime che entrambe avevano versato. Nessuno, però, lo fece notare. Anzi, Naki si affrettò a far sparire tutto raccogliendo ogni prova all'interno della busta di plastica dopo averne tolto le bevande.
Ci radunammo in fretta in cerchio. Nessun fuoco ci illuminava, ma fortunatamente un po' della luce della città ci rischiarava. Ludo corse a baciare il fidanzato mentre Meg venne a sedersi tra le mie gambe. Mi sorrise e mi accarezzò il volto. Mi posò le labbra sulla punta del naso. Sentii un fremito scuotermi dall'interno. Le diedi un bacio delicato sulle labbra. Arrossì e sorrise ancor di più. 
Mentre mi voltavo a rispondere a Daniele che mi aveva chiamato per dividere le pizze, vidi Diego che mi guardava con uno sguardo amaro. Il suo telefono iniziò a squillare, ma non distolse lo sguardo dal mio.
- Oh Diego, rispondi che saranno Maria e Lucy che ci cercano! - Disse Jay dandogli una forte pacca sulla spalla. 
- Sì, sì. Ora rispondo. - Distolse lo sguardo e si dedicò al cellulare.
Lo fissai ancora un po', cercando di decifrare il suo sguardo. Eppure doveva averlo capito che Meg era mia, no?

- Piccola sei pronta? - Le chiesi bussando sulla porta del bagno in cui si era rintanata da mezz'ora. - Perderemo l'autobus. -
- Arrivo! - Mi rispose. 
Dopo qualche secondo aprì la porta, mostrandosi in tutto il suo splendore mattutino. 
- Buongiorno. - Mi sorrise in un modo che poteva illuminarmi per il resto della giornata e mi diede un piccolo bacio sulla punta del naso. Quel contatto così dolce, mi fece venire in mente milioni di flash della notte appena trascorsa. 

Tornando a casa, seduti sul sedile posteriore dell'auto di Daniele, mi aveva sussurrato all'orecchio che desiderava stare ancora insieme e così l'avevo invitata a restare. 
Fu la notte più felice della mia vita. Meg era finalmente tornata. Tornata da me. La mia mente non era più affollata da dubbi, ma solo di certezze. Piccole, è vero. Ma che per me erano un enorme sollievo dopo tutto ciò che avevamo passato. 
E poi avevamo fatto l'amore. Avevo rivisto la sua schiena perfetta, ne avevo di nuovo accarezzato la pelle delicata, avevo di nuovo sentito il suo respiro ansimante e le sue unghie graffiarmi. Nonostante non avessimo una spiaggia notturna, ma solo le lenzuola del mio lettino sconnesso, fu tutto ancor più perfetto della prima volta. Era stata mia. Di nuovo. Per la prima volta del tutto. 
E poi avevamo dormito abbracciati. Ancora nudi, stretti cuore a cuore, avvinghiati in un intreccio che non avrei mai voluto sciogliere. 
E poi si era svegliata, stropicciandosi gli occhi come una bambina e spargendosi per la faccia quel poco di trucco che le era rimasto su dalla sera. Si era infilata una delle mie magliette. Le arrivava a metà coscia e, pur non sottolineando le sue forme, la rendeva dannatamente sexy. Era andata in cucina a preparare la colazione. L'avevo seguita dopo aver indossato i boxer ed i pantaloni di una tuta. Ero rimasto sulla soglia a guardarla mentre preparava la moka da mettere sul fuoco. Aveva distrattamente racchiuso i suoi ricci in una crocchia trattenendoli con un solo elastico. Un piccolo ricciolo, più ribelle degli altri, le si era poggiato sulla tempia mentre concentratissima versava il latte in due bicchieri. Lo scostò con un gesto veloce, portandolo dietro l'orecchio, e iniziò con minuzioso interesse a spalmare di marmellata una fetta biscottata. Iniziai a fantasticare su come sarebbe stato vedere quella scena tutte le mattine. Andò alla dispensa e si alzò sulle punte frugando su un ripiano un po' più alto. Non resistetti più. Andai a stringerla tra le braccia, affondando le labbra sul suo collo morbido. Ci volle poco per far riscattare la scintilla della passione ed eravamo finiti a far di nuovo l'amore. Lì, sul ripiano della cucina, approfittando della casa svuotata dei coinquilini. 

Il caffè si era bruciato ed avevamo fatto assurdamente tardi, ma ne era valsa la pena. Mi ero un po' innervosito nel dover aspettare che si preparasse chiusa in bagno, ma rivedere quel sorriso mi aveva fatto dimenticare tutto. 
- Dobbiamo muoverci! - La incitai, senza riuscire però ad essere troppo convincente. Infatti, continuavo a tenerla serrata nel mio abbraccio.
- Se mi lasci andare, magari riesco a finire di prepararmi. - Rise. Sciolsi l'abbraccio. - E tu dovresti vestirti. - 
- Sai, qualcuno ha tenuto occupato il bagno impedendomi di lavarmi! -
Mi fece una linguaccia ed io mi richiusi la porta alle spalle. Mi lavai il più in fretta possibile cercando di accorciare il ritardo che ci aveva causato farci prendere dall'amore mattutino. Tornai in camera e mi vestii altrettanto di fretta, gettando al volo le ultime cose nella valigia. Uscimmo di casa dieci minuti dopo rispetto al previsto ed io iniziai a prepararmi mentalmente a perdere l'autobus per tornare al mio paese. Meg ci fece perdere altro tempo passando in macchina a prendere la sua valigia. Mi innervosii di nuovo, ma nuovamente le bastò solo un sorriso per farsi perdonare. 
- Vedrai che siamo in tempo. Qui gli urbani ritardano sempre. - Mi disse, regalandomi una nuova linguaccia ed iniziando a precedermi tirando distrattamente il suo trolley.
La fissai ondeggiare per la strada con quella valigia che saltellava ad ogni passo. "Sei fottuto, amico" mi gridò la vocina della mia coscienza. "Sono solo innamorato. Per la prima volta." le risposi. 

Si fermò dopo qualche passo. Credetti che lo avesse fatto per aspettarmi, invece quando le arrivai vicino notai che tremava. Aveva sbarrato gli occhi, era diventata improvvisamente pallida. La cosa mi allarmò. 
- Meg! Meg, cos'hai? Ti senti male? - Le chiesi afferrandole il viso.
Emise un sussurro che non riuscii a comprendere. 
- Cosa? Meg, cosa è successo? -
- Jeff. - Ripeté più forte. Indicò il marciapiede di fronte a noi. 
Mi voltai a guardare, atterrito da quella sua reazione. Il marciapiede era vuoto. Tornai a guardarla. 
- Meg, non c'è. - Mi accorsi che non mi stava guardando. I suoi occhi erano persi nel vuoto dall'altra parte della strada. - Meg, Meg! - La chiamai più forte, scuotendola, finché non ottenni la sua attenzione. - Meg. Sta tranquilla. Non c'è. - 
Mi guardò per qualche secondo ancora irrigidita, poi si sciolse. Sembrò quasi che le gambe le cedessero sotto un improvviso peso. Si accasciò tra le mie braccia. 
- L'ho visto, Cris. Te lo giuro. - La voce le tremava. 
Le accarezzai i capelli, baciandole la fronte. - Ti credo, Meg. Ma non c'è più. Sarà passato per caso. -
- No, no, no! - Si rialzò e mi fissò. - Non è stato un caso. Non ho voluto dirti niente ieri, per non rovinarti la serata. Ma l'abbiamo incrociato. Ci ha seguiti per tutta la sera. Credo che ci abbia seguiti anche a casa. -
- Cosa? - Le chiesi afferrandola di nuovo per le braccia.
- Scusa. Non volevo nascondertelo. -
La lasciai. Mi passai la mano dietro la nuca. Meg abbassò lo sguardo. Tremava ancora. L'abbracciai di nuovo.
- Non può farti nulla. - La baciai teneramente. Le rimisi in mano la maniglia del trolley, afferrai di nuovo la mia valigia e le presi la mano. - Ci sono io con te. Vuoi ancora passare questo week-end insieme? -
Sorrise rasserenata. - Andiamo. -

Eravamo sull'autobus per tornare a casa. Insieme. L'idea era uscita per scherzo nelle tante chiacchiere che eravamo riusciti a fare nell'oretta che era passata da quando avevamo finito di fare l'amore a quando, sfiniti, avevamo ceduto al sonno. Ma al risveglio l'avevamo ridetto ed avevamo portato a termine l'opera.
Durante il tragitto, avevamo rischiato un brutto incidente. Un demente sulla strada a scorrimento veloce aveva rischiato di farsi tamponare o di farci uscire fuori carreggiata, sorpassando l'autobus e frenando repentinamente. Per fortuna l'autista era uno di quelli svegli e capaci del proprio mestiere. Complice anche un pizzico di fortuna, eravamo riusciti ad evitare quella che sarebbe potuta facilmente diventare una tragedia. La buona sorte aveva anche voluto che Meg dormisse, cercando di recuperare il sonno perso, non accorgendosi di nulla. 
La svegliai appena arrivati in stazione. Scendemmo dall'autobus e recuperammo le nostre valigie dal vano inferiore. Mentre Meg frugava per trovare il piccolo borsone blu, io frugavo con lo sguardo le auto posteggiate cercando quella di mio padre. Improvvisamente raggelai. Vidi Jeff, in jeans e camicia bianca, scendere da un auto blu, uguale a quella che aveva rischiato di farci ammazzare tutti. Scossi la testa tenendo gli occhi chiusi. Volevo fosse solo frutto della mia immaginazione. Quando riaprii gli occhi, Jeff non c'era più, ma l'auto blu era esattamente dove l'avevo lasciata. Intravidi poco lontano un uomo in jeans e camicia bianca che andava incontro a una ragazza scesa dal nostro stesso autobus. Un padre che veniva a prendere la figlia alla stazione e che casualmente aveva un auto simile a quella che avevamo incrociato in super strada. Tutto risolto. Tirai un sospiro di sollievo, presi Meg, che ringraziando il cielo non si era nuovamente accorta di nulla, per mano e ci avviamo verso il negozio di Daril.

- Ma chi abbiamo qui? Bambola! - Daril, senza calcolarmi, andò su di giri per Meg e corse ad abbracciarla.
- Sono felice di rivederti. - Gli rispose mentre la sollevava da terra stretta tra le braccia. Io osservavo la scena poggiato allo stupite della porta d'ingresso col sopracciglio alzato.
- Come stai bambola? - La poggiò nuovamente a terra.
- Bene, bene. - Si voltò sorridendo verso di me. 
- Oh, ciao fratello. - Fece finta di avermi notato solo in quel momento e venne a salutarmi. 
- Sì, sì, ciao. - Feci l'offeso. - Mi sa che dovrò spezzarti le gambine se continui così. - 
Abbracciai Meg che sembrava divertita dalla mia, palesemente finta, gelosia. Dopo aver scambiato due chiacchiere, chiese di poter usare il bagno. Sapete come sono le donne! Specialmente se viaggiano per lungo tempo! Così io e Daril restammo da soli.
- Non era sparita? -
- Infatti è tornata ieri. Ha passato un mese in una clinica di supporto psicologico. - Cercai di non farmi sentire dal bagno lì vicino. - Ora sta molto meglio, anche se deve continuare ovviamente. -
Mi posò una mano sulla spalla, sorridendomi fraternamente. - E così le cose si stanno sistemando, eh! Sono contento. Ma tra voi due? Come si metteranno le cose adesso? -
- Non lo so, Daril. Non c'ho pensato ancora. Sono stato troppo contento del suo ritorno per pensarci. Ma penso che le cose si stiano mettendo bene. - Sorrisi anch'io.
- E con l'altra tizia come la metterai? -
Il pensiero di Terry mi fulminò. Mi sentii improvvisamente e nuovamente una merda. - Ancora non lo sa. Le parlerò al più presto. - Mentalmente cercai di individuare un momento del giorno in cui poterlo fare. 
In quel momento Meg uscì dal bagno e cambiammo argomento.
- Stasera dobbiamo organizzare un altro pigiama party? - Chiese Daril ridendo.
- Per me va bene. - Disse Meg.
- No. - Affermai sicuro, stringendola al mio fianco e guardandola negli occhi. - Parlerò con mia madre. Resterai a dormire da me. - Meg arrossì e sorrise. Avevo paura che la prendesse male invece sembrava averle fatto piacere. - Ovviamente, però, organizziamo per uscire. -

Restammo lì per pochi minuti ancora e poi tornammo in piazza. Mio padre ancora non si vedeva. Chiamai Bepi. Mi disse che lo aveva visto uscire la mattina ma non sapeva null'altro. Mia madre si limitò a consigliare di prendere l'autobus. La cosa non mi era nuova anche se mi amareggiò ugualmente. Ci recammo alla fermata e andammo a casa trascinando le nsotre valigie.

Durante il tragitto in autobus mi feci coraggio e le chiesi se, pur non avendo definito la nostra situazione, potevo presentarla a mia madre come la mia ragazza. Se mi fossi limitato a dire che era un'amica mia madre avrebbe fatto di tutto per sapere se stavamo effettivamente insieme, rischiando anche di essere troppo invadente nelle sue domande. Sapere che stavamo insieme, invece, avrebbe limitato il tutto. Credevo che appena l'avesse vista avrebbe impostato la difensiva e mi avrebbe trascinato in disparte per disprezzarla, insistendo su quanto Miriam fosse migliore di lei. Al sentire il mio discorso Meg rise e mi baciò teneramente.
- Ma io sono la tua ragazza. - Mi disse.
E lì mi sciolsi.

La mia famiglia prese la sua presenza in modo ottimo. La mia famiglia che poi si riduceva a mia madre. Bepi già la conosceva e fu molto contento di sapere del suo ritorno e che tra noi le cose si fossero finalmente sistemate. Mio padre, invece, non si fece vivo. 
Dopo aver pranzato insieme a noi, Bepi e Diana uscirono per la loro classica passeggiata del sabato pomeriggio. Meg riposava nel mio letto. Io avevo due cose importanti da fare e dovevo approfittarne. Per prima cosa uscii in balcone e chiamai Terry. 

- Ciao Cris. Come stai? -
- Ciao Terry. Devo dirti una cosa. - Dissi serio. Fin troppo.
- Ehi, che è successo? - La sua voce era preoccupata.
- Non allarmarti. Non è una cosa brutta, anzi. Ma voglio che tu la sappia da me. -
- Cris non puoi parlarmi con questo tono e pretendere che io stia tranquilla. - 
- Davvero, Terry. - Risi, cercando di sciogliermi un po'. - Si tratta di Meg. -
- Avete avuto notizie? - 
- Ieri è tornata. - 
Silenzio all'altro capo del telefono. Imbarazzo dal mio.
- Come sta? -
- Bene. Molto meglio. - Le raccontai brevemente ciò che mi aveva detto Meg. 
- Sono contenta che sia tornata. - 
- Dalla voce non si direbbe. -
- Te lo giuro Cris. Sono contenta. Le voglio bene, sul serio. Solo che... -
- Lo capisco Terry. -
- Non sarebbe andata comunque, ma finché lei non c'era io potevo sperarci. - Sembrava avesse iniziato a piangere.
- Terry sono stato io lo stupido. Ti ho illuso e ho preso in giro me stesso. Sapevo che non ero pronto ad affrontare una relazione. E neanche qualcosa che sarebbe potuto diventarlo. Eppure l'ho fatto lo stesso. E ti ho ferita. Mi odio per questo. -
Ancora silenzio. 
- Fa niente. - Disse improvvisamente con un tono più allegro. - Anche io c'ho messo del mio a far finta che non lo avessi capito. La colpa è di entrambi. Che è come dire che non è di nessuno. Perciò non piangiamoci addosso e andiamo avanti. -
- Credo che sia l'unica cosa da poter fare. Spero che non comprometta il nostro futuro. -
- Mi sono innamorata di te e sono stata al tuo fianco lo stesso come amica. Posso farlo anche mentre mi disinnamoro. -
Lo disse ridendo, ma sentire che era innamorata di me fu come un piccolo coltello rigirato nella mia piaga. - Già. - Mi limitai a dire.
- Ehi, che fai? Ora ti deprimi? Su con la vita. Devi goderti Meg e sostenerla. Ha bisogno di te. Io troverò qualcuno che ha bisogno di me. - La sentii sorridere. - Vorrei chiederti solo una cosa. - Ritornò seria. 
- Cosa? -
- Non dirle niente. Per favore. - 
- Perché? -
- Voglio dirglielo io. Non voglio passare per la finta amica che ti ruba il ragazzo appena vai via un attimo. E' una cosa da donne. -
- Ok, allora. -
- Siamo d'accordo. -
Ancora un attimo di silenzio. 
- Scusami ora, ma dovrei andare a sbrigare delle faccende. -
- Sì, certo. Ci vediamo lunedì. -
- Ciao Cris. - 

Rientrai in casa e andai a posare il telefono sulla scrivania della mia camera. Vidi Meg raggomitolata sulle mie coperte dormire con un'aria dolcissima che mi fece tornare in mente di nuovo la notte trascorsa insieme. La voglia di averla si accese di nuovo. Ma non la disturbai. Non era il luogo. Non era il momento. Dovevo sistemare un'altra questione prima che si svegliasse. Un faccia a faccia con mia madre.

Arrivato in cucina la trovai, come sempre faceva il sabato pomeriggio, quando non si incontrava con il dottor Giannusi, che stirava la mia roba, almeno quella che già era riuscita a lavare. Le vidi ancora addosso quell'aura strana che avevo notato fin da quando avevo varcato la soglia di casa. Qualcosa sembrava renderla pensierosa, ma non era il solito malumore che nasceva in lei dopo qualche comportamento strano di mio padre o l'imbarazzo nello scoprire qualcosa che potesse ricordare la sua relazione adulterina. Non riuscivo a capire neppure se fossero pensieri negativi o positivi. Era voltata verso la porta che dava sul terrazzo. L'aveva lasciata leggermente aperta per far entrare la leggera brezza e provare un po' di refrigerio dalla caloria del vapore che fuoriusciva dal ferro. Le andai dietro silenziosamente e l'abbracciai. Spaventata, lasciò il ferro rischiando di scottarsi. 
- Oddio Cris! Sei scemo? Potevamo bruciarci tutti e due. -
Non la ascoltai e le diedi un bacio sulla guancia. A che io mi ricordi fu il primo bacio spontaneo che le davo da quando avevo lasciato l'età dell'infanzia. Le fece subito dimenticare il piccolo inconveniente e le illuminò il viso di una felicità che avevo dimenticato potesse appartenerle. Le sorrisi e mi allontanai, andandomi a sedere sul divano, da cui avremmo potuto parlare tranquillamente. Lei riprese in mano il ferro, controllando di non aver bruciato nulla. 
- Carina la tua ragazza. Si vede che state bene insieme. - Disse ancora sorridente. 
- Diciamo che adesso che abbiamo superato la fase di assestamento siamo più sereni. - Lei non sapeva nulla di ciò che era successo e non volevo parlargliene in quel momento. Avevo altro di cui volevo parlare.
- Sembra davvero dolcissima. Da quanto vi conoscete? -
- Ci siamo conosciuti ad inizio anno accademico. - 
- Ecco allora perchè hai lasciato Miriam! -
- No, mamma. - Immaginavo che sarebbe andata a parare lì. - Io e Miriam c'eravamo già lasciati quando ho conosciuto Meg. -
- E perchè non me ne hai mai parlato? -
- Perché è stata una cosa complicata. Ne possiamo parlare in un altro momento? -
- Perché? Non ti va di parlarne? O ti vergogni che possa sentirci? -
- Nè l'uno nè l'altro. Ma è una storia lunga e io ho delle cose da chiederti. - 
- Che cosa? - Disse iniziando a stirare una mia camicia sportiva.
- Cosa è successo con papà? -
Speravo che chiederglielo mi rasserenasse, che trovasse il modo per cancellare la spiegazione che mi ero dato a quella sua stranezza. Invece il ferro le cadde dalle mani. Toccando la stoffa emise un rumore preoccupante, una sorta di sbuffo di vapore. Saltai su dal divano e lo afferrai, salvando la camicia per il rotto della cuffia. Mia madre, immobile, si fissava le mani poggiate sull'asse da stiro.
- Allora ho ragione. E' successo davvero qualcosa. -
- Come hai fatto a capirlo? -
- Non è importante. Ma devi dirmi cosa è successo. -
Si allontanò, andando a sprofondarsi sul divano. Si portò le gambe al petto. Mi ricordò tremendamente il momento in cui avevo scoperto del suo amante e la cosa mi spaventò. Rimasi in silenzio e mi sedetti all'altro angolo. 
- Ha detto che ha intenzione di partire. -
- Per andare dove? - 
- In Francia. Ha ritrovato una sua vecchia fiamma che ora vive lì, tramite Facebook. Hanno ricominciato a sentirsi e adesso vogliono andare a convivere. -
Il sangue mi si gelò nelle vene. Lo maledissi in silenzio molte volte. Poi ricordai che anche mia madre l'aveva tradito. E lei l'aveva fatto dal vivo, senza un'intera rete di server e router in mezzo. Perché riuscivo a giustificare lei e non lui? Perché mia madre mi sembrava una vittima della situazione, quasi costretta a gettarsi tra le braccia di un altro, e mio padre mi sembrava un orribile carnefice? Forse perché mia madre a fare la brava moglie con mio padre ci aveva sempre provato ed anche quando già aveva iniziato la storia col dottore aveva sempre tentato di non fargli mancare nulla. Mio padre, invece, si era dimenticato in fretta come si provava ad essere bravi mariti. Da quando si era scoperta la malattia di Bepi, aveva abbandonato noi, ma principalmente aveva abbandonato mia madre. Ed essere abbandonati pur vivendo sotto lo stesso tetto fa anche più male. Pensando a questo, che se ne andasse riusciva a sembrarmi quasi una cosa positiva. 
- Quando? -
- Ha un aereo prenotato per Martedì. -
- No, quando te l'ha detto? -
- Stamattina. Mentre si vestiva, prima di uscire. -
- Bepi non lo sa, vero? -
Iniziò a piangere. - Non ho il coraggio di dirglielo. Ho paura che possa farlo stare troppo male. -
La guardai con un sorriso che aveva l'intenzione di rassicurarla. - Mamma, ha superato anche di peggio. -
Ottenni l'effetto contrario. Scoppiò in un pianto ancora più forte, gettandosi su di me, nascondendo il viso sulle mie ginocchia. Le carezzai la schiena e mi ritrovai a canticchiare una canzone sottovoce. 
Era la ninna nanna che lei mi cantava da piccolo, quando tornavo a casa piangendo perchè qualche bulletto mi aveva preso in giro per il mio sovrappeso evidente. Mi rinchiudevo in camera e lei arrivava, si sdraiava accanto a me e iniziava a canticchiarla finché non smettevo di piangere o mi addormentavo. Poi i tempi erano cambiati. Mi ero iscritto in palestra, avevo perso peso, sviluppato i muscoli e dovuto prendere il ruolo di fratello maggiore. E le spacconate dei bulli le risolvevo in un altro modo.
Mia madre, pian piano, smise di piangere. Si alzò asciugandosi il viso e silenziosamente riprese a stirare. 

- Il Dottor Giannusi lo sa? - Sperai che questa domanda non la facesse piangere.
- Sì. Non ti dico che ne era contento, ma quasi. -
- La cosa ha dei lati positivi per voi, no? -
- E' strano sai? Fino a ieri credevo che se ci fossimo lasciati per una decisione di tuo padre sarei stata felice. La colpa non sarebbe ricaduta su di me e tutti ne avremmo tratto dei vantaggi. Tu e tuo fratello prima di tutto. Eppure adesso non mi sembra una così buona idea. Ho paura e non so perché. - Parlava in modo calmo e pacato, senza accennare nessun nuovo cedimento alle lacrime. Sembrava stesse parlando del tempo.
- Le cose nuove spaventano sempre, no? -
- Già. - Piegò le maniche della camicia.
- Ed io credo che tu abbia ragione. -
- Per cosa? -
- Quando lui se ne andrà staremo tutti meglio. Dovrà mandarti il mantenimento e i soldi sono l'unica cosa che dava a questa famiglia da un bel po' di tempo. -
- Quando li dava! - Disse lei iniziando a ridacchiare.
- Già, perché era pure tirchio! - Risi pure io. 
Mi avvicinai a baciarle una tempia. Mi sorrise, serena. - Vai dalla tua ragazza, prima che si svegli. - 
- Sì, mamma. - La baciai di nuovo. 
- E vedi che voglio sapere tutto appena è possibile. - Disse mentre mi allontanavo dalla cucina. 

Aprii la porta della stanza e mi soffermai a guardare il profilo di Meg. Perfetto, come sempre. Avrei voluto raggiungerla, ma qualcuno iniziò a bussare alla porta d'ingresso in modo troppo insistente per essere ignorato.

Aprii la porta di casa già spazientito. Avevo fatto una veloce carrellata di chi poteva essere il maleducato che bussava in quel modo, rischiando quasi di buttar giù la porta, ma ciò che vi trovai al di là mi sorprese. Era fermo davanti alla porta, col braccio ancora alzato per bussare l'ennesima volta. Al vedermi sorrise obliquamente. Fu un sorriso carico di odio e sadica felicità. Mi riportò indietro di un paio d'anni, all'ultima volta che ci eravamo incontrati.
- Signor Liotta, buongiorno. Che piacere trovarla in casa. -
- Il piacere è tutto suo, Capitano. - Accennai un saluto, imitandone distrattamente uno militare.
- Saranno almeno tre anni che non ci vediamo e mi saluti così? Eravamo abituati a vederci spesso. Non ti sono mancato? -
- Sono felice di aver lasciato la vita di prima. Mi dispiace che a lei sia dispiaciuto. - 
Allungai il collo per vedere chi ci fosse alle sue spalle. Due agenti erano ben visibili. A qualche passo di distanza un altro agente era in piedi accanto ad un ragazzo seduto di spalle. 
- Ancora non mi ha detto chi cerca. - Tornai a fissarlo negli occhi. 
Rise. Sguaiatamente. Sembrava quasi che la domanda gli facesse particolarmente piacere, che la aspettasse. 
- Te, coglione! - Disse sottovoce.
Si spostò rapidamente. Due agenti che non avevo visto, sbucarono dai lati della porta d'ingresso e mi furono addosso prima che me ne rendessi conto. Mi gettarono a terra, mi rivoltarono e mi ammanettarono con le mani dietro la schiena. Non ebbi neanche il tempo di gridare. Quando tentai di farlo uno dei due si premurò immediatamente di premermi un pezzo di stoffa sulle labbra soffocando la mia voce, mentre l'altro si occupava del mio stomaco con quattro calci ben assestati. Il dolore mi tolse il fiato e la voglia di gridare. Mi sollevarono da terra strattonandomi, riportandomi davanti al Capitano che mi guardava. Si vedeva lontano un miglio che stava godendo come un maiale in accoppiamento. Mi prese per la maglia attirandomi verso di lui.
- Puoi aver cambiato vita, ma sei sempre il solito coglione. E stavolta ti faccio marcire in galera. -
Mi spinse fuori, mentre i due agenti che mi avevano atterrato iniziavano rumorosamente a frugare casa, accompagnati dai due che erano rimasti alle spalle del Capitano. 

- Che succede Cris? Chi era? - 
Mia madre arrivò dalla cucina ancora con in mano una piccola colonna di vestiti appena stirati. Vedendo il corridoio pieno di agenti che aprivano a spallate le porte per poi precipitarsi dentro le stanze a cercare chissà cosa, le venne un colpo. Lasciò cadere i vestiti in terra, distruggendo tutto il lavoro fatto. Mi corse incontro, ma il Capitano le impedì di avvicinarsi. 
- Vita santa, che diavolo succede? - Esclamò fissandolo impaurita.
- Abbiamo il sospetto che Cristiano ne abbia combinata un'altra. E' arrivata una soffiata anonima, ma purtroppo con i suoi precedenti dobbiamo eseguire dei controlli immediatamente. -
- Che cosa avrebbe fatto, sentiamo! Mio figlio è tornato oggi a casa. Non avrebbe avuto il tempo materiale di far nulla. -
- Capitano, l'abbiamo trovata! - La voce di uno degli agenti interruppe l'inutile arringa difensiva di mia madre. 
L'agente era sulla porta di camera mia e teneva Meg per il braccio. L'avevano svegliata e trascinata via dal letto degli agenti che erano tutt'altro che umani e delicati: era talmente impaurita che respirava affannosamente e piangeva senza emettere un singolo rumore. 
Il Capitano si voltò a regalarmi un altro sorriso di goduria. - Signor Cristiano Liotta, lei è in arresto per il rapimento e il sequestro della qui presente signorina. - 
- Cosa? Ma siete pazzi? - Gridai non reggendo più la situazione.
Il Capitano richiamò due agenti che vennero a tenermi fermo. - Portatelo in caserma. Se oppone resistenza, sedatelo. - Alzò il sopracciglio e capii chiaramente che quel sedativo sarebbe stato a base di pugni e calci e sarebbe arrivato anche se mi fossi dimostrato mite come una pecora. 
Mi lasciai trascinare verso la macchina mentre sentivo le urla di mia madre che si ribellava e il Capitano che, con voce pietosa, le diceva che gli dispiaceva ma vi era costretto. Passando accanto all'agente in piedi, diedi un'occhiata sfuggente al ragazzo seduto. Il fatto che fosse Jeff col viso cosparso di finte lacrime non mi sorprese affatto.

Stanza semi vuota, dalle pareti grigie, arredamento ridotto a un grande tavolo bianco e una sedia di metallo. Non era cambiato nulla dall'ultima volta che mi ci avevano tenuto dentro. Forse solo io. Il Capitano da più di due ore mi teneva seduto, ancora in manette, parlando di tutto meno che di Meg. Mi aveva solo detto che il "suo ragazzo", che altri non era se non quel bastardo bugiardo di Jeff, la cercava da più di un mese e l'aveva vista con me alla stazione, da ciò aveva dedotto che ero stato io a "rapirla" e che quello in stazione era un semplice spostamento per non fare individuare il luogo del sequestro. In pratica, quelle che lui chiamava prove, non erano altro che congetture facilmente smontabili. Ma il Capitano non era cambiato di una virgola e il suo desiderio di vedermi tra le sbarre era solo aumentato. Lo dimostrava il fatto che non aveva fatto altro che parlare del passato, di tutto quello che avevo combinato prima di cambiare vita. Delle zuffe nei bar, dei piccoli furti di alcolici nei supermercati. E poi di Giacomino, ovviamente.
Il suo unico nipote. Il mio migliore amico del tempo, il mio compagno di cazzate. E di cazzate, giuro, che ne abbiamo fatte parecchie. Fin quando non arrivò quel fatidico giorno che lo lasciò morto tra le mie braccia per salvarmi la pelle. Un coglione a cui avevo scopato la ragazza era venuto a cercarmi con coltello in mano. Non credo che volesse davvero uccidermi, probabilmente si sarebbe accontentato di sfregiarmi il volto. Ma Giacomo aveva bevuto troppo per rendersene conto, l'aveva aggredito e quel coltello se l'era beccato in piena giugulare. I soccorsi non ebbero neppure il tempo di arrivare. Mi segnò dentro. Decisi di smetterla con l'aggressività. Ci diedi un taglio sul serio. Ma per il Capitano io ero e rimanevo l'unica causa della morte di Giacomo.

Qualcuno venne a bussare alla porta. Un agente lo chiamò fuori dalla stanza per qualche istante e lasciò la porta semi aperta. Intravidi in corridoio mio padre, paonazzo in viso, visibilmente imbarazzato ed arrabbiato. Più la prima che la seconda. 
- Signorina si fermi, non può entrare lì! - Sentii urlare. 
Pochi istanti dopo Meg si era precipitata dentro la stanza venendomi ad abbracciare in lacrime. 
- Meg, che ci fai qui? -
- Non voglio che ti portino via! Non hai fatto niente. Ho provato a dirgli che è tutta un'invenzione di Jeff, te lo giuro. - Continuava a singhiozzare.
Un agente venne a staccarmela di dosso. - Sindrome di Ginerva, signorina. Sindrome di Ginevra! - Continuava a ripetere.
- E' Stoccolma! - Gli urlai, estremamente irritato dal modo in cui la trattava. - Idiota. - Sibilai infine.

Altre tre ore passarono prima che qualcuno si degnasse di rientrare nella stanza. La sera fuori doveva già essere calata ed il mio stomaco brontolava per la fame e si contorceva per il nervosismo. Alla porta della monotona stanza che rischiava di farmi impazzire, si presentò un uomo in giacca e cravatta. Dietro di lui arrivò il volto di mio padre, sempre colorato dalla vergogna. L'uomo mi disse di alzarmi e chiamò dentro un agente per liberarmi dalle manette. Mentre lo facevano lo guardai a lungo finché non lo riconobbi. Era uno degli avvocati che curavano l'impresa di mio padre e che spesso era venuto a tirarmi fuori dai guai. Era la prima volta che me lo meritavo davvero, ma il suo atteggiamento come pure quello di mio padre non cambiò di una virgola. Uscendo dalla stanza, con i polsi finalmente liberi, mi ritrovai ancora una volta il Capitano. Non sorrideva, però.
- E così l'hai scampata ancora una volta, vero? - Mi disse in tono amaro.
- Capitano, si ricordi cosa rischia. - Fece l'avvocato.
Il Capitano si zittì e abbassò lo sguardo.
- Capitano. - Lo chiamai io utilizzando un tono docile che non avevo mai usato con lui. - Sono innocente davvero. La ragazza le ha raccontato tutto, lo so. -
- Cristiano stai zitto. - Mi interruppe mio padre, stizzito. 
- Io amo quella ragazza non potrei mai farle del male. -
- Cristiano ti ho detto di star zitto! - Ripetè avvicinandomisi. 
- Mi dispiace per suo nipote. - A quelle parole il Capitano divenne bianco come un cencio e sbarrò gli occhi in modo evidente. - Ho sofferto molto anche io, glielo giuro. Ma non sono più quella per... - 
Le parole mi morirono in bocca. Mio padre mi diede uno schiaffo in pieno viso senza che avessi il tempo di accorgermene. Lo guardai esterrefatto. Non si permetteva di farlo quasi da quando avevo lasciato i pannolini. - Ti ho detto di star zitto! Quando imparerai ad ubbidire a tuo padre? - Fare il buon padre ferito dal figlio ribelle gli era sempre piaciuto.
Mi massaggiai un attimo la guancia. Guardai il Capitano che cercava di riprendere la sua compostezza, poi l'avvocato impassibile a guardar per aria, infine quel viscido mezzo uomo che risultava essere mio padre. 
- Quando avrò un padre, forse imparerò. Tu pensa a fare i bagagli. E non dimenticare niente che qui non ti ci vogliamo più vedere. - Gli dissi.
Vidi che la sua volontà era quella di darmi un altro ceffone, ma si trattenne, diventando ancor più violaceo in viso. Salutai con un cenno il Capitano e presi a camminare da solo verso l'uscita. Sentii mio padre giustificarsi col Capitano, dicendogli che "quando non ti si permette di raddrizzarli da piccoli poi ci devi perdere le speranze", alludendo come logico a dar la colpa al polso poco rigido di mia madre. Uscii fuori senza dargli retta e mi avviai verso la sua macchina, aspettando che mi raggiungessero.

Dall'altra parte della strada c'era la macchina di Diana. La raggiunsi. Meg uscì fuori dallo sportello del lato passeggero e mi saltò in dosso. Era ancora scossa, ma finalmente non piangeva più. Diana scese dall'auto in modo più tranquillo e mi venne ad abbracciare. 
- Dov'è Bepi? - Le chiesi.
La vidi un po' rattristarsi. - Sta dormendo sul sedile posteriore dell'auto. - La guardai dubbioso e si affrettò a spiegare. - Si è agitato alla notizia di quello che era successo, poi tua madre nella disperazione gli ha anche detto di tuo padre e si è agitato ancora di più. -
La cosa mi preoccupò. - Non avrà mica avuto una crisi! -
- Fortunatamente l'abbiamo scongiurata. Però i sedativi hanno fatto effetto e sta ancora dormendo. -
Mi avvicinai al finestrino e lo vidi rannicchiato sul sedile. Non volli svegliarlo. Tornai vicino a Meg. 
- Ci facciamo una passeggiata? - Le domandai dopo averle baciato la punta del naso. 
Annuì.
- Però prima passa da casa. Tua madre sarà preoccupatissima. - Disse Diana risalendo in auto.

Una semplice serata con amici era servita a sdrammatizzare ciò che era successo. La domenica l'avevo passata con Meg, passeggiando sulla spiaggia deserta. Fare l'amore per tutta la notte e poterla baciare in ogni momento erano cose che un tempo non avrei mai apprezzato e a cui, invece, avrei volentieri fatto l'abitudine insieme a lei.

Il lunedì mattina l'avevo accompagnata in auto fino in città. Ludovica ci aveva aspettato in stazione. Fino a pranzo stettero insieme per recuperare un po' del tempo perso e poi Meg dovette affrontare il rientro all'istituto. Mi raccontò poi che era stato meno traumatico di quanto non sospettasse perché il centro dove era stata si era messo in contatto con loro non appena le avevano dato la libera uscita. Solo la signora Alice-Mama era stata scontrosa con lei e le aveva fatto una bella sgridata, ma su questo nessuno aveva dubbi.

Io, invece, ero tornato subito a casa dopo averla affidata a Ludovica. Mia madre e mio fratello avevano bisogno di me. E poi non mi sarei perso la scena di mio padre che andava via per niente al mondo. Probabilmente posso essere tacciato di cattivo figlio, ma quando quel martedì pomeriggio chiuse la porta alle sue spalle mi sentii un peso cadere dal petto. Le sue ultime parole per noi furono "vi manderò quanto volete". Nessuno di noi si aspettava di meglio da lui. Quando sentimmo il taxi partire, ci abbracciammo. Noi tre ci saremmo bastati, lo avevamo sempre fatto.

Trascorsi la settimana a casa. Mi godetti un po' di pace e finalmente rividi la serenità far parte della mia famiglia. Il Dottor Giannusi venne a trovarci la Domenica di Pasqua, portando un grande cesto di vivande. Lo accogliemmo come non avevamo mai creduto di poter fare. Non sarebbero certo venuti allo scoperto come coppia pubblica così all'improvviso, ma eravamo tutti contenti che potessero finalmente coltivare il loro amore al di fuori di scappatelle improvvisate.

Per quanto riguarda Meg, aveva ricevuto nuovamente restrizioni per essere scappata senza preavviso. Una delle istitutrici la accompagnò per le sue due visite a settimana al centro e per il resto del tempo restò chiusa nella sua casetta. Il tempo che non passava al telefono con me o Ludovica, lo trascorreva sugli appunti di Reti. Era forte. Era un'altra Meg. Era la nuova Meg. Era la vera Meg. Era finalmente rinata.

Quel mercoledì mattina era la prima volta che ci incontravamo di nuovo. Il grande cancello grigio dell'ingresso della facoltà riluceva adesso come il più magico ingresso del mondo delle favole. Mi aveva condotto a nuovi amici, a nuove esperienze, ma soprattutto a Meg. Quando mi vide, mi saltò in braccio baciandomi. Era la prima volta che ci mostravamo in facoltà, ma tutto sembrava così naturale! Percorrere il vialetto mano nella mano, prendere il caffè giocherellando coi suoi capelli, aspettare gli amici abbracciati sotto il piccolo gazebo rubando baci sotto gli occhi di tutte quelle persone stupite dalla sua ricomparsa. Dovetti separarmi da lei all'arrivo di Marco e Terry. Era la prima volta che potevano riabbracciarla e non potevo privargliene, ma lasciare le sue braccia fu comunque difficile. Ludovica arrivò dopo poco, completando, finalmente, di nuovo, il nostro quintetto.

Quando si fece l'orario giusto, ci avviammo verso il corridoio dove erano alloggiati gli studi dei Professori e cercammo quello del Professore di Reti. Meg bussò. Il cuore le palpitava un po' più velocemente, le si leggeva nel rossore delle guance. Era preoccupata più di un normale esame e continuava a stropicciarsi i polsini della maglia.
- Avanti! - La solita voce distratta del Professore ci diede il permesso di aprire la porta.
Tutti e cinque ci riversammo nello studio. Meg era la prima della fila e continuava a stringermi forte la mano, mentre si mangiucchiava il pollice dell'altra.
- Buongiorno Professore. - Interruppe il silenzio Terry.
- Oh, salve a voi. - Disse alzando finalmente gli occhi dalle sue carte. - Signor Liotta buongiorno! - A quel saluto personalizzato tutti ridacchiarono. - Che ci fate qui di buon'ora? -
- Si ricorda quell'esame sospeso? La nostra collega che era... - Non sapevo come concludere la frase. Mi sembrava tutto troppo brutto.
- Scappata. - Concluse Meg, guardandomi sorridendo. Poi si rivolse al Professore. - Sono io, Professore. E come vede, sono tornata. -
La fissò un po' come se stesse cercando di ricordarla, ma l'unica cosa che notò, a quanto dimostrò, fu il nostro tenerci per mano. Sorrise divertito. - Eh bravo al Signor Liotta. L'avevo detto io che sareste finiti insieme! -
Arrossii vistosamente mentre gli altri, Meg compresa, non riuscirono più a trattenere le risate.
- E allora signorina. - Ci interruppe serio il Professore. - Se lascia andare un paio di minuti il suo fidanzato, possiamo subito completare l'esame se se la sente. -
- Certo Professore. - Meg sorrise radiosa, mi diede un bacio sulla guancia e mi lasciò la mano per andarsi ad accomodare sulla poltroncina all'altro capo della scrivania del Professore. Noi uscimmo, restando davanti alla porta ad osservare l'esame. Era visibilmente agitata, ma era altrettanto palese la sua preparazione e la sua bravura. Appena il Professore terminava la domanda, lei iniziava a sommergerlo col suo fiume di parole perfettamente coordinate.

Mentre il Professore stava per iniziare la terza domanda, Marco mi mosse il gomito per richiamare l'attenzione.
- Se la sta cavando alla grande. Andiamo a prenderci un caffè? -
Avrei voluto dirgli di no. Avrei voluto passare il resto dell'ora e anche molto di più a guardare Meg affrontare il suo esame e darle il mio sostegno, anche se non le necessitava. Ma io e Marco avevamo un discorso in sospeso dal giorno in cui avevamo scoperto la sparizione di Meg. Non avevo più uscito l'argomento, neanche quando fingevamo di aver tutti superato la cosa, ma ora che le acque di erano finalmente calmate, volevo fare l'amico decente.

- Come sono andate le vacanze di Pasqua? - Gli chiesi mentre prelevavamo contemporaneamente il nostro caffè dalle due macchinette vicine.
- Bene. - Disse quasi senza neanche pensarci. - Molto bene. - Aggiunse poi sottovoce, ridacchiando tra sé.
- Ehi! Qui qualcuno ha qualcosa da dirmi per caso? - Aprii la porta e ci avviammo verso il giardinetto.
Lo vidi arrossire mentre miscelava il caffé. - Forse. -
- Avanti, parla. Non fare il prezioso. -
Marco si dedicò ancora per un po' a guardare il caffé girare sotto l'influenza del bastoncino trasparente. Poi mi guardò sorridente. - C'è una persona. Una persona con cui mi sto sentendo da un po'. -
- Da un po' quanto? -
Si passò una mano tra i capelli rossi, mordendosi il labbro lateralmente. - Da Gennaio in realtà. -
- Cacchio! Dimmelo dopo, eh! In fondo sono passati solo tre mesi. -
- Io in realtà volevo dirtelo quando ci siamo visti la prima volta, ma poi è successo il finimondo con Meg e... -
- Già. Credo di doverti delle scuse. -
- E per cosa? Tu eri preso dalla situazione ed è normale. Non era il caso di romperti anche con le mie cazzate. -
- Ma scherzi? Sei mio amico e non avrei dovuto... -
- Cris, davvero, non mi devi nessuna scusa. -
Guardai per un po' il bicchiere sentendomi in colpa. - E chi è questa persona? -
- Ti ricordi Maria, no? -
- Non dirmi che ti sei preso una cotta per una ragazza! Per di più un'ingegnera! - Cercai di sdrammatizzare.
Marco rise. - No, no! Oddio, no! - Bevve il caffè tutto d'un sorso. - Non che non le piacerebbe eh! -
- E questo l'abbiamo capito tutti. -
- Sai che continuava a chiedermi di uscire da quando ci siamo incontrati al centro commerciale dopo Torre del Vetro, no? Una sera ho accettato. Volevo parlare chiaramente e dirle la verità. Il caso, però, ha voluto che suo cugino arrivasse improvvisamente dall'Irlanda e che, per non lasciarlo solo, la nostra mezza specie di appuntamento diventasse un'uscita a tre. E così ho conosciuto Finn. C'è stata subito una bella intesa tra di noi. La mattina dopo mi sono offerto per portarlo a fare colazione in un bel posticino dato che Maria aveva lezione presto. Abbiamo parlato un sacco, davvero. - Arrossì ancora di più.
- Scusa se te lo chiedo, ma come hai capito che lui... sì, insomma, che anche lui era... -
- Gay? - Disse ridendo. - Puoi dirlo tranquillamente Cris, non è un insulto. -
- Sì, scusa. - Fui io ad arrossire, di nuovo imbarazzato.
- Non l'ho capito. Anche perché in realtà non lo era. O non lo è. Non so dirtelo con precisione. - Lo guardai un po' perplesso. - Sì, insomma. Mi è piaciuto subito e ho provato a fare amicizia con lui per tastare il terreno ma non sapevo se sarebbe andata o no. Poi Meg è scappata e non ci siamo più visti. Quando è tornato in Irlanda è stato lui a contattarmi di nuovo e abbiamo preso a sentirci regolarmente quasi e continua a darmi corda, anche quando faccio qualche battuta che si spinge un po' in là. Però non ho ancora la certezza che mi contraccambi pienamente. - Improvvisamente il rossore del suo viso scomparve e ritornò il suo naturale pallore. - Oh, Cris! Sono così confuso! Mi piace un sacco parlare con lui e credo di starmi davvero innamorando, ma ho un casino di paura di essere rifiutato. E se a lui piacciono le donne e mi sta solo prendendo per il culo? O se è un tipo come Andrea? Tornerà in Italia a Maggio e io non so che fare. -
Restai a riflettere. Cosa ne sapevo io dei rapporti di quel genere? Nulla. Ma non dovevano discostarsi poi così tanto da quelli che avevo sempre avuto. - Credo che dovresti parlargli col cuore in mano e vedere come va a finire. Meglio capire subito come vanno le cose. Più tempo passa più può essere doloroso. -
Restò un po' in silenzio. - Mi sa che hai ragione. -
- E dovresti dirlo anche a Maria! - Mi permisi di aggiungere.
Sorrise. - Mi sa che hai ragione anche su questo. -

- Chi ha ragione su cosa? - Chiese Ludovica uscendo dalla porta.
- Come è andata? - Le chiedemmo senza risponderle.
- Perchè avete chiesto a me? -
Fece una faccia quasi schifata e, scostandosi, ci indicò Meg. Ferma sulla soglia, si guardava tristemente la punta delle scarpe, graffiandosi i polsi. Mi alzai immediatamente per raggiungerla.
- Che è successo? - Le domandai sottovoce accarezzandole i capelli.
Sollevò lo sguardo a guardarmi. Non riuscii a comprenderlo.
- Scusate! - Parlò nuovamente Ludovica. - Ho sbagliato domanda. Avrei dovuto dirvi: perché lo avete chiesto? - Iniziò a ridere guardando Meg.
Lei, guardando l'amica, non riuscì può a reggere la sua farsa e la seguì nella sua risata. Io e Marco le guardammo ancor più sconcertati, finché non si decisero a dirci che, come sempre, Meg aveva fatto un figurone e aveva aggiunto un altro bel 30 e Lode alla sua lunga lista di successi universitari. Appena iniziammo a festeggiarla abbracciandola, anche Terry uscì fuori. Era rimasta dentro perché notoriamente incapace di fingere che sia successa una cosa brutta davanti a una bella notizia.

- Perché è un bravo ragazzo! Perché è un bravo ragazzo! Nessuno lo può negar! - Cantavamo tutti insieme quella canzonetta stupida seduti sul pavimento del salottino. Brendon applaudiva e cercava di imitare la nostra cantilena non smettendo però di ridere delle nostre facce buffe. 
Era il suo primo compleanno e Naki aveva deciso infine di dare una piccola festicciola. Diceva che anche se lui non l'avrebbe ricordata per lei sarebbe stata indelebile. C'erano, ovviamente, Daniele ed i nonni, Giovanni e Angela. In qualità di zio, ero stato uno dei pochi invitati, insieme a Meg, Ludovica insieme al uso ragazzo, Terry e Marco. Le ragazze avevano preparato un piccolo buffet che riuscì però a saziarci tutti e la torta in cui si era cimentata nonna Angela era deliziosa. Brendon sembrò apprezzare i regalini ricevuti ed anche tutte le attenzioni che si riversavano su di lui. 
Il regalo più bello, però, fu quello di Daniele e non solo per il piccolo. Dopo aver portato su per Brendon una palestrina che accorpava molti giochi e che lui sembrò subito gradire, porse a Naki un pacco rettangolare, incartato con uno stupendo fiocco blu. Dentro c'erano tutti i documenti necessari per il riconoscimento del bambino! Non appena comprese cosa fossero in realtà quei fogli e cosa tutto ciò significasse, scoppiò in un oceano di lacrime. Di felicità, ovviamente. Anche nonna Angela si commosse, mentre nonno Giovanni iniziò soltanto a guardarlo con un po' meno odio.
Nonostante fosse il festeggiato, erano da poco passate le ventidue quando Brendon crollò sfinito tra le braccia di Daniele. Mentre Naki metteva a letto il piccolo, le ragazze si sbracciarono per iniziare a sistemare la stanza e a finir di lavare le stoviglie. Nonna Angela, però, le fermò risolutamente. Spedito il marito giù a casa propria, voleva pensare lei a sistemare tutto mentre noi continuavamo la serata fuori. Fu irremovibile. Neppure la nipote riuscì a farla desistere, riuscendo solo a strapparle la promessa di pensare solo alle stoviglie, utilizzando come scusa che sistemare i mobili e pulire il resto avrebbe causato troppo baccano. 

Passeggiavamo serenamente per le vie della città. Osservavamo la gran vita dei ragazzi che affollavano ogni angolo, pronti per un'altra delle loro folli notti. Noi non avevamo intensione di fare follie. Ce ne erano state fin troppo. Volevamo solo godere della pace che avevamo finalmente ritrovato. L'unica follia, se così si può definire, fu raggiungere il grande parco cittadino e scavalcare il grande cancello. Ci rifugiammo nell'area del parco giochi riservato ai bambini. Ludovica e Naki iniziarono a dondolarsi sull'altalena. Meg e Terry si accomodarono su una panchina di ferro battuto rinfrescata dall'umidità dalla notte ed iniziarono una delle loro lunghe e incomprensibili conversazioni da donne. Capii che probabilmente da un momento all'altro le avrebbe detto tutto.
Noi uomini, anche se forse mi sembra un po' troppo da vecchi definirci così, ci sedemmo su un'altra panchina. Il discorso, non so come, riuscì a stare lontano da motori, università e tecnologia, cose che spesso monopolizzavano i nostri dialoghi. L'argomento quella sera cadde su di loro, le persone che ci facevano battere il cuore.
Mentre parlavamo del più e del meno delle nostre relazioni, non riuscivo a far a meno di guardare Meg sorridendo. Era talmente bella mentre non si accorgeva di essere osservata! Ogni tanto si accorgeva che la guardavo e allora si zittiva, portava un ricciolo dietro l'orecchio e mi sorrideva arricciando gli occhi. Quando lo faceva una piccola fossettina le si disegnava all'angolo destro della bocca. Adoravo quella fossetta. Ancor di più perché significava che non mi odiava anche dopo aver parlato con Terry.

- Migliora a vista d'occhio. - Qualcuno di loro disse.
- Cosa? - Mi ero perso a fissarla, ancora.
- Meg, dico, la trovo migliorata ogni volta che la incontro. - Ripeté Jay. - Anche Ludo mi dice che sta iniziando ad aprirsi di più anche con lei. -
- Credo che stare con te le faccia bene. - Disse Marco, poggiandomi una mano sulla spalla.
- Non sono io che la faccio stare meglio. Il sostegno psicologico lo fa. -
- Dici che con me sarebbe lo stesso quindi? - Una voce mi arrivò all'orecchio proveniente dalle mie spalle. Una voce che non mi piaceva troppo, specialmente mentre ci provava direttamente o indirettamente con la mia ragazza.
- Oh Diego! Finalmente sei arrivato! Pensavamo ti fossi perso. -
Jay, da bravo amico, non aveva perso tempo a chiedergli di unirsi a noi. Avevo imparato a cancellare l'idea che mi ero fatto di lui a Torre del Vetro, ma da quando Meg era tornata sembrava essere ripartito all'attacco della preda. E la cosa non mi piaceva per niente. 
- No, forse io potrei farla stare meglio. - Disse, fregandosene dell'amico che lo accoglieva e prendendo a guardarmi fisso negli occhi.

Non risposi alla sua provocazione e la lasciai cadere nel vuoto. Come prevedibile, dopo averci velocemente salutato, si diresse verso Meg. Lo seguii con lo sguardo ma ciò che vidi non mi piacque. Meg era improvvisamente diventata seria, la fossettina che adoravo non c'era più. Quando Diego le si avvicinò, lo respinse velocemente alzandosi dalla panchina. Venne verso di me come una furia e mi diede un sonoro ceffone sulla guancia sinistra. Tutti si zittirono. Il tempo sembrò fermarsi. Restai immobile, soffrendo del bruciore in silenzio. Sapevo bene a cosa era dovuto e ancor meglio sapevo di meritarlo. 
- Stronzo! - Meg corse via dopo avermelo urlato in pieno viso con tutta l'aria che aveva riuscito a tirare fuori dal petto.
Diego senza esitare le corse dietro, così come fece Ludovica, mentre io continuai a restare immobile. Fu Marco a dovermi scuotere per riuscire a farmi partire nella sua stessa direzione.
Vidi Diego raggiungerla ed afferrarla per le braccia. La strinse a sé ed io mi pietrificai di nuovo. Iniziai a camminare lentamente. I miei piedi si erano improvvisamente trasformati in macigni pesanti. Li raggiunsi. Ludovica le teneva la mano dicendole di non trarre conclusioni affrettate. 
Diego mi fissò in cagnesco ma con una sottile linea di soddisfazione. - Vattene. - Mi disse secco.
- Vattene? - Ripeté incredula Ludo. Strappò Meg dalle sue braccia, abbracciandola a sua volta. - Vattene tu. Loro devono parlare. - 
- Ma... - 
- Ma un cazzo. Vattene prima che ti prenda a pugni! - Lo minacciò Ludovica. 

Diego restò al suo posto. Non gli badai. Non me ne fregava niente di lui. Mi avvicinai a Meg. Il suo sguardo era un misto di dispiacere, rabbia e paura. Ebbi timore anch'io, timore di perderla ancora. Le carezzai una guancia. Chiuse le palpebre ma non indietreggiò. Alzò la mano a toccare la mia. Lasciò Ludovica e mi abbracciò. Incredulo e sorpreso la lasciai fare, cingendola a mia volta. Chiusi gli occhi, annegando nel suo odore. Sentii distrattamente Ludovica che portava via Diego. 
- Scusa. - La sentii sussurrare.
- Scusa? Sono io che devo scusarmi. -
- No, no. - Staccò la guancia dal mio petto per guardarmi negli occhi. - Sono io. Non sapevi niente, né se né quando sarei tornata. Non potevo pretendere che tu... -
- Ti aspettassi? -
- Già. - Un sorriso amaro le sfiorò le labbra.
- Ci ho provato, te lo giuro. -
- Però avevi bisogno di qualcuno e a Terry sei sempre piaciuto. -
- No, non hai capito. Ci ho provato a non aspettarti. Ma non ce l'ho fatta. Nella mia testa c'eri sempre tu. Ho provato ad andare avanti, ad essere talmente arrabbiato con te da dimenticarti, a provare piacere nello stare tra le braccia di un'altra. Ci ho provato con tutto me stesso. Ma mi sono illuso. E ho illuso Terry, cosa per cui mi sono fatto schifo da solo. - Le carezzai il mento. - Io non ti ho mai dimenticato, neanche per un attimo. Ti ho odiato, questo sì. Ho odiato il fatto che fossi scomparsa e che non sentissi la necessità di cercarmi. Ma non sei mai uscita da qui. - Le presi la mano le poggiai sul mio petto.
La ritirò via quasi scottasse. - Io... - Il viso le avvampò. - Non so cosa dire, Cris. -
Sorrisi. - Dire che mi ami anche tu sarebbe... -
- ...una bella idea. - Completò lei per me. - Me l'hai già detto questo, ricordi? -
- Come potrei dimenticarlo? - Le baciai la fronte. - Ma vale la stessa regola ancora. -
- Quale regola? -
- Non lo pretendo. Non sarebbe giusto forzarti a... -
- Ti amo. - Lo disse così velocemente da travolgermi. 
Spalancai le palpebre. Persi il respiro. Mi girò la testa. Le gambe divennero improvvisamente incapaci di reggermi. - L'hai detto. - Riuscii soltanto a bisbigliare.
Meg sorrise e fissando i suoi enormi occhi nocciola nei miei annuì. 
- L'hai detto. - Ripetei con un volume poco più forte. 
- L'ho detto. - Mi fece eco lei, iniziando a ridere.
- Mi ami? - Mi illuminai.
- Sì, sì, sì e ancora sì. - Annuiva e rideva. 
La presi in braccio iniziando a farla girare. La sua risata cristallina mi solleticò le orecchie. Il cuore mi scoppiò nel petto. La amavo e lei mi amava e non c'era niente di più bello al mondo. La baciai, appassionatamente e a lungo. Solo un anno prima la osservavo dal mio angolo di solitudine vivere la sua vita. Adesso c'ero catapultato dentro. Era mia ed io ero suo. Avrei voluto fare l'amore con lei, lì sul quel prato umido, a qualche metro dai nostri amici. Avrei voluto fare l'amore con lei dovunque, sempre. Per tutto il resto della mia vita. 
- Fermo, mi fai girare la testa. - Disse ancora ridendo. 
Mi fermai e le feci riappoggiare i piedi a terra. Continuavamo a sorridere occhi negli occhi, a respirare insieme il profumo di qualcosa di nuovo. 
- Torniamo dai ragazzi, ci staranno aspettando. -
- Falli aspettare. - La baciai ancora.
- Dai Cris, abbiamo tempo per i baci. - Mi disse tra le labbra, senza nessun tentativo di allontanarmi.
Mi staccai, sbuffando palesemente. - Uffa! Però li salutiamo e andiamo a casa. - Le dissi abbracciandola da dietro e baciandole il collo. 
- Qualcuno ha gli ormoni in subbuglio per caso? - Mi chiese maliziosa.
- Tu forse. Io ho il cuore in subbuglio. - 
Le diedi un altro piccolo bacio godendo del suo sorriso. Le afferrai la mano e tornammo dagli altri. 

- Ma io voglio passare la notte qui con te. - Mi disse baciandomi le labbra, appoggiata al portone. 
- Piccola, vorrei tanto anch'io. -
- E allora fammi dire a Ludo di andarsene e fammi salire. - Prese a mordicchiarmi il collo. 
- Sai che non si può. -
- Non ho più dodici anni. - Imperterrita continuava a stuzzicarmi e la voglia di lei diventava sempre più forte.
Dovetti fermarla per resistere al desiderio di averla proprio lì in mezzo alla strada. - Se non hai dodici anni non fare la bambina! -
Si liberò i polsi dalla mia stretta. Si mise a braccia conserte, facendomi il broncio. 
Sorrisi, carezzandole i capelli. - Non fare i capricci, su. Sai che devi sottostare alle regole se non vuoi che ti buttino fuori. - 
- Che mi interessa? Vengo a stare con te! - Sorrise gettandomi di nuovo le braccia al collo.
- Purtroppo non posso ancora permettermi di badare a entrambi. - Sorrisi. - Anzi, ora che mio padre è andato via a stento riuscirò a restare qui. - 
Meg mi guardò di nuovo col broncio. 
- Piccola forza, vai a casa. Ci vedremo lunedì. -
Si lasciò convincere a smettere di fare i capricci. Ci salutammo con un lungo bacio. La guardai salire in macchina da Ludovica e partire tenendo la testa fuori da finestrino a guardarmi. 

Guardavo l'auto allontanarsi e pensavo. 
Pensavo a come una sconosciuta può diventare la persona più importante della tua vita. 
Pensavo a come un gruppo d'amici può salvarti dalle situazioni più orribili da cui ti sembra di non poter uscire.
Pensavo a come una ragazza madre può avere la forza di continuare gli studi badando a un bambino e a come un ragazzo che la ama riesca a voler riconoscere un bambino non suo pur di starle vicino al meglio.
Pensavo a un marito che abbandona la famiglia pur vivendo sotto il loro stesso tetto e ad una moglie adultera che riesce ad essere una perfetta madre.
Pensavo a un ragazzo violento e puttaniere che si innamora perdutamente di un paio di enormi occhi castani che hanno passato le pene dell'inferno.
Pensavo all'università da finire, al lavoro da trovare, alla casa da arredare e alla famiglia da costruire. Pensavo ai sogni per il mio futuro con lei, sperando che anche questi potessero avere una stupenda coronazione.

Fine.