Never Ending Story di LandOfMagic (/viewuser.php?uid=174993)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Il rituale mancato ***
Capitolo 3: *** Il funerale ***
Capitolo 4: *** La Bambina Sopravvissuta ***
Capitolo 5: *** Il Bosco degli Omini Gialli ***
Capitolo 6: *** La Scoperta ***
Capitolo 7: *** Diagon Alley: la culla della magia (parte I) ***
Capitolo 8: *** Diagon Alley: la culla della magia (parte II) ***
Capitolo 9: *** Ritrovarsi ***
Capitolo 10: *** La Partenza: Alla Stazione di King's Cross ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Never Ending Story
1.
Prologo
Tutto quanto accade una volta
potrebbe non accadere mai più...
Ma tutto quanto accade
due volte accadrà certamente una terza...
Paulo Coelho
Fervevano
i preparativi della festa di Mezza Estate nel ridente villaggio di
Burford, immerso nella campagna inglese. Incantevole paesino celato
alla vista dei Babbani da potenti Incantesimi di Occultamento, sorgeva
su di una piccola altura i cui dolci declivi erano interamente
punteggiati di vitigni e roseti. Al limitare del centro abitato,
attraversato da un fiumiciattolo artificiale, un fitto bosco di robinie
regalava una piacevole frescura nelle torride giornate estive.
Il sole che digradava poco a poco dietro la collina, preannunciando il
calare della sera, tingeva il cielo di una calda sfumatura dorata.
Caramello fuso su nuvole
di zucchero filato.
La donna distesa in un prato di gelsomini bianchi aveva un incarnato
cereo e diafano come il colorito dei fiori che la circondavano, in
netto contrasto con il vivo fulgore dei suoi lunghi capelli fulvi. Gli
ultimi raggi del sole calante le sfioravano le mani delicate,
intrecciate compostamente sul grembo, con carezze affettuose, per poi
posarsi sfuggenti sul cestino di vimini al suo fianco. Tocchi dolci ma
elusivi, come innamorati che si bramano e si rincorrono in uno
struggente rituale di corteggiamento.
Gli echi degli schiamazzi delle donne e dei bambini, oltre il pendio,
occupati nella raccolta di erbe e piante magiche, come voleva la
tradizione del giorno di Mezza Estate, sembravano non intaccare in
alcun modo il suo riposo.
Vi era qualcosa di innaturale nell’inerte compostezza di quel
giovane corpo. Una fredda e pallida rigidità che solo una
Maledizione Senza Perdono poteva conferire, celandosi dietro
un’ingannevole maschera di quiete apparente.
L’aroma dolciastro dei gelsomini e quello più
amaro dei fiori di sambuco nel cesto di vimini si mescolavano in una
giostra di profumi intensi che pervadevano l’aria
tutt’intorno, fino a toccare le note piacevolmente soffuse
dei roseti che svettavano sul declivio orientale.
Il bambino, all’ombra di un cespuglio di mirto, non riusciva
a staccare gli occhi da quella scena, stregato dalla perfetta
immobilità e dall’ineccepibile purezza che
trasudava da quel corpo nel campo di fiori.
Innocenza. Candore. Il bianco caldo dei fiori e quello più
terso ed esangue della pelle che si perdeva nella sfumatura immacolata
e trasparente dell’abito che la fasciava.
Solo un dettaglio stonava impercettibilmente in quella cornice quasi
paradisiaca. I petali del fiore che la donna stringeva tra le dita
magre ed affusolate. Erano neri. Più scuri dei mantelli dei
Mangiamorte, protagonisti di racconti spaventosi, spauracchi per
bambini.
Era un papavero nero.
Morte. Distruzione.
Sofferenza.
Se solo il ragazzino avesse conosciuto il linguaggio dei fiori, sarebbe
scappato a gambe levate.
Una mano solcata da rughe e da cicatrici di vecchie ferite si
posò sulla sua piccola spalla. Il bambino
sussultò e si voltò sorpreso ed impaurito.
“Che ci fai qui, marmocchio?” il tono di perentoria
minaccia nella voce dell’adulto lo fece vacillare e fu
costretto ad aggrapparsi al cespuglio per non caracollare a terra.
“Io … Non sono stato io!”
piagnucolò sulla difensiva.
“Non dire a nessuno quello che hai visto!”
Il dito indice puntato in faccia gli sfiorò il naso.
Terriccio bagnato, sudore e whisky incendiario.
Quello sconosciuto sapeva di terriccio bagnato, sudore e whisky
incendiario.
Il ragazzino arricciò il naso, trattenendo una smorfia di
disgusto, ed annuì con un cenno della testa.
“E ho bisogno che tu consegni un messaggio ad Harry
Potter!”
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Capitolo 2 *** Il rituale mancato ***
2.
Il rituale mancato
Studia il passato se vuoi
prevedere il futuro.
Confucio
Al di là
dell’estrema fila di casupole, oltre l’ultimo campo
coltivato, la vegetazione dilagava in una macchia desolata ed incolta
che sfociava in una sterminata boscaglia selvatica.
Calava la sera sulla
foresta quando un folto corteo di maghi e streghe si riversò
ai piedi del Noce Infernale. Si vociferava da innumerevoli generazioni
che quell’albero l’avesse piantato il Signore
Oscuro in persona per offrire un punto di riferimento riconoscibile
alle schiere di suoi seguaci e tenere lontani possibili intrusi.
Infatti, tutti i forestieri che si erano avventurati per i tortuosi ed
intricati sentieri della foresta avevano sempre avuto
l’impressione che quell’albero fosse diverso da
tutti gli altri. Aveva un’anima malvagia e presagi nefasti si
nascondevano tra i suoi rami. Gli ignari che avevano riposato sotto la
frescura delle sue fronde ed avevano assaggiato i suoi frutti oleosi si
erano ritrovati poi a vagare per ore smarrendosi nell’intrico
della vegetazione selvaggia senza trovare una via d’uscita.
Le ore erano diventate giorni, i giorni si erano trasformati in mesi e
con i mesi erano passati gli anni. E nessuno aveva più fatto
ritorno. Sembrava quasi che l’albero non permettesse agli
sventurati che si avvicinavano troppo ai suoi misteri funesti di
abbandonare quei luoghi.
Una fredda nebbia
imperscrutabile accompagnò l’arrivo di quegli
esseri magici ed avvolse perfino il più sottile filo
d’erba sotto la discreta protezione del suo manto velato.
Alcuni erano giunti a cavallo di una scopa volante, altri in sella a
giganteschi gatti neri. Taluni, assunte le sembianze di pipistrello,
avevano preferito destreggiarsi in volo per esibirsi poi in eleganti
atterraggi davanti agli sguardi compiaciuti dei confratelli.
“Sorelle
…” si fece avanti Eldrid Tersis, la strega
più anziana. Levò in alto le vecchie mani rugose
dalle lunghe unghie nere. “… e fratelli
…” con un movimento scaltro delle dita si tolse il
cappello a punta esageratamente sformato e rattoppato che portava in
testa, com’era consuetudine per una fattucchiera del suo
rango. Una cascata di capelli grigi riccioluti le si riversarono sulle
spalle. Sottili fili d’argento che danzavano al ritmo della
leggera brezza che riusciva a filtrare in quel groviglio di piante e
cespugli.
“Ooooooooh
… come si guida … questa cosaaa?”
Il discorso di Eldrid
venne interrotto da un urlo che squarciò la foschia
tutt’intorno, seguito da un tonfo sordo.
Un esserino fragile e
minuto ruzzolò giù da un manico di scopa,
capitombolò oltre il testone di un mago che ne
seguì il volo con aria sgomenta e finì a faccia
in giù nell’erba umida ai piedi di Eldrid.
“Ehm
… ehm …” la strega si
schiarì la voce con un colpetto di tosse, “Signor
Wilford Paciock!” lo apostrofò, liberando con uno
strattone un lembo del proprio mantello sgualcito schiacciato sotto il
peso del ragazzino. “Un mago che non sa governare il proprio
mezzo volante …” con la punta del piede si
scrollò di dosso il povero malcapitato
“… non è un mago che si
rispetti!” concluse in tono sprezzante lanciandogli
un’occhiataccia per nulla indulgente. Il ragazzino si rimise
in piedi sulle gambe barcollanti. Non doveva avere più di
dieci o undici anni a giudicare dalla statura e dai lineamenti
decisamente ancora infantili. Alcune foglie umidicce si erano incollate
ai suoi folti capelli biondi. Le staccò una ad una e le
gettò per terra, poi si ripulì il palmo delle
mani sul mantello nuovo di zecca che la madre gli aveva comprato il
giorno prima alla Bottega di Madama McClan a Diagon Alley
“Chiedo
scusa … Potentissima Eldrid!” fece Wilford con
voce flebile e intimidita. Era visibilmente imbarazzato, un rossore
purpureo gli era salito a donare un nuovo colorito vivo alle sue guance
solitamente pallide e smunte. “E’ la prima volta
che salgo su una …” torcendosi le mani
ansiosamente cercò di proseguire nel suo tentativo di scuse.
“Vuoi dire
che ad Hogwarts non te l’hanno ancora insegnato?”
la vecchia strega avvicinò il viso affaticato a quello di
Wilford per scrutarlo più da vicino. Il naso adunco e
grinzoso gli sfiorò una guancia ed il ragazzino dovette
reprimere l’impulso di allontanarlo bruscamente con una
manata.
“Non ho
ancora undici anni” ammise Wilford abbassando gli occhi,
vergognoso, e stringendosi nelle spalle per farsi ancora più
piccolo.
“Oh per
mille diavoli, ragazzino…” esclamò
Eldrid alzando gli occhi al cielo, esasperata “…
dove sono i tuoi genitori?”
Wilford si
guardò attorno con un misto di circospezione e timore,
consapevole di essere nei guai. “I … io
…” cominciò con un incontrollato
tremolio nella voce. Fece una pausa e deglutì rumorosamente.
“Allora?”
lo incalzò la fattucchiera. Una ventata di alito fetido
inondò le narici di Wilford che, prontamente, si
portò una mano a coprire la bocca per reprimere un urgente
conato di vomito.
“Non puoi
stare qui da solo, lo sai?” il tono minaccioso e lo sguardo
fermo e severo di Eldrid Tersis fecero sentire Wilford Paciock ancora
più in soggezione e spaurito. Si strinse più
forte nel mantello come se quel gesto riuscisse ad infondergli coraggio.
“Non puoi
partecipare a questa riunione!” lo ammonì la
strega additandolo aspramente di fronte a tutti. Un coro di assensi si
levò dalla folla di maghi lì attorno.
“Sei ancora
troppo piccolo ed inesperto!” fece un mago con un buffo
copricapo. Un pipistrello gli stava appollaiato sulla testa, le ali
cartilaginee gli pendevano flosce sulle orecchie. Wilford proruppe in
un sussulto di sorpresa quando scoprì che
l’animale era vivo. Il pipistrello infatti si alzò
in volo non appena un lontano ululato interruppe la conversazione.
Prese a svolazzare freneticamente in cerchio sopra le teste di tutti i
presenti come a voler perlustrare e tenere sotto controllo la zona.
“Io
… io non volevo disturbarvi … ma il mio
papà è molto malato …” il
ragazzino, a disagio, parlava lentamente e con voce tremula
“… la mamma dice che ha la Febbre Fumosa
…” aggiunse piano, come se il pronunciare ad alta
voce il nome di quella malattia la rendesse più grave.
Si udirono dei
sospiri di commiserazione provenire da punti non ben definiti della
mischia. La Fumosa era una delle Febbri Castigatrici. Una volta che si
impadroniva del tuo corpo non ti abbandonava più. Ti
consumava lentamente, il fumo iniziava ad uscirti dalle orecchie
impedendoti di sentire, poi si estendeva al naso e alla bocca
lasciandoti respirare a fatica, finché in ultimo giungeva
alla gola e ai polmoni. Ed a quel punto eri spacciato, già
imbarcato con un biglietto di sola andata per
l’Aldilà.
Ma tutte queste cose
Wilford non le sapeva.
“…
e io sono uscito di nascosto … per cercare qualche radice di
Mandragora … la mamma me le dà sempre quando ho
la Tosse Catarrina e mi passa subito …”
continuò il ragazzino più tranquillo, dato che
ora erano tutti intenti ad ascoltarlo “… pensavo
che così anche papà può
guarire!” concluse con un sorriso speranzoso. “Solo
che non sono molto ferrato nel volo … ho perso il controllo
della scopa e sono finito qui! Non l’ho fatto
apposta!” ammise con l’aria più
innocente e sincera del mondo.
“Ragazzino,
ammesso che tu la trovassi, la radice di Mandragora è molto
rischiosa da estirpare se non consoci il metodo giusto …
emette delle urla acutissime che ti possono rendere pazzo per
sempre!” lo avvisò una streghetta dai corti
capelli arancioni. Sulla sua spalla sinistra dormiva un Rospo
Pruriginoso. Erano animaletti infidi quelli. All’apparenza
sembravano innocui, ma se non ne eri il legittimo padrone ed osavi
toccarne uno, il contatto con la loro pelle viscida ricoperta di
bubboni giallastri ti causava un prurito cronico esteso a tutto il
corpo. Ed esisteva un solo rimedio a quel fastidio: eliminare
l’animaletto che l’aveva causato. Impresa ardua,
dato che i Rospi Pruriginosi erano noti in tutto il mondo magico per
essere gli anfibi più veloci e salterini.
“A mio zio
Engus è successo … Adesso crede di vedere
Berretti Rossi ovunque! Ma si sa che quelle creature ormai
sono estinte da un pezzo!” aggiunse con un gesto della mano
ad indicare che allo zio mancava qualche rotella.
Wilford, sconsolato,
si lasciò cadere per terra accanto alla sua scopa.
“Oh
insomma, marmocchio! Raccogli quell’arnese e vattene in
fretta prima che vada a riferire a tua madre della tua scappatella
notturna!” sbottò Eldrid su tutte le furie. Non
mancava molto all’alba ormai e restava poco tempo per
celebrare il rituale. Non avrebbe tollerato altre interruzioni. Quello
era un rito che si poteva compiere solo una volta ogni 25 anni nella
Notte di Mezza Estate durante la quale i demoni ed i morti potevano
tornare a camminare liberi sulla terra al pari dei vivi, mescolandosi e
confondendosi tra loro. E lei non poteva rimandare, non poteva
attendere altri cinque lustri … non le sarebbe stato
concesso tutto quel tempo!
“Vattene, o
il Signore Oscuro …” gli occhi le brillarono nel
pronunciare quel nome tanto osannato “… ti
eliminerà in un solo istante se ti troverà qui al
suo risorgere!” gli intimò la vecchia, scoppiando
in una risatina malefica.
Wilford Paciock,
mortalmente spaurito, si rialzò a fatica. Le sue gambette
magre non reggevano il peso di quella minaccia. Raccolse la scopa e
corse via a perdifiato dove le ombre della notte cominciavano a
tingersi di sfumature più chiare. L’indomani, nei
suoi incubi più spaventosi, quella terrificante risata
stridula gli sarebbe echeggiata ancora nelle orecchie.
***
“Sprazzi
di luce ad est… L’alba è vicina, miei
cari confratelli!” Eldrid avanzò qualche passo
strascicato verso il Noce. “Dobbiamo sbrigarci!”
aggiunse, ansiosa di perpetrare le sue empie intenzioni.
L’Albero Infernale, sempre all’erta,
allungò i suoi rami nodosi a scalfire il terreno come
fossero fruste. Un movimento sotterraneo fece barcollare Eldrid che
dovette puntare saldamente i piedi a terra per non cadere. Le radici
della pianta si smossero ed emersero in superficie con un fragore di
zolle che si spaccavano e venivano lanciate in aria per poi piombare
giù in una nuvola di terra.
“Scelleratezza e crudeltà guidano le mie
azioni!” intonò la fattucchiera in una sorta di
lasciapassare. Il turbinio di rami e foglie cessò
all’istante ed il Noce riprese la consueta
immobilità, non fosse che per quell’occhio magico
che si spalancò proprio nel mezzo del tronco.
L’iride giallognola fissò intensamente la strega.
“Eldrid, mia amatissima!” un’esclamazione
gutturale scaturì dall’interno
dell’albero.
“T…Tom? S..sss…sei tu?”
l’eccitazione nella voce della vecchia la portò a
balbettare.
Il grande Noce annuì smuovendo le sue rigogliose fronde.
Seguirono acclamazioni e grida euforiche da parte degli astanti.
“Sei lì dentro?” fece la strega.
Sbarrò i piccoli occhi grigi, stupita al nuovo cenno di
assenso da parte della pianta. Mormorii confusi e vocii sommessi si
diffusero per la radura.
“Tutti si domandano perché non vi manifestiate in
tutta la Vostra nefandezza, Signore!” intervenne un mago il
cui viso era interamente nascosto da un cappuccio nero, riportando i
pensieri dei suoi confratelli.
“Credete che non lo farei se potessi?”
ruggì il Noce, alcune foglie ormai rinsecchite si dispersero
al suolo. “Ma sono bloccato qui…”
aggiunse in un lamento doloroso “…la mia anima
è incatenata nella corteccia di questo albero!” la
sua voce si stava facendo sempre più flebile. “Ed
ogni volta che tento di liberarmi non faccio altro che
indebolirmi!” ormai si udiva solo un sussurro.
Non morto e non vivo. Intrappolato tempo addietro sulla soglia che
divide due mondi.
“Come posso aiutarti, Tom?” la strega si
prostrò ai piedi del Noce. “Dillo a una vecchia
amica!” giunse le mani in segno di devozione.
“Dovete compiere il cerimoniale in tutti i minimi
particolari, senza commettere errori … prima che albeggi! Se
fallirete, sarò costretto a rimanere ancora in questo limbo
e non sarete ricompensati con la vita eterna!”
“Non falliremo!” promise Eldrid e si
rialzò con una riverenza.
Si udì un ululato, questa volta più vicino, ed il
pipistrello emise una serie di squittii acuti.
“Rufus! Vieni giù, non c’è
nessun pericolo!” lo apostrofò il suo proprietario.
“Portatemi i prigionieri!” ordinò Eldrid
con autorità.
Dal fondo del gruppo si mossero due Golem, giganti di roccia solida
dall’aspetto vagamente umano. Trascinavano una donna in
lacrime ed una bambina ancora molto piccola.
“Tu … tu non puoi farci questo!”
singhiozzava la donna, stringendosi al petto la figlioletta.
Capelli rossi. La razza Weasley non si smentiva mai.
“Mia dolce ingenua Ginny… dovresti essere
orgogliosa di sacrificarti per il Signore Oscuro… dopotutto
è un onore che non spetta a tutti!” Eldrid
parlò con estremo sangue freddo mentre rimestava nel suo
calderone un intruglio di lingua di rospo nero selvatico e coda di
ratto di fogna. “Ma perché proprio noi?
Perché la mia bambina?” Ginny stava tentando
invano di liberarsi dalla morsa di pietra dei due Golem.
“E perché non voi, invece?” la vecchia
strega squadrò la donna con occhi di ghiaccio.
“Così mi è stato ordinato da Colui che
noi serviamo, Colui che ha fatto delle Tenebre il suo regno, il nostro
regno…”
“Ma…”
“Suvvia, sarà rapido e indolore!” Eldrid
sorrise estasiata.
Rufus, il pipistrello, lanciò ancora alcuni stridii
assordanti.
“Maledetto uccellaccio, fatelo stare zitto o lo trasformo in
una statua!” spazientita Eldrid lo minacciò
estraendo da una tasca del mantello la proprio bacchetta e puntandola
contro il volatile. “Sto cercando di concentrarmi
qui!” sbottò in un sospiro di frustrazione. Le
rispose un altro lungo squittio.
“Ah, per mille Maledizioni Cruciatus! Ora BASTA!”
tuonò Eldrid. Un raggio di luce bluastra scaturì
dalla punta della sua bacchetta e colpì il pipistrello in
volo. Questi, tramutatosi in pietra, precipitò al suolo e si
ruppe in un fragore metallico e in una pioggia di piccoli pezzetti di
selce.
“Noooo, Rufus!” il proprietario si fece largo tra i
presenti ed iniziò a raccogliere uno ad uno i rimasugli del
suo animaletto affezionato. “Il mio povero Rufus!”
piagnucolò in una nenia dolente.
Senza il benché minimo briciolo di pentimento
né considerazione, Eldrid avanzò
nuovamente verso il Noce.
“Prima di proseguire, Tom, dimmi… chi ha avuto la
sfrontata audacia di rinchiuderti qui?”
“Harry Potter!” si percepì un debole
bisbiglio e poi “Lui!” uno dei rami si
allungò ad indicare un punto preciso oltre le spalle della
fattucchiera.
Tutti gli astanti si voltarono immediatamente nella direzione mostrata.
Per ultima la strega.
Un giovane uomo dai capelli scuri in contrasto con
l’incarnato pallido si ergeva ritto dinnanzi a loro.
“Il ragazzo sopravvissuto!” esclamò
Eldrid per niente sorpresa. “La tua reputazione ti ha sempre
preceduto!”
“Desolato di interrompere questa allegra
rimpatriata” replicò Harry in tono esplicitamente
ironico, gli angoli della bocca piegati in una smorfia compiaciuta.
“Non mi cogli alla sprovvista. Mi sono preparata a
convenienza per una possibile incursione” Eldrid emise una
sonora risata malefica che fece vibrare l’aria di echi di
anni di rancori radicati alle ostilità tra i seguaci di Lord
Voldemort e i Potter.
Un bagliore azzurrognolo scaturì come un potente getto
d’acqua a pressione dalla bacchetta della fattucchiera e si
disperse spegnendosi nel fitto della boscaglia. Una manciata di secondi
più tardi il terreno iniziò a vibrare sotto i
loro piedi ed al limitare della radura apparve un esercito di Salici
Piangenti, chiamati così per i pianti strazianti che
emettevano quando in autunno le loro foglie secche si staccavano
lasciando i rami nudi ad affrontare le gelate dell’inverno
imminente. La leggenda voleva che fossero state le loro lacrime a dar
vita al fiume che nasceva nella foresta e attraversava il villaggio.
Gli imponenti alberi dalle chiome flosce rivolte verso il basso
avanzavano in fila tra il fruscio sibilante delle liane che seguivano
un andamento oscillante ed il rumore cupo delle robuste radici che
scalfivano la terra in profondità. Schierati in formazione
d’attacco, fecero mulinare vorticosamente i loro rami
minacciosi simili a lunghi artigli di drago tutt’intorno ad
Harry. Una nuvola di terra e polvere si alzò
nell’aria inghiottendo tutta la scena nella sua spessa trama
di pulviscolo.
“Tutto qui quello che sai fare?” con uno scatto
d’agilità ferina Harry saltò oltre la
pesante coltre scura ed atterrò poco più in
là come se quel gesto non gli avesse richiesto alcuno sforzo
fisico. “Un gruppo di alberi buoni solo per farne legna da
ardere! Francamente mi sarei aspettato qualcosa di meglio dal braccio
destro di Voldemort!”
“Ah, piccolo presuntuoso! Questo non è che
l’inizio!” riconobbe Eldrid, con fare altezzoso,
fiera delle sue arti magiche. “Gar! Goyle!
Prendetelo!” ordinò ai due giganti di pietra,
sottomessi al suo volere. “E non lasciatevelo scappare!
Quando avrò terminato il rituale, ho intenzione di
torturarlo a mio piacimento prima di esporlo alla lenta agonia della
Maledizione Cruciatus!” aggiunse, beandosi di quel pensiero
gratificante che le regalò un brillio soddisfatto negli
occhi.
I due golem marmorei lasciarono la presa sulle due vittime sacrificali.
“Che state facendo, stupide teste di marmo?”
ruggì la fattucchiera montando su tutte le furie.
“Quello che ci hai ordinato!” ammisero
all’unisono i due colossi, scambiandosi un’occhiata
perplessa.
“Non vi ho ordinato di lasciar andare i prigionieri! Dateli a
me, grossi ammassi di sasso senza un briciolo di cervello!”
li rimproverò, livida in volto per la rabbia.
Prese in consegna le vittime dalle mani di pietra di Gar e di Goyle
prima che avessero il tempo di tentare la fuga e le trascinò
all’altare nero, proprio ai piedi del Noce, sul quale le
avrebbe immolate per restituire la libertà al Signore Oscuro.
“La prego, ci ripensi! E’ ancora in tempo per
tornare indietro!” la supplicò Ginny, tra urla
angosciate di disperazione. Lacrime copiose le rigavano le guance e
proseguivano lungo la sottile linea del collo ad inumidire
l’immacolato colletto della tunica sacrificale che
l’avevano costretta ad indossare. La piccola bimba che teneva
in grembo, di appena due anni, dormiva di un sonno pesante e beato come
può esserlo solo quello dei bambini ancora
nell’età dell’innocenza. Pareva che
nemmeno l’esplosione dell’intera foresta avrebbe
strappato quella creaturina fragile ed indifesa alle calde braccia di
Morfeo.
“Zitta! Non riesci a comprendere a quale onore sei destinata?
Far risorgere il Signore Oscuro! Ora purificati e preparati a compiere
la mia volontà!” Eldrid le porse una boccetta
contenente un liquido dall’aspetto poco invitante.
“Bevi!” le comandò severamente
forzandole la mano, che teneva stretta l’ampolla, alla bocca.
Un puzzo nauseabondo raggiunse le narici di Ginny.
“Bevi, ho detto!” la pressò ancora.
Nonostante tentasse con tutte le energie rimastele in corpo di
ribellarsi a quegli ordini, Ginny dovette soccombere e ingurgitare in
un sol fiato quella pozione ributtante.
A distanza di pochi metri, Harry stava escogitando un modo per tenere
testa all’indiscutibile forza fisica di quei mucchi di roccia
che erano Gar e Goyle.
“Ragazzi, andiamoci piano, ok? Perché non ne
parliamo un momento, eh?” voleva perdere tempo
nell’attesa che gli si accendesse in testa la lampadina di
un’idea brillante.
Ma i due titani non sembravano aver prestato orecchio alle sue parole.
Procedevano a passi pesanti verso di lui, con intenzioni
tutt’altro che amichevoli.
“Lei vi sta sfruttando! Vi ha soggiogati e vi usa come due
marionette!” esclamò indietreggiando di due piedi
ad ogni singolo passo che loro avanzavano. “Poi quando ne
avrà avuto abbastanza e non saprà più
che farsene di voi, vi distruggerà senza pensarci nemmeno un
secondo!”
Gar e Goyle, come destati da una lunga trance, si osservarono
sbigottiti. Le grosse mani di roccia calcarea, i fianchi di granito e
gli arti inferiori di marmo. Si ricordarono di un tempo in cui erano i
silenziosi guardiani della Torre d’Astronomia, dove gli
studenti di Hogwarts passavano intere nottate a studiare la rotazione
dei pianeti, la nomenclatura delle stelle e gli influssi della luna
nella creazione degli incantesimi di protezione. Tempo in cui erano
guardati con rispetto e sottile timore, più per la loro mole
che per il loro aspetto che non aveva nulla di spaventoso. Anzi,
avevano un grosso faccione da bonaccioni sotto tutti quegli strati di
calcare. Destinatari della fiducia che tutti i presidi riponevano nella
loro statica funzione di custodi e di protettori della scuola stessa.
“Ora ricordiamo!” esclamarono tutt’a un
tratto in coro. “Quella megera ci ha strappato alla nostra
pace dormiente ed ora avrà ciò che si
merita!” aggiunsero con la loro voce cavernosa, per niente
contenti dell’incantesimo al quale la vecchia strega li aveva
legati.
“Ben detto, amici!” fece Harry, tirando un sospiro
di sollievo.
Gar e Goyle, ora consci della sfacciataggine con la quale Eldrid li
aveva sottomessi ai propri ordini, si rivoltarono contro di lei in
tutta la loro ira marmorea.
“Come osate ribellarvi a me? Io vi ho dato la
vita…” li minacciò puntando nella loro
direzione la bacchetta magica “… ed io ve la posso
togliere!” come era già accaduto per
l’ignaro Rufus, un lampo bluastro fuoriuscì dalla
punta di legno e colpendo i due golem li restituì alla pace
eterna. “Ahahah!” una trionfante risata malefica
squarciò il silenzio che seguì.
“Insolenti!” fu l’acido commento di
Eldrid, che si perse poi in un altro accesso di beffarda
ilarità. “E adesso veniamo a noi!” si
voltò, riferendosi alle due sacrificande. “Questa
notte verrà ricordata nei secoli come una notte di festa per
tutti i Mangiamorte rimasti…” esordì
teatralmente rivolta alla cerchia di confratelli e di consorelle
radunatisi per assistere al ritorno del loro Padrone. “Noi
compiremo l’impresa straordinaria di liberare il nostro
Signore con il necessario sacrificio di due anime
innocenti…” proseguì tra gli applausi e
le acclamazioni festanti degli altri maghi. “Tra poco sarete
spettatori della sua nuova ascesa… egli camminerà
di nuovo tra noi in forma umana, seminerà il panico ed il
terrore in tutti i popoli, estinguerà ogni fiammella di Bene
ancora presente nel mondo magico ed instaurerà un nuovo
Regno, fatto di ombra e di oscurità. E
ricompenserà noi tutti in un modo che non riuscirete nemmeno
ad immaginare!”
“Bel discorsetto altisonante! Vorrei fare solo una breve
precisazione…” intervenne Harry, quasi divertito.
Si lisciò il bavero del mantello nero. “Oggi non
ascenderà proprio nessuno!” sillabò
parola per parola quell’ultima frase come a volerle conferire
un maggiore effetto.
“Sono stanca della tua impertinenza e sono ancora
più stanca delle tue sciocche interruzioni!
Metterò a tacere quella tua lingua arrogante una volta per
tutte!” sbottò la strega in uno sbuffo nervoso.
Estrasse un uovo di Lombrico Tentacolato dalla tasca del suo pastrano e
lo lanciò con forza ai piedi del ragazzo. Non appena
toccò il suolo, il guscio si spaccò a
metà e ne strisciò fuori un vermiciattolo dotato
di una dozzina di tentacoli che si ingigantirono e si allungarono con
la stessa rapidità con cui un mago esperto può
destreggiarsi nell’utilizzo della propria bacchetta.
L’agilità e la velocità di Harry non
contarono granché questa volta quando una di quelle membrane
viscide e mollicce gli afferrò un piede e
cominciò la sua scalata verso l’alto
avvinghiandosi ad ogni parte del corpo che incontrava sul suo cammino.
“Divincolarti come un ossesso non ti
aiuterà!” gli spiegò una voce alle sue
spalle. Data la sua situazione poco felice il ragazzo non
poté ovviamente voltarsi per riconoscere il suo
interlocutore.
“Quel fastidioso vermicolo ti stritolerà ancora di
più se continuerai ad agitarti per liberati. Se invece
manterrai la calma e fingerai indifferenza ti lascerà andare
da sé.”
“E tu chi sei?” fece Harry, valutando se seguire o
meno quel consiglio. Chi gli garantiva che fosse la soluzione giusta?
“Considerami pure un amico” ribatté la
voce.
Ad Harry non restava che fidarsi e tentare. Il lombrico si stava
arrampicando con inesorabile tenacia verso la sua gola. Il ragazzo
chiuse gli occhi e trasse un respiro profondo, obbligò la
propria mente a rilassarsi sempre di più fino quasi a cadere
in una sorta di sogno estatico. Si trovava nella foresta, una creatura
tentacolata lo teneva prigioniero nella sua stretta di
ferro… all’improvviso lo invase una sensazione di
torpore e provò il gradito sollievo della dolce scoperta di
essere di nuovo libero. Riaprì gli occhi. Il vermicolo stava
strisciando via, seguiva un sentiero che lo avrebbe condotto
nell’intrico del bosco, forse alla ricerca di un habitat
favorevole.
Harry si girò per dare un volto alla voce che lo aveva
aiutato. Un vecchio mago si stava allontanando nei primi raggi del sole
a cavallo di un grosso ramo nodoso. In una mano i resti di quello che
una volta era stato il suo fedele pipistrello.
“Fulmini e saette, si sta facendo tardi!”
gridò Eldrid, infuriata. “Dammi la bambina,
presto!” strappò la piccola dalle mani di Ginny,
la quale non riuscì ad impedirlo, sebbene ci avesse provato
con grandi sforzi.
“Lasciala!” intervenne Harry tempestivamente.
“Lascia subito andare mia figlia!”
“Ancora tu!” Eldrid sbarrò gli occhi per
la sorpresa. Forse aveva creduto di essersi sbarazzata di lui.
“Come sei riuscito a liberarti?” gli
domandò posando la bimba sull’altare. Le fiammelle
di alcuni ceri neri, disposti a formare il disegno di un serpente,
rischiararono quel faccino innocente. Due grandi occhioni scuri, di una
sfumatura intensa come puro cioccolato fondente, si spalancarono a
salutare il mondo e si richiusero serenamente subito dopo con uno
sbadiglio assonnato.
“Diciamo che ho avuto fortuna!” un sorrisetto
audace gli illuminò il viso conferendogli un’aria
di aperta derisione nei confronti dei trucchetti così poco
efficienti di Eldrid.
L’attempata fattucchiera, non potendosi più
permettere sprechi di tempo, decise di saltare i convenevoli e di
passare immediatamente al fulcro del cerimoniale. Al diavolo Potter e
tutta la sua famiglia!
Con tutte le intenzioni più empie di cui si poteva vantare,
impugnò un coltellaccio da macello. Sulla lama incrostata
del sangue di vittime di sacrifici passati baluginò il
riflesso del flebile luccichio dei suoi infossati occhi malefici.
Levò in alto l’arma, sopra la testa, e
vibrò un colpo deciso mirando al piccolo cuoricino.
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Capitolo 3 *** Il funerale ***
IMPORTANTE:
1) Nella mia storia
compaiono anche personaggi che non hanno nulla a che fare con il mondo
di HP ma che sono di mia invenzione.
2) Ai fini della
storia, Harry e Ginny hanno una sola figlia: Lily.
3) Nella lettera quasi
all'inizio del cap.3 gli errori di grammatica sono consapevolmente
voluti per rendere riconoscibile il personaggio pur non facendone il
nome.
4) Non mi resta che
ringraziarvi del tempo che dedicherete alla mia storia ed augurarvi
buona lettura. Un ringraziamento particolare a squidina e LaPerletta
per le gratificanti recensioni.
3.
Il Funerale
Ciò che può sembrare la fine è in
realtà un nuovo inizio.
“Io sono Wilford
Paciock… Un signore mi manda a portarti
questo…”
Harry
osservò il bambino davanti a lui. Era inequivocabilmente
figlio di Neville Paciock e Hannah Abbott. Aveva lo stesso
comportamento impacciato e indifeso che aveva connotato il padre
durante i primi anni ad Hogwarts. Gli sfuggì un sorriso nel
ripensare a quante volte aveva dovuto difendere Neville dai soprusi di
Malfoy e della sua gang di Serpeverde.
“Chi ti ha
mandato?”
“N…non
so come si chiama… non l’ho mai visto da queste
parti… era un signore grandissimo, con tanti capelli e tanta
barba… e…”
“E?”
“E puzzava
peggio di un animale!”
***
Harry,
a me mi pare che sono tornati …
E’ stata trovata una donna in un campo … Morta
…
L’Avada Kedavra la uccisa … Brutto segno!
Secondo me è opera di vecchi seguaci di Tu-Sai-Chi
…
Siete in pericolo!
R.H.
Harry rilesse quel biglietto per la quinta volta. Come aveva fatto a
non capirlo prima? Il corpo della giovane donna rinvenuta nel prato di
biancospini non presentava ferite evidenti, né alcun segno
di strangolamento o avvelenamento … Solo la più
potente delle Maledizioni Senza Perdono aveva potuto condurla alla
morte. Un Incantesimo Oscuro. Praticato con troppa leggerezza da chi
faceva abuso di Magia Nera: i Mangiamorte. La maggior parte era stata
condannata a finire i propri anni nelle celle di Azkaban, ma
evidentemente qualcuno era riuscito ad eclissarsi e ad evitare quella
pena.
Se solo ci fosse arrivato prima, ora non si sarebbe trovato
lì. A piangere una moglie morta e a preoccuparsi per il
futuro della sua unica figlia.
Le sue lacrime erano piccole gocce d’amore.
Il suo pianto un modo per dire che avrebbe voluto che fosse ancora
lì con loro.
Il suo modo per urlare al mondo intero che non l’avrebbe mai
dimenticata.
***
Il viso giovane e fresco di Ginevra Molly Weasley in Potter sorrideva
dalla fotografia esposta sull’altare della piccola chiesa.
Teneva in grembo la piccola Lily appena nata, un’espressione
di radiosa soddisfazione le illuminava il volto mentre si chinava sulla
creaturina e la riempiva di teneri baci. Destino crudele quello che
l’aveva strappata alle gioie della maternità e
della famiglia.
Centinaia e centinaia di gigli bianchi ornavano la navata centrale e
drappi di seta nera ricoprivano le panche di legno verniciato.
L’ultimo sole del pomeriggio giocava sul rosone centrale
lasciando filtrare all’interno spiragli di luce dorata come
impalpabili fili di miele che colavano sulla lucida lacca bianca della
bara. Onde di oro puro che sposavano l’immacolato candore
della sepoltura e della pelle delicata. Ginny aveva
un’espressione serena anche nel sonno eterno. Beatitudine che
sicuramente le derivava dall’estremo gesto di sacrificio per
amore della figlioletta.
L’avevano vestita con la divisa verde con
l’artiglio d’oro sul petto delle Holyhead Harpies,
la squadra di Quidditch dove aveva iniziato una carriera come
giocatrice professionista. La Federazione aveva indetto una giornata di
lutto per commemorare la triste e improvvisa scomparsa di una delle
giocatrici più talentuose.
Il pallore mortale del suo incarnato contrastava sia con il verde
acceso della tunica sia con il rosso vivo dei fiori di ibisco
intrecciati ai suoi capelli di una tonalità più
chiara.
Hermione Granger, accompagnata dal marito, avvicinandosi alla salma
ebbe la sensazione di trovarsi di fronte a un quadro di una bellezza
straziante. I fiori recisi che incorniciavano il viso
dell’amica le donavano un’aria ancora
più dolce e incantevole che in vita, nonostante fossero
anch’essi vicini alla morte. Da lì a poche ore il
loro profumo si sarebbe affievolito e i loro petali avrebbero
cominciato ad appassire.
“Abbiamo lasciato Hugo e Rose dai miei genitori e ci siamo
precipitati qui. Mi dispiace tanto, Harry!” gli occhi gonfi e
rossi erano la prova che Hermione aveva già pianto tutte le
sue lacrime. Ron, due occhiaie da notte passata insonne, si era unito
al resto della sua famiglia in una serie di abbracci di conforto. I
Weasley erano al completo. I due capofamiglia, Arthur e Molly,
occupavano la prima panca; le teste chine e le mani giunte. Alla
notizia della morte della loro unica figlia femmina parevano essere
invecchiati di colpo di dieci anni. Il Signor Weasley, a causa dello
shock, aveva perso gli ultimi capelli rimastigli e sua moglie, dal
canto suo, aveva smarrito la giovialità e la forza
d’animo che l’avevano sempre distinta come una
donna in grado di reagire a qualunque avversità.
Bill e Fleur, appartati in un angolo, stavano cercando di convincere la
figlia Victoire che quello che era successo alla zia Ginny non sarebbe
accaduto anche a lei. La piccola Victoire, di soli dieci anni, era una
bambina viziata e molto impressionabile. Tenuta dalla madre sotto una
campana di vetro, temeva perfino la sua stessa ombra ed era convinta
che qualsiasi disgrazia capitasse ad una persona a lei vicina, poi
sarebbe successa inevitabilmente anche a lei.
A qualche metro di distanza, Charlie misurava a grandi passi le
mattonelle di marmo della pavimentazione. La morte della sorella era
l’unico evento che era riuscito a distoglierlo dal suo
interminabile lavoro di ricerca sui draghi. Era arrivato da solo con
una manciata di metropolvere e, subito dopo la funzione, sarebbe
ripartito alla ricerca di qualche nuovo esemplare da studiare.
Dall’altro lato della navata, Percy, in un impeccabile
completo nero da lutto, guardava in cagnesco George. Da uomo pignolo,
noioso e rispettoso delle regole qual era, Percy non condivideva il
piccolo omaggio pirotecnico che il fratello aveva organizzato per dare
l’estremo saluto alla cara Ginny. Quel giorno George aveva
chiuso il suo negozio a Diagon Alley ed aveva preparato una serie di
fuochi d’artificio da sparare dopo la cerimonia funebre in
memoria della sorella.
“Come sta la piccola Lily? Dov’è
adesso?” Ron si avvicinò al suo migliore amico e
lo abbracciò con sentita preoccupazione.
“E’ con Hagrid… Ho pensato che fosse
meglio non portarla qui…”
“Harry, dobbiamo pensare a un posto sicuro dove nasconderla
…” intervenne Hermione, giocherellando
nervosamente con i petali di uno dei gigli posati sulle panche.
Elegante velluto sotto le sue dita e dolce profumo di vaniglia.
Il lugubre rintocco delle campane a morto echeggiò tra le
ampie volte delle navate della chiesa come intermittenti tonfi pesanti
ad annunciare l’imminente inizio della funzione.
“Harry, mi stai ascoltando?”
Il ragazzo sembrava assente, lo sguardo triste e vuoto davanti a
sé. Forse stava rivisitando nei suoi ricordi immagini di un
passato che ad ogni secondo sembrava assomigliare sempre di
più al futuro e che tornavano a tormentarlo come fantasmi di
una storia che si stava ripetendo.
Un incubo infinito.
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Capitolo 4 *** La Bambina Sopravvissuta ***
AVVISO:
Questo capitolo è liberamente ispirato alle vicende di Harry
neonato in Harry Potter e la pietra filosofale. La figlia Lily ne segue
le orme.
Compaiono ancora nuovi personaggi che sono di mia invenzione.
Grazie a PeaceS
che si è aggiunta a darmi sostegno!
Buona lettura!
4.
La bambina
sopravvissuta
L'amore è un'erba
spontanea e non una pianta in giardino.
Ippolito Nievo
A molte molte miglia di
distanza, in un luogo dove il tempo pareva essersi fermato e la natura
scandiva le giornate con i suoi lenti ritmi stagionali, sorgeva una
piccola città diversa da tutte le altre. Non era abitata da
maghi o streghe e non era nemmeno un insediamento babbano.
Bensì era popolata unicamente dalle creature più
docili e riservate che Harry Potter avesse mai conosciuto.
Il signore e la
signora Goradiel, elfi delle colline della città
d’Ambra, ne erano un chiaro esempio. Essi desideravano da un
po’ un altro bambino, non importava se maschio o femmina.
Volevano solo un piccolo batuffolo dalle orecchie a punta che riempisse
le loro vite e che diventasse il bastone della loro vecchiaia. Il loro
unico figlio Melvin era partito per il C.I.E. (Collegio
d’Istruzione Elfica), un istituto privato gestito da un
vecchio elfo sull’orlo della pensione, ed aveva abbandonato
la casa paterna per farvi ritorno solo saltuariamente durante le
vacanze.
La cosa
più traumatica e preoccupante per degli elfi era senza
dubbio l’invecchiamento: guardarsi un giorno allo specchio e
scoprire che l’armoniosa e aggraziata bellezza che li
accompagnava per tutta la loro lunga giovinezza stava sfiorendo
lentamente come i petali avvizziti di una rosa che appassisce e perde
il suo delicato profumo. L’arrivo di un bebè
sarebbe stato una manna dal cielo per quelle due anime tristi e
sconsolate.
Il signor Esilus
Goradiel era nato in una famiglia di contadini e seguiva le orme del
lavoro di suo padre. Era un ometto piuttosto basso e magrolino. Le sue
orecchie esageratamente appuntite superavano di almeno un piede
l’altezza della testa e gli erano valse
l’appellativo di “Mr Timpano”. Tutti gli
Ambrosiani convenivano che con quelle orecchie così lunghe
riuscisse a captare le conversazioni anche dei borghi più
remoti della città.
Sua moglie Pennetta
era la cuoca del paese. Donnona alta e robusta, era ridicolo vederla
passeggiare mano nella mano con il marito per le vie assolate di Ambra.
Gestiva “La Locanda dei Quattro Elementi” e la sua
cucina sopraffina era molto apprezzata dalla gente del luogo che spesso
frequentava i suoi tavoli. Le sue crostate di Mirtilli Scoppiettini,
così detti per il particolare scoppiettio che emettevano
quando masticati, andavano a ruba durante la tradizionale sagra annuale
di Sant’Ambrosio, l’elfo fondatore e patrono della
città.
Ambra sorgeva sul
pianale di una collina. Ogni strada, anche la più piccola,
portava il nome di un fiore o di una pianta, elementi naturali tanto
cari agli elfi, ed era lastricata di strati di resina gialla.
Così come ricoperte di resina, più scura, erano
tutte le abitazioni del popolino e la Residenza Signorile di Ferafer,
Re degli Elfi delle Colline.
Quando i coniugi
Goradiel si svegliarono la mattina di quel venerdì uguale a
tanti altri giorni caldi e soleggiati, in quel cielo terso e limpido
nulla faceva pensare che in realtà quello non sarebbe stato
un giorno come tutti.
Il Signor Goradiel si
vestì con la sua tenuta da lavoro: un grosso grembiulone
verde pieno zeppo di tasche, contenenti ogni tipo di strumento che
potesse tornare utile ad un contadino (forbici di vari tipi e misure
per potare, cimare e recidere i fiori; un piccolo coltello da innesti e
dei guanti di gomma), e dei calzoni corti che sfioravano
l’orlo degli stivali sopra il ginocchio. La signora Goradiel
invece lavorava ininterrottamente all’impasto di nuove
focacce che avrebbe poi cotto nel grosso forno a legna della sua
locanda. Le piaceva sperimentare sfiziose ricette da proporre come
specialità nel suo menu.
Quando il sole
già donava da qualche ora i suoi raggi benefici alle verdi
distese delle colline, Esilus uscì di casa accompagnato
dall’affettuoso saluto della moglie. Lo attendeva la consueta
giornata di lavoro nei suoi campi coltivati.
Fu proprio
all’incrocio tra Corso Betulla, dove si trovava la sua
casetta, e Vicolo Pino Silvano che gli parve di notare qualcosa di
insolito. Una lontra dalla pelliccia marrone intenso, che andava via
via schiarendosi nella parte inferiore del corpo, se ne stava
seduta su una mattonella di resina della strada. Un paio di occhiali
inforcati sul muso, era intenta a sfogliare le pagine di un libro con
le zampine palmate. La lunga coda affusolata frustava l’aria
ad ogni pagina voltata, come a scandire ogni movimento.
Gli sembrò
una cosa alquanto inusuale poiché Ambra era sempre stata una
città neutra, una sorta di Svizzera nel mondo magico: non vi
avevano mai abitato altre creature all’infuori degli elfi e
si era sempre tenuta in disparte nelle varie lotte che erano scoppiate
nel corso dei secoli tra una fazione magica e l’altra. Gli
Ambrosiani non avevano mai visto un essere magico che non fosse un
elfo. Non che non fossero a conoscenza dell’esistenza di
altre forme di vita, semplicemente per una scelta governativa della
monarchia reggente non erano mai entrati in contatto con loro.
Perciò, ora, vedere un mutaforma nella propria tranquilla
cittadina era un evento assai sconvolgente per il mite signor Goradiel.
Riprese a camminare
con passo deciso verso la Campagna Fertile, da sempre appezzamento di
abbondanti e fruttuosi raccolti, e quando si voltò, rapito
dalla curiosità, non credette ai suoi occhi quando si
ritrovò a ricambiare lo sguardo della lontra. Possibile che
quegli occhi vigili e indagatori stessero scrutando proprio i suoi?
Forse il caldo e la luce gli stavano provocando delle visioni assurde.
Scrollò le spalle, sulle quali portava il peso di un
rastrello e di una zappa, e scacciò dalle mente quelle
stranezze.
La sua giornata
trascorse spensierata tra una vangata alle patate dolci, una potatina
alle siepi di biancospino e una rastrellata delle zolle a riposo.
Dimentico degli
strambi accadimenti di quella mattina, sulla via del ritorno a casa,
era intenzionato a fermarsi alla “Taverna dell’Elfo
Ubriaco” per un boccale di fresca birra piperita, quando
davanti alla pesante porta di legno massiccio incrociò un
capannello di uomini e donne con bizzarri cappelli a punta che levavano
in alto calici colmi di sidro di mele, brindando ad eventi che il
povero Esilus non fu in grado di comprendere.
“…
hanno tentato di far risorgere l’Oscuro Signore
…”
“…
la piccola Lily si è salvata … proprio come il
padre tanti anni fa …”
Fu tutto
ciò che il signor Goradiel riuscì a cogliere di
quei bisbigli eccitati. Cambiò idea e invece di fermarsi
imboccò il viale ambrato di Corso Betulla.
A casa, Pennetta
stava leggendo con interesse una copia de “Il Corriere degli
Elfi”. Sibilla Bic, nota giornalista elfica, riportava nel
suo articolo una serie di eventi stravaganti verificatisi il giorno
prima in una contea della campagna inglese. Inspiegabili baluginii
colorati nel cielo sopra la foresta e gravi disagi agli Uffici delle
P.P, le Poste Prodigio (i gufi avevano ricevuto talmente tante consegne
da andare in tilt). Evidentemente era accaduto qualcosa di davvero
importante se si era scatenato un invio così ingente di
corrispondenza cartacea.
Non era arrivata
nemmeno a metà della lettura, quando il signor Goradiel
entrò tutto trafelato dalla porta. Aveva appena rivisto la
lontra di quella mattina, ancora ferma al solito posto. Era un
comportamento normale per una lontra?
“Esilus,
caro, che ti è successo? Sembri aver visto un
fantasma!” la moglie, messo da parte il giornale, gli si fece
incontro premurosa e lo aiutò a togliersi il pesante
grembiule da contadino.
“A dir la
verità, ho visto di peggio!” convenne lui,
passandosi una mano sulla fronte imperlata di sudore. “Credo
di star diventando pazzo!” ammise lasciandosi sprofondare con
uno sbuffo rassegnato in una morbida poltrona.
“Stai
vaneggiando! Dev’essere il caldo forse
…” Pennetta si massaggiò il mento, come
persa in una riflessione che sembrava richiederle un notevole sforzo di
concentrazione. “… ti vado a preparare una tisana
di biancospino …” decise, infine, avviandosi verso
la sua stanza preferita, la cucina. “Ti aiuterà a
rilassarti dalla fatica. Te lo continuo a ripetere ogni santo giorno
che stai lavorando troppo in quei campi. Per di più sotto
questo sole! Quando vorrai dare retta alla tua vecchia
moglie?” seguitò a parlargli anche mentre si
destreggiava tra infusi e colini, armeggiando ai fornelli.
“Hai
ragione, mia cara” le rispose il marito. Un sospiro di
accettazione gli uscì dalle labbra sottili.
“Grazie” soggiunse quando la signora Goradiel fece
di nuovo capolino in soggiorno reggendo un vassoio con due tazzone
fumanti d’infuso di biancospino. Pennetta appoggiò
con estrema cura il vassoio su un tavolino basso e porse una tazza al
coniuge, l’altra la tenne per sé.
“Pennetta,
cara, tu hai notato qualcosa di strano oggi alla locanda?” le
domandò il marito con una certa apprensione nella voce.
“No,
a parte alcuni forestieri, forse” la signora Goradiel
mescolava la tisana con un cucchiaino di legno per fare in modo che le
zollette di zucchero si sciogliessero a dovere.
“Forestieri,
hai detto?” Esilus formulò quella domanda con vivo
interesse. Non aveva ancora toccato un goccio dell’infuso che
la moglie aveva preparato così amorevolmente per lui.
“Si, alcuni
forestieri … elfi delle Terre del Nord, probabilmente
…” replicò lei con un sorriso
tranquillo, senza l’ombra di alcuna preoccupazione.
“…portavano ridicoli cappelli a punta”
aggiunse poi, ricordando lo stravagante abbigliamento che sfoggiavano.
“Quelli non
sono forestieri!” puntualizzò il signor Goradiel,
severo. “E nemmeno elfi!” si lisciò i
simpatici baffetti grigi con fare pensieroso.
“Per la
buona misericordia di Sant’Ambrosio, chi sono
dunque?” Pennetta saettò in piedi, allarmata, la
bocca spalancata per lo stupore.
“Non lo
so… ne ho visti un paio anch’io, stavano alla
Taverna dell’Elfo Ubriaco…” Esilus
mandò giù in un sorso solo l’infuso
“… quello che so di certo è che non
sono come noi!” e sbatté con forza la tazza vuota
sul tavolino. Il fragile ripiano di vetro si incrinò con un
rumore sinistro ed una miriade di crepe si formarono in superficie come
le tante diramazioni stradali di una mappa cittadina.
“Sei il
solito maldestro!” lo riprese Pennetta, accigliata.
“Guarda che hai fatto! Questo era il regalo di nozze del
povero zio Agrestus!” una luce malinconica le
baluginò negli occhi al ricordo della triste dipartita di
quel sant’elfo, schiacciato da un carro di fieno nella Piazza
del Mercato. “A volte mi domando se tu sia davvero figlio di
elfi! Non sei per niente aggraziato!” Pennetta riprese la sua
ramanzina.
“Perdonami,
cara… è che sono tremendamente preoccupato per
quei loschi figuri che si aggirano in città”.
Decise di non farle menzione dell’inquietante presenza della
lontra occhialuta proprio davanti alla loro casa, dal momento che lei
non sembrava averla notata.
Forse era stato
veramente il caldo a fargli immaginare di vedere cose che non
esistevano.
***
La
luna era la regina indiscussa del cielo quella notte. Un cerchio di
luce fatata attorniato da un corteo di stelle, damigelle invidiose che
vivevano nella sua ombra e venivano eclissate dal suo argenteo
splendore.
Spandeva la sua luce spettrale su tutta la città dormiente e
cullava i signori Goradiel in un sonno tormentato da incubi popolati da
strani esseri bizzarri mai visti prima.
Quando le campane della chiesa batterono la mezzanotte, si intravide un
movimento all’angolo della strada. Un paio di scarpe
sbucarono dall’ombra di un cespuglio selvatico. Un paio di
pantofole usurate sbucarono dalle fronde di un cespuglio di mirto
selvatico. Due gambette snelle avanzarono schiacciate dal peso di
un ventre prominente. Il mantello, una perfetta riproduzione
della mappa delle costellazioni, aderiva al pancione gonfio per poi
ricadere in una curva più morbida sui fianchi e sulle gambe.
Sulla testa pressoché calva portava un cappello a punta con
inserti di piume di araba fenice.
Era Sereno Animum, il nuovo Preside di Hogwarts subentrato dopo il
pensionamento della McGranitt. Ed era un tipo decisamente molto
più strambo di tutti quelli avvistati dagli Ambrosiani quel
giorno. Fortunatamente tutta la città era immersa in un
sonno profondo, cosicché nessun elfo poté
stupirsi di quello che stava succedendo.
Sereno Animum si portò proprio accanto alla lontra e la
scrutò con attenzione, facendo apparire dal nulla una
lanterna ad olio.
“Professor Mutor!” sentenziò qualche
istante dopo con sicurezza. “Lieto di trovarla
qui!” aggiunse con il suo tono abitualmente pacato e
cordiale. D’altronde era Sereno di nome e di fatto.
“Come ha fatto a sapere che sono io?”
domandò l’altro, ammirato.
“Riconoscerei i suoi occhiali ovunque! Montatura di
conchiglie del Mar Dolce!” ribatté con
convinzione. “Impossibile sbagliarsi!” aggiunse,
divertito.
“Devo decisamente migliorare i miei travestimenti!”
bofonchiò il professore a bassa voce.
Quando Sereno si girò a guardarlo per rispondergli, la
lontra non c’era più. Al suo posto era apparso un
buffo ometto dal volto oblungo, con un mantello variopinto ed i capelli
raccolti in una coda di cavallo. Sul naso adunco erano appoggiati gli
stessi occhiali che aveva portato l’animaletto.
“Esilarante detto da un insegnante di
trasfigurazione!” commentò l’altro
ridacchiando.
“Oh bé, non si finisce mai di imparare, mio
caro!” constatò Aquilino Mutor.
“E di stupire” rincarò Sereno.
Staccò una piuma di fenice dal suo cappello e la
utilizzò per grattarsi furiosamente la schiena.
“Da quando abbiamo portato i ragazzi in visita alla Pineta
Rovesciata, questo prurito continua ad infastidirmi. Devo essermi
appoggiato sbadatamente al tronco di qualche Abete Orticante”
spiegò agitandosi ridicolmente negli spasmi del prurito.
“Già… Ma a proposito di cose
stupefacenti…” l’altro cambiò
discorso “… è vero quello che si
mormora?”
“Sarebbe a dire?”
Il Professor Mutor raccolse l’invito di Sereno a specificare.
“Si vocifera che una perfida fattucchiera abbia tentato di
risvegliare Tu-Sai-Chi… e che Ginny Weasley sia morta per
proteggere la figlioletta… povera anima!” fece il
Professore, rattristandosi sempre più mano a mano che
procedeva nel racconto.
“Purtroppo è tutto vero” ammise Sereno
con un cenno sconsolato del capo.
“E l’intervento di Harry Potter?”
“A quanto si dice, quando Eldrid ha tentato di sacrificare la
bimba si è aperto un cono di luce accecante nel cielo. Il
Noce Infernale si è ridotto ad un ammasso di rami anneriti e
secchi, come se fosse stato arso dalle fiamme, e la strega si
è eclissata in una nuvola di polvere.” Sereno
Animum riportò per filo e per segno ciò di cui
era venuto a conoscenza.
“Morta?” si rallegrò Aquilino, portavoce
di quella speranza che stava prendendo largo nei cuori della maggior
parte della popolazione magica.
“Non ne sono molto convinto, al contrario di molti. Forse
è solo sparita, in attesa di tornare in un secondo
momento.”
“Spero vivamente che lei si sbagli”
“Ah, lo spero anch’io, Signor Mutor. Sarei
sorprendentemente felice di sbagliarmi!”
“E la bimba? Cosa ne sarà di lei?” la
preoccupazione malcelata nella voce.
“Samael Anatas è in volo in questo momento. La sta
portando qui.”
“Ha affidato la piccola nelle mani di un vampiro?”
fece l’altro, sconvolto da quella notizia.
“Mi sorprende, Professore! Non mi dica che una persona
intelligente e stimata come lei nutre ancora dei pregiudizi!”
ribatté uno strabiliato Sereno Animum. “Sono
più che certo che Samael non farà
alcunché di male alla bambina. Egli gode della mia
più incondizionata fiducia! Ragion per cui, da
quest’anno gli affiderò anche la cattedra di
Insegnante di Volo” aggiunse in un tono che non ammetteva
repliche.
Prima che il Professor Mutor potesse aprire la bocca per ribattere, si
udì un distinto battito d’ali ed una figura nera
si stagliò contro la superficie argentea della luna. Con gli
artigli delle zampe tratteneva saldamente un fagotto di stoffa.
“Eccolo!” lo indicò Sereno Animum.
“Perché non ha lasciato che fosse Harry Potter a
portarla?” avanzò Aquilino.
“Abbiamo convenuto che fosse più sicuro che la
portasse un persona meno riconoscibile, senza legami di parentela o di
sangue, nel caso qualcuno li seguisse! Harry li avrebbe seguiti da
lontano … sarà qui a momenti,
vedrà!”
“E perché non Hagrid allora?”
“Le pare che Hagrid sia poco riconoscibile?”
Il pipistrello si misurò in un atterraggio felpato e
depositò il fagotto a pochi passi dai due uomini. Un visetto
furbo e al contempo dolce fece capolino tra gli strati di coperte che
l’avvolgevano.
“Com’è andata? Vi ha visti
qualcuno?” si informò prontamente Sereno Animum,
con una piuma del suo buffo copricapo prese a solleticare le manine
della bambina che emise sommessi gridolini divertiti. Sembrava conscia
anche lei dell’importanza del non farsi udire da nessuno.
“Tutto a posto. Ha dormito durante tutto il viaggio e sono
certo che non ci abbiano né visti né
seguiti” rispose Samael, tornato alle sue sembianze umane. Un
giovane uomo dai lunghi capelli scuri, in contrasto con l'incarnato
mortalmente pallido, si ergeva ritto dinnanzi a loro in tutta la sua
imponente statura.
Si udì un lieve tonfo qualche metro più in
là, poi la figura di Harry emerse dall’ombra di
una casa.
“Ti sei materializzato?” lo rimproverò
Aquilino. “E se qualcuno ti avesse visto usare la
magia?”
Harry scosse la testa in segno di diniego. Era troppo sconvolto per
parlare. Era un incubo. La storia che si ripeteva. Solo che lui non era
più un bambino di due anni ignaro del Male che lo voleva
sopraffare, era un adulto che aveva visto morire la propria moglie e
tentare di uccidere anche la propria figlioletta. Ora poteva capire che
cosa dovevano aver provato i suoi genitori negli istanti prima di
soccombere.
“Se sono rimasti dei seguaci di Tu-Sai-Chi, devono essersi
dati alla fuga disperdendosi dopo la scomparsa di Eldrid!”
ipotizzò Sereno, decidendo di sviare il discorso.
“Così pare” sentenziò Samael,
lo sguardo da animale predatore capace di scrutare
nell’oscurità. Non c’era nessuno in
vista.
“Come misura precauzionale radunerò una squadra di
Auror e disporrò l’immediata ricerca dei
fuggitivi. Chi verrà catturato vivo, sarà poi
rinchiuso ad Azkaban” Sereno Animum rese note le sue
intenzioni, il volto improvvisamente severo ed autoritario.
“Ci assicureremo che non possano più nuocere ad
alcuno” precisò.
“Sono desolato per la tragica morte di Ginny” il
Preside, stregone dotato di grande sensibilità, espresse
tutto il suo cordoglio nell’espressione più
addolorata che un uomo potesse assumere. Poggiò una mano
sulla spalla di Harry come a volerlo sollevare dal doloroso peso che
doveva portare.
“Lo siamo tutti” intervenne Aquilino,
anch’egli sinceramente dispiaciuto.
“Lo so. Era una brava moglie e una splendida mamma”
Harry abbassò frettolosamente gli occhi lucidi.
“Che ne sarà ora di Lily?”
sviò immediatamente il discorso, per non abbandonarsi a
spiacevoli ricordi dolorosi che facevano troppo male anche ad un uomo
che aveva visto la morte in faccia innumerevoli volte.
“Credo che la mossa più saggia sia quella di
lasciarla qui” iniziò a spiegare Sereno Animum.
“Il Professor Mutor si trova qui da questa mattina ed ha
potuto studiare attentamente tutti gli Ambrosiani...”
aggiunse. “…quali sono le sue conclusioni,
Professore?”
“Dunque, vediamo…” tirò fuori
dalla tasca interna del suo mantello un taccuino in pelle e ne
sfogliò le pagine fino a trovare quella desiderata.
“… ci sarebbe la famiglia Darmawien, ma hanno
già tre figli, dei quali uno è il Consigliere
della Giunta per l’Espulsione degli Immigrati
Magici… quindi non è il caso di affidare la bimba
a loro, non ne sarebbero contenti, credo. Magari se si scoprisse che la
bambina ha qualche potere, la espatrierebbero Dio solo sa dove! In
questa città non vedono di buon occhio le altre creature
magiche, a meno che non abbiano le orecchie a punta!” con una
piuma di barbagianni scarabocchiò una croce sul nome dei
Darmawien.
“Le garantisco che Lily non ha alcun potere
magico… me ne sono accertato di persona. È una
piccola maganò. La accoglieranno bene, ne sono
certo!” lo interruppe Sereno.
“Allora forse la signora Comarian…” si
concesse qualche secondo per riflettere “… mmm,
no, non va bene… ho scoperto che è la pettegola
del paese, affidarla a lei significherebbe far sapere subito a tutti
che la bambina si trova qui e magari metterla in pericolo!”
un’altra croce su quel nome.
“Poi c’è Padre Eremitus, ma è
un prete, quindi non…”
“Signor Mutor, è venuto qui a fare un censimento o
ha trovato qualcuno di adatto?” sbottò Samael
scocciato per l’attesa.
Il Professore tacque di colpo, l’espressione ferita del suo
volto denotava una profonda permalosità di carattere.
“Suvvia, non se la prenda, Aquilino! Il nostro amico, qui,
è solo ansioso di sapere” ci pensò
Sereno a quietare gli animi. “Samael, devo ricordarti che non
tutti apprezzano il tuo spiccato senso dell’umorismo. Il
Signor Mutor, in quanto serio e stimato docente, nonché
brillante intellettuale e scrittore di testi magici, non è
uso a queste battute di spirito… ragion per cui, cerca di
mostrargli un po’ di rispetto!” si rivolse poi al
redivivo.
“Voglia perdonarmi, esimio Professor Mutor” il
vampiro si esibì in un inchino eccessivamente esagerato.
“Cortesemente, mi potrebbe concedere l’immenso
onore di profferire con quella sua saggia bocca il nome della famiglia
da lei prescelta con cotanta scrupolosa diligenza?” e poi
“Così va meglio?” sorridendo estasiato e
strizzando l’occhiolino ad un rassegnato Sereno Animum.
“Ma certo, ma certo!” rispose
quell’altro, tutto trepidante ed entusiasta di quella
soddisfacente dimostrazione di rispetto, ignaro delle intenzioni
ironiche del vampiro, celate tra le righe. Riprese a scartare i fogli
del suo taccuino con attenta concentrazione.
“Ah si, ecco finalmente! I coniugi Goradiel sono
ciò che fa al caso nostro!” esclamò
rallegrandosi. “Sono due rispettabili cittadini, desiderosi
di avere un altro figlio” aggiunse.
“Bene! Sono certo che ameranno Lily e si prenderanno cura di
lei… anche se non è un elfo”
garantì Sereno con sicurezza.
“Dunque è deciso?” domandò
Harry tentando di nascondere la malinconia nella voce.
“E’ meglio così per tutti, Harry! La
bambina sarà più al sicuro qui, protetta dagli
elfi che non tollerano l’invasione di altre razze. Con noi
per adesso sarebbe esposta a troppi pericoli… almeno
finché non ci accerteremo che la minaccia è
lontana” Sereno gli ripeté il discorso che avevano
già affrontato quella mattina presto quando si erano
incontrati nel suo studio per discutere il da farsi.
“Nessuno verrebbe a cercarla qui”
concordò Aquilino.
“D’accordo” fece Potter con aria di
rassegnata accettazione.
“Ma potrai sempre starle accanto e tenerla
d’occhio…” gli concesse Sereno
“…senza farti notare, però”
gli ricordò infine. “E quando i tempi saranno
maturi, verrai a riprendertela!”
Con la mestizia nel cuore ed una solenne promessa da mantenere, Harry
Potter salutò la figlioletta e si
allontanò senza alcun rumore nella notte. Quando si
voltò indietro per un ultimo sguardo, anche il Preside
Animum, il Professor Mutor e Samael il Redivivo erano scomparsi
lasciando quel tenero fagottino davanti al cancello dei signori
Goradiel.
In tutte le vie della città, nascosti da indiscreti occhi
elfici, si erano radunati un sacco di maghi e di streghe.
Erano giunti fin lì per rendere omaggio e brindare a “Lily Potter, la
bambina sopravvissuta”.
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Capitolo 5 *** Il Bosco degli Omini Gialli ***
5.
Il Bosco degli Omini Gialli
Non dare mai spiegazioni:
i tuoi amici non ne
hanno bisogno
e i tuoi nemici non ci
crederebbero comunque.
Elbert
Hubbard
La
mattina seguente i coniugi Goradiel erano stati svegliati da acuti
vagiti intervallati a profondi singhiozzi.
Scesi
in strada, il primo raggio di sole mattutino aveva illuminato un
esserino sbraitante, che agitava in aria le piccole manine rosee. Stava
tentando di scacciare una Dispettina, un insetto dagli sporgenti occhi
rossi il cui passatempo preferito era quello di procurare fastidi
soprattutto ai bambini.
“Sciò!
Sciò!” il signor Goradiel lo scacciò
con una brusca manata.
“Ma
che cos’è?” domandò Pennetta,
indicando la bambina che ora si era calmata ed osservava i due con
tacito interesse.
“Non
vedi, cara? E’ un cucciolo!” dedusse Esilus,
pavoneggiandosi di fronte alle scarse doti intuitive della moglie.
“E
di cosa?” ribatté l’altra, poco
convinta. “Non di elfo certamente! Secondo me è
pericoloso!” esclamò con una smorfia risoluta sul
viso rubicondo.
“Bubbole!
Ma certo che è un cucciolo di elfo! Per mille rape rosse,
donna, non sai riconoscere nemmeno un tuo simile?” fece il
signor Goradiel sconcertato.
Pennetta
parve rifletterci un po’ su. “Ma dove sono le
orecchie?” gli fece notare l’assenza delle
caratteristiche orecchie elfiche a punta.
“Oh,
quelle spunteranno… vedrai!” Esilus mise a tacere
i suoi dubbi con un gesto della mano che voleva scacciare ogni tipo di
pensiero contrario. “Al povero zio Agrestus, che riposi beato
in un prato di biancospini, non spuntarono che
all’età di quattro anni!” soggiunse,
pronunciando con dovuto rispetto il nome del defunto.
“Dunque
tu sei certo che sia un elfo?” volle assicurarsi la moglie.
Esilus
si avvicinò al fagottino. Due occhietti verdi gli sorrisero.
Su un lembo della copertina era appuntato un biglietto. Vi era scritto
solo un nome, in semplici caratteri vergati con inchiostro dorato:
Lily.
“Si!
Come sono certo che domani il sole tornerà a splendere su
tutta Ambra!” replicò lui. “E’
una femmina” aggiunse poi, dopo averne letto il nome. A
Pennetta quello sembrò un segno del destino. Finalmente
qualcuno aveva esaudito le sue preghiere e le aveva mandato il bambino
tanto desiderato.
“Che
ne facciamo?” le chiese il marito.
“La
teniamo!”
Sebbene fossero
trascorsi due lustri, a Lily Goradiel non erano ancora spuntate le
orecchie a punta. Nonostante questo, ormai i due elfi si erano talmente
affezionati che avevano smesso di farsi domande e la consideravano
comunque una di loro. Dal canto suo, Lily non ci trovava nulla di
strano nell’avere una mamma ed un papà con le
orecchie appuntite. Riteneva che la somiglianza fisica non fosse un
metro di valutazione sufficiente ad indicare la maternità o
la paternità di qualcuno, dunque non si era mai posta alcun
dubbio o interrogativo.
Si avvicinava la data
del suo compleanno, che i coniugi Goradiel avevano fatto coincidere con
il giorno del suo ritrovamento, e Lily trascorreva le sue giornate
dividendosi tra le lezioni alla S.A.S.S.O. (Scuola per Alunni Semplici
e Studenti Ordinari) e le frequenti visite ai campi coltivati di
Papà Esilus, dove si stava documentando per superare il test
di “Innesti e potature delle coltivazioni elfiche”.
La S.A.S.S.O. era una scuola per tutti quegli elfi che non possedevano
alcun talento o abilità speciale. I signori Goradiel
avrebbero tanto desiderato iscrivere Lily al C.I.E, lo stesso collegio
dove aveva studiato Melvin, ma la Giunta per l’Istruzione di
tutti gli Elfi delle Colline non aveva approvato la sua iscrizione.
Aveva respinto la richiesta adducendo in risposta che la ragazzina non
possedeva i requisiti necessari, in quanto non era un elfo a tutti gli
effetti. A quel punto, non potendosi permettere la retta di un
istitutore privato, a quell’epoca privilegio esclusivo della
casta regnante, ai due coniugi non era rimasto che iscrivere la
beneamata figlioletta alla S.A.S.S.O.
Tutto aveva il sapore
dell’ordinario in quell’istituto. A partire
dall’incisione sulla facciata dell’edificio
“Entrate voi che non ambite a nulla di speciale”
che lasciava presagire già un dozzinale programma di studi
ed un arredamento decisamente poco curato nelle aule.
A dispetto del motto
della scuola, il percorso scolastico di Lily era sempre stato
costellato di successi ed i suoi voti non scendevano mai sotto la
soglia del lodevole. Mostrava una spiccata dote di velocità
d’apprendimento ed una fervida immaginazione.
Tant’è che l’insegnante di Zoologia
Elfica ne restò profondamente scombussolato durante una gita
al Bosco degli Omini Gialli. Nelle tradizioni folcloristiche di Ambra
si narrava di spiritelli minuscoli, abitanti delle conifere che
cingevano la collina come un muro verde invalicabile. Lavoratori
solerti, si diceva fossero stati loro a trasformare e levigare la
resina che era servita a costruire ogni via ed ogni casa di Ambra. Ma
nessuno li aveva mai visti poiché erano esseri molto timidi,
che si aggiravano per i boschi solo quando erano certi che non ci fosse
nessun altro e che uscivano di rado dal loro habitat.
“Bambini,
vi ricordo che siamo qui per cercare esemplari di Dispettine”
Bianco Spinus, docente di Zoologia, istruì i propri alunni
una volta varcato l’ingresso del bosco.
In paese si
bisbigliava che fosse un Elfo Mezzosangue, nato dalla bizzarra unione
di un’elfa di razza e un leprecauno delle Regioni
Meridionali. Bianco Spinus era un tipo molto particolare: dal padre
aveva ereditato il tipico pelo rosso dei leprecauni e la bassa statura,
nonché dei dentoni da coniglio che gli causavano
un’imbarazzante difetto di pronuncia della esse (che egli
pronunciava come effe ogniqualvolta si innervosiva o si sentiva sotto
pressione).
“Procedete
in fila indiana e se ne avvistate una dite
“Aaalt!”, così tutti potremo fermarci ad
ammirarle!” proseguì. “E non strappate
foglie o fiori… gli alberi non gradiscono. Sono nostri amici
e per questo dobbiamo rispettarli” li avvisò.
Ben presto si
ritrovarono ad attraversare un punto in cui la foresta si faceva
più intricata. I rami scendevano quasi fino a terra rendendo
difficoltoso il passaggio ed oscuravano la luce del sole con
l’infittirsi delle loro fronde.
“Rimanete
uniti e non staccatevi dal gruppo per nessun motivo!” li
ammonì l’insegnante.
Lily era
l’ultima della fila ed i suoi occhi curiosi vennero attirati
dai colori accesi delle bacche di un cespuglio le cui ramificazioni
sporgevano sul sentiero. Attratta dal rosso vermiglio di quelle
palline, Lily si arrestò ed allungò una mano per
staccarne una.
Una piccola sfera
rossa di consistenza gommosa che svettava tra tutto quel verde. Emanava
un profumo invitante, a metà via tra la freschezza della
frutta raccolta da Papà Esilus e la zuccherata fragranza
delle succose marmellate di Mamma Pennetta. Nonostante gli ammonimenti
dell’ insegnante, la ragazzina credeva di poter fare un
regalo gradito alla mamma. Riusciva già ad immaginare il suo
faccione gioioso quando si sarebbe vista recapitare quel tesoro delle
stesse sfumature dei rubini.
Nel frattempo la fila
di ragazzini si era allontanata.
“Io non lo
farei!” la sorprese una vocetta acuta. La ragazzina si
bloccò e si guardò attorno per scoprire chi
avesse parlato.
“Chi
è stato a parlare?” chiese, tranquilla. Molti
altri bambini sarebbero scappati a gambe levate. Trovarsi da soli nel
fitto di una foresta, su un sentiero sperduto, con una voce sconosciuta
che ti parla… poteva essere considerato un incubo per dei
ragazzini poco coraggiosi. Ma Lily Potter di coraggio ne aveva da
vendere.
“Chi ha
parlato?” ripeté, non avendo ricevuto risposta
alla prima domanda.
“Sono qui!
Non mi vedi?”
Lily seguì
con lo sguardo la direzione da cui le era parso fosse giunta quella
voce. Dalla corteccia resinosa di un abete bianco, si staccò
un piccolo esserino. Era simile ad un bambino in miniatura, non
più grande di una cavalletta, ed era completamente giallo,
quasi fosse fatto di resina viva. Senza fretta, si portò ai
piedi di Lily.
“Prendimi
in mano o mi verrà il torcicollo a forza di guardare in
alto!” le disse.
La ragazzina rimase
sbigottita per alcuni istanti. Non le era mai capitata una cosa simile,
nemmeno nelle sua più fervida fantasia.
“Allora,
cosa aspetti? Questa posizione è scomoda!” si
lamentò lo spiritello, massaggiandosi il collo.
“Oh,
si…” fece Lily, riavutasi dalla sorpresa
“…scusa!”. Si inginocchiò ed
aprì il palmo della mano destra. Il piccolo essere vi
saltò prontamente sopra.
“Così
va molto meglio, grazie!”
La ragazzina si
rialzò.
“Io sono
Gnam Gnam. Non è che hai visto dei datteri qui
attorno?” le domandò spalancando le narici e
fiutando a fondo l’aria alla ricerca
dell’inebriante profumo di quei frutti succulenti.
“Noi Omini Gialli andiamo matti per i datteri!”.
“Ehm…
no, credo di non averne visti, mi dispiace” rispose Lily,
rattristata di non poter essere d’aiuto a quel simpatico
tipetto. “Io mi chiamo…”
“Lily! So
chi sei!” ribatté l’altro senza darle il
tempo di finire.
“E tu come
fai a sapere il mio nome?”
“Ma cara,
tutte le creature magiche sanno chi sei!”
Prima che Lily
potesse afferrare il significato di quella frase si udì la
voce del Professor Bianco Spinus che la chiamava da non molto lontano.
“LILY? LILY? DOVE SEI? LILYYY?”
“Devo
andare ora! Sii prudente, cara!” sussurrò lo
spiritello e con un agile balzo si tuffò fra i rami di un
ginepro.
“Aspetta!
Che significa?” gridò la ragazzina.
“Ehi, Gnam Gnam, torna qui!”.
Ma ormai era tardi.
L’Omino Giallo era già lontano.
“Lily,
avevo detto di non staccarsi dalla fila!” la
rimproverò il docente quando la raggiunse.
“Lo
so…” colta in flagrante, lei abbassò
gli occhi “… ma io ho visto un Omino
Giallo!” esclamò a mo’ di
giustificazione.
“Cos’hai
visto tu?” Bianco Spinus non credeva alle sue orecchie.
“Si…
mi ha parlato…ma poi qualcosa l’ha spaventato ed
è fuggito! Credo sia stata la sua voce a farlo fuggire,
Professor Spinus!”
“Lily, non
si dicono le bugie! Lo sai cosa succede ai bambini che raccontano
bubbole?” fece lui puntandole un dito in faccia.
Lily scosse la testa,
i grossi occhioni scuri spalancati.
“Beh, se un
bambino dice una bugia…” la fissò negli
occhi con un’espressione di severa ammonizione
“…di notte arriva il Folletto Veritiero a
mordergli la lingua!” concluse facendo sbattere i suoi
dentoni da coniglio.
La ragazzina
inorridì.
“Tu vuoi
che il folletto venga a morderti?”
Lily negò
con un sicuro cenno del capo. “Io non sono una
bugiarda!” esclamò ad alta voce. “Quello
che ho detto è vero!” sembrava quasi offesa per
l’insinuazione del maestro.
“Ah si? E
cosa ti avrebbe detto questo Omino?” fece il Professore in
tono condiscendente.
“Si chiama
Gnam Gnam e sa il mio nome e dice che tutte le creature magiche mi
conoscono!” rispose tutto d’un fiato.
“Non
è vero! Non è vero! Non è
vero!” canticchiò uno dei suoi compagni
trotterellandole attorno con fare canzonatorio.
“Lily
dall’orecchia liscia si è inventata
tutto!” la prese in giro un’altra ragazzina.
“Lily senza
orecchie a punta è una bugiarda!”
esclamò un altro facendole una linguaccia.
Lily non rispose alle
loro provocazioni. Era abituata a quelle stupide battutine sin dai
tempi dell’asilo. La maggior parte dei bambini
l’aveva sempre presa di mira per il fatto che non aveva le
orecchie come quelle di tutti gli elfi.
Desiderò
solo che a quei tre spuntassero un paio di orecchie da asino,
così avrebbero smesso di deridere le sue e si sarebbero
preoccupati delle loro. Ed il giorno dopo a scuola non avrebbe creduto
ai suoi occhi quando i suoi tre perfidi compagni si sarebbero davvero
presentati in classe con lunghe orecchie d’asino.
Lily si
allontanò di corsa, lasciando il Professor Bianco Spinus
impressionato da quella rivelazione. I piccoli occhi
dell’elfo si strinsero in una smorfia perfida a scrutare le
zone d’ombra dei sinuosi sentieri del bosco prima di voltarsi
e fare ritorno al suo gruppo di allievi. Quella sera avrebbe
avuto qualcosa di molto interessante da riferire e la Padrona ne
sarebbe rimasta soddisfatta.
***
Il cielo era strano. Le
nuvole si agitavano e si gonfiavano come grosse bolle piene
d’acqua, in attesa di scoppiare e riversare sulla terra le
loro lacrime fredde.
Al limitare dei campi
coltivati dal signor Esilus Goradiel, la recinzione del vecchio
cimitero sconsacrato si stagliava ancora sullo sfondo. Il venticello
serale che spirava dalle brughiere del nord portava con sé
il sinistro cigolio dello sgangherato cancello arrugginito che si
apriva e si chiudeva come spinto da una mano invisibile.
Quel camposanto era
stato teatro di alcuni eventi spiacevoli tempo addietro. Nei primi anni
della Reggenza di Ferafer si era diffusa in città una grave
pestilenza che stava lentamente falciando e decimando la popolazione
elfica. In quel periodo carretti di legno straripanti di cadaveri
percorrevano le vie, notte dopo notte, per portare il loro macabro
carico alle fosse comuni del cimitero.
L’epidemia
portava con sé anche una preoccupante forma di depressione
psichica che contribuì a creare il clima ideale per
l’insorgere del panico. Ben presto, gli Ambrosiani
incolparono Terry Zappo, giardiniere e becchino del camposanto, di
negligenza. Essi, infatti, ritenevano che la malattia si fosse diffusa
a causa delle sepolture in fosse pressoché a cielo aperto,
poco rispettose dell’ambiente e soprattutto delle norme di
igiene. La gente, temendo il diffondersi delle infezioni, si liberava
al più presto dei malati, abbandonati dagli stessi familiari
per paura del contagio. In quell’atmosfera di terrore e
follia cominciarono a verificarsi di frequente casi di elfi sepolti
vivi accidentalmente. Persino alle persone che si trovavano
semplicemente in stato di ubriachezza poteva capitare di essere sepolte
vive. Una morte atroce: prima la vaga consapevolezza
dell’accaduto, poi il panico e gli inutili tentativi per
liberarsi ed infine la lunga agonia causata da un lento soffocamento.
Ogni singolo elfo
aveva un’unica convinzione in testa: era tutta colpa di Terry
Zappo.
“L’ho
sempre detto che beveva come una spugna e che non era in grado di
assumersi le responsabilità del suo lavoro!” si
era sentito dire da più di un elfo in città.
Terry venne
arrestato, per buona pace dei cittadini, in quanto ritenuto
responsabile del dilagare dell’epidemia e quella notte
stessa, in una cella delle prigioni del Palazzo Regio, si tolse la vita
smettendo di respirare. Non riusciva a sopportare l’idea di
essere utilizzato come il capro espiatorio di una pestilenza che si era
diffusa come una catastrofe naturale e non per qualche suo demerito.
Successivamente quel
cimitero era caduto in disuso ed in un decreto regio Ferafer ne
ordinava lo smantellamento e destinava la campagna al di fuori della
cinta muraria cittadina a luogo di sepoltura, onde evitare altri
disordini e l’insorgere di nuove epidemie dovute alla
vicinanza di morti e vivi.
Le lapidi
più piccole erano state completamente distrutte e
l’intero suolo cimiteriale era stato consegnato alla furia
purificatrice del fuoco.
A distanza di anni
sopravvivevano solamente alcune cappelle private e una dozzina di
mausolei di pietra corrotti dal tempo e dalle fiamme. I muschi ed i
rampicanti avevano trovato il loro habitat ideale tra quelle
costruzioni dimenticate e crescevano rigogliosi guadagnando di giorno
in giorno sempre più terreno.
Il Signor Goradiel,
dopo una stancante giornata di lavoro nei campi, si sorprese nel vedere
accendersi una luce in una delle vecchie cripte trascurate. Si
strofinò gli occhi, incredulo. Ultimamente gli stava
capitando di vedere troppe cose strane.
“Per tutti
i funghi prataioli, non può essere vero!”
esclamò quando, riaperti gli occhi, notò ancora
quella luce. Spinto dalla sua indole di elfo curioso e ficcanaso, si
risolse ad andare a controllare. Tutti gli Ambrosiani conoscevano la
storia dell’antico camposanto che da quella tragica epidemia
era sempre rimasto chiuso. Abbandonato e tetro, abbarbicato su un
pendio oltre i campi, destava in tutti coloro che alzavano lo sguardo
in quella direzione un brivido sgradevole, a riprova delle cupe morti
di cui era stato testimone e teatro.
Al Signor Esilus
parve molto strano che qualcuno si aggirasse a quell’ora in
quel luogo.
Si
arrampicò sul ripido sentiero che conduceva
all’imponente cancellata di ferro. Ogni tanto si concedeva
una sosta perché le sue gambette smilze non erano
più agili come una volta, anch’esse cominciavano a
sentire il peso dell’età che avanzava.
“Ah…”
sospirò riprendendo fiato “…non sono
più quello di un tempo! Quando lo zio Agrestus era ancora in
vita, benedetto elfo, avrei affrontato questa salita di corsa, senza
fermarmi nemmeno una volta!” pensò, sconsolato
all’idea di invecchiare.
Giunto in cima,
trovò il cancello stranamente aperto. Dandosi
un’occhiata intorno intravide un bagliore provenire dalla
sottile fessura dell’ingresso di uno dei mausolei. Gli
arbusti e le erbacce avevano trasformato quel luogo in una giungla
selvaggia ed avevano quasi raggiunto la sua altezza.
Si
avvicinò con cautela, senza far rumore, e si
bloccò in una posizione che gli consentiva di mettere a
fuoco una porzione della stanza.
“Come hai
fatto a salvarla?” dall’interno giunse una voce
d’uomo. Suonava sbigottita ed estasiata in egual misura.
“Mi sono
occupata di Lei per questi dieci anni e sono riuscita a rimetterla un
po’ in forze…” rispose una donna. Quella
voce femminile per un momento gli parve familiare.
“…prima
era solo un ammasso informe di materia … certo ora
è comunque molto debole, ma…”
“Dov’è
Momordi?” la interruppe un’altra voce femminile.
Sembrava provenire da un catafalco di marmo. Ma Esilus non
riuscì a vedere chi aveva parlato.
“Io…
non lo so, Potentissima!” dichiarò un timbro
maschile.
“E’
andato a perlustrare la zona” ribatté
l’altra donna.
“Dovrete
procurarmi presto del cibo…mi sento stanca… senza
forze”
“Ma siete
sicura che funzionerà?” avanzò la voce
femminile.
“Più
che sicura!” replicò l’altra in tono
glaciale. “Stai avendo dei ripensamenti? Ti vuoi tirare
indietro?” sbottò, minacciosa.
“Lei non
voleva dire questo, Potentissima!” intervenne
l’uomo. “E’ che… sono sorte
delle complicazioni…” continuò esitante.
“Quali
complicazioni?” tuonò la voce dal catafalco.
Esilus Goradiel era
sempre più confuso. Che razza di persone si potevano riunire
di notte in cimitero sconsacrato, abbandonato da anni?
“La
ragazzina… riesce a parlare la lingua delle creature magiche
più rare…forse questo potrebbe essere un
problema!”
“Ed in che
modo questo dovrebbe essere d’ostacolo al piano?”
“Di sicuro,
a quest’ora tutta Hogwarts si starà mobilitando.
Schiere di maghi si saranno accorti dei poteri della
ragazza… non la lasceranno priva di protezione… e
non potremo agire indisturbati”.
“La
uccideremo lo stesso!” sentenziò la voce della
donna nascosta, senza alcun indugio. “In un modo o
nell’altro! Aspetteremo che la credano al sicuro e poi
colpiremo quando meno se l’aspettano!”
Al signor Goradiel
tremavano le mani. Quei tre delinquenti stavano progettando un omicidio!
Udì un
ringhio basso poco distante da lui e quando si voltò si
ritrovò faccia a faccia con un bestione nero
dall’aria aggressiva. Aveva la testa ed il corpo di un cane,
mentre le zampe erano quelle di un caprone. E portava un grosso collare
spinato che gli cingeva il collo tozzo e massiccio. Esilus chiuse gli
occhi, il cuore attanagliato in una morsa di terrore. Il cane gli
passò accanto ed entrò quatto quatto nella
cappella dove si trovava la propria padrona.
“Momordi!
Eccoti!” la voce femminile, ancora senza volto, gli
accarezzò il testone peloso e sembrò prestare
molta attenzione ai sommessi latrati del cane. “Momordi porta
buone nuove. Dice che c’è un vecchio elfo proprio
fuori dalla porta… che ha sentito tutto quello che ci siamo
detti!”
Il signor Goradiel
deglutì scioccato, rivoli di sudore freddo gli pizzicavano
il naso e le guance, percorrendo poi la linea del collo fino a
chiazzare più giù la sua tuta da lavoro. Avrebbe
desiderato più di tutto scappare, ma le sue gambe stanche e
tremolanti non ne volevano sapere di rispondere alla sua
volontà. Avvertì dei passi e poi la pesante porta
d’ingresso si spalancò. Un elfo lo fissava con
occhi truci dalla soglia. Il povero Esilus era troppo spaventato per
riuscire a muovere anche solo un passo.
“Suvvia,
non essere scortese. Fai accomodare il nostro ospite!”
esclamò la donna misteriosa.
“C…ccc…chi
sssiete voi?” anche la voce tremava allo spaurito Signor
Goradiel.
“Non ha
importanza chi siamo!” giunse la secca risposta dal catafalco
nell’ombra.
“Piuttosto
chi sei tu? E perché ci stavi spiando?” intervenne
l’elfo che aveva aperto la porta.
“Mmm…ma
io ti conosco… tu…tu sei…”
L’elfo si
spostò di lato ed il Signor Esilus riuscì a
distinguere la terza figura nella stanza. La confusione lo travolse
come un fiume in piena che spacca gli argini e le dighe ed esonda come
una furia. Sbiancò e prese a farfugliare: “P
… Pe…”
Ma prima che lo
sventurato contadino potesse concludere la frase, un fascio di luce
azzurra lo colpì in pieno volto ed il poveretto si
accasciò a terra, privato di ogni energia vitale.
“Non mi
sono mai piaciuti gli spioni!” commentò
l’uomo che aveva posto fine alla vita dell’elfo. La
bacchetta ancora fumante tra le mani.
“Finalmente
si mangia!” sospirò la voce senza volto.
***
“Ammetto
di essermi sbagliato!” fece Sereno Animum. “Eppure
dieci anni fa ero sicuro della mia ispezione. La piccola non aveva
mostrato alcun potere speciale!” aggiunse, perplesso.
“Forse perché non era ancora in grado di
parlare!” avanzò il Professor Mutor come ipotesi.
“Saggia supposizione, Professore!” gli concesse il
Preside.
Dal buio emersero due figure incappucciate.
“Harry! Samael! Notizie?” domandò Sereno
con apprensione.
“Si… e purtroppo non sono buone!” fece
Potter.
“Il Noce Infernale è rinverdito, non so
come… suppongo non sia un buon presagio!” aggiunse
Samael.
“Ne avevo il sospetto. Ma speravo fossero solo le cupe paure
di un vecchio dalla mente stramba!” ammise il Preside,
scuotendo il capo.
“Che altro?” chiese Aquilino Mutor rivolto ai due
uomini.
“Abbiamo sorvolato l’intera zona e ci è
parso di notare qualcosa di strano al vecchio cimitero… dei
bagliori, come se qualcuno stesse lanciando degli incantesimi con la
bacchetta…” rispose Harry.
“Ne siete certi?” indagò Sereno Animum.
“Sfortunatamente non siamo riusciti ad avvicinarci. Se ci
fosse stato qualcuno, ci avrebbe scoperti!”
replicò Samael, lisciandosi le pieghe del mantello.
“Come intendiamo agire?” quella domanda
vagò per un po’ nell’aria tesa, senza
una risposta. Il vecchio Preside sembrava concentrato in pesanti
congetture, così come il Professor Mutor.
“Mia figlia non è più al sicuro, questo
è ovvio!” Harry fece notare loro una
realtà evidente.
“Lo sappiamo bene, Harry!” ribatté
Sereno. “La trasferiremo!” aggiunse subito dopo.
“E dove?” intervennero gli altri tre
all’unisono.
“Ad Hogwarts!”
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Capitolo 6 *** La Scoperta ***
Prima di lasciarvi al nuovo capitolo ci tengo a
fare una precisazione onde evitare incomprensioni.
Per come ho ideato ed immaginato il carattere di Lily, vorrei ricordare
che è cresciuta ed ha trascorso la sua infanzia in una
città (quella di Ambra) che si è sempre tenuta in
disparte e al di fuori dal resto del mondo, senza avere contatti con
altri popoli o situazioni diverse da quella che è la normale
routine degli elfi. Quindi, casa, campagna, ecc... un ambiente molto
chiuso e riservato. Perciò Lily fino ad ora,
benchè sia una ragazza molto sveglia, è cresciuta
con una mentalità un po' ingenua, non ha le stesse
esperienze di vita che potrebbero avere altri ragazzini della sua
età, e ama talmente tanto i due elfi con i quali
è cresciuta da non badare o comunque da non fare caso alle
differenze che ci sono tra loro. Era questo il messaggio che volevo
trasmettere sul rapporto di Lily con i Signori Goradiel. Spero di
essermi spiegata abbastanza.
Fatta questa piccola premessa, ringrazio tutti quelli che hanno
lasciato un commento alla mia storia (mi fa sempre piacere sapere le
vostre opinioni) e chi l'ha inserita tra le ricordate/seguite/preferite.
Grazie di cuore e buona lettura.
6.
La scoperta
Il vero viaggio di scoperta non
consiste nel cercare nuove terre,
ma nell’avere
nuovi occhi.
Marcel Proust
La
cena sul tavolo si era freddata. Il risotto di zucca e zenzero aveva
smesso di spandere il suo gustoso aroma speziato per tutta la stanza.
Il cucù in soggiorno scoccò le tre. Un pettirosso
uscì dalla sua tana di legno, si leccò le piume
ed emise tre forti cinguettii. La signora Goradiel si
svegliò di soprassalto. Era rimasta sveglia ad aspettare il
marito finché le palpebre le si erano chiuse da sole e si
era accasciata sul tavolo da pranzo, un gomito le era finito dentro nel
suo piatto di risotto. Sbirciò il vecchio orologio sulla
parete di fronte, il pettirosso le strizzò
l’occhiolino e sparì di nuovo
all’interno. Era molto tardi.
Si levò in piedi con uno sbadiglio e si ripulì la
manica del pullover. Sul divano Lily dormiva come un sasso. Cara
ragazza, era voluta rimanere a farle compagnia mentre attendevano il
ritorno di Esilus. Ma poi il sonno era sopraggiunto anche per lei e si
era addormentata lì, quando invece avrebbe potuto godere
della comodità del suo letto.
La tuta da contadino mancava ancora dall’attaccapanni, segno
che il Signor Goradiel non era più rientrato.
“Molto strano!” si disse Pennetta. “Non
ha mai tardato così tanto!” una fitta di
apprensione si stava impadronendo di lei.
S’infilò la sua cappa da passeggio e prese una
torcia, intenzionata ad andarlo a cercare. Quando appoggiò
la mano cicciottella sulla maniglia, udì un distinto bussare
alla porta.
“Ti pare questa l’ora di tornare a casa? Dove sei
stato?”
Ma quando aprì non era il Signor Goradiel quello che si
trovò di fronte.
“AAAAAAAAH!” Pennetta urlò per lo
spavento. “CHI E’ LEI? COSA CI FA QUI?”
“Signora Goradiel, si calmi, la prego!” fece
Samael, pacato, invitandola a tranquillizzarsi.
“Calmarmi?” esclamò, sbigottita.
“CALMARMI?” ripeté, agitata, alzando il
tono della voce. “Mio marito è scomparso e uno
sconosciuto si presenta a casa mia nel cuore della notte… mi
spiega come posso calmarmi?” aggiunse poi, angosciata.
“Mi faccia entrare, Signora Goradiel” rispose lui
semplicemente.
“Cosa?” Pennetta, confusa, non riusciva a
capacitarsi di quello che stava succedendo. Le sembrava di vivere un
incubo.
“Mi faccia entrare” Samael riformulò
quella richiesta. “Non posso entrare se non sono
invitato!”
“Che storia è mai questa?” il faccione
rosso per l’agitazione.
“Pennetta, per favore. Le prometto che le
spiegherò tutto” giurò il redivivo.
“Oh, d’accordo!” si risolse alla fine con
uno sbuffo, non vedendo alternative. “Avanti, entri
pure!” gli fece cenno d’accomodarsi. “Ma
come fa a conoscermi?”domandò, turbata, nel
realizzare che poco prima quel tipo misterioso l’aveva
chiamata per nome.
“Sono dieci anni che vi tengo sotto controllo, Signora
Goradiel” fece Samael, come se fosse la cosa più
normale del mondo.
“Ma che sta dicendo? COSA SIGNIFICA TUTTO QUESTO?”
la voce della donna si era fatta stridula per lo sconcerto.
“Mi stia a sentire, Pennetta” la fissò
intensamente negli occhi, come a volersi accertare che la donna potesse
ragionare in maniera lucida in quel momento.
“Lily è in pericolo… e lo siete anche
lei e suo marito!” lo disse così, secco, senza
tanti giri di parole.
Pennetta Goradiel sbiancò all’istante e dovette
appoggiarsi saldamente allo schienale della sedia per non svenire e
capitombolare a terra. Si udirono dei rumori provenire dal camino di
pietra, come se qualcuno stesse tentando di scendere attraverso la
canna fumaria.
“E ora che c’è?” Pennetta si
voltò di scatto verso la fonte di quel trambusto.
Poco dopo un uomo dal buffo cappello a punta ricoperto di piume si
stava pulendo vigorosamente il mantello dalla fuliggine. La Signora
Goradiel lo osservò con occhi impietriti. Non aveva mai
visto nessuno scendere da un camino.
Sereno Animum levò lo sguardo sui presenti.
“Samael, l’hai terrorizzata a morte questa povera
signora!” constatò, dando una veloce spolveratina
al suo cappello.
“Veramente anche lei con il tuo ingresso non ha
scherzato!” replicò il vampiro accennando al
camino.
“Oh, era da anni che non lo facevo. Ricordavo che si stesse
un po’ più larghi lì dentro”
borbottò Sereno. “Devo essere ingrassato un
tantino” commentò con una sonora risata.
“Salve, Signora Goradiel. Io sono il Preside Sereno
Animum” si presentò l’uomo, porgendole
la mano destra. Pennetta era troppo confusa per accettare la stretta e
contraccambiare il saluto. Nel frattempo tutta quella confusione aveva
svegliato Lily.
“E tu devi essere Lily!” si rivolse alla ragazzina
che si era alzata dal divano.
“Che sta succedendo?” fece lei, trattenendo uno
sbadiglio.
“Siamo venuti a prenderti” esclamò
Samael.
“Per portarmi dove?” replicò, senza
paura.
“Al sicuro… Ad Hogwarts!” le aveva
risposto con voce decisa ed inflessibile. “La migliore scuola
di magia che si possa frequentare!” aveva aggiunto strizzando
l’occhio al Preside.
“Tu sei una strega, Lily!” Sereno le si era
avvicinato e le aveva posato una mano sulla spalla.
“Come? Vi state sbagliando… io sono solo una
semplice bambina!”
“Sei molto di più, mia cara! Ti è mai
capitato qualcosa di strano alla S.A.S.S.O.? Qualcosa di incredibile,
che agli altri bambini non è successo?”
Lily ripensò alla strana conversazione con l’Omino
Giallo nel bosco e alle orecchie d’asino che erano spuntate
come per magia ai suoi tre compagni.
“In effetti…”
“E’ così, Lily. Tu sei una
strega… e con una grande dote, per giunta!”
confermò il vecchio.
“Io… io so fare magie…”
bisbigliò la ragazzina, cogliendo la verità.
“Non solo. Tu sai parlare la lingua di tutte le creature
magiche” continuò l’uomo.
“Lily, tesoro, ma che stanno dicendo questi
signori?” intervenne Pennetta, ancora scombussolata.
“E’ vero, mamma. Sono una strega!” ammise
la ragazzina, più con se stessa forse.
Era arrivato il giorno che la Signora Goradiel aveva temuto di
più in tutti quegli anni. Quello in cui avrebbe scoperto che
la figlioletta che avevano cresciuto era completamente diversa da loro.
“In cuor mio l’ho sempre saputo”
piagnucolò Pennetta, dispiaciuta. “Sapevo che non
eri una di noi.”
“Cosa intendi, mamma?”
“Io non sono la tua vera madre” le
confessò tra le lacrime. Esilus ed io ti abbiamo trovata
quando eri molto piccola. Qualcuno ti aveva abbandonata davanti a casa
nostra, così abbiamo deciso di tenerti.”
“Il tuo vero nome è Lily Potter e la tua madre
naturale, una strega molto brillante, è morta per salvarti
la vita una notte di dieci anni fa!” spiegò Sereno
Animum, trattenendo un brivido di dispiacere al ricordo di quel giorno.
“Per salvarmi da cosa?”
“Dall’essere più crudele e malvagio che
sia mai esistito. Molti hanno persino paura di pronunciare il suo nome,
per questo lo chiamano Tu-Sai-Chi.”
“E mio padre?”
“Tuo padre è il famoso Harry Potter. Ti aspetta in
un luogo sicuro, presto lo incontrerai” intervenne Samael.
“Ora dobbiamo sbrigarci… le forze oscure si stanno
risvegliando” ingiunse il Preside con premura.
“Porteremo con noi anche la signora”
continuò.
Samael aggrottò la fronte.
“Ma lei non ha poteri! Non può venire ad
Hogwarts!”
“Non voglio insegnarle ad usare la
magia…” ribatté Sereno
Animum“… voglio solo proteggerla dal pericolo. Se
rimanesse qui da sola, sarebbe la prima a morire se Tu-Sai-Chi
riuscisse a risorgere. Ed io non voglio altre vite sulla
coscienza!” bisbigliò all’orecchio
dell’amico.
“Come vuole” rispose il vampiro abbassando lo
sguardo fiero in segno di accettazione.
“E mio marito? Non è ancora tornato a casa! Io non
vengo da nessuna parte senza di lui!” si impuntò
Pennetta con fare deciso.
“Signora Goradiel, Samael resterà qui di guardia.
Non appena vedrà suo marito, provvederà
prontamente a raggiungerci insieme a lui” le
assicurò il Preside. “Ora, la prego, voglia
seguirmi!”
Lily fissò con apprensione la madre, che era rimasta
alquanto stordita dagli ultimi avvenimenti. Si aspettava di vederla
svenire da un momento all’altro. Ma la Signora Goradiel era
una donna di grande forza d’animo, oltre che di fisico, e non
si lasciò abbattere da quegli stravolgimenti.
“Forza, seguitemi!”
Pennetta lanciò un ultimo triste saluto a quella che era
stata la sua casa per tanti lunghi anni. E con la speranza che il
marito stesse bene e tornasse presto, seguì lo stregone
senza fiatare. “Stai all’erta, Samael. A
presto”.
“A presto, Signor Preside”.
Sereno Animum uscì dalla porta ed estrasse da sotto il
mantello un affare di metallo molto simile ad un fischietto. Se lo
portò alle labbra e vi fischiò dentro tre volte.
Tre prolungati fischi acuti lacerarono il silenzio di tomba di quella
notte. Poi si udì un fruscio nell’aria e a breve
avvistarono una scopa che sfrecciava alta nel cielo. Volava nella loro
direzione e si arrestò esattamente ai loro piedi.
“Ce ne andremo a cavallo di una scopa volante?”
domandò Pennetta visibilmente allarmata.
L’uomo si limitò ad annuire.
“Ma noi non sappiamo volare!” Lily diede voce alle
paure della madre.
“Oh, non serve saper volare” le
rassicurò lui. “Questa è una
Trasportina!” esclamò indicando la scopa.
Pennetta Goradiel lo squadrò come se avesse appena parlato
in una lingua incomprensibile.
“Dunque, una Trasportina non è una scopa
qualunque. Ne esistono pochissimi esemplari in tutto il mondo. Non
c’è bisogno di sapere come guidarla. Basta salirvi
sopra e pronunciare ad alta voce la parola d’ordine.
Dopodiché vi verrà richiesta la destinazione da
raggiungere. E verrete trasportati dove richiesto in men che non si
dica” spiegò. “Forte!” Lily
proruppe in una calorosa esclamazione di sorpresa.
“Avanti, salite! Non c’è tempo da
perdere”.
“E’ proprio sicuro che non cadrò da
questo pezzo di legno?” fece Pennetta nient’affatto
tranquilla.
“Non cadrà. Glielo giuro sulla barba di mio
nonno!” le rispose Sereno in tono accomodante.
“Ed io come faccio a sapere se suo nonno aveva la
barba?” ribatté Pennetta aggrottando le
sopracciglia, sospettosa.
“Signora Goradiel, si fidi e faccia come le dico”
sbuffò il mago.
“Andrà tutto bene, mamma” la
rassicurò Lily prendendola per mano. Il Preside le fece
accomodare sulla Trasportina e poi vi salì anche lui.
“Parola d’ordine!” si udì una
voce debole, quasi strozzata.
“Chi ha parlato?” Pennetta rabbrividì.
“Potrebbe spostare più avanti il suo ingombrante
fondoschiena, signora? Mi sta soffocando!”
“Eh? CHE SCHERZO E’ MAI QUESTO?”
strillò la donna alzandosi di scatto.
Tra i fili di saggina della scopa, due occhietti furbi la stavano
fissando ed una bocca larga e priva di denti le sorrise con sollievo.
“La ringrazio” la Trasportina le fece
l’occhiolino.
“Qu…qu…questa cosa
è… è… VIVA?”
balbettò la signora con mani tremolanti.
“E’ solo un incantesimo. Si rimetta a
sedere!” le ordinò il vecchio in un tono che non
ammetteva repliche.
“Parola d’ordine!” ripeté la
scopa una volta che tutti furono ai loro posti.
“Cerume di drago” rispose Sereno, serio.
“Che razza di parola d’ordine!”
sibilò Pennetta, disgustata.
“Destinazione, prego!”
“Portaci al Paiolo Magico”
La Trasportina si librò alta nel cielo sopra Ambra,
sorvolò mari e montagne, deserti e città ed
incrociò persino la rotta di un Corcive Spennato. I Corcivi
erano una strana quanto rara specie di volatili: incroci tra corvo e
civetta, dovevano il becco e le zampe al primo ed il resto del corpo al
secondo con la sola particolarità di non possedere nemmeno
una piuma. Uccelli scontrosi e solitari, vivevano come eremiti al
riparo di antri bui o sulle vette più alte della montagne
nelle Terre del Nord, lontani da anima viva. Si diceva uscissero dalle
loro tane solo quando erano attirati dall’odore del cibo ed
il loro avvistamento era considerato un cattivo presagio visto che i
Corcivi si cibavano di ossa di cadaveri umani.
“Quel Corcive è diretto ad Ambra”
mormorò Sereno. “E può voler dire solo
una cosa” aggiunse, pensieroso.
“Che cosa?” gli chiese Lily, incuriosita.
“Niente di buono, purtroppo” sospirò,
sconsolato.
“Quanto vorrei che il Signor Esilus fosse qui”
esclamò Pennetta pensando al marito.
Che Samael non gli avesse ancora fatto giungere notizie
dell’elfo non era un buon segno se unito alla passeggiata
notturna di quel Corcive, ma l’anziano stregone non ne fece
parola con le due passeggere. Non era il momento di metterle al
corrente dei suoi gravi presentimenti, almeno finché non
fossero divenuti certezze.
“Bene, siamo quasi arrivati” le avvisò,
interrompendo una conversazione che poteva avventurarsi su binari
spiacevoli. “State pronte a saltare!”
“Cosa? SALTARE?” squittì Pennetta
Goradiel spalancando la bocca. “Ho capito male?”
“No, cara signora Goradiel, ha capito benissimo. Ho detto
proprio “saltare”. Ecco, vede… la
Trasportina non è dotata di sistema di arresto quando
trasporta viaggiatori, ma questo è solo un piccolo
dettaglio”.
“Piccolo? E perché non me ne ha parlato prima di
questo piccolo dettaglio?”
“Perché lei non me l’ha mai
chiesto!” rispose semplicemente con un’alzata di
spalle.
“Oh, lei è un vecchio…
scorbutico… maleduca…”
protestò Pennetta, mettendo il broncio da offesa.
“ORA! PRESTO, SALTATE!” gridò Sereno
Animum coprendo gli insulti della donna.
L’uomo spiccò un balzo di
un’agilità sorprendente a dispetto dei suoi anni
ed atterrò comodamente in piedi sul ciglio di Charing Cross
Road, una viuzza stretta e buia della Londra babbana. Lily con il
coraggio che la contraddistingueva si lasciò andare senza
timore e toccò il suolo con un volteggio grazioso. La
signora Goradiel, timorosa e con il notevole impaccio della sua stazza
robusta, aspettò proprio l’ultimo momento e chiuse
gli occhi durante il salto cosicché non si accorse che
sarebbe finita su un cespuglio di More Spinate. Il tonfo sonoro della
sua caduta fu seguito immediatamente da una serie di strilli doloranti.
“Ohi ohi le mie mani! Ohi ohi le mie ginocchia! OHI OHI
OHIIIIII!” piagnucolò.
Era atterrata carponi ed ora aveva le mani e le ginocchia completamente
ricoperte di spine.
“AHI AHI AHIIIIII!”
Lily e Sereno accorsero in suo aiuto.
“Perché ha atteso così tanto prima di
saltare?”
“Avevo paura. Lei lo sa che cos’è la
paura?”
“Oh, spesso la paura è una cattiva consigliera. A
volte basta buttarsi, senza tentennamenti, come richiedeva questa
situazione. Ora stia ferma. La sistemo io” il Preside
estrasse la propria bacchetta e la puntò sulla Signora
Goradiel.
“Che vuole farmi?” abbaiò lei, scontrosa.
“La guarisco. O preferisce forse stare a togliersi le spine
una ad una?” rimbeccò il mago. Pennetta
abbassò lo sguardo avvilito e lo lasciò fare.
“Reparo” Sereno pronunciò in tono fermo
e sicuro quella parola. Tutte le spine si staccarono dalle mani e dalle
ginocchia di Pennetta e si andarono a conficcare nella corteccia
dell’albero più vicino.
“Forte! Imparerò anch’io a
farlo?” Lily gioì con un sorriso a trentadue denti.
“Se ti applicherai a dovere, imparerai molto più
di questo trucchetto. Ora andiamo però. Ti
condurrò all’ingresso del posto dove potrai
trovare tutto il materiale che ti servirà per i tuoi
studi”.
“E lei non viene?
“No, devo assolutamente tornare ad Hogwarts per discutere di
questioni di sicurezza”
“Allora sarò sola?” domandò
la ragazzina, preoccupata. “Non so nemmeno cosa devo
fare!”
“Oh, no, non preoccuparti. Ci sarà Sir. Pongi ad
aspettarti là”.
“Chi è Sir. Pongi?”
“E’ un leprecauno, il mio segretario…
non è un tipo molto socievole ma ti sarà
d’aiuto, vedrai!” la rassicurò.
“Ah dimenticavo, ricordati di non fissare il suo
pungiglione… è una cosa che detesta e potrebbe
diventare dispettoso!” la avvisò.
Lily annuì. “E mia madre?”
“Lei verrà con me. È vietato a chi non
ha poteri aggirarsi in quel luogo. Il suo soggiorno ad Hogwarts
è già uno strappo alla regola. Non posso
concedere di più, mi dispiace. Ma vi rivedrete
presto”.
Lily stava rimirando la fatiscente facciata di un piccolo pub. Paiolo
Magico, recitava un’insegna sbiadita.
“Ma dove siamo finiti? Non c’è nulla qua
intorno!” si lamentò la signora Goradiel.
Lily lanciò un’occhiata confusa al Preside.
“Lei non lo può vedere perché non
è una strega. Il Paiolo Magico è protetto da
Incantesimi Dissuasori dello sguardo, per cui chi non possiede dei
poteri non fa caso alla sua presenza” le spiegò
l’uomo. “Pennetta, lei mi aspetti qui fuori mentre
io accompagno Lily dentro”
“Stai attenta, bambina” Pennetta Goradiel
riuscì ad infilarle in tasca un po’ di soldi e a
darle un bacio in fronte prima di vederla sparire dietro la porta
d’ingresso.
Il vecchio Sereno pensò che il Paiolo Magico era rimasto
tale e quale ai tempi in cui ci aveva messo piede per la prima volta.
Era ancora un locale buio e dimesso, che affittava camere malconce che
non sarebbero state degnate nemmeno di una stella neanche sulle
più scadenti guide turistiche babbane. Gli parve di vedere
le stesse vecchie sedute in un angolo a sorseggiare bicchierini di
sherry e l’omino col cappello a cilindro che parlava con il
barman, completamente calvo. L’unica cosa che era cambiata
era il proprietario. Quello vecchio, Tom, si era suicidato quando aveva
visto il locale precipitare a picco dal momento che la maggior parte
degli avventori aveva smesso di frequentare il quartiere dopo il
sinistro ritorno di Lord Voldemort.
La nuova padrona, una certa Mary Flower, donna florida e zelante, non
aveva apportato consistenti modifiche, se non per la tappezzeria
interamente punteggiata di crisantemi, che non faceva altro che
aggiungere tetraggine all’atmosfera già di per
sé cupa e plumbea di quel motel.
“Preside Animum, che piacere vederla da queste parti! Le
posso offrire qualcosa?”
La lugubre luce dei lumini del candelabro che pendeva dal soffitto
puntava direttamente sulla testa del cameriere. Sotto quel riflesso
pareva una grossa palla da bilardo perfettamente levigata e lucida.
“Magari più tardi. Ora devo mostrare alla piccola
Lily il passaggio per Diagon Alley”.
Lo sguardo del cameriere si posò sulla bambina accanto al
vecchio Preside.
“Ah, così tu sei la famosa Lily Potter. Si sta
parlando molto di te in questi giorni. Perbacco, sei la fotocopia di
tua madre!”
“Oh, Signorina Potter, quale onore averla qui nella mia umile
locanda!” si fece avanti la proprietaria, aggiustandosi gli
occhiali da vista per metterla meglio a fuoco. “Questo posto
ha ospitato anche suo padre per qualche tempo e sarò lieta
di applicare uno sconto generoso alla tariffa standard qualora volesse
intrattenersi in una delle nostre stanze al primo piano”.
“Che mi venga un colpo, hai gli stessi occhi della povera
Ginevra!” esclamò un vecchio mago molto grasso e
con dei baffi enormi. Si alzò dalla sedia ed
abbandonò sul tavolo una fetta di ananas candito alla quale
poco prima stava prestando la sua più famelica attenzione.
“Professor Lumacorno, ben trovato!” Sereno Animum
gli si fece incontro e gli strinse la mano.
“Lily, ti presento Horace Lumacorno. Sarà il tuo
Professore di Pozioni ad Hogwarts”
“Piacere, Professore. Sono Lily Potter!”
“Oh, mia cara, non c’è proprio bisogno
delle presentazioni. Sei tale e quale a tua madre… Sai, lei
era una mia studentessa, una maga nelle fatture orcovolanti”.
“Cos’è una fattura
orcovolante?” chiese la ragazzina, curiosa.
“E’ un incantesimo offensivo, non adatto a degli
studenti del primo anno” ci tenne a precisare il Preside.
“Evoca mostruosi esseri svolazzanti, simili a spettri, che
attaccano il nemico con lo scopo di rallentarlo e di fargli perdere la
concentrazione. Richiede una grande forza di volontà e la
cara Ginny era una maestra in questo. Perciò le ho chiesto
di entrare a far parte del Lumaclub! Conto di avere anche la tua
adesione, giovane Potter!” il Professor Lumacorno si
sfregò le mani grassocce pregustando già la
piacevole sensazione di aggiungere una nuova cornice alla sua mensola
di alunni prescelti.
“LUMACLUB?!”
“Non c’è tempo ora, il Professore
sarà lieto di fornirti tutte le spiegazioni una volta
arrivati ad Hogwarts” chiarì Sereno con decisione.
“Ma certo, Signor Preside! Ora sono atteso allo Speziale,
devo presentare la mia nuova Pozione Rivitalizzante”
gonfiò il petto, vantandosi in maniera pomposa delle sue
scoperte. “E’ così energetica da
resuscitare persino i morti e non è un eufemismo!
Ahah!” abbassò di netto il tono della voce, come
se stesse rivelando un’informazione potenzialmente
pericolosa, da tenere preferibilmente segreta, e si avviò
verso il retro del locale.
“Signor Preside, che sorpresa! Permette una
domanda?”
Ancor prima che Sereno Animum avesse il tempo di replicare,
un’invecchiata ma ancora scaltra Rita Skeeter aveva
già estratto il suo taccuino di pelle e la sua inseparabile
piuma incantata si muoveva fluida sul foglio.
“Come ci si sente a vivere costantemente nell’ombra
del Grande Silente? Le scoccia essere ritenuto la ruota di scorta ad
Hogwarts?”
“Signora Skeeter, gli anni passano ma noto che lei conserva
la stessa fastidiosa impertinenza di sempre” .
“Dunque… si … scrivi,
scrivi…” la giornalista si ravviò un
ricciolo bianco ed esortò la sua piuma verde con un cenno
impaziente della mano. Al tocco lieve ma frenetico del pennino
iniziarono a comparire alcune frasi vergate in corsivo.
Un nodo di dispiacere gli stringe la gola quando ci racconta di essere
considerato un Preside di secondo livello…
“ E se mi vuole scusare ora ho cose più importanti
da fare che dare adito alle sue fesserie” prese Lily per mano
e la condusse verso la porta sul retro.
“La prego… una domanda per la giovane Potter! Solo
unaaa…”
La lagnosa voce acuta della Skeeter rimbombò nelle orecchie
di Lily finchè non si ritrovarono in un cortiletto angusto
dove le erbacce che regnavano sovrane sembravano non aver mai
conosciuto la cure di un giardiniere.
“Chi era quella donna?”
“Solo una vecchia scocciatrice!” sbuffò
il Preside che sapeva da sempre di non dover dare peso alle parole di
quella cialtrona.
Lily si ritrovò a fissare un muro di mattoni. Lo
sfiorò con una mano e godette della piacevole sensazione di
freschezza e morbidezza del muschio che aveva attecchito sulla parete.
“Tre verticali… due
orizzontali…” bofonchiò Sereno.
“Sta’ indietro, cara”.
Batté sul muro tre volte con la punta della bacchetta. Il
mattone che aveva colpito dapprima si mosse impercettibilmente, poi
vibrò e si contorse lasciando apparire una piccola fessura
che si fece sempre più grande. Un istante dopo i due si
trovarono di fronte ad un arco abbastanza ampio da permettere il comodo
passaggio di una persona. L’apertura dava su una strada
selciata tutta curve, di cui Lily non riusciva a vedere la fine.
“Forte!” esclamò la ragazzina, eccitata.
Era entusiasta per le nuove esperienze che stava vivendo e non vedeva
l’ora di arrivare ad Hogwarts e cominciare quella che si
prospettava come un’avventura magica.
Proprio tale e quale a
sua madre, pensò il vecchio mago quando la vide
sparire oltre l’arco, che si richiuse lentamente dietro di
lei.
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Capitolo 7 *** Diagon Alley: la culla della magia (parte I) ***
7.
Diagon Alley: la
culla della magia (parte I)
“Il sole splendeva
illuminando una pila di calderoni fuori dal negozio più
vicino.
Un’insegna
appesa sopra diceva: Calderoni. Tutte le misure.”
(Tratto da “Harry Potter e la pietra filosofale”)
Il villaggio di Diagon Alley
era profondamente mutato dopo la seconda guerra magica.
L’atmosfera cupa e plumbea che l’aveva ammantato
come una cappa opprimente, costringendo molti commercianti a chiudere
bottega, era stata spazzata via e aveva riconcesso il posto a
quell’aria di vivacità e spensieratezza di un
tempo. I negozi rasi al suolo dai Mangiamorte erano stati ricostruiti
con l’utilizzo della magia oppure erano stati soppiantati da
nuovi edifici che ospitavano le attività commerciali
più disparate.
Lily Potter si
ritrovò catapultata in un pittoresco mondo colorato, le cui
botteghe erano costruite per la maggior parte in legno.
Un grosso cartello
all’inizio della via riportava una scritta a caratteri
cubitali: BENVENUTI A DIAGON ALLEY.
Le strade erano
gremite di maghi, streghe e creature magiche di tutte le razze alla
ricerca degli oggetti più diversi.
Nell’aria
si respirava un intenso profumo di resina. Lily lo inalò a
pieni polmoni, ben felice di ritrovare quell’aroma familiare
che l’aiutava a tenere vivo il ricordo della città
nella quale aveva trascorso la sua infanzia.
Gallerie di negozi
dai colori sgargianti si perdevano a vista d’occhio e la
ragazzina non aveva ancora la minima idea di cosa avrebbe dovuto
comprare e da dove avrebbe dovuto iniziare.
“La stavo
aspettando, Signorina Potter” una voce alle sue spalle la
distolse dai suoi pensieri. Si voltò e si ritrovò
davanti un buffo ometto alto due piedi o poco più. Aveva un
cilindro in testa a coprire una folta criniera di capelli rossi,
così come rossa era anche la sua lunga barba ispida.
Indossava un gilet color pistacchio con una cintura di pelle dalla
quale penzolavano alcuni sacchetti tintinnanti ed un paio di calzoni di
un verde più scuro con un buco all’altezza del
fondoschiena dal quale spuntava un pungiglione sottile ma acuminato. Ai
piedi portava degli stivali decisamente sproporzionati rispetto al
resto del corpo. Stava masticando una presa di tabacco che ripose con
estrema cura in una tasca per stringere la mano alla ragazzina.
“Mi chiamo
Sir. Brandy Pongi e la accompagnerò a comprare il materiale
scolastico per il suo primo anno”.
“Molto
piacere, Sir. Pongi” Lily ricambiò la stretta e si
sentì serrare la mano in una morsa di ferro.
Per essere un uomo
così piccolo ha la forza di un gigante, pensò.
Il leprecauno le
porse quindi una lettera siglata dal Preside Animum.
“Questo
è un elenco di tutto ciò che le
occorrerà”.
SCUOLA
DI MAGIA E STREGONERIA DI HOGWARTS
Direttore:
Sereno Pacificus Animum.
(Ordine
di Merlino, Prima Classe, Mago Eccelso, Grande Stregone. Confederazione
Internazionale dei Maghi)
Cara
Ms. Potter,
siamo
lieti di informarLa che Lei ha il diritto di frequentare la Scuola di
Magia e Stregoneria di Hogwarts. Qui accluso troverà
l’elenco di tutti i libri di testo e delle attrezzature
necessarie. I corsi avranno inizio il 1° settembre.
Con
ossequi,
Sereno
Pacificus Animum,
Preside.
Gli
studenti del primo anno dovranno munirsi dei seguenti testi scolastici
obbligatori:
-
“Iniziazione alla magia: corso teorico e pratico di
istruzione magica” di Primer Magis.
-
“Gli strumenti del mago: come realizzare e dove trovare gli
strumenti indispensabili alle pratiche magiche” di Tutto Trovit.
-
“Scritti di astronomia (volume I)”di Lumino Stellarius.
-
“L’arte di divinare”di Futurio Inmanus.
-
“Più di cento modi di trasmutare noi stessi e gli
oggetti che ci circondano”di Aquilino Mutor.
-
“Il potere delle erbe officinali”di Neville Paciock.
-
“L’esatta arte di preparare pozioni: 101
ricette”di
Madama Cooks.
-
“Alla ricerca dei Ricciocorni e di altre creature
rare”di
Luna Lovegood.
Inoltre
dovranno procurarsi:
-
Pergamene per appunti.
-
Piume ad inchiostro lavabile.
-
N°1 bacchetta magica.
-
N°1 calderone (misura standard).
-
N°1 sfera di cristallo (evitare le imitazioni in vetro).
Si
ricorda infine che a tutti gli studenti è concesso portare
un animale da compagnia, qualora lo desiderassero, acquistabile presso
il Serraglio Stregato o l’Emporio del Gufo.
“Non pensavo ci
fossero così tante cose da portare”
commentò Lily ripiegando la lettera.
“E questo
non è niente! Aspetti di vedere il prossimo anno.
Più si scava nei misteri della magia e più
c’è da imparare”.
“E queste
cose le posso trovare tutte qui?”
“Dalla
prima all’ultima. Questo è il Grande Mercato della
Magia. Creature da ogni dove giungono qui per comprare gli articoli
magici più utili, più strani o più
rari”.
“Da dove
è meglio che cominci?” chiese Lily osservando con
meraviglia le miriadi di viuzze stracolme di negozi che si aprivano di
fronte ai suoi occhi. C’era sicuramente l’imbarazzo
della scelta.
“Bé,
provi da Uno sguardo al futuro, il negozio di articoli divinatori di
Mrs. Legimens. Lì dovrebbe trovare il calderone e la sfera
di cristallo. Io la aspetto all’Osteria dei Boccali Volanti.
Vado a farmi un goccetto di buon vecchio whisky”.
Quando Lily
entrò nel negozio un magico acchiappasogni indiano prese a
tintinnare all’aprirsi dell’uscio. La ragazzina
sollevò la testa attirata da quella melodia e
studiò, affascinata, quello strano oggetto appeso proprio
sopra l’ingresso.
“Quello
è un acchiappasogni” la sorprese Mrs Legimens. Era
una donnetta piuttosto bassa e robusta, con un paio di occhiali dalle
lenti molto spesse e i capelli bianchi raccolti ordinatamente in una
crocchia sulla nuca. “Lo sai a cosa serve?”
Lily scosse la testa.
Non ne aveva mai visto uno prima di allora.
“Serve a
scacciare gli incubi. Il cerchio in legno è una rete che
intrappola i sogni e li filtra. Se sono buoni, seguono il filo di
perline; se sono cattivi, vengono indirizzati verso le piume
d’uccello per allontanarli” spiegò la
donna. “Tu sei Lily Potter, non è così?
“Come fa a
conoscermi?” fece la ragazzina, stupita.
“Oh, ti
stavo aspettando. Sapevo che saresti venuta a farmi visita da
stamattina, quando ho letto il mio oroscopo nei fondi di
caffè a colazione”
“Lei
conosce in anticipo il nome di tutte le persone che entreranno nel suo
negozio?” domandò Lily strabiliata.
“Mi
piacerebbe, ma non è così!” le sorrise
Mrs Legimens.
“E allora
perché sa come mi chiamo?”
“E chi non
lo sa?”
Lily la
squadrò con occhi pieni di confusione.
“Voglio
dire, sei l’unica erede di Harry Potter, il salvatore del
mondo magico. È più che logico che tutti gli
occhi siano puntati su di te”
“Salvatore
del mondo magico?”
“Tu non sai
niente di tutto questo, eh?”
Trovò
conferma nell’espressione stralunata della ragazzina.
“Già,
proprio come pensavo… ma non spetta a me spiegarti queste
cose! Vieni ti offro una tazza di tè”.
“Ma io
voglio sapere!”
“Prima il
tè, mia cara. Sono le cinque, è l’ora
del tè!”
Lily seguì
Mrs Legimens tra scaffali carichi di libri di cartomanzia e mensole
occupate da boccette di varie forme e misure, mazzi di tarocchi ed
infusi delle erbe più usate per la divinazione, fino a
raggiungere un tavolino di legno sul quale era raggomitolato un gatto
grigio immerso in un sonno profondo.
“Accomodati,
cara”
La ragazzina si
sedette ed allungò una mano per accarezzare la folta
pelliccia del gatto. Il felino spalancò due spaventati occhi
gialli a quel tocco estraneo, gonfiò la coda e
soffiò digrignando i denti.
“Sulfur!”
lo riprese Mrs Legimens. “Che maniere sono queste, gattaccio
selvatico! Forza, scendi!” gli diede una leggera spinta e lo
costrinse a saltare giù dal tavolino. “Devi
scusarlo. Non gli piacciono gli sconosciuti e odia essere disturbato
mentre dorme”.
Lily
osservò Sulfur allontanarsi agitando la coda nervosamente e
sparire dietro una lunga fila di calderoni.
“Allora
cara, lo preferisci con il limone o al latte?”
“Al latte,
grazie”
Con un rapido colpo
di bacchetta Mrs Legimens fece apparire sul tavolo un servizio da
tè in porcellana. La teiera fumante si mosse, come dotata di
vita propria, e versò l’infuso bollente nelle due
tazze.
“Signora,
lei conosceva i miei genitori?”
Mrs Legimens
indicò alla zuccheriera due zollette di zucchero ed il
cucchiaino iniziò a versare e a mescolare da sé.
“Non di
persona, ma ho sentito molto parlare di loro. Bevi il tè,
prima che si freddi”.
“Sa
cos’è successo a mia madre?”
“Ehm…
è una faccenda molto delicata, bambina. Forse, forse non
sono io la più indicata per raccontartelo…
perché non lo domandi al tuo papà quando lo
rivedrai?”
Lily si dovette
arrendere, aveva la sensazione che quella donna le stesse nascondendo
qualcosa o avesse paura di raccontarle qualcosa in più.
“Posso
andare a scegliere una sfera di cristallo? È per il mio
primo anno di Scuola” le chiese una volta finito il
tè.
“Ma certo,
cara. Sono laggiù” la donna le indicò
uno scaffale in fondo al negozio.
“Grazie per
il tè” Lily le restituì cortesemente la
tazza. Quando Mrs Legimens la prese in mano restò scioccata
nell’interpretare quello che aveva letto involontariamente
nelle foglie di tè sul fondo. La tazza le cadde dalle mani e
si sbriciolò ai suoi piedi con un fragore di cocci infranti.
“Mrs
Legimens, va tutto bene?”
“Le
foglie… le foglie dicono…” bianca in
volto, faticava a parlare a causa dello shock.
“Cosa
dicono? Cos’ha visto?” la incalzò la
ragazzina, con apprensione.
“FUORI DAL
MIO NEGOZIO!” sbraitò l’anziana donna
spingendola verso la porta.
“Signora,
la prego, mi dica cos’ha visto!” la
implorò.
Mrs Legimens si
fermò di colpo. I suoi occhi nascosti dalle spesse lenti
degli occhiali fissarono Lily con sgomento e pietà allo
stesso tempo.
“Nulla!”
esclamò in tono piatto. “Non ho visto
niente!”
“Ma
com’è possibile?”
“Non
c’è futuro per te!” la colpì
con quell’affermazione brutale.
“E ORA
ESCI! VIA DI QUI! FUORI DAL MIO NEGOZIOOO!”
“Ma…”
Non le diede nemmeno
il tempo di ribattere. “VATTENE VIAAA!”
Lily, impressionata,
corse a gambe levate verso la porta e si fiondò fuori. Nella
fretta di uscire andò a sbattere contro una donna che invece
stava per entrare. Lunghi capelli castani le ricadevano in morbide onde
sulle spalle ed il suo viso trasudava un’aria da
intellettuale.
“Oh, mi
perdoni!” Lily farfugliò delle scuse, ancora
agitata.
“Che ti ha
detto quella vecchia pazza?”
“Come,
scusi?”
“Che ti ha
detto per farti correre come se avessi un troll alle
calcagna?”
“Lasciamo
perdere” sbuffò la ragazzina, ravviandosi i
capelli arruffati per la corsa.
“Sai,
è successo anche a mio figlio Hugo. Poco fa è
uscito di qui in lacrime. Era andato a comprare un calderone e quella
matta gli ha detto che presto verrà morso da un lupo
mannaro. Sto andando lì a dirgliene quattro. Solo
perché si crede un’indovina, non ha nessun diritto
di spaventare a morte dei ragazzini!” sbottò
furiosa quella signora. “E qualunque cosa ti abbia detto non
crederle, sono solo i vaneggiamenti di una vecchia svitata!”.
Con quell’ultima frase si congedò ed
entrò con cipiglio nel negozio di Mrs Legimens.
“SUCCO DI
MIGLIO! SCIROPPO DI MIRTILLI! POLLINE FRESCO! VENITE AD ASSAGGIARE,
SIGNORI! FORZA, ASSAGGIATE!” stava gridando un simpatico
folletto dal banchetto di un chiosco dall’altra parte della
strada. “VIENI, LILY! AVVICINATI!” si rivolse alla
ragazzina quando si accorse che lo stava fissando. Lily ormai non si
stupiva più del fatto che tutti sapessero il suo nome.
“Sa se
c’è un altro negozio di articoli per la
divinazione oltre a quello di Mrs Legimens?” gli chiese lei
ben contenta di aver trovato l’occasione per chiedere
informazioni.
“Per tutti
i folletti, certo che c’è! È quello di
mio cugino Indovinus!”
“Potrebbe
indicarmi la strada?”
“Farò
di meglio! Ti accompagnerò io stesso se assaggerai una delle
mie bevande dolci” le disse mostrandole tutti i barilotti che
riportavano incisi i nomi delle bibite contenute al loro interno.
“D’accordo.
Un succo di mela caramellata”.
“Ottima
scelta. È uno dei miei preferiti” le
strizzò l’occhiolino prendendo un bicchiere di
legno e riempiendolo quasi fino all’orlo. “Oh, ma
che maleducato… non mi sono nemmeno presentato. Mi chiamo
Signor Dulcis e le bevande che vedi qui le preparo tutte io con le mie
mani. Prima lavoravo alla birreria La botte sempre piena ma il vecchio
proprietario mi ha cacciato quando ha scoperto che mi piaceva un
po’ troppo bere mentre ero in servizio…
eheh…” ridacchiò grattandosi la barba.
“Molto
piacere, Signor Dulcis!” la ragazzina ricambiò il
suo sorriso e si rinfrescò il palato con il succo fresco che
il folletto le aveva preparato. Poi rovistò nelle proprie
tasche e tirò fuori uno zinchetto, una moneta grigia dalla
forma ovale, per pagare il Signor Dulcis.
“No! No!
No! Offre la casa!” esclamò lui, quasi offeso.
“Adesso seguimi, ti porto da mio cugino”.
Con una strana
formula in lingua gnomica sistemò il chiosco che si chiuse
ed assunse la forma di un gigantesco fungo. Alla base del cappello, il
folletto appese un cartello di legno che recitava la scritta
«TORNO SUBITO».
La bottega del
folletto Indovinus era un trionfo di colori delle tonalità
più stravaganti. I tendaggi alle finestre tinteggiati a toni
caldi concentravano un mix di sfumature eccentriche ed improbabili,
come se fossero il risultato di un lavaggio malriuscito. Eppure si
integravano alla perfezione con lo stile un po’ sopra le
righe della bottega. Il pavimento era un perfetto mosaico colorato che
raffigurava con estrema dovizia e cura di particolari un antico duello
tra maghi. Lo scintillio delle bacchette era così ben
rappresentato da lasciare nello spettatore la sensazione che fosse
reale. L’espressione pacata e gioviale del rubicondo faccione
del proprietario metteva ogni cliente di buonumore ed in tutto il
negozio regnava sovrana un’atmosfera di cordiale accoglienza.
Saranno stati i colori, o la precisione con la quale ogni oggetto si
trovava al proprio posto, o ancora la vivida lucentezza emanata da una
miriade di lucciole sospese al soffitto, ma Lily non si era mai sentita
così serenamente rilassata come quando aveva varcato la
soglia della bottega.
“Salve,
cugino! Guarda un po’ chi ti ho portato!” proruppe
il Signor Dulcis cogliendo Indovinus di sorpresa con
un’amichevole pacca sulle spalle.
“Qual buon
vento, caro Dulcis!” rispose l’altro ricambiando il
saluto con un abbraccio caloroso. “Signorina Potter, lieto di
incontrarla di persona!” si voltò poi verso Lily e
la salutò con una goffa riverenza. Il suo pancione
prominente non gli consentiva di esibirsi in inchini particolarmente
eleganti ed aggraziati.
“Eccola!
E’ lei!”
“Ne siete
proprio sicura?”
“Ma si! Vi
dico che è lei!”
“Mmm…
se lo dite voi! Me la immaginavo più alta!”
Lily si
guardò attorno confusa, cercando di capire da dove
provenissero tutti quei bisbigli.
“Oh, non ci
fare caso. Ai quadri piace spettegolare!” le sorrise
Indovinus indicando la parete alla loro destra.
In una cornice dorata
una nobildonna sfarzosamente ingioiellata dalla testa ai piedi stava
intrattenendo una conversazione piuttosto animata con il soldato che
abitava il quadro accanto al suo.
“E come
fate ad esserne così sicura?”
“Capisco
che la vostra istruzione di gendarme di basso rango sia poca cosa, ma
anche i muri sanno chi è quella ragazzina”
ribatté la dama con un cipiglio di superiorità
indiscussa e riprese a lisciarsi le pieghe della sua vaporosa gonna di
taffetà blu.
Indovinus non
riuscì a trattenere una risata.
“Le
donne!” sospirò. “Lingue più
taglienti della vostra spada, amico mio” commentò
strizzando l’occhiolino al soldato che era rimasto spiazzato
dall’audacia della signora. “Il poverino
è una vita che la corteggia e tenta di conquistarla, ma lei
niente. Non perde occasione per fargli notare la loro diversa levatura
sociale!” bisbigliò Indovinus avvicinandosi al
cugino e a Lily per non farsi sentire dai quadri.
“E’ ancora lì che aspetta il principe
azzurro! Quasi quasi mi è venuta l’idea di andare
alla Vecchia Pinacoteca a comprare la tela del Re dei Troll di Caverna.
Ci sarebbe da divertirsi!”
Il Signor Dulcis e
Lily risero di buon gusto.
“Ma bando
alle sciocchezze, di cosa hai bisogno, signorina?” Indovinus
si sfregò le mani, entusiasta di poter essere
d’aiuto alla bambina più famosa degli ultimi
decenni. Lily gli elencò ciò che era scritto
nella lettera del Preside Animum.
“Vediamo un
po’ in cosa posso esserti utile…” il
gioviale folletto corpulento inforcò un paio di occhiali da
vista, poi sparì dietro un pesante tendaggio broccato
intarsiato con un complesso disegno a fili d’oro e
d’argento. Ricomparve pochi istanti più tardi
spingendo un carrello di legno sul quale erano appoggiati una sfera di
cristallo ed un grosso pentolone di ferro dal manico ricurvo.
“Fai
attenzione alla sfera! È di fattura molto
delicata” la avvertì Indovinus quando Lily
uscì dalla sua bottega.
La ragazzina si
incamminò per le vie affollate alla ricerca di una libreria
dove acquistare i volumi di magia che le erano necessari, ma dopo aver
valutato una mezza dozzina di vetrine di librai si perse
d’animo. I prezzi esposti superavano di gran lunga
l’ammontare delle sue finanze, così come le
preziose finiture di quei libri. Volumi interamente rilegati in pelle,
con le pagine bordate in oro, decorate a mano da uno stuolo di folletti
scrivani. Libri tascabili, delle stesse dimensioni di un francobollo, e
perfino libri commestibili che promettevano la scienza infusa se
mangiati nel modo corretto.
Per un po’
girovagò senza meta, troppa la vergogna per andare a
chiedere un prestito al Signor Pongi, finché si
ritrovò ai piedi dell’edificio più
grande che avesse mai visto fino ad allora. Sull’insegna
sbiadita e consumata dagli anni si riusciva ancora a leggere
«EMPORIO DI TUTTO UN PO’» ed un annuncio
ingiallito avvisava la clientela che nel negozio si potevano trovare
libri usati a prezzi stracciati. Rinvigorita da quella nuova speranza,
entrò senza pensarci due volte. L’interno aveva
l’aspetto di una dimora signorile decaduta da secoli. Tappeti
e arazzi logorati dalle tarme rivestivano i pavimenti e le pareti;
poltrone che un tempo erano state sfiorate dalle eleganti fogge degli
abiti delle streghe e dei maghi dell’alta società
adesso giacevano impolverate e dimesse; lampadari preziosi che con i
loro ninnoli di cristallo avevano illuminato grandi raduni di magia
ora, celati da spessi fili di ragnatele, erano diventati la dimora
ideale di qualche famiglia di insetti. Una quantità
esorbitante di anticaglie faceva capolino da tutti gli angoli
possibili, cianfrusaglie più o meno in disuso erano
sparpagliate ovunque, persino le scale che conducevano ai piani
superiori ne erano disseminate. Lily pensò che tra tutto
quel ciarpame ci avrebbe messo giorni a trovare qualcosa di anche solo
lontanamente utile. Stava per rinunciare e andarsene, quando una vocina
sottile le domandò in tono concitato: “Che cosa
cercavi?”
Dall’ombra
di una mastodontica colonna di marmo sbucò fuori una
testolina di ricci canuti.
“Sono il
Signor Pasticcio Confusio”.
Portava
un paio di occhiali da vista sproporzionati rispetto alle piccole
dimensioni della sua testa. Se li tolse e prese a pulire le lenti con
meticolosa attenzione, utilizzando un lembo della propria camicia
scozzese.
“Scusa per l’attesa, ero nel retro a sistemare
degli scatoloni…”
Probabilmente il retrobottega era anche peggio del negozio stesso, a
giudicare dalla sporcizia che gli imbrattava il viso ed i vestiti.
“...ultimamente gli affari dell’emporio non vanno
granché bene… non mi aspettavo clienti
oggi” inforcò di nuovo gli occhiali e si
sbarazzò di un filamento di ragnatela che gli solleticava il
naso. Lily pensò che fosse il folletto più strano
e ridicolo tra quelli che aveva incontrato fino ad allora.
“Un gatto ti ha mangiato la lingua, per caso?”
“Oh, no… scusi… è
che….” non sapeva come dirlo senza farlo sembrare
un insulto “… io non sono sicura di trovare qui
quello che sto cercando” sputò fuori alla fine
tutto d’un fiato.
“Ma che sciocchezze!” ridacchiò
Pasticcio massaggiandosi la punta del naso. “Questo
è il negozio più fornito di tutta Diagon Alley!
Certo, forse non è una bottega di lusso come le altre,
però qui si può trovare davvero di
tutto!” esclamò con un certo vanto nella voce. Poi
quasi come se ci avesse ripensato, “Se sai in quale angolo
cercare, ovviamente. Parola di folletto!” si portò
una mano sul cuore.
“Allora mi servirebbero i libri per il primo anno alla Scuola
di Hogwarts” fece Lily, rincuorata.
Il folletto drizzò le orecchie, elettrizzato.
“Anch’io ho frequentato una scuola di magia diversi
anni or sono… era una scuola di classi miste,
all’epoca si usava così…”
raccontò con aria trasognata, come perso nelle memorie
“… ho tutti buoni ricordi di quei
tempi…” sorrise. “A parte quella volta
in cui un vampiro in astinenza tentò di azzannarmi la
giugulare scambiandomi per il suo pasto!” poi si accorse
dell’aria improvvisamente sconvolta della ragazzina.
“Oh, ma non devi preoccuparti. Ora questi episodi non
accadono praticamente più. Gli insegnanti hanno adottato
misure molto restrittive nei confronti delle creature che mostrano
segni di aggressività” le spiegò
eclissandosi dietro una montagna di libri antichi.
“Questo no!” Lily lo sentì esclamare a
gran voce e subito dopo si dovette abbassare in fretta per schivare un
corposo tomo di “Scienze
delle erbe magiche” che attraversò
tutta la stanza e andò finire ai piedi delle scale.
“Nemmeno questo! Attenzione lì a
destra!” una fila di statue si portò rasente al
muro onde evitare la decapitazione a causa di “Biografie di vampiri
famosi”.
“Ancora no!”
Lily si nascose al riparo di una colonna di marmo e vide un altro libro
atterrare sul lampadario di cristallo e farlo oscillare
pericolosamente. Una sfilza di insetti spaventati si calò
giù seguendo un filo di ragnatela e corse a nascondersi in
una crepa del muro.
“Finalmente!” si udì un grido di
trionfo. “Eccoli!” il folletto riemerse con una
bracciata di libri, senza nemmeno darsi la pena di valutare se il suo
bombardamento di copertine rigide e volumi che parevano mattoni avesse
lasciato dei feriti.
“Una spolveratina e tornano come nuovi!” le
assicurò affidandole quella pila di pagine che odoravano di
insetticida per tarme e di stantio.
Data la modica cifra alla quale si era accaparrata quei libri usati, le
restava un decente gruzzoletto per comprarsi una bacchetta se non di
qualità eccellente, comunque dignitosa. Si vociferava in
città che Ferula fosse la più abile costruttrice
di bacchette magiche mai esistita dopo la morte di Olivander. Al
contrario di molti ciarlatani che spacciavano per potenti bacchette
quelle che erano solo semplici rami secchi senza alcun potere, Ferula
aveva una maestria ed un talento innati nel recepire l’aura
delle piante e dei fiori ed imprimerla nel fulcro vitale del legno. Per
questo il suo era un esercizio che non aveva concorrenti né
rivali. Tutte le piccole botteghe di artigiani che si arrabattavano nel
tentare di imitarla avevano vita breve, stroncate dalla massa di
creature magiche che pretendevano il meglio dalla loro bacchetta. Ed il
meglio al grande mercato di Diagon Alley era di sicuro Ferula,
un’artista nella forgia delle bacchette, come era conosciuta
in città. Alta e filiforme, quasi avesse anche assunto le
sembianze del materiale che lavorava con tanta accuratezza, era una
donna rigida e inflessibile, asciutta e secca come la legna
più buona da ardere e plasmare. Il suo negozio era
ciò che di più vicino all’austero si
potesse trovare, quasi spartano nella scarsità degli arredi.
Il mobilio consisteva in una semplice scaffalatura che troneggiava
sulla parete antistante l’entrata e una scrivania spoglia che
fungeva da banco d’appoggio per i clienti che volevano
visionare da vicino la merce.
“Siii?” una voce fredda e sibilante accolse
l’ingresso della giovane Potter.
“Sono al primo anno e…”
“Riconosco voi del primo anno...”
gracchiò la donna “…entrate tutti qui
con aria spaurita, come se ci fosse un cartello alla porta che dice che
qui si mangiano matricole! Ahah!”
Lily non riuscì a distinguere se quello era stato un ascesso
di tosse o un accenno di risata asfittica.
“L’acquisto della prima bacchetta comporta sempre
un mucchio di aspettative da parte dei ragazzini. La maggior parte
delle quali sono tutte idiozie messegli in testa da un branco di
genitori ignoranti che illudono i propri figli di poter diventare
grandi nomi del firmamento magico con la giusta bacchetta. Come se
bastasse sventolare un pezzo di legno per determinare la grandezza di
un mago!” si sfogò
Ferula.
Lily comprese che quella doveva essere stata una giornata piena di
ragazzini viziati e genitori petulanti, perciò non si offese
personalmente per le crude parole della donna.
“Io non mi aspetto nulla…” rispose con
sincerità. “Sto solo seguendo una lista di compere
per la Scuola e qui c’è scritto che mi
servirà una bacchetta”
“Molto bene! Fossero tutti così i ragazzini! Il
più delle volte devo perdere la metà del tempo a
spiegare loro che non esiste una bacchetta che effettua incantesimi da
sola, se non è il mago a comandarla! Mi fanno scoppiare la
testa!” si portò istintivamente una mano alla
fronte come in un gesto di naturale abitudine. “Ma te lo
concedo… tu sei diversa. Hai un bel temperamento, ragazza!
Per questo forse…” si arrampicò su una
scaletta di legno e raggiunse uno dei ripiani più alti dello
scaffale “… direi che devi provare
questa!” scese agilmente i pioli due a due e le porse un
cofanetto bianco.
“Corteccia di bosso intarsiata con semi di
melograno” dichiarò pomposamente, orgogliosa di
essere l’artefice di uno strumento così raffinato
e ben riuscito.
Lily la prese in mano. Sebbene fosse più leggera di quanto
si aspettasse, avvertì un formicolio al braccio seguito
immediatamente da una sensazione di energia mai provata. Tutto il suo
corpo venne avvolto da un’aura lucente e Lily si
sentì completa.
“Direi che ti ho consigliato quella giusta” Ferula
si esibì in una smorfia di vanesia approvazione "Sono
proprio un genio!"
|
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Capitolo 8 *** Diagon Alley: la culla della magia (parte II) ***
Solo una piccola
puntualizzazione prima del capitolo. Vi ricordo che il linguaggio di
Hagrid è volutamente sgrammaticato per rendere meglio il
personaggio un po' rozzo e non molto istruito.
Ringrazio di cuore tutti i lettori e le lettrici che mi stanno
seguendo. E' grazie a voi che riesco a continuare questa storia.
Buona lettura!
8.
Diagon Alley: la
culla della magia (parte II)
“Harry avrebbe voluto
avere altre quattro paia di occhi.
Strada facendo, si
girava di qua e di là nel tentativo di vedere tutto e subito:
i negozi, le cose
esposte all’esterno, la gente che faceva le spese”
(Tratto da “Harry Potter e la Pietra Filosofale”)
L’Osteria
dei Boccali Volanti
era il locale più rinomato e frequentato di tutta Diagon
Alley, ovviamente dopo il Paiolo Magico. I suoi tavoli e le panche di
legno cedrino avevano visto avvicendarsi una miriade di clienti che da
tempi immemorabili si davano appuntamento lì per scambiare
quattro chiacchiere, leggere una copia gratis de “La Gazzetta
del Profeta” o fare una semplice bevuta.
L’oste
Godurio Simposio era un nano attento ed oculato, con un autentico fiuto
per gli affari. Aveva comprato la taverna dal precedente proprietario
quando era solo una bettola sull’orlo del fallimento ed in
pochissimo tempo l’aveva trasformata in un locale di successo.
Il fuoco sempre
vivace e scoppiettante nel camino d’inverno ed i famosi
tè speziati importati dalle regioni sud-orientali
riscaldavano le membra degli avventori più impavidi che
sfidavano il gelo delle serate invernali, quando la neve scendeva a
fiocchi abbondanti e ammantava l’intero quartiere di una
veste candida e spettrale. Per contro, la vicina gelateria, annessa al
locale dopo la scomparsa dell’ex proprietario Florian
Fortebraccio, allietava le afose giornate estive con squisite limonate
ghiacciate, gustose bevande dissetanti di tradizione gnomica.
Quel giorno nella
locanda si stava disputando una goliardica competizione tra un nutrito
gruppetto di vampiri. La sfida consisteva nel riuscire a trangugiare in
cinque minuti il maggior numero di calici di sangue di cinghiale.
Gioco, a dir la verità, non molto apprezzato dalle altre
razze magiche che avevano un’idea differente di quale fosse
una buona bevuta e diversi gusti in fatto di dieta alimentare.
Ciononostante, un folto capannello di spettatori si era radunato
attorno al loro tavolo per scommettere sul probabile vincitore.
Artemio Venum,
giovane esponente di una delle più antiche e nobili stirpi
di vampiri guerrieri, era già a quota venti trascorso il
primo minuto. Collo tozzo e taurino, fronte ampia e braccia nerborute
che non nascondevano alla vista numerose cicatrici di guerra,
già solo ad una prima occhiata superficiale incuteva nei
più una sorta di timore reverenziale. Schiamazzi ed inni di
incitamento erano udibili persino dalle botteghe e dai negozi
circostanti.
A qualche sedia di
distanza, una famigliola di nani era impegnata in una conversazione
fitta fitta, davanti a coppe di siero di rapa rossa.
“Sono in
arrivo una Bile di Topo e una Spremuta di Meningi di
Lombrico!” gridò l’oste. Un minuto
più tardi, due boccali decollarono dal suo bancone e
attraversarono in volo tutta la stanza per depositarsi su un tavolo
occupato interamente da folletti.
Mentre alla luce
soffusa di una candela quasi consumata, se ne stava il Signor Pongi,
immerso nella lettura di una circolare emessa dal Distretto per la
Tutela e la Salvaguardia delle Creature Magiche in via
d’estinzione. Lo distingueva un’espressione di
concentrazione totale, come se si fosse trovato all’interno
di una bolla, completamente estraneo ai rumori ed ai vocii del resto
dell’osteria.
“Per mille
pentole di San Patrizio!” sbottò rosso in volto
alzandosi dal trespolo sul quale era seduto. “E’
inconcepibile!” si stropicciò il viso e si
portò il foglio più vicino agli occhi, come per
volersi accertare che ciò che aveva letto non fosse dovuto
ad un offuscamento della vista o frutto della sua immaginazione.
“Inaudito!” esclamò ancora
più indignato. “Questa è la baggianata
più grossa che io abbia mai letto!” si
lisciò i baffi e sbatté con forza un piede per
terra a sottolineare la sua irritazione.
“Cos’è
una baggianata?” gli fece eco Lily. Era entrata in coda ad un
gruppo di maghi e streghe, perlopiù ragazzi e ragazze della
sua stessa età, e quando anche gli altri clienti si erano
accorti della sua presenza per qualche istante nel locale era sceso un
silenzio tombale, cosicché tutti erano riusciti ad udire
nettamente la sua domanda ed ora attendevano con lei la risposta del
leprecauno.
“Questa
circolare! Puah!” sputacchiò schifato sul pezzo di
carta che teneva ancora tra le mani. “Qui
c’è scritto che il popolo dei Leprecauni si trova
alla posizione numero due nella lista delle creature in via
d’estinzione, secondo solo ai draghi di palude. Fesserie, io
dico!” un’arteria gli pulsava ad intermittenza sul
collo seguendo il ritmo del suo respiro rabbioso. “I
Leprecauni sono uno dei popoli più prolifici che
esistano!” alzò il tono di voce.
“Scriverò immediatamente una vibrante lettera di
protesta al Distretto e se necessario mi rivolgerò di
persona al Consulente per la Difesa delle Creature Calunniate! Staremo
a vedere se non porgeranno le loro scuse a tutti i Leprecauni che
ancora respirano!”
“Sennò
che fai a quelli del Distretto? Li minacci con il tuo spaventoso
pungiglione? Ma che paura!” lo beffeggiò un
ragazzino, acclamato da uno stuolo di compagni che scoppiarono a ridere
per la sua battuta. Doveva essere poco più grande di Lily.
Lunghi capelli biondi sulle spalle, abito dal taglio elegante cucito su
misura e appena uscito dalla sartoria di Madama McClan, guanti di seta
bianchi ad indicare un ragazzo di una casata di Purosangue, che di
certo non era abituato a sporcarsi le mani. Gli altri ragazzini lo
osservavano estasiati ed incantati come se fosse un mito dal quale
trarre esempio, ma a Lily Potter era risultato istantaneamente
antipatico.
Lily
rammentò il monito del Preside Animum su quanto fosse
permaloso il Signor Pongi quando si toccava un argomento
così delicato per lui come l’aspetto fisico e
pensò, con un brivido di pura soddisfazione, che quel
ragazzino spocchioso l’avrebbe di certo pagata per la sua
sfacciataggine.
Infatti, in men che
non si dica, lo stesso corteo di ragazzini che fino ad un attimo prima
lo stava adulando, ora lo additava con mormorii impressionati e
gridolini di sconcerto. Stavano tutti osservando con orrore il
pungiglione che gli spuntava a mo’ di coda dalle balze del
suo nuovo vestito firmato.
Il Signor Pongi,
gustando appieno il dolce sapore della vendetta, attraversò
con fierezza la locanda diretto all’uscita, seguito da Lily
che non riuscì a trattenere una risatina divertita, e dalle
imprecazioni del ragazzo che non si addicevano per nulla ad una bocca
nobile.
“Quando lo
verrà a sapere mio padre, passerà dei guai. Lei
non sa cosa significa mettersi contro un Malfoy!”
***
Il Serraglio
Stregato
era una delle poche botteghe rimaste aperte anche durante il periodo di
terrore diffusosi dopo il ritorno di Lord Voldemort.
Oltre a vendere
animali, accessori vari per la loro cura e mangimi, i nuovi
proprietari, Rolf Scamandro e sua moglie Luna Lovegood, offrivano anche
consulenze in materia di allevamento e di addestramento delle creature
magiche.
L’interno
era molto angusto, di certo non era il posto ideale per chi soffriva di
claustrofobia. Questo fu il primo pensiero di Lily non appena ebbe
messo piede nel negozio.
Lo spazio per i
clienti era ristretto e limitato, ogni angolo del locale era occupato
da gabbie, teche di vetro, voliere e scatole di ogni dimensione.
Il saluto di
benvenuto che Rolf Scamandro rivolse alla ragazzina ed a Sir. Pongi
venne quasi soffocato dai fischi dei corvi e dei merli rinchiusi nelle
gabbie che pendevano dalle travi del soffitto, dai gracidii dei rospi
viola nella teca di fianco al bancone e dai miagolii insistenti di una
cucciolata di kneazle.
“Posso
esserle utile, Signorina Potter?”
“Vorrei
dare un’occhiata, sto cercando un animale da portare ad
Hogwarts per il mio primo anno”
Il suo sguardo
meravigliato cadde su un coniglio bianco che continuava a trasformarsi
in un cappello a cilindro e poi di nuovo in coniglio, accompagnando
ogni metamorfosi con uno schiocco secco.
“Quello
è un ConiglioMagus, è in grado di trasformarsi a
suo piacimento… proprio come un animagus!”
esclamò fiero il Signor Scamandro. “E’
una razza molto rara e pensa che questo esemplare ha più di
cinquant’anni!”
“Amico mio,
hai ancora delle uova di Jobberknoll?” sulla soglia si era
appena stagliato un uomo gigantesco. Aveva il viso quasi nascosto da
lunghi capelli ispidi ed ingrigiti e da una folta barba incolta, che lo
rendevano simile ad un selvaggio nell’aspetto. Si era flesso
faticosamente sulle ginocchia ed aveva infilato solo la testa
all’interno del negozio, dato che la sua notevole stazza
fisica e l’evidente angustia della stanza non gli
permettevano di entrare agevolmente.
“Hagrid,
vecchio mio, dovrei averne ancora un paio nel retro. Vado a
controllare” Rolf si allontanò e sparì
dietro una porticina di legno.
Il gigante fece
vagare lo sguardo all’interno ed incontrò quello
limpido e vivace di Lily.
“Lily
Potter!” esclamò con voce commossa. “Ma
guardati come sei cresciuta! Mi ricordo di te che eri solo una bimbetta
quando tuo padre ti portò da me il giorno che la povera
Ginny…” trattenne un singhiozzo di dispiacere.
“Tu conosci
mio padre?”
“Ma certo!
Grande uomo e grande amico Harry Potter!”
Lily intanto stava
osservando con rapimento una teca di snasi, animaletti molto simili a
delle talpe, con una spessa pelliccia nera ed un muso lungo e
pronunciato. Alcuni in particolar modo stavano cercando il modo di
rompere il vetro che li circondava, probabilmente per evadere dalla
gabbia.
“Oh, te li
sconsilio propio quelli! Ad Hogwarts farebbero solo disastri. A loro
piace rompere e distruggere tutto” fece Hagrid, scuotendo il
testone.
Rolf Scamandro fece
ritorno dal retro con una busta di carta in mano che
consegnò prontamente ad Hagrid, dal quale ricevette in
cambio alcune banconote.
“Ti serve
altro, vecchio mio?”
Hagrid
sospirò, triste. “Thor è
morto” spiegò in tono sconsolato. “Era
tanto vecchio. È sempre stato un bravo cagnolone, anche se
aveva paura perfino della sua ombra. Vorrei tanto un altro
cucciolo”
“Al momento
non ho cuccioli di cane in negozio, ma se provi a tornare tra qualche
giorno mi dovrebbero arrivare dei nuovi esemplari”
“Va bene.
Arrivederci, piccola Potter. Ci rivediamo ad Hogwarts” Hagrid
salutò Lily con un cenno della sua manona.
“Arrivederci,
Signor Hagrid”la ragazzina non fece nemmeno in tempo a
voltarsi che il gigante era già sparito dalla sua vista,
smaterializzato in un battibaleno.
“Allora ha
trovato qualcosa di interessante, signorina Potter?” le
domandò Rolf Scamandro aggirando il bancone ed avvicinandosi.
“Sono molto
indecisa. Ci sono un sacco di animali strani e a me piacciono
tutti” sbuffò, combattuta su quale esemplare
scegliere.
“Bene, ha
già dato un’occhiata al reparto dei
gufi?”
Rolf le
indicò la zona più remota del negozio. Al riparo
di tendaggi scuri e lontane a qualsiasi fonte di luce, erano ammassate
una discreta quantità di voliere stipate di uccelli notturni
delle razze più differenti: allocchi, gufi reali, civette
delle nevi e barbagianni comuni.
“Ho fatto
scorta di Radigorde in quel nuovo negozio di Ortofrutta per Infusi e
Pozioni” esclamò trillante la moglie di Rolf,
entrando a piccoli saltelli eccitati. Portava un ridicolo copricapo a
punta, interamente rivestito di rapanelli arancioni, e una collana di
tappi di burrobirra. In mano reggeva una cassetta di legno colma di
bulbi verdi simili a cipolle, che prese subito a seminare alla rinfusa
su tutto il pavimento del negozio e su alcuni spazi vuoti sulle mensole.
“A che
servono?” domandò Lily, incuriosita dalla
stravaganza di quella signora.
Gli occhi grandi e
sporgenti di Luna, che le avevano sempre conferito fin da ragazzina
un’aria di perenne sorpresa, si fissarono su Lily.
Quest’ultima, però, non si stupì di
quel suo sguardo, dal momento che ormai chiunque incontrasse sembrava
guardarla in quel modo. Probabilmente la maggior parte delle persone
era influenzata dalla nomea che gravitava da sempre attorno al cognome
Potter, oppure di primo acchito pensavano di avere a che fare con il
fantasma di Ginny Weasley, data la sorprendente somiglianza di Lily con
la madre.
“Oh,
abbiamo un’invasione di Plimpi Ghiottoni in negozio. Le
Radigorde servono ad allontanarli”
“Luna,
tesoro, non erano Nargilli fino a ieri?” fece il marito,
confuso e divertito allo stesso tempo. Ormai era abituato alle
stranezze della moglie e si può dire, anzi, che
l’avesse sposata proprio per il suo carattere particolare e
mai noioso.
“Si…
ma poi questa mattina ho trovato sul retro delle briciole di Zuccotti
di Zucca. Solo un Plimpo Ghiottone può averle
lasciate!” sentenziò con sicurezza.
Rolf Scamandro si
avvicinò a Lily e a Sir. Pongi. “Shh, in
realtà sono stato io! Li devo magiare di nascosto
perché lei non vuole. Dice che attirano i
Ragnospori” e scrollò le spalle, come per
arrendersi alle idee folli della donna che aveva sposato.
Lily non
poté fare a meno di pensare a quanto fosse buffa quella
donna con tutte le sue invenzioni fantasiose e Sir. Pongi nascose un
risolino sotto i baffi.
“Ecco
fatto, i Plimpi non dovrebbero più darci fastidio
ora!” Luna si pulì le mani in un vecchio grembiule
appeso accanto alla porta d’ingresso e si guardò
attorno soddisfatta. La bottega, a dire il vero, appariva ancora
più caotica e confusionaria di prima con tutti quei bulbi
verdi disseminati ovunque.
“Lily
Potter!” esclamò di punto in bianco. Come se fino
ad un attimo prima fosse stata troppo impegnata nella sua occupazione
di disinfestazione per accorgersi di chi aveva di fronte.
“Mio marito ti ha già servito?”
“Si, mi
stava aiutando a scegliere…”
“Le volevo
mostrare un paio di gufi…” intervenne Rolf.
“Gufi? Ah,
no no no! Ho io qualcosa che potrebbe andare di certo
meglio… Aspettatemi…” Luna si
fiondò all’angolo opposto del reparto degli
uccelli notturni e ne tornò qualche secondo più
tardi con una cesta tra le mani.
Straripava di Puffole
Pigmee. Piccole palle pelose di varie sfumature tra il rosa ed il
viola. Stavano tutte dormendo, ogni tanto qualcuna si muoveva e si
agitava nel sonno emettendo dei respiri profondi.
“Che
carine! Cosa sono?” Lily eccitata le avrebbe volute
accarezzare tutte quante.
“Sono
Puffole Pigmee, animali dolcissimi che cantano a Natale” le
spiegò Luna, appoggiando la cesta su un tavolino libero.
“Ne vuoi una?”
Lily fece un cenno
affermativo con il capo, troppo intenta ad ammirarle per parlare.
“Benissimo.
Però non sarai tu a dover scegliere, sarà la
Puffola a scegliere te. Un po’ come le bacchette, no? Non
è il mago che sceglie la bacchetta, ma il
contrario” continuò Luna.
“E quindi
cosa devo fare?”
“Devi solo
presentarti e al suono della tua voce una di loro si
sveglierà e sarà la Puffola che ti
avrà scelto”
“D’accordo!”
Lily si
avvicinò alla cesta.
“Ciao a
tutte! Io mi chiamo Lily Potter e vorrei tanto che una di voi mi
scegliesse e venisse con me ad Hogwarts!”
Una delle Puffole si
mosse rotolando ed aprì due occhioni neri nascosti da un
folto ciuffo di pelo fucsia.
“Forte!”
esultò Lily.
Rolf Scamandro
osservava la scena con immenso stupore, come se avesse appena assistito
ad un evento rarissimo.
“Rolf,
caro, che c’è da essere così
sconvolti?” gli domandò la moglie sorridente.
“Ma quello
non è…”
“Si,
è Arnold! Sapevo che avrebbe riconosciuto Lily,
d’altronde è tale e quale a sua madre!”
***
Quando avevano lasciato il Serraglio, ultima
tappa delle compere scolastiche, il cielo si era scurito e le nuvole
avevano iniziato a riversare una pioggerellina fitta e insistente.
Ombrelli e cappucci stavano spuntando come funghi in ogni angolo e
tutte le locande, i pub e la gelateria stavano trasportando
all’interno i tavolini e le sedie per fare posto alla
baraonda di avventori che, sorpresi dalla pioggia, cercavano riparo.
Le goccioline sottili creavano anelli concentrici nelle pozzanghere che
si erano formate nelle vie lastricate di Diagon Alley e Lily si
divertiva a rimirare il suo riflesso sfocato in quegli specchi
d’acqua piovana, per poi distruggerlo con un movimento svelto
del piede.
L’acqua scivolava in rivoli veloci appannando i vetri dello Speziale, rendendo
quasi impossibile sbirciare all’interno, e tamburellava con
ticchettii pesanti sul tendone che copriva la porta
d’ingresso.
“Sangue di Salamandra! Venti zinchetti al litro! Spine di
Pesce Scorpione! Dodici Zinchetti all’etto!”
gridava un procacciatore di clienti sull’uscio per sovrastare
il rumore della pioggia.
Sir. Pongi sospinse Lily all’interno, nell’attesa
che l’acquazzone diminuisse d’intensità.
Questa volta la giovane Potter si ritrovò in una stanza
decisamente larga e profonda. Sfortunatamente, però, vi
regnava una puzza fastidiosa di uova marce e cavoli putridi e sebbene
lo spazio non mancasse, si doveva comunque fare attenzione a dove si
mettevano i piedi per evitare di incappare in qualche macchia di
liquido viscido o in qualche cartaccia viscosa.
Il leprecauno scrollò la sua criniera fulva e una cascata di
goccioline bagnarono la moquette bordeaux, peraltro già
impregnata delle orme umide e infangate di altri clienti.
Lily oltrepassò una fila di barili semirovesciati e di vasi
contenenti spezie ed essenze dai profumi esotici e si fermò
ad osservare con stupore alcune boccette dal contenuto colorato e una
collezione di piume che tappezzava la parete nord della bottega.
Poco più avanti, attorniato da una ristretta cerchia di
intenditori, il Professor Lumacorno stava presentando quella che, a suo
“modesto” parere, si sarebbe rivelata la scoperta
del secolo.
“La Pozione Rivitalizzante, cari miei, non è da
confondere con la Pozione Rigeneratrice, meglio conosciuta come
Distillato della Morte Vivente” stava annunciando il
Professor Lumacorno sgranocchiando un’immancabile fetta di
ananas candito, sprofondato comodamente in una poltrona in pelle.
“Quest’ultima ha potere di guarigione nel
risvegliare
una persona da un sonno indotto magicamente. Ma, cambiando
sensibilmente le dosi degli ingredienti, con precisione millesimale, si
potrebbero ottenere effetti ancora più eclatanti”
diede un altro morso alla frutta candita e fece una piccola pausa ad
effetto per creare suspense negli ascoltatori. Si lisciò i
baffoni bianchi e le pieghe del mantello che si arricciava sul pancione
prominente.
“Quello di cui vi sto parlando, amici maghi ed amiche
streghe, è una potentissima pozione in grado di far
ritornare le persone da stati vegetativi molto gravi, comparabili alla
morte, se non di resuscitare direttamente i cadaveri! La mia per ora
è solo pura teoria, ma sono certo che con una buona pratica
ed una spietata serie di esperimenti potrò presto farla
divenire realtà”
Dapprima calò un silenzio tombale su tutto il pubblico, poi
si udirono mormorii di sorpresa intervallati da critiche scettiche.
C’era chi sosteneva che fosse un’impresa utopica,
una fantasia di un vecchio Serpeverde ancora troppo attaccato
all’ambizione ed al profitto personale e chi pensava che
sarebbe stata una scoperta rivoluzionaria che avrebbe completamente
cambiato il modo di fare pozioni; altri che con sconcerto la ritenevano
una ricerca pericolosa e letale se fosse caduta nelle mani sbagliate. E
forse questi ultimi non erano poi così lontani dalla
verità.
Di certo, c’era anche qualcuno, nascosto
nell’ombra, pronto ad utilizzare quell’innovazione
per scopi non proprio benevoli.
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Capitolo 9 *** Ritrovarsi ***
9.
Ritrovarsi
"Figlio, fratello, padre, amante, amico:
c'è posto nel
cuore per tutti gli affetti,
come c'è
posto in cielo per tutte le stelle."
Victor Hugo
“Perbacco,
sei la fotocopia di tua madre”
“Hai
gli stessi occhi della povera Ginevra!”
“Sei
tale e quale a tua madre”
Seduta su uno scomodissimo sedile in uno
scompartimento di seconda classe Lily vedeva gli edifici e le vie della
Londra babbana rimpicciolire ed allontanarsi mentre il treno sfrecciava
sui binari. Una centrifuga di tetti, case, forme e colori che
diventavano puntini indistinguibili senza nome contro il chiarore
dell’orizzonte mattutino.
Sir. Pongi aspirava una miscela inglese di tabacco dalla cannuccia
della sua pipa di radica ed era intento a formare degli anelli di fumo
che Lily puntualmente si divertiva a deformare e distruggere con un
risolino ed un gesto scaltro della mano. Quando lei aveva espresso il
desiderio di recarsi sulla tomba della madre, il leprecauno aveva
acconsentito ad accompagnarla, non senza una smorfia di seccatura
iniziale, frutto del suo carattere scostante e lunatico.
Lily voleva vederla, voleva sapere dove riposava, voleva salutare la
donna che l’aveva data alla luce e di cui, con triste
rammarico, non serbava alcun ricordo dettagliato se non un vago sentore
di miele e cannella nei suoi capelli quando la prendeva in braccio per
cullarla.
Ginevra Weasley aveva sacrificato la sua vita per lei. Quella visita
era dovuta. Era un bisogno che Lily aveva sentito crescere da quando
tutte quelle persone a Diagon Alley l’avevano descritta
così somigliante a lei.
Un’ora e venti più tardi erano giunti alla
stazione di Charlbury, la cittadina babbana più vicina al
villaggio di Burford.
Sir. Pongi, che non poteva essere visto dai Babbani, ma solo da coloro
che possedevano poteri magici, si fiondò giù dal
treno e si diresse con passo sicuro verso la zona della biglietteria.
Lily, dal canto suo, rimase immobile sull’ultimo gradino
della pedana, persa nella contemplazione di quel via vai di persone che
si riversavano sui binari, scontrandosi e mescolandosi senza nemmeno
conoscersi.
“Signorina, noi vorremmo scendere! Si dia una
mossa!” si lamentò qualcuno alle sue spalle. La
ragazzina a quell’esclamazione di stizza si riscosse e scese
prontamente, cercando con lo sguardo il Signor Pongi. Lo vide
destreggiarsi in mezzo alla folla, evitando un gruppo di uomini in
giacca e cravatta, ed aggirare una colonna di cemento dietro la quale,
però, lo perse di vista. Affrettò il passo e lo
raggiunse.
“Che fine aveva fatto, Signorina? Non rimanga indietro,
può essere pericoloso ed inoltre abbiamo poco
tempo!” la ammonì il leprecauno con il tono
più severo che gli aveva mai sentito usare.
“Poco tempo per cosa?”
“Adesso lo vedrà da sé!”
Arrivarono nei pressi della biglietteria, dove un marasma di gente
stava aspettando il proprio turno in fila indiana. Un uomo in divisa
d’affari seguitava a lanciare sguardi preoccupati al grande
orologio digitale sopra i tabelloni delle partenze e protestava ad alta
voce per l’inefficienza del sistema ferroviario che,
lasciando aperto un solo sportello, gli avrebbe di certo fatto perdere
il treno. Mentre una donna di mezza età era impegnata a
tenere a bada quelle pesti dei suoi due figli che tentavano di
sgattaiolare ovunque, creando fastidi alle altre persone in coda.
Il leprecauno passò oltre senza darsene cura ed
indicò a Lily una porta nel muro accanto
all’ultimo sportello della biglietteria. Porta che ovviamente
era nascosta ai Babbani da Incantesimi di Occultamento. Una scritta
luminosa avvertiva: BIGLIETTERIA TRASPORTI MAGICI.
“Faccia attenzione che nessuno la veda quando la
attraversa” le bisbigliò il Signor Pongi, entrando
per primo.
Lily si diede una rapida occhiata intorno. Nessuno stava guardando
nella sua direzione ed il luogo era già di per sé
abbastanza nascosto dall’ultimo sportello che in quel momento
era chiuso.
Lily afferrò la maniglia d’acciaio ed
entrò in quello che si rivelò essere poco
più che uno sgabuzzino male illuminato.
Un mago con un berretto da ferroviere sorrise loro dall’altra
parte di un vetro. Una targhetta sulla sua divisa lo identificava come
SIG. GUIDORIO CELERIS, Addetto Ufficio Trasporti Magici.
Babbanofilo convinto, il Signor Guidorio nutriva una profonda passione
per il mondo dei non-maghi, tanto da aver finito per sposare una
Babbana e aver messo al mondo una vagonata di marmocchi tutti quanti
maghinò.
“In cosa posso esservi d’aiuto?”
“Una passaporta per il cimitero di Burford” fu la
richiesta di Sir. Pongi.
***
Toccare quel vecchio ombrello rotto, con le
stecche sgangherate e la calotta di tessuto usurato, era stata
l’esperienza più stramba che Lily Potter avesse
mai provato in tutta la sua giovane vita. Ancora più
stravagante che salire a bordo di una Trasportina. Sebbene sia il
Signor Guidorio sia Sir. Pongi l’avessero avvertita dei
possibili effetti collaterali, non si era aspettata certo di sentirsi
mancare la terra sotto i piedi per essere sbalzata nel vuoto ed
inghiottita in un vortice impazzito. Il tutto era durato solo una
manciata di secondi ma Lily avvertiva ancora un pesante vuoto allo
stomaco. E forse non era dovuto solo al suo primo viaggio con una
Passaporta. Ora che stavano varcando i cancelli del camposanto le
sembrò di essere diretta su una strada di non-ritorno. Non
avrebbe più respirato la tranquilla vita contadina di Ambra.
Si era aperto un mondo tutto nuovo davanti a lei. La fragile campana di
vetro sotto la quale i Signori Goradiel l’avevano tenuta per
tutti quegli anni si era frantumata in mille pezzi. Ed ogni coccio era
un passo in più verso il suo destino.
Il cimitero di Burford, oltre il bosco di robinie, era di impronta
stilistica prettamente anglo-babbana, al pari dei moltissimi parchi
cimiteriali che sorgevano in tutta l’Inghilterra.
I cancelli in ferro battuto erano sempre aperti, anche di notte.
A Lily parve di ritrovarsi in un luogo fuori dal tempo mentre avanzava
tra decine e decine di lapidi bianche, tutte uguali, che spuntavano dal
terreno in formazioni precise ed ordinate. Sir. Pongi si sedette sulla
prima panchina che incrociò lungo il viale, tanto per
concedere alla ragazzina una più che giusta privacy. La
giovane Potter sentiva il cuore batterle all’impazzata nel
petto ora che la consapevolezza di essere vicino alla sua vera madre
l’aveva colta senza riserve. Prese un respiro profondo ed
oltrepassò una scultura in pietra che raffigurava un angelo
ad ali spiegate. Il caldo sole del mattino ne faceva risplendere i
contorni di un bianco cristallino, cosicché osservato da una
certa distanza pareva davvero una visione paradisiaca.
Non sapeva dove cercare esattamente e dove dirigersi, si lasciava
guidare semplicemente dal cuore e dall’istinto.
Imboccò un vialetto, contornato di cipressi, che delimitava
l’inizio della parte vecchia del cimitero, dove
l’erba ed i rampicanti la facevano da padrone sulle tombe
ormai dimenticate.
Arnold, la piccola Puffola Pigmea che portava sempre con sé,
si svegliò all’improvviso e rotolò per
terra emettendo strilli acutissimi. Continuò a rotolare fino
a fermarsi ai piedi di una tomba che si ergeva accanto ad un cespuglio
di rose bianche. Alcuni petali morbidi e candidi sfioravano il profilo
di una donna dai lunghi capelli rossi e gli occhi dello stesso colore
del budino di cioccolato che Lily amava tanto mangiare.
Ginevra Molly Weasley
Potter.
Figlia, sorella, moglie
e madre meravigliosa.
Manca
all’affetto di tutti i suoi cari.
Quel semplice epitaffio inciso in caratteri corsivi sanciva una
verità semplice quanto immortale.
“Mamma!” sussurrò Lily con voce spezzata
dall’emozione. Con una mano scostò i petali di
rosa ed accarezzò la fotografia.
Dei passi distinti alle sue spalle ed uno scricchiolare di rametti ed
erba calpestata la costrinsero ad asciugarsi la lacrima solitaria che
le solcava la guancia.
“Dobbiamo andare di già?”
Ma non fu la voce del Signor Pongi a risponderle.
“Puoi restare quanto vuoi…”
Una mano forte e calda sulla spalla.
“…Lily…”
Sebbene non ricordasse di aver mai sentito quella voce, il brivido e la
scarica d’adrenalina causatele da quel tocco le diedero la
sicurezza che si poteva trattare di una sola persona al mondo.
L’aveva visto solo quando non era altro che una bambina di
pochi mesi, eppure se avesse dovuto immaginarsi un padre che non fosse
stato il Signor Goradiel, se lo sarebbe immaginato esattamente come
Harry Potter. Una zazzera di capelli disordinati e brizzolati e due
occhi verdi nascosti da un paio di occhiali dalle lenti tonde e dalla
montatura spessa.
Si voltò con una lentezza simile a quella di chi sogna ad
occhi aperti e, accompagnata da quell’alone di
sacralità che aleggiava sugli stretti sentieri del parco
cimiteriale e sulla tomba di Ginevra, scoppiò a piangere
senza freni. Gestire così tante emozioni in pochi giorni non
era affatto semplice, soprattutto se il soggetto in questione era solo
una bambina di undici anni.
I suoi singhiozzi risuonarono nel cimitero quasi deserto, rimbombarono
fra le pietre ed i marmi dei porticati dove si susseguivano statue e
sculture di ogni stile architettonico e dove lo stesso pavimento era
costituito da lapidi.
Harry la lasciò sfogare, egli stesso era un fiume in piena
di emozioni che a malapena riusciva a contenere. Prima fra tutte la
gioia infinita nel rivedere quella figlia che per tutti quegli anni
aveva potuto solo osservare di nascosto. Per proteggerla, per tenerla
al sicuro, per allontanarla da qualsiasi minaccia. Finché
fosse arrivato il momento opportuno. E quel momento ora era
lì. Davanti a quegli occhi scuri pieni di lacrime, occhi che
gli ricordavano l’immenso amore perduto della sua vita ma che
allo stesso tempo lo riempivano di speranza e di orgoglio.
Davanti a quelle lentiggini e a quei capelli fulvi che, colpiti dal
sole, avevano le stesse sfumature del grano maturo nei campi.
Il cuore di Harry palpitò e gli tremarono le mani quando
Lily si gettò senza preavviso tra le sue braccia. Una scossa
di commozione e poi il sollievo di averla lì davvero, di
poterla stringere.
Quel momento ora era lì. All’eterna presenza di
Ginny, in quella città di morti immersa nel verde.
Harry chiuse gli occhi e la strinse con tutte le sue forze, come se
fosse l’ultima azione che avrebbe compiuto al mondo. Quando
li riaprì, salutò silenziosamente la tomba della
moglie.
“Ginny, amore,
non ho dimenticato la nostra promessa”.
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Capitolo 10 *** La Partenza: Alla Stazione di King's Cross ***
10.
La Partenza: Alla
Stazione di King’s Cross
“Quell’anno
l’autunno arrivò presto.
La mattina del
1° settembre era dorata e croccante come una
mela…”
(Tratto da “Harry Potter e i doni della morte”)
Il villaggio
di Godric’s Hollow aveva dato i natali al leggendario
fondatore della Casa di Grifondoro e a lui doveva il proprio nome
altisonante. Era una ristretta comunità di maghi e streghe
nella parte occidentale dell’Inghilterra ed ospitava anche
qualche tranquilla famiglia Babbana.
Harry era tornato a vivere lì dopo la morte di Ginny.
Rimanere nella loro casa a Burford non aveva senso senza di lei e senza
Lily, gli causava troppo dolore. Per questo aveva rimesso a nuovo la
vecchia casa dei Potter, che era andata parzialmente distrutta dopo il
duello dei suoi genitori con Lord Voldemort, e vi si era stabilito in
pianta permanente.
A Lily non pareva vero di aver trovato il suo vero padre e
sfruttò ogni minuto delle due settimane che le restavano
prima di partire per Hogwarts per tentare di recuperare tutto quel
tempo perduto.
Harry le aveva fatto visitare il piccolo centro cittadino che constava
di una chiesa gotica dietro la quale si apriva il cimitero dove erano
stati sepolti anche i suoi genitori, un ufficietto postale che sbrigava
i servizi più comuni, un pub poco frequentato e un paio di
negozi che vendevano beni di prima necessità.
La piazza, di pianta quadrata, sulla quale si affacciavano i suddetti
edifici si restringeva poi in una viuzza lastricata ai lati della quale
erano perfettamente allineati una serie di cottage pittoreschi,
tipicamente inglesi.
Era proprio in una di queste casette con il portone colorato di blu, la
recinzione di legno bianco ed un modesto appezzamento di giardino che
Lily trascorse le sue giornate in compagnia del padre.
Quest’ultimo la istruiva ai primi rudimenti di magia,
perché non si trovasse del tutto impreparata
com’era invece successo a lui, ed interrompeva le lezioni
solo per rispondere alle domande curiose della figlia che lo
interrogava su com’era la vita quando la mamma era ancora al
mondo.
Harry, dal canto suo, non aveva bisogno di domandarle come aveva
passato quei dieci anni insieme ai Signori Goradiel. Lo sapeva bene,
dal momento che non aveva mai smesso di tenerla d’occhio
… seppur da debita distanza.
***
La mattina
del primo settembre Harry Potter si svegliò alle cinque,
agitato come se fosse tornato indietro nel tempo a quando aveva undici
anni e toccasse a lui andare ad Hogwarts. Ma era Lily a dover partire
e, proprio come Ginny anni addietro, anche lei non vedeva
l’ora di salire sull’Espresso e quella notte non
era riuscita a chiudere occhio tant’era l’emozione.
Era rimasta sveglia quasi tutto il tempo perdendosi nella lettura di “Storia di
Hogwarts”, un volume di orientamento
propedeutico per un’utile conoscenza della Scuola di Magia
più famosa.
Arrivarono alla Stazione di King’s Cross alle dieci in punto,
a bordo della vecchia motocicletta di Sirius.
Lily si guardava attorno incuriosita mentre suo padre spingeva il
pesante carrello pieno zeppo di bauli, pacchetti e libri di magia. Non
stava più nella pelle all’idea di iniziare quella
nuova avventura e nemmeno si accorse quando Harry la sospinse verso la
colonna di mattoni che separava i binari nove e dieci. Se ne rese conto
solo a pochi centimetri dall’impatto, quando ormai pensava di
dover andare inevitabilmente a sbattere contro quella barriera solida.
Ma, con sua grande sorpresa, non ci fu alcuno scontro. Anzi, si
ritrovarono in un battibaleno in una zona della stazione preclusa ai
Babbani, al di là della colonna che avevano attraversato e
che ora aveva lasciato il posto ad un arco in ferro battuto sopra il
quale campeggiava la scritta: Binario Nove e Tre Quarti.
“Forte! Possiamo rifarlo?”
“Magari la prossima volta, eh! Adesso ti voglio presentare
delle persone!”
***
Sul binario Nove e Tre Quarti
giganteggiava una maestosa locomotiva a vapore scarlatta. Era avvolta
da nuvole di fumo biancastro che celavano nella loro nebulosa foschia
un groviglio di persone affaccendate a spingere carrelli e a cercare
posto nelle carrozze del treno. La pavimentazione lucida del binario
era resa scivolosa dalla moltitudine di goccioline di vapore acqueo che
vi si depositavano e si spandevano a bagnarne l’impiantito.
Un ragazzino dai corti capelli biondi e dallo sguardo stralunato
scivolò su una mattonella sconnessa e capitombolò
per terra, facendo ruzzolare la montagna di libri che aveva in mano.
“Lorcan, ma
che ci fai lì a gambe per aria?” un adulto gli si
fece incontro per aiutarlo ad alzarsi. Lily lo riconobbe. Era Rolf
Scamandro, il proprietario del Serraglio Stregato.
“Papà,
è tutta colpa di una Formitrina!”
farfugliò il ragazzo, rimettendosi in piedi e pulendosi le
mani umidicce sulla stoffa dei pantaloni.
Rolf si
chinò a raccogliere la pila di testi scolastici sparpagliati
al suolo.
“Di chi
sarebbe la colpa?”
“Uffa! Di
una FORMITRINA!” ripetè Lorcan a mò di
nenia. “E’ una specie di formica invisibile che ti
striscia sulle gambe e ti fa traballare fino a farti cadere!”
“E
perché a tuo fratello Lysander non capitano mai incidenti
così bizzarri?”
“Perché
la mamma dice che io da piccolo sono stato punto da una Dispettina, a
Lysander invece non è successo!”
Il padre
scrollò le spalle ed alzò gli occhi al cielo in
segno di rassegnazione.
“Tale e
quale alla madre!” bisbigliò sottovoce.
I vapori si
diradarono attorno all’ultima carrozza ed Harry distinse
chiaramente una testa di capelli biondi, che andavano sempre
più stempiandosi sottolineando un mento affilato. Draco
Malfoy ascoltava, senza parvenza di interesse, le lagne della moglie
Asteria. Quest’ultima era sconcertata dal fatto che il suo
beneamato Scorpius dovesse mescolarsi ad una marmaglia di Mezzosangue,
per di più a bordo di un mezzo di trasporto così
squallidamente babbano, qual era il treno.
“Anni e
anni di evoluzione, eppure guarda a cosa siamo ancora costretti. Non
capisco perché il Ministro della Magia si ostini ancora a
far viaggiare noi Purosangue con questi luridi mezzi babbani!
E’ alquanto degradante, non lo trovi anche tu,
Draco?”
Figura longilinea e
snella, capelli lunghi sempre sciolti ordinatamente sulle spalle e
carnagione chiarissima, Asteria Greengrass era una vera maniaca dello
shopping e dell’agiatezza. Ex magi-modella, passava le sue
giornate a scialacquare il patrimonio di famiglia tra vestiti firmati e
beni di lusso di ultimo grido. Tra la maggior parte delle famiglie di
maghi benestanti era considerata una diva, non solo per il suo stile di
vita assai dispendioso ma anche per la facilità con cui era
riuscita a mettere a guinzaglio l’indomabile Draco Malfoy.
“Il mio
piccolo Scorpy… piccino!” diede un buffetto sulla
guancia al figlio e lo avvolse in una stretta da mamma-chioccia. Il
giovane Scorpius, imbarazzato per quella dimostrazione
d’affetto in pubblico, si divincolò da
quell’abbraccio come un tarantolato. Non fosse mai che la sua
reputazione venisse rovinata già prima di salire sul quel
treno di pezzenti.
“Quel
ragazzino l’ho già visto a Diagon Alley,
papà. E’ cattivo!” commentò
Lily indicandolo, senza farsi notare dal diretto interessato.
“Oh, parole
sagge e sacrosante, cara Lily!”
Padre e figlia si
voltarono contemporaneamente.
Un viso rubicondo e
puntellato di lentiggini li fissava sorridendo compiaciuto e masticando
di buon gusto un panino al bacon. Accanto a lui una donna in tailleur
dall’espressione profondamente intellettuale teneva per mano
un bambino dell’età di Lily e,
dall’altra parte, una ragazzina poco più grande.
“Ron!
Hermione! Vi stavo giusto cercando” esclamò Harry
abbracciandoli. “Lily, questi sono i tuoi zii!”
“Piacere!”
la ragazzina si sciolse in un gran sorriso. “Ciao a
tutti!” aggiunse rivolgendosi ai due figli della coppia.
“Loro sono
Hugo e Rose. Anche loro frequentano Hogwarts ed Hugo è al
suo primo anno, proprio come te” le spiegò
Hermione.
“Io invece
sono al terzo. Casa di Corvonero” si intromise Rose.
“Non esitare a chiedere il mio aiuto se ti trovi in
difficoltà”.
“Non avevo
dubbi che sarebbe stata smistata a Corvonero. È una
secchiona, forse peggio della madre!” sussurrò Ron
all’indirizzo di Harry.
“Ronald
Weasley, ti ho sentito sai? Almeno io non ho dovuto Confondere
l’esaminatore di guida per ottenere la patente
babbana!” lo rimbeccò la moglie.
“Per le
mutande di Merlino, donna! Era solo una battuta!” Ron le
sorrise divertito.
“Hai un
pezzo di bacon tra i denti, comunque!” ribattè
Hermione in tono infastidito.
Lily non
riuscì più a trattenersi e scoppiò a
ridere fragorosamente, imitata istantaneamente dal padre e dai due
ragazzi.
“Si
punzecchiano sempre, però si vogliono bene!”
concluse Rose, dimostrando una maturità esemplare, cosa che
gli adulti sembravano aver lasciato a casa.
Da un altoparlante
una voce gracchiante annunciò l’imminente partenza
del treno. Le parole finali vennero sovrastate dal cicaleccio dei
genitori che salutavano i propri figli e si persero nel trambusto degli
ultimi bagagli che venivano issati sul treno.
Un ragazzo dai
lineamenti indiani, con corti capelli neri, non voleva saperne di
partire.
“Io non ci
vado, zia Padma. Non ho voglia! Non mi piace!”
“Amal Patil
Jordan! Sali subito su quel treno… e senza fare
storie!” si impuntò la zia.
La prima carrozza era
riservata ai prefetti e i due vagoni seguenti erano già
completamente affollati di studenti.
Lily, dopo aver
abbracciato e salutato calorosamente il padre con la promessa di
tornare per le vacanze, si affrettò insieme ai cugini a
salire a bordo in cerca di uno scompartimento libero.
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