Phoenix di ___MoonLight (/viewuser.php?uid=151752)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Let the flames begin ***
Capitolo 2: *** It could've been worse ***
Capitolo 3: *** In dream ***
Capitolo 4: *** One way road ***
Capitolo 5: *** As Always ***
Capitolo 6: *** Get off my cloud ***
Capitolo 7: *** Heart of steel ***
Capitolo 8: *** Another brick in the wall ***
Capitolo 9: *** Time is running out ***
Capitolo 10: *** Stumbling ***
Capitolo 11: *** Falling ***
Capitolo 12: *** Sinking ***
Capitolo 13: *** Psychosocial? ***
Capitolo 14: *** Hysteria ***
Capitolo 15: *** Scar tissue ***
Capitolo 16: *** Twist and shout ***
Capitolo 17: *** High hopes ***
Capitolo 18: *** Another family reunion ***
Capitolo 19: *** It's gonna be OK, someday ***
Capitolo 20: *** Close to the bottom ***
Capitolo 21: *** Tiptoe higher ***
Capitolo 22: *** Rage against the machine ***
Capitolo 23: *** Unsustainable ***
Capitolo 24: *** Message in a bottle ***
Capitolo 25: *** Your bridges are burning down ***
Capitolo 26: *** Hycarus ***
Capitolo 27: *** Apocalypse, please ***
Capitolo 28: *** Of storms, shells and shattered dreams ***
Capitolo 29: *** Innervision ***
Capitolo 30: *** In noctem ***
Capitolo 31: *** Iron and bones ***
Capitolo 32: *** Chasing cars ***
Capitolo 33: *** It can only get better ***
Capitolo 34: *** Stay hungry ***
Capitolo 35: *** Stay foolish ***
Capitolo 36: *** Friends will be friends ***
Capitolo 37: *** Show and tell ***
Capitolo 38: *** No man is an island ***
Capitolo 39: *** Smoke and mirrors ***
Capitolo 40: *** Kintsugi ***
Capitolo 41: *** Dancing in the dark ***
Capitolo 42: *** Showbiz ***
Capitolo 43: *** Legacy ***
Capitolo 44: *** Supernova ***
Capitolo 45: *** Neutron star ***
Capitolo 46: *** Highway to Hell ***
Capitolo 47: *** Knockin' on Heaven's door ***
Capitolo 48: *** The show must go on ***
Capitolo 49: *** Sometimes you can't make it on your own ***
Capitolo 50: *** Stand by me ***
Capitolo 51: *** Walk of life ***
Capitolo 52: *** Epilogo - Phoenix ***
Capitolo 1 *** Prologo - Let the flames begin ***
"Non voglio dire che dalle ceneri di una
barbara prigionia
non si sia
mai personificata metafora più grande
della Fenice nella storia
dell'uomo!"
[Tony Stark - Iron Man 2]
*
.
Prologo
.
.
Let
the flames begin
"Dark
shines
Bringing me down
Making my heart feel
sore"
[Dark Shines - Muse]
Forse
è solo svenuto.
È buio e non scorge un singolo barlume di luce
a parte la vaga luminescenza del reattore arc. Pochi secondi e anche
quella si dissolve tremolando, lasciandolo sprofondare
nell'oscurità
più assoluta e facendogli perdere un battito, atterrito
dalla
consapevolezza che il suo cuore potrebbe fermarsi da un momento
all'altro.
Non accade.
Fa per muoversi e si accorge
dall'insolita leggerezza del suo corpo che non indossa più
l'armatura. È nudo, vulnerabile e indifeso.
Non riesce a capire
come sia possibile. La sua mente sembra girare su se stessa nel
tentativo di orientarsi, di rievocare un'immagine familiare e
rassicurante. L’ultima cosa che ricorda è che fino
a poco fa era
su un tetto, in un'armatura semidistrutta e con Iron Monger deciso a
ucciderlo.
Barcolla come i pensieri che gli sfrecciano caotici
in testa, senza riuscire a formulare una spiegazione coerente.
Cerca di guardarsi le mani, ma è così buio che
non ne distingue
nemmeno il profilo. Non ha la percezione dello spazio attorno a
sé:
è
come se fosse incorporeo. Sembra che faccia molto freddo,
perché ha
l'impressione che il suo respiro si condensi in vapore, ma il buio gli
impedisce di esserne certo. Compie infine qualche passo incerto,
temendo di incontrare il vuoto sotto di lui. Un senso di nausea lo
assale quando a tratti non riconosce più il sotto dal sopra,
la
destra dalla sinistra...
“Ho perso i sensi?”
Le vertigini
lo fanno quasi crollare in ginocchio ed è costretto a
fermarsi,
pregando che il mondo, qualunque esso sia, smetta di vorticare
attorno a lui.
“Sono morto?” è il successivo pensiero
che lo
assale, così chiaro e definitivo che se ne sente quasi
schiacciare.
Improvvisamente sente un forte click, che
associa istintivamente a un qualche meccanismo che non riesce a
vedere, e pochi istanti dopo un vago bagliore illumina quella che
identifica come una specie di parete. Non riesce a capire da dove
provenga la luce: non vede lampade, non ci sono globi luminosi,
né
neon. Esiste e basta. E dopo qualche istante nota,
con
un'inquietudine che non sa spiegarsi, che ha una tenue sfumatura
azzurra.
Acquista un poco di visuale, che gli dà solo un'idea
più
precisa di quanto sia immenso il luogo in cui si trova: un ambiente
sconfinato, avvolto di nero, con un soffitto che non riesce a
distinguere e che non è neanche sicuro ci sia, come se si
trovasse
nello spazio profondo.
Non riesce a stupirsi.
***
Pepper
premette il pulsante con foga disperata, sentendo il richiamo di Tony
che somigliava più a un grido di dolore.
Un improvviso boato le
riverberò nelle ossa, facendola sobbalzare, e vide i flussi
di
energia del reattore accumularsi nel fragile involucro di vetro,
sfrigolando e sprizzando scintille mentre si caricava sempre
più,
diventando incontenibile.
Spinta dall'istinto si gettò dietro a
un mucchio di casse in acciaio, appena in tempo per ripararsi
dall'onda d'urto che si sprigionò di lì a pochi
secondi. Rimase
immobile per istanti interminabili, rintronata dal tintinnio dei
resti del lucernaio andato in frantumi.
Represse la paura solo quando
realizzò che Tony era ancora sul tetto, solo, ferito,
forse...
Annullò il pensiero e scattò in piedi, uscendo
dal suo
nascondiglio. Scorse qualcosa di molto grosso e molto pesante cadere
dal tetto, diretto proprio nel cuore del congegno. Riconobbe con uno
spasmo di terrore l'armatura di Stane, e rimase paralizzata sul
posto, gridando alle proprie gambe di muoversi. Scattò verso
l’uscita nell’istante in cui il corpo esanime di
Stane sprofondò
nell’energia liquida che ancora ribolliva nel reattore.
Registrò
appena l'agente Coulson che la afferrava per un braccio costringendola
a
correre più veloce.
Uscì nell’aria fredda della notte e
sentì
il calore dell’esplosione bruciarle la schiena e il ruggito
delle
fiamme dietro di lei. Si girò di scatto verso l'edificio,
ridotto
ormai in macerie, e corse di nuovo dentro ignorando la paura che la
attanagliava e i richiami allarmati di Coulson.
Il calore era soffocante, ma non vi badò, addentrandosi
nella struttura ed evitando i focolai brucianti che avviluppavano le
apparecchiature. Era appena giunta in vista
dei resti fumanti e carbonizzati della sala del reattore quando
accelerò il passo, allarmata da un clangore metallico, come
se
qualcosa si fosse appena schiantato dal... tetto. C'era
una
sola altra persona in quell'edificio oltre a lei, e sentì un
morsa
di panico stritolarle lo stomaco. Sbucò infine davanti al
reattore,
col respiro corto. Una sagoma, avvolta dai resti contorti di
un'armatura rosso-oro, era abbandonata inerte sul pavimento irto di
vetri.
Per un attimo non riuscì neanche a pensare, a muoversi, a
respirare. Poi il fiato che aveva trattenuto si riversò in
un grido
straziato:
«Tony!»
***
Si
accorge che quello che aveva scambiato per una parete è in
realtà
uno specchio. Fissa il suo riflesso, accigliato, e la
perplessità
inizia a farsi largo in lui: dovrebbe avere un taglio sulla tempia e
uno
squarcio sulla gamba destra, ma la pelle è intatta, il
reattore arc
al suo posto, anche se spento. Nota una macchia vermiglia che gli
sfigura il volto, indefinita, di un rosso così scuro da
sembrare
nero. Ruota leggermente il capo per vedere meglio, ma ora il suo viso
è perfettamente normale e integro. Forse era solo un'ombra.
Forse sta impazzendo. Forse è già impazzito.
Ticchetta
sulla piastra metallica del reattore in un gesto abituale. Cerca di
riflettere ma la sua mente è vuota e indolente, offuscata da
una
nebbia oscura e venefica.
Non riesce a capire.
Sente il velo della
paura posarsi sulla sua pelle.
***
Il
suo volto era una maschera di sangue, tanto da essere quasi
irriconoscibile. La gamba era piegata in un’angolazione
innaturale,
una massa indistinta di metallo e carne che la fece rabbrividire. Il
reattore arc nel suo petto lampeggiava irregolarmente, e il
braccio... il braccio.
Sentì un vuoto allo stomaco,
mentre continuava a chiamare il suo nome con tutte le forze che aveva
e tentava invano di fargli aprire gli occhi.
***
Uno strano pizzicore gli
irrita il braccio e lo guarda d'istinto. Spalanca gli
occhi, esterrefatto: la sua pelle si sta ritirando,
come onde
dopo essere scivolate sulla spiaggia.
Grida, orripilato, ma
non sente
dolore, solo una sorta di fastidio e prurito; guarda il resto del suo
corpo, ma è intatto, a parte la gamba destra, che sta
subendo la
stessa sorte del braccio. Grida ancora, inziando a respirare
affannosamente, senza sapere come fermare quell'orrore. Avverte un
vago prurito anche all'occhio sinistro e scorge per un attimo se
stesso nello specchio, ma distoglie immediatamente lo sguardo. O
almeno vorrebbe
distogliere lo sguardo, ma è come ipnotizzato.
Riesce a scorgere vene,
tendini e legamenti all'interno del suo
corpo, in modo così dettagliato da poterne rimanere quasi
affascinato, se
un cieco terrore non avesse preso il controllo della sua mente.
Il
processo si blocca e rimane a fissare il suo braccio scarnificato.
Ha il respiro corto e gli sembra che il suo petto stia per
collassare.
All'improvviso, una
sottile patina argentea ricopre
l'osso, poi pian piano il resto dell'arto, facendolo rilucere
debolmente nella penombra. Sobbalza e si volta, cercando di ritrarsi,
di scappare, ma dietro di lui è apparso un altro specchio
che
gli
restituisce la stessa immagine proiettata all'infinito. Al posto dei
legamenti si stanno formando altre componenti dall'aspetto metallico,
e le vene e le arterie sono di un blu e un rosso troppo acceso per
essere naturali.
Lo stesso accade alla
gamba e, immagina, anche
alla parte sinistra del volto, che si rifiuta di guardare e scorge
solo come un alone rossastro e indistinto. Paradossalmente si calma, ma
il cuore gli martella le costole e i pensieri sembrano
voler schizzare via dal cranio per quanto sono numerosi.
Sta
diventando veramente
un “uomo
di ferro”?
Tra poco
toccherà forse al suo intero corpo diventare un automa di
metallo?
Non prova ancora dolore,
e forse è la cosa che lo spaventa
di più.
***
Le
parole di Rhodes risuonavano lontane, incomprensibili. Coulson che
tentava di allontanarla dal corpo di Tony sembrava una presenza
incorporea, perché lei non voleva muoversi, non voleva
lasciarlo
lì. Si divincolò dalla sua
stretta, incapace di parlare,
e lui la lasciò, dicendole qualcosa che non comprese, ma che
sapeva
essere importante. Si lasciò infine portare un poco
più lontano
per lasciare spazio ai soccorsi. Si sentiva avvolta da una spessa
nebbia che sembrava isolarla da tutto ciò che le accadeva
intorno.
L’urlo di Tony la riportò alla
realtà e si girò di scatto, vedendolo contorcersi
in preda a un
dolore convulso. Fece per precipitarsi da lui, ma Phil la trattenne con
fermezza per le spalle, e lei non poté fare altro che
rimanere a guardare
mentre gli agenti dello SHIELD cercavano di trasportarlo su un
elicottero. Non riusciva più a parlare e si sentiva come se
qualcosa le avesse risucchiato ogni energia, così si
lasciò scivolare a
terra, improvvisamente annientata dal dolore e dalla fatica.
Phil
le parlava in tono gentile e rassicurante, ma lei escluse le sue
parole e chiuse gli occhi, esausta.
***
Il
dolore divampò nel suo corpo facendolo ripiegare su se
stesso.
Era
troppo, più di quando gli era esploso quel missile
addosso, più di
quando gli avevano impiantato il reattore, più di quando
erano
morti i
suoi genitori. Si sentì annichilito dalla sofferenza e
spalancò la
bocca in un grido muto, mentre i polmoni ardevano per la mancanza
d'aria. La testa sembrò implodere dalla sofferenza. Il mondo
diventò un concerto di lampi psichedelici, un abbraccio
rovente che
lo avvolse e lo soffocò prima di gettarlo nel buio.
Sentì il
clangore degli arti metallici che toccavano terra, poi un grido.
Un
altro.
Un boato ovattato e infine un mormorio lontano...
«Dove
sono?»
_____________________________________________________________________________________________________________________________________
AVVISO [11/05/2018]:
Questa storia è stata completamente revisionata. In alcuni casi le modifiche sono superficiali, in altri i capitoli hanno subito pesanti rimaneggiamenti per far fronte all'evoluzione della storia nel corso di questi anni. Se c'è qualche anima pia che ancora segue e capita da queste parti, si consiglia la rilettura completa della fan-fiction prima di leggere i capitoli nuovi – dal 30° in poi :)
(Le note di fine capitolo sono rimaste inalterate, salvo chiarimenti relativi alle aggiunte/modifiche.)
[_Lightning_]
Note Delle Autrici:
N.B:
- L: _Lightning_
-S: MoonRay
Dopo quattro mesi di assenza da EFP risorgiamo dalle ceneri. E non c'è da ridere, stavolta: Tony soffre! Che intuito, davvero.
Dunque, dunque, dunque. Che dire? Non diciamo, perché sta a voi scoprire cosa è successo a quel povero cristo. Eh, già, niente spoiler in questo primo capitolo. Fatevi forza e, se siete intrepidi/e, passate al prossimo!
Sappiate solo che, toccato il fondo, non si può che risalire. Quante, quante volte ripeteremo questa frase nel corso della storia... tenetevi forte.
Vi lasciamo all'inizio di questo sclero con tanti baci e abbracci, per quanto lo possa consentire un capitolo del genere.
Un grazie a chi leggerà/recensirà :)
Moon&Light
P.S.: Le altre nostre storie sono sui nostri account separati, of course. Chi avesse voglia di sorbirsi un po' d'angst/scleri vari, è invitato a prendere il depliant e iniziare la visita guidata del magico mondo di Moon&Light! Per ora, la nostra è una convivenza temporanea [L:"Mi ha chiamato, Watson?"] (S: Sherlock, a cuccia! èwé) *sclero-time* Glaucopis capirà...
EDIT 08/05/2019: In seguito al ritrovamento di un appunto comune datato 2014 (fare una rilettura completa di tutto, e dico TUTTO, prima del gran finale si è rivelato cruciale) ho apportato delle modifiche al capitolo, cambiando layout e tempi verbali. A dispetto delle apparenze, è una modifica molto rilevante.
© Marvel
|
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Capitolo 2 *** It could've been worse ***
Parte
Prima
.
"L’uomo
non è fatto per la
sconfitta.
Un uomo può essere distrutto, ma non sconfitto."
E. Hemingway
.
-
.
.
.
-.
1
It
could've been worse
"On
this bed I lay
Losing everything
I can see my life passing me
by
Was it all too much?
Or just not enough?
Wake me up,
I'm
living the nightmare..."
[Time
Of Dying – Three Days Grace]
5
Gennaio 2009, L.A. General Hospital
“Dove
sono?”
La
prima cosa che percepì fu un'intensa ondata di freddo che
gli
attraversò fastidiosamente il corpo. Poi la sensazione
– più una
supposizione che una certezza – di essere sdraiato, forse su
un letto – ed in quel caso era anche piuttosto scomodo.
Un odore acre lo prese alla gola, e solo allora si rese conto di
respirare a
stento
e che ogni respiro era una stoccata nei polmoni.
Un irritante bip
risuonava
in sottofondo, lontano...
Aprì
di scatto gli occhi, senza ben sapere come avesse fatto e nemmeno se
l'avesse davvero voluto. Venne subito accecato dalla luce troppo
forte per le sue retine sensibili, così fu costretto a
sbattere più
volte le palpebre prima di mettere a fuoco dove fosse. Si
ritrovò a
fissare uno spazio bianco e indefinito. Gli ci volle qualche secondo
per riconoscere un soffitto.
Non
fu un bel risveglio, perché a breve distanza gli si
rovesciarono addosso in un sol colpo tutte le sensazioni rimaste sopite
fino a quel
momento: un forte senso di oppressione al petto, un vago prurito al
braccio e alla gamba destra, l'ago di una flebo nell'incavo del gomito
e una
zona d'ombra sull'occhio sinistro...
Capì
di avere una fasciatura intorno alla fronte che passava anche sotto
il collo, impedendogli così di muoversi e rendendolo cieco
da un
lato. Si sentiva girare la testa e faticava a restare cosciente:
doveva essere l'effetto dei sedativi. Percepiva il bordo fastidioso di
una mascherina per l'ossigeno premergli sul naso, ma non aveva la forza
per spostarla.
Ruotò l'occhio scoperto – anche quello era uno
sforzo titanico – fino a
scorgere una figura seduta nella poltroncina accanto al letto. La
riconobbe all'istante,
con un indicibile sollievo.
“Pepper”,
provò a chiamare, ma emise solo un gemito roco e
incomprensibile;
bastò a far alzare di scatto la testa alla donna, con
un'espressione a metà tra lo speranzoso e il diffidente,
come se
avesse già vissuto troppe volte quella scena. Quando
incrociò i
suoi occhi rimase interdetta, e Tony, incapace di parlare, si
limitò
a forzare un lieve sorriso, un po' sghembo per via del labbro
spaccato.
«Tony!»
Gli fu subito vicina, come rianimata, e si aspettò che
iniziasse a
tempestarlo di domande su come si sentisse e su ogni minimo doloretto
che provava, invece gli poggiò solo una mano sulla fronte,
con uno
sguardo che gli trasmise la sua inquietudine. Invece delle mille
domande intelligenti che avrebbe potuto porre, si limitò a
gracidare un'unica parola, soffocata dalla mascherina:
«Acqua.»
Si sentiva la gola secca e la lingua di carta vetrata: quando
parlò
ebbe la netta sensazione che le sue corde vocali stessero per
spezzarsi.
«È sotto sedativo: non può ancora
bere,» rispose
Pepper con voce tremante.
«Ah. Bene. Cioè male.» Tossì
forte e gli sembrò
di avere del sangue in bocca.
Pepper gli scostò i capelli dalla fronte, sempre con uno
sguardo indecifrabile, come se stesse aspettando
una catastrofe che tardava ad arrivare, e questo non faceva che
agitarlo di più. Possibile che fosse stato così
male?
«Pepper?»
Il sorriso con cui la donna tentò di
rispondere assomigliava più a una smorfia di dolore. Decise
di
sdrammatizzare come solo lui sapeva fare: si sarebbe irritata a
morte, ma almeno avrebbe capito che adesso stava bene. Si
scostò la mascherina dal volto, concludendo che riusciva a
respirare abbastanza bene anche senza.
«Devo aver
mangiato pesante ieri sera... » esordì con un
mezzo ghigno.
“Ahia,”
protestò
dentro di sé, quando una decina di muscoli si tesero
dolorosamente
insieme al sorriso.
«... perché ho fatto un sogno tremendo. Era
assurdo e assolutament–»
Si bloccò, interdetto.
Non
si era ben reso conto di cosa l'avesse fatto interrompere, poi
capì:
aveva cercato di sistemarsi la benda sull'occhio con la mano destra,
e l'aveva fatto... ma la benda era rimasta al suo posto, come se non
l'avesse mai toccata. Provò ancora, e stavolta si accorse di
non
percepire la stoffa sotto ai polpastrelli. Pepper lo stava fissando
con occhi lucidi, come se capisse quello che stava accadendo, al
contrario di lui. Spostò lo sguardo verso il suo braccio e
fu travolto
da
un'ondata di gelo.
Vuoto.
Il
suo braccio non c'era.
Pepper
iniziò a piangere sommessamente.
«Merda.»
***
«Pepper...»
rantolò, cercando di issarsi sui cuscini con un braccio solo.
"No.
No.
No."
«Stia
fermo!»
Pepper
tentò di farlo sdraiare nonostante le sue proteste, ma Tony
era ora
smanioso di sapere cos’altro lo aspettasse; lei gli
coprì l’occhio,
ma scostò bruscamente la sua mano, sollevando il
lenzuolo che
avrebbe dovuto nascondere la gamba destra.
Vuoto.
La
gamba era troncata sopra il ginocchio.
Si
lasciò ricadere all’indietro, portandosi la mano
al moncherino inferiore
nonostante il dolore che gli causava anche solo
sfiorarlo. Respirava
affannosamente, mentre Pepper cercava di catturare il suo sguardo
vacuo, parlandogli senza che lui riuscisse davvero a sentirla.
«Cos’è
successo?» si sentì dire come da molto lontano.
“Non
è possibile. È
impossibile.
Sto sognando. È ancora un sogno, vero?”
«È
stata colpa... di Stane, lui ha... ha fatto questo,»
cercò di evitare la
domanda, e si interruppe non volendo scendere nei dettagli che
sembrava ricordare ancora così bene.
«Che
cos’è successo?» ripetè Tony,
più forte, chiedendosi come
facesse a rimanere ancora così calmo.
«Penso
che sia meglio rimandare la...»
«Mi
dica che diavolo è successo!» inveì
infine, e fece come per
sbattere il pugno destro sulla brandina... gesto che non avrebbe mai
più potuto compiere e che gli inviò solo una
scarica
di dolore in tutto
il corpo.
Pepper sussultò, colpita dalla sua veemenza e dai suoi
occhi lucidi di frustrazione che esigevano una spiegazione. Da lei,
non dal medico di turno.
«Si calmi. Lo so che è sconvolto, ma non ho
passato qui le ultime
due settimane per vederla stare male di nuovo,»
ribattè, in un
tono più duro di quanto intendesse.
«Due
settimane!»
«Sì...»
Tony lanciò
un’occhiata ai due arti mancanti, ancora in stato
confusionale.
“I
conti tornano.”
Il
suo sguardo era come calamitato dalle sue ferite, ma lui non voleva
guardare. Non doveva,
perché quel sogno era già abbastanza vivido
senza doversi imprimere nella memoria ogni particolare.
"Questo
è
un sogno," si
ripetè disperato, ma le fitte di dolore che lo tormentavano
erano
più che reali.
Un pensiero più definito degli altri emerse dalla
massa confusa che gli ottenebrava il cervello, e risuonò
nella voce di Pepper: doveva rimanere calmo. Lasciare che quel panico
che sentiva occludergli il petto trapelasse
non l'avrebbe aiutato. Serrò il pugno, l'unico che gli
rimanesse, respirando a fondo e a fatica.
Si
sentiva come quando si era svegliato in quella grotta, terrorizzato,
al freddo e attanagliato da un dolore accecante, con dei cavi che
sporgevano dalla macchina infernale che era diventata suo cuore di
fortuna. All'epoca non aveva lasciato
che il panico avesse la meglio su di lui, anche se era circondato da
uomini armati che lo volevano morto. Aveva combattuto ed era riuscito a
trovare una soluzione a ciò che avrebbe dovuto ucciderlo
nonostante la situazione tutt'altro che favorevole.
Adesso era in un ospedale, al
sicuro, assieme all'unica persona al mondo che tenesse a lui
– e alla
quale tenesse. Riusciva a percepire i suoi occhi cerulei che lo
trapassavano
mentre gli stringeva la mano, che l'aveva cercata inconsciamente
aggrappandosi a lei con forza, quasi potesse aiutarlo a uscire dal
turbinio dei
suoi pensieri e strapparlo da quell'incubo.
Guardò di nuovo i
moncherini, bendati strettamente, e di nuovo non capì. Gli
sembrava che i suoi arti fossero lì, ancora attaccati al suo
corpo. Piegò il gomito, ne percepì il movimento,
ma c'era solo aria al suo posto. Fece lo stesso col ginocchio,
provò a sollevare il piede, ma il lenzuolo rimase al suo
posto, immobile.
Scosse la testa, chinando il capo fattosi pesante come piombo. Il suo
cervello si stava rifiutando di elaborare quello che era successo e non
riusciva a far combaciare le discrepanze tra ciò che sentiva
e ciò che vedeva. Si sentiva sprofondare in una sensazione
di vuoto confuso, come se fosse sollevato a qualche metro da terra sul
punto di schiantarsi, ma ci fosse ancora un esile filo a trattenerlo
che lo faceva ondeggiare qua e là.
Strinse la presa su quella calma momentanea e
sulla mano di Pepper, rimasta in silenzio fino ad allora. Si
voltò a guardarla e notò solo allora i segni
delle lacrime sulle sue guance. Quel dettaglio gli sembrò
improvvisamente molto più preoccupante delle sue condizioni
fisiche. L'unica volta che l'aveva visto sul punto di piangere era
stato al suo ritorno dall'Afghanistan. E quelle, si rammentò
con una stretta al petto, erano state lacrime di gioia, arrivate dopo
non sapeva quante lacrime di paura e preoccupazione per lui. Non
riuscì a celare il suo turbamento nel guardarla, ma si
sforzò di ricacciare indietro la disperazione che sentiva
premere dentro di lui, pronta a traboccare. Non poteva farla preoccupare
ancora con le sue scenate. Si limitò ad ancorarsi nei suoi
occhi, cercando di riprendere il controllo del suo corpo e dei suoi
pensieri. Lei restituì il suo sguardo con fermezza,
facendogli capire con quel semplice silenzio che non era solo.
Sentì sciogliersi uno dei mille nodi di tensione stretti nel
suo stomaco.
"Respira.
Quello puoi ancora farlo, almeno."
E respirò, per molti minuti, fino a sentirsi la testa
leggera e il corpo pesante, o forse il contrario. Aveva sicuramente
incamerato troppa aria, ma Pepper rimase lì, a fargli da
àncora per evitare che iniziasse a fluttuare per davvero. Si
concentrò su quel semplice atto meccanico, estraniandosi da
tutto il resto, preferendo le fitte acute alle costole al dolore sordo
ai moncherini. Quando iniziò a credere di poter percepire
ogni atomo d'ossigeno che entrava nei suoi polmoni e ogni molecola di
anidride carbonica che ne usciva, si convinse di essere abbastanza
padrone di sé stesso per aumentare il suo raggio di
percezione, e si accorse di quanto fosse fredda la stanza, con solo la
sottile veste ospedaliera a coprirlo. Avvertì la pelle d'oca
sulle... sul braccio, e represse un piccolo brivido. Strinse le dita e,
oltre alla pelle liscia di Pepper, avvertì il tessuto ruvido
delle lenzuola contro i polpastrelli. A quel punto mise a fuoco anche
la propria vista, rimasta annacquata fino ad allora, e perse altri
lunghi minuti a contare i fitti pois che decoravano la stoffa del suo
abito. Deglutì, concludendo che non voleva concentrarsi
troppo sullo sgradevole sapore di medicinali e sangue che aleggiava
sulla sua lingua, e raccolse il coraggio per procedere col check-up
attivo del proprio corpo, dopo quello passivo. Il suo secondo cuore gli
sembrava un ottimo punto di partenza.
Portò subito la mano al
petto, sul reattore, grato di poter indirizzare i suoi pensieri su
qualcosa di
familiare:
«E tu? Almeno ci sei ancora,» osservò,
allentando la veste fino a scoprirlo per poi
estrarlo cautamente dal
supporto; lo squadrò in controluce, sotto gli occhi ancora
arrossati di Pepper.
Il blu illuminò fievolmente il suo palmo,
rasserenandolo almeno in parte. Era vivo, Pepper era viva, il suo
cuore batteva ed era ancora Tony Stark. Non era cambiato nulla.
Poteva
far finta di star bene ancora per un po'.
Calmo.
Doveva stare calmo.
«L’ha fatto sostituire... almeno stavolta
non l'ha dovuto fare lei,» articolò a fatica,
riuscendo a
strapparle un
sorriso sottile al ricordo della prima,improvvisata sostituzione del
reattore.
«Rhodey ha recuperato uno dei
prototipi dal laboratorio,» la sua voce tremolò,
ma non si ruppe.
«E quello vecchio? Dopotutto
è un suo regalo. Un regalo molto
utile,» aggiunse,
realizzando che Pepper gli aveva inconsapevolmente salvato la vita.
Se non fosse stato per quel vecchio e obsoleto reattore, sarebbe morto
d'infarto. Si trovò a serrare il pugno nel pensare a Stane e
a come l'avesse lasciato agonizzante nel suo salotto, condannandolo a
morte certa. I suoi pensieri tornarono a farsi burrascosi. Lo "zio
Obie" l'aveva pugnalato alle spalle. Chissà da quanto tempo
progettava di farlo fuori, dietro tutti quei sorrisi amichevoli e
quella sorta di atteggiamento paterno... si era lasciato raggirare come
un bambino.
Fu lieto che la voce di Pepper lo distogliesse da quelle riflessioni:
«Mi ha sempre detto di non
essere un
tipo nostalgico,» disse piano, forse per non far tremare
ancora la sua
voce «Ma ho tenuto il reattore
vecchio,
giusto per sicurezza,» concluse in tono lievemente
canzonatorio.
Tony volle dimenticarsi per un momento dell’orribile
situazione in cui si trovava per soffermarsi sul timido sorriso Pepper,
forse
rincuorata dal suo sfoggio di spavalderia. Si limitò a
stringerle un poco la mano, in un gesto grato, per poi farsi
più serio quando lo sguardo gli cadde inevitabilmente sul
moncherino della gamba. Rughe di preoccupazione tornarono a disegnarsi
sul suo volto.
«Posso ritenermi
fortunato?» esalò, temendo di perdere il controllo
da un momento all'altro.
«Direi di sì. Mi creda,»
replicò lei, senza guardarlo.
«Non so se ritenerlo
rassicurante,» appoggiò la testa al braccio
rimasto
ed iniziò a
parlare come se pensasse ad alta voce, mascherando non seppe come il
tremito della sua voce e dei suoi pensieri. «Ricapitoliamo:
ho perso una gamba, e anche un braccio. Grandioso. Non ricordo
assolutamente nul– anzi! Un lampo blu. Questo lo ricordo...
ma
non mi dice niente.»
“Memoria
offline. Ci mancava questa."
«Non
ho idea di quanto ancora resisterà il reattore, visto che
è un prototipo mal riuscito, e probabilmente ho una ventina
di
lesioni interne. E ho ancora sete. Conclusione medica: prognosi
riservata. Conclusione personale: sono finito in un letamaio, e sto
cercando di essere delicato. Ma tutto sommato... poteva
andare peggio,» sospirò infine, senza fiato e con
una fitta alle costole probabilmente rotte.
«Poteva
diventare ancora più irritante, scansafatiche ed egocentrico
di
quanto non fosse già,» concordò Pepper,
in un debole tentativo d'ironia.
«Quello
sarebbe
stato un guaio,» le diede corda lui, sollevato che si fosse
ripresa, anche se aveva ancora gli occhi rossi e sembrava celare la
sua preoccupazione nello stare al suo gioco: fingere, finché
possibile, sarebbe stato meglio per tutti e due.
Scese un silenzio assoluto, ma non teso. Un silenzio
necessario.
In quel
mentre entrò di corsa nella stanza un medico; si
bloccò così in
fretta sulla soglia che quasi gli traboccò il
caffè dalla tazza che
teneva in mano.
«Salve,» salutò Tony con un debole cenno
della mano buona.
Il medico ebbe un’attimo di esitazione,
interdetto dall'apparente vitalità del paziente.
«Bentornato tra
noi, signor Stark,» esordì con fare professionale.
Poggiò il caffè sul comodino e si
avvicinò al
letto.
«Oh, grazie.» Tony fece per prendere la bevanda, ma
Pepper gliela soffiò appena in tempo sotto al naso.
«Questo è
per me,» specificò lei, ringraziando il medico con
un cenno del capo, che lui ricambiò appena.
«Sono il dottor Ian Mitchell, l’ho seguita durante
la sua permanenza qui, anche se non può saperlo,»
si presentò intanto l'uomo, piuttosto alto, con corti
capelli grigio ferro e le lenti degli occhiali a schermargli gli occhi
chiari induriti dalle rughe.
Tony gli tese
la mano:
«Sa già chi sono. E scusi la sinistra,»
borbottò, mentre il medico gliela stringeva con delicata
fermezza.
«Ma le pare... si
faccia dare un’occhiata,» disse infilandosi lo
stetoscopio,
lanciandogli uno sguardo vagamente sospettoso.
«Non mi sembra che
ci sia molto da dire...» commentò lui, rassegnato,
ma acconsentì a farsi visitare.
Fece cenno a Pepper di rimanere; dopotutto, l'aveva vegliato da
incosciente per due settimane e poteva sopportare di farsi vedere senza
quell'orrendo camice da ospedale. Sperò solo che il medico
non dovesse scoprirgli le ferite, ma questi sembrava solo voler
constatare le sue condizioni generali. Mitchell sembrò
contrariato quando gli auscultò il
respiro, e spostava in continuazione lo sguardo sul reattore.
«Non
sto per andare in autocombustione, Doc,» sbottò
infine,
irritato anche per i mille dolori che scopriva di avere su tutto il
corpo.
«Quel coso
ci ha causato non sa quanti problemi con la
risonanza magnetica,» borbottò lui, lanciando
un'occhiata astiosa al congegno.
«Risonanza?!
Questo
"coso"
svolge
il
ruolo di un magnete! È un miracolo che non si sia
guastato...» s'interruppe con un lamento quando gli
sfiorò l'ennesima
contusione.
Pepper intanto fissava assente il pavimento, persa nei suoi
pensieri che molto probabilmente lo riguardavano. Anche lei aveva
rischiato la vita, ma non sembrava ferita, a parte qualche cerotto
superstite
sulle mani.
Non ricordava nulla dello scontro... ma l'aveva salvata, di questo era
certo. E poteva forse considerarla l'impresa migliore che avesse mai
compiuto in vita sua. Si sentì talmente felice nell'averla
lì con lui, sana e salva, che gli si formò un
groppo in gola al solo pensiero di
non averla lì.
Per una volta in vita sua non aveva fallito, anche se aveva pagato un
caro prezzo. Aveva la consapevolezza di quanto sarebbe stata difficile
e dolorosa la propria vita d'ora in poi, ma sapeva anche che non
avrebbe mai rimpianto di aver sacrificato ciò che aveva
perso per proteggerla. L'aveva messa in pericolo lui, in fin dei conti.
E glielo doveva, almeno per averlo sopportato nel corso di tutti quegli
anni invece di abbandonarlo in una pozza d'alcol e sangue. Le doveva la
volontà che l'aveva spinto a uscire da quella grotta un anno
prima.
Senza un paio d'arti poteva ancora cavarsela. Senza di lei... non ne
era così convinto. Ma era lì, con
lui.
Il panico allentò finalmente la sua morsa.
***
Finalmente Michell pose fine a quella tortura legalizzata e si
piantò di
fronte a
lui a braccia conserte, serio.
«Per quanto riguarda la gamba e
il braccio non c’è molto da fare, ma con l'aiuto
di un chirurgo
plastico potremmo riuscire a sistemare l'occhio, almeno dal punto di
vista estetico,»
annunciò, monocorde.
«L’occhio?»
«Sì,
l’occhio.»
«Anche
l’occhio?»
«Anche
l’occhio,» confermò mestamente Mitchell,
abbassando il capo.
Tony
tastò rassegnato la benda e sentì con un sobbalzo
lancinante
l’orbita vuota sotto
le dita, assieme alla sensazione di qualcosa che si lacerava da qualche
parte nel suo addome.
«Anche
l’occhio,» sospirò.
«Mi dispiace.»
«Non si preoccupi,
il sinistro è sempre stato il mio profilo
peggiore,» commentò
assente, sentendosi distruggere da quell'ultima scoperta ma deciso a
non mostrarlo al medico, e soprattutto a Pepper, che continuava a
mantenere un religioso silenzio.
Mitchell gli scoccò un'occhiata dubbiosa, come se temesse
che gli antidolorifici gli
avessero dato alla testa. Tony non reputava la cosa improbabile; era
sicuro che se non fosse stato sedato avrebbe come minimo avuto un
attacco isterico. O forse sarebbe solo svenuto per il dolore, che per
ora rimaneva un'ombra tagliente conficcata al posto dei suoi arti
mancanti, impossibile da ignorare ma sopportabile. Si trovò
a ringraziare la sua soglia del dolore decisamente più alta
in seguito alla prigionia, prima di rendersi conto che ciò
non era comunque un fatto positivo.
«Dicevo, dovremmo poter ricostruire
senza troppi problemi la parte di viso sfregiata dalla
scheggia,» riprese Mitchell, quasi con cautela.
Tony sussultò nel sentirsi definire "sfregiato",
ma
resistette all'impulso di portarsi di nuovo una mano al volto. Si
limitò ad
annuire rigidamente.
Prima che Mitchell potesse aggiungere altro, un infermiere si
affacciò nella
camera.
«Dottor Mitchell, la attendono in corsia.»
«Arrivo.»
«No,
no, aspetti!» Tony si agitò sul letto, suscitando
la preoccupazione di Pepper «Tra quanto potrà
dimettermi?»
«Ha così fretta di
morire ancora?» replicò secco il medico, senza
scomporsi.
«Voglio solo uscire da qui. Subito,»
sottolineò Tony, sollevando appena il busto nonostante
l'urlo di protesta della sua schiena contusa.
«Signor Stark, la prego, ascolti il dottor
Mitchell,» intervenne Pepper, ora chiaramente messa in
allarme dalla sua irrequietezza.
«Non
sarà in grado di lasciare l'ospedale per almeno un mese: le
servono
le nostre attrezzature,» le venne in aiuto il medico,
già sulla soglia.
«Mi prende in giro? Le produco io, le
vostre attrezzature; mi basta un attimo per trasferirle a casa
mia,» s'incaponì l'altro.
«Vedremo.
Per ora stia buono e non stressi la povera signorina Potts con
richieste assurde. Sì, mi ha avvertito del suo
caratteraccio,» lo
anticipò Mitchell, uscendo dalla stanza.
A quel punto Tony si abbandonò sui cuscini,
sentendo che parlare lo aveva stancato molto più di quanto
aveva
previsto. Chiuse gli occhi – l'occhio, in effetti. Aveva solo
una gran voglia di dormire e
fingere per qualche ora che non fosse successo niente.
Sentì
la mano di Pepper sfiorare la sua, come per controllare se fosse
ancora sveglio, e sospirò sfinito. Gli era rimasta accanto
per due
settimane; aveva notato le profonde occhiaie che le solcavano il
viso, e nonostante le proprie condizioni fossero ben più
gravi non
riusciva a
fare a meno di sentirsi in colpa per averla fatta
preoccupare.
Avrebbe dovuto ringraziarla, ma era
così stanco...
***
Un gran trambusto nel corridoio lo riscosse dal
dormiveglia.
Pepper s'incupì all'istante.
«Di nuovo,» disse, visibilmente
irritata.
Si rivolse poi a Tony:
«Permette?»
«Tutto quel che
vuole,» replicò lui, assonnato.
Aveva appena finito di parlare
che la donna gli sistemò il lenzuolo in modo da coprire
del tutto le ferite,
per poi spiegarvi sopra anche la coperta.
«Non si muova e non si
lasci vedere. E stia calmo.»
La guardò senza capire, ora un po' più presente a
se stesso.
Da fuori arrivò la voce furibonda di Mitchell:
«Questo non è un
reality-show! Via di qui! Ho detto via!»
Si
sentì ancora un tramestio di passi, poi la porta si
spalancò,
vomitando un fiume di telecamere e giornalisti che invasero la
stanza.
«È sveglio!» esclamò
qualcuno, la cui voce acuta gli trapassò i timpani sensibili.
Subito fu inondato
da una sfilza di domande ininterrotta, che gli fecero tornare il
cattivo – ovvero
pessimo – umore rimasto sopito fino a quel
momento e gli fecero anche
comprendere la preoccupazione di Pepper nel coprire il suo corpo
mutilato. Badò bene a rimanere ben sotto lo strato di stoffa
che lo
copriva e piegò la gamba sana, così da non
rendere troppo evidente
la mancanza dell'altra. Non aveva mai avuto problemi ad offrirsi a foto
e telecamere in circostanze più che scandalose, anzi, ma in
quel momento avrebbe voluto avere di nuovo addosso l'armatura per
polverizzare ogni obbiettivo nel raggio di dieci metri. E anche i
giornalisti, visto che c'era.
«Come sta, signor Stark?»
«Cos'è
successo?»
«Sente dolore?»
«Quando riprenderà il suo ruolo
nelle Stark Industries?»
«Lei è davvero l' "Iron
Man"?»
«Che fine ha fatto Stane?»
Pepper cercava come
poteva di scacciarli, bombardata anche lei di domande che non
intaccarono minimamente la sua cordiale compostezza, ma una decina
di giornalisti erano troppi anche per lei e sembrava sul punto di usare
i tacchi come armi improprie. Mitchell era impegnato a
confabulare con una guardia della sicurezza, che sembrava convinta di
non poter fare niente per respingerli, e Tony si trovò a
chiedersi quante mazzette gli avessero passato.
Domande... domande... ancora
domande. Si
sentiva scoppiare la testa. E neanche lui aveva la più
pallida idea di cosa diavolo ci facesse su un maledetto letto
d'ospedale col proprio corpo ridotto a metà.
Chiuse gli occhi, ignorò il
mondo
contando fino a diec– cinque,
e poi esplose:
«FUORI
DI QUI!»
Tutti
tacquero per qualche istante e lui si sentì girare la testa
per lo
sforzo. I suoi polmoni protestarono debolmente.
Silenzio.
«È
in diretta,» azzardò una giornalista imprudente.
«È
così divertente mandare in diretta persone in
coma?»
«Ma...»
«Signor
Stark...»
«Sparite.»
Il
suo tono fu così secco e glaciale da far sprofondare di
nuovo la
stanza nel silenzio. Stava per dire qualcos'altro, ma un lampo blu gli
esplose in testa e il reattore, per ora celato agli occhi dei
giornalisti, tremolò emettendo un sibilo preoccupante,
strappandogli
un lamento di dolore che lo costrinse a sprofondare di nuovo la testa
nel cuscino.
Pepper diventò una furia. Non ricordò mai con
esattezza cosa avesse detto, ma di sicuro non
doveva
essere mandato in diretta. Sentì
un miscuglio indefinito di grida, proteste e qualche sporadica
domanda lanciata nel vuoto. Percepì una voce maschile che
parlava
sommessamente con Pepper. Non sembrava quella di Mitchell, ma aveva un
che di familiare. Le sue orecchie erano rintronate e gli arrivava solo
un mormorio ovattato e indistinguibile.
Percepì un ago affondargli nel braccio e subito dopo i suoi
muscoli si rilassarono. Scivolò in un quieto dormiveglia,
cullato dal chiacchiericcio di fondo ininterrotto. Rinunciò
a cercare di cogliere le parole, preferendo concentrarsi sulla voce
pacata di Pepper.
Poi
tornò la calma. Il dolore gli annebbiava la mente, in un
flusso incessante che scaturiva dalle sue ferite.
Alzò lo sguardo stanco su Pepper,
ancora rossa
di rabbia, e sentì di ammirarla immensamente.
Sospirò,
pensando ad un altro mese su quello scomodo lettino, con una flebo
nel braccio e orde di giornalisti da tenere a bada...
«Andiamo
a casa,» riuscì a mormorare.
Poi il mondo
sfumò intorno a
lui e cadde in un sonno profondo.
_____________________________________________________________________________________________________________________________
Revisione effettuata l'11/02/2018
Note Delle Autrici:
Ordunque... ecco il primo capitolo vero e proprio!
Iniziamo subito col dire che l'apparente "leggerezza" con cui Tony accetta quel che è successo è, appunto, apparente.
Volevamo mantenerci IC, ispirandoci anche alla sua reazione quando ha scoperto di avere un magnete impiantato nel petto. Pensiamo che, conoscendo il suo carattere, l'avrebbe probabilmente buttata sul ridere, o almeno mascherato ciò che provava.
Aspettatevi prossimamente un crollo emotivo!
A parte questo... siamo sadiche, sì; Tony soffre, sì; Pepper si dispera e Mitchell è importante.
Speriamo che vi sia piaciuto e ringraziamo alliearthur e sofy96 che hanno aggiunto la storia alle seguite (un commentino ci farebbe piacere per sapere che ne pensate ;)
Moon&Light
Link alle nostre pagine:
_Lightning_ & MoonRay
© Marvel
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Capitolo 3 *** In dream ***
2
-
-
In
dream
"I
don't know what to take,
Thought I was focused but I'm scared.
I'm
not prepared.
I hyperventilate, looking for help somehow
somewhere,
But no one cares.
I'm my own worst enemy."
[Given
Up – Linkin Park]
15
Febbraio, Villa Stark
Si
risvegliò con il mormorio lontano del mare che si infrangeva
sulla
spiaggia. Non aprì ancora gli occhi, cullato da quel suono
familiare. Percepiva la penombra in cui era avvolta la stanza e una
fievole lama di luce che filtrava dall'ampia finestra elettronica
scaldandogli appena il volto. Doveva essere l'alba. Socchiuse gli
occhi, ancora assonnato e senza la minima voglia di alzarsi.
Quell’incubo l’aveva distrutto ed era molto
rassicurante
svegliarsi a casa sua come ogni mattina e non in un qualsiasi letto
d’ospedale.
“Il
mio braccio?”
Era lì. Lo sentiva.
“La gamba?”
Anche la
gamba.
Sospirò:
erano lì. Era tutto come prima.
“E
l’occhio?”
La parte sinistra era ancora buia.
“Ho
una fasciatura: è ovvio che non veda.”
Era
solo un taglio doloroso, ma era ancora in grado di vedere
perfettamente.
Si
tirò su a sedere un po’ indolenzito, girandosi
subito verso la
finestra. Si voltò per alzarsi, a
sinistra – perché
a
sinistra, poi? Scendeva sempre a destra...
“No.
Oggi scendo a sinistra,” si
disse, suonando poco convincente persino a se stesso.
Poggiò
il piede per terra e si alzò senza sforzo; mosse un passo...
ma gli
mancò il secondo appoggio e rovinò a terra di
peso. Parò le mani – la
mano
–avanti, ma urtò comunque la testa dal lato ferito
e fu come se
un petardo gli esplodesse nel cervello. Lanciò un gemito
soffocato
sentendo un bruciore atroce in tutto il corpo e i moncherini che
pulsavano violentemente per l’impatto. La voce elettronica di
JARVIS risuonò nella stanza, spiacevolmente squillante:
«Signor
Stark, è ancora troppo debole per...»
«Muto!»
ordinò
tra i denti, stringendo il pugno fino allo spasmo per non mettersi a
urlare dal dolore.
Percepiva ogni muscolo del suo corpo in tensione, come
sul punto di spezzarsi. La mandibola gli cigolò per quanto
era
contratta. Poggiò la fronte per terra con le lacrime che gli
appannavano la vista, incapace di muoversi.
Rimase
a terra con i muscoli contratti e gli occhi serrati per un tempo che
gli sembrò infinito, finchè il dolore non
iniziò a scemare. Non
scomparve: la sua stretta continuava a torturargli le ferite, ma
divenne sopportabile quel tanto che bastava per permettergli di
formulare un pensiero coerente che non fosse il desiderio di
svenire.
Ora
doveva rialzarsi. Si sentì mancare, tanto che rimase bocconi
qualche
altro minuto prima di osar muovere un dito.
Forse
avrebbe dovuto chiedere aiuto. Era sicuro di non essere solo a casa;
sicuramente c'era qualche infermiere a prendersi cura di lui. Si
trovò a stringere nuovamente il pugno, sentendosi avvampare.
Le
settimane trascorse in ospedale stavano riemergendo dalla sua memoria
annebbiata, scuotendo il suo orgoglio già ferito. Non si
sarebbe
fatto accudire come un bambino anche in casa propria. Fece appello
a tutte le proprie forze e si trascinò penosamente ai piedi
del
letto, facendo leva sul gomito come un soldato che striscia tra il
filo spinato; da lì vi salì con uno sforzo
immane, aggrappandosi
con un braccio solo alle coperte e sentendosi svenire. Un'improvvisa
debolezza lo assalì e fu sul punto di lasciare la presa e
ricadere a
terra, ma con un debole colpo di reni riuscì finalmente a
issarsi
sul letto. Si abbandonò stremato sul materasso,
boccheggiando in
cerca d'aria e percependo un acuto dolore al petto, dove era
incastonato il reattore. Era assolutamente incapace di muoversi
ancora, anche solo per raggiungere il cuscino.
Fu solo allora che la
verità lo colpì come uno schiaffo.
Era stato rassicurante
fingere che non fosse successo nulla. Finché era rimasto in
ospedale
tutto quello che gli era accaduto aveva mantenuto dei contorni
irreali, come di un miraggio che per quanto sembri avvicinarsi rimane
sempre ancorato all'orizzonte. Fingere era stato facile. Bastava
ignorare tutto ciò che accadeva attorno a lui, inclusi gli
sguardi
colmi di preoccupazione di Pepper. Aveva
finto fino ad allora, cosciente o meno, ma non poteva negare
ciò che
era successo: aveva perso un braccio, una gamba e un occhio. Se lo
ripeté mentalmente più volte e quelle parole, da
spaventose e
ineluttabili, sembrarono perdere pian piano di senso, come una
filastrocca recitata troppe volte fino a diventare una semplice
sequenza di suoni privi di significato. La sua mente si stava
chiudendo a riccio, respingendo i concetti nascosti dietro a quel
mantra monocorde. Li respingeva con violenza, negando, e negando
ancora; e mentre la vera proporzione di ciò che gli era
accaduto
continuava a sfuggirgli, altre riflessioni si facevano largo tra le
fitte di dolore.
Forse quella era la punizione per aver stroncato
tanto vite nel corso della propria: quante persone erano rimaste
mutilate, o peggio, a causa sua? Portò d'istinto la mano al
reattore, avvertendone il lieve ronzio.
Allora non era quella, la sua
punizione. Doveva aver sbagliato qualcos'altro anche quando pensava
di aver finalmente imboccato la strada giusta. Forse si era solo
voluto convincere di ciò.
Ma adesso? Non doveva sprecare la sua
vita, ma come avrebbe potuto anche solo pensare di viverla
in quelle condizioni?
Quei pensieri non fecero che acuire la sua
disperazione. Non voleva rinunciare all'unica cosa che avesse dato un
senso alla sua esistenza futile. Non voleva abbandonare la sua nuova
immagine di ferro.
Rimase a fissare il soffitto, una mano ancora sul reattore, e
gli sembrò che le ombre che si allungavano pian piano col
sorgere
del sole scorressero come un diorama, proiettandogli ciò che
avrebbe
dovuto affrontare da allora in poi. Probabilmente non sarebbe
più
stato neanche in grado di camminare. Non avrebbe più potuto
lavorare
senza sosta in laboratorio, con un braccio solo. Non sarebbe riuscito
a guidare le macchine d'epoca che amava tanto. La sua fama di
dongiovanni sarebbe diventata una macchietta risibile, così
mutilato
e sfigurato. Non riusciva neanche a immaginarsi di indossare
l'armatura, di volare e combattere, di fare l'unica cosa giusta che
sentiva di aver fatto.
Chiuse l'occhio e gli sfuggì un sospiro
tremante di frustrazione.
Che senso aveva sprecare così la sua
vita?
***
Si
riscosse dal dormiveglia, frastornato. Era così sfinito che
si era
addormentato senza accorgersene. Era più calmo adesso, o
forse solo
più rassegnato.
Si
tirò a sedere sul letto, lisciandosi i capelli scompigliati
con
un'espressione ferrea sul volto. Tutto era cambiato. Ma tutto doveva
continuare ad essere come prima.
Era abituato a portare maschere
che non gli appartenevano. L'aveva fatto per anni, così a
lungo che
ormai erano diventate parte di lui. Non sarebbe stato difficile farlo
anche adesso.
Rialzò lo sguardo, incontrando quello del suo
riflesso nello specchio di fronte al letto. Si costrinse a non
distoglierlo.
La benda sull'occhio era una chiazza bianca sul suo
volto, picchiettata di rosso. Gli arti amputati erano bendati
strettamente e spuntavano brutalmente dalla t-shirt e dai
pantaloncini, impossibili da celare. Aveva ancora una loro vaga
percezione, nonostante la sua parte razionale gli dicesse che era
impossibile. Mosse la gamba destra e gli sembrò di sentire
l'articolazione del ginocchio piegarsi, il muscolo che si tendeva, i
legamenti che scivolavano tra le ossa. Il moncherino si
limitò a un
fremito doloroso che lo fece sobbalzare, scacciando
quell'illusione.
Il suo riflesso lo fissava smarrito, e si
chiese se apparisse davvero così indifeso, così spoglio.
La luce del reattore trapelava sotto la maglietta scura, ma non lo
rassicurò.
"Come
faccio a vivere così?"
Avrebbe
dovuto affidarsi totalmente a qualcuno, diventare un peso...
Non
poteva sopportarlo. Si accorse di essere scosso da brividi: la sola
idea della vita che lo attendeva annientava la sua determinazione e
incrinava la maschera che aveva appena deciso di indossare.
Guardò
ancora lo specchio, e vide solo il corpo di un... non sapeva come
definirsi. Un mezzo uomo?
Fu un pugno nello stomaco: lui, sempre
così sicuro di sé e con un ego smisurato, ora
incapace anche di
camminare e descriversi. Non riusciva a ricordare com’era
prima.
Sapeva come sarebbe dovuto apparire, ma non riusciva a cristallizzare
l'immagine, sfuggiva alla sua vista pronta ad essere
dimenticata.
Esitò, colpito da un’idea improvvisa,
un’idea
così poco sensata da accettarla a braccia aperte... si
incupì per
quell’espressione. Mormorò un ordine preciso a
JARVIS, che obbedì
dopo un paio di obiezioni atone. Persino lui si rendeva conto che non
era una buona idea.
L’immagine
riflessa nello specchio cambiò. Il suo gemello gli
restituiva ancora
il suo sguardo disperato, ma con una gamba, un braccio e un occhio in
più, creati da un reticolo olografico proiettato sul suo
corpo. Fece
più male di quel che si sarebbe aspettato; vedersi
così,
normale. Fece
per toccare il braccio virtuale, ma le
dita passarono attraverso la proiezione aumentando l’intenso
senso
di perdita. Cercò la forza di sfuggire a quella forma di
masochismo,
senza però voler realmente sottrarsi a quella tortura.
Vide
un movimento nello specchio dietro di lui e la porta si aprì
con uno
scatto metallico. Pepper fece capolino nella stanza esitante, come
temendo di svegliarlo. Nel vederlo seduto sul letto, avvolto da
quelle proiezioni azzurrine e con lo sguardo fisso davanti a
sé, si
bloccò sulla soglia.
«Signor
Stark?»
Lui
non
rispose, continuando ad ammirare il suo spettacolino autolesionista.
Voleva davvero mostrarsi così debole e incapace di accettare
la
realtà? Era ancora in tempo per annullare l'ordine a JARVIS,
per
dire "basta".
Ma Pepper ormai era entrata e potè vedere
i suoi occhi intristirsi sulla superficie lucida dello specchio.
Abbassò lo sguardo, colpevole e conscio di averla delusa. Non
aveva la minima idea di come avrebbe reagito; sperava che non lo
trattasse come un bambino bisognoso di comprensione. Era una cosa che
non avrebbe sopportato: almeno lei doveva rimanere se stessa, se lui
non ne era in grado.
La sentì avvicinarsi e fermarsi
accanto a lui, scrutando gli arti olografici che tremolavano
leggermente. Tony avrebbe voluto dire qualcosa, tirar fuori una delle
sue osservazioni sarcastiche come aveva ininterrottamente fatto
durante il suo ricovero, ma le parole si persero prima che potesse
pronunciarle.
«JARVIS,
basta così,» ordinò lei al posto
suo.
Gli ologrammi si dissolsero,
scoprendo nuovamente i moncherini.
Tony
rialzò
la testa, incontrando i suoi occhi e notando che erano leggermente
velati, ma si mantenne ferma accanto a lui, senza parlare.
«Il
signor Stark ha attentato alla sua incolumità,»
intervenne a
sproposito JARVIS, rompendo però quel silenzio pesante.
Pepper
si accigliò e guardò interrogativamente Tony.
«Sono
caduto,» mormorò lui, riprendendo una parvenza di
autocontrollo.
«E
quella?» gli indicò qualcosa accanto al letto che
prima gli era
sfuggito.
“Una
sedia a rotelle?”
Un
guizzo di vitalità lo rianimò, riscuotendolo
dallo stato catatonico
in cui era scivolato. Alzò la testa verso Pepper, con
sguardo
gelido.
«Quel
trabiccolo infernale?» lo apostrofò «Io
non ci salgo,» s'impuntò, assumendo la sua solita
espressione da
“neanche per
sogno”, ma con una voce tetra che non gli
apparteneva.
I
cupi pensieri di prima si erano d'un tratto tramutati in una fiera
ostinazione che gli impediva categoricamente di abbassarsi a tanto.
Essere scarrozzato in giro senza la minima libertà era troppo.
«E
come pensa di muoversi?»
Tony
parve pensarci, spiazzato da quella domanda così banale e
dando fondo alla sua
inventiva per trovare una risposta adeguata. Cercò di
smorzare il
suo tono troppo serio per non destare sospetti. Si stampò in
faccia
un'espressione che sperò fosse neutra e si
schiarì la gola prima di
parlare.
«Con...»
l’immagine di se stesso con un solo stivale
dell’armatura gli
attraversò la mente. «Con il mio...»
l’immagine si tramutò in
lui che sbatteva dolorosamente la testa al soffitto. «Come
non
detto.
Un paio di– una
stampella
andrà bene,» sbottò infine.
Pepper lo fissò un momento,
dubbiosa di fronte alla sua improvvisa leggerezza e indecisa se
accontentarlo o meno, ma vinse il suo senso del dovere.
Avvicinò con
un gesto perentorio la carrozzella al letto in modo da permettergli
di scendere, ma Tony continuava a pretendere la sua stampella,
insistendo di "non essere un invalido". Dopo una lunga ed
estenuante discussione Pepper dovette quasi sollevarlo di peso per
farlo sedere sull'"infernale trabiccolo" per accompagnarlo
al bagno.
«Signor
Stark, almeno per i primi tempi dovrebbe
cercare
di
abituarsi.»
«Non
voglio
abituarmi,»
mormorò lui di rimando.
Pepper
non seppe come ribattere; Tony non era mai stato molto collaborativo,
ed era un lato del suo carattere estremamente difficile da
sopportare, ma in quella circostanza era sicuramente
giustificato.
Arrivati in bagno, uno sguardo glaciale da parte sua
le fece capire che, no,
non aveva bisogno di aiuto anche per quello e, no,
anche se ne avesse avuto bisogno, non lo avrebbe chiesto né
accettato. Pepper chiuse la porta alle sue spalle sperando che
riuscisse a destreggiarsi per conto suo senza troppi danni.
Tutta
quella situazione le era assolutamente estranea e non sapeva
assolutamente come interagire con lui. In ospedale le era sembrato il
solito irriverente, sboccato e arrogante Tony Stark. La cosa l'aveva
inizialmente turbata, ma poi aveva voluto accettarla senza porsi
altre domande. Non era sicura di poter gestire anche quell'improvviso
cambiamento. Era peggio, molto peggio di quando era tornato
dall'Afghanistan. Almeno allora si era costruito qualcosa per cui
vivere, ma adesso anche quello era distrutto.
Non era in grado di
prevedere cosa sarebbe successo, ma volle convincersi che non sarebbe
stato peggio di ciò che era già accaduto.
***
«Oggi
ha un paio di visite da fare: tra poco arriverà il dottor
Mitchell.»
«Grandioso,
immagino che passerò la mattinata a sentirmi dire tutto
ciò che non
posso fare.»
«Il
dottor Mitchell è altamente qualificato e troverà
di certo il modo
migliore per...»
Tony
si passò una mano tra i capelli mentre perdeva le parole che
Pepper
pronunciava. Che cosa avrebbe potuto dirgli Mitchell che già
non
sapeva?
“Signor
Stark, si sta riprendendo molto bene...”
scimmiottò
mentalmente.
In
quel momento, disperato com’era, l'addolcire la pillola non
avrebbe
fatto altro che irritarlo ancor di più. Aveva sempre pensato
che
avere un reattore nel petto fosse la cosa peggiore che potesse
capirargli, ma evidentemente si era sbagliato. Questo
era
di gran lunga peggiore.
Si
era sempre reso conto di essere un egocentrico con un'autostima
sproporzionata e lo aveva accettato quasi con orgoglio, tanto per
ribadire il concetto di amor proprio. Il fatto di non essere
più
normale lo metteva in difficoltà, costretto a scontrarsi col
suo corpo e con la sua mente, ed era una guerra persa in partenza. Per
vincerla non poteva far altro che inculcarsi in testa la
realtà, e
nonostante tutto non la capiva.
Non poteva essere altrimenti,
ma una parte di lui doveva per forza accettarla come una nuova legge
a cui non poteva opporsi neanche lui. D'altra parte, seduto su quella
carrozzella, sentiva di non potersi opporre proprio a nulla.
Si
guardò intorno con frustrazione, sentendosi opprimere dalle
mura
della sua stanza nonostante l'ampia parete di vetro affacciata sul
mare.
Era una giornata ventosa, a giudicare dalle foglie delle
palme che si agitavano come fruste nelle folate improvvise, ma il
cielo era terso e luminoso. Avrebbe potuto essere un giorno
qualunque di gennaio, ma non lo era, almeno non per lui.
Tony distolse lo sguardo dal
mondo esterno apparentemente immutato, realizzando che lo faceva solo
sentire più impotente.
Pepper era impegnata a dare un'occhiata
alle sue cartelle mediche, un numero spropositato, prima della
visita. Ne approfittò per sbirciare ancora nello specchio,
ben
sapendo quanto poco saggia fosse quella mossa.
Click.
La stanza
sprofondò di colpo nel buio.
"Cosa?"
Non
vedeva assolutamente nulla.
"Anche
i blackout mentali? No, grazie," sospirò, rassegnato e
inquieto.
Gli
bastavano i disturbi motori, senza aggiungerci pure quelli
psichici.
Lo specchio c'era ancora. Ed era assolutamente certo di
essere ancora seduto sulla sua maledetta sedia a rotelle, ma
il suo riflesso era in
piedi, e sorrideva col suo solito sogghigno beffardo e con tutti gli
arti al posto giusto.
Era un'allucinazione?
Quanti sedativi gli avevano somministrato?
Fece
appena in tempo a focalizzare l'immagine che il suo clone
alzò un
braccio, come in un cenno di saluto. Ammiccò con
complicità e fece un giro
su se stesso, mettendo ben in vista gli arti che dovevano essere
mutilati nel suo corpo reale. Gli si mozzò il respiro in
gola,
mentre imprimeva a fuoco nella mente quell'immagine, in ogni suo
dettaglio. Percepì chiaramente le sue sinapsi,
apparentemente sedate
fino a quel momento, riavviarsi e mettere in moto un treno di pensieri.
Da qualche parte vicino al reattore percepì un'orma di
calore, come scintille che si levano da un
fuoco morente.
La figura fece infine un mezzo inchino, come di un presentatore che
saluta il proprio pubblico, e fu
come risucchiata in un tunnel alle sue spalle. Tony chiuse l'occhio,
sentendo
crescere
uno strano senso di eccitazione del tutto irrazionale che lo investiva
a ondate. Poco ci
mancò che scendesse di corsa dalla sedia a rotelle; la sua
mente
stava lavorando a velocità febbrile.
Solo dopo un po' si accorse
di essere
di nuovo nella sua stanza, con Pepper che lo scuoteva il più
delicatamente possibile per farlo rinvenire da qualunque limbo onirico
l'avesse risucchiato.
«Tony? Tony, la prego, risponda!»
«Pepper!»
gridò, quasi non riconoscendo la propria voce rotta
dall'emozione.
«Mi
ha fatto prendere un colpo!» esplose Pepper, perdendo
definitivamente la propria compostezza «Sembrava svenuto
e...»
«Ascolta!
Ascoltami!»
le afferrò il polso per bloccare i suoi movimenti agitati e
per la prima volta dopo anni spazzò via ogni
formalità tra loro, in
uno stato di esaltazione che non aveva mai provato.
«Tony?» lei
s'interruppe, presa in contropiede da quel gesto
«Ma che le...»
«Un
foglio! Mi
servono un foglio e una matita! Sa disegnare?! No, no, non importa,
ma faccia presto prima che...»
"Ora,
maledizione!"
imprecò,
sentendo i dettagli sfumare nella sua memoria e formule e calcoli che
si sovrapponevano e rimescolavano rischiando pericolosamente di
perdere senso, di svanire nell'oblio confuso della propria mente.
Non
gli importava se fosse stato un colpo di genio, un lampo di follia o
l'effetto dei sedativi: sapeva cosa fare.
Sapeva cosa fare!
______________________________________________________________________________________________________________________________
Revisione effettuata il 12/02/2018
Note delle Autrici:
Rieccoci! Con sommo anticipo, di solito pubblichiamo... sì, praticamente ogni mai.
Ma questa storia ci sta prendendo più delle altre... colpa di Light marvel-fanatica, ovviamente. Ed grazie anche a sofy96 e a alliearthur che continuano a seguirci e che hanno recensito lo scorso capitolo.Ci ha fatto davvero molto contente ricevere dei pareri e sapere che siamo sulla retta via verso l'IC!
A presto!
Moon&Light
P.S.: Altre storie scritte individualmente le trovate sulle nostre rispettive pagine di EFP :)
P.P.S. (Light): Il titolo è stato scelto per due motivi: 1) È il titolo di un altro film in cui ha recitato Robert Downey Jr., 2) Ci sembrava adatto perché, come avrete notato, il confine tra realtà e sogno, o allucinazioni, se vogliamo, è piuttosto vago e continuerà ad esserlo sporadicamente.
-
© Marvel
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Capitolo 4 *** One way road ***
3
One way road
"Some might say they don't believe in Heaven
Go and tell it to the man who lives in Hell
Some might say you get what you've been given
If you don't get yours I won't get mine as well"
[Some Might Say – Oasis]
«Pepper,
mi ascolti, la prego!»
«Lei non sa quello che dice. Sembrava in
trance, almeno credo, ed è meglio che stia tranquillo fino a
che...»
Tony stava per alzare la voce, esasperato, completamente
euforico e allo stesso tempo disperato, ma il campanello elettronico
trillò con forza proprio in quel momento.
«Il dottor Mitchell è
arrivato e chiede di poter conferire in privato con la signorina
Potts,» gracchiò JARVIS.
«Aspetti qui e stia calmo. Torno
subito,» disse Pepper, facendo già per lasciare la
stanza. «E per
favore, non faccia sciocchezze.»
***
«Signorina
Potts, purtroppo la situazione non è delle
migliori,» inziò subito
Mitchell, «e in quanto medico non posso edulcorare i
fatti.»
Pepper
lo ascoltava attentamente, cercando comunque di rimanere positiva.
Mitchell aprì una ventiquattr'ore e ne tirò fuori
alcuni fascicoli
che poi le porse. La donna li aprì anche se li conosceva
praticamente a memoria, avendo passato l’ultimo mese in
ospedale e
quindi perfettamente consapevole delle condizioni fisiche di
Tony.
«Oggi farò una visita di controllo, principalmente
delle
analisi generali, ma verificherò ovviamente che i moncherini
si
stiano rimarginando senza complicazioni e che l'occhio non si sia
infettato.»
Pepper annuì rigidamente, scorrendo i documenti con
aria assente.
«È possibile, direi anche molto probabile, che il
signor Stark cada in depressione post-traumatica; in tal caso
bisognerà ricorrere a un supporto psicologico. Inoltre
avrà
sicuramente bisogno di assistenza giorno e notte, almeno per il primo
periodo di convalescenza,» elencò velocemente,
continuando a
frugare nella valigetta nera.
«A quello provvederò io,» rispose
prontamente lei, e il medico interruppe il suo tramestio di
scartoffie per rivolgerle uno sguardo sorpreso.
«Signorina Potts,
è un incarico piuttosto duro, forse sarebbe meglio qualcuno
di più
qualificato dal punto di vista medico e...»
«Ho già provveduto
a informarmi adeguatamente riguardo al caso del signor
Stark,» lo
interruppe, «e sto anche cercando di acquisire qualche
conoscenza
medica di base per essere d'aiuto. Ma il signor Stark d'ora in poi
avrà solo bisogno delle sue medicine e di qualcuno che lo
supporti,»
incrociò lo sguardo di Mitchell, che continuava a fissarla
con
innegabile scetticismo. «Sono anche l’unica persona
su cui il
signor Stark possa contare, e soprattutto l'unica di cui si
fidi.»
Si sentì quasi presuntuosa nel pronunciare quelle parole, ma
era
consapevole della loro veridicità. Non le importava cosa
avrebbe
pensato di lei il dottor Mitchell.
«Capisco...» Ian guardò
mestamente Pepper e il suo volto stanco e tirato per le notti
insonni: era chiaro come Stark non fosse l'unico a soffrire per quel
grave incidente.
«E poi è meglio non coinvolgere altre persone
"esterne", lo sa anche lei,» aggiunse Pepper,
guardinga.
«Sì, purtroppo ne sono stato informato,»
rispose
lui, sbrigativo e apparentemente seccato da quel commento
«Può
contare sulla mia discrezione,» aggiunse subito dopo, notando
il suo
sguardo preoccupato. «Non ho alcun interesse a ledere la
privacy del
signor Stark, anche se lui non mi sembra esattamente l'immagine della
riservatezza...»
«Decisamente no,» sospirò Pepper,
«ma è
importante che non trapeli nulla né delle sue condizioni
né del
resto,»
ribadì, consapevole di mettere pressione al medico, ma senza
riuscire a frenarsi.
«Mi creda, non è la prima a farmi questo
discorso e devo dire che gli "altri" sono stati molto più
minacciosi e molto meno cordiali di lei,» Ian scosse
lievemente la
testa. «Lo sapevo che quel giorno avrei dovuto cedere il
turno di
notte a Stephen,» borbottò tra sé, a
metà tra il rassegnato e
l'incredulo, e chiuse con un gesto secco la valigetta.
«Le posso
assicurare che verrà adeguatamente ricompensato per tutto
ciò
che...»
«Signorina Potts, non ho intenzione di affrontare la
questione del mio compenso "extra" adesso,» la
fermò
subito lui. «Sono un medico e sto facendo il mio lavoro. Non
mi
interessano le circostanze particolari in cui mi trovo a svolgerlo.
Ne parleremo a tempo debito,» concluse con decisione.
Pepper
rimase leggermente spiazzata da quella risposta, ma anche
positivamente colpita dall'atteggiamento professionale di
Mitchell.
«La ringrazio.»
Lui si limitò a scrollare le
spalle, per poi riprendere a scorrere come se nulla fosse i dati
clinici del suo paziente.
«Dunque, le fornisco un breve
riepilogo,» esordì infine, chiudendo le scartoffie
e guardandola
con gravità. «È un bene che il signor
Stark sia rimasto più o
meno volontariamente in ospedale fino ad ora. Dovrebbe aver dato modo
ai moncherini di rimarginarsi quel tanto che basta per scongiurare
possibili infezioni al di fuori da un ambiente sterile,»
riportò
brevemente gli occhi a un foglio occupato da una tabella.
«Dalle
ultime analisi del sangue risulta qualche valore anomalo, ma di
questo dovrò discutere direttamente col signor Stark. Etica
professionale.» aggiunse a mo' di scusa.
Pepper si limitò ad
accigliarsi appena, senza però insistere. Mitchell stava
già
facendo uno strappo alla regola nel condividere con lei le
informazioni personali di Tony, e si sentiva già abbastanza
in colpa
per quello.
«In generale è una situazione molto più
rosea delle
aspettative, considerata la gravità e le circostanze
dell'incidente,»
concluse volutamente vago. «Quello che posso dirle e che
avrà credo
intuito, è che il signor Stark non potrà
più camminare, almeno per
un lungo periodo, ma spero che quando si sarà ripreso a
sufficienza
potrà ricorrere a qualche protesi all’avanguardia.
Si parla di un
periodo minimo di riposo di un anno.» Il modo in cui lo disse
faceva
intuire quanto dubitasse della capacità di Tony di "stare a
riposo" per tutto quel tempo.
Anche Pepper era molto scettica
al riguardo.
«Per il resto, purtroppo, non c'è molto che
possiamo fare,» concluse mestamente.
Pepper annuì appena,
tirata. Si costrinse a smettere di tormentarsi le mani e a mantenere
un atteggiamento composto.
«Capisco. Adesso dovremo informarlo,»
disse con titubanza.
«Avevo intenzione di farlo io, ma le volevo
chiedere se non preferisse farlo lei, dato che è la persona
più
simile a un familiare che il signor Stark abbia al momento. Se vuole
sarò comunque presente, nel caso avesse bisogno di un
supporto
medico,» Ian la guardò, cercando di confortarla in
qualche
modo.
«Lo farò io,» rispose lei, con fermezza
«E le sarei
grata se fosse presente anche lei.» Esitò,
abbassando fugacemente
lo sguardo prima di parlare di nuovo e odiandosi per la sua
indecisione:
«Non so come prenderà la notizia. Ciò
che mi
preoccupa veramente è che lui non sembra rendersi conto
della
gravità della cosa. Fa quasi finta che non sia successo
nulla.»
Ian
giunse le mani davanti a sé, come a raccogliere le parole
giuste.
«Il caso del signor Stark è estremamente
delicato,»
disse dopo qualche istante. «È comprensibile un
rigetto
dell’accaduto ed in particolare delle conseguenze. Mi ha
accennato
di avere un'amnesia riguardo a ciò che è accaduto
e ciò rafforza
l'ipotesi di un trauma, come le dicevo prima. Per ora ha solo bisogno
di tempo,» aggiunse, nel tentativo di rassicurarla
«Ma in seguito
le consiglio vivamente di fargli prendere in considerazione un
consulto psicologico.»
«Sarà difficile... li ha sempre
rifiutati categoricamente,» Pepper incrociò le
braccia.
«Sempre?»
«Anche
in seguito al... al suo rapimento, un anno fa.» Le era
difficile
ripensare a quei tre mesi di assenza proprio in quella situazione
così delicata.
Ian diede segno di essere al corrente della cosa –
d'altronde la scomparsa di Tony aveva coperto i notiziari per
settimane.
«Vedremo di persuaderlo al più presto,
allora,»
disse Ian. «Se non ne ha ancora dato segno, è
probabile che in
seguito a quest'ultimo shock emergano anche i sintomi dello stress
post-traumatico accumulato,» si bloccò nel notare
l'espressione
preoccupata di Pepper, che dal canto suo era scivolata in riflessioni
contorte e poco piacevoli.
L'armatura e ciò che comportava poteva
essere considerata un'esternazione di quello stress? Fu riscossa
dalla voce cordiale ma risoluta del medico:
«Non pensiamoci
adesso. Per ora dobbiamo solo esporgli i fatti.»
«Non so se li
accetterà mai.»
«Dovrà
farlo, se vuole continuare a vivere. E non mi sembra affatto il
genere di persona che si lascia abbattere facilmente, dopo tutto
quello che gli è successo,» concluse con fare
incoraggiante.
Pepper
sorrise tristemente, volendo però credere a quelle parole, e
restituì le cartelle a Mitchell.
«Signorina Potts?«
«Mi
dica.»
«Riterrei più prudente tenerlo all'oscuro degli
ultimi
eventi: un ulteriore accumulo di stress in un frangente così
delicato sarebbe insostenibile per lui.»
«Sono d'accordo,
cercherò di informarlo quando si sarà
ristabilito; dopotutto
abbiamo ancora un mese... spero che nel frattempo avrà
raggiunto una
situazione di stallo.»
Ian si limitò ad annuire, e Pepper capì
che anche lui era dubbioso al riguardo. Il medico esaminò
con cura
gli strumenti che aveva con sé in previsione della visita.
«Sarà
meglio andare; ci starà aspettando,» disse
chiudendo con uno scatto
la valigetta e seguendo Pepper verso la camera del suo paziente.
***
Pepper
si era appena chiusa la porta alle spalle che Tony si fiondò
come
poté verso la scrivania addossata alla parete.
Afferrò un foglio,
dissestando la risma ordinata in un angolo, e riuscì a
recuperare
una matita con la punta. Il braccio sano gli doleva per lo sforzo di
spingere la sedia a rotelle, ma iniziò a scrivere con
impeto,
maledicendo di non essere mancino. Zittì JARVIS che si
intromise
tentando di offrirgli aiuto con la progettazione e si trovò
a
scrivere sempre più freneticamente. Più in
fretta, prima che tutto
svanisse, prima di perdere di nuovo la speranza...
Stava ancora
scrivendo e disegnando quando Pepper e Ian rientrarono nella stanza,
spezzando lo stato di estrema concentrazione nella quale era
sprofondato. Si girò di colpo, stringendo nel pugno
trionfante un
mazzo di schizzi, bozze e appunti a stento decifrabili.
«Signor
Stark, non dovrebbe neanche muoversi dal letto nelle sue...»
cominciò Mitchell, avvicinandosi esterrefatto.
Tony non gli diede
neanche il tempo di finire che piantò le carte a un palmo
dagli
occhi stralunati del medico, bloccando la sua avanzata:
«È
possibile?!» proruppe, a metà tra un grido e una
domanda, con la
voce che rasentava il panico.
Mitchell tentennò, strizzò gli
occhi dietro gli occhiali squadrati e prese con cautela i fogli;
prese ad esaminarli con sguardo assorto, mettendo momentaneamente in
secondo piano l'inattesa esuberanza del suo paziente mentre Pepper si
fermava accanto a lui allibita. Distinse il disegno mal riuscito di
una sottospecie di macchina, o almeno credeva che assomigliasse ad
una macchina: era un medico, non un ingegnere. Richiamava vagamente
un albero spoglio, ma con le radici dalla parte sbagliata. Lo schizzo
era confuso con appunti di formule meccaniche e leve per lui
incomprensibili, bozzetti di altri componenti indecifrabili e,
più
in basso, quella che sembrava un'accurata selezione di elementi
chimici – quelli
li riconosceva, almeno – molti dei quali sbarrati, altri
collegati
con freccette, altri ancora cerchiati e con un punto interrogativo
accanto. Ancora sotto, una fitta serie di formule semicancellate si
protraeva fino al margine estremo del foglio, per poi continuare sui
successivi, sui quali campeggiavano ulteriori disegni di circuiti e
di quelli che sembravano reattori arc – li riconobbe solo
perché
ne vedeva uno vero in quel momento, infisso nel torace del suo
paziente, altrimenti li avrebbe presi per dei congegni alieni, visto
il modo maldestro in cui erano disegnati.
«Che cosa dovrebbe
essere?» chieste infine cautamente, sistemandosi meglio gli
occhiali.
«Una protesi!» replicò entusiasta Tony.
«Protesi?»
Mitchell capovolse il foglio, cercando di dare un senso a
quell'accozzaglia di forme, e in effetti distinse delle dita, quelle
che aveva scambiato per i rami di un albero; le "radici"
erano in realtà una miriade di fili e cavi.
«È la protesi di un
braccio,» riprese velocemente Tony, «attraversato
da nervi
artificiali, cioè dei cavetti di un materiale conduttivo, ma
non
troppo, altrimenti finirei fulminato, e... e insomma, svolgono la
funzione di terminazioni nervose ad impulsi elettrochimici collegate
al sistema nervoso. Ma non direttamente: non posso farmi fare una
lobotomia, ci vorrebbe un... un microchip alimentato con un
mini-reattore a sua volta collegato col reattore cardiaco... e qui
sorgono i problemi, perché il palladio... forse con un
catalizzatore!» ragionò interrompendo il suo fiume
di parole e
tormentandosi il pizzetto mentre rifletteva. «Insomma, so
come realizzarlo, ma non so se
funzionerà, ma... ma se
funzionasse potrei recuperare completamente l'utilizzo degli
arti!»
parlò senza quasi respirare, farfugliando mentre rincorreva
i suoi
pensieri già alla ricerca di un modo per realizzare la sua
idea.
Non
dovette fare una bella impressione ai suoi due ascoltatori,
perché
si scambiarono un'occhiata perplessa, credendolo probabilmente preda
di un delirium
tremens
dettato dall'astinenza dai sedativi.
Fece per riprendere a
parlare, ma il medico lo interruppe, frastornato:
«Signor Stark,
per l'amor del cielo, si esprima nella mia
lingua! Sono un medico, non un ingegnere!» Ian espresse ad
alta voce
il suo precedente pensiero, mentre cercava di seguire il ragionamento
del suo paziente.
Sembrò capire il riferimento al sistema
nervoso, ma era evidentemente dubbioso. Dopotutto, stava blaterando
riguardo a una tecnologia inesistente.
«Tony, per favore,»
intervenne Pepper stancamente, decidendosi a intervenire; sembrava
seriamente convinta che stesse delirando.
«No, dovete
ascoltarmi!» tuonò lui.
Ian e Pepper ammutolirono, cogliendo
l'estrema urgenza del suo tono, e aspettarono che continuasse.
«Lo
so che vi sembro impazzito, e magari lo sono,»
confessò, lottando
con la sua stessa lingua per formare quelle parole, «ma ho
passato
settimane a vegetare in ospedale pensando di non avere scampo. Adesso
invece sento di aver trovato una via d'uscita. Questa è
l'unica
possibilità che ho adesso, e devo almeno provare a metterla
in
pratica.» Si fermò, guardando direttamente negli
occhi Pepper «Non
posso trascorrere il resto della mia vita su una sedia a rotelle. Lei
sa che non posso,» disse, quasi implorante, sperando che lei
capisse
e ripensasse a quel giorno di sei mesi prima, quando le aveva chiesto
di sostenerlo nell'unica cosa giusta che sentiva di aver fatto in
vita sua.
«Lo so,» riuscì a dire lei, sostenendo
il suo
sguardo, e fu tutto ciò di cui aveva bisogno per sentirsi di
nuovo
saldo nelle sue convinzioni.
Ian era rimasto in un rispettoso
silenzio, cogliendo la gravità di quello scambio a lui solo
vagamente comprensibile.
«Allora, è possibile?»
sospirò ancora
Tony, accennando ai progetti.
Non aveva assolutamente preso in
considerazione l'evenienza che il suo progetto fosse irrealizzabile.
Aveva semplicemente buttato su carta ciò che gli era parsa
un'illuminazione folgorante, spuntata da chissà quale
recesso del
suo inconscio. Ma potevano sorgere mille complicazioni contro le
quali non avrebbe potuto fare nulla. Dopotutto, al contrario di Ian,
lui non era un medico. Era un genio, ma sapeva poco e nulla di
anatomia: lo stretto indispensabile per adattare l'armatura alle sue
esigenze e per medicarsi da solo.
"L'armatura..." gli
fece capolino nella mente il problema di come esattamente avrebbe
continuato la sua attività di "supereroe" – anche
se al
momento era ancora solo un consulente – ma lo
scacciò: una cosa
alla volta. Doveva prima diventare normale; poi avrebbe pensato a
diventare anche super. Forse poco tempo prima avrebbe affrontato i
problemi contemporaneamente, ma adesso non poteva permettersi di
sbagliare qualcosa facendo tutto troppo in fretta.
Mitchell guardò
ancora una volta ciò che ora per lui era un semplice
scarabocchio su
un foglio spiegazzato, e che per l'uomo che aveva di fronte poteva
diventare una ragione di vita.
Esitò prima di rispondere.
«Mi
presenti un progetto più dettagliato e vedrò di
giudicarlo dal
punto di vista medico.»
«Ma pensa
che
sia possibile?» chiese ancora Tony: voleva una risposta netta
al più
presto, perché illudersi nella situazione in cui si trovava
sarebbe
stato devastante.
Ian sospirò, ripiegò con cura il foglio
spiegzzato e lo infilò nella tasca della giacca, poi
incrociò le
braccia, come preparandosi a spiegare qualcosa di molto complesso a
un bambino lento di comprendonio.
«In linea teorica sarebbe
possibile,» esordì, facendo trattenere il respiro
a Tony, in attesa
del continuo «Per quanto riguarda la sua applicazione... devo
ammettere che non ne ho la più pallida idea. Protesi del
genere sono
state ideate da anni, ma mai realizzate, prima di tutto per l'enorme
costo umano ed economico che comporterebbero i vari test e i
materiali...»
«I costi non sono un problema. Io sarò la cavia,
ci sono abituato,» e diede una schicchera al reattore con
fare
indifferente. «E ho un impero finanziario che... Pepper, ho ancora
un impero finanziario, vero?» sobbalzò, girandosi
verso di
lei.
«Fortunatamente per tutti noi, sì. E andrebbe
anche a
gonfie vele...»
Ian le rivolse un'occhiata gelida, e gli occhi di
Pepper saettarono a loro volta nella sua direzione.
«... se il
suo proprietario ritornasse ad occuparsene,»
completò in
fretta.
Tony li osservò per qualche istante,
accigliato.
«Benissimo, c'è qualcosa che non devo sapere,
vero?
Ovviamente,»
si rispose, bloccando con un gesto Pepper che stava per ribattere.
«Non mi interessa, o almeno, non ancora. Mitchell, mi stava
dicendo
delle protesi attualmente esistenti.»
«Sì, giusto. Dicevo che
il problema sono innanzitutto i materiali: la fibra di carbonio o
vetro va bene per le protesi fisse. Sono l'ideale per arti amputati
sotto l'articolazione, ma nel suo caso...»
«Gomito e ginocchio
sono andati, lo so,» completo piattamente Tony, sentendo uno
strano
senso di distacco nel parlare del proprio corpo.
«Per quanto
riguarda le protesi per gli arti superiori, sono ancora del tutto
teoriche: finchè una protesi deve sostenere solo il peso
corporeo e
permettere a qualcuno muoversi non ci sono grossi problemi dal punto
di vista tecnico. Se si passa a parlare di mani, dita e
capacità
motorie proprie, il discorso cambia. Si tratta di congegni
estremamente rudimentali, che consentono di svolgere le basiche
funzioni ed azioni quotidiane. Per quanto riguarda una protesi
collegata ai nervi umani e rispondente con precisione agli impulsi
nervosi, non c'è ancora stato alcun progresso tangibile. La
protesi
è un prolungamento inanimato del corpo, non una sua parte
integrante.»
«Quindi per me quelle "normali" non
sarebbero applicabili.» concluse Tony, accigliandosi
pensieroso.
«Sfortunatamente sì. L'idea dei nervi artificiali
non è nuova, ma per ora non esiste un materiale adatto a
sostituirli. E anche se ci fosse, ciò implicherebbe ricreare
l'arto
in tutte le sue componenti: tendini, muscoli, legamenti, cartilagine
e quant'altro. È estremamente complesso.»
«Ho progettato
un'armatura con un'interfaccia che risponde ai miei movimenti,
perché
non dovrei riuscirci con una semplice gamba o un braccio?»
commentò
infine Tony, sovrappensiero.
Ian sospirò e si scambiò
un'occhiata con Pepper: aveva ragione sul fatto che Tony e la
discrezione si trovassero agli antipodi, considerando che gli aveva
appena confessato esplicitamente di essere lui il supereroe corazzato
di cui il mondo parlava da sei mesi. La donna gli fece un
impercettibile cenno di diniego col capo: non
adesso.
L'identità segreta di Tony era l'ultimo dei loro problemi.
Ian
prese a raccolta i suoi pensieri, cercando di elaborare una risposta
di senso compiuto dal poco che sapeva riguardo all'armatura: da
qualche tempo era comparsa a più riprese in zone di guerra,
ponendo
fine a svariati conflitti armati. Paradossalmente non c'erano video
che lo testimoniassero, se non quelli sgranati del recente scontro
alle Stark Industries, principale fonte d'informazioni al riguardo.
Si passò una mano tra i capelli grigi, mettendo insieme i
pochi
pezzi di cui disponeva.
«Premettendo che non capisco
assolutamente nulla di robotica...» sospirò,
«E che non so niente
di certo sulla sua armatura, se non che vola e spara raggi
laser...»
«Sono propulsori,» lo corresse in automatico
l'altro,
per poi rendersi finalmente conto di ciò di cui stavano
parlando.
«Merda, aspetti. Lei non dovrebbe sapere...»
s'interruppe e si
voltò verso Pepper, che si limitò a fissarlo
scura in volto.
«Ormai
è un po' tardi per pensarci, non crede?»
Tony emise un verso
indistinto, muovendosi a disagio sulla sedia a rotelle.
«Mh. Mi
sono lasciato trasportare. Doc, non lo dica troppo in giro,
ok?»
tentò di sdrammatizzare, agitandosi appena al pensiero che
la sua
identità segreta diventasse pubblica.
Lui scosse la testa e
decise di continuare come se nulla fosse accaduto.
«Dicevo... dal
poco che ho intuito, cioè molto poco, lei non invia segnali
neurali
all'armatura, ma essa si limita ad assecondare i suoi movimenti...
dico bene?»
«Più
o meno, sì, è un po' più complicato di
così,» concesse Tony, un
po' seccato dall'estrema semplificazione del medico.
«Ne sono
convinto; comunque, per qualcosa di esterno non sorgono problemi:
l'armatura riceve i suoi impulsi motori e si muove di conseguenza.
Come pensa di collegare, e soprattutto alimentare, un qualcosa di
inerte che fa parte del suo stesso corpo? Per inciso, l'ipotesi di un
rigetto non è da escludere: succede con gli organi,
è possibile che
sia lo stesso per gli arti.»
Tony soppesò la domanda, assorto e
cercando di mettere ordine nei suoi pensieri. Comprendeva benissimo
la difficoltà del collegare i nervi artificiali a quelli
recisi –
sempre che esistesse un materiale in grado di riprodurli – e
di far
sì che rispondessero al suo volere.
«Per l'alimentazione, c'è
il reattore arc,» ragionò lentamente, portando
d'istinto la mano al
petto e picchiettando sul cilindro metallico.
Gli sembrava quasi
scontato affidare alla tecnologia che gli aveva salvato la vita il
compito di risollevarla. Lo sguardo di Ian esprimeva invece tutta la
sua scetticità riguardo a quello che considerava un
attentato alla
salute. E forse non aveva tutti i torti.
«Non dovrebbe essere
troppo complesso, dopotutto il prototipo di questo l'ho costruito con
un mucchio di rottami. Non ho mai pensato a potenziarlo o modificarlo
perché andava benissimo così. Non ci
vorrà molto a miniaturizzarlo
ulteriormente, ha visto i progetti,» concluse, additando la
tasca
dove il medico aveva riposto i fogli.
«Signor Stark, lei è
probabilmente in grado di progettare e realizzare senza problemi
qualunque cosa le venga in mente, ma non si dimentichi
dell'applicazione pratica. Sarebbe necessaria una drastica operazione
chirurgica anche a livello microscopico.»
«Lei è un
neurochirurgo ed è stato lei ad operarmi, quindi se le
fornissi un
prototipo completo, con tutte le informazioni e i dati
necessari...»
«Rimaniamo coi piedi per terra,» tagliò
corto
Mitchell, evidentemente colto alla sprovvista da quella richiesta
prematura.
«Lo farei, se potessi,» buttò
lì Tony con
leggerezza, muovendo appena il piede superstite.
Ian si schiarì
la gola a disagio, rendendosi conto della gaffe.
«Potrei
riuscire ad operarla in futuro, ma dipende esclusivamente da quel che
riuscirà a concludere coi suoi progetti
strampalati,» riparò
infine, con circospezione.
Tony non si sentì particolarmente
oppresso da quella responsabilità: almeno riguardava
unicamente se
stesso, non come quando produceva armi.
«Signorina Potts, lei che
ne pensa?» chiese, senza guardarla direttamente.
Lei esitò,
combattuta, ma Tony sorrise nel scorgere la sua espressione: ormai la
conosceva troppo bene e sapeva che l'avrebbe appoggiato.
«Dico
che è una follia, ma appunto per questo potrebbe
funzionare,»
disse, con un sorriso sottile, il primo spontaneo che le aveva visto
in volto da quando si era svegliato: si sentì rianimare solo
a
vedere quel piccolo gesto. «Basta che non mi costringa a
compiere
altre operazioni semi-chirurgiche poco ortodosse...» aggiunse
lei,
guardandolo storto con fare ironico.
Tony sogghignò al ricordo
dell'ultima sostituzione del reattore, mentre Ian alzava un
sopracciglio, perplesso, senza però indagare ulteriormente.
«Molto
bene, dopo quest'esauriente chiacchierata, che si è conclusa
all'opposto di come pensavo, dovrò sottoporla lo stesso a un
controllo,» disse poi, schiarendosi la voce e cacciandosi lo
stetoscopio nelle orecchie dando quindi inizio alla visita.
Pepper
posò gentilmente una mano sulla spalla di Tony, ma lui ci
badò a
malapena, troppo occupato a elaborare formule, ad annotare
mentalmente percentuali e proporzioni e a sviluppare quel progetto
per ora effimero che avrebbe potuto rimetterlo letteralmente in
piedi.
C'era
una via d'uscita: non doveva far altro che crearla.
____________________________________________________________________________________________________________________________________________________
Revisione effettuata il 12/02/2018
Note Delle Autrici:
Hurrà! Dopo tanto angst, non poteva mancare un capitolo di "risollevamento morale" per il povero Tony... e altri seguiranno :)
La parte più tragica è passata (anche se non sarà l'ultima) [Edit: non è neanche la più tragica, in effetti] e ora le cose si fanno -per quanto possibile- più leggere.
Dunque. abbiamo dovuto istruirci sulle basi fondamentali di: ingegneria biomedica, chimica, tra poco anche un po' di fisica e anatomia. Non siamo medici (magari!) e sono conoscenze superficiali, quindi se notate stronzate fate un fischio :'D
D'ora in poi i capitoli conterranno sempre parti un po' "tecniche", visto che implicheranno la realizzazzione delle protesi, e ci sbizzarriremo con le varie funzionalità di JARVIS.
Speriamo che le parti non risultino troppo pesanti; se sì, fatecelo notare.
Infine, ringraziamo tantissimo sofy96, alliearthur e Rogue92 che hanno aggiunto la storia tra le seguite ed hanno recensito gli scorsi capitoli.
Grazie :) <3
Alla prossima!
Moon&Light
© Marvel
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Capitolo 5 *** As Always ***
4
-
As
always
"And I don't want the world to see me
'Cause I don't think that they'd understand
When everything's meant to be broken
I just want you to know who I am"
[Iris – Goo Goo Dolls]
17
Febbraio, Villa Stark, 11:30
Tony
fissò con disappunto i resti dell'armatura, poco
più che un blocco
di metallo semifuso che aveva poco a che vedere con le splendide
cromature rosso-oro che ricordava. La gamba destra era completamente
accartocciata e piegata in un'angolazione innaturale; il
braccio mancava del tutto, come tranciato di netto. Si portò
istintivamente la mano al moncherino: non riusciva a capire come
diavolo fosse successo. Aveva solo frammenti confusi di quei momenti,
anche se ricordava con chiarezza di essere stato pestato a sangue da
Stane già prima di finire sul tetto. Riusciva immaginare,
anche se
con sforzo e riluttanza, di essersi ferito la gamba in modo
irrimediabile durante un qualche tipo di colluttazione con Iron
Monger, ma non si spiegava comunque l'assenza totale del braccio, i
cui resti non erano neanche stati rinvenuti.
Scosse la testa e
voltò la sedia girevole per spostarsi alla sua scrivania:
meglio
rimanere nel presente. Prima o poi avrebbe ricordato, e non era
neanche così sicuro di volerlo fare.
Adesso doveva concentrarsi
e dare fondo a tutte le sue conoscenze per uscire dalla situazione in
cui si era cacciato.
Prima di tutto, doveva rendere comprensibili
i suoi appunti e schizzi, che erano decisamente senza capo
né coda e
del tutto campati in aria. Li esaminò per qualche minuto,
raccapezzandosi a poco a poco in quel miscuglio di linee e bozzetti.
La rozzezza di quei progetti gli riportò alla mente quelli
della
Mark I, ma scacciò il pensiero, preludio di ricordi poco
piacevoli.
Si concentrò nuovamente sul suo lavoro, riuscendo ad
estrapolare un
abbozzo di progetto vagamente plausibile, sebbene ancora lacunoso.
Per ora aveva uno schizzo grossolano della struttura meccanica del
braccio, che avrebbe poi tramutato in un modello virtuale più
preciso
e dettagliato. Avrebbe interamente dedicato un'altra sessione di
lavoro alle parti circuitali ed elettroniche, decisamente più
complesse.
Per prima cosa doveva trovare dei materiali che fossero
idonei: non fu semplice, e dovette ripassare la tavola periodica e le
leghe esistenti più di una volta prima di decidersi ad
appuntare
qualcosa sul foglio, in una grafia piuttosto incerta. Sbuffò
sconsolato: non aveva problemi ad usare la sinistra per lavorare, ma
era un'impresa riuscire a scrivere, e procedeva a rilento.
Decise
comunque di non sfruttare JARVIS, per il momento: la progettazione
era sempre più fruttuosa quando non si affidava
completamente
all'intelligenza artificiale nelle prime fasi.
Il telaio doveva
essere sicuramente di un materiale robusto, inossidabile e che
garantisse un minimo di elasticità, così da non
spezzarsi con gli
urti. Prese per un attimo in considerazione l'alluminio temprato, ma
sarebbe stato troppo fragile e soggetto alle alte temperature,
così
optò per il titanio. Iniziò a stilare una serie
di calcoli,
distribuendo il metallo sul volume approssimativo delle ossa del
braccio, ma si accorse che così avrebbe avuto un peso
complessivo di
quasi sei chili... decisamente troppi per un braccio umano. Si
bloccò
con la punta della matita a qualche millimetro dal foglio,
picchiettandovi appena mentre raccoglieva le idee.
"Titanio
cavo," si risolse infine.
Il peso totale sarebbe stato di
quattro chili e mezzo, comunque più del normale, ma se fosse
stato meno
la struttura avrebbe ceduto. I vari cavi di collegamento sarebbero
passati all'interno del telaio, al posto del midollo osseo.
Sospirò
quando si soffermò sullo snodo della spalla, trovando
difficoltà ad
eseguire calcoli così approssimativi: avrebbe dovuto
progettare
prima la piastra d'aggancio, ma per quella aveva bisogno
dell'assistenza di Ian, che al momento era troppo occupato col suo
lavoro vero per tener testa anche al "lavoro extra". Si
diede comunque da fare, lavorando con ciò che aveva, e si
trovò
infine a fissare un bozzetto della struttura di supporto, pur
schematico, in fase embrionale e corredato da appunti in un
calligrafia pessima.
Il
problema minore era risolto: ora doveva decidere come ricostruire i
"muscoli". Doveva realizzare il braccio nei minimi
dettagli, o avrebbe avuto difficoltà a controllarlo. Si rese
conto
che non avrebbe mai potuto riprodurre fedelmente la consistenza di un
braccio reale, per quanto la cosa sarebbe risultata più
gradevole,
così decise di usare semplicemente della fibra di carbonio.
Inutile
crearsi più problemi del necessario: si sarebbe abituato al
fatto di
avere un braccio più rigido dell'altro. Le
articolazioni gli
diedero filo da torcere, ma dopo molti fogli cestinati e colorite
imprecazioni riuscì ad abbozzarne un modello, sicuramente
migliorabile.
Certo,
il tutto doveva sfruttare l'alimentazione del micro-reattore che
doveva ancora
progettare, ma poco importava: sapeva già come fare e non
gli
avrebbe preso più di mezza giornata in condizioni normali;
adesso
era questione di un giorno al massimo. Se ce l'aveva fatta in una
grotta con gli scarti dei suoi stessi missili, adesso sarebbe stato
un gioco da ragazzi, nel suo laboratorio iper-accessoriato.
Gli
restava da fronteggiare l'ostacolo più grande, che aveva
appositamente lasciato per ultimo: i nervi.
C'erano decine di
leghe ed elementi conduttori, ma quanti potevano essere compatibili
con dei nervi umani? Ian gli aveva parlato del rischio di rigetto:
doveva prestare estrema attenzione nella scelta, perché
avrebbe
avuto un solo tentativo a disposizione. Se si fosse impiantato un
materiale incompatibile avrebbe anche potuto morire d'infezione o
andare in shock.
Si arrovellò sul problema per ore, scartando
ogni soluzione che gli veniva in mente; provò persino a
immaginare
elementi inesistenti, ma si ritrovò solo con un gran mal di
testa.
Rimase quasi tutto il pomeriggio nel laboratorio, pensando,
scrivendo qualche elemento-campione per poi cancellarlo e
distraendosi sempre più spesso nonostante la concentrazione
che si
era imposto di mantenere, interrotta sempre più spesso dalle
spiacevoli fitte ai moncherini: l'effetto degli antidolorifici stava
scemando e in teoria non avrebbe dovuto lasciare il letto per altre due settimane.
Iniziava a scoraggiarsi: forse Ian aveva ragione quando
diceva che non era ancora possibile riprodurre il funzionamento del
sistema nervoso. Aveva già preso in considerazione l'idea di
costruire delle protesi che non fossero collegate direttamente ai
suoi nervi, ma comandate a impulso come faceva con l'armatura, ma
quell'idea lo disturbava. Gli sembravano troppo fragili e non
riusciva a immaginarsele come vere e proprie parti di sé.
Senza
contare che, in quel caso, sarebbero state molto imprecise e propense
a staccarsi in situazioni più dinamiche, e lui non voleva
vivere in
una teca di cristallo per il resto della sua vita. Aveva
semplicemente accantonato l'idea, in una presa di posizione che
sapeva essere rischiosa.
Questo significava che doveva davvero
inventare lui una lega o addirittura un nuovo elemento che potesse
essere utilizzato per i suoi scopi. Si rendeva conto di quanto fosse
azzardata quell'impresa, oltre che molto probabilmente impossibile da
realizzare e era ancor più improbabilmente applicabile.
Prese a
sorseggiare con fare distratto un bibitone di clorofilla, assorto nei
suoi ragionamenti anche per ignorarne il sapore nauseante. Ian gli
aveva fatto notare che c'era una percentuale anomala di palladio nel
suo sangue, e che avrebbe fatto bene a disintossicarsi prima che
raggiungesse valori preoccupanti. Tony aveva sudato freddo per un
istante, ma se l'era aspettato: era consapevole delle possibili
ripercussioni del reattore sul suo corpo e aveva iniziato ad assumere
clorofilla e integratori non appena rientrato dall'Afghanistan. A
Pepper aveva spacciato la cosa come una semplice precauzione, cosa di
cui era abbastanza convinto anche lui. La percentuale di palladio era
molto bassa e sicuramente imputabile al fatto che si era dimenticato
di assumere il suo "succo d'erba" durante il mese di
ricovero. Si sentiva ridicolo a bere quegli intrugli, ma viste le sue
condizioni di salute già precarie non aveva intenzione di
rischiare.
Poggiò disgustato la bottiglia e tornò a
scervellarsi
per venire a capo del problema dei nervi. Dopo un'altra ora buttata,
decise di dedicarsi alla miniaturizzazione del reattore: era
decisamente più semplice, e poteva comunque essere
riutilizzato per
qualcos'altro, oltre ad alimentare degli arti meccanici.
Era
consapevole di star evitando le difficoltà, ma in quel
momento
sentiva il disperato bisogno di fare qualcosa di concreto, o sarebbe
impazzito. Si spostò al banco di lavoro slittando con la
sedia e lo
trovò in disordine come l'aveva lasciato un mese prima.
Osservò il
progetto abbandonato sul tavolo: il potenziamento dei propulsori
dell'armatura. Sbuffò, accartocciò il foglio e lo
cestinò
all'istante. Era l'ultima cosa a cui voleva pensare.
«Tu,
ferrovecchio. Vieni qui,» ordinò, rivolgendosi a
Dum-E fermo in un
angolo.
Al suono della sua voce il robot telescopico si rianimò
all'istante e si portò vicino al tavolo con un ronzio, in
attesa di
ordini.
«Bene, vedi di fare esattamente quel che ti dico, o ti
formatto la scheda madre e ti degrado a robot-spazzino. Mi serve
palladio, tanto palladio; è in quelle cassette là
in fondo. JARVIS,
tu recupera un modello del mio reattore e proiettane un esploso
dettagliato.» Esitò brevemente prima di
continuare: «E tieni conto
che non ho né una visione bifocale, né due mani,
quindi organizza
le schermate e gli ologrammi di conseguenza.»
«Ovviamente,
signore.»
Tony
si convinse di aver solo immaginato la punta di compassione che aveva
animato la voce metallica del maggiordomo virtuale.
Mentre
parlava, il robot era già arrivato in fondo al laboratorio,
dove in
delle casse blindate erano custoditi tutti i materiali di cui Tony
aveva bisogno per costruire qualunque cosa desiderasse.
«Ha
deciso di riaffidarsi alla tecnologia?»
commentò a un tratto
JARVIS, con un sottotono ironico teoricamente impossibile per un
computer.
Proiettò un ologramma sul piano di proiezione accanto a
lui, rappresentante il suo reattore arc. Tony gli diede una
schicchera e i vari componenti si separarono, mostrandone tutti i
particolari interni.
«Non vedo alternative...» mugugnò tra sé. «Evidenzia i
componenti base.»
Il nucleo, il rivestimento esterno e un cavo si
illuminarono; Tony passò una mano sulla proiezione e le
parti
superflue furono rimosse.
Ingrandì il nucleo con una lieve
pressione delle dita, studiandolo attentamente.
Il robot gli aveva
intanto portato il palladio che gli serviva ed emise un lieve cigolio
metallico quando concluse il suo compito.
«Bravo, sei riuscito a
non rompere niente. Adesso torna all'angolo della vergogna e
ripulisci quel macello.» Accennò ai resti della
Mark III. «Fondila,
disintegrala, scomponila molecolarmente: non mi interessa, basta che
sparisca dalla mia vista,» ordinò secco, senza
smettere di studiare
il nucleo del reattore in cerca del modo per renderlo più
compatto.
«JARVIS, proiettami una clavicola.»
Il
computer eseguì e Tony ingrandì l'osso per poi
farlo ruotare su se
stesso.
«Il
reattore dovrebbe impiantarsi qui, il più vicino possibile
alla
protesi per evitare di disperdere energia,» indicò
l'estremità
dell'osso che avrebbe dovuto congiungersi all'òmero.
«Signore,
la protesi...»
«Penserò dopo alla protesi in sé,
adesso
disattiva i chip vocali e fa' parlare me,» afferrò
il nucleo con la
mano e lo compresse, riducendolo alle dimensioni di una noce.
«Squadralo; una forma curva è difficile da
adattare.»
La
pallina luminosa diventò un prisma esagonale. Tony
sospirò.
«Ok,
lasciamo perdere la geometria e dagli la forma di un
microchip,»
ordinò infine.
JARVIS eseguì e gli fece assumere la forma
desiderata. Tony valutò l'ipotetico progetto con aria
critica.
«JARVIS,
togli quel cavo di alimentazione aggiuntivo: sarà
un'unità
autosufficiente.»
«Pensavo volesse alimentarla con il suo
reattore cardiaco,» considerò l'altro, eseguendo
però la
richiesta.
«No, meglio non sovraccaricarlo troppo,» disse,
picchiettando con l'unghia sulla piastra metallica nel suo petto.
«Con un'unità autonoma dovrebbe ridursi il rischio
di
malfunzionamenti. E poi devo già cambiare un nucleo di
palladio a
settimana quando utilizzo normalmente l'armatura, meglio limitare il
dispendio di energia,» ragionò, seppur restio a
includere la sua
"attività extra" nei calcoli.
Osservò
il modello che galleggiava a un palmo dal suo viso, e, potendo, avrebbe incrociato le braccia con soddisfazione.
«Bene, mi
sembra una buona struttura di partenza. Poi Ian deciderà se
è
congeniale alla zona in cui deve impiantarla. Ora, calcola quanto
palladio servirà per alimentarlo e considera che deve essere
in
grado di funzionare da sé per almeno cinquant'anni. Vorrei
arrivare
alla vecchiaia,» aggiunse sarcastico.
JARVIS non iniziò nemmeno
ad eseguire i calcoli:
«Signore, non posso calcolare il palladio
necessario senza la...»
«Protesi, ho capito,» sbuffò lui.
«Ragiona indipendentemente dalla protesi, voglio solo farmi
un'idea.»
«Calcoli eseguiti. Palladio necessario: 0.50
grammi.»
«Così
tanto? Mi fiderò...»
«Signore, le consiglio di trovare
un'alternativa al palladio perché...»
«... a lungo andare mi
intossicherà. Smettila di ripetere cose che già
so, e ti ricordo che se tutto va bene mi ritroverò a breve
con due
arti meccanici; l'intossicazione è il mio ultimo problema. A
proposito, ordina altre scorte di clorofilla, devo recuperare
l'astinenza,» borbottò seccato, richiamando con un
gesto Dum-E.
«Adesso, seguimi alla lettera, o farai la fine dell'armatura.
Devi
fondere il palladio; fatti aiutare dal tuo amichetto.»
Lanciò un
fischio leggero e U si mosse appena, quasi rallegrandosi.
Tony
inserì una chiavetta USB in Dum-E, sulla quale aveva
trasposto il
progetto.
«Ora,
collega i circuiti e prendi tutto il materiale necessario,» continuò, rivolgendosi poi a U. «Tu invece prendimi gli occhiali protettivi, un
guanto e i
soliti attrezzi. Intendo adesso,
non tra un'ora... marsc'!»
li incitò, vedendoli esitare, e quelli schizzarono all'opera.
Tony
si accomodò meglio sulla sedia, osservando ora il modello
che
ruotava lentamente davanti a lui, ora il banco di lavoro pronto
all'utilizzo. Si sentiva di nuovo padrone della situazione,
nonostante adesso sarebbe stato costretto a lavorare con un braccio
solo, affidandosi ai robot per sostituire quello mancante.
«JARVIS,
intanto proietta sull'altro schermo la tavola periodica e un elenco
di tutte le leghe esistenti... giusto per essere sicuri che non mi
sia dimenticato nulla. Poi combina tra loro tutti gli elementi in
tutte le combinazioni possibili e testale su questo modello di
protesi.» Sollevò il foglio con la bozza e il
computer lo
scannerizzò. «Perfezionalo, questo è
una schifezza; togli i
difetti, analizza la grafia e memorizzala: non la cambierò
per un
po'.» Lanciò un'occhiata all'angolo cucina e si
rivolse di nuovo
all'IA: «E fammi un caffè. Hai dieci
minuti.»
***
-
17
Febbraio, 18:45, Villa Stark
Quando
Pepper entrò nel laboratorio, richiamata dagli improperi e
dagli
schianti che ne provenivano, non si aspettava di vedere quello che le
si parò di fronte: Tony era seduto al banco di lavoro con DUM-E di fronte e inveiva pesantemente contro il robot
che,
stando alle parole del suo ideatore, non notava la differenza tra destra e
sinistra.
«La sinistra è questa!
La destra è quest'altra!
Per te è il contrario, ma non dovrebbe essere
così difficile!» si
sgolò, gesticolando contro di lui. «No,
maledizione...» si lamentò
esausto, quando il robot scattò in quella che era
presumibilmente la
direzione opposta al volere del suo creatore.
Lo scatto della
porta richiamò la sua attenzione:
«Salve, Pepper,» la accolse,
improvvisamente calmo.
«Buonasera, signor Stark,» esordì lei,
trattenendo un sorriso nel vedere come cercasse di mascherare la sua
evidente irritazione nei confronti del robot, a cui continuava a
scoccare occhiate risentite. Era una scena a cui era decisamente abituata, al contrario dell'aspetto di Tony, che come sempre le causò un moto di dolore, tristezza e ammirazione nel vederlo comunque attivo e dedicato ai suoi progetti. «Ho pensato di portarle un
caffè.»
Tony
s'illuminò in volto a quella notizia e accolse la tazzina
con la
stessa reverenza che avrebbe riservato a una reliquia sacra.
«Grazie,
non ne posso più di bere quella roba.»
Additò le due borracce di
clorofilla vuote sul bancone dell'angolo-cucina e prese un rapido
sorso della bevanda, sobbalzando quando gli ustionò
palesemente la
bocca.
Pepper
fece finta di non accorgersene, per amor del suo orgoglio.
In quel
momento Dum-E si ritrasse leggermente dal banco di lavoro, attirando
la sua attenzione.
«Tu! Non credere di averla scampata!
Quello-va-a-destra. Destra,.»
sottolineò infine.
«La vedo estremamente preso dal lavoro,»
osservò Pepper, sorridendo appena.
«Sì, infatti, forse tra una
decina d'anni l'avrò anche completato, di questo
passo,» sibilò,
riservando un'occhiata velenosa ai suoi robot, nonostante Pepper
sapesse che in fondo li adorava.
Scosse la testa: la pazienza non
era mai stata una delle sue doti migliori.
«Bene, se è tutto,
signor Stark...»
«Non è tutto,» la contraddisse lui;
schioccò
le dita e le schermate che gli aleggiavano intorno scomparvero.
Si
fece improvvisamente serio, ma mantenne un'espressione serena, come
se stesse per tenere un discorso davanti a qualcuno.
«Pepper,
dolcezza, venga qui,» iniziò con un sorrisetto
sornione, facendole
cenno di avvicinarsi.
«Tony,
qualunque
cosa lei abbia in mente...»
«La farò comunque, quindi mi
risparmi la predica.»
«Come sempre...» sospirò lei,
decidendosi però ad affiancarlo.
«Mi serve una mano. Anzi, due,»
si corresse con un'ironia che Pepper non era certa di come dovesse
accogliere.
«Basta che non mi chieda di operare a cuore
aperto,»
ribatté severa.
«Basta con quella storia, le giuro
che non le chiederò mai più niente del
genere,» sospirò
teatralmente lui.
Pepper attese pazientemente che arrivasse al
dunque.
«Mi aiuterebbe a togliermi la maglietta?» disse
infine
lui d'un fiato, rivolgendole la sua famigerata espressione da cane
bastonato.
Pepper non tentò neanche di mascherare la sua
esasperazione:
«Tony, capisco che abbia degli istinti da sfogare,
ma li sfoghi in
solitudine.»
«No,
no! Ha frainteso! Lo sapevo, dovevo essere più chiaro, ma
non ci
riesco. Non deve spogliarmi...
ma deve spogliarmi,»
disse con due differenti inflessioni di voce che non avvalorarono
esattamente la sua causa. «Non so se sono stato chiaro, in
effetti...» meditò poi, un po' scoraggiato.
«Lampante, direi.»
Pepper si prese la radice del naso tra le dita, imponendosi calma e
compostezza. «Vuole spiegarmi perché vuole che io
la spogli? E che
sia una buona
motivazione che non implichi risvolti improbabili,» lo
avvisò,
glaciale.
«Le
assicuro che c'è un motivo assolutamente valido che non
implicherà
alcun divieto ai minori, quindi...»
«Tony.»
Pepper cominciava seriamente a spazientirsi, oltre che a provare un
sottile senso di disagio.
«Insomma...
può aiutarmi?» sbottò lui, facendosi
più serio per qualche
istante. «Se si scandalizza sono sicuro di poter rintracciare
un po'
di "spazzatura" che...»
«Questo
non volevo sentirlo,» commentò lei, avvicinandosi
e aiutandolo un
po' bruscamente a sfilarsi la maglietta.
«... e i pantaloni,»
aggiunse Tony, con una voce piccola che non gli si
addiceva.
«Anche?!»
«Non la sto invitando ad azioni
sconsiderate, signorina Potts. Anche se... Come non detto!»
si
corresse rapido, notando l'occhiata omicida della donna.
«Almeno
può sbottonarseli da solo?» gli chiese, nervosa.
«Se il braccio
collabora, sì,» sospirò lui, iniziando
a trafficare con la zip dei
jeans e concludendo che forse d'ora in poi avrebbe fatto meglio a
indossare solo tute e pigiami.
Nonostante il suo sarcasmo
spigliato iniziava a trovare la situazione altrettanto
imbarazzante.
Nei giorni che aveva passato a casa finora aveva
tentato di essere il più autonomo possibile, ma era stato
inevitabile accettare l'aiuto di Pepper anche per gesti quotidiani
come abbottonarsi una camicia o calarsi in una vasca da bagno senza
rompersi l'osso del collo. Cercava sempre di buttare la cosa
sull'ironico, canzonando le reazioni imbarazzate di Pepper, ma in
fondo lo trovava umiliante. E lo sarebbe stato ancora di più
se
avesse dovuto affidarsi a un infermiere sconosciuto; Pepper sembrava
averlo intuito e non aveva avanzato la proposta di assumerne uno.
Aveva apprezzato immensamente quella tacita intesa.
Anche adesso
fingeva disinvoltura, ma si rendeva conto della situazione anomala in
cui si trovavano a navigare entrambi.
«Bene, ora... non si
agiti,» la avvertì scalciando il pantalone e la
scarpa dalla gamba
buona, trattenendo una smorfia quando la stoffa strusciò sul
moncherino.
«Sono calmissima,» Pepper chiuse brevemente gli
occhi in un gesto che diceva tutto il contrario.
«Sicura di
essere pronta?»
«Ma che cosa diavolo mi deve chiedere?!»
«Mi
tolga le bende.»
Pepper lo fissò per un momento, senza
capire.
«Cosa?»
«Ha capito bene. Prima l'occhio e poi le
altre. Anzi, meglio il contrario,» si corresse dopo un
momento.
«Lei
si è fatto spogliare per qualcosa che non
farò?» incrociò le braccia lei,
fissandolo minacciosa.
«Dov'è
il problema?»
«Il problema, signor Stark, è che non mi sembra
nelle condizioni...»
«Pepper,
in un mese di ricovero non sono mai riuscito a guardarle quando mi
medicavano, e anche qui l'ho sempre evitato. È capace, l'ha già fatto una volta e mi fido di lei.» Fece una breve pausa, comprimendo le labbra, e Pepper abbassò gli occhi a quella confessione insolitamente esplicita. «E credo che sia il momento di
guardare in faccia la realtà, no?»
voltò leggermente la testa,
così da porre la donna nel suo angolo cieco per non dover
vedere i
suoi occhi colmi di preoccupazione.
«Credo che ci siano modi meno
scioccanti per farlo,» finì per mormorare lei, e
il suo tono
addolorato lo fece avvampare di verogna.
Non voleva essere
compatito.
«Cosa c'è? Mi ritiene forse instabile?» sbottò, troppo duramente.
«Non
intendevo questo.
Ha subìto un trauma e questa non è una buona idea per
superarlo. Non
è assolutamente
una buona idea,» concluse decisa, tentando di farlo ragionare.
«Si
sta preoccupando per qualcosa che dovrebbe preoccupare me,»
si
ritrovò ad alzare un poco il tono lui.
«Come sempre, del
resto.»
«Neanch'io intendevo questo.»
«Per
favore, lo dico per lei,» insistette ancora.
«Anch'io lo dico
per me!» sbottò Tony, innervosito, e Pepper
sobbalzò. «Non vorrà
mica farmi prendere un raffreddore,» aggiunse più
conciliante, nel
tentativo di mitigare il suo scatto.
Pepper era ancora titubante,
indecisa se assecondarlo o meno, come era accaduto in mille altre
occasioni molto più spensierate di quella.
«Se proprio non vuole
aiutarmi lo farò da solo,» stabilì lui,
tornando a guardarla con
sguardo deciso.
Era chiaro che nessuna menomazione fisica avrebbe
mai potuto intaccare la sua incrollabile testardaggine. Pepper sapeva
che lo avrebbe fatto veramente, a costo di farsi male... e non voleva
sentirsi responsabile anche
per quello.
«Stia fermo,» si risolse infine, avvicinandosi.
La
donna iniziò a sciogliere la benda della spalla con
delicatezza,
notando che Tony si mordeva il labbro pur di non lamentarsi; doveva
costargli molta fatica, poiché artigliava con la mano il
bracciolo
della sedia. Anche Pepper doveva sforzarsi per compiere quel lavoro
ingrato che le aveva praticamente imposto, ma provava anche pena per
lui e non si sentiva di negargli quello che dopotutto era un favore
che non avrebbe potuto compiere da solo.
Quando arrivò a scoprire
i punti ancora freschi esitò, perché Tony tremava
dal dolore e
stentava a rimanere fermo. Tolse con un gesto rapido la benda per
porre fine a quella sofferenza, pentendosi di aver accettato la sua
richiesta.
Tony teneva la testa girata dall'altra parte; sembrava
aver improvvisamente cambiato idea e non fece cenno di voler
guardare, ma annuì appena quando la vide esitare,
invitandola a non
fermarsi.
Pepper passò alla gamba, dandogli tempo di raccogliere
le forze per affrontare quell'ennesimo ostacolo. Quando gli aveva cambiato le bende l'ultima volta era decisamente più inibito dagli antidolorifici, e lei decisamente meno nervosa. Adesso era combattuta tra
l'ammirarlo e il considerarlo un masochista. Quelle bende furono
più
difficili da rimuovere: più di una volta Tony si
lasciò sfuggire
un'esclamazione soffocata a stento; contrasse involontariamente il
muscolo e questo gli provocò uno spasmo di dolore.
Pepper si
fermò un momento per farlo riprendere, ma Tony la
incoraggiò a
continuare, così finì di scoprire ciò
che rimaneva dell'arto
troncato di netto. Si
era quasi abituata a quella vista, per quanto dolorosa anche per lei,
ma non riusciva a immaginare come avrebbe reagito lui nel
fronteggiarla.
Fece
per passare alla benda sull'occhio, ma a quel punto Tony la
bloccò
con fermezza. Si tolse a tentoni il cerotto e sussultò
quando sentì
l'aria fresca lambirgli la pelle sensibile e martoriata del viso.
Si
bloccò con l'unico occhio chiuso, improvvisamente incapace
di
muoversi. Era smanioso di sapere, ma allo stesso tempo temeva
ciò
che avrebbe potuto vedere. Temeva di poter odiare il suo corpo in
maniera definitiva.
Pepper gli strinse con dolcezza la mano mentre
aspettava che Tony riaprisse l'occhio per guardarsi totalmente dopo
tutto quel tempo, per vedere ciò che era diventato.
«Pepper...
non ce la faccio,» boccheggiò infine lui,
incominciando ad
agitarsi.
Lei non seppe cosa fare. Non voleva incoraggiarlo,
voleva solo che rimettesse quelle dannate bende, non per disgusto, ma
per semplice buon senso: non stava soffrendo solo lui a quella vista.
Gli fece una semplice, ma incoraggiante carezza sulla guancia,
lasciando scivolare la mano sino al collo per trasmettergli un po' di
conforto. Solo a quel punto Tony aprì l'occhio per fissarlo
nei
suoi, incoraggianti e limpidi. Pepper lo fissò di rimando.
Lui annuì
una volta, come ad autoconvincersi.
Abbassò di scatto lo sguardo
verso il moncherino della spalla e si sentì contrarre lo
stomaco per
lo shock. La pelle era arrossata, i punti gonfi e di un rosso acceso
e malsano. Si costrinse a guardare anche la gamba, in condizioni anche peggiori: stavolta fu un
pugno nello stomaco. Infine, si voltò alla sua sinistra,
verso lo
schermo di un computer spento. Pepper era ammutolita e lo fissava in
attesa di una qualunque reazione emotiva.
«Specchio,»
mormorò Tony a JARVIS, e quello fece sì che lo
schermo restituisse
la sua immagine.
Portò incredulo la mano allo sfregio che
occupava il suo volto, dove un tempo c'era stato il suo occhio
sinistro. Lo tastò appena, incurante della scossa di dolore
che ciò
gli provocò. La ferita si stava lentamente rimarginando, ma
era
ancora arrossata e repellente alla vista; un taglio profondo gli
solcava il sopracciglio per poi perdersi nella massa gonfia e
contorta che era diventata la sua palpebra, chiusa per sempre dai
punti di sutura. Si coprì cautamente la piaga, celando il
suo volto
deturpato, e per un attimo vide se stesso, per poi notare gli arti
mancanti e terribilmente sbagliati nel suo riflesso. Vide lo
smarrimento nel suo stesso sguardo, ora concentrato nell'unica iride
nocciola che gli rimaneva.
Guardò di sfuggita Pepper nello
schermo.
«Penso che possa bastare,» le disse.
Ammise a se
stesso che non era del tutto preparato e chinò il capo.
«Mi
aiuti a rivestirmi, per favore,» chiese piano, esitando a
incrociare
il suo sguardo.
Lei eseguì senza parlare, cambiandogli le
medicazioni con cura ed efficienza.
Finito di rivestirsi con
qualche difficoltà, si abbandonò allo schienale
della sedia,
inerte. Sentiva la testa vuota e leggera, come se avesse respiranto a
lungo troppo profondamente.
«JARVIS, hai fatto le analisi che ti
avevo chiesto?» si sentì dire, come se nulla fosse
successo.
«Sì,
signore. Ho trovato una lega che forse fa al caso nostro...»
La
donna era rimasta impalata di fronte a lui, sentendosi fuori luogo,
di troppo e risentita per quell'improvviso cambio di
atteggiamento.
«Adesso è tutto, signor Stark?» chiese,
gelida.
"Ha finito di farsi del male?" pensò invece tra
sé.
«È tutto, signorina Potts. Può
andare,» aggiunse,
goffamente.
Pepper si voltò senza aggiungere altro se non un
atono "buon lavoro".
«Pepper?» la chiamò Tony prima
che aprisse la porta.
La donna si voltò appena.
«Grazie.
Davvero,» le sorrise incerto e Pepper ebbe l'impressione che
le
stesse chiedendo scusa.
«È perdonato.»
"Come sempre..."
sospirò tra sé.
____________________________________________________________________________________________________________________________________________________
Revisione effettuata il 13/02/2018
Note Delle Autrici:
Ok, questo capitolo è un bel miscuglio di generi... si passa dal tecnico all'ironico fino all'angst totale. Per non parlare del fluff... sì, in alcuni punti c'è scappata la mano, ma ci sembrava il caso di stemperare i capitoli precedenti.
Comunque, we're back (in black). Speriamo che il capitolo vi sia piaciuto e ringraziamo Rogue92, AriCastle66, Silvia_sic1995 e alliearthur che hanno commentato e hanno inserito qusta FF tra le seguite... grazie a tutte!
Al prossimo capitolo! :D
Moon&Light
P.S. Ammettetelo: avete TUTTE pensato male...
© Marvel
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Capitolo 6 *** Get off my cloud ***
5
Get off my cloud
"All those signs, I knew what they meant
Some things you can invent
And some get made, and some get sent"
[Speed
Of Sound – Coldplay]
21
Febbraio, 9:30, Villa Stark
Tony
imprecò per l'ennesima volta contro DUM-E, che sembrava
dotato di
volontà propria.
«No! Devi fondere prima
il
silicio e poi
temprare
il carbonio!
Prima... poi. Tutto chiaro?!»
Il robot emise un ronzio
flebile e non molto rassicurante.
Tony tirò un lungo sospiro:
stava letteralmente arrostendo, era la terza volta che tentava di
fondere la lega e nessuno obbediva ai suoi ordini! Senza contare che
iniziava ad affaticarsi: era seduto da ore e il moncherino della
gamba gli doleva implorandolo di sdraiarsi per alleviare le fitte. Come
se non bastasse,
il suo braccio sinistro si stava rivelando più
incontrollabile di
quanto pensasse, soprattutto quando si trovava a manovrare tenaglie
arroventate e recipienti colmi di metallo fuso con l'ausilio di un
robot poco collaborativo e con evidenti problemi di coordinazione.
Di quel passo sarebbe impazzito...
«JARVIS, aiutami tu: fai
capire a questo ammasso di latta che deve seguire le mie
istruzioni!»
«Signore,
le periferiche non sono di mia competenza.»
Tony alzò l'occhio
al cielo sentendosi vicino a un crollo nervoso:
«C'è qualcosa
che funzioni qua dentro, a parte il mio cervello? Ho bisogno di
zuccheri,» aggiunse,
stremato.
Tony si trasferì faticosamente sulla sedia a rotelle,
afferrò la stampella che ormai usava come un bastone
telescopico
tuttofare e si diresse verso l'ascensore, spingendo il pulsante con
essa e rischiando di schiantarsi a terra nel processo.
Prima di
allora, in tutta la sua vita aveva utilizzato quell'ascensore solo
rare volte: quando l'aveva fatto installare, quando era troppo ubriaco per fare le scale, e quando Stane gli aveva
estratto il reattore lasciandolo agonizzante sul divano al piano di
sopra, a malapena in grado di trascinarsi fino al laboratorio. Adesso
aveva molte più occasioni per usarlo. Entrò
incupito in quel
cubicolo, fissando con vacuità la parete a specchio mentre
aspettava
che salisse al piano del salotto.
Si sospinse fino in cucina ed
aprì il frigorifero come un morto di fame: aveva il fiatone
per lo
sforzo di spingere la carrozzella e scrutò speranzoso gli
scaffali
alla ricerca di qualcosa di commestibile, usando la stampella per
rovistare ai piani più alti. Trasalì quando si
poggiò
inavvertitamente sulla piaga della gamba e fu costretto a fermarsi.
Il dolore ai moncherini era sopportabile, ma sapeva che era solo
grazie agli antidolorifici che riusciva a muovere un muscolo senza
urlare. Non appena il dolore scemò riprese a mettere
vivacemente a soqquadro il frigo, assumendo
un'espressione sempre più contrariata.
Fu così che, quando Pepper entrò in
cucina un quarto d'ora dopo, Tony si stava ingozzando di macedonia seduto al tavolo mentre
manovrava con inaspettata sicurezza il cucchiaio con la sinistra.
«Da
quando in casa mia ci sono solo cibi sani?»
la
accolse bofonchiando, quasi strozzandosi con un chicco d'uva.
«Da
quando deve seguire una dieta ferrea,»
rispose
paziente Pepper, impeccabile come sempre nel suo tailleur oltremare.
Tony adocchiò con sospetto il fascio di documenti che recava
in
mano. Aveva il netto presentimento che attendessero le sue
attenzioni, così si affrettò a continuare il
discorso per ritardare
quel momento:
«Ma avrei preferito... non so, qualcosa di
ipercalorico e assolutamente inadatto a chi è nelle mie
condizioni,»
si
lagnò, inghiottendo
un'altra enorme cucchiaiata di frutta e rimpiangendo i cheeseburger.
Pepper non rispose, alzando
gli occhi al cielo come una madre che si trovi a fronteggiare i
capricci di un figlio schizzinoso. Tony aveva sempre avuto un
rapporto molto particolare col cibo, visto che era raro non vederlo spiluccare qualcosa agli orari più improbabili del giorno e della notte. Considerò il suo ritrovato appetito un buon segno.
«Come va la fusione?»
cambiò
argomento.
«Non
si vede?» indicò
la sua maglietta da lavoro – una t-shirt degli Aerosmith ormai
logora, strappata e bruciacchiata in più punti, a testimoniare il suo poco amore per la band.
I
pantaloni erano messi anche peggio ed era persino riuscito a rimediarsi delle scottature
superficiali sulla mano, che tentava disperatamente di tenere celata
dietro la ciotola, ma non sfuggirono agli occhi attenti di Pepper.
«E
adesso a cosa starebbe lavorando?» gli
ricordò, in un richiamo bonario.
«Alla mia pausa, signorina
Potts. Gradisce anche lei?» accennò
alla ciotola già vuota a metà.
«Declino l'offerta, ma grazie.»
rispose,
togliendogliela
poi di mano per evitare che finisse il chilo e mezzo di macedonia
procurandosi una gastrite.
Tony sospirò, rimanendo stolidamente
col cucchiaio impugnato a mo' di scettro di un re usurpato nel
vedersi sottrarre il cibo da sotto il naso.
Il suo sconforto non
durò a lungo e ripartì in quarta sulla sedia a
rotelle, arrivando a
tempo di record in salotto. Pepper sollevò lievemente le
sopracciglia di fronte a quella sveltezza: non si sarebbe stupita se
Tony avesse improvvisamente deciso di installare dei turbo su quel
"trabiccolo infernale" che stava iniziando a disdegnare
sempre meno, nonostante a volte lo cogliesse in flagrante a
deambulare usando una sola stampella, con scarsi e pericolosi risultati.
Lo
tallonò per accertarsi che non ne combinasse una della sue.
Inoltre
doveva anche firmare molti,
troppi documenti. Le cose alle Stark
Industries erano precipitate in quell'ultimo mese e lei riusciva a
malapena a tener testa a tutte le telefonate e le richieste di
meeting e di notizie sulle condizioni del titolare dell'azienda che
riceveva quotidianamente.
Per fortuna Rhodes la stava aiutando almeno a gestire la situazione col
governo. Il colonnello
si era dimostrato molto risentito per il fatto di non poter ancora
far visita a Tony, ma era stato costretto a sottostare alle
disposizioni dello SHIELD e si stava prodigando per aiutarlo come
poteva. Pepper
non era nemmeno del tutto certa che fosse a conoscenza delle
condizioni fisiche del suo amico e non aveva ritenuto opportuno
aggiornarlo. Conosceva la sua caparbietà ed era sicura che
si
sarebbe fiondato alla porta di Tony non appena avesse saputo i
dettagli dell'incidente. E vista la particolare irrequietezza del suo
datore di lavoro non era sicura che l'incontro tra due teste
così
cocciute come le loro avrebbe prodotto risultati positivi.
Osservò
Tony mentre si trasferiva maldestramente sul divano, stravaccandosi
con sollievo e accendendo la TV con uno schiocco delle dita.
Trasmettevano un servizio su dei violenti scontri armati in corso da
qualche parte in Medio Oriente, e Tony storse il naso.
«Vede? Vede che cosa succede
quando non ci sono io? La gente si scanna!»
esclamò
con veemenza, preso da una delle sue solite manie di protagonismo, ma
la donna percepì una dolorosa vena di frustrazione nella sua
voce.
«JARVIS, cambia canale»
aggiunse
in tono più moderato, iniziando a cercare qualcosa tra i
cuscini del
divano.
Il robot eseguì, e Pepper raggelò nel veere la nuova successione d'immagini che andò a occupare lo schermo piatto.
«Ed è ormai di pubblico dominio la
folle impresa del...» una
foto di Tony campeggiava sullo schermo, ma lui era fortunatamente
ancora impegnato a cercare qualcosa perso nei meandri del
sofà.
Pepper si fiondò sul telecomando e si affrettò a cambiare canale: il suono delle raffiche
di mitra sostituì nuovamente la voce entusiasta della presentatrice.
«Ma
che cavolo... Off,»
ordinò
Tony,
riemergendo irritato dai cuscini. «Vedere questa roba mi rende
solo nervoso,»
sbottò,
lanciando
un'occhiata risentita alla TV e alla donna.
Si trasferì sulla
sedia a rotelle senza aspettare il suo aiuto, dopo essersi cacciato
in tasca il suo blocco degli appunti appena recuperato; fu quasi sul
punto di cadere, ma recuperò miracolosamente l'equilibrio e
si
diresse di nuovo verso l'ascensore come se nulla fosse successo.
Pepper si rassegnò ad aspettare un momento più
propizio per
sottoporgli i documenti aziendali che stringeva ancora in mano.
In
quegli ultimi giorni era stato particolarmente irrequieto, cosa che
non giovava affatto alle sue condizioni: passava quasi tutta la
giornata in laboratorio, stava accumulando sonno perso, approfittava
del fatto di essere costantemente inibito dagli antidolorifici per
muoversi più del dovuto ed iniziava a risentire del
prolungato
periodo senza aver assunto clorofilla. Pepper, messa in allarme sulle
sue vaghe ed evasive spiegazioni sugli effetti collaterali del
reattore, aveva tempestivamente reagito sostituendo le sue amate
bibite alcoliche nel minibar del laboratorio con flaconi di "succo
d'erba".
Non ci volle molto prima che la voce infuriata di
Tony risuonasse nel salotto dalla tromba delle scale:
«Puah!
Cos'è questo schifo!? Ancora clorofilla? È
ovunque! Pepper!»
Lei
non si degnò neanche di rispondere, sorridendo fra
sé segretamente
soddisfatta.
***
21
Febbraio, 17:45, Villa Stark
«Ce
l'ho... fatta,» sospirò finalmente Tony, volgendo
le mani al cielo
in un ironico ringraziamento divino: sapeva perfettamente di dover
ringraziare solo se stesso.
"Megalomane? A rapporto."
«Sono
un genio. Oh, sì. Adoratemi,» esclamò
rivolto ai robot accanto a
lui.
«Signor Stark, quando avrà finito di venerarsi
potrebbe
rivolgere a me le sue attenzioni?»
«Oh, ne sarò veramente
lieto, signorina Potts,» si girò con un gran
sorriso sul volto che
si congelò all'istante quando scorse Mitchell al seguito
della
donna. «Di nuovo lui?» impallidì,
coprendosi protettivo i
moncherini.
«Buongiorno anche a lei, signor Stark,»
ribattè
Ian, armato di una pazienza infinita.
«Non ho niente contro di
lei, ma sa... non mi ha mai portato buone notizie.»
«Comprendo
il suo trauma. Anche per me non è piacevole.»
«Siamo in tre,»
commentò Pepper, spazientita.
«Sono sicuro che avete un motivo
validissimo per essere qui... ma prima dobbiamo festeggiare: ho
inventato una nuova lega. È un grande giorno per la scienza.
JARVIS,
segna sul calendario.»
Ian fece un mezzo sorriso, non del tutto
convinto.
«Bene, vedremo se sarà compatibile. Mi mostri i
progetti.»
Tony gli porse un voluminoso fascio di documenti.
«La
nuova lega è composta da silicio, carbonio ibridato, acciaio
e
nichel depurato. Si fonde prima il silicio con il carbonio in base ad
un rapporto che...» si interruppe, notando l'espressione del
medico che
lo pregava di semplificare al massimo le parti tecniche.
«...che non
sto a spiegarle. Comunque, poi si fonde il carbonio ibridato con
l'acciaio e si fondono le due leghe temprandole a varie temperature.
Voilà! Abbiamo l'Unobtanium,
che secondo i miei calcoli dovrebbe poter sostituire i nervi in
maniera abbastanza fedele. Osservazioni? Commenti? Insulti?
Sì, sono
preparato anche a quelli, ma li ignorerò.»
«Sarò io a decidere se saranno
compatibili o meno. L'unica obiezione che mi sento di farle
è...»
«Perché "unobtanium"?»
completò Pepper al
posto suo.
«Esatto. Di tanti nomi...»
«Oh, le alternative
erano "Starkium" o "Badassium", fate un po' voi.
Ho deciso di buttarla sul ridere dato che sarà una lega che
non
andrà in commercio. Per ora.»
«Unobtanium andrà benissimo. Mi
servirà un campione.»
«Eccolo qui, solo per lei.»
Tony gli
porse una barretta dal colore nerastro racchiusa in una scatolina
semitrasparente. Ian parve intuire l'aspetto nocivo della nuova lega,
perché lo fissò con uno sguardo eloquente dopo
averla osservata in
controluce: non sembrava esattamente il materiale ideale per
sostituire i nervi di un braccio umano.
«Sì... mi, anzi, gli,»
indicò DUM-E, che si agitò con un ronzio
«è scappato un po' troppo nichel. Ne consideri
circa il 4% in meno; rimedierò con la prossima fusione,
questo primo
blocco servirà per i test preliminari. Vedremo poi quale dei
tre
componenti compenserà il nichel in eccesso.»
«E
l'alimentazione?»
«Sono lieto che me l'abbia chiesto, così
potrò sommergerla con un'altra spiegazione tecnica... o
forse no,»
tossicchiò.
Prese una specie di microchip dai riflessi azzurrini
poggiato sul tavolo.
«Questo è un micro-reattore arc; ancora un
prototipo, in effetti. Ha la stessa potenza di questo.»
Tamburellò
sulla piastra impiantata nel suo petto. «E un'autonomia di
circa
sessant'anni; direi che basterà... dovrà essere
ancorato alla
protesi e all'osso. Dove, dovrà deciderlo lei.»
«Tra acromion e
clavicola, direi. Almeno, così su due piedi, mi sembra la
collocazione più adatta. Mi lasci anche il micro-arc ed una
copia
del progetto.»
Altri documenti si aggiunsero a quelli che già
aveva in mano.
«Grandioso: compiti a casa. Mi sento tornare ai
tempi del college,» sospirò Ian, oberato di
scartoffie.
«A
questo proposito: mi rendo che il mio caso le porterà via la
maggior
parte del suo tempo lavorativo, così vorrei proporle un
impiego
fisso nelle Stark Industries, nel settore medico-sanitario,»
sciorinò Tony con semplicità.
Ian rimase di sasso, non
aspettandosi certo un'offerta simile posta in modo così
diretto.
Si prese qualche istante per ricomporsi e per riuscire a chiudere la
bocca rimasta semiaperta per la sorpresa.
«Sarebbe... fantastico.
Decisamente fantastico, ma dovrò... ponderare l'offerta, dopotutto sono anni che
lavoro nello stesso ospedale. Accetterei all'istante, ma dovrei prima
parlarne con la mia famiglia e informare i miei colleghi,»
temporeggiò, per non farsi vedere eccessivamente euforico.
«Ma
certo, ha tutto il tempo che desidera. Signorina Potts, lei
è d'accordo?»
«Me
ne ha già parlato, ripetutamente, e le ho espresso il mio
entusiasmo,» gli ricordò, riservando un lieve
sorriso al
medico, che si schiarì la voce fingendo indifferenza.
«Scommetto che non è solo una visita di
piacere,»
commentò all'improvviso Tony, notando che nessuno dei due
sembrava
aver intenzione di andarsene e realizzando che non aveva ancora
capito perché fossero venuti a parlare con lui.
"Altri
problemi..."
«Che intuito, signor Stark,» Mitchell si mosse
un po' a disagio.
«Immagino che lei sia qui come supporto
psicologico della signorina Potts.»
«Più o meno,» rispose
lui, evasivo.
«Vede, ehm... lei è in una situazione disagiata,
ma non solo fisicamente, purtroppo,» iniziò
Pepper, titubante.
«E
fin qui ci capiamo. Anche mentalmente non sono mai stato messo troppo
bene.»
«Sto cercando di dirle che è anche socialmente
compromesso.»
«Mi lasci indovinare: sono coinvolto in una
qualche scandalo che ha attirato l'attenzione delle più
importanti
personalità degli Stati Uniti che adesso vogliono delle
spiegazioni
convincenti... per vie legali, presumo.»
Pepper lo fissò un po'
spiazzata.
«Andiamo, ne parlano tutti i telegiornali! Pensavate
che non me ne fossi accorto? Il fatto che non voglia ascoltare non
vuol dire che non senta. E mi aspettavo di aver occupato le prime
pagine con l'incidente al settore 16, altrimenti perché ci
sarebbero
stati tutti quei paparazzi all'ospedale?» sollevò
la mano come se
fosse ovvio e con aria fintamente offesa per il fatto che avessero
sottovalutato a quel punto le sue capacità deduttive.
«Ci ha
risparmiato la fatica di informarla.» Pepper
sembrò enormemente
sollevata.
«Come ha intenzione di reagire?» intervenne a quel
punto Mitchell, temendo già la risposta.
«Tecnicamente ad ogni azione corrisponde una reazione, ma se io decidessi di non reagire...» notò lo sguardo affilato di Pepper e si affrettò a concludere: «Non presentarmi in
tribunale potrebbe essere una soluzione?»
«Signor Stark, è
sotto processo, non mi sembra la mossa migliore per ingraziarsi la
giuria,» Pepper lo squadrò con
severità, consapevole che non
stesse scherzando.
«Forse ha ragione... di cosa sarei accusato,
esattamente? Questo mi è sfuggito.»
«Ha una quantità
esorbitante di accuse, prima di tutto quella di essere... "Iron
Man".» Pepper pronunciò quel nomignolo con
evidente
perplessità.
«E dov'è il problema? Lo sono. Lo dichiaro. Fine
del processo e tutti a casa a lavorare sulle protesi,»
esclamò
falsamente esuberante Tony; aveva modi decisamente migliori per
sprecare il suo tempo che passare un'intera giornata a scaldare un
banco dei testimoni. «Bel nome, tra l'altro. Impreciso dal
punto di
vista tecnico, essendo l'armatura una lega di oro e titanio, ma molto
evocativo. Ha un che di pesante e potente. Sempre meglio di
"Consulente" o "Il Meccanico",» concluse
soddisfatto, mettendo a dura prova la sopportazione di Pepper.
«Mi
creda, signor Stark, vorremmo tutti che fosse così semplice,
ma
credo che qualcuno
non sarebbe così contento se confermasse spensieratamente la
sua
identità segreta.»
Ian fece finta di non stare ascoltando e
prese a leggere i documenti che aveva appena ricevuto.
«Identità
segreta? Pensavo di essere solo un "consulente", anche se
collaboro da mesi con Mr. Pirata e la sua ciurma.» Tony
simulò
un'espressione sbigottita. «Dopotutto, tecnicamente sono
troppo
"imprevedibile" e "instabile" per fare parte del
Progetto...»
«Signor Stark, le ricordo che sta parlando di
informazioni classificate.» Pepper scoccò
un'occhiata a Ian, che
faceva del suo meglio per mostrarsi disinteressato.
«Non ho alcun
dovere nei loro confronti! Non mi sembra che i miei super-amichetti
si siano neanche degnati di spedirmi un biglietto di buona
guarigione!» esclamò lui, chiaramente seccato e
deluso.
«Lei
non sa di cosa sta parlando, la situazione è molto
più complessa di
quanto crede e neanche io...»
A quel punto Ian si
riscosse:
«Signor Stark, signorina Potts. Sono perfettamente
consapevole di essere invischiato in qualcosa di più grande
di me.
Ho una famiglia e gradirei non essere messo parte a segreti di Stato
e informazioni sensibili che potrebbero metterla a rischio, se non vi
dispiace. Sono già abbastanza coinvolto con la storia del
processo
in quanto suo medico curante e avevo esplicitamente chiesto di
rimanere estraneo a queste faccende, per quanto possibile.»
Scoccò
un'occhiata significativa a Pepper, che ricambiò con aria di
scusa.
Tony alzò la mano in segno di resa come a dire che, se
fosse dipeso da lui, avrebbe parlato volentieri di
tutt'altro.
«Questioni top-secret a parte... dobbiamo decidere
una linea di difesa, e con questo intendo trovare un buon avvocato.
Non sarà facile, viste le premesse,»
cercò di farlo ragionare
Pepper.
Ian scosse la testa e si accigliò; fu sul punto di dire
qualcosa, ma Tony lo precedette, rivolgendosi a Pepper:
«Quando
sarebbe il processo?»
«Il quattro Marzo; tra poco più di dieci
giorni.»
«Così presto? Dovrò
sbrigarmi...» commentò tra sé
Tony. «Ah, non vuole rendere pubblica la mia attuale... situazione,
vero?» aggiunse, serio.
«Non vuole renderla pubblica?» domandò
stupita.
«Mi sembrava ovvio.»
«Dovrà farlo, prima o
poi.»
«Preferisco poi. Non ora. Meglio se mai. Lo dico
francamente: meno di un mese fa ero un simbolo per gli Stati Uniti, e
adesso non vorrei distruggere le mie e le loro aspettative e
peggiorare ancora la situazione. Tanto più che sono tutti
piuttosto
convinti che io sia Iron Man...» pronunciò quel
nome con chiaro
compiacimento, mostrando quanto lo apprezzasse. «Insomma, non
farei
una buona impressione se venisse fuori che non sono neanche in grado
di riprendere la mia "attività in incognito",»
disse Tony
d'un fiato.
Era chiaro che la sua assistente non fosse
assolutamente convinta delle sue argomentazioni, ma non aveva
intenzione di discuterne ulteriormente.
«Quindi, visto che non
potrò terminare le protesi in tempo per il processo... mi
serviranno
dei surrogati,» aggiunse con aria distratta, e si volse a
guardare
Ian.
Mitchell emise uno sbuffo esasperato: quante ne stava
passando a causa sua...
«Ingesseremo il braccio e la gamba
mancanti. E posso rimediare un paio di rudimentali protesi fisse.
L'occhio lo terrà coperto, diremo che in seguito
all'incidente ha
dovuto sottoporsi ad un intervento di chirurgia plastica ed
è
fotosensibile a causa di...»
«Come io le risparmio i dettagli
tecnici, lei mi risparmi quelli medici. Grazie per la
collaborazione,» lo interruppe scherzoso Tony, prima di
riprendere:
«Ma io dovrò realmente
sottopormi ad un intervento di chirurgia
plastica. Insomma! Il mio bel viso!» cercò di
sdrammatizzare senza
successo, sentendo uno spiacevole vuoto allo stomaco nel parlare del
proprio volto deturpato.
«Ci penseremo in seguito. Per ora non si
faccia strane idee riguardo all'occhio. Ho notato i suoi progetti. E
anche se riuscisse ad elaborare una tecnologia ottica non la opererei
certo io. Si concentri sulle protesi,» mise subito in chiaro
il
medico.
Tony lo fissò con aria testarda; "lo farò
comunque", diceva il suo sguardo.
«Ok. Se è tutto...»
attese qualche intervento da parte loro, che con suo sollievo non
arrivò, «...io torno a lavorare.»
concluse, indicando il caos di
dispositivi, metallo semifuso e congegni attorniati da ologrammi
azzurrini dietro di lui.
«Signor Stark...» lo richiamò Ian,
estremamente serio.
Tony si girò volgendo l'occhio al cielo.
«Se
proprio ha intenzione di presentarsi in tribunale con un arto
meccanico, si assicuri che funzioni a dovere. Io non faccio
miracoli.»
«Come ha fatto a capirlo?» chiese l'altro con un
sorriso furbo, come un bambino colto sul fatto.
«La signorina
Potts ha provveduto a informarmi su di lei molto, molto bene. In
particolare mi ha messo in guardia riguardo alla sua testardaggine e
alle sue stravaganze. Senza parlare della sua autostima spropositata
e inopportuna.»
«Ottimo lavoro, Pepper.»
Tony la guardò
furbetto, per poi tornare a prendere a male parole il robot:
«Tu,
mani di latta! Non ti avevo forse detto di pulire? "Non l'ho
fatto"? Male. Fallo ora!» ordinò, rimettendosi gli
occhiali
protettivi e afferrando il saldatore «JARVIS, torna in vita e
proiettami un modello del braccio: oggi lavoriamo sul
telaio...»
Pepper ed Ian si defilarono di comune accordo, lasciandolo al suo
lavoro.
_____________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________________
Revisione effettuata il 15/02/2018
Note Delle Autrici:
Ay, ay, ay caramba! Eccoci di nuovo qui con un altro capitolo ancora "leggero" tutto per voi. Non siamo ancora passate alle maniere forti *TREMATE!*
Intanto aggiungiamo problemi su problemi u.u Come se Tony non ne avesse abbastanza...
Ringraziamo tanto alliearthur, Rogue92 e sofy96 che continuano a seguirci e a recensire ^^
Alla prossima,
Moon&Light
© Marvel
|
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Capitolo 7 *** Heart of steel ***
6
-
Heart
of steel
"And honey, you should know
That I could never go on without you
Honey you are the rock
Upon which I stand"
[Green Eyes – Coldplay]
26
Febbraio, Villa Stark
«Ne
è sicuro, signor Stark?»
«Assolutamente.»
«Glielo chiederò
ancora una volta: ha l'assoluta certezza che funzioni, che sia
perfetto e che non avrà problemi?»
Tony deglutì, fissando
l'intrico di cavi che sporgeva dalla placca di metallo poggiata sulla
scrivania e il micro-reattore ancora inerte accanto ad essa. Aveva
passato l'ultima settimana a costruire la piastra d'aggancio della
protesi, concentrandosi sul punto di giunzione tra il suo braccio e
il metallo; era rimasto sveglio intere nottate per essere certo di
non tralasciare nulla, neanche il più piccolo dettaglio che
potesse
causare difficoltà... era sicuro, dannatamente sicuro che
funzionasse.
Ciononostante non poté reprimere il brivido di paura
che gli percorse la schiena quando rispose:
«Sì.»
Ian annuì, sistemandosi le pieghe dalla giacca:
non si fidava così ciecamente di lui, ma aveva imparato che,
sebbene
avesse un'opinione troppo alta di sé, non avrebbe mai
affermato
nulla in campo tecnico senza esserne sicuro al cento per cento. O
perlomeno convinto.
In quel periodo di progettazione serrata
avevano finito per instaurare un rapporto, se non di fiducia, almeno
di rispetto reciproco: lui dava per buone le sue supposizioni
tecniche e meccaniche e Tony si riponeva completamente nelle mani del
medico per la parte anatomica. Tra Tony che stemperava l'atmosfera
con la sua battuta pronta e il suo incrollabile ottimismo e Ian che
lo teneva a bada con burbera schiettezza e inclemente realismo,
avevano formato un team piuttosto equilibrato, arrivando a risultati
più che notevoli. Ne era prova la meraviglia biotecnologica
dinanzi
ai loro occhi.
Ian trasse un respiro profondo:
«Molto bene.
Ora non ci resta che applicarla e sperare che tutto vada bene. Quando
vuole operarsi?» chiese, aspettandosi già la
risposta.
Tony non
rispose subito, perso nei suoi pensieri, ma quando parlò lo
fece in
un tono assolutamente deciso:
«Domani.»
Ian sbuffò: come
previsto.
«Domani sarà difficile. Le ricordo che ho ancora
una
vita al di fuori di qui. E mille pratiche da sbrigare prima di poter
lasciare il mio posto al General.»
«Allora il prima possibile.»
Tony alzò le spalle a camuffare la sua impazienza.
«Se si sente
pronto io non ho problemi a operarla tra tre giorni, durante il
finesettimana. Così potrò monitorarla nelle ore
immediatamente
successive. Ho passato l'ultimo periodo a ripassare ogni singolo
passo dell'operazione, e poi posso sempre contare su JARVIS. Anche se
degli assistenti in carne ed ossa sarebbero meglio, per un'operazione
così delicata,» aggiunse.
«Non sono solo io a spingere per la
privacy a tutti i costi...» commentò Tony, in tono
lievemente
accusatorio.
«Non mi metta in mezzo alle sue beghe governative.
Io sono un semplice medico.»
Tony scosse la testa, contrariato.
Aveva ricevuto un lapidario specchietto da parte dello SHIELD che gli
raccomandava di mantenere "la massima riservatezza" in quel
frangente delicato, senza poi spiegare come avrebbe dovuto seguire
una direttiva del genere. In realtà si era stupito che non
si
fossero fatti vivi prima. Pepper stessa sembrava sorpresa dal loro
silenzio e gli aveva ribadito di non aver ricevuto ulteriori
informazioni da parte loro, ma aveva l'impressione che lo stesse
volutamente tenendo all'oscuro di qualcosa. O forse erano
semplicemente impegnati a gestire chissà quale minaccia
incombente,
dinanzi alla quale la sua momentanea inattività passava in
secondo
piano.
La voce di Ian lo riscosse dai suoi pensieri
irritati:
«Posso farcela anche da solo, anche se ci metterò
molto più tempo, aumentando i rischi per lei. Deve
però assicurarmi
la disponibilità dei suoi robot: sono bravo, ma io non ho
superpoteri.»
L'occhiataccia di Tony gli bastò per capire quanto il suo
commento
fosse a sproposito e si schiarì la gola prima di continuare:
«Basta
che la signorina Potts si tenga a disposizione in caso di emergenza;
non importa se non è qualificata: le dirò io cosa
fare se sarà
necessario,» spiegò, senza nascondere il suo
disappunto.
«Sarà
felicissima di prendere parte a un'altra operazione chirurgica poco
ortodossa...» commentò Tony, lasciandosi scappare
un sorriso sotto
i baffi. «I robot sono a sua disposizione, ma si assicuri che
distinguano la destra dalla sinistra prima di iniziare a
tagliuzzarmi,» sbuffò, in un macabro tentativo
d'ironia che Ian non
sembrò apprezzare particolarmente.
«La ringrazio per aver
accettato la mia offerta,» aggiunse poi, più serio.
«Potevo
forse rifiutare? Per un lavoro così sono anche disposto a
passar
sopra a qualche dettaglio poco convenzionale... come un'operazione in
casa propria,» commentò Ian con franchezza.
Tony alzò le
spalle, come a dire che per lui la stravaganza era la norma.
Era
contento di aver offerto quel lavoro a Ian. Era una persona
competente e capace, oltre che perfettamente in grado di tenergli
testa, ed era proprio quella qualità a valergli la stima che
provava
nei suoi confronti, nonostante si trovasse spesso in disaccordo con
lui. In fin dei conti era lo stesso criterio che aveva adottato
nell'assumere Pepper e non si era mai pentito di quella
scelta.
Inoltre la sezione biotecnologie mediche delle Stark
Industries languiva da un po'. Dopo la chiusura del reparto bellico
erano stati costretti ad operare una redistribuzione radicale dei
fondi, oltre che ammortizzare la perdita di molti dei loro
finanziatori. Tony aveva deciso di puntare sull'energia pulita per
rilanciare l'azienda, finendo per trascurare molti dei dipartimenti
minori al punto da essere obbligato a congelarne alcuni –
rimpiangeva ancora la chiusura della sezione spaziale. Magari il
contributo del dottor Mitchell non sarebbe stato decisivo, ma era
qualcosa.
Il medico aveva un curriculum impressionante e
risultava come mentore di alcuni dei chirurghi più illustri
del
Paese: Tony si era chiesto a più riprese perché
mai una mente come
la sua si limitasse a lavorare al General Hospital di Los Angeles,
pur in una posizione di rilievo, piuttosto che in una qualche prestigiosa clinica privata in Svizzera. Fissò l'uomo seduto davanti
a
lui, ingrigito e dal volto che sembrava scolpito in una tavola di
legno in cui fossero state incastonate due acquamarine.
Per ora, Ian
rimaneva per lui un enigma.
«Quante possibilità di successo ho?»
chiese all'improvviso, anche per rompere il silenzio che si era
protratto un po' troppo a lungo.
Mitchell sembrò prendere per un
attimo in considerazione l'idea di mentirgli, poi parve
ripensarci.
«Di solito non scoraggio un paziente prima di un
intervento, ma trattandosi di un'operazione mai eseguita prima
d'ora...» s'interruppe, titubante. «Il 45% circa.
Né più né
meno.»
Tony si aspettava una cifra simile, ma fu comunque un duro
colpo.
«La prego, continui a parlare nella mia lingua:
probabilità di rigetto e di decesso?» chiese,
sforzandosi di
mantenere la calma.
«Rigetto più o meno 60%... forse 65. Morte,
fortunatamente, sotto al 30%.»
«Fortunatamente? Non capisco
nulla di medicina, ma di statistiche ne so qualcosa: è
comunque
molto alta. Esattamente, cosa potrebbe andar storto?»
«Mille
cose, e lo sa bene, ma a meno che non le recida per sbaglio un
arteria il rischio più grande è che si infetti la
ferita; allora
bisognerebbe riempirla di antibiotici o, in casi estremi, asportare e
reimpiantare la protesi. Idem, se non peggio, se il suo corpo non
dovesse accettarla come tale. Dobbiamo anche sperare che in
seguito l'osteointegrazione degli agganci in titanio faccia il suo
corso.»
Tony si mosse nervosamente sulla sedia,
irrequieto.
«Molto bene... cioè, male. Insomma, detesto non
avere la situazione sotto controllo. Non che così cambi
qualcosa, ma
sapere a cosa vado incontro è già un passo
avanti.»
Ci fu
un'altra pausa, durante la quale Tony fissò intensamente la
protesi
e il micro-reattore, come se così potesse svelarne gli
eventuali
difetti.
Nel suo studio, probabilmente la stanza meno utilizzata a
Villa Stark, scese un silenzio interrotto solo dal ticchettio
dell'orologio a muro. Tony guardò nervoso fuori dalla
vetrata e
seguì il profilo della costa californiana che si perdeva
all'orizzonte, in cerca di una calma che stentava a trovare.
«Pepper
lo sa? Intendo, riguardo alle possibilità di
successo,» si decise a
chiedere.
«Non ancora, devo...»
«Perfetto, non glielo dica.
È già abbastanza preoccupata e si
infurierà quando le dirò che mi
opero così presto,» commentò, passandosi
la mano sul volto
tirato.
Ian evitò di rispondere, ma era chiaramente in disaccordo
con quella decisione. D'altronde, la parola del paziente era legge.
Si alzò dalla sedia sgranchendosi le gambe e prese la
piastra
d'aggancio e il micro-reattore con accortezza.
«Vuole che la chiami e la informi
almeno dell'operazione?» si offrì, volendo
diminuire lo stress per
Tony: un accumulo di tensione in quei giorni avrebbe potuto
ostacolare l'anestesia totale.
«Magari glielo accenni e le dica
di venire qui... provvederò io a spiegarle tutto nei
particolari.
Grazie,» aggiunse in ritardo, ma il medico era già
uscito.
"E
ora, un bel sorriso. Magari non la prenderà così
male."
***
«Il
reattore le ha fritto il cervello?»
«Ancora no, per fortuna. Le
assicuro che sono nel pieno possesso delle mie facoltà
mentali, un
po' meno di quelle fisiche.»
Pepper si morse il labbro,
angosciata; ogni suo gesto esprimeva preoccupazione, ansia e
nervosismo. Ponderò per un secondo se prenderla in giro per
questo,
ma ci ripensò rapidamente capendo che farlo sarebbe stato
solo
crudele da parte sua.
«Pepper, mi sento pronto. Non come vorrei,
questo no, ma sono abbastanza calmo per farmi operare tra pochi
giorni. Se aspettassi ancora non so come potrei reagire. Forse con un
attacco di panico, non lo so. Cerchi di capirmi,» aggiunse
intensamente, tentando di catturare il suo sguardo, ma lei continuava
a sfuggirlo.
La donna si appoggiò alla scrivania dietro di sé,
fissando
il pavimento di parquet lucido e stringendo le braccia attorno al
proprio corpo come per impedirsi di crollare come un castello di
carte. Tony si sporse appena dalla sedia a rotelle, ma era troppo
lontano per raggiungerla e fece per rinunciare. Pepper però colse il suo
movimento e si accostò appena a lui per permettergli di
sfiorarle il
braccio, in un gesto che lui sperò fosse rassicurante.
La donna
scosse appena la testa, tormentandosi le mani. Era impallidita e Tony
riusciva a vedere chiaramente ciascuna delle lentiggini che le
costellavano il volto fine. Non riuscì a distogliere lo
sguardo. Si
rese conto di quanto la stesse facendo preoccupare e di cosa doveva
essere stato per lei quel periodo. Aumentò appena la presa
sul suo
braccio e quello parve riscuoterla; posò una mano su quella di Tony
sua, riuscendo finalmente a esprimersi:
«Non può operarsi adesso, è
tutto troppo affrettato. Non è pronto, non credo proprio che
lei sia
pronto per una cosa simile,» disse d'un fiato, parlando
con
impeto e gesticolando molto, come le capitava sempre quando era
agitata.
Tony scosse la testa con un mezzo sorriso.
«È lei
che non è pronta,» disse, prendendola in
contropiede.
Capiva
perfettamente la sua posizione: aveva rischiato troppe volte di
perderlo, e sapevano entrambi di non avere nessuno se non
l'altro.
«No,» ammise lei. «Non sono pronta a
vederla morire
sotto i ferri o per qualunque altro motivo, come non ero pronta un
anno fa quando...» si lasciò sfuggire,
interrompendosi di colpo nel
realizzare ciò che stava per dire.
«Pepper...» lo sguardo di
Tony si fece improvvisamente più cupo: non voleva che
pensasse a
quello.
Non era giusto che quell'evento tormentasse anche lei.
«Mi
dispiace, non volevo...»
«Va tutto bene, Pep. Anzi, visto che
parla dell'Afghanistan...» esitò brevemente per
scrutare la sua
reazione, concludendo che fosse abbastanza calma per continuare:
«...
insomma, non vorrei peggiorare la situazione ma là ho
affrontato di
peggio: mi hanno operato a cuore aperto, senza anestesia e con degli
strumenti chirurgici medievali. E sono ancora vivo,» disse
d'un
fiato, pentendosi di aver voluto continuare per forza.
Non
riusciva ancora a parlarne con leggerezza senza sentire una punta di
disagio in fondo allo stomaco. Dovette prendere un grosso respiro per
calmarsi, ma riuscì a sfoggiare la sua solita aria spavalda.
«Andrà
tutto bene: non muoio così facilmente.» Le fece
l'occhiolino,
cercando di infonderle un po’ di coraggio anche se era lui il
primo
ad averne bisogno.
La donna non sembrò affatto convinta, ma gli
strinse la mano tra le sue, in un tentativo di incoraggiarsi a
vicenda.
«Non mi preoccupa solo l'operazione. Anche il... il
dopo,»
confessò infine Pepper, lasciando intendere il resto.
«Vedo che
Ian l'ha comunque informata,» commentò lui seccato.
«Ho minacciato
di impedirgli l'operazione se non mi avesse detto chiaramente quali
erano i rischi. E lei dovrebbe sapere che non può
nascondermi
nulla.» Tentò un sorrisetto nervoso senza molto
successo e Tony lo
ricambiò con spontaneità: tipico di Pepper.
Riusciva ad essere
terrificante, quando voleva. E lui lo sapeva molto bene.
Pepper
fece per tornare a tormentarsi inconsciamente le mani, ma Tony la
trattenne con fermezza, intrecciando le dita alle sue per
impedirglielo, pur consapevole dell'estraneità di quel gesto nel
loro
rapporto. Intuì lo sguardo perplesso di Pepper posarsi su di
lui, ma
lo sfuggì, concentrandosi sulla gamba dei suoi pantaloni
vuota e
annodata all'altezza del ginocchio. Lei non si sottrasse al contatto
e Tony si sentì stupidamente felice.
«Si impianterà tutto il
braccio?» chiese infine Pepper per rompere quel silenzio, e
sciolse
infine la stretta che la univa alla mano di Tony; lui la
lasciò
andare subito, ritraendosi un po' a malincuore.
«No, solo la
piastra di base, quella che si collega ai nervi, e il micro-reattore.
Il resto lo impianterò dopo da solo,»
spiegò poi con
disinvoltura; mentre parlava fece un cenno verso la propria spalla
mutilata. «Ah, un'altra cosa che la farà
infuriare,» aggiunse,
sbirciando di sottecchi lo sguardo ora esasperato della donna.
«Non
mi operano in ospedale. Si ricorda la stanza inutile?»
«L'ex-camera
di suo padre?»
«Esatto... eviterebbe di pronunciare la parola
"padre"? Lo sa che mi irrita. Comunque, dovrà essere
smantellata e sterilizzata da cima a fondo in modo che sia linda e
pinta entro venerdì. Basterà equipaggiarla con le
apparecchiature
mediche che avevamo ordinato tempo fa e sarà una sala
operatoria
funzionale in tutto e per tutto. Almeno è servita a
qualcosa, alla
fine,» commentò acido, senza riuscire a
trattenersi. «Entro lunedì potrò
iniziare a lavorare sul serio,» concluse poi
sorridendo ottimisticamente.
Parlava come se niente fosse, sovrappensiero. Pepper
lo osservò con attenzione, cercando di leggere la sua
espressione
impertinente, ma oltre intravide solo una serena noncuranza.
Non
sembrava veramente preoccupato, e forse era quello che preoccupava di
più lei.
***
29
Febbraio, Villa Stark
«Signor
Stark, se è pronto possiamo cominciare l'anestesia. Si
assicuri di
essere calmo e rilassato, o potrebbero sorgere
complicazioni,» lo
informò Ian, facendosi loro incontro con una flebo per nulla
rassicurante in mano.
«Ricevuto. Sono calmissimo,» lo
rassicurò
lui.
Pepper lo fissò esitante.
«Sono pronto,» le ribadì Tony,
con una sicurezza che non sentiva sua.
L'ago fece più male
di quanto si fosse aspettato, tanto che gli strappò
un'esclamazione di
sorpresa, più che di dolore. Sentì subito il
braccio intorpidirsi e
un velo freddo che gli avvolgeva il resto del corpo. Non percepiva
già più la flebo.
«Dovrebbe addormentarsi entro dieci
minuti al massimo. Non si agiti, deve abbandonarsi al sonno,»
lo
avvertì Ian, notando lo sguardo di puro panico che Tony
rivolse a
Pepper.
Ian indossava mantellina e grembriule sterili, mascherina e
cuffia; solo i suoi occhi azzurri schermati dagli occhiali erano
visibili, e si fissarono penetranti su di lui.
«Io sono di là,
sterilizzo gli strumenti, controllo che sia tutto in ordine e torno.
Signorina Potts, si assicuri che stia calmo e tenga a portata di mano
l'abbigliamento chirurgico: non si sa mai,» le ingiunse a
voce più
bassa, sparendo oltre la porta a tenuta stagna che Tony aveva fatto
installare a tempo record.
Pepper sperò con tutto il cuore che
Ian non avrebbe avuto bisogno del suo aiuto. Non era assolutamente in
grado di affrontare la visione di Tony sotto i ferri.
Questi era
sdraiato sulla brandina, con un panno a coprire fianchi e inguine e lo sguardo
rivolto al soffitto. Respirava affannosamente e non sembrava affatto
sul punto di addormentarsi. Pepper spostò la sedia accanto a
lui,
senza cercare di nascondere la sua ansia, ma quando vide che era
più
teso che mai assunse un'espressione che sperava fosse
rassicurante. Gli strinse la mano, sperando che la sentisse
ancora, e lui ricambiò la stretta con forza, come
aggrappandosi a
lei.
«Non funzionerà. Andrà storto qualcosa,
me lo sento... ho
sbagliato sicuramente qualche calcolo,» sussurrò
concitato,
sentendosi invadere dalla paura che trapelava dal velo allentato del proprio autocontrollo.
«Tony Stark che dubita della sua
genialità?» chiese ironica Pepper, cercando di
tranquillizzarlo e
di tranquillizzare anche se stessa. «Non ha sbagliato niente;
non
ricordo sinceramente una sola volta in cui abbia sbagliato qualcosa nel
suo campo,»
ribattè lei, decisa, ma le sue parole non parvero fare
effetto.
«Ma
che mi è venuto in mente? Potevo vivere benissimo anche
senza
quest'assurda idea delle protesi... mi sento una cavia da
laboratorio! Dannazione, sono un idiota!» imprecò,
tremante.
Stavolta Pepper si accigliò. Forse il sedativo lo stava
disinibendo più di quanto si stesse rendendo conto, e si
chiese se
quello che stava parlando fosse il vero Tony, quello che aveva
intravisto solo raramente oltre la sua maschera di spavalderia.
«Lei
ha la possibilità di ricostruirsi una vita, al contrario di
molta
altra gente: non la getti via così alla leggera,»
lo rimproverò
infine.
Tony emise un sospiro sibilante, annuendo appena.
«Giusto.
Ho... ho fatto una promessa,» farfugliò, e per un attimo
non sembrò
neanche essere cosciente di dove fosse. «Ormai non posso
tirarmi
indietro,» mormorò appena, sentendosi chiudere
l'occhio man mano
che il sedativo faceva effetto. «Se penso che dovrò
rifarlo anche
per la gamba...» rabbrividì, non sapendo se ne
avrebbe avuto il
coraggio e, soprattutto, se ne sarebbe stato in grado.
Spostò lo
sguardo appannato su Pepper e si sentì crudele per lasciarsi
andare
a simili scenate di panico davanti a lei: la stava solo facendo
soffrire. Si impose, per l'ennesima volta, la calma, anche se
già si
sentiva fluttuare in uno strano limbo di grigia oscurità.
Era
semplice, dopotutto: doveva solo addormentarsi e poi si sarebbe
risvegliato senza problemi, cercò di autoconvincersi. E se
anche non
si fosse risvegliato, non si sarebbe comunque accorto di nulla.
Giusto?
«Signorina Potts... la proposta di trasferirsi qui in pianta
stabile è ancora valida,» sorrise a fatica,
tentando di distrarsi
da quello che stava per accadere.
Pepper sembrò per un momento
spiazzata dal repentino cambio di tono e argomento, ma poi assunse
un'espressione più tranquilla.
«Credo proprio che accetterò,
signor Stark, ma...»
«Avrà una sua camera, non si preoccupi,»
la anticipò con un debole sogghigno ironico. «Basta
che quando mi
sveglio lei sia qui,» aggiunse piano, come parlando da una
grande
distanza e chiedendosi se il sedativo non lo stesse facendo
delirare.
Pepper per tutta risposta gli strinse un po' più forte
la mano.
Ian rientrò in quel momento, armato di una torcetta
elettrica. Si avvicinò a Tony e gliela puntò
nell'occhio,
osservando la pupilla, che reagì debolmente alla luce.
«Ho
freddo...» bofonchiò Tony; sembrava
momentaneamente distaccato
dalla realtà e aveva l'occhio semichiuso.
Mormorò qualche altra
frase sconnessa, prima di addormentarsi docilmente e con
un'espressione serena sul volto. Ian lo trasferì con
attenzione in
sala operatoria, rivolgendo un cenno d'intesa a Pepper. Lei si
sedette di nuovo, poggiando il viso tra le mani e preparandosi a una
lunga attesa.
***
«Non
va bene! Non va affatto bene! Lo sta rigettando! Il bisturi cinque,
Potts, il cinque!»
«Mitchell, il reattore sta...»
«Mi dia
quel bisturi! Tamponi qui e prema forte! Non lasci o lo
perdiamo!»
«Il cuore! Mitchell!»
«No...»
«Tony!»
***
Non
era così male essere in anestesia totale,
riflettè Tony da qualche
parte tra la realtà e l'oblio. L'oscurità era di
tanto in tanto
inframmezzata da un lampo blu. Non capiva se fosse sveglio o meno. Era
sospeso in una dimensione di passaggio non meglio identificata,
simile al coma, ma meno profondo. Poteva anche essere morto da quel
che riusciva a sentire, cioè niente. Era come scivolare in
un
pacifico dormiveglia.
Percepì un barlume di coscienza.
"Dove
sono?"
***
Luce.
Luce ovunque, così forte da trapassargli gli occhi; la
sentiva quasi
brillare nella mente, per quanto era intensa. Poi arrivò il
dolore,
smorzato e soffuso, ma costante. Le macchie di colore che gli
danzavano davanti agli occhi assunsero contorni più
definiti, e fu
in grado di distinguere... un volto?
«Pepper...» rantolò a
fatica, ricollegando la chiazza rossastra ai i suoi capelli.
Gli
sembrò che stesse sorridendo, ma tutto era ancora sfocato...
e gli
girava la testa come una trottola impazzita. Sentì la sua
voce,
distorta e lontana; gli ferì le orecchie e sentì
l'istinto di
tapparsele, se solo avesse capito dov'era il resto del suo
corpo.
"Sono vivo," realizzò in ritardo, quando
finalmente avvertì una lontana percezione di sé.
La vista gli si
schiarì un poco, e riconobbe il soffitto della sua stanza.
Mosse la
testa, felice di riuscirci, e scoprì di avere una flebo
piantata nel
braccio, così evitò di muoversi troppo.
"Dov'è
andata...?"
Si guardò intorno confuso e la vide rientrare di
corsa nella stanza per sedersi accanto a lui sul letto. Stava dicendo
qualcosa, ma le parole erano un'accozzaglia indistinguibile di suoni. Lei
dovette rendersi conto che era ancora in stato confusionale,
perché
smise di parlare, limitandosi a rivolgergli un sorriso raggiante.
Tony udì un fischio acuto e fu come se qualcuno avesse
finalmente
deciso di restituirgli l'udito; strizzò l'occhio, assordato,
poi
riportò lo sguardo su Pepper restituendole spontaneo il
sorriso,
ancora un po' intontito.
«Sono vivo!» esclamò con voce
gracchiante e stupendosi della sua stessa vitalità,
nonostante fosse
continuamente assalito dalle vertigini.
«Sì. Sì, è vivo, per fortuna...»
disse Pepper con voce un po' rotta dall'emozione.
«Cosa è
successo? È andato tutto bene?»
«Sì, è andato bene. Ma ha
rischiato tanto... veramente tanto,» mormorò
Pepper,
improvvisamente seria.
«Ci sono state complicazioni?»
«Molte.
Il micro-reattore ha interferito col reattore principale appena Ian
l'ha impiantato. Ha rischiato di rigettarlo.»
«Non l'avevo
previsto; non... non sarebbe dovuto accadere, il micro-reattore
è
troppo piccolo per...» gli finì il fiato e dovette
fermarsi per
riprendere il controllo della sua bocca impastata.
Faticava a
decifrare ciò che gli stava dicendo Pepper.
«... poi si è
stabilizzato, ma ha avuto un arresto cardiaco. Abbiamo davvero temuto
di perderla.»
Tony riuscì ad avere un moto di sorpresa
nonostante la spossatezza che sentiva.
«Lei era lì?» mormorò
incredulo.
«Ho dovuto aiutare Mitchell; da solo non ce l'avrebbe
fatta.»
Tony non poté fare altro che guardarla con sguardo
perso, ammirato e allo stesso tempo senza parole. Aprì e
chiuse la
bocca un paio di volte, per poi rassegnarsi a rivolgerle un semplice,
enorme sorriso di gratitudine.
Trovò solo allora il coraggio di
guardarsi il moncherino: la piastra metallica che era la base della
protesi sembrava aderire perfettamente alla sua pelle, circondata da
una fasciatura che nascondeva i punti di sutura esterni. C'era una
medicazione che copriva l'estremità distale della clavicola, dove
immaginò fosse
impiantato il micro-arc.
«Ce l'ha fatta...» mormorò incredulo,
sfiorando il bordo metallico con i polpastrelli.
«Anche lei,»
lo corresse Pepper, con il sorriso che non riusciva ad abbandonare le
sue labbra e gli occhi un po' lucidi.
Tony si sarebbe messo a
ridere e urlare dalla felicità se solo ne avesse avuta la
forza, ma
era veramente esausto, così si limitò ad emettere
una risatina,
soffocata in un accesso di tosse.
«Gliel'ho detto che ce l'avrei
fatta; dovrebbe imparare a fidarsi di me,»
commentò con un mezzo
ghigno sicuro di sé.
Pepper scosse la testa senza sapere come
esprimere il proprio sollievo, ma Tony lo fece al posto suo:
ignorando il dolore, si sollevò a sedere e
catturò Pepper in un
abbraccio improvviso, stringendola a sé col braccio sano e
ignorando
la sua esclamazione di sorpresa.
Fece male, dannatamente male, ma
si sentì scoppiare di gioia quando udì la risata
spontanea e un po' rotta dalle lacrime di
Pepper risuonargli nel petto.
___________________________________________________________________________________________________________________________
Revisione effettuata il 15/02/2018
Note Delle Autrici:
Ta-daaa, siamo di nuovo qua. Contente? u.u *parte coro di fischi* coffcoff, comunque, non ci stanchiamo mai di tormentare Tony... non si era notato eh? Ma, dopotutto, adesso sarà felice per un po'... e ora arriveranno gli altri problemi! :D
Dunque, ci siamo date a un fluff spaventoso... speriamo di non aver esagerato ^^'
Ringraziamo come sempre alliearthur, Rogue92 e sofy96 che hanno recensito gli scorsi capitoli <3
Alla prossima! :D
Moon&Light
P.S. Piccola precisazione: Pepper aiuta Mitchell nell'operazione, ma non partecipa in prima persona. Ci spieghiamo: gli passa solo gli strumenti, controlla le apparecchiature e ferma il sangue (insomma, non impugna bisturi e roba varia, sarebbe ridicolo). Per tutto il resto... c'è JARVIS & la sospensione dell'incredulità :D
© Marvel
|
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Capitolo 8 *** Another brick in the wall ***
7
.
Another
brick in the wall
"I
know what it takes to move on
I know how it feels to lie
All I wanna do is trade this
life for something new
Holding on to what I haven't got"
[Waiting
For The End – Linkin Park]
2
Marzo, Villa Stark
Nei
giorni che precedettero il processo e non appena fu in grado
di alzarsi dal letto contro ogni buonsenso, Tony divenne sempre
più nervoso e incostante.
Entrò in uno stato di attività febbrile, vivendo
prevalentemente in
laboratorio e facendosi vedere di rado nel resto della casa, preso
com'era dal suo lavoro che sembrava averlo rinvigorito almeno nel
fisico
dalla spossatezza post-operatoria. Lo
stesso non si poteva dire delle sue condizioni psichiche: era
soggetto a frequenti e improvvisi scoppi d'ira, seguiti da profonde
crisi depressive che però duravano al massimo un paio d'ore,
per poi
tornare in uno stato di euforica attività. Spesso era
tormentato da
atroci fitte di dolore al moncherino connesso alla protesi, cosa che
lo innervosiva ulteriormente ma che non bastava a imporgli il confino
a letto come gli aveva prescritto Ian.
Nonostante questo
miscuglio di emozioni altalenanti lavorava sempre fino a sfinirsi,
accumulava appunti e schizzi in un caos ingestibile sulla sua
scrivania e affidava il lavoro della fusione ai robot, assicurandosi
di persona che fosse eseguito alla perfezione. Era diventato quasi
ambidestro, ma non si fidava a fondere e preparare la lega di
unobtanium con una mano incerta e un braccio incompleto. Aveva
realizzato a tempo di record il telaio, incluse le
dita, anche se
non riusciva ancora a muoverlo se non per pochi, basilari gesti.
Passava ore nel tentativo di controllare quel rudimentale abbozzo di
braccio, sostenendo che doveva abituarsi a quello prima di riprodurre
il resto.
In
generale, stava compiendo una lotta contro il tempo per terminare il
braccio in modo che fosse funzionale prima del processo: sembrava
preoccuparsi più di come sarebbe apparso in aula che non del
processo in sé.
Questo
clima di tensione influiva anche su chi viveva con lui o decideva suo
malgrado di fargli visita.
Rhodey,
ancora all'oscuro delle condizioni di Tony e probabilmente andando
contro gli ordini della SHIELD, aveva commesso l'errore di
disturbarlo mentre stava controllando la fusione dell'unobtanium,
impresa non facile con la sola sinistra e in bilico su una sedia a
rotelle. Gli era tremata la mano al momento sbagliato quando
Rhodey lo aveva chiamato tramite l'interfono e aveva quindi
rovesciato il metallo fuso sul banco di lavoro, rischiando di
danneggiare irreparabilmente anche la protesi. Era andato su tutte le
furie e gli aveva precluso l'accesso al laboratorio all'istante,
intimandogli di non mettere più piede in casa sua. Aveva
probabilmente perso un importante appoggio per il processo e a nulla
erano valse le scuse di Pepper per conto di Tony e i suoi tentativi di
accennargli la gravità della situazione: Rhodey se n'era
andato stizzito, dicendole di fargli presente quando il suo "amico"
avesse deciso di comportarsi da persona civile, e non aveva voluto
ascoltare altro. A quel punto era stata Pepper a stizzirsi e a
decidere che non aveva tempo né energia per tener testa a due
adulti che si comportavano come tredicenni isteriche.
Ian
ormai si faceva vedere poco e niente alla Villa a causa
dell'intrattabilità di Tony durante i controlli, neanche gli
stesse
impiantando di nuovo il braccio da sveglio. Si era limitato a
prescrivergli degli antidolorifici, dedicandosi anima e corpo al suo
nuovo impiego alle Stark Industries nonostante l'indisponenza del suo
datore di lavoro.
Fury non si era ancora fatto vivo nonostante
avesse finalmente annunciato un'imminente riunione dei Vendicatori
per "fare il punto della situazione", così avevano almeno
evitato di inimicarsi personalità altrettanto suscettibili
come Hulk
o Thor. La reazione di Tony era stato di puro fastidio: era
evidentemente ancora molto, molto risentito per lo stato di totale
ignoranza in cui lo stavano tenendo e per il loro apparente
disinteresse nei suoi confronti.
Un paio di settimane prima Coulson le aveva comunicato in privato che
il quartier generale era al momento piuttosto in subbuglio a causa di
alcuni contrasti col governo, che a quanto pareva non vedeva di buon
occhio qualunque "progetto" la SHIELD stesse cercando di nascondergli.
Un certo generale Ross aveva avanzato delle pretese discutibili
riguardo alla coordinazione del progetto, con enorme irritazione di
Fury, già impegnato a gestire un fronte turbolento tra
Asgard e Midgard. Sembrava che Stane non avrebbe potuto scegliere
momento peggiore per dare di matto e ridurre Tony in quello stato.
Coulson l'aveva pregata di non fare parola delle tribolazioni della
SHIELD con lui, vista la sua posizione già abbastanza
ambigua e precaria nei Vendicatori. Non avevano bisogno di ulteriori
colpi di testa da parte sua e Pepper si era trovata d'accordo,
nonostante sentisse un lieve disagio nel mentire a Tony. D'altronde,
questi era troppo assorbito dal suo lavoro per prestare veramente
attenzione a qualunque cosa accadesse oltre le mura del laboratorio.
Happy
e Pepper stavano iniziando ad accusare la situazione tutt'altro che
serena, essendo obbligati a convivere
con Tony ventiquattr'ore su ventiquattro. Il primo aveva risolto il
problema prendendosi delle lunghe ferie per una presunta zia malata.
Pepper sapeva benissimo che aveva preso il primo aereo per Las Vegas
e non poteva biasimarlo, visto che ormai aveva ben poco da fare alla
villa in veste di autista e personal trainer di Tony.
E
così lei era rimasta da sola a gestire un impero
finanziario, in
compagnia di una specie di grizzly che usciva una volta al giorno dal
laboratorio unicamente per mangiare, quando se ne ricordava, o stare
ore
nella vasca da bagno – l'unico atto che pareva dargli
sollievo dal
dolore ai moncherini – con un blocco degli appunti sempre a
portata
di mano, lasciandole un processo da affrontare e la casa desolatamente
vuota.
Tony accettava solo sporadicamente la sua compagnia, costantemente di
cattivo umore per un qualche problema tecnico insorto nella
costruzione del braccio. Sembrava che tollerasse solo la presenza di
JARVIS, che almeno aveva il chip del sarcasmo nei limiti della sua
tolleranza.
Da
un lato, Tony sembrava rendersi ben conto
dell'insopportabilità del suo
comportamento scostante e pareva quasi sentirsi in colpa, dall'altra
sembrava avere un bisogno fisiologico di stare da solo, dopo aver
passato un mese in uno stato di sorveglianza quasi costante. Pepper
si era impressa a fuoco nella mente le parole di Ian sullo stress
post-traumatico
e cercava comunque di non abbandonarlo a se stesso per più
di
qualche ora.
Fortunatamente
le rare volte che riemergeva di sua sponte dal laboratorio per
lavorare in terrazzo era quantomeno trattabile e diventava
più
incline a parlare.
Quella
mattina, due giorni prima del processo, Pepper era appunto in
terrazzo occupata a visionare vari documenti e registri delle Stark
Industries in preda al caos e a cercare di contattare un avvocato
disposto a difendere Tony: data la situazione decisamente sfavorevole
tutti richiedevano un prezzo esorbitante – non che fosse un
problema, ma non era entusiasta di ingaggiare una sanguisuga
– o rifiutavano
direttamente, temendo di essere trascinati nel turbine dello scandalo
che circondava il miliardario. Di questo passo sarebbero stati
costretti a ripiegare sugli avvocati delle Stark Industries, che per
quanto competenti erano fin troppo suscettibili all'influenza del
consiglio d'amministrazione, lo stesso che fino a poco tempo prima
aveva avallato le bieche manovre di Stane e che adesso se ne
distanziava nettamente come se ne fosse stato all'oscuro. Pepper si era
ritrovata da sola a tener testa a quel branco di sciacalli, ansiosi di
firmare un'ingiunzione per escludere Tony dalla direzione dell'azienda
quanto lo erano al suo ritorno dall'Afghanistan. Il diretto interessato
non sembrava ritenersi tale e si era rifiutato ancora di rendere note
le sue condizioni, sostenendo, stavolta forse a ragione, che
ciò li avrebbe solo convinti della sua incapacità
decisionale.
Pepper sospirò, cancellò il sesto numero di
telefono dalla lista accanto a sé e si impose una pausa
dalla ricerca del legale: aveva comunque una considerevole montagna di
scartoffie che l'avrebbe tenuta più che occupata.
Tony
si materializzò dal nulla accanto a lei ancora in
pantaloncini e
canotta del pigiama, con un fascio di fogli sottobraccio. Si
sedette
al tavolo senza una parola, trovando come sempre grandi
difficoltà
nel manovrare le stampelle: il braccio era ancora decisamente
primitivo e non gli garantiva una gran libertà di movimento,
ma si
era incaponito a volersi spostare così, rinunciando alla
relativa comodità della sedia a rotelle e mettendo a dura
prova la pazienza di
Ian, seriamente preoccupato per le ripercussioni di quell'abitudine
sul moncherino e sulla schiena. Gli aveva proposto di applicare
temporaneamente una protesi rigida
alla gamba, per permettergli almeno di avere un appoggio e
semplificargli gli spostamenti, ma Tony aveva opposto un rifiuto
categorico ad "impiantarsi una gamba di legno".
"Mi
basta una gamba finta al processo," aveva aggiunto irritato.
«Dormito
bene?» chiese Pepper, distratta, ben sapendo che aveva come
sempre
fatto le ore piccole e che si era probabilmente alzato alle sei del
mattino per rimettersi al lavoro.
O forse, più probabilmente, non
aveva dormito affatto.
«Molto. Sono crollato ieri sera in
laboratorio verso le dieci e mi sono svegliato ora,» rispose
invece
lui, stranamente calmo e massaggiandosi il collo a riprova della
dormita decisamente scomoda.
Pepper
alzò lo sguardo: appariva effettivamente più
riposato, anche se le
occhiaie erano ancora evidenti; tra l'altro si era anche ostinato a
non togliersi la benda dall'occhio destro nonostante Ian gli avesse
detto chiaramente che avrebbe fatto meglio a iniziare a scoprirla per
aiutare la cicatrizzazione. Gli aveva ripetuto più volte che
non
c'era nulla da fare e che potevano solo affidarsi alla chirurgia
plastica per camuffare il danno, magari ricorrendo poi a un occhio di
vetro. Lui invece sembrava non volersi
rassegnare a quella perdita definitiva, né a "fare un
cosplay del pirata irascibile", e Pepper aveva visto
di sfuggita qualche schizzo di apparecchi ottici confusi con il
marasma di bozzetti che si trascinava sempre dietro.
«Ha preso
gli antidolorifici?» chiese, conoscendo già la
risposta.
«Le
ho già detto che quella roba mi ottenebra il cervello. Non
sento
dolore, e tanto basta,» sbottò infatti lui,
chiudendo lì la
questione e mentendo spudoratamente, a giudicare dalle contrazioni
involontarie che gli attraversavano il volto ad ogni piccolo movimento.
Pepper evitò ovviamente di
dirgli che li assumeva inconsapevolmente attraverso i litri di
caffè
e clorofilla che scolava ogni giorno, e che nonostante ciò
le
sembrava che la sua capacità di intendere e di volere fosse
rimasta inalterata. Piuttosto,
la caffeina lo rendeva perennemente scontroso e iperattivo, ma quel
giorno sembrava essere in una delle sue fasi buone: il sonno doveva
avergli fatto bene.
Tony
fissò con aperto disgusto le pratiche legali sparse sul
tavolo,
prima di impugnare la matita con la destra e tentare di maneggiarla
senza spezzarla: la potenza della protesi doveva ancora essere
calibrata. Le dita erano decisamente primitive, quasi dei pistoni, e
Tony non si era ancora abituato a gestirla, così finiva per
rompere
le cose senza volerlo, facendosi male lui stesso se si muoveva
sovrappensiero. Sembrava
aver fatto progressi notevoli col controllo della protesi, ma era
evidente che doveva concentrarsi al massimo anche solo per muovere le
dita della mano, perché il congegno sembrava rispondere solo
in
parte ai suoi ordini. Per ora era solo un telaio di titanio con cavi,
fili e chip scoperti in attesa di essere trasformati in tendini e
legamenti, collegati da uno snodo di fibra di carbonio direttamente
alla piastra della spalla, l'unico pezzo definitivo del congegno.
«Quand'è
il processo?» le chiese all'improvviso, le sopracciglia
aggrottate
nello sforzo di non disintegrare la matita e di seguire allo stesso
tempo la linea del righello.
«Il
quattro marzo, dopodomani. Quindici.» aggiunse.
«Quindici
cosa?»
«Quindici
volte che me lo chiede in tre giorni.»
Tony
fece un mezzo sorriso per celare il suo nervosismo al pensiero, prima
che la matita si spezzasse di netto tra le sue dita meccaniche.
Imprecò tra i denti e provò a scrivere con il
mozzicone, ma gli si
frantumò definitivamente. Rinunciò a usare la
protesi
e si arrese a
scrivere con la sinistra, nonostante lo trovasse estremamente
scomodo.
Pepper
smise di osservarlo e ritornò ai suoi documenti,
sottolineando le
parti che non la convincevano: a sentire l'accusa, Tony era un
terrorista in grado di minacciare gli Stati Uniti da solo; aveva
sabotato delle esercitazioni militari – dunque Rhodey aveva
parlato
– e negli ultimi sei mesi si era trovato coinvolto in diversi
scontri armati in cui non era stato chiaro per quale parte
combattesse. Restavano
da chiarire i motivi che l'avevano spinto a far saltare il reattore
arc e ad uccidere l'amico e collaboratore Obadiah in una "lotta impari"
e l'esistenza di una gigantesca arma robotica non meglio identificata
oltre alla famosa armatura.
Almeno,
questo era quello che sostenevano le scartoffie che aveva in mano. Vi
erano un'altra decina di accuse, riguardanti i vari danni a
infrastrutture e edifici pubblici durante lo scontro, attribuiti a
"una furia distruttiva senza pari" e ai "postumi del
trauma subito in Afghanistan, che hanno portato l'imputato a
ricambiare le violenze subite durante la prigionia". Secondo
quegli avvocati, Tony era una specie di pazzo criminale che aveva
come unico scopo quello di distruggere tutto ciò che poteva.
"Un
mare di idiozie," concluse, sbarrando con decisione quei capi
d'accusa come se ciò potesse eliminarli anche dalla
realtà.
Alzò
lo sguardo: Tony le sembrava più inoffensivo che mai, preso
com'era
a tracciare un abbozzo della sua protesi, con la fronte aggrottata
per la concentrazione di scrivere con la sinistra e lo sguardo
assorto che celava un velo di sofferenza. Teneva la protesi poggiata
sul moncherino inferiore con fare protettivo, e la testa più
inclinata del solito per leggere meglio ciò che scriveva.
Pepper
distolse lo sguardo da lui nel rendersi conto di quanto le facesse
male vederlo in quelle condizioni, nonostante tutto l'ottimismo che
si era imposta.
Tornò alle sue carte per non soffermarsi su quelle
riflessioni: veniva imposto il sequestro
immediato dell'arma ribattezzata "Iron Man" e della sua
fonte di energia, il che implicava tacitamente la consegna del
reattore arc impiantato nel corpo di Tony del quale tutti ignoravano
l'esistenza. E l'armatura era ridotta a un ammasso di metallo
semifuso: Tony non aveva trovato né tempo né
voglia di
ricostruirla, visto che non sapeva se avrebbe potuto ancora usarla.
Pepper
sospirò scoraggiata: troppi, troppi problemi da affrontare e
risolvere, troppo poco tempo e soprattutto troppa poca collaborazione
da parte
del diretto interessato.
«È
difficile,» commentò lui all'improvviso, come
esprimendo i suoi
pensieri.
«Deve
solo farci l'abitudine: prima o poi riuscirà a controllare
il
braccio come vuole lei,» replicò automaticamente,
senza staccare
gli occhi dall'ennesima pagina di tiritere legali.
«No,
intendevo... questo è
difficile.»
Si sporse verso di lei e
le mostrò il progetto al quale stava lavorando: una decina
di
abbozzi della protesi in varie angolazioni e posture erano stilizzati
in alto, e una serie di complessi calcoli occupava il resto del
foglio. Pepper si distolse momentaneamente dalla sua occupazione, lieta
di
potersi distrarre e rallegrandosi in cuor suo che Tony la stesse
mettendo parte del suo lavoro.
«Qui,»
indicò lo snodo del gomito, «dovrei riprodurre una
sorta di
cartilagine per ridurre l'attrito, perché l'articolazione si
blocca.»
A
dimostrazione, piegò faticosamente il braccio verso l'alto e
si
sentì un sinistro scricchiolio metallico: si era
effettivamente
incastrato e dovette spingerlo con l'altro per farlo tornare disteso.
La
protesi emise uno scatto secco seguito da un cigolio di protesta e il
mignolo si afflosciò inerte.
«Ah.
Si è di nuovo logorato il cavo di collegamento,»
commentò tra i
denti Tony.
Provò inutilmente a muovere il dito, cosa che anche
con una protesi funzionante doveva essere estremamente difficile, ma
quello continuò a penzolare,ignorando i suoi sforzi.
«Ecco,
questo è un altro problema dell'attrito: il rivestimento dei
cavi si
logora, l'unobtanium entra in contatto con gli altri cavi e li
deteriora – senza contare che ossida il titanio –
e si
interrompono gli impulsi nervosi. Mi serve della cartilagine
sintetica ma...»
«Non
sa come riprodurla.»
«Esatto. Tutti i materiali che ho testato sono troppo poco
durevoli. Potrei
provare ancora con l'unobtanium, ma preferirei un'alternativa,
perché
è troppo instabile... e poi ha una forma solida, mentre la
cartilagine è più morbida,»
commentò, giocherellando
sovrappensiero con un cavetto che sporgeva dal telaio.
«Signor
Stark, vorrei tanto aiutarla, lo sa, ma non capisco assolutamente
niente di robotica e ingegneria biomedica,»
osservò gentilmente
lei, con un sorriso di scuse.
«Non
importa,» ribattè lui. «Devo solo
parlarne con qualcuno, esporre le
mie idee per ragionare... insomma, essere ascoltato e ripreso se
parto per la tangente. Mi basta questo, e lei è sempre stata
bravissima a farlo,» concluse, con un sorriso sghembo,
facendole
abbassare lo sguardo imbarazzata. «Comunque...
quante possibilità ho di uscire quasi
integro dal processo?»
cambiò improvvisamente discorso, un po’ troppo
ironicamente.
«Non le nascondo che per ora tutto è contro di
lei, ma forse potremmo riuscire a sfruttare le accuse a nostro
favore, soprattutto sull'ambiguità dell'armatura intesa come
arma.
Dovremmo comunque tentare di evitare le domande più spinose
e
dirigere il processo su zone sicure per noi,
così...»
L'attenzione
di Tony durò poco. Scivolò con la sedia accanto a
lei, ignorando
completamente ciò di cui stava parlando e ricambiando a suo
volere e
piacere argomento per lanciarsi in una dettagliata spiegazione
tecnica per risolvere il problema dell'unobtanium, tracciando linee
sul foglio e guardandola di tanto in tanto, come in cerca di
approvazione. Lei non poteva fare altro che tentare di seguire i suoi
ragionamenti intricati, perdendosi inevitabilmente quando lui
enunciava teoremi e formule, ma era comunque molto interessata:
nonostante Tony fosse un pessimo insegnante, sapeva catturare
l'attenzione di chi lo ascoltava. Aveva senza dubbio un magnetismo e
un fascino innati, cosa che aveva ampiamente dimostrato sia nei suoi
numerosi discorsi pubblici che nella sua disinvoltura nel districarsi
indenne da situazioni che volgevano a suo sfavore.
Pepper
sperò che riuscisse a fare lo stesso anche al processo.
«... si
logorano i cavi interni: quelli esterni non sono un problema, anche
perché dovrò sostituirli con qualcosa di meno
ingombrante... non
posso diminuire i cavi, né spostarli, né
modificare quelli che
contengono l'unobtanium...»
Pepper lo guardò sconsolata e Tony
mordicchiò pensieroso la matita, apparentemente in stallo.
«Però...
aspetti. Forse... ci sono! Ci sono. Non devo cercare di risolvere il
problema ma... evitarlo, e sfruttarlo a mio
vantaggio!»
esclamò all'improvviso riprendendo le sue parole e aprendosi
in un
gran sorriso, il primo spontaneo da giorni.
Pepper
non fece in tempo a chiedere spiegazioni che Tony era balzato in
piedi, rischiando di uccidersi per la fretta di prendere le
stampelle; afferrò i fogli e gli schizzi e le
schioccò a sorpresa
un bacio sulla guancia:
«Lei
è un genio, Pepper!» esclamò
entusiasta, avviandosi zoppicando
verso il laboratorio e lasciandola sul terrazzo in un misto di
felicità e stupore.
***
Il
suo cellulare trillò.
«Virginia
Potts, mi dica.»
«Molto
piacere, signorina Potts. Sono Kyle Andrews, un avvocato. Ho saputo
del processo del signor Stark e vorrei offrirmi come
difensore.»
«Mi
scusi, chi le ha dato questo numero?»
«Sono un ex-paziente del
dottor Ian Mitchell, mi ha dato lui gli estremi. Mi scuso per non
essermi proposto prima, ma ho dovuto vagliare attentamente la
situazione. Sarei davvero disposto a difendere il signor
Stark.»
«È
assunto,» lo informò subito Pepper, senza pensarci
due volte e
stentando a credere a quello che poteva senza dubbio dirsi un
miracolo.
«Oh,
che rapidità!» si sentì una lieve
risata all'altro capo del
telefono. «Quando potrei avere un colloquio con lei o
direttamente
con l'imputato?»
Pepper
ebbe appena tre secondi di esitazione.
«Oggi,
il prima possibile. Mi fornisca il suo indirizzo e la faccio venire a
prendere in mattinata.»
«Ah,
mi risparmia un'immensa fatica. Grazie.»
Pepper
riattaccò e balzò in piedi, diretta al
laboratorio.
«Tony!»
__________________________________________________________________________________________________________________
Revisione effettuata il 19/02/2018
Note Delle Autrici:
Ed ecco a voi l'altro capitolo u.u (ma no?)
Ci stiamo rendendo conto che stiamo pubblicando a raffica, ma d'altra parte questa FF sta venendo fuori liscia come l'olio, senza blocchi *incrocia le dita* e cavoli vari quindi... perché aspettare? :D
Questo, come il gentile pubblico può notare, è un capitolo di stallo! *standing ovation* No, seriamente, non proprio di stallo... diciamo "riassuntivo".
Idee o ipotesi per il nuovo personaggio? :) Ci sono un po' di indizi... si aprano i giochi! :D
Ringraziamo come sempre alliearthur, Rogue92 e sofy96 che recensiscono e hanno aggiunto la storia tra le seguite ^_^
Sunset In The Darkness aka Shadow&Light
P.S. Applauso ai Pink Floyd (<3) che ci hanno prestato il titolo XD
© Marvel
|
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Capitolo 9 *** Time is running out ***
8
.
Time
is running out
"A young fighter screaming, with no time for doubt
With the pain and anger, can't see a way out
It ain't much I'm asking, I heard him say
Gotta find me a
future
Move out of my way"
[I
Want It All – Queen]
«Signor
Stark, come si dichiara?»
«Innocente, naturalmente!»
Un
brusio concitato provenne dalla giuria, poi il Senatore
impugnò il
martelletto con un sorriso perfido.
«Colpevole. Dovrà
consegnare l'arma Iron Man, continuare a produrre attrezzature
belliche per l'esercito e consegnare le sue protesi, che sono...»
***
2
Marzo, Villa Stark
«No!
Non sono armi!» Tony sobbalzò raddrizzandosi di
scatto, facendo
scivolare qualche foglio dalla scrivania dove si era di nuovo
addormentato.
Si guardò attorno aspettandosi di essere in
un'aula di tribunale. Ma era nel suo laboratorio, e l'unica forma di
"vita" era lo schermo che lampeggiava davanti a lui. Si
portò una mano alla fronte, ravviandosi i capelli scomposti.
Quegli
incubi iniziavano ad esasperarlo.
«Signor Stark, sono le 11:31
del 2 Marzo. Dopodomani ci sarà il suo processo.»
Tony
sbadigliò assonnato, lasciandosi ricadere sul tavolo a
braccia conserte.
«Grazie
per le belle notizie, JARVIS,» sospirò, passandosi
la mano sul
volto e cercando di riprendersi del tutto.
Dopo la
chiacchierata illuminante con Pepper aveva ripreso con rinnovato
vigore il lavoro sulla protesi, ma essendo rimasto sveglio quasi
tutta la notte la carenza di sonno cominciava a farsi
sentire. Stava veramente impazzendo per rimediare al problema
dell’ossidazione del titanio e del logoramento, ma almeno
aveva fatto un passo avanti: sfruttando la
struttura vuota del telaio poteva evitare che essa si
trovasse direttamente in contatto coi nervi ricreati in unobtanium...
ma non per tutti era possibile. Infatti nello snodo del gomito
entravano inevitabilmente in contatto con l'articolazione in titanio,
ossidandola.
Senza contare che i tentativi di riprodurre la
cartilagine con la nuova lega erano finora falliti miseramente: non
riusciva a trovare la giusta densità di fusione, e forse era
semplicemente impossibile. Non conosceva ancora appieno tutte le
potenzialità dell’unobtanium, né aveva tempo per analisi così approfondite, e ciò non
gli permetteva di
sfruttarlo fino in fondo. Anche JARVIS gli era inutile in quel
frangente, perché non era in grado di compiere simulazioni
su una
lega sconosciuta senza una solida base da cui partire.
Aveva definitivamente scartato l’ipotesi di
riprodurre la cartilagine del gomito con il silicone: avrebbe dovuto
cambiarlo almeno una volta al giorno perché l'energia del
micro-reattore lo fondeva dopo al massimo dodici ore.
Tony si
lasciò ricadere contro lo schienale della sedia.
Come poteva
fare? Aveva troppo poco tempo e semplicemente
troppo
a
cui pensare.
"Caffè,
grazie di esistere," commentò tra sé mentre ne scolava l'ennesima
tazza per
ricaricare i neuroni.
Si trasferì poi nell'angolo che aveva
adibito a "zona-fusione", prima solitamente occupato da una
delle sue molte macchine bisognose di riparazioni e miglioramenti
stravaganti – un'occupazione decisamente superflua, adesso.
Eppure era
quasi
vicino
alla soluzione...
la protesi era pronta e funzionava! Certo, doveva ancora calibrarne la
potenza, ma a meno che non avesse fatto follie al processo nessuno si
sarebbe accorto della sua forza un po' fuori dal normale.
Avrebbe
solo dovuto tenere il braccio il più fermo possibile, il che
non era
un grosso problema, considerata la fatica che faceva a muoverlo anche
solo di pochi centimetri. Ma era arrivato dove nessuno aveva mai
pensato. I problemi tecnici erano solo dei rallentamenti che avrebbe
potuto risolvere in poco tempo.
Il problema era appunto quello: il tempo,
non il come. Aveva imparato che c'era sempre un "come", per
quanto disperata potesse essere la situazione, e adesso non lo era
certa più di quando era rinchiuso in una grotta con la
consapevolezza di dipendere da una batteria per auto. Poteva
concedersi di essere almeno un
po'ottimista,
nonostante la situazione decisamente poco rosea in cui si trovava.
JARVIS
interruppe il filo dei suoi pensieri:
«Signore, l’avvocato che
la signorina Potts ha assunto è appena...»
«Muto.»
"Avvocati. Altri soldi in fumo..."
Ultimamente
stava diventando piuttosto conscio delle spese, visto che gli ultimi
mille acquisti last-minute compiuti a causa della sua "nuova situazione"
gli erano costati un patrimonio. Scrollò le spalle: delle
questioni
finanziarie si sarebbe occupata Pepper, come sempre, ma non poteva
evitare di farci caso. Si sentiva un po' in colpa a delegarle tutto il
lavoro, anche se dubitava di poter davvero fare qualcosa per aiutarla. Era
una persona intelligente ed estremamente qualificata: era sicuro che si
sapesse destreggiare egregiamente nel maremoto che stava scuotendo la
sua azienda. Saperla accerchiata dagli squali del consiglio
d'amministrazione non lo metteva certo di buon umore, ma aveva
il presentimento che un intervento diretto da parte sua non
avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione già
instabile in cui
si trovavano a navigare. In verità si era già
ripromesso che, al primo accenno da parte di Pepper di un qualsiasi
commento malevolo o fuori luogo su di lei, avrebbe indossato l'armatura
così com'era per farlo rimangiare di persona all'incauto di
turno.
Il
solo pensiero gli fece prudere entrambe le mani, così finì di tracannare
il resto della tazza per rimettersi al lavoro, corroborato dalla
caffeina. Aprì nuovamente il progetto virtuale e una serie
di schermate si materializzò alla sua destra, nei limiti del suo
ridotto campo visivo.
Doveva
sperimentare lui stesso la malleabilità dell'unobtanium
fondendolo a
diverse temperature e osservandone i risultati. Era di vitale
importanza trovare un
modo per ridurre l’attrito ed ottenere finalmente
l’effetto di
una vera articolazione – così forse i suoi nervi avrebbero smesso di impazzire cercando di muovere parti di lui che non esistevano più.
Intanto fece eseguire a JARVIS alcune
simulazioni per nuove, possibili leghe, alla ricerca di un materiale
compatibile con l’unobtanium per ricreare la cartilagine, in
caso
non fosse riuscito ad ottenere alcun risultato dalle sue diverse
tempre.
Davanti a lui ribolliva, sigillato in un contenitore di
piombo, dell'unobtanium in corso di fusione.
Si umettò le
labbra, secche per il calore che emanava la forgia in miniatura, poi
si calò gli occhialoni protettivi sul volto – non
aveva alcuna
intenzione di perdere anche l'altro occhio – e
indossò con qualche
difficoltà uno spesso guanto di cuoio alla mano sinistra.
Era sempre
nervoso nel maneggiare il crogiolo perché non si fidava del
suo
nuovo braccio e non aveva molta stabilità con una stampella
sola;
per questo teneva sempre a portata di caduta una sedia. Le sue doti
di equilibrista erano decisamente migliorate, ma gli richiedevano un
notevole sforzo di concentrazione, oltre che un'ottima sopportazione dei crampi.
Il robot telescopico era
pronto per assisterlo nella rimozione del crogiolo non appena avesse
raggiunto l'esatta temperatura, pochi istanti prima che si
liquefacesse del tutto. Dopo un paio di minuti afferrò un
manico del
recipiente con la mano destra, puntellandosi sulla stampella in
precario equilibrio, e con l'aiuto del robot rovesciò con
cautela il
contenuto nel contenitore più grande dove avrebbe mantenuto
la sua
temperatura per essere poi temprato. Il suo braccio
tremò e tirò
sui punti di sutura, ma resse il peso pur reagendo con rigidezza e in
ritardo rispetto ai suoi impulsi motori. Uno dei pochi vantaggi di
avere una mano di metallo era il poter afferrare oggetti ustionanti
senza conseguenze... magra consolazione.
Lasciò perdere il
composto e si abbandonò di peso sulla sua sedia asciugandosi
il
sudore dalla fronte e rimuovendo gli occhiali, con una smorfia per la pressione che gli aveva irritato lo sfregio. Fissò con
impazienza i dati che apparivano sullo schermo davanti a lui, in
attesa dei risultati.
Non dovette passare molto tempo prima di
sentire il sibilo l’ascensore che scendeva in laboratorio.
Doveva
essere Pepper.
Curioso: usava sempre le scale, ma quella stranezza
fu messa in secondo piano quando due nuove schermate apparvero
dinanzi a lui, con informazioni decisamente sgradite.
«No. No...
no! Non funziona!» sbottò corrucciato, vedendo
contemporaneamente
il quinto risultato di compatibilità negativa con nuovi
materiali e
i risultati fallimentari della fusione appena effettuata.
«Buongiorno, signor Stark. È arrivato
l’avvocato, e vorrebbe
parlare con lei,» annunciò Pepper, affacciandosi
nel laboratorio
dalla porta a vetri.
«Ferrovecchio, cerchiamo di recuperare
questa brodaglia; abbiamo sbagliato di un grado... di nuovo! JARVIS,
non mi sei affatto utile; dovresti evitare di farmi perdere tempo,
pazienza e soldi,» la ignorò lui innervosito,
senza neanche
girarsi. «Signor Stark, l'avvocato...»
«Ah, l'avvocato, dice?
Lo sciacallo della legge?» riprese distratto. «Sono
impegnato, lo
faccia attendere di sopra mentre risolvo questo macello,»
disse, circumnavigando la forgia con la sedia girevole e cercando di
capire se valesse la
pena aspettare un po' per provare a temprare comunque l'unobtanium.
«Veramente è già
qui.»
«Mi sembrava di averle
chiaramente chiesto di occuparsi di tutto, per il bene dei miei
nervi superstiti. Incluso l’avvocato,» ribattè
Tony, sempre più scocciato e
distraendosi un istante, il tempo di dare un po' troppo tardi
l'ordine di temprare il metallo.
«Signor Stark, il campione di
unobtanium sta superando il punto di fusione: si è
liquefatto. È in corso la fusione
dell’apparecchiatura del
laboratorio. Ci sarà una fuoriuscita di unobtanium allo
stato
liquido.»
«Oh, merda! Pepper, non poteva capitare in un momento
peggiore!» esclamò Tony, spingendo via di scatto
la sedia con la
stampella impugnata a mo' di remo per evitare la pozza di metallo
fuso che iniziava ad allargarsi per terra.
«Signor Stark,
intendevo dire che l’avvocato è proprio qui...»
«No,
dannazione! La macchina è distrutta!»
Tony prese ad imprecare
mentre si toglieva il guanto e iniziava a digitare frenetico su una
tastiera virtuale nel tentativo di arginare i danni.
«Temperatura:
incandescente. L'unobtanium sta fondendo la cassetta contenente il
mercurio; rischio chimico imminente,» continuò
JARVIS imperterrito.
La lega liquida aveva iniziato a espandersi a macchia d'olio
corrodendo il pavimento; raggiunse anche la ruota della sua
Tesla,
che si afflosciò in una poltiglia densa che emanava un tanfo
di
plastica bruciata.
«Mannaggia...»
Tony fissò la
pozzanghera di metallo rovente, un attimo prima di essere investito
da un getto d'acqua vaporizzata emesso da U, adibito a robot-estintore.
Non trovò neanche la forza di mandarlo a quel paese: si
limitò a sospirare e a scansarsi con una giravolta della
sedia dalla nube che stava cercando di raffreddare il metallo e
contenere i danni.
Si alzò con difficoltà,
voltandosi finalmente a guardare Pepper sorreggendosi con la stampella.
«Bene, signorina Potts, adesso può anche
presentarmi l’avvocato che ha mandato tre
chili di unobtanium a...»
«Piacere di conoscerla, signor Stark.
Sono Kyle Andrews.»
Un ragazzo piuttosto giovane per essere un
avvocato gli si presentò davanti, porgendogli la mano. Tutto
sommato poteva essere un tipo qualunque: aveva un'aria sveglia, era
sorridente e anche di bell’aspetto, con i capelli scuri
leggermente
lunghi e un po' scarmigliati, un paio di occhi verdi e intelligenti
dietro gli occhiali squadrati e un accenno di rossore sulle guance;
sarebbe parso un tipo del tutto
ordinario, se non fosse stato per la sedia a rotelle sulla quale era
seduto.
Tony si trovò del tutto impreparato: mai e poi mai si sarebbe
aspettato di trovarsi di fronte a qualcuno nelle sue stesse
condizioni... o quasi.
«Salve,» lo salutò, più
freddamente di
quanto avesse voluto.
Kyle
attendeva cortesemente ancora con la mano a
mezz’aria.
«Ehm...» Tony si guardò la mano destra,
rigida,
immobile e poco incline a collaborare, rendendosi poi conto di avere la
sinistra impegnata dalla
stampella e trovandosi così impossibilitato a ricambiare la
stretta.
Agitò debolmente la protesi in un goffo cenno di saluto.
«Non
credo che sarebbe felice dopo averle stretto la mano con
questa,» affermò, del tutto impacciato; la protesi
cigolò
spiacevolmente come a confermare le sue parole.
Il ragazzo
abbassò la mano senza dare segno di essersi risentito.
«Mi
dispiace averla disturbato mentre lavorava, signor Stark, ma ho
bisogno di parlarle con urgenza, e come ben sa il suo processo
è alle
porte.»
"Chiudetele," si ritrovò a pensare lui, a
sproposito.
Lo squadrò interamente, cercando di apparire il
meno indiscreto possibile, ovviamente per i suoi standard. Non ci
stava riuscendo bene, e percepì lo sguardo di pungente rimprovero
di Pepper senza
bisogno di vederla.
«Senta, non vorrei sembrarle indiscreto, ma lei
è...»
«Paralizzato,» precisò subito Kyle, probabilmente abituato a prevedere quella domanda e
continuando
comunque a sorridere come se niente fosse.
«Capisco,» commentò
Tony. «Beh, piacere, compare.» ironizzò
tremendamente.
Non
sapeva bene perché, ma si sentiva un po' in soggezione di
fronte a
quel ragazzo così pacato e sereno nonostante la vita fosse
stata
chiaramente inclemente con lui – e chissà da quanto tempo, a giudicare dall'aspetto filiforme delle sue gambe. Allo stesso tempo lo spaventava e lo
faceva sentire vulnerabile. Il fatto di essere in piedi per
miracolo, in un pigiama bruciacchiato, completamente fradicio e con un paio di
occhiali da
saldatore addosso non migliorava la situazione.
Sarebbe riuscito
anche lui, un giorno, ad accettare le proprie condizioni e avere
comunque una vita apparentemente serena come lui? Il pensiero gli balenò
rapidamente in testa e si chiese con stizza da dove diavolo fosse
sbucato.
Non aveva mai neanche considerato l'idea
di accettare
la propria "condizione". Stava lavorando senza sosta proprio per cambiarla.
«Il signor Andrews vorrebbe
proporle un accordo, signor Stark.» intervenne Pepper,
cercando di
non compromettere il loro rapporto prima ancora di parlare del
processo.
«Uhm, ok. Come vedi sono piuttosto impegnato e sai che
ho poco tempo perciò vorrei sbrigarmi. Come hai detto di
chiamarti?»
Tony lasciò cadere le formalità nella speranza
che lui facesse lo
stesso, rendendosi conto che doveva avere al massimo
ventitré o
ventiquattro anni.
Lui aveva passato un'intera adolescenza e
giovinezza a sentirsi dare del lei da persone molto più
grandi di
lui e lo ricordava con un certo disagio; sperava di trarre d'impaccio
anche il nuovo venuto abbattendo quelle convenzioni formali che gli
erano sempre andate strette.
«Kyle Andrews.»
«Tony, anche se sai già chi sono.»
Riuscì finalmente a districarsi dalla stampella per
stringergli la
mano con quella buona. «Piacere di conoscerti, K.»
Kyle fece una
buffa faccia a metà tra il sorpreso e il divertito nel
sentire il
soprannome che il suo cliente gli aveva appena affibbiato. Non
sembrava affatto infastidito dall'estrema schiettezza di Tony, anzi.
Forse troppe volte era stato trattato con condiscendenza o
eccessive attenzioni e l'esuberanza del suo cliente lo metteva a suo
agio. Almeno, così si stava ripetendo Tony per smorzare la
terribile serie
di gaffe
che
stava facendo.
Pepper aveva osservato lo scambio di battute con fare guardingo,
come chiedendosi se intervenire o meno a porre un freno alla
parlantina spudorata del suo capo, ma aveva concluso che non ve n'era
bisogno, data la disposizione d'animo positiva di Kyle. Anche se sperava che prima o poi Tony abbandonasse quel
vizio dei soprannomi.
«Come mai hai deciso di offrirti come
difensore?» chiese Tony, risolvendosi a sedersi di fronte a
Kyle nel
constatare che la sua gamba non avrebbe retto ancora per molto.
«Ti
ha contattato la signorina Potts?» continuò
interessato, scrollando
i capelli bagnati e sfilandosi con cautela gli occhialoni; fece una
smorfia quando il bordo premette sulla garza ma riuscì a
trattenere
un lamento, anche se la cosa non sfuggì al nuovo arrivato.
«No,
ma mi ha informato meglio sui suoi studi e sulla sua storia, anche se ovviamente la conoscevo già di fama. In
realtà mi ha contattato recentemente il dottor Ian Mitchell:
sono un suo
paziente di vecchia data,» spiegò in breve Kyle,
ancora
apparentemente restio ad abbandonare le formalità.
«Ok,
conversazione illuminante. Tutti al lavoro adesso! Io ho da fare, voi
avete da fare...» cominciò speranzosamente Tony, girandosi a fulminare
con un'occhiata
il robot-estintore che si era rivolto con aria minacciosa verso di
loro, «E tu, a cuccia: sono già abbastanza
zuppo.»
«Signor
Stark, so che è molto occupato, ma vorrei comunque parlarle
della
modalità di pagamento per il mio lavoro. A questo proposito
io avrei
una...»
«Richiesta? Ne parli pure con Pepper, cioè la
signorina Potts. Provvederà lei a tutto; chieda pure quanto
vuole.
Mi sembra piuttosto motivato a vincere la causa e i soldi non sono un
problema.»
"Per ora," aggiunse, tenendo per sé le sue
preoccupazioni.
«Sì, infatti, ma... in realtà, non
vorrei
essere compensato in denaro.»
Tony si girò, incontrando il suo
sguardo vivo ed allo stesso tempo serio.
«Signor Stark, vorrei
che lei mi permettesse di camminare di nuovo,»
affermò deciso Kyle,
la voce giovane ma ferma che gli dava un tono di solennità nel
pronunciare
quelle parole.
Tony lo fissò perplesso, ma dovette ammettere che
si aspettava qualcosa del genere: un avvocato paralitico che si
offriva di difendere un miliardario mutilato con protesi
biomeccaniche? Non poteva essere una coincidenza.
«Lo
immaginavo. Uno a zero per il mio intuito,»
sospirò, pensando
intanto a come rispondere.
Si sfregò i capelli ancora umidi, prendendosi qualche
secondo di riflessione prima di decidersi a parlare:
«Per ora non ho intenzione di mettere
in commercio ciò a cui sto lavorando, anche
perché non ho idea
delle possibili ripercussioni di questa tecnologia sul corpo umano.
Su di me funziona perché... beh, ho avuto esperienze simili
in
passato. Forse sono predisposto,» ticchettò a
disagio sulla piastra
del reattore, che Kyle aveva ovviamente notato. «È
tutto in
fase sperimentale, ci sono ancora milioni di problemi solo per il
braccio; ma non è solo questo. È che...
è molto più
complicato di ciò che sembra,» scosse la testa,
senza ben sapere
dove volesse andare a parare.
Certo, aveva remotamente considerato
di mettere in commercio le protesi dopo averle testate, ma lo
sviluppo a livello industriale avrebbe richiesto anni. Era abbastanza
sicuro che l'unico in grado di fabbricare protesi del genere fosse
lui stesso, in prima persona; affidare il lavoro a una macchina
sarebbe stato immensamente complesso e allo stesso tempo assumere un
team di tecnici avrebbe portato i costi alle stelle... e lui, se
proprio doveva diffondere quella tecnologia, voleva che fosse
accessibile a tutti.
«Capisco, signor Stark, e vedendo il suo
lavoro me ne rendo perfettamente conto. Non ha affatto l'aria di
essere facile.» Kyle lo distolse dai suoi pensieri,
accennando al laboratorio nel caos più totale e al lago di
unobtanium che ancora sfrigolava per terra.
«Sì,
ehm... quello è un casino,» Tony prese ad indicare
la scrivania,
«e anche quello. Quello è in disordine, come
quello... e quelle sono
da ripulire,» accennò ambiguo alle varie armature
di Iron Man in
fondo al laboratorio, rendendosi conto come le persone al corrente
della sua identità segreta aumentassero di giorno in giorno.
Non
avrebbe comunque avuto senso mentire su quel punto al proprio
difensore, ma si stava convincendo sempre più di quanto
fossero
ridicoli e inutili i protocolli di sicurezza che gli imponeva la
SHIELD. Notò che Pepper si era accigliata alla sua ultima
affermazione e sfuggì il suo sguardo inquisitore.
«Insomma, di
solito non è aperto al pubblico,» concluse,
finendo di indicare con
un ampio gesto le componenti meccaniche e scartoffie sparse ovunque.
«Posso immaginare; ma quello che vedo io in questo momento
è
progresso,» e fece un cenno verso il suo rudimentale braccio
meccanico.
«Io sono un profano in questo campo, ma se ce l'ha fatta con
un
braccio dovrà essere possibile anche con delle gambe,
no?»
Tony
si ritrovò ad annuire appena, incapace di confutare
quell'affermazione del tutto logica, e forse volendo crederci lui
stesso.
«Quindi, pensa che la mia richiesta possa essere
accettabile? Creerà delle protesi per me?»
«K, mi sei già
simpatico, ma potrebbe essere difficile. Certo, se Ian ha deciso di
contattare te, deve avere le sue buone ragioni. Comunque io non ho
effettivamente
degli
arti, mentre tu
dovresti sottoporti a dolorose operazioni per... l'amputazione. Oltre
ad altri interventi altrettanto rischiosi. Molto rischiosi, te lo
dico per esperienza...»
«Le difficoltà non mi hanno mai
spaventato,» ribatté Kyle, un po’ brusco, e
mitigò la sua veemenza con un lieve sorriso.
Tony lo fissò
intensamente, combattuto. Forse per una volta avrebbe potuto aiutare
qualcuno oltre se stesso. Di nuovo, annuì senza quasi
rendersene
conto.
«Allora siamo d’accordo.» rispose Kyle
per lui,
sorridendo apertamente.
Pepper li fissò, sentendosi un po’
sollevata dopo tanto tempo.
In quel momento nessuno dei due
sembrava avere dubbi sul fatto che, alla fine di quella storia, si
sarebbero probabilmente ritrovati a fare jogging insieme sulle loro
gambe.
***
«Signore,
l'unobtanium sta reagendo al mercurio.»
La voce di JARVIS
interruppe Tony, che stava parlando vivacemente con Kyle riguardo a
quel che avrebbe dovuto dire al processo; Pepper interveniva di tanto
in tanto quando lui si infervorava un po' troppo, anche
perché stava
sistemando come se nulla fosse il suo braccio e continuava ad
armeggiare con un cacciavite, stringendo varie viti e giunture nel
polso tra un gesto e l'altro. Tony stava cercando di convincerli di
quanto ritenesse
importante mostrarsi col solito atteggiamento di sempre, piuttosto
che in modo dimesso e più riflessivo come gli stava
suggerendo
l'avvocato, ma la sua attenzione si catalizzò all'istante
sulla
pozza di unobtanium che aveva assunto una sfumatura
argentea.
«Reagendo? Come?» chiese interessato, sforzandosi
per
ruotare l'articolazione del polso e verificare che funzionasse a
dovere.
«Il mercurio si è legato all'unobtanium. Ha
assunto una
densità inferiore a quella dello stato di fusione. Sembra
essere
malleabile anche senza essere sottoposto ad alte
temperature,»
spiegò meccanico JARVIS, riaccendendo del tutto l'interesse
di
Tony.
Scivolò con la sedia accanto al metallo semifuso e si
sporse un poco con difficoltà, fissandolo interessato. Lo
punzecchiò con una barretta di stagno per verificare che
fosse
freddo, e...
«Oh, no, non ha davvero intenzione di...»
cominciò
Pepper in tono allarmato, vedendo Tony che protendeva la mano sana
verso l'unobtanium come un bambino curioso di toccare qualcosa di
nuovo, ma era troppo tardi.
Tony aveva sfiorato con le dita la
superficie apparentemente compatta della pozza, saggiandone la
consistenza e trovandola estremamente simile a quella del mercurio,
di poco più densa e totalmente asciutta al tatto, quasi
fosse
gelatina.
«Sembrerebbe un candidato ideale per ricreare la cartilagine.
JARVIS, memorizza i dati, esegui dei test e conservane un campione
mentre io... signorina Potts, K, smettetela di fissarmi
così: questo
è niente.
Non avete idea della roba con cui giocavo da piccolo.
Penso di essere immune a tutto, ormai,» sbottò
divertito,
ricordando con vaga soddisfazione tutte le volte che aveva sottratto
gli attrezzi e i materiali di suo padre per giocare... e farlo
infuriare. Che bel ricordo.
Diede qualche ordine secco a DUM-E, ancora vagamente incredulo per quel
colpo di fortuna – che non riequilibrava comunque il piatto della bilancia negativo – e
due minuti più tardi era nuovamente seduto al tavolo, con in
mano un
campione di unobtanium in una scatoletta foderata di piombo.
Lo
poggiò sulla scrivania dove erano seduti gli altri due.
«È
inerte, K, non preoccuparti,» lo rassicurò nel
notare il suo
improvviso interesse, ma Kyle non sembrava ansioso, anzi, sembrava
divorare con lo sguardo l'unobtanium, che rappresentava sì
un passo
avanti per Tony, ma anche per lui, che aveva già deciso di
mettere
anima e corpo in quella causa per vincere un riscatto nella propria
vita.
«Cosa stavamo dicendo... ah, sì. Desterei solo
sospetti se
mi comportassi in modo diverso dal solito,» riprese Tony,
deciso.
Kyle si distolse dalla sua contemplazione, rivolgendogli uno sguardo accigliato
«Non lo metto in dubbio, Stark, ma ho presente la tua "media
comportamentale" in pubblico, e giocherebbe solo a nostro
svantaggio.»
Kyle aveva fatto presto ad abbattere finalmente le
formalità e a comportarsi in modo più rilassato
sia con Pepper che
con Tony, e aveva subito sfoggiato un'arguzia pungente quasi quanto quelloa del suo assistito, fornendo ai due un canale di comunicazione piuttosto efficace.
«Proverò a tenere a freno il mio umorismo
spinto.»
«Sarà meglio, signor Stark, perché non
vogliamo che
sia dichiarato colpevole nel momento stesso in cui metterà
piede in
aula,» lo raggelò Pepper, e Tony si
sentì rimpicciolire sotto il
suo sguardo.
«No, direi proprio che non è il caso...»
le
terribili conseguenze della sua condanna non implicavano solo la
potenziale pena... ma anche la funesta rabbia di Pepper.
E lui
non voleva assolutamente scatenarla.
«Evita di parlare
dell'incidente a meno che non te lo chiedano direttamente; e lo
faranno, quindi sviali. Dovresti anche cercare di non rivelare subito
la tua doppia
identità, se ci riesci... meglio ancora se riusciamo a
tenerla
segreta. Dichiarare al mondo intero che hai interferito con le azioni
militari degli Stati Uniti e che disponi di armi molto più
potenti
di quanto dichiari non è una buona mossa. Tanto
più dopo aver
chiuso la sezione armamenti delle tue industrie.»
«Da quel che
ho capito sono accusato anche di quello...» sbuffò Tony, corrucciato.
«Insistono sul punto
dello "stress post-traumatico", ma se hai delle
argomentazioni valide a supporto della tua decisione non dovrebbero
fare troppe storie: l'azienda è tua. Il fulcro della questione è Iron Man
inteso come
arma e la morte di Stane. Attieniti ai piani e non ci saranno
problemi. Tutto chiaro?»
Tony annuì poco
convinto.
«Chiarissimo. Farò del mio meglio... per
tutto.»
concluse rivolgendogli un sorriso incoraggiante.
Pepper non
sembrava affatto convinta e lo fissava a metà tra il
minaccioso e
l'implorante.
Lui se ne accorse e sfoggiò lo sguardo più languido e innocente che
riuscì
ad ostentare:
«Non mi guardi così. Le prometto che
farò il
bravo...»
___________________________________________________________________________________________________________________________________________
Revisione effettuata il 21/02/2018
Note Delle Autrici:
Ed è con allegria che pubblichiamo questo capitolo! :D Finalmente un aiuto dall'alto... povero Kyle: dovrà sopportare Tony per molto, molto, ma davvero molto tempo.
Condoglianze, Kyle, oh nostro OC.
Come sempre ringraziamo Rogue92 e alliearthur che continuano a seguirci e a recensire! <3
Moon&Light
P.S. La fan-fiction si svolge come se l'esame a cui Tony è stato sottoposto dai Vendicatori si sia svolto durante Iron Man 1... esigenze narrative (vedi: volevamo i Vendicatori nella storia). Insomma, lui è già nell'allegra combriccola di squilibrati o, quantomento, vi è in contatto come consulente/agente attivo, anche se di straforo. Il tutto verrà chiarito meglio nei successivi capitoli.
© Marvel
|
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Capitolo 10 *** Stumbling ***
9
Stumbling
"I'll
face it with a
grin,
I'm never giving in.
On with the show!"
[The
Show Must Go On – Queen]
«Io
sono Iron Man.»
Il boato del pubblico e della giuria soffocò la
sua stessa voce.
Vide Kyle assumere un'espressione serafica per
nascondere la sua sorpresa, Ian che strabuzzava gli occhi e Pepper che
si stringeva la radice del naso scuotendo la testa.
Tony si girò appena verso di lei e le
fece l'occhiolino con un mezzo ghigno divertito. Se lo stava godendo,
il suo momento di gloria... per poco.
Pepper strinse il pugno e lo
abbattè sul palmo dell'altra mano con sguardo omicida,
cancellando
il sorrisetto dalla faccia del suo capo, che si affrettò a
riportare
la sua attenzione al Senatore allibito.
"Ops... Forse ho
esagerato."
***
4
Marzo, Tribunale di Washington D.C, due ore prima...
Tony
continuava a cimentarsi nell'annodare per l'ennesima volta la
cravatta senza ottenere grandi risultati. Pepper fece per aiutarlo,
ma lui sfuggì alla sua presa con un'espressione risentita.
«Ce
la faccio da solo. Se queste dannate dita rispondessero ai miei
comandi sarebbe tutto più semplice!»
imprecò sottovoce, fissando con astio
la protesi che aveva momentaneamente liberato dal tutore appeso al
collo.
Per fortuna si era ricordato di mettere i guanti, uno dei
quali leggermente imbottito: le dita erano ancora decisamente
primitive e ben lontane dal poter ingannare la giuria.
«Come
vuole,» sospirò Pepper, lasciandolo ai suoi nodi.
«Vado di là,
recupero Kyle e torno. Non combini disastri,» lo
implorò, prima di
uscire dalla saletta d'attesa per andare incontro all'avvocato, che
sarebbe arrivato a breve.
Tony rimase solo con la cravatta che
continuava a ribellarsi alla sua volontà.
Erano arrivati a
Washington sul filo dei minuti, esattamente dieci prima dell'inizio
del processo. Tutto perché Tony aveva avuto una crisi su
cosa
indossare e aveva infine insistito per presentarsi nel suo sgargiante completo
bluette, nonostante Pepper avesse cercato di indirizzarlo verso
qualcosa di più discreto. Il ritardo non era piaciuto al
procuratore, tale Julien Knight, un uomo slavato sulla trentina che,
dal modo viscido in cui lo aveva salutato, sembrava essere una
vecchia conoscenza di Kyle.
«Siete un team molto... affiatato,
a quanto vedo,» aveva commentato in tono di aperta derisione
accennando alle loro sedie a rotelle, subito prima di svicolare via
come una serpe per entrare nell'aula già gremita.
Tony l'avrebbe
volentieri mandato istantaneamente a quel paese, ma Kyle l'aveva
bloccato con una semplice occhiata che la diceva lunga sui loro
trascorsi. La cosa non prometteva bene.
Pepper rientrò dopo pochi minuti, fissandolo perplessa.
«Non ha intenzione
di entrare in aula conciato così, vero?»
Tony la fissò
imperturbabile, con la cravatta rossa annodata in testa in stile
Rambo e i capelli scombinati: si era arreso all'evidenza di non
essere in grado di annodarla.
«Ovviamente, Pepper! Speravo giusto
di lanciare una nuova moda!» rispose iniettando nella sua
frase una
buona dose di sarcasmo, dato che avrebbe dovuto rinunciarvi per
almeno le successive tre ore.
O almeno, così sperava Pepper.
Ian
e Kyle entrarono appena dietro la sua assistente e gli si accostarono
in rapida successione sommergendolo di raccomandazioni mediche e legali che lui
ascoltò a malapena, troppo agitato e impegnato a districare
quella
maledetta cravatta per prestare loro orecchio. Appena uscirono per
prendere posto in aula, Tony iniziò a sua volta a tempestare
la sua
assistente di domande, facendosi finalmente prendere
dall'ansia:
«Pepper, ho un attacco di panico. Mi fa male il
braccio destro, ho un dolore all'occhio sinistro e devo andare al
bagno. Ora.»
«La prego, non dica stupidaggini,»
mormorò pacata
lei, liberandolo dal cappio che si era stretto in testa.
«Quale
delle tre ritiene sia una stupidaggine?»
«Lei è andato al
bagno, spero, prima del processo, ha avuto fitte all'occhio
dall'incidente e stamattina ha preso gli antidolorifici come
sempre.»
«Come sempre?»
«Con i suoi soliti due cucchiaini
di zucchero nei tre litri di caffè che beve.»
«Si spiegano
molte cose. E magari è anche decaffeinato?»
«Ultimamente sì.
Ordini del dottor Mitchell,» concluse lei, finendo di annodargli
decentemente la
cravatta.
Gli raddrizzò il colletto stropicciato, domò i
suoi
capelli scomposti nonostante la brillantina e tentò di
camuffare con del correttore una leggera ma ostinata bruciatura che si
era rimediato
sullo zigomo, senza molto successo. Tony
si sistemò infastidito il braccio al collo, evidentemente
insofferente al tutore, ma non riusciva ancora a muovere abbastanza
bene la protesi da poterne fare a meno. Era più saggio far
credere
che avesse un braccio infortunato.
«Sono presentabile?» le domandò, rassettandosi le pieghe della giacca; si passò poi una
mano
sul pizzetto, non ricordandosi se si fosse rasato o meno quella
mattina, e si tranquillizzò un poco nel sentirne il contorno ben definito.
Ora che ci pensava, aveva controllato la protesi? E
aveva oliato per bene le giunture? E la garza sull'occhio era a
posto?
"Oh, buon Dio..."
«Come sempre, signor
Stark,» la risposta di Pepper attenuò i suoi
timori per qualche
istante. «Dubita forse del suo fascino?» lo
punzecchiò poi,
con un lieve sorriso incoraggiante che catturò il suo
sguardo.
«Assolutamente no,» rispose sornione, e spinto da
un
impulso repentino la attirò brevemente a sé,
stampandole un fugace
bacio all'angolo delle labbra.
Lei non ebbe tempo né modo di
reagire, ma quando si staccò rimase paralizzata, non
credendo a
quello che era appena successo.
«Mi serviva un incoraggiamento,
cerchi di capirmi. E poi dovevo ancora farmi perdonare per la serata
di beneficenza,» ruppe il silenzio Tony, non provando alcun
rimpianto ad aver agito d'istinto e sentendosi ancora più su
di giri
di prima.
«No, non la capisco affatto.» ribatté
lei, serissima, diventando
dello stesso colore dei suoi capelli e scuotendo la testa nel
tentativo di riprendersi e di convincersi che, no, il suo capo non
aveva davvero tentato di baciarla.
Tony la scrutò
attento: non sembrava furiosa come si era aspettato... solo colta
alla sprovvista, enormemente confusa e decisamente più
turbata di
quanto ritenesse ragionevole. Dopotutto lui aveva inteso il gesto
come un'avance scherzosa. Più o meno. Gli
venne in mente solo allora
che forse non aveva avuto un ottimo tempismo.
«Cosa non capisce?»
la incalzò, agitandosi appena sulla sedia.
«Perché lei debba
sempre complicare la mia e la sua esistenza.»
Tony sembrò
pensarci un attimo, poi fece un sorrisetto furbo:
«Perché la mia
esistenza è ormai abbastanza complicata, e complicarla ancora
in
questo modo, e quindi intrecciare la mia esistenza con la sua,
complicandola a sua volta, le rende entrambe più
interessanti. Non
crede?»
***
«Ordine,
ordine in aula!»
Finalmente il pubblico, che era esploso in una
sorta di ovazione da stadio all'ingresso di Tony, si quietò.
Una
schiera serrata di giornalisti occupava le prime file; dietro di loro
erano sedute alcune delle personalità più
importanti del Paese tra
cui molte conoscenze e rivali di Tony, che aveva invece preso posto
accanto a Kyle al banco della difesa. Accanto a quest'ultimo
sedevano Mitchell e Pepper, un po' distaccati nel tentativo di non
dare troppo nell'occhio. Knight sedeva da solo al banco
dell'accusa, perfettamente rilassato e con l'aria di essere seduto al
bancone di un bar senza una sola preoccupazione al mondo, in paziente
in attesa del proprio drink. Qualche fila più indietro Tony
aveva intravisto Rhodey, che aveva evitato platealmente il suo
sguardo quando aveva rivolto un cenno nella sua direzione.
"Fantastico, adesso mi tiene anche il broncio," pensò,
ignorando di avere esattamente la stessa espressione immusonita sul
volto.
Come da programma, il giudice era il Senatore Stern, che
aveva già avuto qualche contrasto con Tony riguardo alla sua
decisione di interrompere il rifornimento di armi all'esercito.
Sembrava comunque piuttosto tranquillo, e un'espressione neutra
dominava il suo volto da mastino. Tony sperava rispecchiasse il suo
modo di giudicare. Introdusse brevemente, con voce monotona, le
cause e concause del processo in atto e i membri della giuria,
dell'accusa e della difesa, per poi rivolgersi direttamente a
Tony.
«Imputato, dichiari il suo nome completo.»
«Tony
Stark. Pensavo mi conoscesse...» borbottò tra
sé a voce più
bassa.
Kyle gli assestò una gomitata discreta, approfittando del
fatto di essere seduto dal suo lato sano. Lui trattenne bruscamente il
fiato e si tastò la costola ancora contusa.
"Bel colpo.
Ahia."
«Qui ci risulta diversamente, signor Anthony Edward
Stark.»
«Anthony Edward...» Tony roteò appena
l'occhio sano.
«Sì, lo so, ci mancherebbe. Ma allora mi
conosce!» sogghignò
sarcastico.
Il Senatore alzò appena gli occhi dal foglio,
evidentemente seccato.
«Signor Stark, per amor della verità
l'astio verso suo padre non dovrebbe impedirle di usare il nome con
cui l'ha battezzata,» intervenne l’avvocato
dell’accusa con fare provocatorio.
Il sorrisetto
sprezzante di Tony si affievolì appena prima di congelarsi
sul suo
viso. Si girò lentamente verso l'avvocato, rivolgendogli
un'occhiata tagliente.
Pepper captò il suo sguardo, notando con
preoccupazione la mascella serrata dell'uomo: raramente aveva visto
Tony adirarsi, ma parlare di suo padre era un ottimo modo per fargli
perdere le staffe in tempi record. Scambiò
un’occhiata nervosa con
Mitchell, che sembrava condividere i suoi timori: non iniziava
bene.
«Obiezione, Vostro Onore: l'osservazione, oltre a essere
stata posta al di fuori del contro-interrogatorio dell'accusa, non
è
pertinente al caso ed è chiaramente volta a innervosire il
mio
cliente,» intervenne Kyle, pacato, con un'occhiata
penetrante
in direzione del suo rivale.
«Accolta. Signor Knight, non
divaghiamo prima ancora di iniziare.»
Knight fece un sorrisetto
viscido, scostandosi i capelli chiari dagli occhi altrettanto
chiari.
«Scusate, Vostro Onore. Credo che un lieve nervosismo sia
comprensibile, date le circostanze...»
«Si prega inoltre
l’accusa di non dilungarsi troppo: mi fa male la
gamba,»
intervenne Tony a voce molto alta nonché nel momento meno
indicato.
Qualche risatina provenne dal pubblico e Tony fece un
gesto ammiccante verso di esso. Il Senatore era adesso
palesemente infastidito dal suo atteggiamento più adatto a
un
varietà che all'aula di un tribunale, ma fece un ammirabile
sforzo
per non darlo troppo a vedere.
«Iniziamo con l’indicare le
accuse che le si imputano.»
Il Senatore aprì una voluminosa
cartella, iniziando a sfogliare i documenti e a leggerli con voce
macchinosa.
«Il signor Anthony Edward Stark è formalmente
accusato del possesso di armamenti bellici illegali nonché
ritenuti
potenzialmente pericolosi per l’ordine pubblico; di
occultamento di
identità; di danni a strutture ed infrastrutture pubbliche e
private; del sospetto convolgimento nella scomparsa e presunta morte
di Obadiah Stane; è inoltre accusato di...»
«Mi perdoni, Vostro
Onore, vorrei proporre di esaminare ogni capo d'accusa
separatamente per ordine di importanza, ovviamente a discrezione
della giuria,» lo interruppe il più delicatamente
possibile
Kyle.
«Bravo K, ottima mossa. Iniziavo a sentirmi
soffocare,»
commentò Tony sussurrando, almeno secondo i suoi parametri.
In
realtà lo udì mezzo tribunale, giudice incluso.
Kyle rivolse
un’occhiata implorante verso Pepper: “lo
fermi” sembrò
pregare. Lo stress stava decisamente peggiorando l'esuberanza
incontenibile di Tony.
La giuria parlottò per un paio di minuti
discutendo l'intervento di Kyle, infine il Giudice battè il
martelletto.
«Che l'imputato salga al banco di deposizione.
Inizieremo dalla scomparsa del signor Stane.»
Mitchell a quelle
parole si alzò subito e trasferì la sedia a
rotelle nel punto
richiesto, sotto gli occhi di una guardia armata che fortunatamente
decise che Tony non era nelle condizioni di nuocere a nessuno.
“Si
va a spasso,” pensò Tony poco divertito,
sentendosi per la prima
volta a disagio nell'essere al centro dell'attenzione.
Si impegnò
a sfoggiare un'espressione neutrale e una voce ferma mentre prestava
giuramento di dichiarare "la verità, solo la
verità,
nient'altro che la verità", ben consapevole che non
l'avrebbe
mantenuto del tutto.
Il Senatore riprese a leggere quanto
documentato:
«Obadiah Stane è stato visto l’ultima
volta il 5 gennaio alle Stark Industries, intorno alle sei di sera,
come risulta
dalla deposizione della signorina Virginia Potts rilasciata alla
polizia quella sera stessa. Conferma?»
«Confermo, Vostro
Onore.»
«In seguito si è persa ogni sua notizia ed
è dato a
credere che sia deceduto in seguito all'incidente avvenuto alla
sezione 16 delle Stark Industries, nonostante il suo corpo non sia
stato rinvenuto. L'imputato Anthony Stark emerge come unico testimone
diretto
dell'accaduto. A lei l’interrogatorio, avvocato Knight,
può
procedere.»
«Grazie, Vostro Onore. Signor Stark,»
iniziò
Knight, alzandosi e prendendo a passeggiare davanti a Tony con
l'atteggiamento che avrebbe avuto un predatore di fronte a una preda
messa all'angolo, «potrebbe spiegarci le strane circostanze
in cui
il signor Stane è venuto a mancare?»
«Varrebbe a dire che si è
disintegrato in seguito alla sua accidentale caduta nel reattore arc?
Non mi sembra che ci sia molto da aggiungere, ma le posso spiegare le
dinamiche chimiche e fisiche dell’accaduto, se
necessario.»
«La
sua è molto fantasiosa come ipotesi, signor Stark.»
«Peccato
che sia la verità.»
Tony appoggiò sovrappensiero le braccia sul
banco, sotto gli occhi terrorizzati di Pepper, che seguiva ogni suo
minimo movimento.
Un secco clonk
risuonò nell'aula quando la mano metallica urtò
il legno un po'
troppo bruscamente, e Tony s'irrigidì appena.
«Cos'è stato?» Knight interruppe la
domanda che stava per porre, incuriosito.
Pepper
afferrò improvvisamente il braccio di Ian, agghiacciata.
Sperò
ardentemente che Tony non agisse d'impulso; le sue manie di
protagonismo potevano giocare brutti scherzi...
Questi esitò per una
frazione di secondo, preso in contropiede.
«Oh, il mio Rolex,»
rispose poi, alzando le spalle – altra mossa piuttosto
pericolosa.
Scrollò il polso sinistro con un ghigno provocatorio,
tirando su la manica e rivelando il costoso orologio che aveva avuto
l'ignaro buon senso di indossare quella mattina, riuscendo a
distogliere l'attenzione dalla protesi, che lasciò scivolare
nuovamente giù dal banco, appesa al suo tutore.
Pepper strinse i
denti, orripilata: una minuscola parte del polso destro si era
scoperta, lasciando intravedere il metallo sottostante; un dettaglio
del tutto trascurabile, ma ai suoi occhi appariva come se Tony si
fosse appena denudato sul banco dei testimoni. Nessuno ci fece
caso, concentrati più sull'orologio che su Tony stesso o sul
suo
braccio apparentemente infortunato.
«Piace?» chiese lui
disinvolto, scatenando risatine da parte del pubblico.
Il giudice
sospirò.
«Molto, signor Stark. Ora, se ha finito di
pavoneggiarsi, possiamo tornare a questioni più
importanti?»
Pepper
era sicura di essere stata l'unica oltre a Ian e Kyle ad aver notato
il lampo di panico che era brillato per un attimo sul volto di Tony
in quel frangente delicato. Questi intercettò di sbieco il
suo
sguardo: c'era mancato davvero poco.
Knight tossicchiò e riprese
il suo interrogatorio:
«Dunque, vuole spiegarci più nel
dettaglio come, esattamente, è deceduto il signor
Stane?»
«Con
estremo piacere,» si lasciò sfuggire Tony,
momentaneamente accecato
dal ricordo di Obadiah e di cosa stava passando per causa sua.
Colse l'occhiata ammonitrice di Kyle, ma fortunatamente Knight
non sembrò notare la sfumatura ostile di quelle parole, interpretandola come l'ennesima provocazione strafottente.
«Prego,
allora.»
Tony chiamò a raccolta tutti i dettagli che aveva
discusso con Kyle per modificare l'accaduto in modo credibile, poi
iniziò a raccontare:
«Eravamo sulla terrazza, saranno state le
otto di sera. Stavamo discutendo degli ultimi avvenimenti alle Stark
Industries; immagino che ricordiate tutti una delle mie ultime
conferenze stampa, soprattutto il Senatore Stern...» rivolse
uno
sguardo eloquente a quest'ultimo, guadagnandosi un'occhiata astiosa.
«Insomma, era una stupenda serata quando ad un tratto
c'è stato
un malfunzionamento nel reattore arc che potrei spiegare in dettagli
tecnici, ma non so fino a che punto vi interessi una lezione di
fusione nucleare a freddo...» tentò di svagare
Tony, con successo.
«La vetrata sul tetto è andata in
frantumi...» si bloccò un
attimo, folgorato da un improvviso dolore all’occhio.
Sfiorò la benda il più delicatamente possibile
lasciandosi sfuggire
un lieve lamento; Ian lo guardò preoccupato, così
come il giudice.
«Sto bene, era solo una fitta,»
minimizzò, sfuggendo
lo sguardo perplesso di Knight.
In realtà aveva visto un forte
lampo blu. Parlare dell'incidente ne risvegliava anche il ricordo
fisico? si chiese preoccupato, ma accantonò il pensiero dopo
il
primo momento di shock e continuò come se niente fosse, sudando appena per il nervosismo:
«Dicevo:
Stane era molto vicino alla vetrata ed è stato investito
dall'onda
d'urto. È precipitato nel reattore prima che potessi
avvicinarmi e
si è, come dire... fuso. Letteralmente. E dovete sapere che
un corpo
umano che precipiti in un qualsiasi reattore nucleare esistente a
questo mondo non causa mai
conseguenze pacifiche. È esploso
mentre ero ancora sul tetto, di qui le mie innumerevoli lesioni. E
poi sono svenuto. Il dottor Ian Mitchell qui presente può
illustrare
un quadro clinico molto dettagliato delle mie attuali condizioni
fisiche, ma credo che non vi interessi neanche questo.»
Knight
stava per intervenire, ma fu troncato dal giudice:
«Penso che le
sue condizioni fisiche siano piuttosto evidenti a tutti.»
“E
non ha ancora visto niente!” esclamò tra
sé Tony, mordendosi la
lingua per non dirlo ad alta voce.
Pepper tirò un sospiro di
sollievo e smise di stritolare il braccio di Ian, che aveva a sua
volta sudato freddo quando aveva captato il suo nome. Kyle
ascoltava concentrato, con due dita a sorreggere la tempia, annuendo di tanto in tanto e fulminando con
occhiate omicide il procuratore che, rigidamente in piedi, non
sembrava trovare falle nella deposizione. Dopotutto non aveva le
competenze idonee per contestare le allusioni tecniche
dell’imputato.
«Riguardo a questo può bastare; chiariremo in
seguito le dinamiche esatte dell'incidente e convocheremo qualche
esperto che possa giudicarle competentemente,» concluse il
giudice.
«Consiglierei Justin Hammer; ha già collaborato
con...»
iniziò Knight.
«... un branco di incapaci.» tossicchiò
Tony,
seccato.
Il giudice lo guardò interrogativo, al che Tony si
ricompose.
«Non rientra nelle mie simpatie, ma invitatelo pure
alla festa.»
“Sarà divertente. O forse no.”
«Prenderemo
seriamente in considerazione questa possibilità,»
ribattè Knight
con un sorrisetto perfido.
«Adesso... se la giuria è d'accordo
vorrei discutere della sua identità piuttosto
controversa.»
Era
chiaro che fosse quello l'argomento principale del processo e che
tutti non vedessero l'ora che venisse affrontato.
«Non capisco
cosa intende.» cadde dalle nuvole Tony
«Se
si riferisce alla quisquilia del mio nome di battesimo, posso
assicurarle che sono in tutto e per tutto Anthony Edward
Stark.»
«Ha
letto i giornali, immagino,» insinuò Knight,
subdolo.
«Sono
stato piuttosto impegnato a salvaguardare la mia salute,
avvocato.»
«Dubito che non abbia neanche sentito parlare
di...»
«Obiezione.
Signor Knight, sta fuorviando l’imputato e ponendo domande
irrilevanti. Il signor Stark non è tenuto a informarsi se
non lo
desidera, soprattutto in quanto convalescente.»
«Obiezione accolta,» gli accordò a
fatica il giudice.
«Comunque, si parlava del cosiddetto “Iron
Man”. Un
presunto supereroe o robot high-tech che spara raggi laser e
distrugge beni pubblici. Le rammenta qualcosa?»
«Oh, sì. Ne ho
sentito parlare. Era su tutti i giornali per il suo intervento in
Gulmira qualche mese fa, se non sbaglio,» rispose
candidamente Tony.
Poteva sentire gli occhi di Rhodey trapassarlo, ma non
spostò lo
sguardo su di lui.
«Quello, e un'altra decina di intromissioni in
zone calde o di confine nel corso di scontri armati, a volte
accompagnato da altri combattenti di dubbia
entità,» puntualizzò
Knight, scrutando la sua reazione, ma lui rimase impassibile.
Pepper
annuì piano tra sé: poteva andare peggio, poteva
andare molto
peggio... ringraziò la prontezza della SHIELD nell'aver
criptato o
eliminato le testimonianze di quegli scontri.
«E cosa c'entra un
paladino della giustizia con l'incidente alle Stark
Industries?» lo
incalzò Tony, con apparente brio.
«Testimoni oculari affermano
di aver visto questo "supereroe corazzato", d'ora in poi
"Iron Man" per comodità, scontrarsi con un'entità
presumibilmente robotica non meglio identificata, proprio in
prossimità della sezione 16 delle Stark Industries. Mi dica,
lei ha
visto o sentito qualcosa?»
«Onestamente, avvocato, ero piuttosto
intento a discutere con il signor Stane e il reattore è
molto
rumoroso; non ho fatto caso a ciò che avveniva attorno a
noi.»
obiettò lui, piuttosto debolmente.
«Vostro Onore?» intervenne
solo allora Ian, facendo sobbalzare Pepper e voltare l'intera aula
verso di lui, che riuscì eroicamente a mantenere la sua
freddezza
nel sentirsi analizzare da poco più di duecento paia d'occhi
«Il
mio paziente, per sua sfortuna, soffre di una leggera amnesia in
seguito al trauma subito. Non è in grado di ricordare
esattamente
tutto l'accaduto, in particolare suoni, colori specifici o dettagli
marginali.»
«Obiezione: il dottor Mitchell non può
testimoniare
in questo momento,» protestò Knight, piccato per
quell'intromissione.
«Obiezione: il dottor Mitchell ha facoltà
di testimoniare in quanto supervisore medico nel caso del signor
Stark sin dall’inizio dell’inchiesta.»
«Signor Andrews,
accolta; signor Knight, respinta,» dichiarò il
giudice, battendo un'unica volta il martelletto.
«Tre a zero, Knight; è in
netto svantaggio,» commentò ironico Tony,
sentendosi più
tranquillo.
Kyle non riuscì a trattenere un sorrisetto
compiaciuto, anche se avrebbe volentieri messo le mani al collo di
Tony per ogni parola di troppo che lasciava la sua bocca.
«Tornando a noi... sembra
che lo scontro sia stato molto violento, arrivando a coinvolgere
civili, danneggiare veicoli e causare danni alle infrastrutture
adiacenti le Stark Industries e la Howard Stark Memorial
Lane,»
riassunse brevemente Knight «Sembra che entrambe le...
unità
robotiche, o qualunque cosa fossero, abbiano fatto uso di armi a
lungo raggio simili a flussi di energia.»
A quel punto si fermò per
fissare Tony negli occhi, come aspettandosi un commentò da
parte
sua, che puntualmente arrivò:
«Potrebbe anche affermare che un
gigante verde ha distrutto mezza città e sarei costretto a
crederle,
avvocato. Amnesia, ricorda?» Tony si toccò appena
la tempia a
sottolineare il concetto. «Quale sarebbe il punto?»
chiese poi,
ignorando l'occhiata di rimprovero che Pepper gli aveva scoccato nel
sentirgli nominare indirettamente Hulk.
«L'esplosione del
reattore arc potrebbe essere stata una mera coincidenza, oppure
causata dal suddetto scontro. Conferma? Intendo, un simile scontro
che coinvolga altre fonti di energia avrebbe potuto causare
l'esplosione del reattore?» chiese Knight, suscitando la sua
attenzione «Mi rimetto alle sue conoscenze
tecniche,» lo
blandì mellifluo.
Kyle fiutò il pericolo e stava per obiettare,
ma Tony iniziò a parlare prima, non dandogliene modo.
«Non posso
escluderlo. Per farla semplice potrebbe essere stato un
malfunzionamento dovuto a un sovraccarico di energia nel nucleo,
oppure lo scontro ha danneggiato qualcuno dei trasformatori, ma
è
anche vero che la vicinanza tra due flussi di energia arc
può
originare delle interferenze non trascurabili...» s'interruppe di colpo.
Kyle
si morse nervoso le labbra: aveva previsto che Knight avrebbe fatto
leva sull'ego di Tony e sulle sue vaste conoscenze scientifiche per
spingerlo a dire più del dovuto. A volte detestava avere
ragione.
«Signor Stark, ha per caso detto due?»
chiese infatti Knight, falsamente stupito.
"Lo sapeva...
sapeva tutto," pensò allarmato Kyle, implorando Tony di non
cadere in trappola.
«Due? Ho detto due?» una nota di panico
incrinò la voce di Tony, che si sforzò di
mantenere la sua
proverbiale nonchalance
.«Intendevo
dire il reattore e l’ipotetica energia che alimenta
l’armatura...»
«Armatura? È già stato usato in
precedenza
questo termine?» si finse interdetto Knight.
Kyle corse ai
ripari:
«Obiezione! Signor Knight, non ne faccia una questione di
semantica; quando la smetterà di evidenziare dettagli
irrilev–...»
tentò di salvare la situazione, capendo di essere vicino a
un punto
critico, ma lo schiocco del martelletto troncò le sue
parole.
«Respinta. Il verbale cosa dice?» chiese il giudice
rivolgendosi al dattilografo, che scorse velocemente le pagine del
verbale.
«Mai usata, Vostro Onore.»
Knight si girò
trionfante verso l'imputato.
«Non avendo mai visto lo scontro, a
quanto sostiene, e non essendosi informato, sempre secondo
ciò che
ha dichiarato, come fa a definire “armatura” questo
neo-supereroe, finora identificato come un robot? Tanto più
che la
descrizione calza a pennello, a detta dei testimoni.»
«Avrò
visto qualche immagine di sfuggita e il mio intuito tecnico deve aver
fatto il resto,» borbottò Tony, messo alle strette.
«Devo
deluderla: non risulta alcun documento fotografico o audiovisivo di
Iron Man dai frangenti in cui è apparso nell'ultimo anno.
Inoltre le
uniche immagini dello scontro a Los Angeles sono state estrapolate da
video di pessima qualità, nei quali non è
assolutamente
distinguibile con chiarezza un'“armatura”,
soprattutto se le ha
viste di sfuggita; ma secondo i testimoni oculari si tratterebbe
proprio di questo: un'armatura. Cosa ne dobbiamo dedurre, signor
Stark?»
Pepper si sentì sprofondare, e stavolta si trovò
a
maledire la solerzia con cui la SHIELD aveva occultato ogni prova
tangibile dell'esistenza di Iron Man. Lanciò un'occhiata a
Tony,
che sembrava sul punto di voler rispondere per le rime a Knight, ma
un’occhiataccia di Kyle lo convinse che sarebbe stato
più saggio
stare in silenzio.
Knight si concesse un sorriso soddisfatto.
«In
via del tutto eccezionale dispongo di una foto della suddetta
“armatura”,» annunciò, e un
mormorio sorpreso si diffuse tra il
pubblico.
«Obiezione! Questa prova non è pertinente
a...»
«Respinta,» lo troncò di netto il
giudice, più
interessato alla foto che alla sua attinenza col processo in corso.
«Ce la mostri, procuratore.»
Tony si sentì mancare e fissò
Kyle in cerca d’aiuto; lui scrollò le spalle,
facendogli cenno di
mantenere il sangue freddo.
Knight tirò fuori una foto piuttosto
grande e un po' sgranata, ma anche perfettamente distinguibile: era
senz'ombra di dubbio un’armatura dalle cromature rosso-oro,
apparentemente inquadrata dalla telecamera di sicurezza di un'auto
che sembrava sospesa a qualche metro da terra, sorretta dall'armatura
stessa. Tony poggiò con sconforto il mento sul braccio sano,
ricollegando la scena a quel poco che ricordava dello scontro: era
abbastanza sicuro che la persona alla guida di quell'auto gli dovesse
la vita, e fornire all'accusa prove sottobanco non gli sembrava un
gran modo per ringraziarlo.
Si impose il silenzio, assieme a
un'espressione distaccata.
«Prego la giuria di prestare
attenzione a questo “piccolo” dettaglio.»
Knight puntò il dito
sulla luce azzurrina che brillava sul petto di Iron Man.
“Merda.”
Tony si allentò il colletto della camicia, improvvisamente
accaldato.
«Secondo i nostri tecnici, sarebbe proprio la fonte di
energia che alimenta quest'aggeggio... signor Stark, cosa le
ricorda?»
«La lampadina azzurra che avevo sul comodino da
piccolo,» sparò a caso Tony, cercando di mantenere
la sua faccia
tosta.
«Ah, davvero? E magari gliel’ha costruita suo padre
Howard Stark, inventore del reattore arc.»
«Obiezione. Di nuovo
fuori tema.»
«Accolta. L'allusione al reattore arc è
pertinente, ma si astenga da altri riferimenti ai familiari del signor
Stark; al momento non ci interessano.»
«Nemmeno a me,
sinceramente,» commentò Tony, nel tentativo di
allentare la
tensione.
Kyle scosse vigorosamente la testa, intimandogli di
finirla con quella sceneggiata.
«Questo sembra indiscutibilmente
un reattore arc. In quanto esperto del settore, signor Stark, come lo
definirebbe oggettivamente?»
lo incalzò Knight.
«A prima vista direi proprio un reattore
arc,» si trovò costretto ad ammettere Tony
«Ma ciò non è
possibile, perché mio padre e di conseguenza la mia
industria ne
detengono il brevetto,» aggiunse subito dopo trionafante,
credendo
di riuscire così a trarsi d'impaccio; notò troppo
tardi l'occhiata
ammonitrice di Kyle.
«Infatti,» confermò Knight,
«secondo i
nostri esperti corrisponde unicamente come forma, luce e altri
parametri che conoscerà sicuramente, alla tecnologia arc o
derivate.
E dunque in suo esclusivo
possesso.»
«Vedo che ha fatto i compiti a casa, signor
Knight.»
Lui sorrise soddisfatto prima di essere troncato dalla
voce di Kyle.
«Obiezione: la sua tecnologia potrebbe essere stata
sottratta da concorrenti.»
«Esatto!» Tony colse al volo
l'occasione «Da Stane!»
«Ma non era con lei sul terrazzo?»
«Lui
era fisicamente
con me, ma la sua tecnologia, cioè quella sottratta a me
medesimo,
era lì sotto, non-so-perché, a combattere contro
un tizio in
armatura!»
Un brillio pericoloso si accese negli occhi di Knight.
«Mi perdoni, signor Stark: si sta riferendo all'arma robotica
ancora ignota o ad Iron Man?»
Tony ebbe un attimo di esitazione,
realizzando ciò che aveva appena detto.
«A... a entrambe.»
balbettò infine.
Pepper si mosse a disagio, allibita dal
madornale passo falso del suo capo, e il fatto che avesse appena
balbettato – lui, Tony Stark, che balbettava
– voleva dire che Knight era finalmente riuscito a metterlo
in
seria difficoltà.
«È curioso come lei sostenga di non sapere
nulla dello scontro ma sia in grado di affermare che anche l'altro
robot fosse alimentato da un reattore arc,»
commentò Knight con un
sorrisetto di condiscendenza.
Tony ammutolì, consapevole di non
poter controbattere con argomentazioni convincenti.
«Lasciamo un
attimo da parte le sue accuse infondate verso Stane. Lei ha definito
Iron Man "un tizio in armatura"; cosa sensata, visto il
nomignolo affibbiatogli dai media e la sua nomea di "supereroe".
Ma cosa le fa affermare con tanta certezza che l’armatura non
fosse
un robot telecomandato o altro?»
«È un sistema di controllo
obsoleto! Quell'armatura, o qualunque cosa fosse, è troppo
complessa
per essere teleguidata.» Tony si sarebbe mangiato la lingua
per
quello che stava dicendo, ma il suo ego aveva buttato al vento ogni
cautela.
«E questo come lo deduce non avendola mai vista coi suoi
occhi?»
«Lei è estremamente pignolo. Davvero una spina nel
fianco,» sbottò Tony, iniziando ad
irritarsi.
Insomma, era abituato
a non essere – quasi – mai contraddetto.
«Dunque?»
«Dunque
sono in grado di trarre conclusioni in campo robotico in base a
criteri che non devo certo spiegare a lei, a meno che ovviamente non
abbia un paio di lauree al MIT, cosa di cui dubito alquanto,»
commentò con arroganza.
Pepper si era ormai ancorata al braccio
di Mitchell vedendo degenerare la situazione di secondo in secondo e
anche lui non poteva fare altro che assistere impotente al loro
sfacelo.
Kyle fremeva accanto a loro alla ricerca di una via
d'uscita che Tony non si fosse già precluso.
«Signor Stark, la
richiamo all’ordine,» gli intimò il
Senatore.
«Ma certo,
Vostro Onore. Scusatemi enormemente,» ribattè lui
con un po' troppa
enfasi.
Ribolliva di rabbia repressa nei confronti dell'avvocato e
in generale di tutto ciò che l'aveva cacciato in quel vicolo
cieco.
E pensare a Stane non lo aiutava affatto.
"Quel bastardo
traditore doppiogiochista..." sibilò tra sé,
vedendo rosso per
un istante e sentendosi i moncherini in fiamme.
«Sto ancora
aspettando una risposta, signor Stark.»
Tony lo fissò in modo
tanto penetrante che l'avvocato sembrò tentennare.
«Infatti,
stavo giusto dicendo che la mia
tecnologia, perché di mia si tratta, è stata
banalmente ed
indegnamente clonata dal mio "amico" e "collaboratore"
Obadiah Stane, che tra l’altro vendeva alle mie spalle armi
ai
ribelli dei Dieci Anelli, gli stessi che hanno avuto la gentilezza di
ospitarmi per tre mesi in Afghanistan su
suo diretto ordine.
Evidenziamo questo dettaglio nel verbale, grazie.»
Kyle fece il
gesto di intervenire, ma ormai Tony era come un fiume in piena.
«Stane da un pezzo voleva sbarazzarsi di me e ottenere le mie
industrie e quando ha messo gli occhi sulla tecnologia arc ha trovato
un modo perfetto per farlo.»
«Signor Giudice, il mio cliente
sembra in evidente stato confusionale.» Kyle cercò
con lo sguardo
il supporto di Ian, facendogli cenno di confermare, ma prima che il
medico potesse intervenire fu zittito dal martelletto.
«Respinta. Il signor Stark mi sembra nel pieno possesso
delle sue facoltà decisionali.»
«Che bravo, Vostro Onore, dopo
il mio nome si ricorda anche della mia salute mentale. Lo trovo
molto gratificante. Comunque sia, questa condotta irresponsabile e
scorretta da parte del mio ormai ex-collega mi ha costretto ad
intervenire in prima persona.»
«Cosa intende con "in prima
persona"?»
«Vedete, Vostro Onore, signor Knight, gentile
pubblico...»
"Pepper, respira. Non lo sta veramente per
dire."
«Io sono Iron Man.»
________________________________________________________________________________________________________________________________________
Revisione effettuata il 21/02/2018
Note Delle Autrici:
"Tony è un deficiente.": pensatelo pure, perché avete ragione!
In effetti, ci siamo ispirate abbastanza al processo che si svolge nel secondo film, visto che dopotutto molte tematiche lì presenti verranno affrontate in seguito in questa FF (non credevate mica che se la potesse cavare con un solo processo... vero? Sarà una cosa molto lunga...)
Comunque, ringraziate se tornerà intero a casa... Pepper vorrebbe scannarlo :3 Ma in realtà lo ama! *scorgono Pepper che affila mannaia* O forse no...
Ringraziamo Rogue92 e alliearthur che continuano a seguirci e recensiscono regolarmente :3 Ci fa davvero tanto piacere :) (Glaucopis, ti aspettiamo... e aspettiamo USQ!)
Moon&Light
P.S. Sappiamo che il capitolo è lunghissimo, e il prossimo lo sarà altrettanto, ma c'è davvero molto da dire e le tiritere legali tendono ad essere lunghe e prolisse, anche se cerchiamo di ridurle al minimo ;)
© Marvel
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Capitolo 11 *** Falling ***
10
Falling
"Stupid
me to believe
That I could depend on stupid you
And
on the tip of my tongue,
Were
words that came out all wrong"
[Kings
Of Medicine – Placebo]
«Ordine!
Ordine!
Esigo ordine!» sbraitò il giudice, pestando con
accanimento
il suo martelletto senza ottenere risultati evidenti.
La
sala era in subbuglio: tutti parlavano con tutti, i giornalisti si
rivolgevano direttamente a Tony; alcuni tentavano di salire sul palco
per intervistarlo e venivano respinti dalla sicurezza, la giuria si
consultava concitata. Knight,
dopo essersi ripreso dallo stupore, esibiva un sorriso tronfio e
arrogante nell'osservare quel pandemonio. Si era poggiato con fare sprezzante al banco dell'accusa,
in attesa che il processo riprendesse: era chiaro che pensava di
avere già la vittoria in pugno.
Dopo
il primo momento di esaltazione autocelebrativa, Tony si era calmato
e aveva assunto un'espressione più seria, attendendo con
pazienza
che tutti tacessero per riprendere a parlare e rispondere ai miliardi
di domande che gli sarebbero state poste di lì a pochi
istanti. Tentava
di ignorare le occhiate penetranti che gli scoccavano a turno Pepper,
Ian e Kyle, rincarate da quelle altrettanto accusatorie di Rhodey poco più dietro.
Kyle
aveva assunto una rassegnata faccia da funerale e sembrava aver
accettato stoicamente il fatto che avrebbe perso la causa entro dieci
minuti. Ian
dal canto suo sfoggiava la sua solita espressione corrucciata, ma i
suoi occhi mandavano lampi gelidi nella direzione del suo paziente.
Pepper
non sembrava condividere la loro pacatezza, perché aveva
assunto un
colorito tendente al bordò e si stava
chiaramente imponendo
di non alzarsi in piedi per piombare addosso al suo capo e acciuffarlo
per un
orecchio come un bambino pestifero di fronte a tutti. Tony deglutì a vuoto:
l'avrebbe come
minimo ucciso non appena fossero usciti di lì.
Però
doveva ammettere che, nonostante temesse l’ira dei suoi
"compagni
di squadra" – veri e metaforici, in realtà – si sentiva molto meglio, come se si fosse tolto un
pesante fardello dalle spalle. In più era nuovamente al
centro
dell'attenzione, e questo non poteva che fargli piacere nonostante il
momento critico. Era soddisfacente venire guardato con stupore e ammirazione, e anche invidia, fintantoché chi lo faceva fosse rimasto all'oscuro delle sue vere condizioni, di cui era comunque fin troppo cosciente.
I
membri della giuria stavano parlottando tra loro e con Stern, indecisi su
come far procedere il processo dopo quella svolta inattesa. Tutti
gli occhi erano puntati su Tony che, dal canto suo, fissava con
svagato interesse il soffitto. Per passare il tempo si
sistemò il
tutore al braccio, allentandolo un po'; provò poi a muovere
leggermente
la protesi per sciogliersi la spalla indolenzita da quel peso inusuale.
Ignorò gli sguardi
ammonitori del suo trio difensore nell'osservare le sue manovre
rischiose, ma necessarie per alleviare il proprio fastidio.
Pian
piano il clamore che scuoteva il tribunale diventò un brusio
concitato e si affievolì fino a spegnarsi del tutto, ma
nessuno
diede segno di voler parlare per primo. Stern conferiva sottovoce con
un membro della giuria, apparentemente contrariato.
Alla
fine, vedendo che nessuno sembrava avere idea di come sbloccare la
situazione, Tony decise di farlo per loro:
«Oh,
abbiamo finito?» disse con finta sorpresa, riscuotendo
l'attenzione
dei presenti già ampiamente appuntata su di lui.
«Abbiamo
appena cominciato, signor Stark,» replicò di
scatto Stern,
interrompendo il suo confabulare.
Sembrava
molto meno propenso ad essere paziente rispetto all'inizio del
processo, e le sue guance cadenti fremevano d'indignazione.
«Conferma
la sua ultima affermazione?» intervenne Knight, come se ce ne
fosse davvero
bisogno.
«Naturalmente.
Devo ripeterla? Beh, sono Iron Man, e questo è
quanto.»
«Obiezio–...»
Kyle si fermò a metà e lasciò cadere
nel vuoto la sua protesta,
capendo che era completamente inutile ricorrere di nuovo alla scusa
dello stato confusionale: così facendo avrebbe solo
rafforzato i
dubbi sulla già controversa integrità mentale di
Tony.
«Voleva
forse dire qualcosa, signor Andrews?» lo stuzzicò
Knight, che
sembrava godersela un mondo.
«Effettivamente
sì. Vorrei richiedere una pausa dal processo
per...» cominciò, ma
Stern lo troncò sul nascere:
«Respinta.
Non vedo alcun bisogno di una pausa, avvocato; continueremo fino a
che lo riterremo necessario.»
«Capisco,»
disse Kyle tra i denti, ma mantenne la sua solita espressione
cordiale, anche se dentro ribolliva palesemente di frustrazione.
Ci
fu uno scambio di sguardi velenosi tra lui e Knight, prima che a
quest'ultimo fosse concesso di riprendere il contro-interrogatorio.
«Signor
Stark, in seguito alla sua ultima dichiarazione ritengo necessaria
una revisione della sua testimonianza riguardo ai fatti avvenuti il 5
gennaio alle Stark Industries, settore 16,»
annunciò formalmente il
Senatore, in un tentativo di riportare una parvenza di
ufficialità
nel tribunale dopo la breve parentesi da talk-show.
«Naturalmente
il fatto di aver prestato falsa testimonianza andrà a suo
netto
svantaggio e sarà aggiunto ai suoi capi d'accusa;
dovrà pagare una
salata multa, a meno che non voglia finire agli arresti per un bel
po',» concluse soddisfatto.
«Pagherò
quel che devo,» alzò le spalle Tony, noncurante.
Un
paio di mesi agli arresti domiciliari non avrebbero mutato
più di
tanto la sua situazione, visto che non poteva comunque muoversi.
«Adesso,
ci dica: cosa è successo veramente
quella sera? Inizi pure la
sua deposizione. E veda di essere sincero, le ricordo che ha prestato
giuramento,» aggiunse aspramente il giudice, siglando le sue
parole
con un solenne battito di martelletto.
Tony
si prese qualche secondo per raccogliere le idee e fu come se un
sipario calasse sulla sua espressione giocosa per lasciare il posto
ad ombre più cupe.
«Prima
di arrivare allo scontro del 5 gennaio scontro devo fare un bel passo
indietro. Al mio rapimento in Afghanistan, per l'esattezza,»
esordì
Tony, scatenando subito mormorii incuriositi dal pubblico.
Non
aveva mai raccontato chiaramente quel che era successo mentre era
prigioniero dei terroristi, né aveva intenzione di farlo
adesso, né
mai. La
SHIELD si era adoperata per insabbiare l'esatta dinamica della sua
fuga e non era mai stato interrogato dalle autorità in
proposito, ma
sapeva che la cosa sarebbe saltata fuori da sola in correlazione a
Stane e voleva togliersi subito il dente per evitare incursioni
impreviste da parte dell'accusa. Gli premeva mettre in chiaro che lui, coi sotterfugi di Stane e con quei bastardi dei Dieci Anelli, non c'entrava assolutamente nulla se non nel ruolo di vittima ignara. Ed egualmente colpevole di quei traffici illeciti, ma quello era un pensiero che tormentava a sufficienza le sue notti senza fare un mea culpa pubblico. Presagiva che in
futuro avrebbe comunque dovuto approfondire il suo rifiuto di continuare a
produrre armamenti, ma adesso gli sembrava una questione di
importanza secondaria.
«Vi
risparmierò i dettagli più crudi, ma vi basti
sapere che, qualunque
cosa dicano i miei diffamatori, non è stata affatto una
montatura né
un viaggio di piacere. Per farla breve: molti si chiedono come abbia
fatto a scappare ai terroristi. Semplice: grazie ad Iron Man.
L'armatura è nata in quella grotta e l'ho usata per crearmi
una via
di fuga, l'unica a cui avessi accesso,» spiegò
brevemente.
Il
pubblico pendeva dalle sue labbra e suo malgrado anche Knight
sembrava molto interessato, al di là del lato professionale
della
vicenda. Non si trattenne comunque dall'intervenire con la sua voce
infida:
«Avrei
due domande.»
«Non
ne dubitavo.» Tony alzò un sopracciglio, ma attese.
«La
prima è: come avrebbe fatto esattamente a creare un'armatura
così
tecnologicamente avanzata in una grotta, con, immagino, strumenti non
paragonabili a quelli delle sue industrie?»
«Era
molto più rudimentale della Mark III... intendo l'armatura.
Quella
era la Mark I, l'antenata di quella attuale,» si
frenò dal rivelare
altri dettagli, ma sapeva che il procuratore non avrebbe dimenticato
il fatto che sembravano esserci più armature in circolazione. «Il
punto è che usavo effettivamente materiali delle mie
industrie.
Missili, esplosivi, armi, componenti elettronici...» si
ritrovò a
stringere il pugno buono, di nuovo fremente di rabbia. «È
proprio questo il collegamento con Stane: riforniva i terroristi
sottobanco con le mie armi e attrezzature a mia insaputa, e ha
organizzato anche il mio rapimento per...»
«Obiezione:
ha già affermato questo in precedenza, ma dove sono le
prove?»
Tony esitò, serrando appena la mascella.
«Non credo di avere prove che...»
«Obiezione!»
intervenne Kyle, appena in tempo. «Abbiamo effettivamente prove
del
coinvolgimento di Stane nel rapimento del signor Stark,» annunciò,
sollevando
una chiave USB in modo che fosse ben visibile.
Tony
non riuscì a nascondere la sua perplessità: era
la chiave in grado
di aggirare i suoi stessi sistemi, con la quale Pepper doveva
recuperare i dati relativi alle sue industrie e progetti. Non
immaginava che avessero trovato anche prove del suo rapimento.
Perché
non gliel'avevano detto? Certo, non avevano parlato esplicitamente dell'Afghanistan mentre si preparavano all'udienza, ma quello gli sembrava un dettaglio decisamente rilevante, oltre che personale.
Knight
si era accorto della sua esitazione, ovviamente, ma prima che potesse
farlo notare a tutti intervenne Ian:
«Vostro
Onore, il signor Stark non è a conoscenza di questa prova
perché è
stata raccolta durante il suo periodo di degenza. Potete controllare
i registri dell'ospedale, che ho qui con me. Non era materialmente in
grado di saperlo e nella concitazione del momento non ne è
stato informato,» concluse.
«Esattamente
quel che volevo sottolineare.» confermò Kyle. «Inoltre, non pensavamo avrebbe avuto così tanta rilevanza in sede processuale,» specificò, e
Knight strinse le
labbra piccato.
Tony
scoccò un'occhiata eloquente ai suoi tre angeli custodi: gli
dovevano un po' di spiegazioni riguardo a quella prova, soprattutto
sul vero perché non l'avessero messo al corrente della sua
esistenza, visto che gli sembrava tutto, meno che "poco rilevante".
Magari pensavano che, qualunque cosa ci fosse là dentro, fosse troppo
"instabile" per vederla. Il
pensiero lo punse nel vivo.
«Il
video qui contenuto potrebbe risultare piuttosto crudo e turbare sia
i membri della corte che l'imputato, per cui consiglierei una pausa
per permettere alla giuria di visionarlo in privato,»
azzardò Kyle,
confermando i suoi sospetti.
«Io
non ho problemi a visionarlo qui ed ora,
in pubblico,»
puntualizzò Tony senza nascondere il suo fastidio.
«In
giro ci sono sicuramente video peggiori con me come protagonista.
Almeno in questo dovrei essere vestito,»
aggiunse poi in tono
forzatamente beffardo.
«Vediamo
questa prova decisiva, allora,» li sollecitò
Knight, che sembrava
sperare con tutto se stesso che il loro fosse un bluff.
La
giuria concordò con uno schiocco del martelletto.
Tony
intercettò lo sguardo di Kyle, con un'aria che prometteva
una lunga
discussione dopo il processo. L'avvocato s'incupì di
rimando, forse
con una vaga aria contrita, e Tony notò il modo in cui
guardò di
sottecchi Pepper, che stava insolitamente evitando di guardarlo in faccia, quando non aveva distolto gli occhi da lui per tutto il processo.
"Ovviamente..." pensò con amarezza.
Ora
sapeva con chi doveva prendersela, almeno.
Ci
fu un breve armeggiare con una TV e un pc portatile, nel quale fu
inserita l'USB. Pochi secondi dopo Tony si trovò a fissare
se stesso
proiettato sullo schermo, legato, bendato e tenuto sotto il tiro dei suoi
carcerieri mentre una voce che era abituato a sentire principalmente
nei suoi incubi accusava apertamente Obadiah di aver mentito riguardo al
"bersaglio da eliminare". Smise
di ascoltare e guardò lo schermo con aria trasognata,
sperando solo
che il video finisse presto per non dover continuare a fissare il suo
stesso volto sporco di sangue e terrorizzato. Almeno i contorni del primo magnete infisso nel suo petto si distinguevano appena, e ringraziò la scarsa qualità del video.
La
giuria si dichiarò soddisfatta della prova e Knight non
trovò nulla
da obiettare, con suo evidente fastidio.
Tony
riprese a respirare solo quando lo schermo si spense finalmente con
un sibilo e la chiave tornò nelle mani di Kyle. Adesso poteva
percepire gli occhi di Pepper fissi su di sé, ma non si
voltò verso
di lei, sentendo un bruciore estraneo che gli pizzicava lo stomaco al
pensiero che gli avesse mentito... per cosa, poi? Per proteggerlo?
In quella grotta c'era stato in carne ed ossa – torture, privazioni e sofferenze incluse – e Pepper credeva davvero che un video del genere potesse turbarlo? Si riservava il diritto di essere quantomeno offeso, per non dire furibondo, per essere stato considerato così fragile.
Knight
gli impedì di elucubrare troppo su quello che stava
interpretando come un raggiro da parte di persone che considerava
fidate e riprese il contro-interrogatorio con più foga di
prima:
«Dunque,
stando a quanto abbiamo appena visto, aveva degli ottimi motivi per
covare del rancore nei confronti di Stane: la vita in quei tre mesi
non dov'essere stata facile.»
«Affatto,
signor Knight. Non gliela auguro minimamente,»
ribattè Tony
lapidario, eliminando per una volta qualsiasi traccia di scherzo
dalla sua voce.
«Ma
a questo penseremo in seguito; non vorrei dover affrontare troppe
problematiche in una sola volta. Vorrei comunque sottolineare alla
giuria che l'imputato aveva un movente più che valido per
l'omicidio
di Obadiah Stane.» Fece una pausa per permettere a tutti di
assorbire l'informazione.
Tony
si accorse di aver serrato nuovamente con forza entrambi i pugni e si
costrinse a rilassarli, controllando poi con discrezione che
ciò non
avesse causato danni alla protesi. Le giunzioni delle dita si erano leggermente
allentate, e badò bene a nascondere il braccio oltre il bordo
del
tavolo.
«Passiamo
alla mia seconda domanda, prima di divagare troppo. Le forze militari
Statunitensi hanno registrato una grossa esplosione nell'area in cui
era stato tenuto prigioniero e hanno in seguito confermato la
distruzione del covo dei Dieci Anelli...» Knight lanciava di
tanto
in tanto un'occhiata a quel che sembrava un rapporto ufficiale.
A
quanto pare lo SHIELD non era riuscito ad arrivare anche a quelli, o
forse non aveva voluto, seguendo chissà quale "procedura standard". Si appuntò mentalmente di chiedere
chiarimenti anche a Fury: gli sembrava di essere tenuto all'oscuro di
troppi dettagli, ultimamente.
«Sono
stati trovati segni di un violento scontro armato, oltre ad alcuni
corpi carbonizzati corrispondenti a diversi ricercati e criminali
internazionali e a quello di un noto fisico rapito qualche anno fa
in...»
«Yinsen?»
esalò Tony, senza riuscire a trattenersi.
Non
si aspettava che ne avessero ritrovato il corpo: avrebbe voluto
esserne informato. Gli doveva la vita e non sapeva nemmeno che avessero trovato il suo corpo. Si chiese se l'avessero sepolto, e dove, ma non era sicuro di voler conoscere la risposta.
Knight
lo stava fissando interrogativo.
«Si
chiamava Ho Yinsen,» disse Tony, quasi con fierezza e donandogli così la dignità di un nome, per quanto fosse comunque un riconoscimento infimo a fronte di ciò che aveva fatto per lui.
«Era il mio
interprete e compagno di prigionia. È stato ucciso durante
la nostra
fuga.» Omise, dandosi del vigliacco, che l'aveva fatto per
fargli
guadagnare tempo, regalandogli la vita che non avrebbe dovuto sprecare.
Knight
per una volta sembrò incerto su come proseguire,
disorientato
dall'improvvisa serietà dell'imputato.
«Cosa
c'entra la mia fuga con tutto questo?» lo riscosse
bruscamente Tony, tentando di allontanarsi da quei ricordi troppo vividi.
«La
distruzione della base è stata opera sua, a quanto
afferma.»
riprese Knight, ora di nuovo impassibile.
«Lo
affermo nuovamente.»
«Ha
ucciso delle persone. Conferma anche questo?»
insistette Knight.
Tony si trovò a fissarlo con sguardo vacuo, mentre una
fulminea reminiscenza di quegli attimi gli balenava inevitabilmente dinanzi agli occhi.
Rivide Yinsen, crivellato di proiettili e riverso su dei sacchi di
sabbia impregnati del suo stesso sangue, con ancora la forza di
parlargli un'ultima volta. Un'ondata di nausea gli torse lo stomaco al
pensiero di ciò che era venuto dopo: fiamme, urla e spari si
sovrapposero nelle sue orecchie. Si obbligò a tornare al
presente, ma aveva serrato di nuovo i pugni con tanta veemenza da
indolenzirsi la mano buona e aver allentato ulteriormente il polso
della protesi.
«Erano... terroristi,» cominciò incerto, senza sapere se quello fosse l'inizio di una confessione in piena regola o una semplice constatazione dei fatti.
In ogni caso, avvertì un senso di nausea ben marcato.
«Obiezione!» intervenne prontamente Kyle. «Vostro Onore, chiedo espressamente che vengano affrontate le
problematiche relative al problema "Iron Man". Questi
avvenimenti non influenzano in alcun modo diretto quelli del 5 gennaio
né la questione della sua identità; ne spiegano
solo
l'origine,» affermò, notando il profondo disagio del
suo
assistito.
Stern
sembrò pensarci un attimo, poi annuì.
«Obiezione
accolta. La questione della sua prigionia non è chiusa, ma
verrà
affrontata in un altro momento. Vista la quantità delle sue
accuse
è molto probabile che avremo tutto il tempo necessario per
discuterne approfonditamente in futuri processi.
Signor
Knight, continui il contro-interrogatorio tralasciando gli eventi in
Afghanistan,» sentenziò risoluto, e sia Kyle che
Knight sembrarono
concordi, per una volta.
Affrontare
troppi capi d'accusa insieme non avrebbe favorito nessuna delle due
parti e quello in particolare sembrava una questione troppo spinosa per
essere
risolta rapidamente come volevano entrambi.
Tony deglutì a forza, e per un attimo, impalato com'era sul banco degli imputati, con centinaia d'occhi che lo scrutavano e una condanna che incombeva su dilui, si sentì di nuovo la canna di un mitra puntata alla testa.
E
il processo era appena iniziato.
***
Pepper
era sicura che Tony stesse soffocando.
Era
notevolmente impallidito non appena avevano cominciato a parlare del
suo rapimento e adesso aveva un colorito cereo. Si allentava in
continuazione il colletto della camicia ed evitava stoicamente di
guardare nella sua direzione, in un atteggiamento d'indifferenza
decisamente insolito per lui. Se
l'era davvero presa così tanto per il fatto di avergli
tenuto
nascosto quel filmato?
Vista
la delicatezza dell'argomento aveva insistito con Kyle per
renderglielo noto solo se strettamente necessario, ma mai avrebbero
immaginato che sarebbe stato lui stesso a portare il processo in
quella direzione. Sperò
solo che fosse in grado di sostenere il resto dell'udienza senza
ulteriori danni.
Ian
sembrava altrettanto preoccupato. A un tratto si accostò a Pepper,
bisbigliandole di voler parlare seriamente con Tony del rapimento, se
proprio aveva quest'astio verso gli psicologi. Pepper
concordò
sottovoce, più per cortesia che altro. Apprezzava la buona
volontà
del medico, ma dubitava che Tony avrebbe mai accettato un'offerta
simile, intento a nascondere le proprie paure persino a se stesso.
Riprese
a concentrarsi sull'udienza, con un filamento d'angoscia ad annodarle lo stomaco.
«Torniamo
a questa sua identità segreta,»
dichiarò Knight. «Sa
dirci con esattezza quando ha iniziato ad utilizzare la "Mark
III" per intervenire di persona in conflitti bellici e
perché
l'ha fatto?»
«La
prima volta è stata in Gulmira. Ho estirpato il gruppo dei
Dieci
Anelli che era di stanza lì. E ho usato le mie armi solo in
casi
estremi e per legittima difesa. Ho poi lasciato che gli abitanti del
luogo facessero il resto,» sintetizzò, ringraziando mentalmente di non essersi sporcato le mani anche in quell'occasione. «Per
quanto riguarda il perché, mi sembrava di averlo chiarito
nella mia
conferenza stampa un anno fa: ho di meglio da offrire a questo mondo
che cose che esplodono. Dopo aver visto le mie armi usate in quel
modo, ho deciso che potevo fare almeno questo per cercare di
rimediare al mio modo di agire. E a quello di mio padre. Siamo stati
mercanti di morte troppo a lungo,» concluse mestamente, per
poi
riprendere con più vigore:
«I
miei interventi successivi in veste di Iron Man erano mirati a
distruggere le armi delle Stark Industries che Stane ha
contrabbandato sotto al mio naso nei vent'anni in cui ha gestito con
me, o meglio senza di me l'azienda.» Non riuscì ad evitare la stizza che
trapelò dalla
sua voce a quelle ultime parole, e si costrinse a controllarsi per non dare altri appigli all'accusa. «Finora sono intervenuto in Afghanistan,
Gulmira, Wakanda, Vietnam, Sokovia... e potrei continuare. Non so ancora quante partite di armamenti siano finite sul mercato
nero,» ammise, senza celare la sua frustrazione.
Ci
fu un mormorio di stupore misto a consenso dal pubblico, come
impressionato dalla sua fermezza e insolità
gravità, oltre che preoccupato al pensiero che armamenti di
fattura superiore quali erano quelli delle Stark Industries
circolassero sottobanco nelle mani sbagliate. Le
sue motivazioni non sembravano averli colpiti particolarmente, ma lui
non vi badò: sapeva perché combatteva e tanto
bastava. Non si era
mai curato di ciò che diceva la gente di lui e non avrebbe
cominciato a farlo proprio ora che sapeva di fare la cosa giusta.
Knight
ruppe la sua bolla di confidenza, ricominciando a pungolarlo.
«Un
nobile intento, signor Stark, che però ha causato
più problemi di
quel che aveva previsto... discuteremo in seguito anche riguardo alla
sua dubbia scelta di revocare il suo contratto con
l'esercito.»
L'affermazione
di Knight suonò più come una minaccia, ma Kyle
non intervenne: la
situazione era ancora stabile e il procuratore non sembrava
intenzionato ad affrontare formalmente la questione, ma solo a menzionarla per innervosirli.
«Non
ci sono testimonianze attendibili dello scontro avvenuto in Gulmira,
né dei successivi, quindi dovremo fidarci della sua
parola,»
stabilì poi con riluttanza. «Ma
cosa ci dice riguardo allo scontro avvenuto con i Whiplash al suo
rientro, di cui è stato invece testimone il Colonnello
Rhodes?»
Il
colonnello in questione si agitò sulla sua sedia ed
evitò lo
sguardo risentito e incredulo di Tony. Non
riusciva a credere che avesse rivelato il suo coinvolgimento in
quell'episodio per pura ripicca. E adesso avrebbe dovuto svicolare
anche a quelle accuse...
«È
stato un malinteso,» spiegò, con un'alzata di
spalle distratta. «Mi
hanno scambiato per una minaccia, presumo un drone, e mi hanno
attaccato; non ho
risposto al fuoco e ho usato solo gli anti-missili. Non uso la Mark
III per divertimento, Knight, se è questo che sta tentando
di
dimostrare.»
"Anche
se in effetti volare è divertente..." si
trovò a
pensare con una punta di rammarico.
«Ha comunque dimostrato una certa noncuranza, visto che ha fatto precipitare un pilota della Air Force,» puntualizzò Knight.
«È stato un incidente, e comunque gli ho salvato la vita. Il suo paracadute era difettoso, le consiglio di rileggere il rapporto,» continuò con aria di sfida, sperando che il pilota avesse menzionato il suo intervento in extremis.
«Molto
eroico, da parte sua,» lo schernì Knight, lasciando comunque cadere quella linea ad'attacco.
«Tornando
all'armatura... come definirebbe "Iron Man", se non
un'arma?»
«Non
la definirei affatto "arma", signor Knight. Fa parte di me,
è controllata da me. È una sorta di...
estensione del mio corpo,»
tagliò corto Tony, esitando a utilizzare il termine tecnico.
Lo
fece lui al posto suo.
«Quindi
sta dicendo che è una specie di "protesi", giusto?»
Pepper
trattenne a stento un'esclamazione preoccupata e Kyle
s'irrigidì di
colpo: sembrava quasi che Knight avesse intuito qualcosa, ma era
impossibile, visto che Tony era stato immobile per la maggior parte
del processo. La
protesi era celata dal tutore e ciondolava inerte appesa al suo
collo, invisibile a occhi indiscreti. Comunque
fosse, il discorso si stava spostando in una direzione pericolosa.
Tony
represse un brivido e il braccio destro sembrò pesare
più che mai.
Doveva riuscire a sfuggire a quelle domande infide, o avrebbe finito
per lasciarsi sfuggire qualcosa, con la sua maledetta parlantina...
S'illuminò
all'improvviso quando si rese conto che inconsapevolmente Knight gli
aveva offerto una via di fuga.
«Esattamente:
una protesi è il termine giusto. Quindi ammetto di essere in
possesso di alcune "protesi ad alta tecnologia", ma questo
non vuol dire che voglia utilizzarle a scopo offensivo,»
dichiarò
in scioltezza e riacquistando il suo solito mezzo ghigno; qualcuno
dal pubblico ridacchiò.
"Ora
tutti sanno che ho delle 'protesi'... ma non di che tipo,"
pensò soddisfatto, mantenendo un sorriso trionfante sul volto: aveva
evitato di
essere nuovamente accusato di falsa testimonianza, oltre a sottolineare l'inoffensività delle armature.
«E
di quante di queste "protesi" dispone al momento?» lo
incalzò Knight, imperterrito.
Tony
ci pensò un attimo, contando ostentatamente sulle dita buone;
decise di
includere solo la Mark II nel conteggio, visto che la I e la III
erano distrutte, più la protesi del braccio e della futura
gamba.
«Tre,
ma al momento solo una è operativa, più o meno.
In effetti, non
saprei se definirla propriamente "protesi" essendo questa
parte intergante del mio corpo, ma...» stavolta un mormorio
di
risatine accompagnò la sua voce.
Il giudice e Knight sembravano chiedersi se si trovassero ancora in
tribunale o in qualche luogo più sconcio.
«No,
aspettate, sono serissimo!» Tony alzò la voce per
sovrastare la
momentanea confusione.
«Ne
saremmo convinti, signor Stark, se solo non continuasse a farsi beffe
della corte...» commentò il Giudice.
«Continuo
a sostenere il termine "arma" per definire Iron Man: non
può essere chiamata protesi, considerando che–...»
iniziò Knight,
deciso, solo per essere interrotto:
«Oh,
aspetti, non me lo dica, ho capito dove vuole arrivare: è
troppo
grande per essere definita tale. Ho indovinato?» lo
anticipò Tony
con un sogghigno malizioso e scatenando ancora l'ilarità del
pubblico.
«...
non volevo metterla esattamente in questi termini, ma il concetto
è
quello,» concesse questi, alzando gli occhi al cielo.
«E
così torniamo alla mia accusa, cioè che l'unica
definizione
possibile per "Iron Man" è "arma",» concluse alla svelta,
con soddisfazione.
«Obiezione:
tecnicamente non può stabilirlo, visto che non ha potuto
esaminarla... o sbaglio, avvocato?» intervenne Kyle con un
mezzo
sorriso provocatore.
«Possiamo
sempre chiedere al signor Stark di farcela esaminare,»
rispose
prontamente Knight.
«Dipende
a quale protesi si riferisce e se sarà lei a occuparsi di
questo
"sporco compito",» tossicchiò Tony, prima di
riprendere a
parlare in tono semiserio:
«Ciò
che mi richiede è comunque impossibile: una è
andata distrutta in
seguito allo scontro, un'altra è obsoleta e le altre sono difettose o in fase di
progettazione. E no, non potreste comunque esaminarle senza un
mandato; e no, non potreste chiederne il cedimento perché
equivarrebbe a cedere me stesso, e questo mi porrebbe sotto un
contratto di schiavitù... o di prostituzione, a seconda dei
punti di
vista.»
«Non sono un esperto...»
cominciò Stern, arrischiandosi suo malgrado a intervenire.
«Di prostituzione? Certo che no, andiamo, è un
Senatore!» esclamò, battendo col palmo sul banco a dare enfasi.
Pepper
nascose il volto tra le mani con un sospiro rassegnato, mentre Kyle
tamburellava nervosamente sul tavolo, fissando con intensa
concentrazione dei documenti. Era
diventato paonazzo. Non bastava che il suo cliente non facesse nulla
per aiutarlo a difenderlo, no: doveva anche allestire uno spettacolo
di cabaret dai risvolti squallidi di fronte alla corte... si sentiva
sprofondare pian piano dietro il banco della difesa.
«Silenzio!
Silenzio in aula! Chiudiamo la questione delle "definizioni per
Iron Man" e torniamo allo scontro, per carità!»
esplose il giudice, anche lui con un colorito che tendeva al rosso
acceso.
«Sono
d'accordo. Sa, è una questione che mi preme molto
affrontare,»
dichiarò Tony, leggero, sottilmente compiaciuto nell'essere riuscito a dirottare l'argomento del processo.
Stava
cominciando ad abbassare di nuovo la guardia e Kyle gli fece un cenno
imperioso: doveva mantenere la calma, ancora per un po'.
«Allora
ci dica quel che è successo, visto che è
così impaziente,»
lo incalzò Knight.
«L'avrei
fatto ore fa, se me ne aveste dato modo,» replicò
pungente Tony.
Ricevette
l'ennesima occhiataccia da parte del giudice, ma non vi badò
e
iniziò a raccontare tutto da quando Stane aveva dichiarato
di aver
fatto il doppiogioco. Descrisse
l'aggressione subita, tralasciando il dettaglio del reattore estratto
dal suo petto e sostituendolo con un suo "prototipo"
custodito in cassaforte; omise il congegno che l'aveva paralizzato e
descrisse di essere stato minacciato con una banale pistola;
dichiarò
di essere svenuto dopo che Stane l'aveva tramortito, e che dopo essere rinvenuto si era precipitato alle Industries per fermarlo.
Kyle
annuì: tutto liscio, per una volta. Avevano preparato un
piano
d'emergenza nel caso la sua copertura fosse saltata e per ora Tony
sembrava incline a seguirlo, anche se non aveva incluso il soccorso di Rhodes nella narrazione, dettaglio che comunque non incideva sui fatti principali. Pareva aver riacquistato un minimo di
serietà, anche se l'avvocato sapeva che sarebbe stata solo
momentanea.
«... l'ho raggiunto e
poi ci siamo scontrati. Io ho avuto la meglio, ovviamente. Stane
è
precipitato nel reattore cacciandomi in questo macello e io mi sono
risvegliato in un letto d'ospedale. È tutto,»
alzò le spalle in
conclusione.
Knight
si aprì in un sogghigno infido a quelle parole, e Kyle
già sapeva
dove avrebbe puntato: Tony aveva saltato a piè pari la
descrizione
dello scontro. Quel
procuratore era un pignolo e un perfezionista: avrebbe voluto i
dettagli e l'esatto sviluppo del combattimento per perorare le sue
accuse di omicidio volontario.
«Non
proprio tutto,
signor Stark; a mio avviso mancano le dinamiche che
l'hanno portata su quel letto d'ospedale.»
«Credo
che lei abbia qualche problema d'attenzione, signor Knight, ma mi
limiterò a ripetere quel che ho appena dichiarato: ho usato
l'arma
Iron Man solo
per contrastare e difendermi da Stane, non perché mi
avesse rubato l’arma... o meglio, anche per quello.
Insomma, lui
voleva venderla a una cellula terrorista, non mi sento affatto in
colpa per aver scongiurato una potenziale catastrofe!» Tony
impose
alla sua voce più veemenza di quanto avesse mai fatto
dall’inizio
del processo.
«Quindi
noi dovremmo fidarci del fatto che lei, Anthony Edward Stark alias
Iron Man, sia un supereroe da ringraziare per aver estirpato la
compagnia dei Dieci Anelli e aiutato l'esercito a proteggere tutti,
distruggendo Whiplash e interferendo in azioni militari di
massima...»
«Esatto, un
"grazie" non sarebbe di troppo! E le ho già detto
com'è
andato l'incidente dei Whiplash e può chiedere a Rhodey se
davvero
vuole–...»
Knight
lo ignorò totalmente e sovrastò la sua voce:
«...
segretezza e che il signor Stane, il quale lei afferma fosse in
possesso delle sue armi e della sua tecnologia...»
«Devo
davvero ripeterle tutto da capo?» sbottò Tony,
agitandosi sulla sua
sedia a rotelle e facendo un brusco gesto col braccio immobilizzato
che per puro miracolo non si disarticolò dalla spalla.
«...delle
quali, voglio ricordare, il governo era all’oscuro, sia morto
in
seguito a una disputa piuttosto accesa tra due congegni robotici
all'avanguardia,» continuò Knight, irrefrenabile.
«Inoltre
lei non è esattamente nelle "condizioni" adatte per poter
deporre una testimonianza attendibile, signor Stark.»
«Obiezione!
Il signor Knight sta mettendo in dubbio la credibilità
dell’imputato: questa è diffamazione!»
intervenne Kyle, d'impeto.
«Respinta.»
dichiarò stoicamente Stern.
Tony
prese un lungo respiro profondo, facendo eco a Pepper: questa volta doveva
davvero dare fondo a tutto il suo carisma e alla sua abilità
di
convinzione. Riottenere credibilità dopo aver ammesso di
aver
testimoniato il falso non rientrava nel suo piano... se mai ne aveva
avuto uno.
«"Condizioni"
adatte? Cosa intende per... ah no, aspetti, voglio divertirmi io a
indovinare: mi ritiene qualcosa come un pazzo criminale con manie di
onnipotenza e furie omicide, non è vero? Credo che abbia sbagliato soggetto: quello è Stane. Certo, concordo
sul fatto di essere un narcisista... e magari sì, ho un po'
di manie
di protagonismo del tutto giustificate, ma massacrare gente per
divertimento non rientra nelle mie priorità. Quello
lo fanno i "cattivi" mentre io me ne sto seduto qui a
sentire voi che blaterate,» concluse seccamente.
Knight
fece un gesto di falsa ammirazione che gli fece quasi saltare i
nervi, e si sentì ancor più vicino al limite
quando l'avvocato
riprese a parlare:
«L'esempio
che ci sta dando in quest'aula non è esattamente quel che
riterrei
"nella norma".»
«Sono
assolutamente stabile, psicologicamente abile e intendo
perfettamente, procuratore Knight. Se ora volesse chiudere questo
penoso
teatrino per decidere delle mie facoltà cognitive gliene
sarei
immensamente grato.»
Tony
sfoggiò un sorrisino glaciale, che esprimeva chiaramente
cosa
avrebbe realmente voluto dirgli.
«Ma,
Signor Stark, capisce che dopo la sua falsa deposizione non
sarà più
così facile crederle. Senza contare il fatto che lei
continua a
dichiarare di essere perfettamente sano di mente quando...»
«Obiezione:
questa è diffamazione e lo ripeto per l'ennesima volta,
signor giudice.»
«Accolta.
Signor Knight, proceda più adagio e moderi i termini verso
l’imputato.»
«Scusate,
vostro Onore,» rispose Knight, sfuggente. «Volevo
dire: i fatti
dimostrano apertamente un certo squilibrio nella mente del nostro
imputato; squilibrio che potrebbe essere stato dettato dalla sua
lunga permanenza in Afghanistan e...»
«Signor
Knight, sono perfettamente d'accordo sul fatto che il periodo di
prigionia sia determinante nei successivi sviluppi della vita del
signor Stark, ma la invito un'ultima volta ad attenersi ai fatti del
5 gennaio fino a discrezione della corte,» lo interruppe
spazientito
il giudice. «Un'ulteriore
domanda non pertinente a questi avvenimenti le causerà
un'ammonizione.»
Tony
esultò tra sé nel vedere la faccia interdetta
dell'avvocato.
Knight
sembrò aver appena ingoiato qualcosa di molto amaro e molto
bruciante, perché sforzò un sorrisetto non molto
convincente prima
di riprendere a parlare con una vena d'astio represso:
«E
dunque, atteniamoci ai fatti. Quegli stessi fatti che lei sta
cercando di evitare dall'inizio del processo, signor Stark, e
cioè:
cosa è accaduto esattamente su quel tetto?»
Tutti
tacquero per qualche istante.
Tony
si aggiustò la cravatta, fingendosi
disinvolto
mentre scavava negli abissi dei suoi ricordi per cavarne fuori
qualcosa di credibile. I
primi momenti dello scontro erano chiari... la faccenda diventava
complessa dal congelamento dell'armatura di Stane in poi.
Era
atterrato più o meno integro sul tetto... e poi?
Da
lì iniziavano ricordi confusi e frammentari, ma poco
importava.
Doveva solo restare calmo: il suo pubblico era lì; doveva
solo...
intrattenerlo.
«Dunque...
quando sono intervenuto per fermare Iron Monger, o Stane, che dir si
voglia, quel folle stava per incenerire la qui presente signorina
Potts.»
Gli
occhi di tutti i presenti si spostarono su di lei, che maledisse tra
sé Tony per averla messa in mezzo. Fortunatamente
riprese subito a parlare per evitarle domande imbarazzanti:
«L'ho
fermato appena in tempo, con un po' troppo impeto. Infatti siamo
finiti a combattere in mezzo alla tangenziale...» ammise
Tony, a
disagio.
In
quell'occasione aveva davvero rischiato di ferire o uccidere
qualcuno. Per fortuna, da quanto ne sapeva, c'erano stati solo un
paio di contusi lievi.
«...
causando un'infinità di danni a cose, edifici e
persone,» concluse
Knight, pungente, «Abbiamo un elenco molto dettagliato di
quanto le
verranno a costare i risarcimenti, signor Stark. Trovo ironico che
quella strada sia dedicata proprio a suo padre; immagino sarebbe
lusingato nel vedere come l'ha ridotta.»
Tony
sorvolò sull'osservazione e ribatté pungente:
«Se
c'è una cosa della quale non mi sono mai preoccupato
è la mia
disponibilità economica. Ora, se ha finito di irritarmi,
riprenderei
la mia deposizione,» replicò con distacco.
Era troppo occupato a
cercare di ricordare qualcosa per prestargli veramente ascolto o per
raccogliere le sue provocazioni.
«Poi...
poi. Ho cercato di ragionare con lui, cioè Stane, a parole
ma...
non ha funzionato. Gli ho detto di piantarla e arrendersi e mi ha risposto
scaraventandomi contro un autobus, il che credo possa universalmente
considerarsi come un "no". Quindi ho continuato con le
maniere forti, anche perché lui non aveva nessuna intenzione
di
lasciarmi vivo e non si preoccupava dei "danni collaterali". Ho
cercato di allontanarlo dalla città e di sfuggirgli, ma era
riuscito
anche lui a far sollevare quell'ammasso di metallo da terra. Anche se
era terribilmente lento. E non molto areodinamico... una squallida
imitazion,.» prese tempo, passando al setaccio gli
avvenimenti di
quella sera.
«Volavate
sopra la città?» intervenne Knight.
«Sopra
il terreno delle Stark Industries. In modo che quando fosse
precipitato non avrebbe corso il rischio di ferire o uccidere
nessuno, e mi sarei comunque premurato di deviarne la rotta in caso contrario. Soddisfatto? Grazie,» rispose seccato Tony, che
s'innervosiva sempre più mano mano che iniziavano a
sfuggirgli i
dettagli. «La
sua armatura non era progettata per resistere alle basse temperature,
così è precipitato per un accumulo di ghiaccio
sui propulsori...»
S'interruppe, frastornato.
«Il
mio reattore... quello dell'armatura,» si corresse in fretta,
«funzionava male e ho perso potenza. Credo di essermi
schiantato.
Ricordo solo una forte botta in testa, poi... non so.» Emise
uno
sbuffo di frustrazione: ricordava suoni e sensazioni, ma non quello a
cui corrispondevano.
Un
forte schianto metallico e un colpo alla schiena: doveva essere
stato l'atterraggio sul tetto. Ricordava la gamba che rifiutava di muoversi, poi un dolore lancinante al volto. Infine il nero
totale. Trasalì e dominò l'impulso di portarsi la
mano alla ferita
quando il moncherino si contrasse di riflesso. Prese
un respiro, scuotendo appena la testa. Knight gli aveva chiesto
qualcosa, ma non aveva colto le sue parole.
«Cosa?»
«Come
si è provocato quelle ferite?» scandì
di nuovo l'avvocato.
«Vorrei
ricordare a tutti i presenti la parziale amnesia del mio cliente,»
intervenne
Kyle, serafico.
«Dovrà
pur ricordare qualcosa, anche solo un dettaglio.»
«Signor
Knight, sembra provare gusto a importunare il mio cliente; la prego
di...»
«Signor
Andrews, l'avvocato non sta facendo altro che il proprio lavoro:
porre domande. Terremo conto dell'amnesia del signor Stark, ma questo
non lo esonera dal rispondere.» lo interruppe Stern, con
più calma
del solito.
Lo
sguardo penetrante di Knight si fissò su Tony, che si mosse
a
disagio. Doveva
dire qualcosa... qualunque cosa che...
«Ricordo
solo un lampo blu. Un forte lampo blu,» ripetè, un
po' assente. «E
vetri dappertutto.» scosse la testa, portandosi
inconsapevolmente la
mano alla benda.
Gli
tintinnavano le orecchie e si sentiva ronzare la testa.
«Un'esplosione,
forse. Credo ci fosse del sangue, ed ero sicuramente ferito, ma... non lo
so,» sospirò infine,
confuso, e riportò lo sguardo su Knight, per nulla
impressionato da
quella che probabilmente riteneva una simulazione per scampare al
contro-interrogatorio. «Nient'altro:
il mio successivo ricordo è il soffitto di un
ospedale.»
«Non
è neanche lontanamente soddisfacente, ma ce lo faremo bastare. In
ogni caso
il suo stato fisico attuale potrebbe illuminarci e chiarire le
dinamiche di questo fantomatico scontro.»
Tony
annuì rigidamente, imponendosi la calma. Era strano che
Knight
insistesse così tanto su quel particolare: dove voleva
andare a
parare?
Anche Kyle
era inquieto: tutto ciò non gli piaceva affatto, ma non
poteva
obiettare perché in teoria dovevano essere in grado di
documentare
lo stato di salute di Tony... in pratica non potevano assolutamente
farlo o almeno, non del tutto e in modo veritiero.
«Che
cosa coprirebbe la benda, di preciso?» cominciò il
suo esame
Knight.
«Un
occhio bionico che spara raggi laser, signor Knight,» rispose
impassibile Tony, ma non potè evitare di farsi sfuggire un
sorrisetto in direzione di Ian, che si limitò a scuotere
appena la
testa con un mezzo sorriso sotto i baffi.
Il
messaggio era chiaro: non aveva ancora rinunciato a quella folle
idea...
«Potrebbe
fingere un po' di serietà?» lo rimbeccò
il giudice, che sembrava
aver ormai deciso di non perdonare più le stravaganze di
Tony.
«Va
bene, va bene, nasconde una chirurgia plastica: il mio bel viso
è
rimasto ferito da uno dei vetri prima citati e io non ho intenzione
di andare in giro con uno sfregio da pirata per il resto della mia
vita.»
"Come
qualcuno di mia conoscenza..." aggiunse tra sé, non
propriamente divertito al pensiero.
«Dottor
Mitchell, potrebbe spiegarcelo in termini più
specifici?» sospirò Stern.
Mitchell
sobbalzò come se avesse preso la scossa, ma si ricompose in
fretta:
«Il
signor Stark ha subito un delicato intervento. La pelle allo stato
attuale è estremamente fotosensibile e
l’esposizione a qualsiasi
fonte luminosa sarebbe dannosa,» spiegò conciso.
«Il
braccio è rotto?»
«Spalla
lussata,» replicò Tony, muovendola debolmente
senza aver bisogno di
simulare la smorfia di dolore.
«E
la gamba? Che fine ha fatto?» continuò Knight
serratamente,
convinto che prima o poi qualcosa avrebbe ottenuto.
La
sua pessima scelta di parole accentuò il nervosismo di Tony:
«Me
la sono rotta, avvocato. Pensavo l'avesse notato. Sa, non è
proprio
una cosa che passa inosservata,» asserì
acidamente, desiderando
che fosse realmente così.
«La
caduta sul tetto ha provocato la lesione dei crociati e dei menischi;
inoltre ha la tibia fratturata in vari punti, mentre il
perone...»
Ian stava completamente improvvisando, ma Knight lo interruppe
bruscamente:
«Dove
sono riportati questi dettagli nella cartella medica? Non riesco a
trovarli.»
«Non
c'è stato tempo e modo di verbalizzarli,»
tentò d'istinto
Mitchell, guadagnandosi un'occhiata di rimprovero da Kyle, che aveva
invece preparato una scusa credibile su un ritardo burocratico
dell'ospedale.
«Beh,
non ho di certo un bell’aspetto, devo ammetterlo... direi che
la
giuria può convenire con il dottor Mitchell riguardo alla
mia
precaria salute fisica,» intervenne Tony cercando di salvare
la
situazione, per una volta al momento giusto.
«L'assenza
di referti medici è una grave mancanza, avvocato Andrews. In
questo
caso le prove sono lampanti agli occhi di tutti, ma s'impegni a
presentare tutta la documentazione necessaria,» lo
rimproverò il giudice, fissandolo severamente.
Kyle
si mosse a disagio, ma annuì scusandosi per il ritardo; le
cose non
si mettevano bene... se avessero deciso di constatare tramite un
medico legale le condizioni di Tony sarebbe stata la fine.
«Ah,
e potrebbe spiegarci il perché dei guanti? Pare che il
dottor
Mitchell abbia dimenticato di verbalizzare anche questo...»
Tony
guardò istintivamente Ian, allarmato.
“Reggimi
il gioco.”
«Mi
sono ustionato in seguito all’esplosione del reattore.
Davvero, non
so quanto potreste essere felici di vedere le mie mani in questo
momento,» disse, cercando di risultare convincente e allo
stesso
tempo restio a togliersi i guanti, senza sembrare spaventato.
Non
era affatto facile.
«Se
era vicino al reattore al momento dell'esplosione, mi spiega
perché
non ha ustioni e bruciature anche sul resto del corpo?» lo
stuzzicò
Knight, intuendo di aver imboccato finalmente la strada giusta.
«Pretenderebbe
che allestisca uno
strip-tease qui in tribunale per "mostrare il
mio corpo bruciacchiato"?» tentò di sdrammatizzare
Tony,
sentendosi sprofondare.
«Mi
riferivo al suo viso. A parte l'occhio, è integro e privo di
ustioni.»
«Le
ricordo che la Mark III dispone di un elmo, rivestito di oro e titanio
e resistente ad altissime temperature.»
«Quindi
in teoria anche le mani erano protette.» gli fece notare
Knight,
illuminandosi.
«Mi
sono scottato le mani perché le onde del reattore hanno
interferito
con quelle del mini-reattore causando un surriscaldamento dei
propulsori anteriori,» inventò sul momento,
rifacendosi alla
terribile esperienza del suo interveto chirurgico e dell'interferenza
fra due reattori.
«Perché
non l'ha detto subito?»
«Obiezione:
non l'ha chiesto in modo esplicito. L'imputato ha indicato la fonte
principale dei suoi danni fisici, per cui ha tecnicamente risposto
alla sua precedente domanda,» intervenne Kyle, convinto.
«Respinta.»
dichiarò invece il giudice.
Ci
fu un momento di gelido silenzio in cui Tony si trovò a
desiderare
di poter svanire dal banco dei testimoni in uno sbuffo di fumo.
«Signor
Stark, ho la netta impressione che si stia arrampicando sugli specchi
aggiungendo sempre nuovi dettagli alla sua deposizione per svicolare
alle mie domande, che in realtà ritengo piuttosto
innocue... il che rende il tutto ancora più sospetto,»
continuò perfido Knight. «E
la sua precedente falsa testimonianza non l'aiuta affatto. Dice di
essersi scontrato con Stane, ma non è in grado di spiegarci
nel
dettaglio com'è morto, né come si è
provocato tutte queste
lesioni, ma è in grado di ricordare interferenze tra
reattori e i danni subiti dalla sua armatura senza problemi. Non
è ben chiaro il motivo
del sovraccarico del reattore stesso, visto che mi sembra improbabile
un malfunzionamento nell'istante in cui eravate sul tetto. E per
finire, non è in grado di dimostrare di essere stato nel
pieno
possesso delle sue facoltà mentali mentre si scontrava col
suo
collega,» terminò con soddisfazione.
Tony
si sentì improvvisamente la bocca secca. La situazione
peggiorava di
minuto in minuto...
Pepper
gli aveva detto che era stata lei a sovraccaricare il reattore, su suo
ordine, ma non poteva dirlo... non poteva assolutamente
dirlo.
L'avrebbe coinvolta a sua volta nel processo e lui non aveva
intenzione di ripagare così tutto il tempo e la pazienza che
gli
aveva dedicato in vita sua. Le intimò con lo sguardo di
tacere,
avendo colto un movimento sospetto da parte sua.
«Vuole
aggiungere ancora qualcosa?»
Tony
prese un profondo respiro, sforzandosi di
apparire fiducioso, e si poggiò con fare spavaldo al banco
dei
testimoni sporgendosi appena verso il procuratore.
«In
realtà avrei qualcosa da aggiungere,»
esordì serio, alzando appena
il braccio immobilizzato, del tutto dimentico del tutore.
«Lei,»
puntò pericolosamente l'indice destro in direzione di Knight,
«mi
sta mettendo in difficoltà, lo ammetto. Ma se continua
a...»
Nessuno, neanche lui,
seppe mai come avrebbe voluto finire la frase, perché fu
troncata da
un secco clangore metallico che riecheggiò nell'aula.
Il
tribunale divenne improvvisamente più muto di una tomba.
Tony
fissava ancora Knight, ma gli occhi di questo erano puntati altrove,
allibiti.
Precisamente
per terra, ai piedi del banco dei testimoni.
Tony
prese un respiro profondo e guardò il polso destro ancora
sollevato,
provando un tuffo al cuore.
"Oh,
cazzo."
Si
puntellò sul banco col braccio sano e si sporse per vedere
il
pavimento, dove giaceva inerte la mano della protesi, sfrigolando
appena e animata da un residuo di energia.
Nessuno
sembrava avere il coraggio di parlare.
Erano
tutti pietrificati; persino i giornalisti erano ammutoliti.
"Parla,
Tony. Avanti, di' qualcosa. Qualunque cosa, anche
la più
stupida!"
«Qualcuno
mi dà una mano?»
______________________________________________________________________________________________________________________________________
Revisione effettuata il 21/02/2018
Note Delle Autrici:
Ed ecco un capitolo lungo il triplo dei precedenti... Ops, c'è scappata la mano!
E ora Tony è ancora più nei casini... ma se la caverà, in un modo o nell'altro. C'è ancora tanto tempo... :3
Ringraziamo Rogue92 e alliearthur, che continuano a seguirci e a recensire :D Vi amiamo <3
Alla prossima!
Moon&Light
© Marvel
|
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Capitolo 12 *** Sinking ***
11
Sinking
"Tension
is building inside steadily
Heavy thoughts forcing their way out of me
Trying not to break but I'm so tired of this deceit
Every time I try to make myself get back upon my feet"
[From The Inside
– Linkin Park]
4
Marzo, 23:30, Villa Stark
La
voce di Pepper squillava penetrante nelle sue orecchie, accentuando
il suo forte mal di testa. Ci fu una pausa nella sfilza serrata di
parole che gli bombardavano il cervello e per un momento
pensò che
avesse finito e che potesse finalmente godere di un attimo di
silenzio. Poi la donna riprese, con più foga di prima ma a
un volume
paradossalmente pacato:
«Lei non capisce il problema.»
«Non
capisco? Con che coraggio afferma che non capisco?»
ribatté
lui, decidendosi finalmente a risponderle.
«Tony, si rende conto
che non ha seguito una
virgola
di
quanto avevamo stabilito e ha fatto di testa sua? Come
sempre.»
La sua accusa cadde nel vuoto. Lui sprofondò nuovamente
nel suo silenzio burrascoso e lei fece altrettanto, camminandogli
accanto a passi nervosi mentre lui zoppicava lentamente sul patio
antistante l'ingresso. Il ticchettio dei suoi tacchi era quasi
tonante nel silenzio del giardino e dava un'idea di quanto fosse
irata la donna che li indossava. Era sicuro che la sua testa si
gonfiasse sempre più ad ogni passo che raggiungeva i suoi
timpani;
anche i moncherini non gli davano tregua. Maledisse il momento in cui
aveva rifiutato la sedia a rotelle appena sceso dalla macchina, ma
piuttosto che chiederla adesso si sarebbe fatto amputare anche l'altra
gamba.
Si poggiò un po' sulle stampelle, un po' sul gesso che
iniziava a cedere, e premette il pollice sinistro sul touch-screen
dell'ingresso per aprire la porta. Accolse lo scatto della serratura
con sollievo, impaziente di rientrare finalmente a casa.
Entrò
nell'atrio inspirando l'aria conosciuta, così accogliente
dopo
quella stantia del tribunale. Pepper fremeva subito dietro di lui, ed
era sicuro che stesse facendo del suo meglio per mantenere un
contegno. Ora che ci pensava, trovava irritante che lei riuscisse
a rimanere così calma. Non sentiva il bisogno di prendersela
con
qualcuno? Con lui, per l'esattezza.
Poteva farlo, quindi perché
diavolo aveva smesso di rimproverarlo? Almeno lei aveva qualcuno
con cui prendersela... lui chi aveva?
Se stesso? Stane?
"Quel
maledetto bastardo..."
Chiuse la porta sbattendola e Pepper
sobbalzò.
«Dovete piantarla di decidere al posto mio,»
sillabò
poi sforzandosi di non alzare la voce, anche se la sentiva sul punto
di impennarsi ad ogni parola.
«Siamo tutti preoccupati per lei e
stiamo cercando di aiutarla, lo vuole capire?»
Tony
voltò un poco la testa, rivolgendole il suo lato cieco per
non farle
notare che aveva chiuso l'occhio, disorientato da un'inaspettata ondata
di dolore
che gli aveva attraversato i moncherini e scosso la spina dorsale.
«E mi ascolti quando parlo!»
a
questo punto fu Pepper a superare la soglia di decibel che le sue
orecchie potevano ancora sopportare.
«Mi sembra difficile non
ascoltarla, dato che sta urlando!»
esplose,
girandosi di scatto verso di lei e ritrovandosi a gridare a sua
volta.
Lei si fermò allibita: non l'aveva mai sentito alzare
la voce, tantomeno con lei.
Dopo qualche secondo di silenzio li
accolse la voce compassata di JARVIS:
«Signore, ci sono...»
«Muto!»
ringhiò Tony,
già abbastanza infastidito dalla ramanzina di Pepper.
«È andato
tutto...»
ricominciò
lei, affranta, stavolta faticando a mantenere la calma.
«... a puttane?
Ha perfettamente ragione, da cosa l'avrà mai dedotto,
Potts?»
«Non
ne parli come se fosse colpa mia!»
s'infiammò
lei. «È stato
lei a voler per forza andare al processo con la
protesi incompleta! Sapeva che qualcosa poteva andare storto e ha
comunque...»
«Le dico io cos'è andato storto: quel dannato
procuratore è andato storto; lui e il Senatore! Mi hanno
fatto
infuriare, se proprio lo vuole sapere! Avrebbero potuto...»
«Non
ha neanche lontanamente pensato che il loro scopo fosse proprio
quello di istigarla?»
lo
interruppe Pepper, gli occhi ridotti a due fessure.
Tony la fissò
con improvvisa consapevolezza, ma non avrebbe mai, mai ammesso di
aver sbagliato...
«L'accusa punta sul fatto della sua presunta
instabilità, e lei gliene ha dato una prova
lampante!»
«Ah,
quindi adesso sarei instabile.»
«Non
rigiri come vuole quel che dico! Non è instabile, ma
è apparso come
tale!»
sbottò
esasperata Pepper.
Tony voltò di nuovo la testa, inspirando
piano e scosso da una nuova fitta. Prima che Pepper potesse
accorgersene tornò alla carica, sentendo le parole che
uscivano come
bile dalla sua bocca:
«Se davvero pensate che non sia instabile,
perché mi avete nascosto quel video?»
Vide
Pepper trasalire nella penombra del salotto.
«Abbiamo pensato di
evitarle...»
«Cosa? Altro stress?»
completò
lui, ironico, accennando a se stesso con fare eloquente. «Mi
avete mentito,» stabilì
infine, tagliente.
«Sta esagerando, non mi sembra un questione
così...»
«Potts,
maledizione! Davvero
non
capisce?»
proruppe
Tony, di nuovo ad alta voce e sentendosi caldo in viso.
Pepper ammutolì,
sorpresa dall'improvvisa, pura rabbia che trasudava la sua voce.
«Stane mi ha mentito e tradito!
Mi ha ingannato per
venti
cazzo
di anni con un sorriso sulla faccia e poi mi ha venduto ai miei
carnefici!»
gridò
con quanto fiato aveva in gola. «E io mi sono fidato
di
lui!»
riprese
fiato, sentendosi bruciare non solo in viso, ma dentro, nel profondo,
in un punto indefinito accanto al reattore.
Pepper lo fissava
allibita, forse anche offesa da quelle sue affermazioni, ma non gli
importava. Era stanco di essere manipolato e tenuto all'oscuro di
tutto ciò che non fosse ritenuto "su misura" per lui.
«Noi
non faremmo mai nulla del genere,»
replicò
in tono piatto, quasi distaccato.
«Come faccio ad esserne
sicuro? Oggi è un video, domani cosa
sarà?»
«Lei
è ridicolo! Come può anche solo pensare che io
possa
tradirla?»
Pepper
alzò di nuovo la voce e Tony volle pensare che i suoi occhi
lucidi
fossero solo un riflesso della luce fioca.
«Se lo penso
evidentemente ho i miei motivi!»
«Allora
continui a pensarlo! Mi sembra un ottimo momento per diventare
paranoico!»
la
voce di Pepper virò sullo stridulo.
Si interruppe, quasi
affannata. Si chiese quando fosse stata l'ultima volta che avevano
litigato a quel modo.
Mai, ora che ci pensava; non l'aveva mai
visto perdere il controllo. E mai, mai
avrebbe
pensato di sentirgli dire che non si fidava di lei. Era come ricevere
una stoccata al cuore.
Erano ancora nell'atrio, fronteggiandosi
furiosi, e stavano gridando decisamente troppo. Era una fortuna che
la villa fosse così isolata dal mondo.
Lui scosse la testa e fece
per dire qualcos'altro per contrastare la sua ultima affermazione, ma
si bloccò con un verso esasperato. Si diresse invece in
cucina,
dove prese con non poca difficoltà una lattina di birra dal
frigo, facendo del suo meglio per non cadere. Pepper
lo fissò ancor più furente:
«Bere non...»
«... risolverà
nulla, lo so! La pianti, Potts, sono due mesi che bevo solo acqua e
clorofilla. Non voglio diventare Howard II: mi bastano i miei
problemi, se non se ne fosse accorta,»
la
interruppe pungente.
Bevve con sollievo un sorso dell'alcolico.
«È
anche colpa di Kyle,»
disse
dopo una pausa, liberando anche quell'ultimo bolo di
risentimento.
Pepper era convinta di non poterlo sopportare un
secondo di più.
«Di Kyle? Perché secondo lei non è
stato
all'altezza, ovviamente.»
«No,
perché l'ha appoggiata nella sua decisione di trattarmi come
un
bambino,»
ribatté
lui con stizza.
«Forse perché ha bisogno di essere
trattato
così. Ha tentato per tutto il processo di salvare il
salvabile a
causa sua, nel caso non se ne fosse accorto,»
lo
rimbeccò lei, gelida. «Giocare a scaricabarile non
aiuterà nessuno,
quindi per una
volta
in
vita sua ammetta semplicemente di aver sbagliato.»
«L'ho già
fatto "una volta"! Ho ammesso di aver ucciso migliaia di
persone per denaro e mi sembra di aver cercato di rimediare! Non mi
pare invece che questo fatto sia stato gradito dal resto del mondo,
visto come sono ridotto!»
si
costrinse a bere un altro sorso per mascherare la vena di
disperazione che si era intromessa nella sua voce. «Questa
è
un'altra faccenda: io ho ragione e loro stanno cercando di mettermi
dalla parte del torto. E probabilmente ora tenteranno anche di
sequestrarmi la protesi...»
«Non è una faccenda ridotta al suo
piccolo: se le Stark Industries dovessero mai cambiare proprieterio
interesserà tutti, perché è ovvio che
ricominceranno a produrre
armi per l'esercito! Ma immagino che non ci avesse pensato.»
Tony
incassò il colpo, dirigendosi zoppicando in salotto, con la
lattina
tenuta precariamente con la sinistra mentre manovrava le
stampelle.
«Almeno la smetta di assillarmi con la faccenda di
Iron Man. Era più che ovvio che fossi io e negarlo avrebbe
solo
peggiorato la situazione. E poi a loro interessa solo la tecnologia
dell'armatura, non Iron Man in sé. A chi importa di Iron
Man?»
«A
noi, per esempio,»
rispose
una voce profonda dal buio del salotto.
Tony e Pepper si
immobilizzarono, come pietrificati. D'istinto lui impugnò un
po' più
saldamente una stampella, come se potesse usarla come arma. La TV a
parete
era accesa, ora che lo notava, e trasmetteva in silenzioso una
replica del suo processo in differita; una sagoma scura si stagliava
nel flebile cono di luce che proiettava. Gli sembrava di conoscere
quella voce.
«Chi c'è?»
intimò,
sul chivalà.
«Non si preoccupi, Stark. Solo vecchi amici,» emerse
un'altra voce, più compassata della prima e decisamente
familiare.
La
sagoma si mosse.
«Luce,»
borbottò
Tony.
Non era assolutamente preparato a quello che vide: il suo
salotto sembrava diventato il quartier generale dei Vendicatori.
Thor
era beatamente abbandonato sulla sua poltrona e sorseggiava
tranquillo una bottiglia di whiskey stravecchio, avvolto come sempre
nelle sue vesti asgardiane, con Mjolnir che pendeva dalla cintura.
Steve sedeva più composto su un'estremità del
divano semicircolare
che occupava il centro della stanza; era in abiti civili e si guardava
intorno con fare nervoso, come se si sentisse disarmato senza il suo
scudo. Bruce aveva occupato l'altra estremità del divano
e
sembrava intento ad esaminare un componente delle protesi rimasto
abbandonato sul tavolo. Hawkeye se ne stava in disparte vicino alla
vetrata, in tenuta da combattimento; a giudicare dal volto tirato ed
escoriato sembrava appena rientrato da una missione. Fury era in
piedi accanto alla tv, vicino a Coulson semicelato nell'ombra.
Mancava solo Nataša.
Tony ci mise un po' a riprendersi dallo
stupore e stentò a fatica un saluto malfermo.
Scambiò un'occhiata
con Pepper e lesse sul suo volto lo stesso sconcerto. Si frappose tra
lei e i suoi ospiti inattesi in un gesto istintivamente protettivo: era
la prima volta che si trovava faccia a faccia coi suoi "colleghi" e il
fatto che potesse essere suo malgrado coinvolta in prima persona nelle
loro questioni tutt'altro che ordinarie lo impensieriva.
«Ottima
performance, i miei complimenti,»
commentò
Fury, indicando col pollice lo schermo dietro di sé, dove si
vedeva
Tony che rispondeva con un'espressione stizzita a una qualche domanda
di Knight.
«JARVIS, ti si sono fusi i sistemi di sicurezza?
Perché diavolo sono riusciti a entrare?»
articolò
invece Tony, di nuovo in sé e decisamente seccato
dall'intrusione.
Cercava
di ignorare lo schermo, mentre Pepper lo guardava storto.
«Il
dottor Banner ha minacciato di radere al suolo la casa se non li
avessi fatti entrare,»
rispose
l'intelligenza artificiale, con logica inattaccabile, e Bruce
approntò un
sorrisetto di scuse.
Tony ondeggiò appena nella posizione di
precario equilibrio in cui si trovava. Aveva la terribile
consapevolezza di quanto fossero evidenti la mano mancante, il
gesso della gamba, la benda che gli copriva il volto...
Non poté
evitare che una vampata di bollente disagio gli salisse alle guance.
«Capisco...
posso sapere cosa ci fate qui?»
chiese
in tono tutt'altro che conciliante.
«Mi sembrava chiaro, Stark,»
intervenne
Coulson, arcuando le sopracciglia e accennando col capo alla TV.
«Va
bene, va bene, ho capito: altra predica in arrivo. Ma... vi siete
presentati qui senza preavviso, e questo mi irrita. Perciò
aspetterete finchè non sbrigherò le mie
faccende,»
chiarì
subito, lasciando trapelare tutto il suo fastidio.
Steve fece una
smorfia a quell'annuncio, ma non commentò, assumendo un'aria
di
superiorità che esprimeva fastidio per tutto ciò
che lo circondava,
incluso il suo proprietario.
«Dove va?»
chiese
Tony subito dopo, rivolto a Pepper che stava per allontanarsi dal
salotto.
«Lei si scusa con loro,»
accennò
ai Vendicatori, «e io mi scuso con Kyle, visto il modo
vergognoso in
cui l'ha trattato,»
concluse
tagliente, mostrando il cellulare.
Tony intuì subito a cosa si
riferisse, ma non rispose.
«E cerco un modo per placare il caos in cui verseranno le
Stark Industries in questo momento.
Sempre che le interessi, ovviamente,»
aggiunse.
Pepper
si dileguò nell'altra stanza, lasciando dietro di
sé un'aura di
tensione. Tony sapeva di avere gli occhi di tutti puntati addosso, e
questo per una volta non gli piaceva affatto.
«Fantastico.
Davvero fantastico,» borbottò tra sé,
spostando le stampelle per equilibrarsi
meglio senza farsi cadere la birra di mano.
Almeno la gamba
ingessata gli garantiva un po' più di stabilità.
Doveva
assolutamente riparare la mano della protesi, anche perché i
Vendicatori fissavano con malcelato interesse la manica vuota della
giacca.
«Ehi, tranquilli. Non sto per cadere a pezzi di
nuovo,»
li
rassicurò, tentando di rompere la tensione.
Tentativo
vano.
«Seriamente: mi sta andando in cancrena il braccio sano,
quindi qualcuno mi faccia posto... adesso,»
disse
allora con un tono più autoritario, fissando con eloquenza
Thor che
occupava la sua
poltrona.
Dopotutto era in casa propria.
Lui capì l'antifona e saltò
in piedi, mollando il whiskey. Tony si sedette di peso con immenso
sollievo e una vaga soddisfazione per aver appena fatto alzare il
didietro di un semidio e principe asgardiano con tanta
celerità. Non
trattenne un sospiro liberatorio quando la pressione del gesso
finalmente sparì dal moncherino inferiore: poteva anche
essere
comodo per spostarsi, ma era decisamente pesante e gli irritava la
piaga, senza contare che aveva anche tre o quattro chili di protesi
al braccio. Avrebbe davvero dovuto alleggerirla...
Poggiò la lattina
sul portabevande della poltrona e spostò la sua attenzione
alla sua gamba,
o il
poco che ne era rimasto. Controllò la fasciatura nel modo
più
discreto possibile, trovandola pulita e asciutta. Almeno
quell'incombenza poteva aspettare. Lasciò ricadere il bordo
del
pantalone arrotolato a coprirla, consapevole degli sguardi che
cercavano di dissimulare il loro interesse.
«Mentre discuteremo
amabilmente, io cercherò di riparare questo rottame... ma vi
presterò tutta l'attenzione necessaria,»
annunciò
ironico, cavando dalla tasca della giacca la mano metallica
inerte.
Udì distintamente il sospiro di Fury e un commento che
non comprese da parte di Hawkeye, ma nessuno si arrischiò a
interrompere i suoi traffici.
«Bruce? Ti dispiace? Quello è
importante,»
lo
richiamò allarmato, indicando il componente meccanico con
cui aveva
continuato a giocherellare distratto; lui si affrettò a
riporlo sul
tavolo.
Tony afferrò a colpo sicuro un cacciavite sepolto tra i
cuscini della poltrona e iniziò ad armeggiare con la
protesi,
insensibile al silenzio imbarazzante che era calato nella
stanza.
«Signore, l'effetto dei suoi antidolorifici sta...»
iniziò
a gracchiare JARVIS, come sempre al momento meno opportuno.
Era
veramente
arrivato
il momento di installare un chip avanzato di buonsenso a quel
supercomputer.
«Muto. Prova a spacciarmeli ancora nel caffè e ti
disabilito la facoltà decisionale,»
lo
troncò seccamente Tony, ancora infastidito da quel fatto.
Anche
se forse, in quel momento, qualche pasticca non gli avrebbe fatto
male... anzi. Si costrinse a ignorare il bruciore ai
moncherini. Riuscì finalmente a riagganciare la mano alla
struttura portante in modo molto rudimentale: se muoveva l'indice
rispondeva il pollice, l'anulare corrispondeva al medio e
così via,
ma abituandosi a questo schema riusciva a controllarla abbastanza
bene, anche se non a ruotare del tutto il polso, e i movimenti erano
comunque abbastanza deboli e goffi. Sarebbe bastato, per quella
sera.
«Allora? Avete intenzione di abusare della mia limitata
pazienza ancora per molto?»
sbottò
infine, stringendo il pugno e sciogliendosi l'articolazione
meccanica con un cigolio sotto gli sguardi evidentemente colpiti
degli altri.
«Tony Stark, non siamo venuti fin qui solo per
rimproverarti; molti sono qui anche per accertarsi delle tue
condizioni di salute,» esordì
Thor, con voce profonda e il suo solito fare un po'
all'antica.
«Posso immaginare chi non sia incluso nei "molti",»
concluse
Tony scoccando un'occhiata astiosa a Steve, che si accigliò
senza però
contraddirlo.
«Non ci aspettavamo questo. Nessuno di noi poteva
immaginarlo. Fino a questa sera ne eravamo all'oscuro.»
Thor
accennò alla protesi e al processo che continuava a scorrere
sulla
parete-TV. Guardò di sfuggita anche Fury, con una nota di
risentimento, e fu chiaro di chi fosse stata la decisione di tenerli
all'oscuro.
«Non sono l'unico a cui viene riservato un
trattamento speciale per le informazioni, allora... che sollievo. Il
vostro stupore è perfettamente comprensibile: non
è una cosa che si
vede tutti i giorni, immagino... cielo, avevo davvero quella faccia
quando mi è caduta la mano?»
commentò
poi, vedendosi sullo schermo con il braccio teso e la mano a terra,
un'espressione allibita sul viso.
I successivi fotogrammi
mostravano l'aula in uno stato di agitazione totale.
«Già,
davvero. Pessimo modo per salvare la situazione, per
inciso,»
intervenne
Fury, fremendo.
Non l'aveva mai visto così irato; sembrava
trattenersi a stento dall'ordinare che lo facessero fuori, ma Tony
sperò
che fosse solo una sua impressione. Bevve un altro sorso di birra come
a
scongiurare il pericolo e riportò lo sguardo allo schermo:
vide se stesso che usciva dal tribunale attorniato dai giornalisti,
incapacitato ad evitarli per via della sedia a rotelle, e
notò la
propria espressione a metà tra la furia e il panico. Non
osò
immaginare i commenti che potevano aver fatto su di lui, viste le
cose irripetibili che si era lasciato sfuggire in preda alla
rabbia...
«Ok, basta con questo teatrino. Off,»
ordinò,
non potendosi sopportare un momento di più, e la TV si
spense
all'istante con un sibilo.
Avrebbe voluto spegnere anche i suoi inattesi ospiti, se solo avesse
potuto.
«Per farla breve, caro "Iron Man", la ramanzina della
signorina
Potts non è ancora finita,»
annunciò
Coulson, che non aveva perso la sua sottile vena di
giovialità.
«Oh.
Avete sentito...»
commentò
Tony, adesso decisamente imbarazzato. «Beh, eravamo tutti e
due
piuttosto nervosi, ecco, ma le cose sono perfettamente sotto
controllo,» svagò,
liquidando
la questione con nonchalance, di sicuro molta più di quanta
ne provava in merito al fatto.
Fury continuava a
squadrarlo da capo a piedi col suo unico occhio, e per una volta Tony
fu in grado di sostenere il suo sguardo: stavolta sapeva dove
guardare. Era terribilmente fastidioso essere fissati nell'occhio
cieco. In quel momento rientrò proprio Pepper, scura in
volto.
«Detesto interrompervi, ma...»
«Non ha ancora
interrotto nulla, Pepper, parli pure liberamente,»
la
anticipò Tony, vedendola come una provvidenziale ancora di
salvezza per
ritardare
quell'imbarazzante discussione.
Fury fece un rassegnato cenno
d'assenso, invitandola a continuare. Pepper sembrava decisamente a
disagio, ma parlò con voce ferma:
«Kyle ha espressamente detto
che, se farà un'altra “performance” del
genere, abbandonerà il
caso senza rimpianti. E pretenderà comunque il suo
compenso,»
annunciò,
mortalmente seria.
Tony sospirò, tamburellò distratto sul
reattore sotto la camicia e infine annuì appena.
«Mi sembra
onesto,» concesse, senza troppo
entusiasmo.
«E domani dovrò prendere parte a una riunione
gestionale
straordinaria alle Stark Industries al posto suo. Mi serve la sua
delega.»
«Firmo
tutto ciò che vuole, a patto che impedisca a quegli squali
del
consiglio d'amministrazione di firmare ordinanze
restrittive,»
borbottò lui, massaggiandosi la fronte esasperato.
«Farò il possibile,» replicò lei, in un
tono che sottintendeva che non vi fosse comunque molto da fare. «È tutto. Io
non mi sento in alcun modo “super”, quindi credo
che...»
iniziò,
facendo per andarsene, ma fu interrotta da Tony:
«No, rimanga, la
prego. Abbiamo bisogno di qualche quota rosa, visto che manca
Nataša,»
disse
in tono falsamente brioso e appellandosi alla prima motivazione che gli
venne in mente.
Si sentiva visibilmente circondato e
sotto attacco e una spalla amica gli avrebbe fatto comodo, nonostante
il diverbio di poco prima. Al pensierò si
ritrovò ad
accigliarsi, sentendosi anche
profondamente in colpa nel coinvolgerla nelle proprie faccende "super"
andando contro ai suoi iniziali buoni propositi. Pepper ebbe la netta
impressione che il suo gesto
fosse volto anche a irritare Fury, e fissò quasi implorante
quest'ultimo.
«Va bene. Rimanga, Potts,»
concesse
lui, distruggendo le sue speranze di defilarsi all'istante.
Si
sedette accanto a Bruce, dal lato di Tony ancora sprofondato nella
poltrona, sentendosi terribilmente osservata.
«Non mi guardi
così; non divento così facilmente un mostro verde
rabbioso,»
la
tranquillizzò subito Bruce con ironia, e lei
annuì con una punta di
nervosismo.
Lanciò una breve occhiata a Phil, cercando un
minimo di supporto morale, e l'agente Coulson ricambiò il
suo
sguardo
con un sorriso flemmatico ma rassicurante.
Ci fu un momento di silenzio, durante
il quale i Vendicatori si guardarono l'un l'altro, aspettando che
Fury cominciasse a parlare. Lui sembrò volersi assicurare
che
non ci sarebbero state ulteriori interruzioni, poi cominciò:
«Ottimo.
Se abbiamo finito con i convenevoli, arriverò dritto al
punto,» esordì stentoreo,
facendosi avanti fino a portarsi esattamente davanti a Tony.
«Stark, devi piantarla di agire
di testa tua. Non è la prima
volta
che lo fai e questo tuo atteggiamento mi ha sempre molto irritato. E
sai che non è il caso farmi irritare. Ti avevo
già avvertito
riguardo alla faccenda dell'identità segreta: doveva
rimanere
tale. E naturalmente tu hai ignorato di nuovo i miei ordini.»
Tony
ebbe la netta sensazione di star ascoltando una delle filippiche di
suo padre riguardo al suo scarso senso di responsabilità, ai
suoi
mille difetti, al suo caratteraccio, al suo essere irrecuperabile... bla
bla bla.
Scollegò il cervello per i successivi minuti della predica e
poi, approfittando di una pausa nel discorso, intervenne con
decisione:
«Voi non vi siete esattamente prodigati per
"tutelarmi", se è per questo. L'ho già ripetuto
mille
volte alla qui presente signorina Potts: era lampante che io fossi
Iron Man... insomma, mi hanno ritrovato con l'armatura addosso,
qualcuno prima o poi avrebbe parlato!»
Fury
scambiò uno sguardo perplesso con Coulson.
«Il Colonnello Rhodes
non vi ha informati?»
chiese
quest'ultimo.
«Di cosa?» lo incalzò Tony, sorpreso.
«Ho affidato a Rhodes il compito di coordinare e coprire
l'intervento di
un'unita medica della
SHIELD di assoluta fiducia. È stato portato in ospedale solo
dopo
che le avevano rimosso l'armatura e anche lì è
rimasto in
isolamento, sorvegliato dai nostri agenti... paparazzi a
parte,»
aggiunse
con stizza e con uno sguardo grato a Pepper, che era riuscita a
tenerli a bada egregiamente. «La notizia non era
trapelata,»
concluse con fermezza.
Tony lo fissò spiazzato: Rhodey non gli
aveva detto nulla del genere!
«Ma io non ne so assolutamente...»
"A meno che..."
Non completò la frase,
folgorato da un ricordo improvviso che aveva completamente rimosso:
lui che cacciava di casa l'amico dopo che l'aveva interrotto mentre
lavorava. Rhodey non aveva visto le protesi e non sapeva nulla della
sua situazione. Aveva semplicemente pensato che non volesse il suo
aiuto, ed evidentemente non aveva ritenuto opportuno informare
Pepper al riguardo.
"Dannazione."
Pepper era arrivata
alla stessa conclusione e sembrava, se possibile, ancor più
furente
di poco prima.
«Io credo che... abbia provato
ad
avvertirmi, ma mi ha sorpreso in un momento particolarmente delicato
e, insomma...»
si
sforzò di dire, sentendosi per una volta un vero idiota.
La sua profonda
autostima sprofondò di qualche tacca. Come se non bastasse,
sentiva che Pepper stava riuscendo nell'intento di incenerirlo con lo
sguardo, là dove Fury aveva fallito.
«Non gli hai dato retta:
l'avevamo intuito,»
commentò
Rogers pungente, rompendo il suo mutismo.
«Ehi, mi ha mandato in
fumo mezzo chilo di unobtanium: immagina qualcuno che butta in una
caldaia mazzette delle tue banconote, e avrai un'idea della
scena,»
sbottò
lui, piccato dal suo tono di condiscendenza. «E tutto
ciò non
sarebbe successo se le vostre direttive fossero state più
chiare!»
aggiunse.
«"Massima riservatezza", Stark, cosa c'è da
capire?»
lo
rimbeccò Steve, che sembrava essersi rianimato solo per
infastidirlo.
«Vi prego, non ricominciate,»
borbottò
Bruce, esasperato dall'ennesimo battibecco tra i due.
Hawkeye
mormorò un commento simile alzando gli occhi al cielo, poi
alzò la
voce:
«Potremmo arrivare al punto?»
«Giusto, Legolas!
"Potremmo arrivare al punto?" Sono ore che cerco di capire
qual è il punto!»
esplose
Tony, che si sentiva crollare di stanchezza e percepiva ogni goccia di
stress che si accumulava pericolosamente.
Non era un tipo
paziente e quella faccenda l'aveva esaurito nel profondo: ogni stilla
di tolleranza rimasta in lui era evaporata non appena aveva sentito
la voce di Rogers. Aveva voglia di spaccare qualcosa per la
frustrazione. Possibilmente la propria testa, così forse
avrebbe
smesso di pulsargli dolorosamente. O magari quella di Cap. La
birra non stava migliorando la situazione.
«Ho molte, troppe
faccende da sbrigare, quindi condensate tutto ciò che avete
ancora
da dirmi in mezzo minuto, prima che vi sbatta fuori di qui,»
riprese,
stavolta glaciale.
Scolò in un sorso l'ultimo goccio della
lattina, attendendo che qualcuno si decidesse a parlare.
«Molto
bene,»
concesse
Fury, a malapena padrone di sé. «Ricordi quando ti
abbiamo
detto, dopo la tua valutazione, che non eri psicologicamente
idoneo al progetto Vendicatori?»
«Oh, certo, come fosse ieri.
D'altra parte, ormai sono abituato ad essere definito "instabile".
Siete tutti piuttosto ripetitivi.» A
quel punto scoccò un'occhiata sbieca a Pepper, che la
sostenne
imperturbabile «Ma vedo che continuate comunque a far uso dei
miei "piccoli contributi", tipo portaerei volanti, Quinjet e padelle in
vibranio,» concluse con un cenno del
mento in direzione di Steve, per poi pentirsene nel
realizzare le
implicazioni.
«Howard ti ha detto...»
cominciò questi,
spiazzato, e Tony si rimediò un'occhiata ammonitrice da
parte di Coulson.
«Andiamo, pensi davvero che non sappia del
Progetto Rebirth? Mio padre mi ha ammorbato con la favoletta del
supersoldato per vent'anni. E poi giocavo con una copia del tuo frisbee
da guerra
quando
sapevo a malapena camminare. Faceva davvero una bella figura in
laboratorio... un po' meno in mano tua,»
osservò
con leggerezza, e vide il soldato stringere con forza la stoffa dei
pantaloni, la mascella rigida.
Fury sembrò non dar peso a quell'acido scambio di battute
e riprese impassibile il suo discorso.
«Stark, abbiamo deciso che
adesso non sei fisicamente
idoneo al progetto Vendicatori. Siamo qui per discutere della tua
esclusione definitiva dalla squadra.»
Tony ci mise un po' a
comprendere appieno quel che aveva appena detto Fury e un'espressione
neutra e assente aleggiò sul suo volto per una decina di
secondi,
durante i quali calò un pesante silenzio. Infine si
udì uno
sgradevole stridio metallico che ferì loro le orecchie: Tony
aveva
stretto con forza il pugno meccanico e deformato la lattina di birra
alle dimensioni di una pallina, imprimendovi il calco del suo
palmo.
Fece dei respiri profondi per contenere la
rabbia.
«Fisicamente
non
idoneo?»
ripetè,
con la testa china e la voce forzatamente calma che sembrava sul
punto di esplodere in un grido.
Lasciò cadere a terra il rottame,
che rimbalzò con un tintinnio eloquente.
«Ma certo... capisco
perfettamente. È bello vedere come ti diano già
per spacciato,»
commentò
con pesante sarcasmo, rialzando appena lo sguardo.
«Come pensi di riprendere il tuo ruolo conciato
così? Tanto
più che non sei mai stato davvero un Vendicatore,
Consulente,»
intervenne
duramente Steve.
Tony si voltò di scatto verso di lui, non trovando sul
momento le parole per ribattere, ma alla fine
parlò:
«Non ho assolutamente idea di come farò. Fatto sta
che
adesso sono qui, a sperimentare una tecnologia inedita che
apparentemente funziona a meraviglia,»
commentò,
facendo un sospiro profondo per calmarsi.
"Non peggiorare le
cose. Non. Peggiorare. Le cose," si ripetè come un mantra,
ma
riusciva a stento a pensare: controllarsi andava ben oltre le sue
possibilità.
Voleva solo uscire di lì, stendersi sul letto e
disconnettersi fino al giorno dopo. Coi computer funzionava, no? Si
riavviava il sistema e tutto tornava come nuovo. Perché non
poteva essere lo stesso anche per gli esseri umani? Non gli sembrava di
chiedere troppo, in confronto ai suoi ultimi desideri.
Sentì la
mano di Pepper che gli sfiorava discretamente il ginocchio, in un
chiaro invito a calmarsi, ma era stanco di sentirsi dire quello che
doveva e non doveva fare, come se non fosse già abbastanza
limitato
dal suo corpo. E chissà quante altre cose gli stavano
nascondendo... il solo pensiero gli spalancò un abisso nel
petto.
Si sentì in trappola, con le spalle al muro: stava per
essere tagliato
fuori, scartato dall'unica cosa giusta
che
avesse fatto in vita sua. Escluso da quella combriccola
sgangherata e instabile che in un certo senso aveva cominciato a
considerare come un gruppo di amici. Degli amici molto, molto
difficili da gestire, a volte detestabili e spesso insopportabili, ma
era meglio che essere completamente solo – o quasi
– nel suo
guscio.
Ripensò alle parole di Pepper: stava davvero diventando
paranoico? A lui quello sembrava cupo realismo.
«Su che basi
affermate che io non sia in grado di tornare a essere Iron
Man?»
riprese, in tono molto alto.
Magari Iron Man era distrutto. Ma era lui
Iron
Man, ed era ancora vivo. Perché si comportavano tutti come
se fosse
morto insieme a lui?
Forse lo era, realizzò con un
sussulto. Quei pensieri sconnessi continuarono a riproporsi nel suo
cervello, disorientandolo.
Thor e Bruce non parlavano, ma erano entrambi molto
accigliati, come se non fossero soddisfatti della piega che stava
prendendo la situazione. Pepper evitava il suo sguardo, ma
percepiva con disagio la sua preoccupazione.
«Stark, cerca di
ragionare: anche ammettendo che tu ce la faccia, ci vorrebbe troppo
tempo, e nel mentre...»
iniziò
Hawkeye, nel tono più pacato possibile, ma esitò
a completare la
frase.
Non che ce ne fosse bisogno: Tony sapeva cosa intendeva.
Lo capiva fin troppo bene e sentiva crescere la sua frustrazione di
minuto in minuto, sommata a una rabbia cieca e irragionevole,
perché
in fondo sapeva che avevano ragione... semplicemente troppa per
dargliela vinta.
Steve intervenne a completare le parole di
Barton:
«Saresti un peso per tutti noi. Non possiamo permetterci
di avere tra noi un "mezzo supereroe"...»
Tony
si
irrigidì nel presagire il resto della frase.
«... tantomeno un
"mezzo uomo".»
«Rogers.»
La
voce di Bruce si levò stranamente fredda, ma Tony lo
fermò con
un'occhiata eloquente prima che potesse aggiungere altro: non aveva
anche bisogno di qualcuno che parlasse al posto suo.
«Almeno io
mi sono costruito da solo; e non credere che l'abbia voluto
veramente. Non ho avuto bisogno di pregare qualcun altro per farmi
diventare "super". Vero, ragazzo di Brooklyn?»
ribattè
in tono basso e tagliente.
Steve contrasse la mascella, punto sul
vivo.
«Tony, calmati anche tu,»
intervenne
Banner. «Sappiamo tutti che per te è stata una
brutta giornata,
ma...»
continuò,
nel tentativo di stabilizzare il diverbio.
Non gli piacevano affatto
le situazioni tese e nervose.
«Brutta giornata?»
Tony
alzò le sopracciglia, falsamente stupito. «E
perché mai? Una
brutta giornata è quando ti svegli una mattina con due arti
e un
occhio in meno. Ecco, quella
è
una brutta giornata. Oggi, per i miei ultimi standard, è
stata una
giornata quasi piacevole.»
Il gelo pervase il gruppo, ammutolito
a quell'ultima affermazione.
«Propongo una votazione per decidere
la sorte dell'uomo di ferro,»
si
levò stentorea la voce di Thor, rimasto ad osservare i loro
battibecchi in un cupo silenzio.
Tutti gli sguardi si spostarono
su di lui, compreso quello di Tony, sorpreso nel trovare un
sostenitore in quel momento. Fury sembrava aspettarsi un'evenienza
simile, ma non protestò e si limitò ad annuire.
«Molto bene.
Manca all'appello Nataša, ma il suo voto era contrario alla
permanenza di Stark nei Vendicatori,»
annunciò
Fury, sfidando il diretto interessato a contestare
quell'affermazione.
Lui non commentò, ma era decisamente scettico
al riguardo, e anche un po' deluso.
«Signorina Potts, voti anche
lei,»
disse
a sorpresa Coulson, e la donna si guardò attorno, presa in
contropiede.
Negli occhi di Tony si riaccese una scintilla di
speranza.
«Non credo che sarebbe equo. Insomma, non sono un
Vendicatore.»
«Penso sinceramente che qui dentro sia lei la più
adatta a giudicare Stark,
intervenne
Coulson, annuendo nella sua direzione, e Pepper arrossì
appena
sentendosi ancor più fuori posto.
«"Contrario"
per far uscire Iron Man, "favorevole" per farlo rimanere,»
stabilì Fury. «Agente Barton?»
cominciò
subito Fury, voltandosi verso l'uomo.
Lui sembrò esitare un
attimo, non aspettandosi di essere il primo, poi fissò negli
occhi
Tony con un'ombra di colpevolezza e rispose:
«Contrario.»
Tony
se lo aspettava, ma fu comunque un duro colpo.
«Thor?»
«Neutrale.
Penso che dovrebbe almeno tentare di rimettersi l'armatura, anche se
dovesse fallire. Ha diritto a una possibilità,»
affermò
l'Asgardiano, con decisione.
Tony si sentì un po' più leggero e
Thor ricambiò il suo sorriso più rilassato con un
cenno del
capo.
«Capitano?»
«Contrario,»
rispose
lui quasi all'istante, in tono
secco.
"Prevedibile..."
«Bruce?»
«Favorevole.
Dopo aver visto questo,»
accennò
alla protesi, «sono assolutamente convinto che ce la possa
fare.»
Tony gli rivolse un gran sorriso, grato. Per ora erano
pari. Si morse il labbro in preda al nervosismo: mancavano solo
Fury, Coulson e Pepper; il voto di lei era scontato, così
come
quello di Fury... ma forse Coulson sarebbe stato dalla sua parte.
«Io
sono contrario,»
affermò
Fury, senza rammarico.
«Coulson?»
Artigliò il bracciolo
della poltrona. Pepper evitava il suo sguardo, così come
quello di
tutti gli altri.
«Neutrale. È troppo presto per
decidere,»
aggiunse con pacatezza.
Tony lasciò andare il respiro che non si
era accorto di aver trattenuto: salvo, per un pelo.
«Potts?»
Tony
si girò verso di lei e le rivolse un sorriso trionfante, ma
s'impietrì quando vide la sua espressione. Lo guardava quasi
sofferente. Combattuta.
«No...»
riuscì
solo a sussurrare. «Pepper, che cosa...»
Lei non distolse lo
sguardo, e mantenne una voce ferma:
«Sono contraria.»
Fu come
ricevere una pugnalata nella schiena.
«Contraria? Lei?!»
esclamò,
del tutto sbigottito da quella presa di posizione a lui
incomprensibile.
«Che cosa significa?»
chiese
ancora, in tono più duro.
«Significa che sono stanca di vederla
quasi morire. Non permetterò che per l'ennesima volta si
metta in
pericolo. Non dopo quello che le è successo.»
«Ehi! Non l'ho
deciso io! Pensa che mi stia divertendo?»
«E lei pensa che mi
sia divertita quando era prigioniero in Afghanistan? O quando si
è
quasi schiantato con l'armatura? O quando l'ho ritrovata in quelle
condizioni?»
sbottò
lei, a voce più alta del necessario.
Tony non capiva se fosse sul
punto di piangere o di prenderlo a schiaffi, ma si sentiva totalmente
svuotato, come se gli fosse venuto improvvisamente a mancare un punto
di riferimento. Era quasi stordito, ed era sicuro di aver capito
male, ma Pepper era seria, terribilmente seria... il suo sguardo non
lasciava adito a dubbi.
«E aveva il coraggio di darmi del
paranoico,»
sbottò
in un sibilo caustico.
«Non
ne
faccia una questione di fiducia,»
ribattè
lei, altrettanto alterata.
«Stavolta sono io a non
capire,»
affermò
lui di scatto, fissandola con uno sguardo così carico di
significato
che lei quasi trasalì.
«Non penso ci sia molto da capire...»
intervenne
Steve, nel momento meno indicato.
Tony percepì chiaramente la
sottile linea di autocontrollo che era riuscita ad arginare la sua
rabbia spezzarsi di netto, e non fece nulla per
recuperarla.
«Tu stanne fuori, o ti faccio il culo a stelle e strisce
come piace a te.»
«Dovresti starne fuori tu, o ti credi speciale solo perché hai una lampadina nel petto?»
«Smettetela,» abbaiò Fury.
«Smetterla? Perché smetterla quando abbiamo
appena iniziato? Vedo che la Bella Addormentata nei Ghiacci ha voglia
di discutere, o sbaglio?»
ricominciò
Tony.
«Senti, uomo-scatoletta...»
«Senti tu: quando sarai in
grado di costruirti quel tuo bel frisbee da solo potrai insultarmi,
nel frattempo dovresti baciarmi i piedi.»
«Dovrei baciarli a tuo
padre, intendi. Magari avresti dovuto farlo anche tu.»
«Rogers.»
«Si vergognerebbe di come ti stai comportando.»
«Rogers, un'altra parola su
mio padre e quello scudo te lo spacco in faccia.»
«Fallo,
Stark. Ciò non cambia che sei fuori dai giochi: hai
chiuso.»
Tony
a quel punto non ci vide più: balzò in piedi
d'istinto, animato da
una scarica improvvisa di rabbia e adrenalina, e si scagliò
su Steve
senza curarsi del gesso e del moncherino che gridò di
dolore. L'altro
si alzò con un secondo di ritardo, non aspettandosi una sua
reazione, e non riuscì ad evitare o a parare il
diretto
di Tony, o forse fu solo indeciso su come fermarlo senza causargli
troppi danni.
Tony non aveva mai usato la protesi a scopo offensivo, né
aveva mai pensato di farlo: sapeva
solo di avere una potenza fuori dal normale che era più
d'ostacolo che d'aiuto, ma non fino a quel punto.
Steve fu sbalzato indietro di un metro buono, incassando il colpo in
pieno viso; reagì d'istinto dandogli uno spintone
sullo sterno con entrambe le mani, e Tony finì catapultato
all'indietro, accasciandosi contro il divano con la sensazione che il
reattore gli
avesse trapassato il torace. I moncherini gli inviarono una scarica di
dolore insopportabile, e non trattenne un lamento acuto quando
impattò per terra.
Tutti i Vendicatori si alzarono
contemporaneamente per fermarli, mentre Tony si aggrappava ai cuscini
per tirarsi su, col respiro mozzo e la testa leggera per lo sforzo.
Vedeva dei preoccupanti puntini bluastri che gli danzavano
davanti agli occhi, confondendogli la vista già menomata.
Sentiva
Fury che urlava fuori di sé, scorgeva Thor che rimproverava
a gran voce
Rogers e altre immagini confuse che non riuscivano ad acquistare
senso. Banner era sparito e Hawkeye si era frapposto tra lui ancora a
terra e la baraonda circostante, tenendo sotto controllo la situazione.
Coulson si era parato davanti a Pepper, che si era accovacciata accanto
a lui e gli
stava dicendo qualcosa, ma Tony non la stava ascoltando.
L'unico
dettaglio nitido in quel marasma era Steve, sul cui zigomo spiccava
un taglio sanguinante lì dove l'aveva colpito con le nocche
metalliche. Lo fissava con risentimento, tastandosi la parte lesa, ma
si tenne indietro.
Tony, al contrario, sentiva solo una gran voglia di spaccargli anche
l'altra parte del viso, giusto per renderlo simmetrico. Non gli
importava che Rogers non avesse colpe rispetto a quello che gli era
successo, né che tentare un nuovo assalto sarebbe
probabilmente apparso come patetico: aveva bisogno di prendere a pugni
qualcuno, e al diavolo se quel qualcuno era il simbolo dell'America
risorto dai ghiacci. Scansò Pepper da sé e si
issò sul divano col braccio buono, afferrando la stampella
per acquisire un minimo di stabilità in più, per
poi avanzare barcollando verso quello che al momento aveva etichettato
come suo avversario.
Rogers non si lasciò impressionare e gli intimò
di stare indietro, ma le sue parole erano una cacofonia indecifrabile
di suoni, che gli feriva le
orecchie stordite assieme ai richiami di Pepper e dei suoi compagni di
squadra, che ignorò completamente.
Fu nell'esatto momento in cui caricò il pugno che la sua
gamba di
gesso cedette, ma se ne accorse quando già
aveva fatto
un passo in avanti per massacrarlo di botte. Sapeva di non avere
speranze, ma volle togliersi la soddisfazione: scagliò il
pugno
destro mentre già perdeva l'equilibrio, ma l'altro lo
parò senza
sforzo e lo respinse di nuovo indietro, torcendogli le dita con uno
stridore metallico, per poi
ripiegargli il braccio all'indietro come fosse di gomma. Era incredibilmente forte,
più di quanto si
fosse
aspettato, e la protesi non era ancora progettata per sostenere urti
di quel tipo: percepì il metallo cedere e non potè evitare un
grido quando la pressione aumentò
bruscamente
sul moncherino. Rogers mollò di scatto la presa con un lampo
indecifrabile negli occhi, forse non aspettandosi di fargli male anche
tramite quella parte inanimata di lui. A Tony mancò
l'appoggio
della gamba di gesso, ormai disarticolata, e piombò
all'indietro; Steve cercò di afferrarlo per il bavero per
evitargli la caduta, ma l'altro malinterpretò il gesto e si
divincolò, riuscendo a sfruttare la forza residua della
protesi per liberarsi dalla
sua stretta.
Impattò di
schianto col pavimento e sentì una scarica fulminante di
dolore
attraversargli la
spina dorsale, mentre la sua vista si oscurava di colpo. Lampi blu
esplodevano intorno a lui e c'era sangue, sangue sulle sua mani, sul
suo volto e per terra. Udì un boato lontano e poi un'ondata
ustionante di calore che lo sbalzava in aria... un dolore atroce
all'occhio lo riportò alla realtà con un urlo.
Riprese contatto
con ciò che lo circondava. Era completamente nel
pallone e la stanza ruotava su se stessa. Gli sembrava di
essere sott'acqua e sentiva un rombo nell'orecchio destro,
così
forte da dargli la nausea. Stava morendo dissanguato? Si
portò la
mano al moncherino della gamba, ma la fasciatura era asciutta, la
protesi del braccio al suo posto.
Un'allucinazione, un ricordo o
cosa?
L'aria gli tornò nei polmoni e trasse un respiro stentato
che si trasformò in un rantolo. Si era morso la lingua nella
colluttazione e aveva la bocca piena di
sangue;
diede un colpo di tosse gorgogliante, sentendosi rivoltare lo
stomaco. Si accorse del pesante silenzio che lo avvolgeva,
irreale, ma non riusciva ad alzare la testa che gli pulsava
dolorosamente. Si sforzò di girarsi sul fianco e
inquadrò
confusamente il suo salotto e i Vendicatori che discutevano
animatamente tra loro, con l'impressione di guardare le scene di un
film muto. Non sentiva nulla.
Tentò di rialzarsi facendo leva d'istinto sulla protesi, ma
questa cedette di schianto
sotto i suoi occhi orripilati, facendolo ripiombare a terra. Tutti
i suoi sensi si risvegliarono contemporaneamente, frastornandolo in
un caleidoscopio folle di suoni e immagini, in cui l'unica chiara e
nitida era quella della sua protesi devastata.
Qualcuno gli si
avvicinò, ma non riuscì a metterlo a fuoco
così lo allontanò
bruscamente, mentre fissava incredulo l'avambraccio che ciondolava
all'indietro, completamente disarticolato. Scorse di sfuggita Bruce
che si ritraeva di scatto.
«No! No, merda, no!»
gridò,
con voce roca, ferendosi la gola, incurante del dolore e di quanto
disperata suonasse la sua voce.
Tastò con la mano sana i cavi
recisi e il rivestimento graffiato e contorto.
«No! Tutto quel
lavoro...»
imprecò
tremante; non gli importava che tutti lo stessero fissando mentre
discutevano tra loro.
Tutto cò che riusciva a formulare era:
“Da
capo... devo ricominciare tutto da capo...”
Rialzò lo sguardo e
focalizzò Rogers con occhi lucidi di rabbia. Non riusciva a
trovare parole per comunicargli quanto realmente lo odiasse in quel
momento. Un altro pugno in faccia poteva essere molto più
esplicativo, ma al solo pensiero di provare a rialzarsi gli venne la
nausea. I suoi pensieri si annebbiarono come per un improvviso
blackout e si lasciò scivolare a terra privo di forze.
Udì
un'alta voce femminile che trovò estremamente piacevole
nonostante
quello che era appena successo e il tono irato con cui sembrava
parlare. Non riuscì a comprendere quel che diceva, ma dopo
pochi
secondi – o forse molti di più –
sentì che qualcuno lo aiutava
a rimettersi seduto contro il divano e gli passava un panno bagnato
sulla fronte. Non capiva esattamente dove fosse il pavimento e se
fosse veramente seduto, ma accolse con sollievo il freddo sulla
fronte bollente.
Riaprì piano gli occhi, dominando il senso di
vertigine.
Le poche facoltà mentali e fisiche che gli erano
rimaste gli permisero di scansare la mano liscia ed estremamente
invitante di Pepper, ma dopo pochi secondi sentì di nuovo il
contatto
della sua pelle fresca contro il proprio viso accaldato e non ebbe la
forza
di sottrarsi, preferendo abbandonarvisi contro.
Riusciva a
muoversi con estrema difficoltà e ciò gli costava
molto dolore.
Aveva un sapore ferrigno in bocca e si rese conto che lo spacco sul
labbro si era riaperto. Cercò gli occhi di Pepper e li
trovò
cupi e preoccupati, stranamente scuri nella penombra. Trattenne la
sua mano contro la sua guancia.
Voleva dimenticare tutto ciò che
era appena successo. Voleva solo fidarsi, ma la voragine nel suo
petto schiuse di nuovo le sue fauci minacciando di dilaniarlo.
"Mi
fido ancora di te."
Quelle parole non lasciarono le sue
labbra. Pepper liberò con delicatezza la mano, premendogli
di nuovo
la stoffa umida contro la fronte.
Il salotto era deserto, da quel
poco che riusciva a distinguere, poi scorse Coulson che si avvicinava
a Pepper e si chinava su di lei, sussurrandole qualcosa all'orecchio
che catturò immeditamente la sua attenzione, ma, nonostante
si
sforzasse di ascoltare, le parole si intrecciavano perdendo
significato, ordine, svanendo in un bisbiglio inudibile. La sua
coscienza riemerse dall'oblio quando fu raggiunta da una voce
ovattata:
«Tony... ma che diavolo stai facendo?»
Lui
socchiuse la palpebra, riuscì a spostare un poco il capo e
incontrò
gli occhi di Pepper, ma era come se li vedesse dietro a un velo.
«Non
lo so...»
mormorò
scuotendo debolmente la testa, e il mondo si trasformò di
nuovo in
un'immagine sfocata mentre si abbandonava all'incoscienza.
____________________________________________________________________________________________________________________________________________
Revisione effettuata il 23/02/2018
Note delle Autrici:
Ed ecco sfornato un altro capitolo caldo caldo, diciamo anche che si è bruciato (basta con questa metafora stupida...)
Vi intratteniamo poco e ci dileguiamo, ringraziando alliearthur e Rogue92 che continuano a seguirci costantemente e a recensire e alla nuova arrivata Sherlock_Watson <3
See ya! :D
Moon&Light
Edit 23/02/2018: è stato inserito il tema/problematica della sfiducia di Tony (come se non avesse già abbastanza grane a cui pensare) perché mi sembrava un "tassello mancante" o almeno non debitamente sviluppato che ritengo fondamentale per tutti gli sviluppi successivi della storia. [-Light-]
Edit 12/05/2019: mi veniva l'orticaria ogni volta che rileggevo questo capitolo per la caratterizzazione di Steve (che, come giustamente, mi fece notare T612 ai tempi, è un filino OOC), quindi ho deciso di "barare" e decidermi a modificare la parte dello scontro con Tony. Verbalmente rimane più stronzo di quanto non sia (ho eliminato le volgarità, a mia discolpa il capitolo fu scritto molto prima del famoso "Language!" di AoU), ma almeno non è più un bruto che picchia a caso la gente. Quello lo fa solo in Civil War *BURN*
Grazie a Sherlock_Watson che ha gentilmente disegnato questa vignetta :) trovate il suo DA qua-> http://giulialennon94.deviantart.com/
© Marvel
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Capitolo 13 *** Psychosocial? ***
12
Psychosocial?
"Yeah,
I get it, you're an outcast
Always under attack, always coming in
last
Bringing up the past, no one owes you anything
I think
you need a shotgun blast, a kick in the ass
So paranoid... watch
your back!”
[Sound Of Madness – Shinedown]
4
Marzo, 12:30, Tribunale di Washington D.C.
Il
tribunale esplose.
Un boato di sorpresa, confusione e orrore
risuonò nell'enorme sala, assordandolo. Si
abbandonò allo
schienale, come sbalzato indietro dalle onde sonore. Spaesato, ben
lontano da quella facciata di
spavalderia e sicurezza che aveva ostentato fino a quel momento,
cercava freneticamente un appiglio per tirarsi fuori da quella
situazione drammatica... ma non riusciva a pensare nulla di coerente,
le parole gli sfuggivano prima che potesse focalizzarle e non
riusciva neanche ad aprire bocca per provare a pronunciarle: aveva le
labbra sigillate e un malsano pallore si allargava sul suo volto
già
tirato.
Registrò appena il giudice che urlava e intimava la
calma, Knight che tentava di sovrastare la sua voce gridando le sue
accuse e Kyle che si sbracciava per contrastarlo come poteva,
supportato da Ian che millantava referti medici inesistenti.
Lui rimase pietrificato
al banco dei testimoni con il braccio privo della mano, avvolto
della sua giacca sgargiante e poggiato mollemente davanti a
sé come
una confessione di colpa. Cominciava a sentirsi rinchiuso in una
gabbia, esposta
allo scherno e all'incredulità dei passanti. Percepiva gli sguardi sconvolti del pubblico su di sé, scorgeva mani che andavano a coprire le bocche per contenere le esclamazioni stupefatte, vedeva quelli seduti nelle ultime file che si alzavano in piedi per vedere meglio, come se fosse un fenomeno da baraccone. In sottofondo, tra l'incredulità e lo sconcerto, avvertiva un sottotono di disgusto che gli torceva le viscere; perché alle persone normali non cadevano le mani, e avevano tutti gli arti al posto giusto, e non dovevano ingegnarsi per nascondere un corpo mutilato. Si scoprì a tremare impercettibilmente, al pensiero di non poter più mentire, né nascondersi, e che a quel punto avrebbe dovuto rivelare le sue brutture e il suo corpo menomato. Cercò frenetico Pepper, in un moto istintivo, ne trovò la chioma rossa e si concentrò su di lei, escludendo tutto il resto. Lei, dopo aver cercato inutilmente di calmare Ian, si
voltò
finalmente nella sua direzione, forse sentendosi osservata. Non sembrava
furiosa, anzi, aveva un'aria quasi rassegnata, il che era anche
peggio. Non sapeva esattamente come sentirsi nei suoi
confronti: forse dispiaciuto, oppure semplicemente indifferente, ma
quel che lo preoccupava era che l'onda di rabbia e frustrazione che sentiva crescere
dentro di sé comprendeva anche lei.
Distolse lo sguardo quando
scorse un giornalista che si avventava sulla mano della protesi
rimasta a terra. Un lampo di terrore lo riscosse al pensiero di quel
che poteva succedere.
«Non
toccarla!»
gridò, e il fatto che avesse parlato di nuovo
quietò per qualche
istante il tribunale, dandogli modo di insistere, con calma
calcolata:
«Non osare sfiorarla o giuro che il prossimo seduto a
questo banco sarai tu.»
Il
giornalista esitò il tempo sufficiente per permettere alla
guardia
di rispedirlo nel pubblico, al suo posto.
Tony tirò un silenzioso
sospiro di sollievo, rendendosi conto di avere gli occhi di tutto il
tribunale puntati addosso. Ebbe la netta percezione della sua
gabbia che si restringeva, e gli parve di scorgere sorrisi di scherno sui volti di chi lo osservava, e di udire risatine appena accennate. Il tremito continuava a scuotergli i muscoli, quasi doloroso, e si tolse il guanto per asciugarsi il palmo sudato sui pantaloni, cercando di controllarsi e di recuperare la sua
proverbiale
faccia tosta. Ci riuscì in parte, ritrovandosi a parlare in un tono molto
più grave di
quanto avesse voluto:
«So che quello che avete appena visto può
essere abbastanza destabilizzante, ma...»
«Come
spiega quella roba?»
lo interruppe brusco Knight in modo molto meno formale, additando la
mano ancora riversa per terra.
«È una protesi, come dovrebbe già
aver capito.»
Un
altro brusio fece per alzarsi dagli astanti, ma fu troncato dallo
schiocco secco del martelletto:
«Intimo il silenzio. Per l'ultima
volta,»
dichiarò in tono perentorio Stern, ancora perplesso per
quanto appena
accaduto ma evidentemente insofferente all'isteria del
pubblico. «Perché non l'ha dichiarato subito?»
«Obiezione.
Le attuali condizioni fisiche dell'imputato non
pregiudicano...»
«Ammonizione,
signor Andrews! Abbia il buonsenso di capire quando tacere!»
sbottò il giudice.
Kyle
ammutolì, capendo di non poter fare più niente
per aiutare il suo cliente.
«Cos'altro ci nasconde, signor Stark? Per una volta
presti fede al giuramento di dire la verità,»
aggiunse ironico Knight.
Tony deglutì, col nodo della cravatta che gli stringeva quello alla gola, cercando una via di fuga
inesistente.
«Oltre alla protesi? Ecco... niente, in questo
senso, anche se ho un... un pacemaker cardiaco poco ortodosso, diciamo,»
cercò di svicolare ancora, suscitando comunque mormorii pettegoli dal pubblico.
Era normale quel senso di oppressione
al petto? A parte quello costante del reattore, ovviamente.
«Cercherò
di essere più chiaro: le manca qualcos'altro oltre
al braccio?»
Tony tentennò. La sua pupilla fremette, scattando qua e là alla ricerca di uno spiraglio, di un modo per fuggire di lì, ma trovò solo porte sbarrate e gli occhi beffardi di un pubblico che non era certo pronto ad applaudirlo.
Deglutì quel groppo di sabbia e carta vetrata che gli ostruiva la gola e cedette, parlando il più velocemente possibile per non dare senso alle sue parole, volendo percepirle come semplici suoni privi di significato:
«Una
gamba e un occhio.»
Il
tribunale esplose un'altra volta, e Tony si concesse finalmente di
accasciarsi sul banco degli imputati, con l'unica mano a sorreggergli la
fronte bollente e inondata di sudore gelido.
Scrutò da sotto le ciglia Pepper, consapevole di quanto
fosse disperato il proprio sguardo e non riuscendo a fare a meno di
cercare il suo, agognando quella sicurezza che vi aveva sempre
trovato.
Lei scosse
appena la testa e poi abbassò gli occhi, negandogliela.
Tony chiuse il suo, pregando di sprofondare.
***
I
giornalisti lo circondavano pressanti, accalcandosi attorno alla sua
sedia a rotelle e rievocandogli prepotentemente il periodo d'inferno
passato in ospedale a tenere a bada le stesse, insopportabili voci
pedanti e moleste.
«Signor Stark, una domanda!»
«Cos'è successo?»
«Come ha
fatto a costruire la protesi?»
«Signor
Stark, come crede di poter continuare la sua attività in
queste
condizioni?»
«Tony, come
farai a posare per il nuovo numero di Playboy?»
«Stark!»
«Signor
Stark!»
«Tony,
andiamocene di qui, ora.»
La
voce di Pepper lo raggiunse soffocata, mentre lui avanzava a fatica
tra la calca. In un impeto di rabbia aveva lasciato indietro la sua
difesa; non era stata una bella mossa, considerando che si sentiva il
braccio buono distrutto dalla fatica di spingere la sedia a rotelle
zigzagando tra i paparazzi. Improvvisamente si trovò
separato dall'uscita da una
muraglia di telecamere e flash che mandavano ovviamente in
mondovisione la sua faccia stralunata e sconvolta, oltre che il suo braccio incompleto. Mezzo accecato,
stava per tirar fuori dalla tasca la mano metallica inerte per usarla a
mo' di clava, quando colse
un lampo di capelli rossi ai margini del suo campo visivo –
piuttosto ristretto, a dir la verità. Intravide Pepper che
cercava
di farsi strada verso di lui, allungando un braccio nel tentativo di
afferrarlo per oltrepassare la massa di individui molesti. La sua
mano trovò infine la sua spalla, quella sbagliata.
Sussultò per il
dolore, sentendo il bordo della protesi che stuzzicava i punti di sutura doloranti, ma strinse con forza i denti e non si ritrasse; lei riuscì a
mantenere
la presa e a portarsi finalmente di fianco a lui.
«Permesso!
Permesso! Largo! Fate passare!»
sentì la voce tonante di Happy, che si stava facendo strada
fino a
lui a suon di spallate e gomitate. Prese infine il controllo del suo
odiato mezzo di trasporto; dopotutto era il suo
autista. L'assurdità di quella realizzazione lo
pungolò in
modo inopportuno. Happy spintonò da parte la stampa, i fan e i curiosi senza
troppe
cerimonie, guadagnando un metro dopo l'altro l'uscita del
tribunale. Senza ben capire come ci fossero arrivati, Tony scorse
la sua Rolls Royce a pochi metri da lui, accanto a quella che aveva
fornito a
Kyle.
"Kyle..."
Lo vide farsi largo stoicamente tra i
giornalisti, che sembravano meno propensi a scagliarsi su di lui,
forse a causa dell'espressione assolutamente impassibile che copriva
il suo volto. Prima di poter pensare a ciò che stava facendo, con
un brusco strattone alle ruote sfuggì alla guida di Happy e
voltò di scatto verso il ragazzo,
rischiando di far rovinare a terra il suo autista.
«Tu! K, Kyle, Andrews o
come diavolo ti fai chiamare!»
lo apostrofò, furioso nei suoi confronti per ragioni oscure
a lui
stesso, ma con l'impellente bisogno di prendersela con qualcuno che
non fosse Pepper.
«Stark, calmati, non volevo che..»
cominciò il giovane, probabilmente capendo che Tony in quel
momento
non era in sé.
«Neanch'io volevo, e ora sono nella merda per
colpa tua!»
Kyle lo fissò
attonito, mentre il microfono di una telecamera pungolava
insistentemente la faccia di Tony; questi fece un brusco, istintivo movimento
con la protesi per scansarlo e lo ruppe di netto senza rendersene
conto.
«Puoi scordarti le tue cazzo di gambe!»
riuscì a gridare sovrastando il caos, prima che la portiera
dell'auto di Kyle si chiudesse.
A quel punto sentì una presa
ferrea sulla spalla sana e fu guidato a forza fino alla sua auto;
stava per opporsi ad essere sollevato come un bambino per entrarvi,
ma Happy si mostrò sordo alle sue proteste e lo fece
comunque, non
senza una certa goffaggine. Si divincolò dalla sua stretta
al
momento sbagliato, umiliato al solo pensiero delle foto che stavano
scattando in quel momento, col risultato di sfuggire alla sua presa e
trovarsi quasi schiacciato addosso a Pepper, entrata dall'altro lato.
Telecamere e obiettivi si
affacciavano dal finestrino, fortunatamente oscurato, ma Tony si lasciò comunque scivolare nello
spazio
tra i sedili, premendo il volto contro la tappezzeria per nasconderlo
e privare il mondo di altri primi piani sconvolti della sua faccia. Lei
riuscì
finalmente a sbattere la sua portiera in faccia ai giornalisti.
Tony
ebbe un improvviso, spiacevole flashback di una situazione simile,
solo che fuori dall'auto non c'erano delle telecamere e dei
microfoni, ma terroristi e fucili decisi a ucciderlo. Sentì
il
respiro bloccarsi e, da semplicemente spiacevole, il flashback
divenne vivido e terrorizzante. Sentì il cuore aumentare i
battiti mentre si costringeva
a riportarsi in posizione eretta, esponendo il suo volto ora madido
di sudore e la pupilla dilatata ai flash impietosi della
stampa davanti alla macchina.
Finalmente partirono con un rombo e Tony aprì il
finestrino inspirando l'aria fredda, riuscendo finalmente a trarre un
respiro completo che non si fermasse tra gola e polmoni. Si
ritrovò poi il volto di Pepper a un palmo dal suo,
paonazzo di
rabbia. Sapeva cosa stava per succedere, e sapeva anche di non
poterlo evitare...
«Lei è un grandissimo idiota!»
***
5
Marzo, 02:20, Villa Stark
Quando la sua macchina
scomparve dallo schermo, sostituita dagli spezzoni commentati del
processo e da titoli del tipo "l'uomo di ferro si scioglie"
debitamente corredati dalle sue foto post-udienza, Tony decise di non
poterne più e spense finalmente il televisore. Rimase a
fissarlo a lungo,
ancora stordito dagli acciacchi della giornata, dalla discussione coi
Vendicatori e dalla revisione in toto della sua performance di fronte
a mezzo mondo.
Si girò verso Pepper, che si era addormentata
stremata sul divano accanto a lui, e le tolse con delicatezza la
borsa del ghiaccio di mano, che finora aveva tenuto premuta contro la sua testa: era ancora leggermente fredda. Se la
premette con sollievo prima sul livido che gli marcava lo zigomo, poi
sulla fronte bollente. Gli scossoni di quella giornata gli avevano
fatto venire la febbre,
ma ciò che lo preoccupava di più era la protesi
semidistrutta. Aveva rimosso il braccio meccanico ed era rimasto
unicamente con la piastra di aggancio. Fissò la protesi
adagiata sul
tavolino, inerte e fredda. Vederla separata da lui gli causava uno
strano senso d'inquietudine che gli serrava la bocca dello stomaco. Era
debilitante vedersi letteralmente a pezzi. Sarebbe
sicuramente stato in grado di ripararlo – o ripararsi?
– ma avrebbe avuto bisogno di tempo... e non ne aveva e non
voleva
darsene.
Buttò la testa all'indietro, sentendo qualche vertebra
scricchiolare, il che aumentò la consapevolezza di essere
uno
straccio completo. Oltre che un bastardo matricolato. Entrambe le
sensazioni non gli erano nuove.
«Ha finito di assistere alla sua
disfatta?»
La
voce di Pepper era flebile, esausta e velata dal sonno, ma
riuscì
comunque a farlo sobbalzare. Era convinto che si fosse addormentata circa
due ore prima.
«Più o meno. La scenata fuori dal tribunale si
è
sentita,»
aggiunse, a suo rischio e pericolo.
«Ho sentito anch'io,»
sospirò Pepper, troppo stanca per infondere vera durezza al
suo tono.
«Però deve
ammetterlo: riesco ad essere meraviglioso anche quando secondo lei mi
comporto come "un bambino egocentrico bisognoso di attenzioni".»
tentò con un sorrisetto, ma Pepper non raccolse l'ironia e
rimase in silenzio.
Parlavano senza guardarsi, Tony ancora
abbandonato all'indietro e Pepper rannicchiata contro il bracciolo
del divano, stringendo appena la giacca bluette del completo con cui le aveva
coperto le spalle.
C'era un
silenzio assoluto, cosa strana in quella casa, ma d'altronde erano
quasi le tre di notte.
Infine lei si sollevò appena nella sua
direzione e fece per parlare, ma Tony parlò nello stesso
momento:
«Se se lo sta chiedendo, sto bene,»
mentì.
«Veramente stavo per chiederle di avvertirmi, se ha
intenzione di farsi altri nemici oltre Capitan America, lo SHIELD, Kyle
e
l'intera giuria.»
«E
lei,»
aggiunse Tony a bassa voce, stavolta mortalmente serio.
La donna
lo fissò senza troppo stupore. Tony aveva ancora la testa
abbandonata sullo schienale ed era scivolato in avanti, con la mano a
sorreggersi la nuca; vedeva
solo il suo lato cieco. C'era una profonda delusione nella sua voce, e
ciò la colpì come
un maglio, risvegliando in lei un senso di colpa che non aveva alcun
motivo di provare.
«Per favore, non cominci a vedermi come un
nemico, perché non lo sono,»
scandì chiaramente.
«Non è neanche un alleato.»
Gli sfuggì una risatina stanca. «Chi diavolo
è lei?»
«Non sono Stane, Tony.»
Lo sentì
trattenere bruscamente il respiro.
«Questo lo
so.»
La sua voce sembrò scaturire da un luogo profondo, freddo ed
estremamente distante dal tranquillo salotto rischiarato solo dalla
luce notturna che filtrava dalla vetrata. Un sospiro risuonò lievemente in quella quiete.
«Non so se si è ben resa conto della mia
situazione. O di come mi
sento in questo momento,»
continuò Tony a bassa voce, sempre senza muovere un muscolo,
sempre
senza guardarla.
Pepper giudicò più saggio non contestare quel
punto: no, non aveva la minima idea di come si potesse sentire e non
era neanche sicura di volerlo sapere.
«Mi sono ritrovato
improvvisamente inabile, diciamo così, a muovermi
liberamente e
vengo anche accusato di instabilità mentale da... da
tutti più
o meno.»
S'interruppe con un sospiro, per poi riprendere: «Tutto
ciò per colpa del mio "padrino". È sua, la colpa.
Niente
Afghanistan: niente stress post-traumatico, né reattore,
né Iron
Man. E niente mutilazioni,»
concluse piattamente.
Scandì con cautela l'ultima parola come a
volerne ponderare la pericolosità.
«Poi c'è la
ciliegina sulla torta di non essere più considerato solo un
"mezzo
supereroe", ma anche un "mezzo uomo". Come se io
avessi iniziato a fare ciò che faccio per farmi affibbiare
qualche
titolo in più. Uomo, eroe, super, genio, Consulente, Iron
Man...»
elencò con voce sempre più fiacca. «Non
mi è mai nemmeno interessato
se ciò che faccio sia eroico o meno. Ho il mio concetto
personale di
"eroico", ma questo non...»
la sua voce si
affievolì di nuovo e fece
una pausa, impedendosi di divagare e di seguire le volute dei suoi pensieri.
La sua mano si era spostata nel frattempo
sul reattore, appena visibile sotto la camicia. Gli assestò
una
pacca leggera, come a riscuotersi.
«Tutto ciò non è affatto bello,
né
rassicurante, né incoraggiante. Riesco quasi a vedermi
legato su un
lettino di psicanalisi mentre un novello Freud tenta di
scannerizzarmi il cervello. Sono un genio, per la miseria, non uno
psicopatico,»
concluse, sbuffando appena.
Nonostante il suo tono apparentemente
leggero, Pepper percepiva il suo disagio nel parlare, e questo la
sconcertava comunque meno del fatto che Tony stesse esplicitamente
discutendo di ciò che provava e della sua salute mentale,
oltre che
delle sue preoccupazioni riguardanti Iron Man.
«Ora, immagini di essere in questa situazione. So che
è un grosso
sforzo di fantasia, ma ci provi.»
A quel punto si girò appena verso di lei, lasciandole
intravedere il suo occhio
stanco e appena socchiuso.
«Come
si sentirebbe se l'unica
persona
di cui si fida ciecamente affermasse che non è in grado di
riprendersi?»
Tony
sembrò costringersi ad aprire di più la palpebra
esausta e la fissò
intensamente. Lei non potè fare a meno di sentire quel senso
di
colpa irrazionale espandersi nel suo petto, facendola rimpicciolire.
Fu un istante, poi la sensazione svanì, sostituita dalla
certezza di aver agito nel suo interesse, per proteggerlo ed evitargli altro dolore.
«Non ho
mai detto che non ne è in grado...»
«Mi
ha fatto escludere dai Vendicatori. Mi sembra una risposta
più che
chiara, a meno che lei non abbia una strategia che vada oltre la mia
comprensione. Il che, come ben sa, è altamente improbabile.»
Pepper
fece per rispondergli a tono, irritata dal suo atteggiamento di
superiorità,
ma Tony afferrò velocemente la stampella, si
puntellò aiutandosi
col braccio sano e si trasferì con evidente fastidio sulla
sedia a
rotelle. Afferrò la protesi e si diresse faticosamente verso
l'ascensore senza degnarla di un altro sguardo.
«Dove ha
intenzione di andare?»
lo richiamò stizzita, ma anche allarmata e consapevole del
suo stato
febbricitante.
«A riparare questo disastro.»
«Lei non è nelle
condizioni di...»
«Questo sono
io a deciderlo,
almeno a casa mia.»
«Mi sto
preoccupando per
lei.»
Tony
chiamò l'ascensore senza rispondere e questo si
aprì con un sibilo;
vi entrò subito e voltò la sedia nella sua
direzione, premendo
rapidamente il tasto del seminterrato. Pepper si limitò a
fissarlo senza avere la forza di
aggiungere altro, anche se con qualche ora di jet-lag
in meno sarebbe probabilmente riuscita a tenergli testa. Si raddrizzò a sedere, trattenendo sulle spalle la sua giacca e percependo il leggero sentore di profumo e dopobarba impresso sulla stoffa, che da piacevole e rassicurante diventò invadente, quasi sgradito. Tony non
riuscì a trattenersi e frappose la stampella tra le porte
dell'ascensore, impedendone la chiusura.
«E la ringrazio molto
per la sua preoccupazione. Mi è stata molto utile, davvero,»
la schernì in tono acido.
«Di niente. Sto solo cercando di
salvarle la vita, dopotutto!»
ribattè lei, adesso decisamente furiosa.
Tony emise uno sbuffo
irritato prima di lasciar finalmente chiudere le porte.
«Non mi
aspetti sveglia!»
***
9
Marzo, Villa Stark
«E
lei chi sarebbe?»
«Robert
Orwell. Sono uno psicoterapeuta,»
si presentò un uomo piuttosto avanti con gli anni, con i
capelli
bianchi ed un abbigliamento fin troppo impeccabile. Dalla stiratura
della giacca, alle scarpe tirate così a lucido da emanare
riflessi
accecanti, al discutibile pendant
tra i gemelli e la cravatta di un orrendo verde acido: c'erano tutti i segni
inconfutabili di qualche sua mania ossessivo-compulsiva di cui
probabilmente non era a conoscenza nemmeno lui.
"Incoraggiante."
Tony continuò a
squadrarlo con diffidenza, concludendo che la sua giornata non poteva
iniziare in modo peggiore, dopo un'altra nottata insonne passata a
mordere il cuscino per le fitte ai moncherini. E dire che avrebbe solo
voluto scolarsi un litro di clorofilla
e mettere qualcosa sotto i denti per poi tornare a rifugiarsi in
laboratorio. Adesso si pentiva anche di essersi preso la briga di
alzarsi dal letto. Anche se forse "capitombolare per terra" era un'espressione più calzante.
«E perché uno della sua risma è in casa
mia?»
si decise a chiedere alla fine, sostenendosi allo stipite della porta
per avere un po' più di stabilità mentre si
guardava intorno alla
ricerca di un proiettore olografico che potesse motivare quella
sgradita presenza nel suo salotto.
Non trovò ciò che
cercava, ma in compenso vide Pepper, che gli sembrava comunque
un'ottima risposta alternativa per l'apparizione di uno strizzacervelli
in quella casa.
«Tiro a indovinare: è lei
la talpa che ha permesso a questo "ospite” di entrare. Mi
spiegerebbe perché il mio salotto è diventato
improvvisamente un
centro di scambio culturale? Vedi Asgardiani in vacanza sulla Terra e
uomini fuori dal tempo...»
aggiunse a voce più bassa, come se lo psicologo non
esistesse.
In
realtà era più che consapevole della sua
fastidiosa, ingombrante
presenza che si era addirittura permessa di occupare la sua
poltrona.
"È un vizio, ormai."
«Ne
avrebbe davvero bisogno, signor Stark. Intendo parlare con me,»
intervenne Orwell, apparentemente ignaro delle scintille di tensione
che sfrigolavano tra il suo recalcitrante paziente e la donna appena
arrivata, nonostante teoricamente avrebbe dovuto avere un intuito non
indifferente per quel tipo di dinamiche.
«Ho bisogno della mia
poltrona libera dal suo fondoschiena,»
scandì Tony, indicandolo con una stampella e rischiando di compromettere il proprio equilibrio.
«Tony...»
sibilò Pepper, tentata di prenderlo per la collottola per
ricordargli le buone maniere come una madre con un figlio
indisciplinato.
«La signorina Potts mi ha
illustrato nel dettaglio la sua situazione...»
«Nel dettaglio?»
ripeté Tony, sentendosi la voce quasi strozzare in gola
mentre
fulminava Pepper con lo sguardo, che lei evitò.
«Quanto basta per capire
che ha assolutamente bisogno di un supporto psicologico, signor
Stark.»
Tony dovette fare
appello a tutto il suo autocontrollo per non farsi prendere
dall'agitazione che sentiva crescere dentro di sé.
Cosa diavolo gli aveva detto?
Del rapimento? Di suo padre? Di Stane? Dello stress post-traumatico?
Cos'altro c'era? Riusciva a malapena a tener traccia lui stesso dei
suoi problemi, non aveva davvero bisogno che qualcun altro vi si
immischiasse.
"Alla faccia della
'riservatezza'..." si trovò a pensare, con un folle moto di
pena per Fury, mentre Orwell continuava
a blaterare riguardo alla sua presunta necessità di un
"consulto"
– che suonava terribilmente simile a "valutazione", e di
quelle ne aveva abbastanza.
«... soprattutto mi
preoccupano i suoi frequenti sbalzi d'umore. Una breve terapia o
un paio di sessioni potrebbero almeno migliorare questo suo
atteggiamento, facilitando il suo recupero psicofisico,»
spiegò pacato.
Tony a quel punto decise che poteva anche fare a
meno del filtro che apponeva alla sua lingua per risultare
più
amabile in pubblico.
«Ehi, non mi parli come un vecchio saggio! So qual
è la sua tattica: "sono calmo e faccio l'amicone, poi
però ti strizzo il cervello e ti faccio rinchiudere".»
«Non
rientra nelle mie "tattiche" e non sono uno
strizzacervelli,»
ribattè il dottore, lievemente piccato, ma mantenendo un
atteggiamento professionale di fronte a quella che probabilmente
riteneva
una crisi isterica.
Pepper fece per intervenire, in palese
imbarazzo, ma Tony la anticipò, staccandosi dal proprio appoggio
per
avanzare di qualche metro verso l'intruso:
«Lo è, eccome
se lo è. Non ho bisogno di farmi vendere la pace interiore.
La
raggiungo già attraverso tecniche che implicano l'utilizzo
di molto
alcool e del bagno... ma forse vuole una dimostrazione!»
esclamò arzillo, al limite della sopportazione di
Pepper, che
adesso lo tirava discretamente per la manica.
«Se il problema è
l'alcol, signor Stark...»
«Nah, mi confonde con mio padre; l'alcol non è un
problema,
anzi...»
fece una pausa sfoggiando un'espressione ispirata. «Sa... il
fatto di cacciare la testa nel cesso per... beh, ha capito, comporta
l'eliminazione di agglomerati di neuroni inutilizzati, evento
piuttosto frequente anche nella
sua
testa, a mio modesto parere, che tengo sempre in grande
considerazione. Dovrebbe provarci, mi creda.»
Orwell
lo fissò come se avesse appena realizzato di essere entrato
in un
manicomio.
«La situazione è più di grave di quello
che mi aveva
detto,»
commentò rivolto a Pepper, e il fatto che avesse cessato di
interpellare lui lo irritò ancor di più, se
possibile.
«Sono stati giorni
difficili...»
ribatté esitante lei, volutamente ambigua.
Tony si ritrovò a
lasciarsi sfuggire un verso di scherno: era abbastanza convinto che il
livido ancora stampato sulla sua faccia esplicitasse a sufficienza quanto difficili
fossero stati quei giorni.
«Capisco che il signor
Stark non abbia voglia di parlare, perciò le lascio solo
qualche
farmaco generico per...»
provò a continuare, prima di essere interrotto da Tony:
«Fattelo tu un cocktail di farmaci, cervellone,»
sbottò questi, improvvisamente in allarme. «Poi
svegliati dal coma e
vienimi a raccontare la tua pace interiore dopo averla...» si
voltò verso Pepper con aria assorta «... spremuta.
Ecco cos'ero
venuto a fare qui: mi serve un po' di succo d'erba. Clorofilla, per
chi non lo sapesse.»
si rivolse allo psicologo, adesso completamente attonito.
«Signor
Stark, la prego, potrebbe almeno cercare
di comportarsi in modo...»
tentò invano Pepper, vedendo la situazione precipitare, ma
Tony
aveva già voltato loro le spalle, dirigendosi a balzelloni
in
cucina.
«JARVIS, voglio questo squilibrato fuori dai piedi.
Mostragli la porta.»
Il
computer fece apparire una freccia lampeggiante, indicando l'uscita a
Orwell.
«A mai più!»
lo congedò, prima di sparire in cucina.
Pepper parve implorare
perdono al dottore, che non la degnò di uno sguardo e
seguì
indignato la freccia, lasciando Villa Stark e il suo proprietario con
una nube temporalesca che lo circondava e preannunciava titoli-scoop
riguardo all'instabilità emotiva di Tony Stark.
Pepper si diresse
a passo di carica in cucina.
"Pace interiore, eh?” ripetè
tra sé, esasperata.
Tony si stava versando flemmatico un
bicchiere del suo solito intruglio verdastro, e non sembrava molto
entusiasta al pensiero di doverlo bere. Pepper lo fissò per
qualche istante a braccia incrociate, rimanendo sulla soglia. Era come
sempre impegnato a
non perdere l'equilibrio anche mentre svolgeva i gesti più
banali e
quotidiani come versarsi un bicchiere d'acqua – o clorofilla,
in
quel caso. La protesi tremava nel tentativo di non perdere la presa
sul vetro liscio; l'aveva riparata alla bell'e meglio dopo il suo
"diverbio" con Steve, ma era ancora deformata e
praticamente impossibile da controllare con precisione. La donna
aspettò pazientemente che dicesse qualcosa, ma lui non
parlò, nonostante fosse sicuramente consapevole di essere
osservato.
«È questo il suo concetto di "eroico"?»
proruppe infine lei.
Il bicchiere esplose in una miriade di
schegge che si sparpagliarono su tutto il piano cucina e per terra.
Tony sobbalzò scrollandosi la
clorofilla dalla mano meccanica e contemplò attonito quel
disastro,
cercando di decidere se fosse il caso di sentirsi più
irritati o
rassegnati. Infine, optò per uno sfogo più fisico.
«Me lo
dica lei qual è il
mio concetto di "eroico", dato che sembra sapere tutto di me, incluso quando ho bisogno di uno psicologo!»
esplose, scagliando la caraffa contro il muro di fronte a sé
e frantumando anche
quella.
Non si voltò a guardare Pepper e rimase a testa china,
sorretto
dalle braccia puntate contro il piano metallico della cucina. Era
intento a riportare il suo respiro a una cadenza regolare senza
riuscirvi. Da dove veniva quella rabbia? Forse dalla
faglia dolorosa che si era schiusa nel suo petto qualche giorno
prima? Non gli era sembrata così preoccupante. Era solo
un'altra
ferita, dopotutto aveva affrontato
di peggio.
"Ho affrontato di
peggio?" si chiese, improvvisamente smarrito.
La protesi era un rottame, era stato
emarginato e tradito, Iron Man era ancora un miraggio lontano,
probabilmente oscillava sull'orlo della follia e adesso
veniva preso da accessi di rabbia. Non era affatto sicuro di aver
affrontato di peggio. Sentiva di preferire qualche ora a
sentirsi tuffare la testa in un barile d'acqua sporca, piuttosto che
dover
fronteggiare Pepper in quel momento, ma trovò comunque il
coraggio di voltarsi verso di lei. Nel muoversi si appoggiò
al piano in acciaio
del lavello con la protesi, stringendone il bordo tra le dita e
imprimendovi involontariamente il calco della mano senza
sforzo.
Pepper lo fissava attonita dalla soglia, oscillando
alternativamente tra lui e il punto in cui si era infranta la brocca,
incapace di parlare. Lui si asciugò a disagio la protesi sui
pantaloni, sfuggendo il suo sguardo, ma sentendosi innaturalmente
calmo, come se quello sfogo insensato e improvviso gli avesse
schiarito le idee.
«Avanti, mi dica lei che cosa devo fare,»
sussurrò infine, senza celare la frustrazione e allo stesso
tempo con la
vivida speranza che lei potesse veramente dargli una risposta.
Lei
non rispose subito, infine sospirò e corrugò le
sopracciglia, come
se quello che stava per dire le costasse molta fatica e allo stesso
tempo stentasse a realizzare la portata di quella situazione:
«Prima di tutto, deve calmarsi.»
«Sono
già calmo,»
la interruppe lui, nonostanto la voce sforzata.
«Questo
lo chiama essere calmo?» proruppe lei, indicando la chiazza di clorofilla
stampata sul
muro.
Tony abbassò di nuovo lo sguardo, cogliendo una traccia di
panico nella sua voce più alta del necessario.
«Glielo concedo: sono agitato e forse
sconvolto, ma...»
«"Ma"
cosa? Pensa che rompere oggetti risolva qualcosa?»
«No, che non lo
penso! Non volevo neanche...»
«Non
mi interessa se voleva, l'ha fatto comunque, ed è questo
il problema!»
Pepper alzò nuovamente la voce, facendolo
trasalire.
«Va bene, ho esagerato! Sono
impulsivo e lo sono da sempre, dovrebbe saperlo!»
sbottò lui. «È contenta, adesso? Ora
possiamo tornare a...»
«Sarò
contenta quando mi permetterà finalmente di aiutarla,»
lo interruppe lei sempre senza schiodarsi dall'ingresso, come se
volesse porre un qualche tipo di divisione tra loro due.
«È quello che vorrei,
Pepper! Ma lei ha deciso che uno psicologo poteva farlo al posto
suo!»
la accusò, tornando ad affannarsi.
Si costrinse ad appoggiarsi
nuovamente al piano della cucina, imponendosi di riportare la sua
voce a un volume accettabile.
"Non con lei, Tony, non prendertela con lei. Non con lei."
si passò una mano sul volto nella speranza di poterne
scacciare
anche le ombre che lo solcavano.
«Non voglio mai più vedere uno
strizzacervelli in casa mia,»
disse in fretta, incrociando le braccia sul petto davanti al
reattore, come a proteggersi.
«E cos'è che vorrebbe,
esattamente?»
insistette Pepper, che nonotante la sua chiara rigidezza sembrava
comunque decisa a risolvere quella questione, o almeno a trovare un
punto di stallo.
La sua domanda però suonò in tutt'altro modo
alle orecchie di Tony, che si sentì nuovamente avvampare,
dimentico
di tutti i buoni propositi di pochi seocndi prima.
«La mia
cazzo di armatura e la mia
cazzo di vita!»
gridò, puntandosi il pollice contro il petto, sul
reattore. «Rivoglio indietro tutte e due, mi sto uccidendo per
riottenerle e voi non mi state aiutando! Non– non come vorrei...»
aggiunse domando la propria voce, notando l'espressione ferita di
Pepper, la stessa che gli aveva rivolto quando aveva dubitato della
sua fiducia.
«Pensavo che parlare con un esperto potesse
aiutarla, non scatenare... questo.»
commentò lei a mezza voce, e indicò con un gesto
i pezzi di vetro
immersi nella clorofilla.
«Ma porca puttana... non voglio un
esperto da prendere a parolacce o con cui fare la mia sedutina di
lavaggio del cervello!»
Tony si appoggiò di peso al piano dietro di lui e incrociò nuovamente le braccia, stavolta cingendosi il
torace
in una sorta di abbraccio, come a contenere quel flusso di parole
dirompente e confortarsi allo stesso tempo. Pepper si trovò
a fare un singolo passo avanti nel
vederlo nuovamente a capo chino, svuotato di ogni energia. Lui si
risollevò improvvisamente, incontrando il suo
sguardo chiaro con la sua unica iride nocciola, un tempo sempre
animata da una scintilla giocosa e spensierata che celava solo
qualche ombra più cupa. Adesso le ombre sembravano aver
preso il
sopravvento, rendendola torbida e spenta. Quando riprese a parlare la
sua
voce era calata di qualche tono, ancora troppo alta, ma priva della
sua caratteristica vivacità.
«Voglio discutere con te! Voglio davvero trovare una
soluzione
a... a tutto questo, ma con te! Con te!»
ribadì. «Non con uno psicologo,»
esalò infine, scuotendo la testa. «Stavo provando a
farlo qualche
giorno fa. E mi sono sentito meglio, stava funzionando, prima che...»
la sua voce si affievolì, ricordando come avesse deciso lui
di
troncare la conversazione, quella volta.
"Prima che io
rovinassi tutto come sempre," completò tra sé,
stancamente.
Pepper abbassò lo sguardo, persa in pensieri che non
voleva immaginare; ritornò oltre la soglia, di nuovo
appoggiata allo stipite, di nuovo silenziosa. Quando parlò,
fu in un tono freddo e distaccato che non le aveva mai
sentito.
«Quindi tutta questa situazione ricadrebbe sulle mie
spalle... e io a chi dovrei rivolgermi per risolvere le nostre
"esistenze complicate"?»
chiese con pungente schiettezza.
Tony si sentì sferzare da quelle
ultime parole, non aspettandosi che potesse arrivare a menzionare
quell'episodio
in un frangente simile,
ma prima che potesse rispondere lei riprese a parlare, con suo
immenso sollievo:
«E
soprattutto, come dovrei sopportare da sola tutto questo?»
accennò al caos causato da Tony.
Non era evidentemente disposta a
passar sopra al suo scatto di rabbia ingiustificato. Sembrava che
tutto ciò che riuscissero a vedere i suoi occhi fossero i
cocci di
vetro abbandonati tra di loro come un tagliente campo
minato.
«Dannazione, Pep!»
la voce di Tony si fece stridula, più simile a un guaito, e
lottò
per riportarla a un'altezza normale. «Puoi parlare con
me. Dopo tutti
questi anni ancora non ti
fidi?»
«Non
mi fido adesso. E mi
sorprende che proprio da lei arrivino richieste di questo tipo.»
rispose lei glaciale, mantenendo la solita, professionale
distanza.
Tony la
fissò smarrito. Non riusciva a capacitarsi di quello che
aveva
appena sentito.
«Non ho nessun altro di cui fidarmi,»
mormorò sperduto, ma non riuscì a guardarla negli
occhi mentre lo diceva.
Eppure desiderava crederci con tutto se stesso e sentirsi dire che
fosse così anche per lei, per quanto egoista potesse essere
quel
pensiero. Pepper tacque e stavolta fu lei ad
abbassare il capo, gli occhi celati dalla frangetta fulva.
Tony
esitò ancora: guardò il lago di clorofilla e i
cocci di vetro ai
suoi piedi e l'impronta nel metallo e la macchia verdastra sul muro che
sgocciolava lentamente sul bancone già ingombro di schegge e
tutte quelle immagini si trasformarono nei pezzi
spigolosi di un puzzle che finalmente si ricompose dinanzi ai suoi
occhi. Scosse la testa come a impedirsi di focalizzare ciò che
raffigurava, ma infine diede voce alla domanda che racchiudeva:
«Mi
considera pericoloso?»
Non si stava
rivolgendo davvero a lei; dal suo tono sembrava più una
semplice
constatazione, più che una domanda. Teneva l'occhio fisso
sulla protesi, ora abbandonata
mollemente nell'impugnatura della stampella.
Pepper voleva davvero
rispondere che no, non la pensava così... ma si
sentì oppressa da
un brutto presentimento, un qualcosa che le impediva di mentire e che
somigliava terribilmente a paura. Si limitò a uscire lentamente
dalla stanza senza dargli una risposta.
Tony ci mise qualche
secondo a realizzare che non era più lì, e
sentì un doloroso vuoto
allo stomaco. Lo sguardo gli cadde sul calco delle proprie dita
impresse sul bancone; vi poggiò istintivamente la mano,
incastrando
perfettamente la protesi nei profondi solchi che incidevano il
metallo.
Prese un profondo respiro, fremendo improvvisamente di
collera, la mente annebbiata da foschi pensieri.
"Pace
interiore, Tony. Pace interiore..."
La credenza fu la prima
cosa a schiantarsi a terra.
____________________________________________________________________________________________________________________________________________
Revisione effettuata il 24/02/2018
Note delle Autrici:
Alzi la mano chi ha notato l'aumento del linguaggio scurrile! Noi sì *sventolano le mani insieme a Pepper* Oh, beh... lei se ne è accorta!
Comunque! Da qui Tony inizia, letteralmente, a sbroccare. Ma di brutto. È solo l'inizio come si suol dire... e poi ci piace un Tony violento u.u (Ammettetelo!)
I richiami alla pace interiore alla Kung-Fu Panda non hanno effetto su di lui e Maestro Shifu rischia di dargliele...
Ringraziamo e benediciamo dall'alto dei cieli alliearthur, Rogue92, blackpearl_, Micchi e Sherlock_Watson che hanno recensito/aggiunto la storia tra le seguite :D
Non sapete quanto siamo felici **
Ci sentiamo veramente appagate <3
Moon&Light
© Marvel
|
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Capitolo 14 *** Hysteria ***
13
Hysteria
"And
I want you now,
I
want you now
I feel my heart implode
And I'm breaking
out
Escaping now
Feeling my faith erode"
[Hysteria
– Muse]
12
Marzo, Villa Stark
Pepper
era appena uscita dal bagno, quando notò che la luce nel
laboratorio
era ancora accesa. Si bloccò nel salone, stupita, e
controllò
dubbiosa l'orologio a muro, sussultando: erano le tre di notte.
E
dire che non avrebbe dovuto alzarsi dal letto... cosa diavolo stava
facendo ancora sveglio?
Rabbrividì
appena nel suo pigiama di flanella e scese silenziosa le scale a
piedi nudi, evitando accuratamente di voltare lo sguardo verso la
cucina quando vi passò accanto. Era davvero troppo tardi per
mettersi a riflettere anche su quello.
Digitò
rapida il codice di accesso sul vetro e la porta si aprì con
uno
scatto che ruppe il silenzio profondo della casa. Tony era solito
lavorare con un po' di musica in sottofondo anche ad orari
improbabili della notte, ma stavolta il laboratorio era avvolto da
una calma irreale.
«Ha
di nuovo rotto il tasto invio. Calibrare potenza: meno 2.3%.»
La
voce di JARVIS la fece sobbalzare.
Sentì
un'imprecazione a malapena soffocata risuonare nella sala.
Tony
le voltava le spalle, seduto alla sua scrivania high-tech invasa di
monitor mentre cercava di digitare con la mano destra su una tastiera
olografica senza molti risultati: molti tasti erano colorati di
rosso, probabilmente a indicare che le simulazioni per calibrare la
potenza non stavano dando i risultati sperati. La riparazione del
braccio sembrava a buon punto, ma si intravedevano i circuti interni
scoperchiati e le dita erano ancora solo un rudimentale abbozzo
metallico, simili a pistoni. Ebbe l'impressione che ne avesse
alleggerito la struttura, ma sembrava molto più difficile da
gestire
della protesi precedente, a giudicare dai movimenti scattosi e
improvvisi che non riusciva a controllare.
Intorno
a lui galleggiavano varie schermate e due modelli tridimensionali
rispettivamente di un braccio e una gamba, oltre ad una serie
infinita di altri piccoli pannelli che mostravano dati anatomici e
cartelle mediche che Tony esaminava rapidamente sfogliandoli e
spostandoli con piccoli gesti precisi della mano sana. Pepper si
accigliò:
stava già
pensando alla gamba?
Le
cose più evidenti in tutto quel caos erano l'enorme thermos
di caffè
e una desolata scatola di cinese take-away che Tony stringeva
ossessivamente con la mano sinistra a mo' di pallina anti-stress. Era
deformata e
semidistrutta.
«Tony,
sono le tre...»
lo
chiamò con voce impotente, sapendo che non la avrebbe
neanche
ascoltata.
Lui
sobbalzò appena al suono della sua voce, ma rispose quasi
subito:
«Lo
so, ma questo maledetto affare...»
imprecò,
senza neanche voltarsi, accartocciando la tastiera in una palla
elettronica e scagliandola con un bing
dall'altra
parte della stanza, insieme alla scatola di carta che gettò
nel
cestino stracolmo.
I
suoi gesti erano secchi, nervosi, e Pepper si chiese se oltre al
caffè non avesse bevuto anche qualche alcoolico.
Sperò vivamente di
no: ricordava fin troppo bene il modo in cui si riduceva ai suoi
party megagalattici e sapeva quanto poteva essere vulnerabile e al
contempo
volubile da ubriaco. E non aveva nessuna intenzione di trascinarlo di
peso fino alla tazza del water dopo una sbronza epocale.
«Dovrebbe
andare a dormire, è molto tardi. Le ricordo che domani,
cioè oggi,
dovrebbe discutere con Kyle del prossimo processo,»
disse
in tono calmo e naturale, cercando di non risultare autoritaria.
Le
riusciva difficile: dopotutto, anche se tecnicamente era lui
il suo capo, era lei
a dargli ordini. O meglio, direttive che lui raramente seguiva.
«Ah,
sì...
Kyle,»
replicò
Tony, agitandosi al solo sentire quel nome in un misto di imbarazzo e
irritazione. «Di questo passo non so neanche se
sarò in grado di
"pagarlo",»
sbottò,
accennando al suo lavoro decisamente incompleto.
Pepper
quasi sperò che a quel punto rinunciasse, si alzasse e le
desse retta,
per poi
accorgersi che probabilmente, assorto com'era dal suo lavoro, si era
già dimenticato della sua presenza. Si avvicinò
esitante, ancora
non del tutto certa delle sue condizioni, e notò con
sollievo che
non c'era odore di alcool; solo clorofilla, caffè e la scia
del suo
solito dopobarba. Tony
udì i suoi passi fermarsi accanto a sé e si
girò brevemente,
offrendole uno scorcio del suo occhio gonfo di sonno e del livido
sullo zigomo che non accennava a sparire.
«Un
ultimo paio di test e poi vado... non rimanga sveglia,»
aggiunse
in un mormorio assente, ma con una punta di dolcezza, per poi
riprendere il lavoro come se Pepper non
esistesse.
Pepper
corrugò le sopracciglia, ma non obiettò ed
ignorò l'invito,
appollaiandosi in tensione sullo sgabello libero accanto a lui. Lui ne
prese atto, storse la bocca, ma non disse nulla. Scrutò con fare assorto l'anatomia di
una gamba umana,
evidenziando
con la punta di un dito le parti essenziali e le giunture, tracciando
linee che indicavano probabilmente i punti in cui sarebbero stati
collocati i vari componenti.
«Ci
sono,»
ragionò
a mezza voce.
Afferrò
distratto una borraccia e vi si attaccò, ma fece una smorfia
nel
riconoscere il saporaccio della clorofilla; la sostituì
subito con
la tazza di caffè, trovandola però vuota.
«JARVIS,
voglio una scannerizzazione precisa e completa del mio arto inferiore
sinistro, tessuti molli compresi. E che sia esauriente,» disse, e
scolò
in un sorso l'ultimo goccio di caffè rimasto nel thermos
attaccandosi direttamente ad esso.
Pepper
aspettava pazientemente che finisse i suoi esami, per essere
certa che andasse a dormire a lavoro finito, ma si sentiva
insolitamente nervosa. Ci mise un po' a capire che la ragione di quel
turbamento era proprio l'uomo esausto di fronte a lei.
"Mi
considera... pericoloso?"
le rimbombò in testa, come una
puntura di spillo improvvisa.
Non
era ancora in grado di darsi un risposta e voleva evitare di
ragionarci su adesso. Si accomodò meglio sullo sgabello,
pensando
che probabilmente si sarebbe addormentata lì.
Intanto, un
fascio di luce verde-azzurro scannerizzò la gamba sinistra
di Tony
con un sibilo elettronico. A scansione completa l'arto emanava un
lieve bagliore; bastò un tocco delle dita per separare il
modello
virtuale dal suo corpo.
«Speculare,»
ordinò
Tony, e con uno schiocco di dita lo specchiò, trasformandolo
in una
gamba destra.
Il
modello rimase sospeso di fronte a lui, che cominciò ad
esaminarlo
con attenzione, ingrandendone i pezzi e studiandone approfonditamente
la struttura. Ogni tanto intingeva le dita in vari quadratini di vari
colori che gli galleggiavano accanto, corrispondenti a lui solo
sapeva cosa, ed evidenziava alcuni tratti della gamba che da allora
rilucevano di una luce metallica. Fu piuttosto rapido: in un quarto
d'ora scarso l'aveva trasformato in un modello meccanico.
Pepper
lo giudicò troppo rapido perfino per i suoi standard: non
era tipo
da fare le cose di fretta, anzi, poteva passare ore e ore a
perfezionare un dettaglio insignificante, ma d'altra parte si sentiva
chiudere le palpebre dal sonno, quindi ne fu contenta. Tony sembrava
invece non risentire dell'ora, probabilmente alimentato da
nervosismo, caffeina e disperazione.
«JARVIS,
questo è un prototipo,»
disse
con voce monotona. «Osso in titanio, muscolatura in
unobtanium,
cartilagine in unobtanium molle...»
la
sua voce si perse in un mormorio confuso, mentre elencava una decina
di altri elementi e il computer reagiva trasformando le informazioni
in una scheda dettagliata che si srotolò di fianco al
modello.
Quando
finì di parlare bevve un rapido sorso di clorofilla, a corto
di
altre bevande.
«Testala
col mio peso corporeo.»
Un
modello 3D essenziale con le sue sembianze si materializzò
di fronte
a lui e Tony vi applicò la gamba meccanica, che
aderì al moncherino
digitale con un tenue bip.
Finalmente si girò verso Pepper con un sorrisetto
compiaciuto; lei
ebbe l'impressione che le occhiaie gli arrivassero alle ginocchia, ma
ricambiò debolmente. Tony
battè una volta le mani – facendosi palesemente un
male cane per
la troppa forza – producendo un suono indistinto che
avviò la
simulazione. Il modello si mosse e fece un paio di passi, ma al terzo
la gamba si spezzò. Il sorriso svanì dal volto di
Tony, adesso
rabbuiato e accigliato mentre seguiva con lo sguardo la colonna di
calcoli che scorreva accanto al modello.
«Errore
di progettazione rotula: metallo insufficiente; sovraccarico
energetico insostenibile: fusione a 3.7 secondi
dall'avvio.»
«Cazzo...
di nuovo.»
Scansò
il modello con una manata, lo accartocciò e lo
gettò stizzito in un
angolo, dove esplose in una miriade di scintille virtuali. Si
passò una mano sulla fronte e sospirò sfinito. Pepper
stava per consigliargli di andare finalmente a letto, ma le sue
successive parole scacciarono qualsiasi premura nei suoi
confronti:
«Portami
un caffè.»
Pepper
non rispose per qualche secondo, quasi convinta che stesse parlando
con JARVIS, ma questo rimase muto. Quando rispose, la sua voce era
forzata.
«Prego?»
Gli
stava chiaramente offrendo l'opportunita di rimangiarsi quel che
aveva appena detto, ma lui continuò imperterrito:
«Ho
chiesto quella bevanda nera e bollente fatta di acqua e
caffè; è
tanto complesso? Di sicuro non più di questo,»
sbottò
Tony.
«Sono
la sua assistente,
non la sua cameriera,»
puntualizzò
Pepper, alzandosi in piedi e indecisa se lasciarlo lì o
avviare una
discussione che si prospettava infinita e devastante.
Era
tentata dalla seconda opzione, soprattutto per il fatto che Tony non
la stava neanche guardando.
«E
allora, assistente,
portami del caffè. Ti pago anche per questo,»
tagliò
corto lui, immergendosi nuovamente nel flusso di dati che si dipanava
di fronte a lui.
Pepper
a quel punto si avvicinò di scatto e lo voltò
bruscamente per la
spalla sana. Si ritrovarono faccia a faccia, entrambi scuri in
volto.
«Cos'è
questa confidenza?»
scattò
lui, con un'espressione a metà tra il risentito e il
difensivo, adocchiando con una sorta di timore represso il punto in cui
lo stava toccando.
Allentò la stretta, forse troppo decisa.
«Lei
ha veramente
bisogno
di dormire,» proferì, cercando di non far
vibrare la propria voce.
«Sei
la mia assistente, non mia madre. Lei non c'è più
da un pezzo.»
Si
divincolò debolmente, ma Pepper non mollò la
presa, intuendo che se
l'avesse fatto lo avrebbe perso. Non
lo aveva mai sentito neanche vagamente accennare a sua madre in dieci
anni e adesso la nominava in un contesto talmente futile da darle
un'idea di quanto dovesse essere esaurito. Probabilmente non aveva
neanche piena coscienza di quel che stava dicendo. Lui girò
la testa
verso lo schermo, ignorandola platealmente e offrendole il lato
cieco.
Pepper
non seppe esattamente se fosse il fatto che non la volesse ascoltare,
o che la stesse ignorando, o il modo plateale in cui l'aveva
insultata, ma sentì la sua valvola di controllo sempre
così
efficiente che perdeva un colpo. Le successive parole le sfuggirono
come un fiotto di vapore tenuto troppo a lungo sotto
pressione:
«Devi-dormire!»
scandì,
diventando rossa in viso, tralasciando le formalità e non
riuscendo
a ricordare quando l'avesse effettivamente visto riposarsi negli
ultimi tre giorni.
«Devo-rifarmi-una
vita!»
urlò
lui di rimando, tornando a fissarla con uno scatto.
Si
sarebbe probabilmente alzato dalla sedia per fronteggiarla, se solo
avesse potuto. Pepper lo lasciò andare di colpo, presa in
contropiede da quella reazione. Tony
aveva il respiro accelerato e la fissava come se volesse farla
scomparire di lì all'istante. Stava tremando ed era pallido,
troppo
pallido,
con la pupilla così dilatata da far sembrare nero il suo
unico occhio.
Per un istante, le fece paura.
Strinse di nuovo la valvola dell'autocontrollo, convogliando tutta la
sua concentrazione nel non
abbassarsi
al suo livello.
«Ti
sembra che pretendere troppo da te stesso e stressarti fino a questo
punto possa...»
cominciò, in tono quasi ragionevole, ma
a quelle prime parole Tony
s'infiammò all'istante, perdendo definitivamente ogni
briciolo di
razionalità:
«Stressarmi?
Cosa ti fa credere che mi stia stressando?»
gridò,
e la sua voce si arrochì, costringendolo a fare una
breve
pausa per deglutire, ma
poi riprese con più foga di prima:
«Forse
l'improvvisa mancanza di due arti e un occhio, un'accusa che mi pende
tra capo e collo e dei Vendicatori incazzati neri da gestire, per non
parlare del fatto che Cap mi ha sfondato un braccio!? Che intuito,
Pepper! Ma hai ragione, non dovrei affatto
stressarmi!
Dovrei continuare a vivere normalmente, come se fosse possibile!»
si
fermò ansante, in tensione sulla sedia come se volesse
balzarne via
da un momento all'altro. «Come se non volessi strapparmi
questa roba
di dosso e riprendere la mia vita, se
solo potessi!»
urlò
infine con tutto il fiato che gli era rimasto in petto, facendola
quasi indietreggiare con la sua furia, ma si costrinse a rimanere
salda e ben piantata al suo posto, sapendo che se avesse ceduto non
sarebbe mai più potuta tornare indietro.
C'era
una linea, tra loro, e lei l'aveva superata, spingendo Tony a fare lo
stesso. Adesso non poteva
barricarsi di nuovo dietro di essa. Era in campo aperto e non si
sarebbe ritirata prima di aver fatto ciò che riteneva
giusto;
avrebbe impedito a quel senso di colpa strisciante di prendere il
sopravvento su di lei.
«Tony,
io capisco che vuoi solo tornare...»
«No,
che non capisci!»
la
interruppe lui, con la voce roca per il troppo urlare. «Come
potresti
mai
capire
quello che sto passando?»
la
provocò, in tono quasi derisorio.
«E
tu capisci cosa sto passando
io
nel
vederti così?»
fallì
nell'intento di non mettersi a gridare anche lei.
«Non
mi serve la tua pietà!»
s'inalberò
nuovamente lui.
«Non
puoi
continuare
così!»
«Devo
farlo!»
«Non
dormi da settimane!»
«E
ti sei mai chiesta perché?»
la
rimbeccò lui, con arroganza mista a incredulità.
«Non ci riesco, a
dormire! Non ricordo l'ultima volta in cui i moncherini mi abbiano
fatto chiudere occhio!»
serrò
la mascella di colpo, come se non avesse avuto intenzione di dire
quelle
ultime parole.
«Se
prendessi gli antidolorifici...»
«Non
funzionano!» replicò lui, e una crepa si
insinuò nella sua voce. «Mi fanno male lo stesso,
in continuazione!»
Pronunciò
quelle parole con tanta frustrazione e sofferenza che Pepper
ammutolì
brevemente, divenendo consapevole delle costanti linee di tensione che
segnavano il volto di Tony e che solo allora riconobbe
come tracce del dolore fisico che lo tormentava.
«Così
non ti stai aiutando,»
riuscì
solo a ribattere, in tono sconfitto, sperando che tornasse in
sé.
«Non
mi sembra che neanche tu mi stia aiutando più di tanto,»
dichiarò
lui altrettanto piattamente.
La
donna lo fissò incredula per quelle parole, ma lui
girò di nuovo la
sedia, voltandole le spalle e selezionando una nuova schermata per
ricominciare da zero il prototipo, come se il loro alterco non fosse
mai avvenuto. Pepper
lo fissò attonita per ancora qualche secondo, ferita e
combattuta
tra l'istinto di prenderlo a schiaffi e quello di tornarsene a casa
sua seduta stante. Aveva passato gli ultimi mesi a farsi in quattro
per lui, per gestire la sua azienda, si era addirittura trasferita per
tenerlo d'occhio, gli
aveva trovato un avvocato e un medico e doveva anche sentirsi dire
che non faceva
abbastanza.
«Sto
ancora aspettando il mio caffè,»
riprese
lui in tono secco e provocatorio, come se volesse testare quanta
pazienza le fosse rimasta.
«Subito,
signor
Stark,»
scandì
fumante lei, senza dargli soddisfazione.
Inspirò
profondamente per non urlargli in faccia dove sarebbe potuto andare
col suo dannato caffè. Si trattenne. Aveva un'idea migliore.
Si
avviò con passo deciso verso l'angolo cucina, ma
virò subito verso
la parete, folgorata da un'altra illuminazione che avrebbe
sicuramente demolito il poco autocontrollo rimasto in Tony. Non le
importava delle ripercussioni di quel gesto: in quel momento sentiva
solo un'indignazione cieca nei suoi confronti, unita all'intenzione
di infastidirlo. Digitò rapida il suo codice d'accesso su
uno
schermo infisso nella parete e la voce di JARVIS iniziò a
dire
qualcosa, ma fu troncata dal blackout improvviso. L'unica fonte di
luce rimasta nella stanza era un piccolo cerchietto azzurrino che
sembrava fluttuare nel buio.
«No!
Il mio prototipo! Dannazione... Potts!»
esclamò
lui, la sua voce densa di rabbia allo stato puro.
La
luce azzurra sparì un momento, tremolò e riprese
a brillare
normalmente.
«Sì,
signor Stark?»
ribattè
glaciale lei, sopprimendo il picco d'ansia nel vedere lo sfarfallio del
reattore.
Si
accesero le luci di emergenza e questa volta JARVIS riuscì
parlare:
«Drastico
calo di tensione; luci di emergenza: attivate. Signore, i dati sono
stati
sal–...»
«Muto.
Ma grazie, JARVIS, il tuo aiuto è prezioso!»
commentò
acido lui, illuminato fievolmente da una luce verdastra oltre che
dal reattore, cosa che accentuava le ombre cupe sul suo volto.
Pepper
fece brevemente tappa nell'angolo cucina, mentre Tony continuava a
imprecare in sottofondo, per poi riavvicinarsi a lui con un thermos
in mano.
«È
tutto, signor Stark?»
chiese
con forzata tranquillità.
«In
realtà sì, signorina Potts, quindi potrebbe farmi
il gentile favore
di andarsene a...»
si
interruppe di colpo, annaspando stordito.
Ci
mise qualche secondo per realizzare che Pepper gli aveva appena
rovesciato l'intero thermos di caffè freddo in testa,
fradiciandolo
da capo a piedi. Pepper rimase ferma di fronte a lui, furibonda,
impettita e con un'espressione vagamente soddisfatta nell'osservare
la sua faccia stralunata e rigata da gocce scure. Lui
la guardò assente, con la bocca schiusa, toccandosi
incredulo i capelli grondanti
della
sua amata bevanda e strizzandoli appena, come a verificare che non si
stesse immaginando tutto. Sembrava aver recuperato un briciolo di
lucidità adesso, anche se l'espressione vacua sul suo viso
non
preannunciava nulla di buono. Era chiaro che stesse disperatamente
pensando a come reagire, ma sembrava in stato confusionale. Spostava
a piccoli scatti lo sguardo da un occhio all'altro di Pepper, non
sapendo dove guardare e incapace più che mai di sostenere
quel
concentrato d'indignazione e furia.
Scrollò
brusco la testa, sprizzando goccioline qua e là e
sistemandosi
invano la benda sul volto, ormai umida e quasi staccata dalla sua
pelle. Abbassò
il capo, poi si voltò di lato per non doverla fronteggiare.
Infine
le voltò ostentatamente le spalle, girando sulla sedia. Pepper
rimase piantata al suo posto, senza parole, col thermos vuoto in mano
e la rabbia che lasciava posto allo sconforto.
«Vattene,»
lo
udì mormorare, così piano da sembrare quasi un
respiro.
E
in quel momento decise che non l'avrebbe mai fatto. Non si mosse di un
passo, decisa ad aspettare anche tutta la notte, finchè Tony
non si
fosse deciso a cedere, a spiegare non sapeva neanche cosa, a
parlarle, come diceva di voler fare nonostante lei glielo avesse
negato. Di nuovo quel bruciante senso di colpa si
ripresentò, più
potente e giustificato.
Tony
fissava, probabilmente senza vederli, la miriade di bozzetti e
componenti di arti meccanici accatastati sulla scrivania, mentre
strizzava con aria assente la maglietta bagnata e si passava la mano
tra i capelli scomposti nel fiacco tentativo di asciugarli.
Afferrò
distrattamente un frammento di lamina metallica con la mano meccanica
e lo stritolò come se fosse un pezzo di carta.
Sospirò
profondamente. Il
rottame cadde con un clangore sul pavimento.
«Vattene,»
ripetè,
con più forza.
Sembrava
sul punto di esplodere di nuovo.
Avrebbe
potuto permetterglielo. Avrebbe potuto istigarlo di nuovo, scuoterlo,
portarlo al limite che aveva già superato.
«Non
sei pericoloso.»
***
La
sentì pronunciare quelle semplici parole, le uniche che
avesse mai
voluto sentire, e sussultò violentemente, come se avesse
ricevuto una
scossa. Per quasi un minuto cercò una risposta che potesse
convincerla del contrario, prima di rendersi conto che voleva
crederci con tutto se stesso. Poggiò i gomiti sulle
ginocchia e
si prese la testa fra le mani, raggomitolandosi e traendo respiri
profondi e stentati.
«Come faccio?»
sussurrò quasi inudibile.
Percepì le mani di Pepper posarsi
sulle sue spalle e sapeva che poteva sentire il tremito che lo
scuoteva.
«Come faccio...?»
ripetè ancora, affondandosi le dita tra i capelli bagnati.
La
donna voltò lentamente la sedia per guardarlo in faccia, ma
lui rimase chino. Scosse la testa nel buio, amareggiato, umiliato,
vergognandosi per
quel che le aveva detto e per lo stato pietoso in cui si trovava.
Fissò lo sguardo sulla pozza di caffè ai suoi
piedi. In
quel momento non si sentiva davvero in grado di fare nulla, neanche di
parlare.
Pepper
sembrava altrettanto annullata; si chiese se lo stesse compatendo o
se volesse semplicemente lasciarlo lì e andare via, lontano
da lui e
dai suoi problemi che stavano facendo crollare il suo mondo e anche
quello di chi lo circondava.
Non alzò la testa, non potendo
sopportare di vederla allontanarsi, anche se ne aveva tutte le ragioni.
Si sentì invece stringere
senza preavviso da un abbraccio caldo che avvolse entrambe le sue
spalle, quella fredda e inerte e quella ancora umana, che
sentì
muoversi d'istinto per ricambiare, come se non avesse aspettato
altro. Tony non aveva previsto quella reazione, neanche da parte
propria, ma si rese conto che era davvero tutto ciò che
aveva desiderato da
quando si era svegliato in quel letto d'ospedale.
Lei era lì
anche allora. C'era sempre stata. E aveva bisogno di lei più
delle protesi, più di Iron Man, più del suo
inutile orgoglio che
gli faceva pronunciare parole che rimpiangeva subito dopo.
Aveva
bisogno di qualcuno a cui aggrapparsi e che lo sostenesse quando lui
non poteva più farlo da solo. Avrebbe dovuto ammetterlo
prima di comportarsi così.
«Questo è troppo anche per me,»
confessò infine, e con quell'ammissione percepì
finalmente tutta la
reale entità del dolore fisico e mentale che lo stava a poco
a poco
corrodendo e che aveva scelto di ignorare.
Lo stava consumando e
non aveva fatto nulla per impedirlo. Stava per lasciarsi dietro solo
un uomo distrutto senza più niente per cui vivere o anche
solo
andare avanti.
«Shh...»
Pepper gli sussurrò dolcemente all'orecchio, ignorando il
fatto che
fosse fradicio di caffè e stringendolo comunque con
delicatezza, china su di lui con un ginocchio sulla sedia e
incurante della chiazza scura che i suoi capelli stavano imprimendo sul
suo
pigiama.
Gli accarezzò appena la base del collo, arricciandogli i
capelli e quel gesto lo
rassicurò un poco, ma non lo convinse ancora a sciogliere
l'abbraccio, anzi, la strinse appena col braccio sano, lasciando quello
meccanico abbandonato lungo il fianco, non fidandosi abbastanza per
usare anche quello. Inspirò a fondo e insieme all'aroma del
caffè percepì il profumo di Pepper, dei suoi
vestiti appena lavati, della sua pelle dolce che gli sfiorava il naso,
dei suoi capelli sciolti contro la sua guancia. Iniziò a
parlare piano,
con voce stanca e soffocata contro la stoffa della sua
maglietta.
«Pep, sto impazzendo. Non so cosa devo fare. Mi
sembra di non impegnarmi abbastanza. Ho costruito un cuore con una
cassetta degli attrezzi in una caverna. Questo dovrebbe essere uno
scherzo per me, ma non ci riesco, non voglio farlo o... non lo so
neanch'io,»
sbottò senza
neanche riuscire ad alzare la voce, tenendo nascosto il volto e
stringendola appena.
Pepper
continuò ad abbracciarlo, ma non replicò, come ad
assicurarsi che
non volesse aggiungere altro. Lo stava ascoltando, finalmente, e si
sentì scoppiare il cuore di sollievo a quella realizzazione.
«Tony,» riprese, quando lui non aggiunse altro,
«stai lavorando tantissimo, capisco quanto sia importante per
te, ma questo
è
troppo. Hai bisogno di darti tempo.»
«Come
faccio a darmi tempo?»
Tony scosse la testa e trovò la forza di staccarsi appena da
quella
stretta rassicurante che era riuscito a trovare dopo tanta sofferenza.
«Mi aspettano tutti, Pep. Non posso essere una
delusione. Non posso fallire.» Prese fiato, sentendosi
chiudere la gola. «Non posso perdere
tempo,»
concluse in un
mormorio appena udibile, rendendosi conto di averne perso fin troppo,
di aver già sprecato parte della sua vita.
Aveva deluso suo padre, stava deludendo Yinsen e adesso stava per
deludere anche lei. Raccolse la forza per cercare i suoi
occhi oltre il proprio sguardo appannato. Lei ricambiò con
l'espressione rassicurante e forte che le conosceva, ma allo stesso
tempo venata dalla stessa stanchezza che percepiva in sé.
Era stanca, adesso riusciva ad accorgersene, e lui era
stremato da quella situazione priva di uscite. Aveva il disperato
bisogno di una via di fuga.
Il suo sguardo si posò
involontariamente sulle labbra di Pepper e non riuscì a
distoglierlo
abbastanza in fretta da evitare che lei se ne accorgesse.
Incontrò
brevemente i suoi occhi mentre anche lei si soffermava sulla sua
bocca. La attirò un poco a sé, cauto, e lei lo
assecondò, avvicinandosi e inclinando appena di lato la
testa.
Tony si fermò, per la prima volta incerto su come
comportarsi,
ma le posò comunque la mano sulla sua guancia punteggiata di
efelidi,
timoroso che potesse ritrarsi. Sentì il suo naso sfiorare
quello di
Pepper, freddo contro la sua pelle accaldata. Rimase paralizzato, a
pochi centimetri dalle sue labbra, dalla sua via di fuga, dalla donna
che desiderava e che adesso aveva socchiuso gli occhi fissandolo con
un misto di curiosità, confusione e aspettativa. Adesso
sentiva il suo
respiro sulle sue labbra, a un soffio dalle sue.
Prima che potesse
ripensarci ancora la attirò con decisione a sè e
la abbracciò
strettamente, affondando il volto nei suoi capelli e sentendo con una
morsa di panico il suo cuore che perdeva un battito. Non ebbe
bisogno di guardarla in faccia per percepire il suo stupore, ma
sperò
che capisse quello che neanche lui riusciva del tutto a spiegare.
Non poteva farlo. Non poteva e basta. Non in quello stato, non mentre
era... così.
Pepper sciolse piano l'abbraccio, rimanendo al livello dei suoi
occhi, ancora accanto a lui, ma a una distanza decisamente maggiore di
prima. Tony si
costrinse a sostenere il suo sguardo con fermezza che non sentiva
propria.
Si sentì parlare senza poter ricordare di averlo
voluto:
«Si ricorda cosa è successo prima del processo?»
sentì la sua voce spegnersi alla fine della frase, mentre
prendeva
consapevolezza di quel che stava dicendo.
Cosa gli era venuto in
mente? Era impazzito del tutto?
Notò il tentennamento di Pepper,
che cercava forse di trovare una logica nelle sue azioni, senza
ovviamente trovarla. Ma era abituata a mantenere la sua
risolutezza anche nelle situazioni più tese, così
rispose, appena
un po' inquieta:
«Quando, esattamente?»
"Cambia
argomento," gli suggerì con fermezza la sua parte razionale.
La
sua bocca ignorò il consiglio, così come prima
aveva ignorato
quello di incontrare le labbra di Pepper, e continuò a
muoversi di
sua volontà:
«Sa... mentre aspettavamo Kyle e Ian. Nella sala
d'attesa,»
si trovò a
dire, anche se sentiva chiaramente che non era il momento adatto per
affrontare la questione.
Non era il momento adatto per parlare,
ecco tutto.
«Prima del processo? Mi sembra che non sia accaduto
nulla,»
rispose allora
lei con improvvisa naturalezza, facendo scivolare via il ginocchio
dalla sedia e recuperando una distanza ragionevole
tra loro.
Era estremamente risoluta. Forse era anche ferita, e
scorgeva una scintilla di delusione nei suoi occhi... come poteva
anche essere risentimento o sollievo. In quel momento la donna gli
era indecifrabile. L'unica cosa chiara era ciò che voleva
intendere con quelle parole: non ci voleva poi un genio come lui per
capirlo. Recuperò la sua solita, gioviale disinvoltura con
una
rapidità che non avrebbe creduto possibile:
«Oh. Ha
perfettamente ragione. Sa, questa è una delle molte
qualità che la
contraddistinguono: la perspicacia,»
buttò lì Tony, cercando di suonare indifferente
senza molto
successo.
Fece un sorriso un po' stentato, incrinato da un punta
di rammarico. Lei non ricambiò, ma il suo volto era
disteso. Fu
chiaro a entrambi che la questione era chiusa.
«È tutto, signor
Stark?»
Quelle poche,
precise trapassarono brutalmente le orecchie di Tony,
che si ritrovò disorientato per qualche secondo
nell'accorgersi che
Pepper era ora in piedi di fronte a lui, composta come sempre, con la
sua solita espressione neutra e cordiale. Inghiottì il nodo
alla
gola e rispose con altrettanta scioltezza:
«È tutto, signorina
Potts.»
Dentro di lui,
qualcosa si ribellò a quell'affermazione, ma non vi
badò. Sarebbe
scomparso tra poco, quel senso di incompletezza che l'aveva appena
pervaso, grazie alla quantità esagerata di antidolorifici
che
progettava di assumere di lì a pochi minuti per dormire,
finalmente.
Tutto pur di inibire qualsiasi dolore fisico, psicologico o
immaginario. Quei secondi di pesante silenzio furono interrotti da
lui stesso:
«Forse è il caso...»
«...
che vada a dormire,»
completò lei, con ferrea fermezza.
«Io... sì, forse ha
ragione,»
borbottò Tony,
preso alla sprovvista e accusando improvvisamente tutta la stanchezza
della giornata e il sonno arretrato.
Voleva dire tutt'altro, ma
si alzò comunque senza parlare, puntellandosi sulle
stampelle.
«Sarà
anche il caso che passi a farmi una doccia...»
aggiunse poi, scollandosi di dosso la maglietta ancora
bagnata,
indeciso se scherzarci sopra o meno.
Optò per il silenzio e
Pepper fece lo stesso. Si avviò verso l'uscita del
laboratorio,
seguito da Pepper, che lo scortò fino alla porta del bagno
per
evitare che se la squagliasse.
«Me la cavo da solo,»
la rassicurò lui, aprendo il getto della vasca.
«Al
massimo mi
addormento qui,»
aggiunse
in un tentativo di smorzare la tensione.
«Se le serve...»
cominciò Pepper, ma lui la interruppe, più
bruscamente di quanto
intendesse:
«C'è JARVIS. Non si preoccupi,»
aggiunse in tono più conciliante, sedendosi su uno sgabello
e iniziando a svestirsi.
«Buonanotte,»
le
augurò poi sottovoce, mentre lei già chiudeva la
porta.
Gli
sembrò di sentirla ricambiare, ma non ne fu certo e
fissò ancora
per qualche secondo la porta, come aspettandosi di vederla riaprirsi
per fugare il suo dubbio.
***
Pepper
rivolse un sguardo indecifrabile a Tony, che le augurò la
buonanotte, poi chiuse la porta e
si defilò nel corridoio senza voltarsi. Solo dopo
qualche passo realizzò di non avergli risposto, ma era
troppo tardi
per tornare indietro e adesso era probabilmente troppo occupato a
destreggiarsi tra vestiti e stampelle. Raggiunse in stato quasi
catatonico la sua stanza, si cambiò rapidamente il pigiama
macchiato
di caffè e collassò sul letto, abbandonandosi sul
materasso e rimandando la doccia al mattino dopo.
Lanciò un'occhiata all'orologio: erano le quattro del
mattino
passate. Emise un sospiro esausto prima di chiudere gli occhi senza
riuscire a dormire.
Si arrese infine al sonno, incapace togliere
dai suoi sogni confusi l'immagine traballante di un cerchietto
azzurrino che
fluttuava nel buio della sua camera.
***
12
Marzo, Villa Stark
Si
svegliò alle nove, decisamente distrutta, ma era almeno in
grado di
reggersi in piedi. Si alzò barcollando per il sonno,
infilandosi subito sotto la doccia.
Uscì dal bagno vestita di tutto punto, coi capelli ancora
leggermente umidi. Doveva
sbrigarsi: Kyle sarebbe arrivato entro le dieci. Avrebbe anche dovuto
avvertire Tony, perché l'aveva sicuramente dimenticato.
Esitò
sulla soglia della propria stanza, poi si ricordò la parola
d'ordine che si era
imposta
per quel giorno: normalità.
Diretta in salone, passò davanti
alla stanza dell'uomo e vide che era chiusa. Bene: stava ancora
dormendo, e aveva decisamente bisogno di recuperare il sonno
perso.
Scese in laboratorio, dove aveva lasciato le pratiche
legali, e si stupì nel vedere che in realtà Tony
era già in piedi
e lavorava vivacemente a un abbozzo della protesi della gamba, che
stava già assemblando sul banco da lavoro.
"Chissà a che
ora si è..." non completò il pensiero,
perché notò che la
protesi era un po' troppo complessa rispetto a quella notte per essere
stata costruita in breve
tempo.
Si arrestò sulle scale e, senza farsi vedere,
tornò di sopra avviandosi
verso la stanza di Tony. Aprì la porta con malcelata
angoscia e vide
esattamente ciò che si aspettava: il letto era intatto.
Sospirò,
delusa, e serrò le labbra in una linea tesa.
Non andava bene...
non andava affatto bene.
____________________________________________________________________________________________________________________________________________
Revisione effettuata il 24/02/2018
Note delle Autrici:
Ora, gentili lettori, chiudete gli occhi, immergetevi nel vostro flusso di coscienza ed immaginate un sonoro... "C-O-G-L-I-O-N-E!" esplodere nei recessi della mente di Tony dopo la marea di stronzate che dice al momento sbagliato.
Sappiamo di aver dipinto così il vostro beneamato Tony, ma d'altronde lo è sempre, almeno un po'... giusto?
E adesso possiamo dire che iniziano i c***i, anche se ce n'erano già abbastanza in tutti i sensi :D
Ringraziamo immensamente chi continua a seguirci/resercinci e cioè: Rogue92, alliearthur, blackpearl_, Sherlock_Watson, Micchi.
See ya! ;P
Moon&Light
Edit 24/02/2018: La modifica più evidente a questo capitolo è la sostituzione dello schiaffo con una bella doccia di caffè. Questo perché, semplicemente, rileggendo il capitolo mi sono resa conto di quanto, quanto fosse OOC Pepper che agisce in quel modo. Anche qui sfioro l'OOC, ma vedo molto più plausibile che "sbrocchi" in questo modo, piuttosto che ricorrendo alla violenza fisica. Al massimo ci vedrei una Nataša, a reagire così.
Oltre al fatto che giustificare un gesto simile (come effettivamente accade nei capitoli successivi), è sbagliato a prescindere. Così come giustificare questo, sebbene più blando, perché si tratta comunque di un'umiliazione imposta a qualcuno in uno stato decisamente vulnerabile. Non sono una fan del politically correct, ma un conto è far agire i personaggi in un certo modo, un conto è condonargli tutto.
© Marvel
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Capitolo 15 *** Scar tissue ***
14
Scar
tissue
"Another head aches, another heart breaks
I am so much older than I can take
And my affection, well it comes and goes
I need direction to perfection
Help me out
Yeah, you know you got to help me out"
[All These Things That I've Done – The Killers]
12
Marzo, 9:30, Villa Stark
Non
riusciva a ricordare di preciso quando si fosse addormentato, ma il
freddo piano del banco di lavoro non gli era mai sembrato
così
comodo, così continuò tranquillamente a tenere
l'occhio chiuso
cercando di ricadere nel dormiveglia. Stava anche facendo un sogno
niente male, considerando che implicava una donna non meglio
identificata che ballava una lap dance in un night club, e lui stesso
con ancora tutti i pezzi al loro posto che si godeva lo spettacolo
sorseggiando un drink.
Riaprì
con cautela l'occhio quando
realizzò che non sarebbe mai riuscito a riaddormentarsi,
vista la
quantità immane di caffè che ancora gli scorreva
nelle
vene – e non solo – e che quindi
non aveva speranze di riprendere il sogno. Il che non era poi una
conseguenza così malvagia, considerando il fatto che la
donna in
questione somigliava un po' troppo a Pepper, e dopo gli
avvenimenti del giorno prima non aveva alcun bisogno di
complicare ulteriormente il suo rapporto con lei, tantomeno
immaginandola in atteggiamenti provocanti e sconvenienti.
Scacciò
quei pensieri su cui aveva rimuginato fino ad allora –
cioè prima
di crollare semisvenuto per la stanchezza – e che avevano il
potere
di fargli venire una forte emicrania se tentava di analizzarli e
trovarvi un senso logico.
Non si
mosse dal tavolo, rimanendo con
la testa abbandonata sulle braccia incrociate e con lo sguardo
vagamente disgustato fisso sulla protesi inferiore in attesa del suo
intervento per essere completata. Calcolò stancamente che
gli
mancavano forse due settimane per renderla funzionale se continuava a
lavorare a quel ritmo sfibrante. Tre settimane se avesse rallentato
un po', come il suo corpo esausto gli implorava di fare... ma non
poteva mollare proprio ora che gli mancava così poco. Non
doveva
essere perfetta, non doveva neanche essere definitiva: gli serviva
solo un dannato pezzo di ferro che lo facesse stare in piedi; ai
dettagli e al perfezionamento avrebbe pensato in seguito. E poi il
processo ormai incombente, la futura riabilitazione, la terapia
–
perché sapeva che prima o poi avrebbe ceduto anche a quella
–,
l'occhio – l'occhio, dannazione! Non aveva davvero intenzione
di
starsene con una benda per il resto della vita –, Iron Man e
i
Vendicatori...
Emise un
lamento soffocato nel rendersi conto della
quantità esorbitante di problemi che si era accumulata sulle
sue
spalle in quel breve lasso di tempo. Iniziava a rimpiangere la
miriade di riunioni aziendali a cui era solito svicolare fino a pochi
mesi prima. Adesso avrebbe fatto salti di gioia per essere anche solo
in grado di presenziarvi.
Si
passò la mano buona sul volto,
incitandosi mentalmente a svegliarsi del tutto e a riprendere il
lavoro, ma si limitò a rimanere riverso sul bancone,
indolente,
assonnato e allo stesso tempo incapace di dormire. L'insonnia lo
stava sfibrando e non era neanche tutta colpa dei
moncherini, o almeno non del disagio fisico che gli provocavano, visto
che aveva davvero ricominciato ad assumere
regolarmente i suoi antidolorifici. Aveva comunque
l'impressione
che non migliorassero più di tanto le cose. Ma
no, era anche
altro
a tenerlo sveglio la notte. Un qualcosa di intangibile che gli causava
però un senso di nausea fin troppo reale e un'avversione
sempre più viva verso qualunque superficie riflettente.
Un
ticchettio di tacchi lo fece
sobbalzare, come richiamato dal suo rimuginare.
Quando
sentì la porta del laboratorio che si apriva
rialzò appena il capo, mentre il suo problema più
grande e nuova
concausa della sua insonnia gli si rovesciava addosso come una
secchiata
d'acqua gelida. O come un caffè freddo. Pepper
entrò a passo
svelto nel laboratorio, in un tailleur beige e con una cartellina
dall'aria pesante in mano.
Sapeva che
prima o poi avrebbe dovuto
chiarire le cose con lei, in un modo o nell'altro. Non era neanche
del tutto certo di cosa ci fosse da chiarire, in effetti. Si
era
comportato da stronzo, quello era lampante anche al suo ego
più che
permissivo verso i propri errori. E avrebbe decisamente dovuto
scusarsi. Quello delle scuse non era un ambito a lui
familiare, ma pensava di essere in grado di cavarsi fuori dalla bocca
un paio di frasi di senso compiuto.
Ma il
resto? Ovvero le loro "esistenze
complicate"? Non riusciva a capire se avesse ancora un senso
parlarne, ma era abbastanza sicuro che rimanere in quella posizione
non del tutto schierata fosse la cosa peggiore che potessero fare.
Aveva assolutamente bisogno di un punto fermo nella sua esistenza
che era diventata così mutevole. Se gli fosse venuto a
mancare anche
quello non aveva idea di quanto in basso sarebbe potuto cadere e, da
dieci anni o poco meno, aveva sempre individuato il suo punto fermo in
Pepper.
Si riscosse
dal suo torpore e fece per salutarla, poi cambiò
idea e
si limitò a un cenno del capo.
"Ma che
cavolo."
Fantastico.
Era appena diventato incapace di
relazionarsi con lei. Come faceva a mantenersi distaccato
comportandosi però normalmente? Non era mai stato troppo
formale
nei confronti della sua assistente, anzi, e nonostante lei lo tenesse
fermamente in riga, non rifiutava né era mai sembrata
irritata dalla
sua eccessiva espansività verbale, arrivando a prendere sul
ridere
le
continue avances che erano parte
del loro modo di
scherzare.
Adesso si trovava nelle condizioni di dover reinventare completamente
il proprio modo di porsi nei suoi confronti. Se non era totalmente
impazzito fino ad allora, quello era un ottimo momento per farlo.
Aveva la
netta sensazione di avere nella mente due pugili su un
ring – razionalità contro irrazionalità
– che si massacravano a
vicenda nel tentativo di prevalere l'uno sull'altro. Peccato che per
ora erano alla pari e i colpi li incassava solo lui, senza molto
beneficio alla sua già precaria salute psicofisica. Mentre i
due
allegri lottatori continuavano a darsele di santa ragione, Pepper
ricambiò appena il gesto apparentemente del tutto padrona di
sé,
come se nella sua, di mente, ci fossero solo tante leggiadre
ballerine intente a volteggiare su una pista. Non riusciva a
spiegare altrimenti la sua espressione assolutamente distesa e
serena.
La sua
parte irrazionale subì un duro smacco e fu messa
alle corde:
"Vedi?
È indifferente! Devi esserlo anche tu!"
sembrava gridargli la parte razionale.
Tony
tentò di sopprimere
quel patetico teatrino mentale e si trovò quasi a desiderare
l'autocontrollo di Pepper – oltre alla donna in
sé, ma relegò
quella considerazione in un angolo molto, molto remoto.
"Bene,
Tony,
prendine atto: il tuo buonsenso è magnificamente andato a
puttane se
speri di avere ballerine nel cervello," tentò di
sdrammatizzare, evitando in tutti i modi gli occhi di Pepper.
La
donna gli porse senza una parola la cartellina straripante di
documenti da visionare, ma la lui degnò appena di uno
sguardo,
troppo impegnato a fingersi concentrato sulla protesi per
considerarli.
Pepper non
si mosse.
«Signor
Stark, dovrebbe
firmarli ora,» lo invitò poi, vedendo che non
aveva intenzione di
distogliersi dal suo lavoro.
Tony
rialzò di scatto lo sguardo,
preso in contropiede nell'udire la sua voce assolutamente
normale.
Normalità.
La parola sembrò fungere da energizzante
per la sua razionalità, perché spedì
l'altro pugile al tappeto con
un colpo diretto. KO tecnico.
Adesso
poteva anche lasciar perdere
la possibilità di mettere in chiaro le cose nell'altro
senso,
qualunque esso fosse, perché a quanto pareva Pepper voleva
solo
riprendere a vivere come se niente fosse successo. Come aveva
fatto dopo il processo: quello era stato un chiaro segnale, e la sua
parte idiota – perché di idiota si trattava
– non aveva saputo
interpretarlo. D'altra parte, se in dieci anni non era mai successo
nulla tra loro, non vedeva perché dovesse succedere adesso,
nella situazione più sfavorevole che riuscisse a immaginare
sotto ogni punto di vista. Se anche fosse stato del tutto equilibrato
mentalmente e socialmente, ormai per la componente fisica poteva fare
ben poco. Non era neanche sicuro di rientrare in una categoria umana, al momento,
figuriamoci se poteva ancora considerarsi attraente. Era una semplice
questione di logica, e Pepper era una persona estremamente logica.
Razionalità-Irrazionalità:
uno a zero. Minuti di
recupero non concessi.
«Signor
Stark? Si sente bene?»
Si rese
conto di aver probabilmente assunto un'aria spaesata e di avere lo
sguardo che oltrepassava la protesi, perso nel vuoto. Non mancava mai
di sfoggiare lampanti
esempi di instabilità a chiunque gli stesse intorno...
«Io?
Certo, analizzavo solo questo gioiellino in cerca del modo
più
congeniale per ottimizzare l'utilizzo del titanio e...»
«Tutto
ciò è molto
interessante, ma la prego di firmare i documenti,
perché vista la sua situazione già abbastanza
disastrata è
davvero il caso di avere le carte in regola,» lo interruppe
con
gentile fermezza, porgendogli una penna.
Lui la
prese senza
pensarci, con la sinistra, e scribacchiò una firma malferma
su
ognuno dei fogli che gli aveva affibbiato, contando sul fatto che li
avesse letti per lui impedendogli di approvare contratti improbabili.
Era già abbastanza stancante dover lavorare con un occhio
solo, se
avesse anche dovuto leggere ogni singola riga di quelle scartoffie
sarebbe diventato cieco. Non che prima si fosse mai occupato molto
della burocrazia aziendale...
Appose
l'ultima firma, più simile
a uno scarabocchio, e lei fece per riprendere la cartellina e
allontanarsi, ma Tony la trattenne d'istinto con la mano
meccanica, senza pensarci.
Pepper
incrociò di scatto il suo sguardo, sorpresa, e
sembrò quasi infastidita.
"Idiota.
Non ti
è bastato ieri? Molla quella mano!"
Bla,
bla, bla... il suo
cervello ci provava, ci provava davvero a tenerlo lontano da
situazioni spinose, ma lui come sempre faceva l'opposto di quel che
gli suggeriva, da bravo idiota qual era. Aveva un dono per cacciarsi
in quelle situazioni. E adesso teneva la mano di Pepper senza
neanche poterla percepire sotto le dita artificiali, pregando di non
stringere troppo la presa e senza avere la minima idea di quel che
voleva dire o fare. Lei non sfuggì la sua stretta, anche se
sembrava un po' scossa dal fatto che stesse toccando un qualcosa di
inanimato. In effetti aveva evitato qualunque contatto diretto
con la sua protesi e Tony non sapeva davvero come dovesse interpretare
la
cosa. Davvero un ottimo momento per capirlo.
«Signorina
Potts...»
cominciò, ignaro di dove sarebbe andato a parare.
"Oh, Dio
onnipotente, se davvero sei lassù dammi una prova che esisti
e fammi
dire qualcosa di sensato!" si trovò a pregare, al colmo
della
disperazione.
Pepper
sembrò attendere le sue parole quasi con
ansia e non lasciò andare la sua mano, forse credendo che
lui stesse
per sbloccare quella situazione di stallo insostenibile.
«...
potrebbe chiamare Kyle?»
Se qualcuno
avesse preso un megafono,
l'avesse collegato a trecento casse e gli avesse urlato nelle
orecchie non sarebbe comunque potuto essere altrettanto sonoro
dell'immane bestemmia che gli esplose in testa quando si
sentì
pronunciare quella frase assurda. In quel momento decise senza
ulteriori ripensamenti che ateo era e ateo sarebbe rimasto, visto che
l'ispirazione divina sembrava non sortire alcun effetto su di lui. E
d'altronde non poteva davvero dire che la mano santa l'avesse aiutato
molto, ultimamente.
Lei lo
fissò un po' spaesata, poi annuì
appena e Tony la lasciò, fissandola con quello che sperava
fosse uno
sguardo eloquente: "normalità", avrebbe voluto stamparsi
in fronte.
«Naturalmente.
Lo faccio chiamare subito. Dovreste
proprio riallacciare i rapporti dopo quello che è successo.
Dopo il
processo, intendo.»
Ding.
Da quando
Pepper sapeva
parlare in codice? Poteva cogliere un chiaro invito in quelle parole,
sempre che la sua mente non gli stesse di nuovo facendo brutti
scherzi.
«Certo,
ha perfettamente ragione. Per una volta ammetto
di dovermi scusare con qualcuno,» disse con apparente
leggerezza,
riprendendo a lavorare sulla protesi dopo aver riconsegnato i
documenti a Pepper.
«Già,
dovrebbe rendersene conto più
spesso.»
Fu la sua
unica risposta, accompagnata da
un'occhiata un
po' dura, ma addolcita dalla piega forzata delle labbra che
nascondeva un sorrisetto soddisfatto.
***
Imbarazzante.
Era l'unico aggettivo che trovava per descrivere quella situazione:
molto, molto
imbarazzante.
Kyle era ad appena un metro da lui,
seduto sulla sua sedia a rotelle in una posa apparentemente
flemmatica, ma lo fissava con astio senza ritegno, mentre
lui, piazzato sulla sua solita sedia girevole,
faceva vagare lo sguardo per il laboratorio. Ora su un documento,
adesso su un pezzo di acciaio, dopo ancora sulla propria protesi in
fase di assemblaggio...
Erano state sicuramente poche le volte in
cui Tony Stark si era sentito a disagio, ma questa non sapeva da che
parte metterla: se tra quelle del "non esattamente a proprio
agio" o tra quelle del "terra, inghiottimi in questo
istante".
Il ragazzo davanti a sé si aspettava molto
probabilmente delle scuse o qualcosa che potesse anche solo
assomigliarvi, ma a parte tanti pensieri sconnessi e poco inerenti al
contesto – come se non ne avesse già avuti
abbastanza – non
riusciva a vedere una singola via d'uscita da quell'incontro
decisamente non programmato.
«Perché mi ha fatto chiamare,
signor Stark?» chiese infine l'avvocato, glaciale.
"Giusto,
Tony. Perché lo hai fatto chiamare? Certe domande dovresti
fartele
anche tu, ogni tanto."
Forse la sua sezione "risposta
pronta" era andata in vacanza.
"Perché lei
è un
idiota, signor Stark."
Gli sembrava che la sua coscienza
fosse formata non più da se stesso, ma da Pepper –
oltre ad altre
varie ed eventuali presenze che si divertivano a fare a pezzi la sua
facoltà decisionale. Ovviamente lei rappresentava
l'angioletto su
una delle sue spalle... sull'altra poteva quasi intravedere un demone
che assomigliava terribilmente a Fury, per associazioni mentali
abbastanza ovvie.
Tony alzò lo sguardo sull'avvocato, che lo
fissava tra l'interrogativo e l'infastidito: era sicuramente ancora
arrabbiato per le offese che gli aveva rivolto alla fine del
processo, senza dimenticare la minaccia di annullare il
pagamento. Nel tentativo di sfuggire a quella confusione di
pensieri gli cadde l'occhio sulla protesi della gamba:
«Volevo
solo informati di come sta procedendo la progettazione delle tue
gambe,» sparò, ringraziando se stesso per essersi
anticipato un po'
di lavoro e per aver buttato giù qualche schizzo mentre
lavorava
sulla sua.
Kyle rimase di sasso a quell'affermazione. Tony si
rendeva conto che quello non era esattamente un modo convenzionale
per chiedere "scusa", ma lui non era mai stato bravo con
quel genere di cose: stava facendo quel che poteva, più o
meno. Il
ragazzo distolse lo sguardo da lui per posarlo sul prototipo della
gamba poggiato sul banco di lavoro. Era ancora stupito, ma sembrava
finalmente più rilassato.
Tony tirò quasi un respiro di
sollievo nel realizzare che non era più sotto il tiro
terribile del
suo sguardo inquisitore. Si chiese come avesse potuto prendersela
con lui per quello che era successo. Era un buon avvocato, nonostante
la sua giovane età; anzi, era decisamente ottimo,
considerando la
sua scarsa collaborazione durante il processo...
«Prego.»
Kyle
lo invitò a continuare, il mento poggiato sulla mano e gli
occhi che
gli luccicavano oltre le lenti. Tony accolse il piccolo sorriso
con cui lo disse come un "sei-sulla-buona-strada".
«JARVIS,
apri il progetto Ph.01 X, cartella "K",» ordinò.
«Subito,
signore,» rispose pronta l'intelligenza artificiale.
«Ph.01 X?»
Kyle alzò leggermente le sopracciglia, interdetto.
«L'ha scelto
JARVIS, non io. Io mi limito a ribattezzare le persone, K,» disse
con un sogghigno sicuro di sé che l'altro
ricambiò appena.
Di
fronte a loro si materializzò uno schermo olografico, sul
quale Tony
iniziò a navigare con rapidità attraverso vari
file e immagini:
protesi, test al riguardo e dati medici scorsero veloci davanti ai
loro occhi prima di soffermarsi su quello che sembrava un nuovo
progetto per un reattore arc. Tony iniziò a spiegare,
cercando
di risultare il più comprensibile possibile:
«L'idea sarebbe di
sottoporti ad un'unica operazione per installare un micro-reattore
arc alla base della spina dorsale, così da riattivare i
nervi e le
cellule non funzionanti delle tue gambe: sarà una protesi di
una tua
vertebra che svolgerà la funzione di inviare gli impulsi
motori e
"rianimare" i nervi tramite dei filamenti in unobtanium.»
A
Kyle sembravano luccicare gli occhi al solo
intravedere una soluzione che gli avrebbe permesso di vivere la sua
vita esattamente come desiderava.
«Il progetto non è ancora
completo ed è del tutto teorico. Ad ogni modo non
c'è un modo per
testarlo con certezza: o funziona, o non funziona. Devo ancora
effettuare test e
simulazioni specifici, ma avremo la risposta definitiva solo ad
operazione compiuta.»
«E se non dovesse funzionare?» chiese il
ragazzo, evidentemente riluttante a prendere in
considerazione l'eventualità.
«Se non dovesse funzionare e non
sorgono complicazioni, c'è il piano B,» lo
rassicurò. «Il
chip verrà ancorato al tuo
midollo
osseo; a quel punto risulterebbe inamovibile. Se non funziona,
può
essere disattivato rimuovendo solo il palladio che lo alimenta con
una seconda operazione. Rimarrebbe nel tuo corpo, ma sarebbe inerte e
innocuo, almeno teoricamente.»
Tony
fece
scorrere alcune slide con un semplice e veloce gesto della mano fino
a soffermarsi sull'icona di un paio di gambe dalla struttura molto
simile a quella che stava progettando per lui: sembravano solo un po'
più tozze e pesanti.
«Dopo, puntiamo
su queste.» Estrasse l'immagine delle gambe dallo schermo
lasciandola sospesa in
aria e mostrando il prototitpo al suo futuro, ipotetico proprietario.
«La struttura non è ancora completata, come
d'altronde l'altro
ferrovecchio per me che sto cercando di assemblare. La cosa
più
difficile sarà installare le protesi nel tuo corpo e, come
ti ho già
accennato, non è detto che l'accetti. Potrebbe esserci un
rigetto.»
«Può succedere?»
«Ian mi ha detto che è possibile. Io ho
avuto fortuna, ma ha anche detto che la gamba potrebbe risultare
più
ostica, soprattutto per il recupero post-operatorio.» Tony si
massaggiò la nuca con malcelata preoccupazione.
«Facciamo che
prima mi opero e poi parliamo dei rischi, eh?» chiuse
l'argomento
con un sorrisetto nervoso e Kyle non insistette, comprensivo.
Tony
si schiarì la gola prima di riprendere:
«L'operazione sarà
difficile, visto che Ian dovrà prima amputarti entrambe le
gambe. E
se non andrà a buon fine...»
Si bloccò,
esitante, ma vedendo
l'espressione decisa di Kyle continuò:
«Saresti
costretto a
rimuovere gli impianti e non avresti più le gambe. Non
proprio una
bella prospettiva, ma Ian è bravo, lo sai meglio di me. E
posso confermarlo anch'io dopo che mi
ha ripescato dal coma e ha permesso questo.» Si
toccò la protesi
del braccio. «Non dirgli che l'ho detto,
però,» aggiunse
cauto.
«Non importa il rischio,» dichiarò
infine Kyle,
che aveva seguito attento e speranzoso ogni sua singola
parola.
Tony
spostò lo sguardo su di lui: aveva avuto anche lui
quell'espressione
così decisa ed allo stesso tempo fanciullesca prima di
iniziare a lavorare così assiduamente sui suoi arti? Ce
l'aveva
ancora? Gli
sembrava passata una vita, invece erano solo pochi mesi... era una
distorsione del tempo molto simile a quella che aveva avvertito in
Afghanistan, dove ogni giorno era una settimana e tre mesi gli erano
sembrati tre anni.
Si riscosse da quei ricordi, focalizzandosi su Kyle: non gli
riusciva difficile rispecchiarsi in quel ragazzo
che non chiedeva altro che poter camminare. In fondo era quello che
voleva anche lui... con qualche aggiunta un po' ambiziosa. Gli
sfuggì uno sguardo in direzione delle armature, ma lo
dirottò
rapidamente sul suo interlocutore. Voleva davvero sperare che
alla fine di tutta queslla storia ne sarebbero usciti... completi.
Capiva benissimo gli stati d'animo di Kyle e comprendeva la sua
paura, ma sapeva anche che la felicità che avrebbe provato
se fosse
andato tutto come previsto l'avrebbe ripagato di tutto. Almeno,
questo era ciò che aveva pensato quando si era svegliato
dopo
l'operazione; gli augurava di poter provare lo stesso, un giorno.
«Ian potrà sicuramente darti indicazioni
più precise viste le
mie scarse conoscenze mediche. In realtà dobbiamo ancora
consultarci; ultimamente sono stato un po'... preso,»
si
giustificò evasivo.
«Immagino.»
In quel mentre entrò
Pepper.
Tony distolse lo sguardo dall'avvocato, ringraziando la
donna per essere stata puntualissima come sempre e averlo salvato da
una conversazione probabilmente sconveniente su cucine devastate e
litigi notturni.
«Signorina Potts, dovrebbe parlare con K del
prossimo processo riguardo la parte burocratica, da cui io mi
terrò
ben lontano. Ditemi quando vi servo per il pezzo forte, nel frattempo
ho da lavorare per tutti e due,» disse rapido, indicando se
stesso e
Kyle e
licenziandosi con un sorrisetto un po' forzato, ma anche un
soddisfatto per aver teoricamente appianato la situazione col suo
avvocato.
«Kyle, se vuoi seguirmi ci spostiamo di sopra per
parlare. Vuoi del tè?» gli chiese Pepper con
naturalezza,
guadagnandosi un'occhiata storta da Tony che lei parve non
notare.
«Sì, grazie. Molto gentile,» rispose
l'altro,
sospingendosi verso l'ascensore dopo aver rivolto un cenno di saluto
a Tony.
I due uscirono dal laboratorio chiacchierando, lasciando
Tony indaffarato e sommerso dal lavoro.
Ora sì che vedeva le
ballerine...
Schioccò le dita in modo seccato, riattivando i
circuiti di JARVIS:
«Ehi, cervellone: proiettami un modello del
micro-arc e vedi di elaborarne una versione da applicare alla mia
gamba. E sbrigati, o ti fondo i circuiti.»
***
13
Marzo, Villa Stark
Le
note distorte di Iron Man risuonarono
improvvisamente nel laboratorio, quasi soffocate dalla musica
altrettanto aggressiva che proveniva dall'impianto stereo. Tony
si scostò gli occhialoni protettivi dal volto, sorpreso nel
sentir squillare il suo cellulare dopo due mesi di silenzio quasi
totale. E doveva decisamente cambiare suoneria...
Spense con un gesto la
musica dell'impianto, arrestando la cacofonia di accordi dissonanti
che si era venuta a creare tra AC/DC e Black Sabbath. Non si
disturbò a raggiungere il
cellulare, sepolto da un cumulo di scarti meccanici e limatura
metallica, e si limitò ad
ingrandire una schermata che era appena comparsa su uno dei suoi
innumerevoli schermi. La sua espressione si fece corrucciata
quando lesse il nome che lampeggiava a un palmo dal suo volto.
Valutò
per
qualche istante l'opzione di ignorare la chiamata, poi ripose
sospirando il saldatore sul suo supporto e trascinò con
rassegnazione il tasto di risposta.
«Ehi, Rhodes,» esordì con
forzata vivacità, scostando gli occhiali protettivi dal
volto.
Ci fu un breve silenzio, che esprimeva
probabilmente sorpresa per il fatto che Tony avesse usato il suo
cognome esatto senza storpiarlo come al solito.
«Tony?»
«Il solo
ed unico. Dimmi in fretta, sono un po' preso,» lo
incalzò subito.
«Come sempre... come stai?»
Tony colse chiaramente il tono
preoccupato dell'amico, ma non aveva alcuna intenzione di mostrarsi
conciliante, né tantomeno amabile nei suoi confronti.
«Un po' a
pezzi, ma lo sai,» rispose, lapidario.
Rhodey esitò brevemente,
forse non capendo se la sua fosse ironia o meno.
«Quando avevi
intenzione di chiamarmi, geniaccio?» cambiò
argomento, con brio forzato.
Era un chiaro invito a una conversazione civile, magari anche
scherzosa come al loro solito. Doveva ammettere che ammirava la
sua compostezza. Conoscendolo, stava probabilmente lottando contro la
tentazione di partire in quarta per una ramanzina interminabile. La
sua ammirazione però non compensava il risentimento che
provava,
perciò mandò all'aria il suo invito senza
esitazioni:
«A dir
la verità, mai,» Tony non si curò di
nascondere il fastidio che
trapelava dalla sua voce.
«Ok, a cosa devo tutta questa
ostilità?» la sua cadenza rassegnata lasciava
intuire che in realtà
la cosa non lo sorprendeva affatto.
«"Incidente coi
Whiplash" ti dice nulla?»
Tony ruotò sulla sedia un paio
di volte, curioso di sapere come si sarebbe giustificato.
Probabilmente non l'avrebbe fatto.
«Se è ancora per quella
storia...»
"Appunto."
«È per quello, Rhodes.»
«Non puoi metterci una pietra sopra?»
«No,» replicò
seccamente, stupendosi di quanto gli stesse risultando semplice
mantenere la calma.
Forse non poterlo vedere in carne ed ossa era
d'aiuto. Anche il fatto che lui fosse effettivamente "solo" il suo
migliore amico e non un qualcuno che oscillava nel limbo tra
amicizia, rapporto lavorativo e chissà-che-altro era un
ottimo
incentivo a tenere la testa sulle spalle. Si decise a continuare,
prima di perdere il controllo dei propri pensieri:
«Anzi,
gradirei una spiegazione.»
«Mi hanno chiesto, il che vuol dire
ordinato, di "rivedere" il mio rapporto ufficiale.
Non ho rivelato nulla sulla tua identità, ho solo detto che
Iron Man
era il responsabile. Non potevo mentire di nuovo e poi...»
«E
poi eri arrabbiato con me. Lo capisco, nei tuoi panni avrei
probabilmente fatto lo stesso...»
«Ecco, allora non capisco
perché continui ad accanirti su...»
«... se la
questione fosse stata privata fra noi due e non avesse riguardato la
mia identità segreta, la mia
immagine pubblica e
privata e i miei rapporti coi Vendicatori e col
governo che
già mi detesta,» completò Tony,
riuscendo a mantenere un tono
assolutamente impassibile. «Siamo un po' oltre la semplice
ripicca per un dissidio tra amici, Rhodes. Pensavo che te ne fossi
reso conto.»
Ci fu un silenzio attonito dall'altro capo del
telefono seguito da Rhodey che, prevedibilmente, cominciò a
perdere
la calma per primo. Doveva aver appena battuto il suo record di
resistenza al "brevettato metodo rompipalle Stark".
«Non
è sicuramente per quello che il tuo processo è
andato come è
andato!»
«Concordo. Ma questo non cambia nulla. Non voglio
farne una questione di principio, ma questa è
una questione
di principio.»
«Come se fosse una novità, per te.»
Tony non
raccolse quella provocazione, ma rispose altrettanto provocatorio:
«Tra
l'altro, complimenti: hai avuto un ottimo tempismo per aggiungere
altro stress nella mia vita. E per nascondermi informazioni
sensibili.»
«Tony, io non sapevo assolutamente nulla delle tue condizioni
finché non ti si è rotta la protesi al processo!
Lo SHIELD mi ha
proibito di contattarti...»
«Oh, certo, lo SHIELD! Ecco
un'altra vittima del sistema,» lo interruppe lui, caustico.
«...
e quando ho ignorato le loro direttive per informarti di persona tu mi
hai cacciato di casa, se
ben ricordi.»
«Un ottimo motivo per non informare né me
né
Pepper delle procedure di segretezza che avevate preso! Davvero, non
so se sei più incommentabile tu o Fury.»
«Sono infuriato
anch'io con lui! Se mi avesse detto quello che ti era
successo...»
«Cosa, avresti avuto pietà di me solo
perché
ora sono un povero mutilato?» lo interruppe nuovamente Tony,
stavolta
con disprezzo.
«No, avrei cercato di trovare una soluzione con
te!» esclamò l'altro, incredulo.
Tony sospirò e ringraziò
che Rhodey non potesse vederlo in quel momento. Gli sembrava di
sentir parlare se stesso, e la cosa lo inquietava, piuttosto che
rincuorarlo. Si costrinse a riportare la discussione su un
terreno neutrale.
«Senti, apprezzo la buona volontà, davvero.
Ma non credo tu possa aiutarmi, come non credo di volere il tuo aiuto
in questo momento.»
«Sei il mio migliore amico, Tones, non puoi
chiedermi di rimanerne fuori.»
«Lo sto facendo.»
«Di me
puoi fidarti.»
«Ultimamente ho qualche problema a fidarmi di
chiunque, escluso me stesso. Avete tutti il brutto vizio di tradirmi,
tenermi all'oscuro di tutto o decidere cosa devo sapere e cosa
no.»
Inspirò a fondo nel tentativo di mantenere un tono fermo e
vi fu una
breve pausa dall'altro capo.
«Non puoi sempre fare tutto da
solo,» disse infine Rhodey, in quella che era decisamente
un'accusa.
«Magari non posso, ma voglio
farlo.»
A questo Rhodey
non seppe rispondere e si limitò a prolungare il silenzio,
forse
sperando che lui aggiungesse qualcosa o facesse un passo verso di
lui. Ma Tony rimase semplicemente in attesa che l'amico capisse
che la conversazione era finita. Sapeva che l'avrebbe capito; di
solito era così che finivano le loro discussioni: con un
mutuo silenzio e muri d'orgoglio e testardaggine.
Dopo pochi
secondi, infatti, si udì un sospiro vibrante dall'altra
parte della
cornetta, seguito dalla voce rassegnata di Rhodey:
«Se cambi
idea, ci sono.»
«Lo so. Mi faccio vivo io.»
Attaccò
subito, tirando un sospiro di sollievo e pentendosi di aver risposto.
Avrebbe dovuto immaginare che sarebbe finita così...
Quand'è che tutti
avrebbero capito che aveva solo bisogno di starsene da solo, immerso
nei
suoi problemi così da poterli analizzare al meglio per porvi
rimedio
senza interferenze esterne? Non biasimava Rhodey per il suo
interessamento, ma non poteva fare a meno di trovarlo invadente.
Oltre al fatto che gli risultava davvero difficile
perdonarlo
per tutto il resto. E non aveva bisogno di fomentare
ulteriormente la sua diffidenza verso il mondo intero iniziando a
chiedersi se potesse fidarsi del suo migliore amico in una situazione
del genere. Preferiva tenerlo alla larga.
Tony scacciò lo
schermo della chiamata con un gesto secco, poi si calò
nuovamente
gli occhialoni sul volto, afferrò il saldatore e
tornò a dedicarsi
alla protesi inferiore, eliminando qualsiasi pensiero che non fosse
la volontà di finire quel ferrovecchio nel minor tempo
possibile.
«JARVIS, cos'è questo mortorio? Metti qualcosa di
più
stimolante.»
Gli AC/DC tornarono a colmare il silenzio.
____________________________________________________________________________________________________________________________________________
Revisione effettuata il 26/02/2018
Note delle Autrici:
Questa volta siamo un po' in ritardo rispetto al solito e senza molte novità, ma stiamo dando un po' di tregua a quella povera anima pia di Tony che continua ad essere torturato. Ma lo amiamo comunque.
Ringraziamo i coraggiosi lettori giunti fin qui che ci continuano a sopportare nonostante siamo sempre più sadiche con il vostro povero playboy (é.è); in particolare ringraziamo chi ha recensito/letto ed aggiunto la storia tra le preferite/ricordate/seguite: BENNYloveEFp, bluephoenix, Checca Cullen, feddy92, Lupoz91, nenni96, Sherlock_Watson, WhiteRabbit, crystaleyes, alliearthur, blackpearl_, Grety, Morrigan Aensland, NemesiS_, Rogue92, serysaku, Micchi. Quante siete *-* <3 Ancora grazie ed a presto!
Moon&Light
Edit 26/02/2018: è stata aggiunta la parte con la chiamata di Rhodes, il quale era rimasto abbastanza tagliato fuori da questa storia (finendo pure per fare la figura dello stronzetto, in effetti). Ammetto che all'epoca fu la nostra pigrizia a spingerci a lasciarlo da parte del tutto, ma essendo il migliore amico di Tony ciò sarebbe decisamente irrealistico, quindi di tanto in tanto farà capolino per amor di IC. [-Light-, che continua a scrivere note nella speranza che vecchi lettori ancora sbircino/seguano la storia...]
© Marvel
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Capitolo 16 *** Twist and shout ***
15
Twist and shout
"Turn
your magic on, to me she'd say
Everything you want's a dream away
Under this pressure, under this weight
We are diamonds taking shape"
[Adventure Of A Lifetime – Coldplay]
15
Marzo, 16:15, Villa Stark
Tony
sorseggiava assorto un bicchiere di clorofilla, dondolandosi
pericolosamente sulla sedia. Dopo essere quasi schiantato a terra e
aver ripreso l'equilibrio per un soffio, decise che forse era meglio
concentrarsi sul lavoro e non su modi fantasiosi per attentare alla sua
salute già precaria. Non che dare una testata da qualche
parte fosse una
punizione immeritata. Che pensiero masochista, ora che ci
rifletteva...
Guardò lo spigolo della scrivania: in effetti era
invitante. Aveva proprio voglia di sbattere la testa al muro o su
qualcosa di appuntito che gli facesse molto male, dopo due ore
passate a rivedere la protesi del braccio e a tentare di farla
muovere quando
e come voleva
lui. Non ci era ancora riuscito.
All'inizio aveva pensato che potesse rivelarsi un buon diversivo
rispetto a tirar giù
un santo dopo l'altro sulla realizzazione della gamba. Si era
ricreduto ben presto.
Fissò assente uno schermo vagante che
mostrava il progetto quasi ultimato della sua gamba, progetto che non
voleva saperne di andare per il verso giusto per motivi a lui oscuri
– ma probabilmente riconducibili alla drstica carenza di
sonno. Voleva solo finirla
al più presto e sottoporre il prototipo della piastra
d'aggancio alla revisione di
Ian, poi avrebbe potuto finalmente iniziare ad assemblarla. Non ne
poteva più di zoppicare qua e là appoggiato alle
stampelle.
Si
riscosse, tornando alle sue prove di destrezza.
Sollevò il
braccio meccanico, portando la mano all'altezza del volto. Quel
movimento non era più un problema: riusciva a piegare il
gomito
senza troppo sforzo e anche a ruotare la spalla, sebbene evitasse di
farlo troppo spesso per via del moncherino ancora sensibile e
infiammato. Osservò la struttura della mano
decisamente
rudimentale, ma già molto più completa rispetto a
qualche settimana
prima. Il palmo adesso era rivestito da una placca metallica che
riproduceva approssimativamente le linee e le curve di quello reale;
le dita avevano ancora gli snodi scoperti, ma le loro
estremità non
erano più dei goffi pistoni: erano finalmente dotate di un
rivestimento smussato che le rendeva più simili a quelle di
un umano
che a quelle di un robot. Adesso il problema era solo quello di
far muovere quella meraviglia a comando. Si concentrò
intensamente,
fissando quell'ammasso di metallo lucido.
Mosse il mignolo e
puntualmente reagì l'indice.
"Porca. Puttana."
Anche
la sua volgarità, mentale e non, stava raggiungendo livelli
storici.
Probabilmente Pepper era ormai abituata all'ininterrotta sequela di
imprecazioni che proveniva dal suo laboratorio, ma era convinto che
un giorno o l'altro gli avrebbe dato una tirata d'orecchie epocale.
Scosse
la testa per poi afferrare un cacciavite, svitando il rivestimento del
palmo e mettendo a nudo i contatti sottostanti. Si assicurò
che
quelli delle dita fossero collegati al posto giusto – anche
se
aveva ripetuto l'operazione perlomeno una decina di volte senza
scoprire difetti – e rimise la placca al suo posto con uno
scatto
metallico.
Si apprestò a testare di nuovo le dita, ma stavolta,
quando provò a sollevare il braccio, questo non diede cenni
di vita.
Sollevò la protesi con l'altra mano e quella
ciondolò inerte e disarticolata.
Tony
si lasciò sfuggire un verso di esasperazione.
Perché le sue creazioni cospiravano contro di lui?
Si abbandonò sullo schienale della sedia,
concedendosi una pausa prima di rimuovere definitivamente il braccio
dal suo aggancio e controllare quelli che temeva fossero contatti
usurati. Al solo
pensiero sentì crescere l'irrequietezza: tra due giorni
c'era il
processo e lui avrebbe voluto presentarsi con una protesi quasi
completa e soprattutto gestibile. Invece continuava ad avere una
forza comparabile a quella del Nonno-a-stelle-e-strisce, ma senza la
minima capacità di controllarla. Aveva perso il conto dei
bicchieri rotti e delle stampelle deformate.
Bevve distrattamente
un altro po' di clorofilla, forzandosi a farlo. Ormai beveva
praticamente solo quella,
come se non bastassero già i problemi che aveva. Chiedendosi
perché stesse tentando di rovinarsi la pausa,
sollevò la maglietta
fino a scoprire il reattore. C'era un anello più scuro e
appena
percettibile intorno alla sua circonferenza: i primi, tenui effetti
dell'intossicazione da
palladio. Fece una smorfia, con la bocca impegnata a tenere il
bordo della maglietta. Se anche fosse sopravvissuto a tutti gli
ostacoli che continuavano a grandinargli addosso, Pepper lo
avrebbe ammazzato, poco ma sicuro.
Per ora la situazione era sotto
controllo, ma fino a quando lo sarebbe stata? Doveva ammettere che
impiantarsi altri reattori in corpo non era stata un'idea poi
così
geniale, ma per adesso aveva altri problemi più urgenti a
cui
pensare, e voleva credere che la combo di clorofilla, integratori e
dieta salutista avrebbe avuto la meglio sul metallo pesante.
Mollò
la maglietta e riprese a fissare lo schermo che galleggiava di fronte
a lui, senza realmente vederlo.
Riavviò le sinapsi e si impegnò invece a vagliare
un problema più tangibile e impellente. Si era convinto di
poter
controllare l'eccessiva potenza della protesi semplicemente
esercitandosi nel dosarla e calibrando meglio la distribuzione
dell'energia. A quel punto era chiaro che ciò non era
sufficiente, e
lui aveva assolutamente bisogno di presentarsi al processo in modo da
non far bollare le protesi come potenziali armi. A detta di Kyle,
quella sarebbe stata la nuova linea d'attacco del procuratore, e sapeva
che era sua responsabilità fare in modo che le protesi
risultassero innocue, almeno a occhi esterni.
Si convinse
finalmente ad abbandonare la propria posizione di riposo ed
aprì una
nuova schermata nella già sovraffollata cartella virtuale
dove
conservava tutti i progetti, gli schizzi e gli appunti riguardanti le
protesi.
«JARVIS, sveglia, oggi facciamo un lavoro di fino,»
esordì
con rinnovato
brio, prendendo un meritato sorso di caffè e portandosi alla
sua scrivania con
un
volteggio della sedia girevole.
***
Dopo
quasi tre ore di tribolazioni per inserire dei resistori che
regolassero il passaggio d'energia tra micro-reattore e protesi, Tony
ritenne che fosse giunto il momento di testare la sua idea sul campo.
O meglio, sul proprio corpo.
Rifinì un'ultima saldatura,
disperse il fumo con un soffio leggero e si concesse di raddrizzare
la schiena rimasta curva sul piano di lavoro per tutto quel tempo,
senza riuscire a trattenere uno sbadiglio mentre sentiva le vertebre
e i muscoli tesi che si allungavano in un concerto di scricchiolii
poco rassicuranti. Ruotò un poco la testa, sperando che non
si
disarticolasse dal collo irrigidito. Nonostante gli acciacchi si
sentiva soddisfatto per la prima volta da giorni e un sorriso
aleggiava indisturbato sulle sue labbra. Sollevò con cautela
la
protesi dal bancone e la soppesò, come sempre contrariato
dal suo peso
eccessivo.
"Beh, sarà per la prossima volta," si
disse, decidendosi a riagganciarla al suo supporto con qualche
difficoltà e l'aiuto di DUM-E.
Sentì una lieve schicchera quando i nervi
artificiali si ricongiunsero a quelli veri e sobbalzò
appena,
infastidito. Si diede un po' di tempo per riabituarsi a quel
prolungamento ancora estraneo, muovendosi con attenta cautela per
riscontrare le differenze rispetto al modello precedente.
Constatò
che, prevedibilmente, era molto meno sensibile di prima e doveva
imprimere più forza ai suoi movimenti.
Sbuffò appena: era
sempre costretto a scendere a compromessi, ma ormai dubitava di
poterci fare ancora qualcosa. Si rilassò contro lo
schienale,
continuando a mettere alla prova il braccio, prendendovi pian piano
confidenza e scoprendolo decisamente più maneggevole di
prima, una volta fatta l'abitudine alla minore sensibilità e
ai diversi tempi di risposta – il delay era sempre irritante,
ma gestibile con un po' d'allenamento.
Un
trillo elettronico lo distrasse dai suoi armeggi: Pepper doveva
essere appena rientrata dalla riunione alle Stark Industries. Non la
invidiava affatto e già si aspettava un suo sfogo riguardo
ai
"matusa del consiglio d'amministrazione". S'imbronciò
appena, e prese a tamburellare sovrappensiero le dita sul
reattore, provocando un ticchettio
metallico.
Metallico.
Si guardò di scatto la mano e si rese
conto di averlo fatto con la protesi. Ci riprovò: le dita si
mossero fluidamente, quasi senza sforzo... e l'anulare non rispondeva
all'indice! Provò estasiato a digitare sulla tastiera
olografica
che fluttuava lì accanto e riuscì perlomeno a
centrare i tasti con
le dita. Rise, finalmente, continuando a gesticolare con la
destra, ruotare il polso e piegare le dita in ogni possibile
angolazione per testarne i limiti. Incontrò qualche
difficoltà
nella coordinazione, ma funzionava infinitamente meglio di poche ore
prima!
"A volte sono così geniale che mi stupisco da
solo," concluse tronfio.
Per "festeggiare", prese la brocca di
clorofilla con la destra e ne scolò un lungo sorso, prima di
poggiarla di schianto sul tavolinetto lì accanto.
La caraffa andò
in mille pezzi.
Tony rimase immobile, sfilando cautamente la mano
dai cocci di bottiglia con un vago e spiacevole senso di
deja-vù. Bene,
riusciva a muoverla, ma era decisamente
ancora
da calibrare.
Aveva trovato un modo per impegnarsi la serata. Si asciugò
rapidamente il palmo sui pantaloni da lavoro, ma molto
piano
per evitare di
frantumarsi anche l'altra gamba.
"Appunto mentale: sii
delicato e leggiadro. Pensa alle ballerine... delicato e
leggiadro."
Scosse le dita, ancora un po' incredulo nel
potersi muovere senza concentrare ogni fibra del suo essere in quel
semplice movimento. Contemplò la protesi, passando l'indice
sensibile sulle
giunture e sentendosi pienamente soddisfatto... o quasi. La sua
mano si soffermò allarmata nel punto in cui aveva installato
i
resistori, poco
sotto lo snodo tra clavicola e òmero, sentendolo
innaturalmente
caldo rispetto al resto del braccio metallico e freddo.
«JARVIS?
Non si sta fondendo la protesi, vero?»
In tutta risposta, uno
fascio di infrarossi la scansionò, proiettandone subito la
mappatura
che mostrava effettivamente una concentrazione di calore in quel
punto.
«Signore, il calore a lungo andare potrebbe alterare
l'unobtanium circostante i resistori. Sarebbe opportuno inserire un
sistema di raffreddamento.»
«Mh, giusto. Avrei dovuto
pensarci,» commentò a mezza voce.
"Sono nozioni di base, le sanno anche i novellini del primo anno di
fisica. Se il MIT lo venisse a sapere, mi revocherebbe le lauree," si
rimproverò duramente, stringendo le labbra.
Quanto doveva essere stanco per indulgere in
distrazioni così banali? Non si rispose, ma il peso della
sua palpebra era un segnale eloquente.
Passò nuovamente la mano sulla zona
metallica adesso tiepida. S'illuminò un poco, poi
corrugò le
sopracciglia, picchiettò appena sulla superficie invece
fredda
dell'avambraccio e s'illuminò ancor di più: aveva
appena avuto
un'idea molto migliore del sistema di raffreddamento.
***
«Pepper.»
La
donna si riscosse appena.
«Pepper...» tentò ancora Tony, a voce un
po' più alta.
Le scostò delicatamente i capelli dal viso, come un bambino
curioso di scoprire
qualcosa di nuovo.
«Pepper!» ripeté, a un volume moderato,
ma questa volta direttamente
nell'orecchio.
«Tony?» bonfonchiò lei in tutta
risposta,
schiudendo assonnata un occhio.
Si ritrovò la faccia dell'uomo a
un palmo dalla propria e trasalì, svegliandosi del tutto.
«Che
ci fa qui?!» esclamò, sollevandosi appena dal
cuscino e riuscendo
finalmente a mettere a fuoco Tony.
Era sdraiato a pancia in giù
sul lato libero del suo letto, appena rischiarato dalla luminescenza
azzurrina del reattore arc, che rivelava un sorriso a trentadue denti
stampato sulla sua faccia.
«Non ci crederà mai!»
esclamò
tutto
contento, a malapena in grado di contenere la sua voce
euforica.
«Cosa è successo? Va tutto bene?» si
arrischiò a
chiedere lei, ancora intontita e al contempo esterrefatta nel
trovarselo lì, a quell'ora, nel suo letto.
Tony sembrava ignaro della situazione anomala, chiaramente al settimo
cielo per chissà cosa,
ma ciò non era una rassicurazione sufficiente, vista la sua
imprevedibile eccentricità.
«Mai stato meglio!» rispose
estasiato, mettendosi più comodo e attendendo evidentemente
che lei
fosse del tutto cosciente e attenta per qualunque stravaganza si
stesse preparando ad esporle.
«Ma che razza di ore sono?» biascicò
lei, sbattendo le palpebre appesantite.
Soffocò uno sbadiglio prima di
guardare la sveglia: le 3.47. La donna si allarmò
ulteriormente,
temendo quel che poteva essere successo ad un'ora così
indecente. E poi, tecnicamente, non lo aveva ancora perdonato, e
svegliarla nel
cuore della notte non era un'ottima mossa per rientrare nelle sue
grazie.
Però Tony sembrava così felice, in quel momento,
che
non ebbe il coraggio di rompere l'espressione totalmente spensierata
che gli illuminava il volto.
«Ok, sono sveglia e la ascolto; ora mi
vuole dire cosa è successo?» si decise a
incalzarlo, senza
riuscire a nascondere una punta di sincera curiosità.
Tony esibì
un altro sorriso smagliante e si picchiettò il reattore con
la
protesi producendo un suono più metallico di quello che era
abituata
a sentire.
«Guardi!» riprese lui tutto eccitato, tamburellando
ancora un po' sulla piastra metallica per poi agitare le dita a
davanti al suo volto come una sposa che mostra l'anello alla migliore
amica.
Le ci volle qualche secondo per realizzare che le muoveva
senza problemi né esitazione.
«Funziona! Funziona!
Guardi come
funziona bene!»
Iniziò a sciogliersi il polso e a muovere un
dito alla volta davanti alla sua faccia ancora un po' perplessa che
andava pian piano aprendosi in un sorriso, sentendo anche una punta
di improvviso orgoglio per quello che era riuscito a realizzare.
«È
fantastico, signor Stark,» mormorò sinceramente
contenta, anche se
il suo tono assonnato non doveva suonare esattamente
entusiasta.
«Sono un genio! Dica che sono un genio,» la
incitò,
più esuberante del solito.
«Lei è un...» la frase fu
interrotta da uno sbadiglio. «... un genio,»
concluse, ricadendo sul
cuscino.
«No, resista ancora un po'! Deve ancora sapere la cosa
più bella. Tocchi!» esclamò, porgendole
la mano.
«Prego?»
Pepper abbracciò più strettamente il cuscino al
petto, adesso vagamente
imbarazzata e
più conscia di essere praticamente seminuda di fronte al suo
capo,
che però in quel momento sembrava catapultato in una
dimensione
euforica e totalmente dimentica di tutto ciò che lo
circondava.
«Perché le donne mi fraintendono sempre? Mi prenda
la
mano e non faccia altro che stringerla. Sono abbastanza
esplicito,
ora?»
Tony sembrava troppo contento per preoccuparsi davvero di
quel che stava dicendo, e le tese la mano meccanica.
Lei esitò per qualche secondo: non era
esatto dire che la protesi le facesse impressione, ma non era neanche
del tutto a suo agio nel trovarsi in contatto con essa, nonostante
ciò la facesse sentire meschina nel confronti di Tony. La
sua espressione vacillò impercettibilmente nel vederla
restia: un contrarsi delle sopracciglia, un lieve inclinarsi
dell'angolo della bocca. Non fu abbastanza da incupirlo, ma una linea
di rigidezza gli attraversò il corpo, appena percettibile.
Pepper lo
guardò
brevemente e, spinta dal desiderio di non intaccare ulteriormente la
pura gioia irradiata dal volto dell'uomo, si
decise a prendergli titubante la mano.
Ci mise un paio di secondi
per capire che c'era qualcosa di strano: il metallo non era
ghiacciato come si aspettava, ma tiepido e piacevole al tatto. Come
un braccio normale. Un'espressione meravigliata e felice si
dipinse sul suo viso; si accorse che adesso Tony la stava osservando
attentamente, attendendo con trepidazione un suo commento, ma lei si
limitò a scuotere la testa, incredula, e gli rivolse solo un
gran
sorriso. Bastò per elettrizzarlo nuovamente:
«Visto? Anzi, sentito?» sorrise, con una bolla di
sollievo a scaldare le sue parole. «È bastato
deviare
il calore dei nuovi resistori all'interno della struttura cava della
protesi; in questo modo si diffonde nel mercurio in una percentuale
di...»
Pepper lo fermò prima che potesse partire per la
tangente, presumendo che con tutta la caffeina che aveva
probabilmente in corpo la cosa sarebbe andata per le lunghe.
«Tutto
ciò è stupendo, meraviglioso, fantastico e
aggiunga tutti gli
aggettivi positivi che le vengono in mente, ma... parli la mia
lingua.»
«Diamine, nessuno parla la mia lingua. Forse dovrei
chiamare Banner.»
«Sarebbe decisamente geniale
svegliare un tipo così irascibile alle quattro del
mattino.»
Un'immagine terrificante del suo salotto devastato da
Hulk dovette dipingersi nella sua mente perché si fece serio
per un
istante, per poi accendersi di nuovo e riprendere a parlare
vivacemente:
«Non è una buona idea, quindi
continuerò a parlare
con lei...» la faccia di Pepper si fece improvvisamente cupa
e
disperata, «...o forse la lascerò
dormire.»
«Forse sarebbe
meglio: domattina avrò un sacco di suoi problemi
da
risolvere,» lo riprese scherzosa, ma neanche troppo.
Tony fece un
sorriso colpevole ma non accennò a muoversi, con lo sguardo
perso
nel vuoto. Si accigliò per un momento ed
accarezzò la mano di
Pepper quasi sovrappensiero anche se non poteva percepirla;
probabilmente stava avendo uno dei suoi lampi di genio.
«Idea,»
esordì infine. «Idea idiota. Idea impossibile se
non
ridicola, ma non per
me,» concluse, come volendo autoconvincersi di
chissà quale
folgorazione avesse attraversato i suoi neuroni iperattivi.
Il suo
viso si rilassò e tornò a guardarla con
un'espressione soddisfatta, senza però rivelare la fonte di
quell'euforia.
Stringeva ancora la sua mano tra le proprie e Pepper si rese
conto che quel contatto non le dispiaceva come aveva creduto. Si
trovò a stringerla appena di rimando, nonostante Tony non
potesse
percepirlo – o forse proprio per quello. Il suo pollice
metallico le accarezzò con lentezza il dorso della mano.
«Questo
sarà il prossimo passo,» disse, più
serio ma con una scintilla di
vivacità che sembrava esprimere speranza.
Pepper fissò la mano
un po' perplessa, ancora molto assonnata e
decisamente non in
grado di seguire i suoi discorsi sconclusionati.
«Sa che mi
dispiace, vero?» proruppe poi lui improvvisamente, e Pepper
ebbe
l'impressione che tutto quello che aveva appena detto e fatto non fosse
stato altro che una studiata preparazione a quella semplice frase.
«Per
cosa, esattamente?» si trovò a chiedere, dandogli
una chance di
tornare sui suoi passi, se avesse voluto.
Lo vide tentennare, schiudendo la bocca e richiudendola come a
scegliere e scartare la parole da rivolgerle.
«Uhm... per aver
rovesciato la clorofilla per terra ed aver reso inutilizzabile una
cucina... ma questi sono solo danni collaterali,
immagino.»
Inspirò brevemente e sembrò a corto di parole.
Pepper lo osservò attenta, leggermente più
vigile. Non l'aveva
mai sentito parlare esplicitamente dei suoi scatti d'ira ingiustificati
e del
suo comportamento molto scorretto nei suoi confronti. Non che lei
si fosse mai aspettata che lo facesse: Tony Stark non era il tipo che
si scusava, e quando lo faceva era sempre in modi decisamente difficili
da interpretare. Come presentarsi alle tre di notte nel suo letto
millantando i suoi progressi e la propria genialità. Si
trovò a sospirare appena, riconoscendo che stavolta era
persino riuscito a pronunciare di sua sponte e per intero le due parole
magiche. Ciò la sorprendeva, forse anche in modo
piacevole, ma non era sicura che quelli fossero il momento e la
situazione adatti per parlarne. Non era del tutto disposta
perdonarlo, per ora, ma poteva capire o perlomeno immaginare la
situazione dal suo punto di vista, anche se non poteva definire
"facile" il proprio. Ed era certa che quel tipo di chiarimento sarebbe
inevitabilmente andato a toccare le loro "esistenze
complicate".
Divenne improvvisamente consapevole di quanto fossero vicini, e di come
lei non stesse fissando Tony, ma le sue labbra inclinate in un sorriso
ora incerto. Distolse gli occhi dal suo volto, sfuggendo la sua
iride scura che sembrava sempre aprire uno spiraglio da cui solo lei
aveva il permesso di sbirciare. Stavolta non lo fece e si ritrasse,
mentre i
suoi pensieri continuavano a viaggiare in circolo attorno a
ciò che era accaduto qualche notte prima. A ciò
che era quasi
accaduto. E che non era
accaduto. Esattamente come l'anno scorso alla festa di beneficenza.
Rialzò gli occhi su di lui e rimandò la
discussione
semplicemente guardandolo in silenzio, confidando nella sua perspicacia
e capacità di leggerla:
ci sarebbe stato tempo e luogo per parlare, ma non ora e non
lì.
Quello era sicuramente il momento meno indicato, almeno per lei. Tony
accettò
silenziosamente la sua decisione senza attendere che lei la
esprimesse ad alta voce. Da quel punto di vista la loro intesa
funzionava ancora.
«Magari la prossima volta,» mormorò
infatti lui,
abbassando lo sguardo un po' mesto, accorgendosi così di
stringere ancora la sua mano.
Ritirò la propria, quasi frettolosamente, e Pepper ebbe la
sensazione che dei fili sottili si allungassero tra loro in una
tensione invisibile, come cercando di non interrompere contatto. Si
sentì strattonare appena il cuore, poi quella tensione si
spezzò di netto, lasciandoli ognuno nel proprio spazio.
«Forse sarebbe carino lasciarti dormire,»
proferì Tony, sorridendo di nuovo come se niente fosse
accaduto. «Buonanotte.»
«Buonanotte,» gli augurò Pepper a bassa
voce, e lo vide esitare per un istante vicino a lei prima di tirarsi su
a sedere. «E vai a dormire sul serio,»
aggiunse poi, in una minaccia bonaria.
Lui afferrò le
stampelle e scese dal
letto il più in fretta possibile mentre sbuffava una
risatina, evidentemente deciso a ignorare il consiglio, e forse
anche per
mascherare il disagio di non essere ancora riuscito a chiarire la
questione. Pepper sospirò rassegnata e chiuse gli occhi,
sorridendo di rimando nel vederlo ancora di buonumore. Non
poté fare a meno di ridacchiare anche lei nel vedere
la
mano metallica spuntare dalla soglia e agitarsi in un saluto, con Tony
che sbirciava dallo
stipite con un'espressione giocosa.
Magari la "prossima volta"
sarebbe stata presto, le venne da pensare, già nel
dormiveglia.
____________________________________________________________________________________________________________________________________________
Revisione effettuata il 26/02/2018
Note delle Autrici:
Siamo tornate! Finalmente vacanze e quindi tempo per scrivere :D Vi bombarderemo!
Stiamo quasi dando una tregua a Tony e la situazione di Pepper diventerà, per la vostra gioia (?), sempre più intricata.
Ringraziamo blackpearl_, Rogue92, alliearthur, Lupoz91, Micchi, Sherlock_Watson, bluephoenix per aver recensito e per continuare a seguirci ^^ <3 Vi amiamo <3
Moon&Light
Edit 26/02/2018: aggiunte parti tecniche campate per aria: son sempre belle. E ho cambiato il testo della canzone a inizio capitolo, che non so perché era iper-depresso per un contesto tutto sommato rilassato rispetto al solito. Mah.
© Marvel
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Capitolo 17 *** High hopes ***
16
High hopes
“My
brain, my body's fried
I've got to stay alive
I've got to take a
chance
And keep on moving”
[Blood
For Poppies – Garbage]
16
Marzo, Villa Stark
Perché
a lui? Perché capitavano tutte
a
lui?
Un braccio
meccanico, una gamba in progettazione, un occhio immaginario...
maledisse il giorno in cui aveva deciso di prendere la
facoltà di
medicina. Si era laureato per curare la gente, non per operazioni
poco probabili, e per giunta su pazienti poco collaborativi.
«Ora,
signor Stark, mi spiegherà che cosa c'è di
sbagliato in questo
progetto,» Ian
indicò il ginocchio della gamba azzurrina che fluttuava tra
loro.
«È
lei il medico, quindi dovrebbe dirmelo lei. Io sono solo un povero
genio e
inventore...» rispose
Stark,
immodesto come suo solito.
Ian sospirò alla ricerca di una forza
interiore che al momento non possedeva: osservò il
modello
virtuale che
roteava lentamente e poi fissò Tony con sguardo intenso nel
tentativo di fargli notare l'errore, suscitando la sua
irritazione:
«Non sono ancora arrivato all'illuminazione divina
che mi permette di leggere nel pensiero: farebbe prima a
dirmelo.»
Ian si arrese a
malincuore:
«Forse...
ha dimenticato un paio di menischi.»
Tony
fissò il vuoto per qualche secondo, probabilmente meditando
sul
significato della sua esistenza.
«Ah. Ora capisco molte cose,»
disse,
accarezzandosi il
pizzetto con fare pensoso.
«Anche io,» Ian
scosse la testa rassegnato.
Tony intrecciò le dita, ancora in
contemplazione con lo sguardo da cane bastonato. Quei menischi
dovevano essere stati un duro colpo.
Ian osservò attentamente il
suo volto provato: era incredibile come quell'uomo ridotto a un
agglomerato di stress, insonnia e caffeina fosse ancora in grado di
applicarsi nella progettazione di protesi all'avanguardia riuscendo a
sbagliare "solo" un paio di menischi. Se lui si fosse
trovato nelle sue condizioni – e, ricordando il suo quarto
anno di
medicina, era
quasi
successo, almeno a livello mentale – avrebbe
probabilmente defenestrato tutti i progetti, si sarebbe chiuso in
camera sua e avrebbe dormito per una settimana di fila. Questo
ovviamente non sembrava rientrare nei prossimi piani del miliardario,
che sembrava più incline a spingere il suo corpo e la sua
mente
all'estremo limite per dimostrare chissà cosa a
chissà chi. Ian
sospirò tra sé: i pazienti orgogliosi e cocciuti
erano i
peggiori.
Se poi erano anche miliardari, geni e pseudo-supereroi, c'era davvero
da mettersi le mani nei capelli.
Mise momentaneamente da
parte le sue elucubrazioni mentali per riscuotere Stark dallo stato
di trance in cui era scivolato, forse indotto dalla carenza di
sonno:
«Signor Stark, a parte gli errori strutturali... le volevo
proporre una futura modifica per il
braccio, e anche per la gamba.»
Tony voltò la testa, di nuovo
reattivo, e lo invitò a continuare con un cenno del mento.
«Come ben vede, le protesi
sono piuttosto... vistose,» accennò
al braccio di un color antracite metallizzato, chiaramente
riconoscibile anche da lontano come un componente meccanico.
«Beh,
sono protesi.
È ovvio che si vedano,» scrollò
le spalle lui, non particolarmente interessato.
Quel giorno
sembrava più assente del solito... sperò che
fosse solo la
stanchezza e che non ne stesse architettando una delle sue.
«Sì, ma con
un intervento di chirurgia plastica si potrebbe camuffare il danno, a
protesi ultimate. Con molti innesti di pelle o con un rivestimento
sintetico, intendo,» gli
spiegò nel tentativo di catalizzare la sua attenzione.
Funzionò:
il miliardario corrugò intrigato le sopracciglia e
ticchettò sul rivestimento metallico dell'avambraccio.
«Sarebbe
strano,» commentò
poi,
lentamente, meditando sulla proposta. «Molto strano. Ci
penserò più in là:
devo ancora apportare moltissime modifiche e vorrei aspettare che la
situazione si stabilizzi. E non sono neanche sicuro di volerlo
fare,»
concluse,
un po'
distaccato.
Ian lo fissò un po' sorpreso dal suo momentaneo
rifiuto, ma annuì senza fare domande. Aveva pensato che la
prospettiva di non avere costantemente sotto il naso un promemoria di
ciò che aveva perso potesse essere confortante, ma
evidentemente non
rientrava tra le sue preoccupazioni più immediate.
«Va bene,
potrà sempre cambiare idea in futuro,»
concluse
conciliante, prima di passare a un argomento ben più
urgente. «Piuttosto, ha intenzione di dormire prima o poi, da
qui al processo?»
«Sono
in grado di tener testa a quegli avvoltoi anche da
sonnambulo,»
ribatté
lui con
sicurezza.
«Signor Stark...» cominciò
lui, sapendo che ogni sua parola sarebbe caduta nel vuoto.
«Doc,
prima finisco la gamba e prima potrò riposare,»
lo
interruppe subito lui, risparmiandogli un discorso che sarebbe comunque
rimasto inascoltato. «Non si preoccupi per me, sono abituato
a
lavorare sotto stress,» concluse
con un sorrisetto che non raggiunse il suo sguardo spento.
Ian
non insistette, ma si ripromise di parlare con Pepper per fargli
rifilare qualche sonnifero a sua insaputa. Tony spostò lo
sguardo sul soffitto, improvvisamente assorto e facendogli presagire
qualcosa di molto, molto assurdo. Era dall'inizio di quell'incontro che
Ian cercava di intuire cosa ribollisse nella testa del suo paziente, e
si preparò all'impatto.
«Sa, Doc,
anch'io stavo pensando...»
"Appunto," quasi sospirò il medico.
Si arruffò i
corti capelli grigio ferro, riducendo le labbra a una linea sottile e
severa.
«Perché ogni volta che lei ha qualche idea sento
un
forte senso di oppressione al petto?»
«Non saprei, ma mi creda,»
rispose
lui,
momentaneamente distratto mentre si picchiettava il reattore in modo
eloquente, «ne so qualcosa.»
Ian stavolta sospirò apertamente, ma tacque, aspettando
sulle spine.
«Stavo dicendo: lei si ricorda che ho un piccolo
"difettuccio" qui, no?» Tony
indicò
la benda che gli copriva l'occhio sinistro.
Mitchell si tolse gli
occhiali con lentezza, prendendo a pulirli con un lembo della camicia
con ostentata calma, concentrandosi unicamente sulle lenti
già
perfettamente lucide.
«Mi ricordo benissimo, signor Stark, e le ho già
detto che sarò lieto di metterla in contatto con un chirurgo
plastico quando vorrà,»
rispose
freddamente.
«Come va il braccio? Mi ha detto di avergli apportato delle
migliorie,» cambiò
poi argomento con voce atona.
«Sì, l'ho calibrato ieri... forse
adesso non sarò più un pericolo pubblico; e
adesso è caldo e tra
poco potrò anche tornare a sentire, ma torniamo
a...»
«Un
momento. Che cosa?
Sentire?» domandò
Mitchell, stranito, lasciando perdere la pulizia degli occhiali per
un istante.
«Ci sto lavorando. Mi lasci fare,»
lo
liquidò lui in poche parole con un gesto scocciato della
mano
metallica.
Le sopracciglia di Ian si aggrottarono all'istante,
incorniciando di rughe i suoi occhi acquamarina, nei quali
passò un lampo
di stizza. Cercò di moderare la sua irritazione, ripetendosi
che stava parlando con un suo paziente... ma suddetto paziente gliene
aveva fatte passare di tutti i colori, ignorando ogni sua direttiva,
consiglio e prescrizione, mettendo di conseguenza a repentaglio la
propria salute e ponendo lui in uno stato di ansia latente. Non si
reputava un tipo tollerante e tentava sempre di tenere a bada la
propria schiettezza per non sembrare troppo brusco, ma a questo punto
si sentiva in diritto di esternare la propria contrarietà,
soprattutto in faccia all'ego ipertrofico di Tony Stark.
«È forse impazzito?»
disse
quindi con voce estremamente calma, gelandolo con un solo sguardo.
Tony
lo fissò spaesato e Ian ne approfittò per
continuare, senza
più preoccuparsi di suonare professionale:
«Lei ha a malapena
cominciato a muovere decentemente il braccio, non sta facendo
progressi evidenti con la gamba, è ridotto in uno stato
pietoso, è
già oberato di lavoro e si mette a pensare a queste sciocchezze?»
Lo sguardo di Tony
si incupì.
«Non è certo nella posizione di poter giudicare
cosa sia una sciocchezza o meno,» ribatté
l'ingegnere,
altrettanto freddamente.
«Vuole tentare di ricreare il
tatto con una protesi appena inventata: le sembra una
priorità,
nelle sue condizioni?» lo incalzò ancora, senza
nascondere la propria scettica perplessità.
«Le
mie...» l'uomo
s'interruppe, non gli fu chiaro se per la frustrazione delle sue
"condizioni" o per lo sforzo di seguire il suo ragionamento per lui
incomprensibile.
«Lei sta solo perdendo
tempo prezioso,»
scandì
Ian, e a
quelle parole Tony
sobbalzò. «Tempo che potrebbe utilizzare per
dedicarsi
alla gamba. Visto
che ha tanta fretta di tornare a camminare, non mi sembra il caso di
distrarsi,» gli
ricordò poi, sempre imperturbabile.
Era più
sconcertato di quanto
volesse lasciar trasparire: quando Stark si era messo a lavorare
sulla prima protesi, l'aveva fatto con una costanza e una
meticolosità quasi ossessive... e adesso si lanciava in
modifiche e
miglioramenti improbabili a cui avrebbe dovuto pensare a protesi
ultimate, non con un'operazione e un processo alle porte.
«Ha ragione, sono
distrazion,.» gli
concesse Tony, sempre più tetro in volto. «E il
modo in cui impiego
il mio tempo o mi distraggo
non
la riguarda.»
«Devo essere io
a
ricordarle che sta rischiando la vita proponendomi queste operazioni
impensabili? E che se le sue "distrazioni" dovessero
causare difetti nelle protesi...»
Tony non lo lasciò finire,
ponendosi immediatamente sulla difensiva:
«È il mio
corpo
e so a quello che
vado incontro; inoltre il fatto del "sentire" non implica
la sua diretta collaborazione, quindi eviti di...»
«... sarò io
a subirne le ripercussioni, non solo lei! Si è dimenticato
l'incidente
con i reattori? È quasi morto sotto i miei
ferri!»
concluse
in tono più
alto, ignorando il suo intervento e mettendo a tacere ogni sua
protesta.
Tony lo fissò, probabilmente restio a comprendere il
motivo della sua improvvisa rabbia. Lui rimase in silenzio, attendendo
una spiegazione che non arrivò: Ian era sicuro che fosse
abbastanza
intelligente da potersi dare una risposta per conto proprio. Non
negava di essersi dimostrato molto prevenuto riguardo all'idea
delle protesi: anche dopo aver compiuto la prima operazione non aveva
perso il suo astio verso qualunque cosa non si collocasse
naturalmente in un corpo umano, e, sfortunatamente per il suo paziente,
né palladio, né reattori, né
unobtanium rientravano in quella
categoria. La sua scetticità si era attenuata col successo
della
prima operazione, ma aveva sempre prospettato con ansia la seconda,
pur trattenendosi dall'esporre così chiaramente il suo
disappunto e
i suoi timori, ritenendolo scorretto per un medico nei confronti del
proprio paziente. Doveva essere un punto di riferimento e una fonte di
sicurezza, non fomentare ulteriori ansie e preoccupazioni. Avrebbe solo
voluto che Tony procedesse più adagio, e con più
criterio: aveva già realizzato qualcosa di sbalorditivo, ma
la sua fretta e brama di fare meglio si sarebbe rivelata ben presto
controproducente.
L'espressione di Stark si era rilassata di poco e
adesso sembrava preoccupata, più che irata. Probabilmente il
rischio
di inimicarsi l'unica persona che potesse materialmente aiutarlo a
mettere in pratica i suoi progetti era riuscito a farlo rinsavire.
Questo era ciò che sperava il medico, ma le successive
parole
del miliardario lo costrinsero a ricredersi:
«Sono sopravvissuto
all'intervento, la protesi ha funzionato fino ad ora e
continuerà a
farlo. E le operazioni sono un inconveniente sopportabile per chi
è
nelle mie "condizioni",» enunciò
con durezza.
Il suo tono non piacque affatto al medico, che si
irrigidì.
«Ora mi stia bene a sentire,» esordì,
inforcando di nuovo gli occhiali con un fremito. «Quello che
ora le
permette di usare il suo braccio destro, e che forse in futuro le
consentirà di rimettersi in piedi, non è solo la
sua genialità, ma
anche la mia abilità chirurgica. Un qualunque altro medico
sano di
mente si sarebbe rifiutato di compiere una follia del genere. Visto
che per sua fortuna anch'io ho avuto un momento di pazzia
nell'accettare quest'incarico, eviti di rivolgersi a me con quel tono
e con quell'atteggiamento.»
«Sono consapevole di avere un
caratteraccio, ma pensavo che ormai ci avesse fatto
l'abitudine,»
commentò
Tony, non
riuscendo a trattenersi.
«Non ho ancora finito, signor Stark,»
lo
zittì il medico, e l'altro tacque di malavoglia.
«Per quanto io possa essere bravo,
abile e preciso con i ferri, non sono perfetto...»
«Almeno non
le manca la modestia,» gli
parlò sopra Tony, senza riuscire ad interromperlo.
«... e
anch'io
posso
sbagliare. Ho
sbagliato mentre la operavo, e lei è quasi morto. Non credo
che lei
capisca cosa significhi, per un medico. Potrebbe succedere di nuovo,
non glielo auguro di certo, ma è una possibilità
da prendere in
considerazione.»
Una scintilla di comprensione si accese nello
sguardo di Tony.
«Ah, quindi stiamo parlando di responsabilità e
sensi di colpa? Con tutto il rispetto, Doc, ma ha scelto la persona
sbagliata se pensa che io non capisca.»
Stavolta
il suo tono suonò colmo d'irritazione. «Il suo
unico compito in
questo frangente è quello di impugnare in modo decente un
bisturi e
tagliuzzare nel punto giusto cercando di schivare i punti vitali.
È
il suo lavoro, dovrebbe essere preparato a compierlo, e dovrebbe
sentirsi tranquillizzato dal fatto che, se mai dovesse perdere all'
"Allegro Chirugo", io non mi scomoderò certo a tornare
sottoforma di fantasma dall'aldilà per perseguitarla per i
suoi
errori. In poche parole, corro io
il
rischio e sono io
a
pagarne le
conseguenze. La sollevo da ogni responsabilità, se
ciò la fa dormire più tranquillo,»
sbottò,
in un'onda di
sarcasmo crescente.
Mitchell impallidì vistosamente, diventando poi
livido di rabbia.
«Lei è il più grande egoista che abbia
mai
incontrato,» riuscì
a dire, evitando di alzare la voce e muovendo appena le labbra nel
parlare.
«Bene, appurato questo dato di fatto...» Tony scacciò
con un gesto annoiato la gamba virtuale che aveva continuato a girare
ininterrottamente sul posto, e questa si scompose in una miriade di
pixel. «Vogliamo parlare di questo
fastidioso
inconveniente? E non mi riferisco alla chirurgia plastica,»
specificò,
indicando
di nuovo la benda sul volto.
Ian rimase impietrito, incredulo che
Tony avesse liquidato la questione con così tanta
superficialità e
che, anzi, stesse di nuovo insistendo sull'argomento "distrazioni".
«La sua
ostinazione mi stupisce, visto ciò che le ho appena detto.
Ma
dimenticavo che, oltre ad essere egoista, è anche
arrogante.» La
sua voce fremette
appena, ma si costrinse a ricomporsi. «Sono momentaneamente
propenso, anche se non entusiasta, ad operarla alla gamba. Ma
l'occhio è fuori discussione,»
scandì
lapidario.
«Non ho ancora capito il motivo di questo suo disgusto
verso il mio apparato visivo,» ironizzò
Tony.
«I motivi sono gli stessi che le ho elencato prima:
è
tremendamente
pericoloso, lei ha già tentato la sorte più volte
e io non voglio
un morto sulla coscienza.»
«Insomma, ha paura,» concluse l'altro, con un
sottotono provocatore.
«Dovrebbe averne anche lei,» replicò
flemmatico Ian. «Soprattutto
perché è impossibile.»
Tony fece un
sorrisetto di scherno.
«Anche questo lo era, a detta sua,»
strinse il pugno meccanico davanti al volto e lo lasciò
ricadere con disinvoltura.
L'espressione di Ian rimase immutata: una decisa
maschera di granito, totalmente irremovibile. Tony sospirò e
si
massaggiò le tempie, scuotendo appena la testa.
«Non le sto
chiedendo di operarmi domani, anche perché devo ancora
ideare un
congegno in grado di sostituire un bulbo oculare, e anch'io sono
d'accordo sul fatto che forse sarà impossibile,»
disse
in un inatteso
slancio d'umiltà. «Ma vorrei... tenere aperta
questa strada, e lei ha ancora moltissimo tempo per cambiare idea.
Direi poco meno di sei mesi, visto lo stato delle cose. Ci
pensi,»
concluse
in tono pacato,
osservando la reazione di Mitchell.
Questi si rilassò appena nel
constatare che non aveva intenzione di distogliersi ulteriormente dai
suoi problemi più immediati concentrandosi su tecnologie
improbabili e illusorie.
«E per quanto riguarda gli eventuali potenziamenti
delle protesi... quelli sono il mio
campo e, se mi avesse ascoltato
prima, non richiedono la sua presenza e non penso proprio che mi
distrarranno al punto da mandare a rotoli la progettazione della
gamba,» aggiunse
Tony, e Ian notò come stesse cercando di essere
più o meno garbato, ma finì per suonare comunque
un po' brusco.
«L'ho
ascoltata molto bene e le ricordo che, in quanto suo medico,
è mio
dovere scoraggiarla dal fare stronzate,» proferì
serafico.
Tony rimase per un
attimo spiazzato dal suo tono più leggero, poi
sogghignò
divertito.
«Siete tutti così carini a preoccuparvi per
me,»
commentò,
falsamente
estasiato, e un accenno di sorriso attraversò anche il volto
del
medico. «E penso che la signorina Potts la prenderebbe in
simpatia se la
aiutasse a "non farmi fare stronzate" un po' più spesso:
è
dura fare tutto il lavoro da sola.»
Si
sentì forse un po' in colpa nel dirlo, ma
continuò a sorridere
sotto i baffi.
***
Il
vapore della doccia aleggiava pigramente nel bagno, offuscando l'aria.
Sotto il getto d'acqua calda, Pepper si passò le dita tra i
capelli
ramati, sistemandoseli all'indietro e scoprendo la bella fronte alta
quasi sempre coperta dalla frangetta. Si lasciò
cullare da
quell'abbraccio liquido e rilassante, nonostante avesse finito
già da qualche minuto di lavarsi. Poteva finalmente
concedersi qualche momento
per essere da sola con se stessa, senza preoccuparsi di qualcun altro
o per qualcos'altro. Semplicemente lei, i suoi pensieri e quella
rilassante acqua calda.
Da quanto non si concedeva un momento per
sé? Tanto, troppo tempo, e se d'ora in poi non l'avesse
fatto regolarmente, avrebbe
iniziato a
perdere veramente i nervi con Tony.
E se fosse successo... non
sapeva dire nemmeno lei che cosa sarebbe potuto accadere.
Sapeva benissimo
che ora più che mai aveva bisogno di lei, anche se a volte
pensava
di non volere il suo aiuto o più semplicemente di non volerla
affatto. Strinse le labbra quasi di riflesso, lasciando che il getto
della doccia vi picchiettasse sopra. Non avevano tutti i torti a
tenersi a distanza a vicenda: non era davvero il caso
di complicare ancora le loro... la
situazione. E non poteva fare a meno
di chiedersi se Tony si fosse mai realmente interrogato sulla sequenza
di eventi che l'avevano portato su quel letto d'ospedale in quelle
condizioni. Per quanto la riguardava, vi si soffermava abbastanza a
lungo da aver perso più di una notte di sonno. Chiuse gli
occhi e nascose il viso sotto la patina d'acqua che continuava a
scivolarle addosso, lasciando che insieme ad essa scivolassero via
anche quelle tetre preoccupazioni, sostituendole con riflessioni
altrettando intricate, ma forse più dolci.
Il filo dei suoi pensieri fu
interrotto dalla voce robotica di JARVIS, che da fuori tentava di
dire qualcosa a Tony; ovviamente lui lo zittì con il suo
solito ed
imperioso “muto”, che risuonò da dietro
la porta.
Chissà
cosa stava combinando...
«Pepper!»
Lei sgranò gli occhi nel
sentire la sua voce all'interno
del bagno, cioè dentro
al bagno, lo
stesso bagno in cui si stava facendo la doccia e nel quale
era
completamente, totalmente ed irremediabilmente nuda, celata al suo
sguardo solo dal vetro appannato ma altrimenti trasparente.
«Tony?!»
Pepper si rintanò nell'angolo della doccia, dandogli la
schiena
e lanciandogli uno sguardo allarmato da sopra la spalla: Tony era
entrato e lo scorse barcollare appena, investito dalla cappa di
vapore asfissiante. Probabilmente non si stava ancora rendendo ben
conto della situazione, perché fece qualche passo
claudicante con le
stampelle prima di riprendere a parlare in modo pimpante:
«Pepper,
devo assolutamente...»
«Tony!»
tuonò lei in preda al panico
più totale. «Non si azzardi a guardare!»
Sentì il fracasso
delle stampelle che cadevano a terra e vide Tony che si appoggiava
con una mano al lavandino, coprendosi al contempo il volto col
braccio sano, come un bambino che inizia a contare quando gioca a
nascondino:
«Non guardo! Non sto guardando! Scusi, giuro che non mi ero
accorto di...»
«Non guardi!»
«Non sto
guardando, le ho detto! Eppure io
non mi sono fatto tanti problemi quando ero completamente inabile a
muovermi e...»
«Ho detto che lei
non deve guardare e comunque lei non era... così nudo!»
continuò
lei, agitandosi e impappinandosi mentre avvampava
all'istante.
«Quindi lei
è autorizzata a guardare me?»
nel bagno echeggiò una risatina e Pepper ebbe la tentazione
di
tirargli addosso la saponetta mirando ai punti vitali. «Le ho
detto che non guardo. E
poi, santo cielo, Pep, non mi scandalizzo per...»
«Non si
azzardi a dire altro! Ora esca di qui; parleremo fuori, se davvero
è
così
urgente.»
«Lo farei volentieri ma, ecco... avrei un
problemino.»
«Lei
avrebbe
un problema?!» chiese Pepper scandalizzata, chiudendo
finalmente
l'acqua per sentirlo meglio e infrangendo così tutti i suoi
sogni di
relax.
«Sì, e proprio ora: per farla felice e preservarla
alla
mia vista ho mollato quegli inutili aggeggi di metallo che
però mi
tengono in piedi, ed ora sono su una gamba sola e rischio di
frantumare un lavandino. In precario equilibrio, insomma.
Perciò se
fosse così gentile da uscire dalla doccia e passarmi
la...»
Pepper
interruppe la sua parlantina:
«Va bene, va bene... un momento. Io
ora esco dalla doccia. Lei non
sbirci! Mi vesto subito e le passo la
sua stampella. Ha capito?»
«Roger, capo.»
«Non si
muova.»
«Veramente volevo giusto farmi una passeggiatina con
lei...»
Pepper alzò gli occhi al cielo ed ignorò la
battuta.
Uscì dalla doccia e si asciugò sommariamente,
maledicendo il
fatto che avesse dimenticato l'accapatoio e i suoi vestiti troppo
vicino a Tony. Afferrò in fretta e furia le prime cose che
le
capitarono sotto mano nel cesto dei panni sporchi e le
indossò,
sempre guardando di sottecchi l'uomo, ma lui sembrava tener fede alla
sua parola ed era immobile e a volto coperto come l'aveva lasciato,
solo un poco più sbilenco. E con un sorrisetto malizioso
stampato sulla sua faccia da schiaffi. Doveva sentirsi decisamente
meglio,
dato che scorrazzava per bagni e camere da letto senza la solita
sedia a rotelle...
Si affrettò a recuperargli le stampelle da terra e
gliele porse; lui ne inforcò una, trovando un appoggio
più stabile
del lavandino, ma non accennò a scoprirsi l'occhio.
«Ha
fatto?»
«Sono vestita ed ho l'altra stampella.»
Tony
sbirciò cautamente, scostando appena il braccio ed
osservando il viso
della
donna ancora bagnato: i capelli ramati e grondanti le ricadavano
all'indietro
e sgocciolavano... sulla sua maglietta dei Black Sabbath? Pepper colse
il suo sguardo perplesso e
realizzò in quel momento cosa indossava. Spostò a
disagio il peso
da un piede nudo all'altro.
«Quella è mia,» dichiarò
Tony,
decidendosi ad accettare la stampella e ritrovando finalmente il
proprio equilibrio.
Pepper decise di ignorare il
reticolo di crepe grigiastre che aveva lasciato sulla ceramica del
lavandino, ma
notò Tony che gli scoccava un'occhiata contrariata. Pepper
osservò per
un momento la maglietta che le stava tre volte più grande e
le
arrivava quasi a metà coscia, non sapendo bene come
sbloccare quella
situazione imbarazzante.
«Sì... è la sua maglietta,»
si trovò
a ripetere, un po' assente.
Preferì non chiedersi se l'avesse
scelta in modo conscio o meno, perché entrambe le
possibilità
racchiudevano implicazioni sulle quali non voleva soffermarsi.
«Le
sta bene. È mia, dopotutto,» osservò
Tony, sorridendole sornione.
Pepper
arrossì un po' ed il calore della stanza la aiutò
a nasconderlo. Si
schiarì la voce prima di parlare:
«Quindi... mi stava cercando, signor
Stark?»
«Ah, sì, giusto. Volevo dirle che... oh. Mi sono
dimenticato,» sbuffò lui, imbronciandosi e facendo
un encomiabile sforzo per continuare a guardarla negli occhi.
«Come,
scusi?»
Pepper arcuò minacciosa un sopracciglio, apprezzando
però collateralmente la sua buona volontà nel non
lasciarsi distrarre dalla situazione anomala.
«Dovevo
dirle qualcosa, ma poi c'è stato un "contrattempo" e mi
è
passato di mente,» accennò con fare impertinente
al suo
abbigliamento poco ortodosso, e Pepper, con un'ondata d'imbarazzo, non
volle soffermarsi sulle cause fisiologiche che potevano aver causato
quella dimenticanza improvvisa.
Notò di sfuggita come il suo sguardo saettasse qua e
là a disagio, cosa decisamente insolita per lui, che non era
certo l'immagine del pudore.
«Ma che cosa ci faceva la mia
adorata maglietta nel suo
bagno?» continuò poi, in fretta. «E
soprattutto: le faccio presente che sarà solo un
prestito
momentaneo.»
«Se l'è dimenticato?» insistette lei
ignorando le
sue osservazioni fuori contesto.
«Ho detto di sì. Si vede che
non era importante,» disse lui, in modo un po' meccanico,
stabilizzando infine la linea del suo sguardo su un punto neutrale in
fondo al bagno. «Appena me lo ricordo glielo dico... ora: la
mia
maglietta?» insistette, come se fosse una questione
d'importanza vitale... o più probabilmente un modo molto
poco efficace per distogliere entrambi dalla situazione anomala in cui
si trovavano.
«Mi pare di averla trovata in giro sporca di
clorofilla e quindi l'ho portata in bagno... credo,» si
decise a
spiegare Pepper, abbassando gli occhi e notando solo ora l'evidente
macchia verdastra appena
sotto il logo della band.
«Ah, giusto. Colpa della protesi, faccio ancora casini in
giro,»
Tony sembrò ricordare, un po'assente. «Poi mi
spiega perché va in
giro a raccattare la mia roba,» aggiunse poi, con un
sogghigno
divertito.
Pepper incrociò le braccia e iniziò a battere
ritmicamente la punta di un piede per
terra, ignorando quell'insinuazione e attendendo che lo spirito
d'osservazione e il – poco – buonsenso dell'uomo
traessero le
dovute conclusioni da quel gesto.
Tony ondeggiò a disagio sul
posto, finalmente consapevole.
«Giusto, sono di troppo.
Allora... io la lascio da sola. Buona doccia,» concluse,
schiarendosi la gola e facendo dietrofront.
Pepper annuì in
risposta, attendendo pazientemente che uscisse, ma lui si
girò di
scatto non appena fu sulla soglia:
«Ecco!»
"Lo sapevo,"
pensò Pepper al limite della disperazione.
«Volevo dirle che il
processo è stato rinviato. Vado giù a stappare lo
champagne!»
___________________________________________________________________________________________________________________________________________
Revisione effettuata il 26/02/2018
Note delle Autrici:
Ebbene sì... non ci bastava far addannare Pepper, Kyle con Tony: Ian è il nuovo membro del club-Tonyhairottoilca***coffcoff (non è l'unico a diventare più volgare ultimamente).
come al solito questa è solo la calma prima della tempesta... *sempre più cattive*
Come sempre ringraziamo di dovere chi ha recensito/letto ed aggiunto la storia alle preferite/ricordate/seguite, in particolare Lupoz91, Sherlock_Watson, Rogue92, Micchi, blackpearl_, alliearthur e bluephoenix <3
See you soon!
Moon&Light
© Marvel
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Capitolo 18 *** Another family reunion ***
17
Another
family reunion
"My mind can't take much more
I could never drown in
They wanna get my gold on the ceiling
I ain't blind
Just a matter of time before you steal it"
[Gold On The Ceiling – The Black Keys]
17
Marzo, Villa Stark
"Allegria..." pensò
Tony.
Al tavolo della sala riunioni della villa si davano tutti un gran da
fare: Ian
controllava e ricontrollava i suoi dati clinici in modo da prevenire
altri attacchi nel prossimo processo, nonostante
l'ingestibile lacunosità della
documentazion; Pepper parlava animatamente con Kyle su quale
strategia sarebbe stato meglio adottare questa volta e Kyle di rimando
sembrava oscillare tra una crisi isterica e una furia omicida nei
confronti di Knight.
Come al
solito stavano facendo i conti senza l’oste, il quale se ne
stava
bellamente seduto a fissare la scena attraverso il fondo del
bicchiere di clorofilla appena svuotato, il secondo in cinque
minuti.
"Ma perché nessuno mi capisce?"
Nessuno
aveva pensato a lanciare un "olé" o un "alleluja"
appena saputo del rinvio del processo se non lui e, anzi, erano tutti
ancora più agitati, neanche avesse annunciato loro la fine
del mondo. Si accomodò meglio sulla sua
sedia,
fissando con aria annoiata il tavolino di vetro della sala riunioni e
chiedendosi che cosa ci stesse a fare lui lì.
Posò il bicchiere
vuoto sul tavolo e s'inclinò con la sedia per prendere una
bottiglia di birra
dal minibar dietro di lui, rimanendo rivolto verso di loro per bocciare
prontamente
qualsiasi idea avessero avuto sul non
pestare il giudice nel caso
avesse di nuovo battuto a sproposito quel suo martelletto
diabolico.
«Dopo quel che è successo nell’ultimo
piacevole
incontro con Knight, non posso permettermi altri passi falsi. Anche
perché sono stato ammonito e Stark è stato
giustamente accusato di
falsa testimonianza. A proposito, devi anche pagare la sanzione se non
vuoi scontare un po' di arresti domiciliari,» gli ricordò con uno sguardo severo dei
suoi occhi verdi e penetranti. «Dobbiamo essere
precisi, puntuali, educati e prudenti. Insomma, dobbiamo muoverci
come un elefante in una cristalleria. Non so se rendo bene
l’idea,
cari,» spiegò Kyle, allargando le mani con fare
eloquente e
scoccando un' altra occhiata a Tony, ora intento ad accavallare la
gamba sana senza distruggersi la fasciatura del moncherino.
Ian annuì
vigorosamente in silenzio mentre scorreva i documenti, guardando
però anche lui di
sottecchi "l'elefante" in questione. Tony fece finta
di nulla e si attaccò con ostentata naturalezza alla
bottiglia, lieto che nessuno avesse notato la rapida scomparsa dei 33
centilitri in essa contenuti. Lo
sguardo di Ian diventò bruciante e Kyle lo
intercettò, togliendo poi
bruscamente la bottiglia dalla mano di Tony, che quasi si
strozzò.
«Grazie, geniaccio: questa la prendo io,»
commentò
bevendo il poco liquido rimasto in un sol sorso. «Tu torna ai tuoi
intrugli verdi.»
Tony rimase un
attimo perplesso, guardando con ramamrico la mano vuota dove prima
c'era quel perfetto miscuglio tra malto ed alcool; poi alzò
le
spalle e seguì la direttiva di Kyle nel tornare alla
borraccia di clorofilla, sorseggiandola
cercando di nascondere la smorfia schifata per quella bevanda
decisamente meno appetitosa. Sentì lo sguardo di Pepper
posarsi su di lui e s'impegnò a fingere che quella brodaglia
gli piacesse più d'ogni altra cosa al mondo. Finora aveva
funzionato
abbastanza bene, come copertura; ci mancava solo che lei iniziasse a
porre
domande scomode sul suo smodato consumo di clorofilla.
«Quello che intendo è
che dobbiamo procedere con cautela. Cautela.
Appuntatevelo dove
volete, ma ricordatevelo,» scandì intanto Kyle.
«Il fatto
che Hammer abbia dato buca ci dà tempo per prepararci
meglio, ma
anche lui avrà occasione di studiare meglio il caso.
È un'arma a
doppio taglio e dobbiamo essere preparati a contestare le sue
argomentazioni,» continuò a spiegare con sicurezza.
«Allora per
quanto riguarda le protesi dovremmo prima di tutto fornire loro i
progetti preliminari, così da... Un momento.»
Pepper s'interruppe e si girò improvvisamente verso Tony.
«Lei.
Perché non sta
parlando come al solito?» chiese, allarmata.
L'uomo sollevò le
sopracciglia, preso in contropiede. Stava per appellarsi al suo
diritto di rimanere in silenzio, ma fu anticipato:
«E perché non
contesti tutto ciò che diciamo, Stark?» Kyle
assunse un’espressione
altrettanto preoccupata.
«Si sente bene?» rincarò la dose
Pepper, attendendo da lui una risposta.
Lui si guardò intorno
come una preda in trappola.
"Sono circondato."
«Ha
avuto modo di sfogarsi con me,» risolse i loro dubbi Ian, con
aria
apparentemente tranquilla.
In realtà da dietro i suoi occhiali
stava trapassando Tony con tanta durezza che questi si sentì
ancora
più a disagio nel ricordare la loro discussione del giorno
prima, inclusa la direttiva sul non fare stronzate.
Kyle seguì quello scambio, interessato:
«Non so come interpretarlo:
se come una punizione fisica subita da uno dei due, o come
qualcos’altro... sai essere ambiguo, Ian.»
Tony quasi si
strozzò di nuovo.
«K, mi dispiace deluderti,
ma ho altri interessi e altri modi per "sfogarmi",» disse
Tony, e il suo sguardo corse involontariamente a Pepper.
La donna
ticchettò con le unghie sul tavolo, fissandolo gelida:
«Vuole
che le chiami qualcuno? Un po' di "spazzatura",
intendo.»
«Santo cielo, lei è fuorviante. Finirà
con
l’uccidermi, se non cado prima in una congiura,»
sdrammatizzò, guardandosi
intorno preoccupato.
«Se evita di farmi venire un collasso
nervoso un giorno sì e l'altro pure, forse ha qualche
speranza di
sopravvivere.»
Tony borbottò un qualche commento a mezza voce
che risultò incomprensibile, poi riprese con più
energia:
«Il
suo comportamento nei miei confronti non ha effetti molto diversi,
sa?»
«Credo che lei sia già "compromesso" senza il
mio aiuto,» replicò Pepper, pungente.
Tony trasalì, fissandola
sorpreso e anche abbastanza risentito. Iniziava ad averne abbastanza
delle sue frecciatine, ma continuava a incassarle memore del proprio
comportamento decisamente discutibile. Però non sapeva
quante
ancora ne avrebbe potute sopportare, soprattutto se lei avesse
continuato a cambiare umore da un giorno all'altro.
«Tornando al processo...»
Pepper troncò l’argomento non dandogli modo di
rispondere, e Tony tentò di celare il proprio improvviso
disagio per quel battibecco. Kyle nel frattempo si stava grattando il
naso con aria imbarazzata. Mitchell, al contrario, li fissava con il
mento poggiato sulle mani intrecciate
come se stesse seguendo un talk-show.
«Ma no,
stava diventando interessante. Fate con comodo: io non
esisto,»
dichiarò con fare
sornione.
«Spiacente deluderla, Doc, ma è appena suonata la
campanella dell'intervallo ed è finita l’ora
del "facciamoci-i-cazzi-altrui",» dichiarò Tony,
infastidito
ma deciso a mascherarlo con il suo sarcasmo. «Allora,
c'è qualcuno disposto a
festeggiare con me il rinvio del giudizio universale?»
riprese
un tono
più leggero, e sollevò la clorofilla come un
peccatore che ha appena
scampato il biglietto di sola andata per l'inferno.
Il palmare
poggiato sul tavolo trillò, interrompendo sul nascere i
festeggiamenti; prima che Tony potesse raggiungerlo lo fece Pepper,
lasciandolo con la mano sollevata a metà strada:
«La moda del momento è appropriarsi indebitamente
delle mie cose?»
Assottigliò gli occhi nel guardare la maglietta dei Black
Sabbath,
ora pulita, che Pepper aveva evidentemente reclamato come propria, in
un gesto che non sapeva se interpretare come una sfida o come un
tentativo di riappacificazione. Lei non rispose e corrugò le
sopracciglia mentre leggeva il messaggio:
«Non faccia quella
faccia,» sbottò Tony, tra la disperazione e la
supplica.
«C'è
qualcuno che vorrebbe parlare con lei.»
«Avevamo detto niente
spazzatura,» disse Tony.
«È il direttore Fury,»
annunciò
lapidaria Pepper.
«Lui va nell'indifferenziata.»
«Vuole
vederla e...»
«Signore, il direttore della SHIELD e il dottor
Banner la attendono alla porta. Li faccio entrare?»
annunciò la
voce robotica di JARVIS, confermando i peggiori timori di Tony.
«Ah,
c'è anche Bruce! Falli entrare, inizia la festa!»
esclamò con un pizzico di sollievo, facendo buon viso a
cattivo gioco anche se
decisamente contrariato da quella visita imprevista.
«Signor
Stark, tra due settimane ci sarà il suo processo! Questo
è stato
rinviato solo per l'assenza di Hammer, dobbiamo...» Kyle
cercò di
fermarlo, ma Bruce era già entrato nella stanza col suo
passo un
po' impacciato e l'aria di non sentirsi totalmente a suo agio in
quella casa enorme, distraendo definitivamente Tony.
«Bruce!
Benvenuto!» lo accolse, sorridente. «Sai, volevo
chiamarti l'altro giorno, ma erano le quattro
del mattino e qualcuno mi ha fatto notare che poteva non essere una
buona idea,» continuò, salutandolo con ampi gesti
col
braccio destro per
ostentare al contempo i progressi ottenuti con la protesi.
L'altro sorrise
appena in un misto di incredulità e contentezza nel vederlo
così
arzillo rispetto al loro ultimo, turbolento incontro.
«Ehi, Tony. Beh,
Per fortuna non l'hai fatto,» commentò, con
palpabile sollievo. «Uhm, buongiorno, Virginia,»
aggiunse, venendo ricambiato dalla donna, per poi scrutare
perplesso l'assemblea che si stava svolgendo alle spalle
dell'amico con l'aria di sentirsi ancor più fuori luogo.
«Scusate,
interrompiamo qualcosa?» si preoccupò.
Kyle scoccò un'occhiata
irrequieta a Mitchell, come in una domanda silenziosa, e il medico
gli rivolse un cenno d'assenso impercettibile. In quel mentre Fury si
sporse dalla soglia.
«Non interrompiamo proprio niente,»
tagliò corto quest'ultimo, piazzandosi in piedi a capotavola
con la
naturalezza di un padrone di casa dopo aver salutato con un cenno i
presenti.
Fu evidente dal modo in cui scrutò la sala che non si
aspettasse la presenza di Ian e Kyle.
«Sì,
naturalmente... fai come se fossi a casa tua,»
commentò acido Tony.
«Pensavo di non
dover più rivedere la tua faccia, visto che ufficialmente
sono di
troppo
nella tua banda di disadattati. Senza offesa, Bruce,»
aggiunse,
per poi alzare l'occhio al cielo non appena fu fuori dal campo visivo
di Fury.
Spostò rapidamente lo sguardo dal suo unico alleato
– sperando che non diventasse verde – al
branco di occhi minacciosi puntati su di lui, e alzò un
sopracciglio nel decidere che era il caso di rompere il ghiaccio in
prima persona:
«Allora, lui è K, ed è merito suo se
non
sono ancora dietro le sbarre.» Kyle assunse
un'espressione indecifrabile, forse aspettandosi una presentazione
più ufficiale. «Pep la conosci... e lui
è
Doc, il mio segaossa,»
continuò con leggerezza, con un ultimo cenno in direzione di
Mitchell. «Ragazzi, loro sono...»
«Conosciamo già il tuo
sfortunato "team di supporto", Stark.» Fury lo interruppe
e incrociò le braccia, contrariato. «Lo stesso non
si può dire di
loro. E preferirei che la cosa rimanesse così, non so se mi
spiego.»
Su di loro calò un silenzio teso. Ian fu il primo a
riprendersi:
«Si spiega benissimo e io non ho alcuna intenzione
di farmi coinvolgere ulteriormente nelle vostre faccende,
quindi...»
si alzò, lanciando un'occhiata eloquente a Kyle.
Tony spostò
rapidamente lo sguardo tra i due, incredulo:
«Cosa? Neanche per
sogno! Mi hanno aiutato per tutto questo tempo, hanno il diritto
di...»
«Stark, apprezzo molto il gesto, ma preferiamo rinunciare
a questo "diritto",» lo interruppe Kyle in tono gentile ma
fermo, allontanando al contempo la sedia a rotelle dal tavolo.
Tony scosse la
testa, ancora più confuso e a quel punto gli venne in aiuto
Banner:
«Tony, non tutti ambiscono ad essere coinvolti in cose
più grandi di loro... e devo dire che li capisco
perfettamente. Se
avessi potuto scegliere, mi sarei tenuto anch'io lontano da tutto
questo,» aggiunse mestamente.
Tony non seppe come ribattere, così
si limitò a chinare appena il capo: anche lui capiva, in
fondo. La vita da
"supereroe" a pensarci bene era fantastica, dopo averci
fatto l'abitudine, ma se gli avessero dato la scelta fra avere un
reattore nel petto o vivere una vita normale, senza dover tirare
avanti a palladio e clorofilla e con più metallo che carne
addosso,
non era certo che la sua scelta sarebbe stata così ovvia, a
prescindere dalle proprie promesse. Lo
stesso poteva dirsi per il trovarsi invischiato con lo SHIELD e tutto
ciò che comportava in termini di sicurezza.
Scoccò un'occhiata a Pepper, che osservava in silenzio la
scena, attenta come sempre: si sentiva già abbastanza
inquieto per aver trascinato lei in quel mondo fuori dall'ordinario e
potenzialmente pericoloso.
«Ho
capito, è il solito dilemma tra spasso-mobile e
depresso-mobile,»
sospirò con forzata ironia, attirandosi sguardi confusi.
Si
affrettò a elaborare:
«La spasso-mobile è sconsigliata anche
dal sottoscritto. Ci vediamo dopo, se sarò ancora
vivo,» li congedò
infine con un sorriso un po' forzato, guardandoli uscire con
malcelata riluttanza.
Fury si sedette, mentre Bruce tentennò
ancora qualche istante, impacciato come sempre. Tony si
sforzò
di riprendere il suo solito atteggiamento gioviale: dopotutto, quello
era un giorno di festa. Approfittò del fatto che Banner
fosse
incautamente passato accanto a lui per sedersi e lo trattenne
posandogli la mano sul braccio, pronto a coinvolgerlo in una
conversazione degna di due geni come loro. E a sfruttarlo come
appoggio fisico momentaneo per alzarsi.
«Ti ho già mostrato
l'unobtanium? È una gran figata una volta che sai a che cosa
serve...» afferrò una stampella e gli
passò un braccio sulle spalle cercando di trascinarlo verso
l'uscita e ignorando il suo
tentativo di raggiungere il tavolo.
«Tony.»
La voce stentorea di
Pepper lo congelò all'istante.
«... ma prima ci sorbiremo
questa noia.»
Cambiò bruscamente direzione,
rischiando di
strozzare l'altro con la protesi e sedendosi di peso sulla sedia. Bruce
si accomodò cautamente accanto a lui, massaggiandosi il
collo e
trattenendo un sorrisetto divertito all'esuberanza
dell'amico.
«Quando avremo recuperato un briciolo di serietà
potremo parlare del perché
siamo venuti,» disse
Nick con la sua
solita calma forzata, come di una bottiglia di spumante sotto pressione
e pronta a scoppiare.
Finalmente ci fu un attimo di quiete e lui
sembrò assicurarsi che fosse reale e non un frutto della sua
immaginazione troppo ottimista. Emise un sospiro rassegnato e
riprese a parlare:
«C'è stata un'altra assemblea dei
Vendicatori, e pare che tu abbia una buona stella qui in
mezzo.»
Il
suo sguardo corse a Bruce, che incassò la testa tra le
spalle a mo' di tartaruga.
«E cosa dice il mio angelo custode?»
chiese Tony con il suo solito sorrisetto sfrontato, che stavolta
nascondeva un pizzico di speranza.
«Sono riuscito a corrompere un
paio di Vendicatori...» aggiunse il novello angelo, un po'
titubante.
«Con cosa? Shawarma? Anzi, a pensarci bene non mi
interessa. Chi sarebbero questi adorabili sostenitori?»
ironizzò
Tony. «Spero non Capitan Frisbee.»
«No, non credo proprio,»
rispose Fury, funereo. «E ci tengo a sottolineare che non
sono
incluso nel tuo fanclub, per ora. Mi limito ad osservarti, prendere
appunti e poi ti consegnerò la pagella rivista e
corretta.»
"Dovevo
aspettarmelo..." pensò il miliardario, comunque contrariato
dall'astio del suo ex-direttore nei suoi confronti.
D'altronde non
aveva mai fatto nulla per conquistarsi la sua simpatia, anzi.
«Sono
Thor e l'agente Barton,» annunciò Bruce.
«Oh, l'Asgardiano
biondo e Robin Hood! Che piacere averli dalla mia...»
«"Robin
Hood" è neutrale,» puntualizzò Fury,
con una luce quasi
compiaciuta nell'occhio.
«Ah. Gli manderò comunque un cesto di
rose.»
sbuffò Tony, prendendo a guardare con ostentazione il
soffitto.
«Ed
ora?» chiese quindi Pepper, parlando per la prima volta, con
un
velo d'ansia palpabile nella voce.
«Si tranquillizzi, signorina
Potts, l'armatura rimarrà appesa al chiodo ancora per un
po',»
la anticipò seccamente Tony, intuendo le sue preoccupazioni.
«Pensiamo
prima a questi,»
disse più irritato di quanto
volesse ammettere, indicando con un sol gesto la gamba mancante, la
benda
sull'occhio
e la protesi in bella mostra. «Però... ho
già qualche progetto
in cantiere. Per l'armatura, intendo. Non mi guardi così, la
prego.» Lanciò un'occhiata esasperata a Pepper. «Se
Bruce non è troppo impegnato e porta avanti la campagna
"pro-Iron
Man", potrei impegnarmici sul serio quando sarò di nuovo in
piedi, e fare un pensierino sul rientrare
nei
Vendicatori.»
«Vediamola dal mio punto di vista...»
cominciò
Fury.
«Non credo ci sia molta differenza,
ormai.»
Tony
alzò le
spalle con fare noncurante, accennando alle loro bende. Dopo un
attimo di perplessità, Fury trattenne un sorrisetto.
«Va bene,
vediamola dalla mia posizione:
quando, se e solo se
riuscirai a rientrare in quell'armatura e a salvare i gattini sugli
alberi come prima se non meglio, allora io,
forse, potrei fare un pensierino sul farti rientrare nei Vendicatori
in veste di Consulente.»
Tony meditò per qualche istante su quelle parole, che a
parte il sottotono scettico sembravano un'offerta di pace sincera, per
poi annuire appena.
«Messaggio ricevuto.»
«Appendilo
al frigo.»
«Ne fosse rimasto qualcosa...»
tossicchiò tra sé.
Lo sguardo di Pepper
fu il primo che incontrò, e cadde uno spiacevole silenzio.
Chissà
se sapevano del suo rapporto piuttosto complicato col mondo e i
suoi abitanti...
«Le giuro che lo riparo. Insieme a tutto il
resto,» riuscì a dire, sperando che, a dispetto
del contesto poco consono, capisse quanto
gli dispiacesse
per tutto e pregando tra sé di smuovere quella patina di
ghiaccio
che gli aveva riservato nelle ultime settimane.
Non si era mai
sentito così ottuso in vita sua, visto che non riusciva
assolutamente a decifrare gli atteggiamenti altalenanti della donna,
comunque sempre restia a qualsiasi tipo di confronto diretto. Fu
condannato a tenersi i suoi dubbi, perché Fury s'intromise
prima che
Pepper potesse rispondere o commentare:
«Ah, la clausola del
contratto, se mai ce ne sarà uno, prevede un rapporto civile
con chi
la circonda; la prego dunque di non snervare la signorina Potts e
quei due santi che hanno avuto la "fortuna" di incontrarla.
E di non rendere uno scoop di gossip i futuri processi,»
asserì, inclinando il capo in modo da trapassarlo da parte a
parte con lo sguardo. «La direzione
ringrazia. Direi che è tutto.» aggiunse poi,
alzandosi come se non
vedesse l'ora di uscire di lì per dedicarsi a faccende ben
più
importanti – tipo la sicurezza mondiale.
«Va bene, va bene...
farò il bravo, ho capito l'antifona,»
sbuffò Tony, per poi
aprirsi in un sorrisetto. «È comunque molto carino
da parte
vostra venire fin qui di persona per comunicarmi qualcosa per cui
sarebbe bastata una semplice telefonata.»
Intrecciò le mani sulla
nuca con aria soddisfatta, osservando le loro reazioni. Fury
sembrò solo estremamente seccato e si limitò a
imboccare la porta
senza proferir parola; non appena gli voltò le spalle, Bruce
strizzò
l'occhiolino a Tony, prima di seguire il direttore. Era chiaro di
chi fosse stata l'idea di una visita a sorpresa...
«La prossima
volta non sfuggi, Banner! Devo ancora mostrarti il
laboratorio!» gli
gridò dietro.
«È l'ultima volta che vi faccio da
baby-sitter!»
gli arrivò in risposta la voce di Fury, seguita da un colpo
di tosse
di Bruce, probabilmente per dissimulare una risata.
Anche Pepper
si ritrovò a sorridere: forse Tony non era così
solo come credeva.
***
«Bene,
ora che gli ambasciatori della banda di stramboidi hanno tolto il
disturbo, possiamo tornare a parlare delle modalità di
festeggiamento per il rinvio del processo...»
esordì Tony,
speranzoso, ma si convinse a tacere intercettando lo sguardo cupo di
Ian.
«Non è lei a dirigere la riunione, Stark. Prego,
signorina
Potts, riprendiamo da dove ci eravamo interrotti.»
Sembrava ancor più scostante del solito in seguito a quella
visita imprevista e anche Kyle aveva assunto un'aria incupita.
«Grazie,
dottor Mitchell. Dunque...»
Kyle si raddrizzò la cravatta con fare altero, scoccandogli
un'occhiata di ghiaccio come a intimargli il silenzio mentre
discutevano. Lui si lasciò sfuggire un sospiro
esasperato, corredato dall'espressione più scocciata che gli
riuscì. Ultimamente sembravano entrati tutti in
modalità-iceberg nei suoi confronti. Forse avrebbe dovuto
indulgere più spesso nei crolli emotivi, visto che
sembravano
l'unico modo per far vacillare Pepper e spingerla in un raggio
inferiore ai due metri da lui. O magari aveva davvero bisogno di
un
po' di "spazzatura", prima di uscire totalmente di
testa. Si costrinse ad ascoltare la discussione per scacciare
quelle riflessioni inopportune e pericolosamente invitanti.
«Stavamo
approntando una linea di difesa più decisa. Giusto,
Kyle?»
«Giustissimo, cara. E il primo passo sarà portare
un
fucile a pompa in aula, onde evitare comportamenti inappropriati
prima di tutto da parte di Stark, e poi anche da parte di Knight. Se
mi fa un altro sorrisino viscido gli apro un buco in testa,»
annunciò piattamente.
Tony lo fissò interdetto.
«Non ti
facevo così violento. Sei quasi al mio livello.»
«Oh, non sai
quanto: ti tengo d'occhio, carino. Pensa dieci volte a quello che
stai per dire e poi non
dirlo. Pepper, tu sei autorizzata a dargli il
colpo di grazia. Sei in fila da più tempo.»
Pepper fece un
sorrisetto per niente rassicurante.
"Cosa dicevo della congiura?
Oh, sì... mi sento alle Idi di Marzo."
___________________________________________________________________________________
Revisione effettuata il 26/02/2018
Note Delle Autrici Dell'Autrice:
In seguito a un mio errore idiota durante la revisione, le note delle autrici originali sono andate perse...
Non ricordo assolutamente che sclero ci fosse qua sotto, così mi limito a dire che questo capitolo è evidentemente di transizione. Nonostante ciò, soprattutto in seguito alla revisione, getta le basi per alcune future problematiche, tra cui il delicato equilibrio dei rapporti con la SHIELD per Kyle e Ian, il palladio sempre più presente e la situazione complicata di quei due ortaggi matricolati, alias Tony e Pepper.
E godetevi un po' di science-bros :D
-Light-
© Marvel
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Capitolo 19 *** It's gonna be OK, someday ***
18
It's
gonna be OK, someday
"All
day long I think of things but nothing seems to satisfy
Think I'll
lose my mind if I don't find something to pacify
Can you help me
occupy my brain?"
[Paranoid
– Black Sabbath]
18
Marzo, 8:20, Villa Stark
Tony
sollevò gli occhiali protettivi, osservando il metallo fuso
dal
saldatore mentre cercava di perfezionare il legamento
dell'articolazione. Naturalmente si
era già rotto tre volte e lo aveva riprogettato per ben
cinque. E
adesso aveva sbagliato la saldatura per colpa della sua mano sinistra
recalcitrante a collaborare.
"Dannati menischi. E questo
cos'è?" si chiese tra sé, rasentando
l'esasperazione.
Tastò
con una pinzetta un fascio di tendini sintetici senza riuscire a
collocarlo
nella sua mappa mentale dell'anatomia di un ginocchio, probabilmente
lacunosa. Il sonno arretrato non era d'aiuto. Si risolse a prendere
l'articolazione virtuale che
fluttuava accanto a lui, inserendola nella protesi per verificarne la
struttura e le eventuali mancanze.
"È un crociato, ed è dove non dovrebbe essere,"
concluse, scacciando via con una schicchera lo
spettro azzurrino.
Lasciò perdere momentaneamente il ginocchio
e tornò al lavoro che stava svolgendo fino a poche
ore prime, cioè
la realizzazione delle altrettanto stramaledette dita dei piedi:
aveva quasi pensato di lasciarle perdere, ma se voleva riprendere a
camminare in maniera decente doveva riprodurle alla perfezione, o si
sarebbe
ritrovato con la colonna vertebrale distrutta. Ian aveva già
accennato a
future sessioni di fisioterapia, e personalmente non vedeva l'ora di
prendere a calci qualcosa.
«JARVIS,
confronta e riconfronta quest'arnese con la mia gamba, poi
ricontrolla. E quando hai finito ricontrolla ancora. Tutto chiaro,
latta scaduta?»
«Sì,
signore. Analisi in corso.»
E poi
Ian aveva il coraggio di accusarlo di superficialità...
Tony
sbuffò, ancora risentito per la discussione poco illuminante
avuta col
medico, poi si
rimise a lavorare sorseggiando di tanto in tanto la sua clorofilla e
dimentico dello scorrere del tempo, come sempre quando era in
laboratorio. Cinque ore, molte imprecazioni e innumerevoli errori
dopo, stava ancora sudando sul mignolo: aveva progettato la struttura
di ogni singolo dito e l'aveva anche quasi realizzata, ma i
dettagli...
"Chi se ne frega, dei dettagli."
Smise di
lavorare sulle dita: ci sarebbe ritornato su quando avrebbe avuto un
pezzo in più di gamba. Per ora l'avrebbe fatto stare in
piedi e
tanto bastava. In realtà la piastra d'aggancio della protesi
era
pronta, ma giaceva in un angolo del laboratorio, per lo più
ignorata. Avrebbe già potuto approntare la data
dell'operazione con
Ian, ma si trovava riluttante a rendere ufficiale la cosa. Non
l'avrebbe mai ammesso esplicitamente, ma sentiva una ragionevole dose
di paura nel pensare all'intervento, considerando che era
sopravvissuto per miracolo al primo. E poi cosa se ne faceva della
sola piastra d'aggancio, senza una gamba pronta a sostenerlo? Erano
giorni che non riusciva a stare fermo e sentiva l'impulso frenetico
di camminare, correre, fare a botte, volare... troppe cose, tutte
irrealizzabili e fuori dalla sua portata.
Si trovò a soffermarsi
frustrato sul piede della protesi, ancora poco più di un
abbozzo
informe. Poggiò la testa sulla mano, fissando
assente
quell'ultimo, piccolo e insormontabile ostacolo che lo separava
dall'avere di nuovo
una gamba. Si era buttato anima e corpo – per quanto
possibile – in quel progetto azzardato e non ricordava di
aver
passato un solo giorno dall'incidente senza pensare alle protesi, a
miglioramenti da apportare e modifiche da effettuare. Aveva la testa
traboccante di dati, idee, scarti di produzione e pensieri ancora
irrealizzabili. Ecco, quelli avrebbe dovuto eliminarli del
tutto, perché portavano inevitabilmente a... all'occhio e a
quanto
fosse difficile...
"Pepper. Non prendiamoci in giro."
Resettò
il cervello: non era quello il
momento per
pensarci. I suoi pensieri presero un'altra direzione. Era bello
potersi distrarre a comando, quasi come sfogliare i dati dei suoi
computer: pensiero spiacevole? Bastava cambiare pagina. Ultimamente
aveva talmente tanti pensieri, che non gli riusciva difficile mettere
in pratica quella tattica.
Intrecciò
le dita e le scrocchiò con tenue soddisfazione sentendo i
legamenti
e le giunture che funzionavano a dovere, accusando una lieve fitta alla
spalla per la tensione muscolare. Gli era sempre
piaciuto lavorare e dare il meglio di sé in ogni sua
invenzione, ma
adesso cominciava ad averne la nausea e ad odiare il suo laboratorio,
soprattutto perché doveva costringersi a non guardare la
parete
delle armature, dove adesso troneggiavano solo la Mark I
semidistrutta, l'ammasso informe della Mark III e la decisamente
obsoleta Mark II. Non aveva avuto né tempo né
modo di smantellarle,
momentaneamente o per sempre, ma la sola vista della cromatura rosso
e oro semi-fusa bastava ad annebbiarlo di altre
preoccupazioni. Chissà quanta gente continuava ad aspettare
Iron
Man...
Si coprì il volto con la protesi, affondando il naso
nell'incavo del gomito: era stanco,
terribilmente stanco, ma allo stesso tempo straripava di tanto
nervosismo messo sotto pressione da non riuscire a riposarsi.
L'insonnia e i frutti onirici deviati del suo inconscio, quelle rare
volte in
cui riusciva a dormire, ne erano un chiaro sintomo. Avrebbe voluto
trovare qualche sfogo che non comprendesse armeggiare con saldatori e
cacciaviti. Aveva anche un'idea di quale poteva essere, ma i
giorni dei suoi party esplosivi e delle notti brave passate in hotel
a cinque stelle con belle donne erano molto lontani, in quel
momento – in quelle condizioni. Si immerse brevemente in quei
ricordi vietati ai minori e
decisamente piacevoli. O
spiacevoli, a seconda di quanto fosse stato ubriaco alla fine di
ciascuna di quelle serate. O disturbanti, visto che a quelle
immagini si intersecava irremediabilmente la figura di Pepper e
di quanto avrebbe voluto...
"Reset."
I suoi pensieri
virarono sul più rassicurante terreno della progettazione
delle
protesi, anche se un senso d'insoddisfazione latente rimase a
stuzzicarlo.
Riaprì una delle schermate ridotte a icone,
rituffandosi in schemi, calcoli e preoccupazioni più
tangibili. Doveva ancora fare il calco di ciò che rimaneva
della
sua gamba per portarlo ad Ian, che lo aspettava da circa tre giorni.
Forse erano passati più di tre giorni.
"Stavolta mi
ammazza."
***
19
Marzo, Villa Stark
«Non
sono passati tre giorni?»
«Una
settimana, signor Stark. Una
settimana.»
Ian
si sporse minacciosamente verso di lui, le iridi chiare ingrandite
dagli
occhiali che accentuavano il suo sguardo inquisitore.
«Erano tre
giorni quattro giorni fa. Quattro più tre fa ancora sette,
vero?»
si
arrampicò sugli specchi Tony, con un sorrisetto nervoso.
«Le sue
condizioni fisiche potranno aver turbato tutto il mondo, ma le leggi
fondamentali rimangono invariate. Così come il suo essere
costantemente
in ritardo.»
«Buono
a sapersi. Ho bisogno di qualche punto fermo nella mia vita,» rispose
sollevato Tony, ruotando con fare irritante sulla
sedia girevole.
«E stia fermo. Mi dà la nausea,»
proruppe Ian.
Tony interruppe a malincuore le sue
acrobazie.
"Adesso viene il bello..." pensò poco
entusiasta, ma consapevole che non poteva rimandare ancora
l'argomento solo perché la sua mente aveva inaspettatamente
deciso
di cedere a una paura irrazionale.
«A quando la festa?»
esclamò quindi, forzando un sorriso smagliante.
«Prego?»
Ian
si tolse gli occhiali e cominciò a pulirli, segno che si
stava
preparando alla sua ennesima stravaganza.
«Ma l'operazione,
ovviamente! Non è contento di avere una scusa per
liberarsi di
me?»
Ian gli scoccò
un'occhiata tanto penetrante che non si sarebbe stupito di ritrovarsi
un foro di proiettile in testa.
«Il suo umorismo fa passi da
gigante ogni giorno, signor Stark.»
Il
medico scosse la testa e si rimise gli occhiali, ormai
rassegnato. «Comunque, dipende da quanto le ci
vorrà
per ultimare
il lavoro, no?»
«Giusto...»
ammise
Tony, facendosi esitante. «La piastra d'aggancio in
realtà è
già pronta, devo solo revisionarla. Intanto mi sto
avvantaggiando un po' di lavoro sul resto, così
da accelerare i tempi dopo l'operazione.»
Pronunciò
con malcelata apprensione quelle ultime parole, consapevole di volersi
solo teletrasportare magicamente a quel "dopo" senza dover
affrontare di nuovo tutto il calvario che l'avrebbe preceduto.
«Mi
assicuri solo la partecipazione del suo super-cervellone. Sa...
quindici ore in sala operatoria sono lunghe. E avrò bisogno
di pause
anch'io,»
sottolineò Ian.
«Posso
programmare JARVIS affinché racconti barzellette per
intrattenerla.
Almeno non si addormenterà sul mio quasi-cadavere.»
«Ok,
ritiro tutto sul suo umorismo: sta
diventando veramente macabro.»
«Solo
se ci crede davvero,»
lo rimbeccò
lui, ostentando un ghigno spavaldo.
Tony si distolse da
ulteriori riflessioni potenzialmente nocive e riprese a parlare a
raffica riguardo ai dettagli della protesi, cercando di non dare peso
né allo sguardo turbato di Ian, né alla sommessa
marea d'apprensione che cresceva dentro di lui di secondo in secondo.
***
21
Marzo, Villa Stark
Tony
deglutì a vuoto, scoccando un'occhiata falsamente sicura di
sé alla
donna bionda che lo seguiva suadente ad appena un passo di distanza;
forzò sulle sue labbra un sorriso che sperava fosse
affascinante,
chiedendosi in realtà cosa diavolo stesse facendo.
Non gli
era
ben chiara la concatenazione di eventi che aveva portato Christine
Everhart a casa sua, ma era abbastanza convinto che fosse stata
influenzata dallo stato di totale agitazione in cui l'aveva colto la
sua chiamata inattesa. Dopo due notti insonni – e le molte
altre
che le avevano precedute – passate a imprecare contro un
relè che
non voleva saperne di funzionare come avrebbe dovuto, una fusione di
unobtanium fallita, l'assenza imprevista di Pepper costretta a
presenziare a
un'assemblea a Seattle, e il crescente senso di panico che lo
attanagliava all'avvicinarsi dell'operazione, non doveva essere stato
nel pieno delle sue facoltà mentali quando aveva
acconsentito a
rilasciare un'intervista per Vanity Fair e
l'aveva
invitata alla villa.
Infatti si era pentito di quanto promesso non
appena Christine si era presentata alla sua porta, per poi rendersi
conto in modo del tutto irrazionale che non gli dispiaceva poi così
tanto che lei fosse lì. Quindi aveva temporeggiato. Le aveva
concesso qualche domanda frivola e poi le aveva offerto un drink e
aveva bevuto
anche lui dopo tanto tempo perché... perché no?
Poi erano
passati a
rivangare il loro ultimo incontro
e l'intervista era scivolata in secondo piano, tramutandosi
in... altro, in modo molto simile a
quanto accaduto
poco più di un anno prima in circostanze del tutto diverse.
Non
sapeva se essere grato o meno alla sua innata risposta pronta, ma
quando le parole "non concedo
interviste, ma sarei disposto a concederle altro" avevano
lasciato la sua bocca non era riuscito a capire se fosse il caso di
prendersi a schiaffi o stringersi da solo la mano – e avrebbe
fatto molto
male in entrambi i casi.
Forse Pepper
aveva ragione, quando diceva che non lo si poteva lasciar solo un
istante... almeno stavolta non avrebbe dovuto buttare lei la
"spazzatura".
E ora si ritrovava a fare strada a
Christine in camera da letto – non quella che ricordava lei
al piano di sopra, ma quella nuova al piano terra, e già
quel dettaglio gli aveva fatto perdere un po' di sicurezza.
Avvertì un nodo di tensione che gli stringeva la
gola,
assieme a un altro, più in basso e a lui totalmente
estraneo, di cui
al momento non voleva preoccuparsi. Si sentiva come quando da
adolescente si intrufolava in casa con una ragazza approfittando delle
frequenti assenze dei suoi. Quante volte l'avevano
beccato...
Farsi sorprendere adesso sarebbe stato decisamente
peggio, concluse, chiudendo la porta della camera dietro di
sé,
terribilmente consapevole dello sguardo della donna che seguiva ogni
suo movimento impacciato, in particolare quelli della protesi. Magari
avrebbe dovuto togliersela? Non era calibrata per...
"Ma che
cazzo ti è venuto in mente?" gli esplose nel cervello,
annullando qualunque altro pensiero coerente e lasciandogli un velo
di sudore freddo sulla pelle nel sentirsi così osservato.
Era ancora in tempo per mandarla
via.
Invece si stampò in faccia un sorriso provocante e si
sedette sul letto con fare disinvolto, nonostante la goffaggine con
le stampelle, nonostante non fosse mai stato più consapevole
della
protesi attaccata al suo corpo e del moncherino della gamba che gli
inviava
stilettate di dolore e dell'evidenza della benda sull'occhio e della
luce del reattore che filtrava appena nella penombra da sotto la
camicia già semiaperta. Il suo cervello continuava a
pungolarlo, a
urlargli di sottrarsi volontariamente da quella situazione dalla quale,
ne aveva la netta impressione, sarebbe altrimenti uscito decisamente
malconcio. Sentiva già la dignità scivolargli
sotto i piedi
– il piede, si corresse
con rabbia – mentre
trovava difficoltà a sbottonarsi la camicia, costringendo
Christine
a intervenire.
Maledisse il suo corpo inutile con tutto se
stesso e relegò quei pensieri in fondo alla propria mente,
perché
in quel momento aveva davvero bisogno di non
pensare.
Nel
giro di una manciata di secondi si ritrovò disteso a torso
nudo e
con la donna semisvestita sopra di lui, ma era più intento a
domare
il dolore al moncherino e i suoi pensieri frammentati e presi dal
panico, piuttosto che ad ammirare quel corpo sinuoso premuto contro
il proprio. Non trattenne però un sospiro di piacere a quel
contatto, e riuscì a rilassarsi appena nel sentirsi addosso
le mani della donna.
Un paio d'ore senza
pensieri poteva concedersele, giusto? Un solo momento di blackout
totale prima di un'operazione che probabilmente l'avrebbe ucciso, visto
che
non ci era riuscita quella precedente. Anche solo qualche
manciata di minuti lontano dal laboratorio, dai progetti,
dall'insonnia, da quel senso di insoddisfazione costante, dagli
incubi e dal dolore fisico... chiedeva davvero così tanto?
Un'ombra
di colpevolezza gli artigliò la coscienza al ricordo di una
doccia
di caffè freddo e di un bacio mancato, e si trovò
ancor più
propenso a sopprimere qualunque barlume di lucidità gli
fosse
rimasto. La vista gli si annebbiò e i suoi ragionamenti
divennero
ancor più sconclusionati quando si trovò a
stringere d'istinto i
fianchi della donna, cercando la sua bocca e premendola contro di
sé mentre sentiva le sue dita lambirgli l'orlo dei jeans
diventati troppo stretti.
Dio, se aveva bisogno di non
pensare. Di cedere.
Si lasciò avvolgere da
quell'oblio confuso e invitante di sensazioni piacevoli. La
consapevolezza di ciò che stava facendo scivolò
via assieme al suo
autocontrollo.
"Non pensare."
Cedette.
***
Tony
si schiarì appena la gola e rimase prono sul
letto, solo
parzialmente coperto dal lenzuolo, mentre osservava Christine che
radunava le proprie cose dal pavimento. Il suo corpo nudo e abbronzato
era
indiscutibilmente una visione incantevole, ma si trovò a
fissarlo
con indifferenza, seguendone le curve in modo apatico.
«Ehi,»
la
chiamò con voce distrutta, senza la forza di muoversi.
La donna
si girò appena, con uno sguardo intriso di una chiara
traccia di
imbarazzo. Per lui, immaginò. O forse era compassione?
Non
avrebbe saputo dire cosa fosse peggio.
«Questo non riportarlo
a Vanity Fair, ok?»
si
trovò a dire, desiderando di poter imprimere un qualche tipo
di
inflessione alla sua voce atona.
«Non ho intenzione di macchiarmi
la carriera,»
replicò
lei asciutta, finendo di rivestirsi senza mai guardarlo.
«Bene. Neanch'io.»
«La
tua carriera professionale mi sembra già abbastanza
compromessa
senza rovinare anche quella di playboy.»
Tony
non contestò la verità di quella cruda
affermazione e rimase in
silenzio, col volto premuto contro il materasso a nascondere lo
sfregio. La benda giaceva da qualche parte nella stanza, assieme ai
suoi vestiti e al suo orgoglio a brandelli.
«Conosci la strada,»
le
disse infine, quando vide che era pronta ad andarsene.
Lei lasciò
la stanza senza una parola di congedo, chiudendo la porta dietro di
sé e lasciandolo nel silenzio della sua camera in penombra.
Portò solo allora una mano al moncherino, soffocando un
grido stentato e non ricordando l'ultima
volta che gli aveva fatto così male. Sentì di
odiarlo
più di
ogni altra cosa al mondo, in un sentimento così violento da
essere
subordinato solo al furioso ribrezzo che provava per se stesso in quel
momento. Se solo avesse preso i suoi antidolorifici, quella
mattina... ma no, doveva sempre fare di testa sua e sbagliare,
anche nelle cose più semplici. Continuò
a respirare a forza contro il materasso, domando le fitte taglienti che
lo scuotevano. Erano comunque più sopportabili rispetto a
prima, quando aveva visto lampi di dolore ad ogni movimento
più brusco, fino ad accasciarsi esanime con le lacrime ad
appannargli la vista, desiderando solo di scomparire in quell'istante
dagli occhi di Christine e del mondo intero. Sentiva ancora su di
sé i suoi occhi disorientati... no, non su di sé:
sulle sue ferite, sui punti di sutura ancora sensibili, sul braccio
meccanico goffo e innaturale, sul suo volto asimmetrico, sul moncherino
inutile, sul reattore orribilmente incastrato nel suo sterno. Un'ondata
di nausea gli strinse la bocca dello stomaco, comprimendogli il petto e
facendolo sentire sul punto di collassare su se stesso, come se gli si
fosse aperto un buco nero nel petto.
Percepì la fasciatura della gamba che diventava leggermente
umida, ma lui non ebbe neanche la forza di controllarla: che
sanguinasse pure. In fondo,
era giusto che gli facesse
così male. Ed
era giusto che non avesse concluso nulla; con un corpo così
malridotto era un miracolo che non fosse svenuto dopo i
primi cinque minuti, che gli avevano comunque regalato un piacere
fasullo e colpevole – e sapeva perché, lo sapeva,
ma lo soffocò come i propri lamenti contro il materasso.
Fece leva sul gomito sano e riuscì a raggiungere il cuscino
senza
ferirsi ulteriormente, affondandovi il volto accaldato. Le
sue narici
colsero il lieve sentore dolciastro del profumo di Christine e fu
come se l'avessero improvvisamente accecato con uno spillo
rovente.
Scagliò con violenza il cuscino dall'altra parte della
stanza,
disgustato, e accolse quasi con liberazione l'atroce fitta che gli
scosse la
gamba mutilata.
***
26
Marzo, Villa Stark
«E
allora gli ho detto "no, non sei il mio tipo; insomma, non potrei
mai uscire con qualcuno che porta camicie hawaiane tutti i giorni".
E lui cosa ha fatto? Se ne è andato sul serio! Ed
è stato un bene,
non aveva proprio il senso dell'umorismo. Capisci quello che voglio
dire? È frustrante dopo un po' dover parlare solo e
solamente
di...»
«Kyle?»
«Sì,
Virginia?»
«Davvero, è
interessante, ma...»
«Non
è il momento, lo so, stavo cercando di distrarti.»
L'avvocato bevve
un sorso di tè «Almeno ci sono riuscito?»
Pepper
gli sorrise un po' forzata, apprezzando comunque il suo
tentativo. Nascose il volto nella tazza fumante, evitando di
guardare l'avvocato seduto di fronte a lei, che non sembrava affatto
a disagio per quell'improvviso silenzio. La donna gli rivolse uno
sguardo esitante e fece per parlare. Kyle scosse la testa e
sorrise nervoso:
«Le undici e venticinque. Cinque minuti in più
di cinque minuti fa...»
«Giusto,»
convenne
Pepper, un po' imbarazzata.
Tony era dentro da tre ore: ancora una
decina la separava dal sapere. L'aveva salutata
come se stesse per partire per uno dei suoi soliti viaggi di lavoro
in capo del mondo. Il realizzarlo non l'aveva tranquillizzata,
considerando la conclusione dell'ultimo di quei viaggi.
"Ci
vediamo dopo, Pep!", aveva detto, facendole "ciao, ciao"
con la mano meccanica apparentemente rilassato, prima di cedere
all'anestesia. Lei avrebbe voluto avere anche solo un briciolo del
suo autocontrollo, che le era sembrato comunque innaturale per
lui, considerando il suo umore prima della precedente
operazione.
Lasciò vagare lo sguardo per la stanza, sentendosi oppressa
e
irrequieta.
Tony si era comportato in modo più incomprensibile
del solito nel corso dell'ultima settimana. Passava molto meno tempo in
laboratorio, spostandosi irrequieto da una parte
all'altra della villa senza una meta apparente, anche se tendeva a
soffermarsi spesso sulla soglia della cucina ancora
semidistrutta. Inoltre, per ben tre volte l'aveva trovato a dormire sul
divano in laboratorio. Non sapeva se stupirsi di più per il
fatto che dormisse, o che non lo facesse in un comodo letto –
anche se era un miglioramento rispetto al banco da lavoro. Non aveva
osato indagare su quei fatti anomali, ma non
aveva potuto ignorare le occhiate intense e in un certo
senso... spaventate che l'uomo a
volte le rivolgeva,
nonostante con lei si comportasse con l'esuberante brio di sempre.
La carenza di sonno a volte lo sprofondava ancora nel nervosismo,
soprattutto quando lavorava, ma fuori dal laboratorio sfoggiava una
sorta di distaccata allegria, simile a quella che sfoggiava ai grandi
eventi pubblici. Aveva anche notato come si
tenesse a una distanza molto maggiore da lei, senza invadere il suo
spazio personale col suo solito fare giocoso. Si chiese se quelli
fossero i famosi "paletti" di cui aveva sentito tanto parlare, e
si chiese anche quanti ne avesse posti lei stessa per spingere Tony
Stark, un individuo notoriamente privo di alcuna inibizione, ad
imporseli a sua volta.
Ripensò a tutte le volte in cui aveva
evitato il confronto e si era mostrata fredda ai suoi tentativi di
parlarle, temendo che chissà quale catastrofe o rivelazione
si
potesse abbattere su di loro nell'aprire quel vaso di Pandora. Forse
si era rassegnato a quella situazione di impasse
interminabile. O
forse aveva semplicemente capito con chiarezza quali colpe gravassero
sulle spalle di entrambi e aveva deciso di aspettare che fosse lei ad
accorgersi delle proprie.
Quei pensieri tortuosi e involuti
scandivano con esasperante lentezza l'attesa, ricordandole con
fredda insistenza che non l'aveva neanche salutato come avrebbe
voluto prima che lui entrasse in sala operatoria. Si era limitata
a stringergli la mano con fare incoraggiante, al che lui le aveva
sorriso appena, per poi lasciar scivolare lo sguardo già
appannato
dal sedativo sulle sue labbra, come aveva fatto molti giorni
prima. Un filo di tensione si era allungato tra loro,
palpabile, invitante e allo stesso tempo inviolabile.
Pepper era stata sul punto di posargli un bacio sulla guancia, in un
atto che sperava
fosse insieme un incoraggiamento e un'offerta di pace, ma lui le
aveva lasciato un po' bruscamente la mano, mascherando quel gesto
improvviso con un saluto scherzoso e una risata leggera e un po'
intontita per l'anestesia. Si era addormentato subito dopo.
E
adesso era dentro e chissà se l'avrebbe mai...
Scosse la testa
con fermezza e sollevò di nuovo gli occhi su Kyle.
«Le undici e
mezza,»
sospirò
lui. «Andiamo a fare un caffè, ne avremo bisogno,» propose
poi.
Pepper
annuì appena, ma non si mosse.
«Ti raggiungo subito.»
Kyle
la fissò dubbioso, ma non insistette e la lasciò
coi suoi
pensieri.
Pepper fissò spaesata la vetrata e il mare oltre essa,
come sperando di potervi annegare la sua angoscia.
"Solo le
undici e mezza."
Sprofondò nel divano, prendendosi il volto
tra le mani.
______________________________________________________________________________________________________________________________________________________
Revisione effettuata il 01/03/2018
Note delle Autrici:
Ore 1:15. Stiamo crepando di sonno, ma Light mantiene sveglia (se così si può dire) MoonRay a suon di angst per PUBBLICARE DOPO UN MESE! *Euforismo di Light che sprizza ovunque* *M: =_____=*
Quindi, bando alle ciance... grazie a Micchi, Sherlock_Watson, blackpearl_ e Rogue92 che hanno recensito lo scorso capitolo e grazie a tutti coloro che continuano a leggere, che hanno recensito in precedenza e che hanno aggiunto la storia tra le preferite/seguite/ricordate <3 Grazie a tutti! Tony saluta :D
Moon&Light
Edit 01/03/2018: ok... chi si era accorto dell'enorme buco di trama di Phoenix? Io, per esempio, a un'imbarazzata rilettura. Le scene aggiuntive con la Everhart sono funzionali a rattoppare quella svista.
Il progetto iniziale prevedeva citare Christine di striscio molto più avanti nella storia, ma in seguito alle varie revisioni e ridimensionamenti della trama ho pensato di inserire direttamente la scena in questione, che sarà propedeutica anche per altri eventi futuri. E per sottolineare che, dopotutto, Tony è umano anche sotto quel punto di vista – e immagino che per un ex-dongiovanni come lui non sia così semplice stare "a riposo", con tutte le turbe mentali e fisiche che ritrovarsi improvvisamente mutilati comporta.
Sorry, Tony, ti si lovva comunque [-Light-]
© Marvel
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Capitolo 20 *** Close to the bottom ***
19
Close
to the bottom
"I
saw the evidence, the crimson soaking through
Ten thousand promises, ten thousand ways to lose
And you held it all, but you were careless to let it fall
You held it all, and I was by your side
Powerless"
[Powerless – Linkin Park]
31
Marzo, Villa Stark
Pepper
fissava malinconica il mare, seduta nel salotto deserto illuminato
unicamente dalla pigra luce del sole seminascosto tra le nubi.
Sorseggiò distratta il suo tè, godendo del tepore
della tazza tra
le mani.
Le sembrava di essere rimasta intrappolata in un lungo sogno.
O
forse un incubo... un vero incubo.
***
Una
settimana prima, Villa Stark
Ian
uscì dalla sala operatoria letteralmente stravolto e si
strappò subito di dosso la
mascherina chirurgica con un gesto liberatorio. Pepper si
alzò
all'istante
allarmata, andandogli incontro, mentre Kyle si preparava al
peggio.
«Aiutatemi,» proferì Ian, affannato.
Pepper si sentì sul punto di svenire, ma
Ian parò subito le mani avanti, ad attenuare le proprie
parole:
«È vivo e sta bene, ma ha quasi ucciso
me,» mise in chiaro, fugando ogni dubbio.
La donna tirò un profondo sospiro di sollievo e Kyle le
fece eco.
«Mi aiuti a spostarlo, sono esausto e da solo non ce
la faccio. È
incosciente e ne avrà per molto,» aggiunse il
medico,
guidandola in sala operatoria mentre Kyle li aspettava fuori.
Pepper
entrò nella stanza con il cuore in gola e non si
rilassò per niente
nel vedere gli strumenti chirurgici insanguinati riposti in un bacile
metallico, ma non
riuscì fortunatamente a scorgere il punto di giunzione tra
la
carne della gamba e il metallo della protesi, visto che Ian aveva avuto
l'accortezza di coprire il
corpo di Tony con un telo termico, data la temperatura glaciale della
stanza.
Lo spostarono con attenzione sulla barella affiancata al
tavolo operatorio per portalo fino alla sua stanza, dove Ian aveva
già
preparato delle flebo e tutto il necessario per monitorarlo durante
il suo ricovero casalingo. Durante il breve tragitto Pepper non
riuscì a staccare gli occhi dal volto profondamente
addormentato di
Tony, che le sembrava comunque contratto dal dolore sotto alla
mascherina dell'ossigeno.
Kyle trattenne Pepper per la manica
quando gli passò accanto:
«Dài, dammi un abbraccio. Da te lo
accetto, almeno non hai una camicia hawaiana,» disse con
quieta
allegria, allargando le braccia con un lieve e comprensivo
sorriso.
Pepper sorrise appena di rimando e si chinò a ricambiare
l'abbraccio, cercando di nascondere le lacrime di sollievo e
accennando, imbarazzata, alla stanchezza che le faceva bruciare gli
occhi. Kyle si limitò ad ammiccarle e a passarle un
fazzoletto con assoluta tranquillità. A quel punto
spostarono la
loro postazione d'attesa in camera di Tony, dopo averlo trasferito con
delicatezza nel proprio letto. Passarono quasi
quattro ore aspettando che si risvegliasse, nonostante Ian li avessi
avvertiti che poteva volerci anche tutta la notte, prima che
ciò
accadesse.
Kyle aveva rifiutato l'offerta di essere riaccompagnato
a casa, preoccupato dallo stato emotivo di Pepper, e aveva finito per
addormentarsi sulla sua sedia a rotelle accanto a lei, che stava
invece seduta sul bordo del letto del tutto priva di sonno e immersa
nei suoi pensieri. Ian si
era ritirato in stato di sonnambulismo nella camera degli ospiti,
completamente esausto e lasciando loro un cercapersone in caso di
bisogno, e Pepper aveva avuto a malapena modo di ringraziarlo. Il
medico aveva risposto con un semplice, stanco cenno del capo, corredato
da un lieve sorriso d'incoraggiamento.
"Spero che se ne stia buono!" aveva aggiunto
poi, esasperato, soffocando la frase in uno sbadiglio.
Da qualche ora, la donna sperava
in un qualsiasi cenno di vitalità da parte di Tony, ma lui
era
ancora profondamente sedato e si limitava a respirare
tranquillo, con un movimento che la stava a poco a poco ipnotizzando.
Sbatté le palpebre, assonnata. Le sbatté di
nuovo,
interdetta. La mano di Tony si era mossa, ed era sicura di non
essere così
stanca da avere le allucinazioni.
«Kyle!»
«Sì,
sono sveglio! Sono sveglio…» mentì lui,
sobbalzando mentre si
riassestava gli occhiali storti sul naso.
«Si sta svegliando!»
continuò Pepper, sollevata, ma inquieta allo stesso tempo,
notando l'espressione di Kyle che si faceva sempre più
preoccupata e un forte tremito che scuoteva la mano di Tony ancora
stretta tra le sue.
«Kyle, cos–…» ma le sue parole
furono
troncate da un getto di puro panico.
Tony tremava in modo
incontrollato, apparentemente incosciente, se non fosse stato per
l'occhio rovesciato all'indietro. Pepper lo fissò,
paralizzata
nel vederlo agitarsi scompostamente in preda alle convulsioni,
incapace di muovere un muscolo e sentendosi come quel giorno di mesi
prima quando era rimasta altrettanto paralizzata di fronte a un
edificio in fiamme e, ancora prima, quando aveva ricevuto una
chiamata da Rhodey durante una mattina come tante, ignara di tutto
ciò che sarebbe seguito.
Kyle rimase
impietrito per qualche istante prima di afferrare per primo il
cercapersone.
***
Erano
subentrate mille complicazioni, dopo l'operazione.
Ian
aveva dato il massimo, ma non era comunque stato in grado di
rimediare alle conseguenze: il corpo di Tony non aveva accettato la
protesi e l'aveva rigettata strenuamente. Il medico aveva passato i tre
giorni successivi all'intervento a Villa Stark, sorvegliando Tony
ancora convalescente ventiquattr'ore su ventiquattro col loro aiuto,
sperando in un
qualsiasi segno che potesse far sperare in un miglioramento anche
minimo.
La
situazione era invece degenerata e la ferita aveva cominciato a
infettarsi pericolosamente; Ian aveva tentato di arginare il danno,
ma Tony era stato comunque colpito da una violenta e improvvisa
febbre che l'aveva stremato. Aveva delirato più di una
volta,
farfugliando frasi sconnesse o rivivendo ricordi in modo
così vivido da farlo urlare. Per Pepper era
stata
una tortura sentirlo implorare pietà ai suoi rapitori e
ancor più vederlo tremare mormorando parole confuse riguardo
a freni difettosi e incidenti d'auto che non le era stato difficile
interpretare. Spesso l'aveva chiamata, con tanta intensità
da farle imporre di non lasciare anche solo per un istante il suo
capezzale, non potendo sopportare l'idea di far cadere nel vuoto quei
suoi appelli stremati all'unica persona che evidentemente voleva avere
accanto.
La mattina del terzo giorno Ian si era arreso all'evidenza:
doveva operarlo di nuovo e sperare per il meglio e in caso estremo
rinunciare a impiantare la protesi e far ricoverare Tony in terapia
intensiva. All'inizio Pepper si era
opposta, sostenendo che Tony non fosse in grado di resistere a un'altra
operazione così drastica, ma aveva dovuto cedere quando
aveva
quasi avuto un infarto durante l'ultimo accesso di febbre ed era
toccato a lei spiegare freneticamente a Ian come riagganciare il
supporto del reattore arc.
Il secondo intervento era stato difficoltoso, ma fortunatamente il suo
corpo aveva infine accettato la protesi come parte integrante di
sé, nonostante le tribolazioni di Ian con la piaga infetta.
Tony
era comunque rimasto in uno stato di semincoscienza per un altro giorno
e mezzo, durante il quale la febbre si era a poco a poco abbassata,
fino a che non si era risvegliato decisamente più lucido,
sebbene provato.
Kyle
era stato costretto a rinviare ulteriormente il processo e lui e
Pepper avevano passato un paio d'ore al telefono con il Senatore,
Knight e gli uffici del tribunale in un'estenuante diatriba per
certificare l'impossibilità di Tony di presentarsi in aula
per
almeno un'altra settimana.
Da quando si era ripreso, Tony era
tormentato da fitte di dolore strazianti che lo avevano immobilizzato
a letto e Ian gli aveva categoricamente proibito di muoversi, anche con
la sedia a rotelle, prima che
la ferita si fosse rimarginata. Tony aveva stranamente accettato
quel divieto senza protestare, così come l'obbligo di
assumere nuovi
antidolorifici, che, anzi, ormai accoglieva con sollievo. In effetti
parlava poco e niente e accettava passivamente tutte le limitazioni
che gli venivano imposte, cosa che aveva preoccupato molto sia Ian
che Pepper. Il medico aveva addirittura deciso di trasferirsi
momentaneamente a Villa Stark finché la situazione non si
fosse stabilizzata.
Nel frattempo sembrava che Tony fosse scivolato in uno
stato di forte apatia, tanto che passava il tempo
unicamente sonnecchiando o guardando il soffitto perso in
chissà
quali pensieri. Col braccio era stato decisamente più
semplice:
stavolta invece era a malapena in grado di muoversi e la piaga era
ancora così sensibile e dolorosa da non permettendogli la
minima libertà di movimento. Parlava solo per chiedere gli
antidolorifici, così spesso che Ian decise al contrario di
diminuirli, temendo che si stesse assuefacendo ad essi. Tony non
protestò, ma da quel momento fu in costante tensione per il
dolore
ai moncherini.
All'inizio Pepper aveva tentato di fargli
compagnia, ma Tony si era rivelato innaturalmente taciturno e restio
a parlare. Rispondeva a monosillabi, per poi affermare di essere
stanco e riprendere a dormire, davvero o per finta. La situazione
era tanto esasperante da scoraggiarla, e infine aveva smesso di andarlo
a
trovare, facendosi vedere solo per portargli la clorofilla, che Tony le
aveva ricordato quasi distrattamente di dover assumere per evitare che
si "inceppasse il reattore"; al cibo pensavano JARVIS,
gli altri robot e a volte Ian, anche se Tony mangiava poco e niente,
dicendo di avere la nausea o di non avere fame. Stava deperendo a
vista d'occhio, il che si aggiungeva alla lunga lista delle
preoccupazioni di Pepper, ormai altrettanto spossata.
Sperava solo che si trattasse di una fase temporanea in risposta a
quell'operazione decisamente traumatica, e che
Tony l'avrebbe superata presto.
Intanto i giorni passavano e la
situazione rimaneva invariata.
***
30
Marzo, Villa Stark
Forse,
se avesse continuato a fissare il soffitto con la stessa
intensità,
prima o poi gli sarebbe caduto addosso. L'ultima volta che aveva
avuto un pensiero del genere era stato in Afghanistan, quando si
chiedeva spesso se un missile ben assestato sarebbe stato sufficiente
a far crollare la grotta. S'impegnò a imbrigliare la sua
coscienza decisamente poco collaborativa. Non aveva davvero bisogno
di pensare al suo trimestre di prigionia proprio in quel momento.
Il suo
respiro si spezzò, a tempo con un'altra fitta al moncherino
della
gamba, che lo distrasse momentaneamente da quelle riflessioni. Si
concentrò su quel dolore, quasi liberatorio rispetto ai
pensieri
spiacevoli che lo perseguitavano, ma questi, dopo un momento di
offuscamento, tornarono ad assillarlo in modo più impellente
di
prima, soverchiando il dolore fisico. Si lasciò nuovamente
sprofondare in quel flusso tossico, incapace di sottrarsene e troppo
debilitato per provarci veramente.
Non capiva perché, per ogni
passo avanti che faceva, si trovava a doverne fare due indietro.
Decideva di supervisionare le sue armi di persona? Veniva rapito
e gli ficcavano un magnete nel petto. Interrompeva la manifattura di
quelle armi? Si ritrovava mutilato dal suo stesso padrino. Inventava
una protesi ad alta tecnologia per rientrare in gioco? Il secondo
dopo veniva tradito e cacciato a calci dai Vendicatori, come se fosse
colpa sua.
Il resto, se ne rendeva conto con reticenza, era
colpa sua. Nessuno gli aveva ordinato di complicare le cose al
processo, né di attaccar briga con Rogers trovandosi con un
braccio
distrutto, né di lasciarsi andare a una rabbia cieca e
insensata
spaventando e allontanando l'unica persona di cui si fidava
ancora.
Continuò a guardare il soffitto, come sperando di
trovarvi qualche indizio su come risolvere quella situazione
alienante.
Si fidava ancora, ovviamente. Di ciò si era reso conto
solo a mente fredda, quando si era chiesto come avesse mai potuto
credere che Pepper potesse tradirlo o fare il doppiogioco o
più
semplicemente pensare di ferirlo. Però
il tarlo del dubbio
era difficile da sopprimere e continuava a roderlo nel profondo,
incurante della sua razionalità, che ormai non riusciva a
tenere a
bada la decima parte delle preoccupazioni che lo opprimevano. Si
sopiva solo quando ripensava al momento in cui lei l'aveva finalmente
accettato, nonostante la rabbia di entrambi e la sua diffidenza e
ottusità e ingratitudine, confidando totalmente in lui e nel
fatto
che ce l'avrebbe fatta, come sempre.
Ma lui era semplicemente
troppo rotto per accettare quel gesto. E non aveva
idea da
dove dovesse cominciare per ricomporsi.
Probabilmente aveva
respinto l'unica possibilità per riuscirci.
Smise di guardare il
soffitto bianco, che iniziava a dargli le vertigini per la sua
vacuità, terribilmente simile a quella in cui si sentiva
sprofondare
in quel momento. Come pretendeva di tornare a essere Iron Man, se
non era nemmeno in grado di rimettersi in piedi da solo senza ferire
tutti coloro che gli stavano intorno? Già se li immaginava i
Vendicatori, i suoi amici, a sghignazzare mentre
lui non era
neanche in grado di sbottonarsi da solo una camicia. Si
sfiorò
appena il moncherino della gamba e un lampo di dolore accecante gli
esplose in testa a quel semplice contatto, cancellando per un lungo
istante tutto ciò di sbagliato che affollava la sua mente.
Un
solo pensiero resistette e vi si aggrappò strenuamente:
adesso
avrebbe finalmente potuto alzarsi e camminare. Tentò di
imprimersi
quella prospettiva nella mente, ma questa lasciò solo una
labile orma che si dissolse ben presto come un'impronta nella neve al
sole.
A che serviva camminare, se
il resto era a pezzi?
***
31
Marzo, Villa Stark
Pepper
sospirò e bevve un altro sorso di tè, sentendosi
incredibilmente
stanca. Vedere Tony che si lasciava andare a quel modo era una
sofferenza anche per lei.
La casa era vuota e silenziosa senza lui
che vagava da una parte all'altra, la sua musica a un volume
esageratamente alto, il costante sferragliare che proveniva dal suo
laboratorio e semplicemente senza le sue battutine pungenti e il suo
sorriso ironico e malizioso, che aveva già cominciato a
spegnersi
nell'ultimo periodo. Qualcosa era cambiato, ma non riusciva a
focalizzare cosa e ciò non faceva che alimentare la rabbia,
l'impotenza e il
senso di colpa bruciante che la tormentava. Non riusciva a capire
cosa si fosse rotto.
Pepper scosse la testa, sconsolata, ma
la rialzò quasi subito richiamata da un improvviso rumore
metallico; si voltò
verso l'atrio, in allarme.
Trattenne un'esclamazione di sorpresa:
Tony stava zoppicando penosamente verso l'ascensore, aiutandosi con
le stampelle, il viso contratto per lo sforzo di controllare il
braccio e di resistere al dolore del moncherino scoperto. Si accorse di
lei e sollevò lo
sguardo prima fisso sul pavimento, sentendola avvicinarsi
rapidamente.
Quando fu più vicina, Pepper notò le profonde
occhiaie che spiccavano sul suo volto pallido, assieme alla luce
spossata nell'occhio. Era notevolmente provato e sembrava esserne
consapevole. Non ebbe la forza di rimproverarlo per essersi alzato
dal letto: anche solo vedere una scintilla di ribellione in lui la
rassicurava enormemente.
Non riuscì a parlare: sentiva che
qualunque parola sarebbe stata di troppo, e anche Tony rimase in
silenzio, sebbene perplesso. Un sorriso stanco si dipinse infine
sul suo volto tirato, insieme a un guizzo di colpevolezza che
passò nel suo sguardo, consapevole che non si sarebbe dovuto
trovare
lì.
Pepper non gli diede tempo di inventare una scusa plausibile
e non si diede tempo per fermarsi a pensare ancora: lo
abbracciò
delicatamente e lo strinse a sé, stando attenta a non fargli
male e
sostenendolo al contempo.
Lui ebbe un sussulto sorpreso, ma non si sottrasse;
non poteva abbracciarla a sua volta, bloccato dalle stampelle, ma si
strinse a lei e poggiò la
testa sulla sua, sospirando appena e accettando quel contatto
dopo tanto tempo.
«Bentornato.»
______________________________________________________________________________________________________________________
Revisione effettuata il 01/03/2018
Note delle Autrici:
MISSIONE COMPIUTA! *Kyle si lancia verso il cercapersone trasformandosi in Tom Cruise e il cercapersone si autodistrugge* La scena l'avevamo pensata così, ma non era molto seria... ma insomma, dobbiamo sollevarci dal senso di colpa per il dolore che infliggiamo a Tony! Anche le convulsioni! Bastarde...
Ma tornando serie: ullalà, siam qua! *ci diamo alle rime fasulle all'una e mezza*
Kyle è sempre più simpatico, vero? Vero? Vero? :D *Spunta Fury con fucile a pompa -di K- e le mette a tacere*
Ok, la scena originale era più o meno così (abbiamo avuto un sacco di ripensamenti mentre scrivevamo... per fortuna):
Pepper: Kyle, svegliati!
Kyle: Cosa?! CAMICIE! Mi inseguono!
Pepper: WTF? Non c'ho capito una ciospa! (Cit. Willwoosh)
Poi abbiamo pensato che non era il massimo mentre Tony ballava spassionatamente la Hula in sottofondo (l'umorismo continua a peggiorare, ma capiteci, c'è il sonno arretrato).
Ma non è tutto!
...
Ed invece sì! *trololol*
Ringraziamo Sherlock_Watson e Rogue92 per aver recensito lo scorso capitolo e tutti coloro che hanno recensito i capitoli precedenti e per aver aggiunto la storia alle seguite/ricordate/preferite ^^
Moon&Light
P.S. Ci rendiamo conto che questi ultimi capitoli (in particolare il 18-19) sono stati decisamente più corti dei precedenti, ma abbiamo avuto poco tempo per programmarli e, lo ammettiamo, poca voglia di scriverli (il caldo non aiuta affatto...)
Recupereremo... c'è ancora tanta strada da fare! *Tony: facepalm rassegnato*
P.P.S. Se non si fosse capito... stiamo sclerando!
© Marvel
|
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Capitolo 21 *** Tiptoe higher ***
20
.
.
Tiptoe
higher
"I ain't happy
I'm feeling glad I got sunshine
In a bag
I'm useless
But not for long
My future is coming on
Is coming on"
[Clint
Eastwood
– Gorillaz]
1°
Aprile, Villa Stark
Il familiare bip
delle camere d'ospedale era l'unico suono che Tony riusciva a
percepire.
"Dove sono?"
Per un momento si chiese se si fosse schiantato contro qualcosa e
stesse per
risvegliarsi con qualche altro pezzo mancante. Non di
nuovo.
Cercò
di muovere le dita della mano buona, ma si sentiva completamente
esausto, tanto che anche quel gesto si rivelò un'impresa
titanica.
Sentiva anche un po' di nausea colpirlo alla bocca dello stomaco, ma
se fosse aumentata non avrebbe raggiunto nemmeno l'estremità
del letto per vomitare, tanto si sentiva spossato. Provò con
qualcosa di
più
semplice, come aprire l'occhio, non appena sentì la
percezione di se
stesso allontanarsi dallo stomaco. Sbattè appena la
palpebra, lo
sguardo appannato che cercava di mettere a fuoco... cos'era
quello?
"Porca
troia."
«Bontà divina, K!» rantolò, nel ritrovarsi la faccia di
Kyle a pochi centimetri dalla sua
che lo fissava a occhi sgranati.
Il ragazzo si allontanò,
lasciandosi ricadere sulla sedia a rotelle ridacchiando sotto i baffi
per lo scherzo ben riuscito.
«Vedi questo sguardo? Lo vedi? Non te lo scordare mai,
soprattutto al processo.»
Seguì poi con sguardo preoccupato
Tony che si sollevava a sedere sul letto, colto da un evidente
capogiro, e continuò a
fissarlo
ancora per qualche
secondo prima di rilassarsi in un sorrisetto divertito nel constatare
che, a parte la sua espressione un po'assente, sembrava sentirsi
meglio. Tony lo
fissò terrorizzato per qualche istante prima di riprendere
un
contegno più o meno passabile.
«Se mi guardi così durante il
processo, chiamo Pepper,» stabilì, ancora
sconvolto e un po' su di
giri: si sentiva decisamente dopato e chissà cosa gli
scorreva nelle vene
in quel momento... distolse i pensieri dall'ago sepolto nel dorso
della mano.
Magari Kyle non aveva tutti i torti nel tenerlo
d'occhio così da vicino, visto che si sentiva sul punto di
collassare a intervalli di due secondi.
«Non azzardarti ad
abusare di quella santa donna, Stark: come ti sopporta lei non ti
sopporta nessuno, nemmeno io, mio caro. Alla fine di questa storia
dovrai dedicarle un palazzo, come minimo, e lodarla fino alla fine
dei tuoi giorni. A me e Ian basta una statua colossale,»
aggiunse
con aria furba.
«In effetti, se non ci fosse il mio "fan-club"
a tenermi in vita, la "fine dei miei giorni" sarebbe molto
vicina e non avrei nemmeno il tempo di costruirlo, il
palazzo.»
Fece
una pausa e volse lo sguardo al soffitto, come in trance, prima di
iniziare a parlare a vanvera:
«Sarà alto... e di vetro. E avrà
STARK
scritto sopra a caratteri cubitali! Sì, è
perfetto! Mi serve solo
un architetto per realizzarlo... e convincere Pep.»
«Goditela
finché puoi, Stark,» lo interruppe Kyle cercando
di riportarlo coi
piedi per terra, frastornato e preoccupato dal suo stato non
propriamente "normale".
Tony s'interruppe, si accigliò,
meditò un attimo sulle sue parole e si voltò di
nuovo verso di lui,
perplesso.
«Cosa? Il tempo che mi rimane?» domandò,
disorientato dalla sua testa febbricitante, che si arrese a lasciar
ricadere sul cuscino.
Kyle lo fissò di rimando, attribuendo
infine quella domanda superflua alla febbre che non doveva fargli
connettere bene tutti i suoi geniali neuroni. O almeno, li connetteva
peggio del solito.
«Pepper,
che domande.» Fece un gesto di ovvietà con la
mano, paziente. «Ma
le questioni di cuore le affronteremo dopo, stellina.»
«Quelle
le vedo io,» commentò assente Tony, coprendosi
l'occhio con un
braccio, col campo visivo effettivamente invaso di puntini
luminosi.
Ignorò con fermezza l'insinuazione di Kyle. Gli mancava
solo un consulto di coppia non richiesto e poi la sua vita sarebbe
diventata
perfettamente schifosa.
In quel mentre entrò proprio Pepper, con
un vassoio per la colazione. Un lieve sorriso le illuminò
gli
occhi nel trovare Tony sveglio, ma non si dilungò in nessun
saluto o
commento sulla sua salute: non doveva essere esattamente di buon
umore. La donna porse un tè a Kyle, per poi posare il
vassoio sul
sostegno di fronte a Tony. Premette il tasto del pannello di
controllo vicino al letto per inclinare la testiera in modo che potesse
sedersi
senza sforzo. Lui si limitò a un breve cenno di
saluto col capo,
sfuggendo il suo sguardo e fissandolo sul toast di fronte a lui, che
gli fece automaticamente chiudere lo stomaco al solo pensiero di
doverlo masticare. In quel momento il bicchierone di clorofilla gli
sembrava molto più appetitoso. Accanto giacevano varie
pasticche,
più del solito: antidolorifici, antipiretici,
beta-bloccanti,
integratori... aveva l'imbarazzo della scelta, ormai.
Nel
frattempo Pepper controllò lo schermo che mostrava il suo
battito
cardiaco e teneva costantemente sotto controllo la temperatura fuori
norma: 38,6°C. Tony seguì il suo sguardo,
notò il valore e
concluse che era stato peggio.
Intanto Kyle li aveva discretamente lasciati soli
accampando la scusa del "lavoro d'ufficio" e Pepper si
sedette sulla poltroncina di fianco al letto con la sua tazza di
tè,
sempre senza proferir parola, ma per una volta non era un silenzio
teso. O almeno, a Tony non pareva che lo fosse. Purtroppo aveva
perso l'abilità di leggere Pepper come fosse un libro
aperto, e lo
stesso poteva dirsi per lei.
Si rassegnò a tacere e a forzarsi di mandar giù
almeno un decimo della sua colazione. Prestò attenzione
all'ago della
flebo solo nel momento in cui
mosse il braccio verso il bicchiere di clorofilla, rischiando di
sfilarselo dalla mano.
«Tony, lasci. Faccio io,» lo fermò
delicatamente
Pepper, posando per un attimo il suo tè.
Mise una cannuccia nel
bicchiere e ne avvicinò l'estremità alle sue
labbra leggermente
violacee e screpolate. Tony accettò a sguardo basso, come
sempre
riluttante a farsi aiutare, ma si sentiva la febbre così
alta che
non ebbe la forza di protestare e lasciò ricadere mollemente
la
mano, dichiarandosi sconfitto.
«K mi ha quasi ucciso,» commentò
poi tra un sorso e l'altro nel tentativo di rompere il silenzio, ma
poi concluse che era meglio essere zittito dalla cannuccia.
«Non
sarà sicuramente Kyle a ucciderla, e comunque ne avrebbe il
diritto,» commentò concisa Pepper, dopo una breve
pausa.
Tony
capì che non era in vena di parlare – quando mai
lo era? – o
forse era solo una sua impressione. Non si sentiva molto grado di
giudicare la situazione, considerata la sua temperatura
incandescente.
Continuò a bere la sua clorofilla in silenzio,
concludendo che intavolare una discussione simile a un passo dal
delirio non era una mossa saggia neanche per un genio della
conversazione come lui.
***
Pepper,
dopo essersi assicurata che Tony fosse in grado di bere da solo il
suo "succo d'erba", tornò al suò tè,
rimanendo però
seduta sul bordo del letto invece di riprendere posto sulla poltroncina.
Si pentiva un po' per aver troncato
così bruscamente la conversazione. In altre circostanze
sarebbe
stata forse più incline a parlare, soprattutto dopo
l'episodio
del giorno prima. Quell'abbraccio estemporaneo sembrava aver
parzialmente sanato una frattura tra loro di cui non si erano mai
voluti davvero curare, ma nessuno dei due era stato nelle condizioni di
dare inizio a una conversazione coerente. Si era limitata a sorreggere
Tony per riportarlo a letto, e lui si era limitato a un "grazie"
sussurrato subito prima di addormentarsi di schianto, stremato per lo
sforzo. Anche adesso si sentiva veramente troppo esausta per
intraprendere discussioni spinose. Era ovviamente preoccupata
per Tony, più del solito, ma anche il proprio stress
iniziava a farsi
sentire sempre di più. Dopo gli scossoni di quella settimana
si era
finalmente rilassata di colpo e ciò l'aveva lasciata
spossata. Di
quel passo non sapeva quanto ancora avrebbe potuto reggere tutta
quella tensione quotidiana.
E se avesse ceduto? Che cosa voleva
dire per lei, l'assistente di Tony Stark, cedere? Magari avrebbe dovuto
staccare, almeno per un po'... ma poi come avrebbe fatto a convivere
con la consapevolezza che la persona a cui teneva di più al
mondo era in quelle condizioni, da solo?
Si
passò una mano sul volto pallido, esausta, cercando di
rinviare al
più tardi possibile quelle meste riflessioni che avrebbe
preferito
non aver mai avuto bisogno di fare.
Per fortuna Tony richiamò la
sua attenzione quando le sfiorò il ginocchio con la mano.
Pepper
rialzò di scatto lo sguardo su di lui alla ricerca di una
sua
qualunque esigenza, già maledicendosi per essersi distratta
e memore
dei suoi continui dolori, ma lui aveva già finito la sua
clorofilla, assunto le medicine e aveva addirittura sbocconcellato il
toast. Adesso stava respirando lentamente con l'occhio chiuso
e la
testa reclinata verso di lei. Probabilmente non stava dormendo, ma
aveva certamente molto bisogno di riposare dopo la sua passeggiatina
della sera prima.
Gli prese delicatamente la mano, attenta a non ferirlo con la cannula
della flebo, e gliela risistemò
lungo il fianco, classificando quel gesto come involontario. Fece per
ritrarla, ma una debole stretta di quella
di Tony la invitò a mantenere quel sottile contatto,
sfatando le sue impressioni. Ne
rimase
sorpresa, dopo il suo anormale distacco degli ultimi giorni.
Piacevolmente
sorpresa, in realtà, così come quando il giorno
prima non si era
sottratto al suo abbraccio. Sospirò debolmente, rinunciando
a
cercare di capire cosa diavolo passasse per la testa di quell'uomo,
visto che a quanto pareva anche lui aveva rinunciato a capire cosa
passasse per
la sua.
Pepper prese ad accarezzargli il dorso della mano
innaturalmente caldo, tracciando linee immaginarie sulle sue nocche e
seguendo il contorno dei calletti sul palmo; lui rilassò
completamente la mano, abbandonandosi a quelle carezze. Lei si
scoprì invece in
tensione, nonostante non ve ne fosse motivo tangibile, ma da quando
Tony aveva avuto le convulsioni temeva di vederlo agitarsi
inconsciamente in qualsiasi istante...
Aveva appena ripreso a
porsi le domande che ultimamente la assillavano, minacciando di farle
esplodere la testa, quando Ian fece quasi irruzione nella stanza,
facendola sobbalzare e spezzando bruscamente quel dolce contatto. Tony
schiuse la palpebra e strinse di riflesso le dita, troppo tardi per
trattenerla, e Pepper gli rivolse di sottecchi uno sguardo
dispiaciuto.
Era
davvero troppo
tesa.
«Sta
arrivando il medico del tribunale,» annunciò il
medico, senza tante
cerimonie.
Dovette notare solo allora che doveva essersi fiondato nella
stanza un po' troppo precipitosamente. Rimase sulla soglia, in evidente
imbarazzo, mentre Pepper si
limitava ad annuire.
C'era
stata una discreta agitazione a Villa Stark quella mattina. Li aveva
svegliati JARVIS, informandoli che un certo Brian
Raven, medico del tribunale, avrebbe fatto visita di persona al
signor Stark per verificare che le sue condizioni fisiche fossero
davvero quelle comunicate per il rinvio del processo di ben dieci
giorni, giorni che probabilmente non sarebbero comunque bastati a
rimettere in piedi qualche pezzo di ferro e ciò che rimaneva
del
corpo di Tony. Pepper aveva immediatamente inviato Happy a recuperare
Kyle, che li
aveva raggiunti a tempo di record; per fortuna Ian era ancora in pianta
stabile alla villa.
L'annuncio aveva infastidito tutti: le loro preoccupazioni erano
più
che sufficienti e non c'era bisogno che ci si mettesse anche il
"medico del tribunale" a portare altri guai in quella
situazione già disastrata. Far imprecare Kyle contro Knight
per
avergli sicuramente aizzato contro tutta la giura e aver deciso di
tirargli quel manrovescio di Raven – o "avvoltoio", come
lo aveva definito lui; aver fatto scapicollare Pepper per
tutta
la casa per assicurarsi che tutti i progetti delle Stark Industries e
di Tony in particolare fossero sotto la custodia di JARVIS nel
laboratorio; e aver irritato Ian al punto da renderlo più
scontroso
del solito e indurlo a tirar giù qualche santo erano state
solo le
conseguenze più evidenti di quell'imprevisto. Ian e Kyle non
avevano sicuramente passato una mattinata leggera nel
ricontrollare rispettivamente le cartelle cliniche e giuridiche di
Tony, così da non doversi trovare di nuovo a litigare con
qualcuno
per aver trascurato dei dettagli. Tony stesso non stava particolarmente
bene quella mattina; negli ultimi giorni, nonostante si
fosse decisamente ripreso dall'ultima operazione, la temperatura
continuava a giocare alla roulette con dei numeri folli: un attimo
prima sembrava essere tornata stabile e un secondo dopo schizzava
due gradi e mezzo più in alto, costringendo Ian a dar fondo
a tutta
la sua esperienza medica per fronteggiare ricadute che non poteva
prevedere con certezza assoluta. L'azzardo della sera prima
non aveva certo giovato al suo irrequieto paziente, ma almeno aveva
riacquistato in parte
la sua solita faccia tosta e aveva ripreso a mangiare senza doversi
far pregare.
In quel mentre Tony si riscosse del tutto dalla sua catatonia,
probabilmente richiamato alla realtà dalla parola
"tribunale":
«Chi
arriva da Cittàlaggiù?»
biascicò infatti, forse in preda ad uno
dei suoi deliri indotti dalla morfina.
Ian rivolse la sua attenzione al suo
catalizzatore preferito:
«Oggi, signor Stark, dato che
ultimamente è tanto bravo a star male, dovrà dare
il meglio di
sé.»
«Tanto sto qua, dove vuole che...» Tony non
riuscì a
completare la frase che si afflosciò apparentemente
incosciente
sul
cuscino, col volto reclinato di lato.
Pepper scattò in piedi all'istante e guardò Ian
alla
ricerca di non sapeva neanche lei bene cosa.
«La temperatura si
sta rialzando,» disse il medico, calmissimo, osservando lo
schermo
dove lampeggiava un 38.9 in un color rosso chiaro che stonava
completamente con il verde luminoso del suo regolare battito
cardiaco.
Pepper si convinse che almeno la pressione era buona e che
presto anche la temperatura sarebbe rientrata nei ranghi dopo
l'effetto dei farmaci. Anche la flebo avrebbe dovuto aiutare a
mantenere la febbre a un livello accettabile.
«Deve essere troppo
stanco, oppure è l'effetto dei vari farmaci, ma va bene
così,»
sospirò sbrigativo Ian, dopo aver brevemente premuto due
dita
sulla
giugulare di Tony e avergli sollevato la palpebra per controllare la
pupilla.
«È svenuto?» chiese Pepper, preoccupata.
«Non
direi. Sta solo dormendo,» rispose evasivo lui.
Pepper
fissò Tony per poi spostare lo sguardo su Ian e infine di
nuovo su
Tony: stava visibilmente sudando per la febbre ed aveva iniziato a
tremare in modo appena percettibile. La donna gli sistemò
meglio
la coperta, poi controllò la flebo e il monitor accanto a
lui. Tutto
regolare, se non per la temperatura.
«Ma gli antipiretici non
dovrebbero aver già fatto effetto?» chiese infine
lei, senza
riuscire a nascondere la sua agitazione.
Ian si tolse gli occhiali
e li pulì con i suoi usuali gesti lenti, come faceva sempre
quando
doveva dire qualcosa di molto importante o molto scomodo. Si sedette
sulla poltroncina, di fronte a Pepper, ma non la guardò
finché non
si rimise gli occhiali, come se avesse finito di schiarire i suoi
pensieri insieme alle lenti.
«So che non è una scelta ortodossa
né tanto meno corretta, ma credo lei sia d'accordo con me
sul fatto
che il medico del tribunale, anche considerata la giuria, deve essere
assolutamente convinto della precaria salute del signor Stark,
perciò...»
«Mi
sta dicendo che non ha gli ha somministrato niente?»
chiese Pepper in tono pacato, evitandogli il fastidio di finire.
Ian
deglutì, leggermente sotto pressione:
«Sì. Quelli di stamattina
erano semplici, innocui integratori. A parte le pasticche per
il cuore, ovviamente,» spiegò a disagio.
Pepper prese a torturarsi le mani
dal nervosismo. Guardò Tony, che ogni tanto ancora tremava e
continuava a sudare e sentì un groppo in gola.
Non era
giusto, si ritrovò a pensare. Aveva sofferto così
tanto in così poco
tempo e aveva a
malapena avuto modo di assimilare tutto ciò che gli era
piombato
addosso: era già abbastanza dura così, senza
quegli ostacoli
"necessari". La preoccupava il fatto che Tony avesse
infine dato il suo primo, fisico segno di cedimento, dopo quello
psicologico: il suo periodo
di totale apatia era stato quasi più terrificante che
vederlo dopo
l'incidente, quando non voleva ancora convincersi di ciò che
gli era
accaduto. E forse, in effetti, non se ne era ancora del tutto fatto una
ragione. Pepper scrollò la testa e si scostò la
frangetta
sovrappensiero, cercando di ragionare in modo lucido.
Ian,
convinto che Pepper stesse per sollevare qualche comprensibilissima
obiezione riguardo al suo modo d'agire, ricominciò a parlare:
«So
che sta molto male e che se vogliamo che si riprenda ha bisogno di
tutte le cure necessarie, ma se il medico che lo visiterà
oggi non
sarà "soddisfatto" di ciò che vedrà,
verrà
trascinato davanti alla corte senza tante cerimonie, non ancora in
grado di reggersi in piedi. Ha visto Knight e il Senatore Stern e ha
visto quanta avversione provano nei suoi confronti: sbatterlo in
cella e buttare la chiave, per poi passare le Stark Industries in
mano al governo è la soluzione più semplice per
tutto il caos che
ha sollevato l'incidente. Vogliono chiudere la storia in fretta, e
portare un Tony Stark più delirante e sboccato del solito in
aula
sarebbe un grosso vantaggio.»
«È più probabile che collassi
sul banco dei testimoni,» sospirò lei, accigliata.
«Non sarebbe in
grado di muoversi dal letto neanche tra una settimana,»
commentò
poi, non mostrando nessun segno di rabbia o fastidio per la scelta
del medico, presa palesemente alle sue spalle e ignorando la
possibilità di veder Tony sbattuto in prigione. «E
non credo
neanche che una settimana basterebbe a cambiare radicalmente il suo
carattere tanto da risultare gradevole alla giuria. Non so che
conseguenze avrà questa sua manovra, Mitchell, ma ci
permetterà
solo di guadagnare poco tempo. Tempo inutile, peraltro,
perché lui
non sarà neanche nelle condizioni di migliorare i progetti,
modificare le protesi o tantomeno iniziare sessioni di fisioterapia
decenti. E per lui è tutto già abbastanza
frustrante così, senza
ulteriori impedimenti da parte nostra,» disse d'un fiato,
sfogando
in parte tutte le preoccupazioni che la assillavano e il malumore che
la attanagliava da quella mattina.
"E voleva anche presentarsi
all'udienza con la protesi nuova..." pensò rattristata, col
suo
sguardo catturato dall'evidente assenza della gamba destra sotto al
lenzuolo.
«Mi dispiace di...»
«Di non avermi informato?» lo
interruppe Pepper, secca. «Anche a me dispiace. Ma capisco la
sua
scelta anche se non la condivido. E capisco che anche per lei non
deve essere stata una decisione semplice. Anche se decidere
volontariamente di "far stare peggio" Tony per accontentare
il coroner di qualche tribunale non rientra nel mio concetto di
"etica", medica e non.»
Ian rimase sorpreso da quel commento. Non
si aspettava quella comprensione, seppur restia, da parte di Pepper.
Piuttosto aveva immaginato che la sua scelta di far saltare i
medicinali a Stark per mezza giornata l'avrebbe resa furiosa,
soprattutto perché si trattava di qualcuno che le stava
molto
più a cuore
di un semplice datore di lavoro o superiore, quello era evidente a
tutti. Poteva intuire un certo fastidio dietro il suo apparente
controllo nel non averla informata, ma si sentì sollevato
nel
ricevere una reazione tutto sommato pacata. Non era da tutti
mantenere quel sangue freddo dopo un accumulo simile di stress.
Era
un po' imbarazzante dover confessare le proprie colpe, ma volle
dimostrarsi grato per la tolleranza verso la sua scelta poco
professionale.
«Probabilmente è una precauzione inutile, ma
tutto sommato innocua. Non avrei mai osato interrompere i farmaci se
non...» s'interruppe, improvvisamente perplesso, e la
squadrò
confuso. «Aspetti un attimo. Ho sentito bene? Il coroner?
Come sarebbe?»
Ian quasi si mise a ridere a sproposito
nell'accorgersi in ritardo del lapsus di Pepper.
«Intendeva un medico
legale, giusto?» cercò conferma.
Pepper, al contrario, non era
affatto divertita.
«Intendevo ciò che ho detto. Il tribunale ha
deciso di inviare un coroner
per visitare il moribondo Anthony Stark. Un pesce d'Aprile... simpatico.»
ironizzò malamente la donna.
Ian ora era allibito.
«Di chi è
stata l'idea?» mormorò, combattutto tra lo sdegno
e
l'incredulità.
Un'occhiata eloquente della donna confermò i suoi
timori. Knight era davvero pronto a tutto per perorare la sua causa e
metterli in difficoltà...
In quel momento squillò il campanello,
riportando tutti in allarme. Ian fermò con un gesto Pepper
che
stava per scendere al piano di sotto. Scosse la testa e riprese a
pulire metodicamente gli occhiali, stavolta con foga.
«Aspetti
che lo scopra Kyle. Succederà il...»
«Che razza di scherzo è
questo?! Ian!»
Il
capo del medico crollò in avanti nel sentire la voce irata
del
ragazzo raggiungerli dal piano di sotto.
«... finimondo.»
concluse Pepper, rassegnata.
In pochi secondi furono raggiunti
dalle voci concitate del coroner e di Kyle, che sembrava in preda a
una furia omicida, probabilmente in seguito alle presentazioni con
Raven. L'avvocato iniziò a citare ad alta voce tutti i
diritti
che il coroner in questione stava violando con il suo "comportamento
inadeguato" e la "poca sensibilità" nei riguardi del
convalescente e concluse, non essendo ascoltato minimamente, con un
sonoro "vaffanculo" indirizzato esplicitamente a Raven e a
"tutte le carogne come lui".
«Maledetto avvoltoio,
ringrazi che non le faccio causa!» concluse infine
l'avvocato, rassegnandosi a dovergli urlare dal fondo dell'atrio, per
poi mettere la quarta deciso a recuperare il terreno perso.
Raven sembrò non sentirlo neanche e si diresse a passo
di carica attraverso il salone, venendo intercettato da Ian prima
che imboccasse la porta sbagliata. Si guardava intorno con molto,
troppo
interesse, ma si fece scortare dal medico fino alla stanza di
Tony quasi senza proferir parola, se non un grugnito di saluto.
Trovò
Pepper ad attenderlo sulla soglia, compita e professionale; alle sue
spalle, Tony si calava egregiamente e senza troppi sforzi nella parte
del moribondo.
«Buongiorno, dottor Raven.»
«Salve. Lei è
l'assistente?» chiese lui, sbrigativo.
Tutto il suo aspetto dava
l'idea di una persona frettolosa, senza tempo da perdere ed
estremamente impaziente: capelli scuri e brizzolati un po' alla
rinfusa, abbinamento di vestiario sconclusionato ma rigorosamente
scuro, come se avesse pescato i primi vestiti a portata di mano da un
guardaroba monocromo, e
movimenti delle mani secchi e mirati, precisi. Per non perder tempo,
naturalmente. Pepper provò un moto di compassione piuttosto
ridicolo nei confronti dei trapassati che dovevano sopportare le sue
affrettate autopsie.
«Sì,» rispose infine Pepper.
«Sono
Virginia Potts. E lui,» riprese, mostrandogli le buone
maniere che,
a quanto pareva, doveva avere accidentalmente scordato,
«è il
dottor Mitchell, il medico curante del signor Stark.»
«Piacere,»
borbottò Raven, senza tendere la mano a nessuno dei due e
ottimizzando invece quel tempo per frugare nella sua cartelletta alla
ricerca dei suoi strumenti.
«Piacere mio, signor Raven,» rispose
Pepper, risentita, cercando comunque di essere il più
cordiale
possibile e di non lasciarsi stravolgere dagli sguardi insistenti e
molesti che il
"medico" gli aveva lanciato sin da quando l'aveva
adocchiata.
«Sì, sì. Anche io sono tutto un
piacere.»
Kyle
fece finalmente capolino nella stanza con uno stridio di freni, un
po'affaticato e continuando
a masticare fra sé insulti rivolti a quella sgradita
presenza.
«E ho
già avuto l'onore di conoscere l'avvocato del signor Stark.
È molto
peggio di quel che mi aveva detto il signor Knight; pensavo
esagerasse riguardo alla sua "estrema vivacità di
linguaggio".»
Kyle gli lanciò un'altra occhiata fulminante, piazzandosi
poco dopo la soglia e limitandosi ad osservare ogni sua
singola mossa come alla ricerca di una scusa per fargli causa.
Tony
nel frattempo non aveva dato segni di vita, a parte il lento
respirare. Ian, smanioso di sbattere fuori a calci il preunto medico
quanto lo era Kyle, richiamò l'attenzione di Raven con un
discreto
colpetto di tosse:
«Prego, faccia quel che deve fare. La sua
visita sta rallentando il nostro lavoro ed immagino che anche lei
abbia questioni ben più urgenti da affrontare,»
disse Ian, cercando
di suonare il più cordiale ed il meno stronzo possibile.
Piuttosto
difficile, data la situazione e il suo scarso tatto.
«Infatti. Vediamo di sbrigarci,»
tagliò corto Raven, risultando infastidito dalla situazione
e dal
pubblico che si era formato alle sue spalle.
Le condizioni di Tony
si potevano constatare ad occhio nudo o più semplicemente
osservando
per neanche un minuto il monitor che mostrava le sue funzioni vitali,
ma Raven guardò a malapena quegli strumenti e
scoprì bruscamente
l'allettato, prendendo ad esaminarlo con ben poca grazia. Ian
fremette: era evidente la sua abitudine a trattare con gente inabile
a protestare alla sua mancanza di delicatezza.
Raven si concentrò
naturalmente sulla protesi, che sembrava però affascinarlo
in modo
molto relativo. Mitchell considerò che, se fosse stato nei
suoi
panni, avrebbe probabilmente avuto gli occhi lucidi e l'esaltazione a
mille nel vedere un simile prodigio della tecnologia e un
così
grande passo per la scienza medica ma... giusto,
ai morti non servono potenziamenti biomeccanici.
Raven ebbe ben
poco tatto nell'esaminare lo stato delle ferite, e Tony emise qualche
lamento sommesso, con grande rabbia di tutti, in particolare Pepper,
che si stava trattenendo a stento dal trascinarlo via
da Tony per la collottola, soprattutto quando prese ad esaminare il
reattore arc infisso nel suo petto. Dal suo modo di fare era chiaro che
non avesse la minima idea della sua funzione e che fosse fortemente
tentato dal rimuoverlo per esaminarlo meglio.
A quel punto intervenne Ian, in un tono così secco da far
quasi crepitare l'aria:
«Se fossi in lei lo
lascerei al suo posto. A meno che non voglia provocare un arresto
cardiaco al mio paziente e costringermi a intervenire,»
concluse senza nascondere la non tanto velata minaccia.
Raven gli rivolse un'occhiata astiosa dei suoi occhi scuri, ma
seguì la direttiva di Ian e passò ad esaminare il
moncherino della gamba senza commentare. Pepper posò
discretamente una mano sul braccio di Ian, in un ringraziamento
silenzioso; lui si limitò a un mezzo sorriso burbero di
risposta, in cuor suo soddisfatto per aver rimesso in riga quel
maledetto coroner. Le strinse a sua volta la spalla per intimarle di
non intervenire: si sarebbe occupato lui del "lavoro sporco", se
necessario.
Dopo un esame più che
approfondito – e probabilmente fastidioso per Tony
– Raven
risistemò infine i suoi strumenti nella valigetta:
«A quanto pare le
condizioni del signor Stark non avranno margine di miglioramento prima
di due giorni,
come minimo.»
Un cauto sorriso di soddisfazione attraversò il viso di
Kyle mentre Pepper tirava un sospiro di sollievo e Ian aspettava fin
troppo pazientemente la visione celestiale della scomparsa di
quell'incompetente. Partendo da quel presupposto, avrebbero forse
potuto sperare in una settimana abbondante per recuperare, contando sul
fatto che quel tempo fosse poi ulteriormente trattabile per permettere
a Tony di ristabilirsi del tutto.
«Perciò otterrà una proroga, a partire
da
oggi, di altri... due
giorni,» annunciò invece Raven, con malcelata
cattiveria.
La temperatura nella stanza precipitò di una decina di
gradi. Dovevano
averlo pagato molto, molto bene... o forse era solo immensamente
stronzo. Pepper ritornò con uno strattone alla
realtà, come se qualcuno l'avesse tirata fuori dal tepore
rassicurante di una bolla.
Aveva appena
iniziato a sperare che qualcosa
potesse andare per il verso giusto,
che potessero ottenere un'altra settimana di tempo per far rimettere
quasi completamente Tony ed invece... solo due
giorni. Anche Ian e Kyle erano attoniti, non aspettandosi una
decisione così palesemente schierata.
«Due giorni?» Ian fu il
primo a riscuotersi. «Il signor Stark non sarà mai
in grado
di...»
«Il signor Stark ha fatto attendere fin troppo a lungo la
giuria; credo inoltre che sia giunto il momento di farlo uscire dal
suo isolamento volontario e...»
«Volontario?» sbottò Pepper,
piccata e a voce un po' troppo alta, tanto che Kyle le
lanciò
un'occhiata ammonitrice; Ian non fu abbastanza pronto a trattenerla
quando fece un passo verso il coroner.
«Sì, signorina Potts?» rispose il
medico con sussiego. «Ha qualcosa da dire?»
«Dottor Raven,»
Pepper prese un lungo e profondo respiro, «il suo lavoro qui
è
stato indispensabile e di grande supporto, ma
penso sia
ora che torni al suo vero
lavoro
senza perdere altro tempo.»
«Mi sta cacciando?» insinuò Raven con
fare minaccioso, almeno secondo lui.
«No,
la sta mandando gentilmente
a cagare,» tradusse Kyle, in tono mellifluo. «Fuori
dai piedi, o
giuro che la denuncio per violazione di domicilio!» aggiunse
poi,
non sopportando più di avere quel concentrato di arroganza e
irrequietezza
davanti agli occhi.
Anche Ian espresse il suo fastidio per Raven
in un gesto poco cordiale che assomigliava molto a uno sciò
rivolto a una mosca molesta e ansiogena. Raven chiuse con un gesto
stizzito la cartelletta e voltò loro le spalle, con uno
sguardo che
la diceva lunga su cosa avrebbe raccontato alla giuria riguardo allo
"stato del signor Stark". Kyle non colse la minaccia ed
espose un bel dito medio alle sue spalle.
«Se mai dovesse
"caderle la saponetta", non conti su di me!» gli
gridò dietro,
disgustato e così paonazzo da far concorrenza a Tony per
rossore e
temperatura.
Ian fece per redarguirlo, poi soffocò uno sbuffo
divertito e passò subito a somministrare nuovamente i
medicinali a
Tony. Pepper spostò lo sguardo da Kyle alla porta da cui era
appena passato il medico, non sapendo bene se essere sconvolta o
stringere sentitamente la mano a Kyle e dargli una medaglia per aver
messo a tacere quell'individuo e averla salvata dall'imbarazzo di
insultarlo personalmente. L'avvocato intercettò il suo
sguardo e
fece un mezzo inchino strizzandole l'occhio divertito.
«Speriamo
che alla giuria non riporti
anche questo.» commentò Ian.
«Oh,
non è la cosa peggiore che ho detto, lo sai. E Knight lo sa
anche
meglio,» ribatté Kyle con fare sornione, e
stavolta il medico non trattenne
il riso al ricordo di chissà quale sua bravata.
Pepper sorrise a
entrambi, semplicemente contenta di averli dalla loro parte.
***
«Chi
ha tentato di uccidermi?» mormorò Tony, assente e
ringraziando il
cielo per la dose di medicinale che riprendeva a scorrergli nel
sangue alleviando il senso di spossatezza.
«Ho l'elenco in ordine
cronologico e alfanumerico, quale preferisci?» rispose
prontamente
Kyle.
Tony richiuse l'occhio, scuotendo leggermente la testa e
domando l'ennesima ondata di nausea. Si sentiva dolorante, il che non
era una novità, ma stavolta era addirittura peggio del
solito.
«Chi
mi ha visitato? Un pachiderma?» chiese ancora con voce roca,
tastandosi una costola che era sicuro si fosse saldata almeno un paio
di settimane prima.
Kyle esitò e guardò Pepper interrogativo.
Lei gli fece un cenno d'assenso, come a dire "tanto lo verrà
a
sapere lo stesso". E non era davvero il caso di nascondere informazioni
a Tony,
visto come aveva reagito l'ultima volta.
«Un... coroner,» sospirò l'avvocato,
aspettandosi un'esplosione di improperi e commenti poco carini su
Raven e tutta la sua stirpe di "segaossa" e sperando che Ian avesse dei
defibrillatori a portata di mano.
Invece Tony
riaprì l'occhio, di nuovo presente a se stesso. Un brillio
divertito
fece capolino nel suo sguardo, insieme all'ombra di un
sorriso.
«Un coroner?» ripeté incredulo, con una
mezza
smorfia indecifrabile.
L'altro annuì appena, circospetto.
Tony
chinò la testa e diede un colpo di tosse, sussultando
all'improvviso, tanto che per un attimo Pepper si chiese se non si
stesse sentendo male di nuovo, ma poi lui rialzò il volto e
gettò
la testa all'indietro, scoppiando in una gran risata. Ian si
affacciò all'istante dalla porta, già pronto ad
applicare una
fulminea rianimazione del paziente, ma rimase impietrito nel vedere
Tony che rideva di gusto come se avesse sentito la battuta
più
divertente del mondo.
Mentre Tony cercava inutilmente di frenare
l'accesso di risa che gli aveva tolto il fiato, i tre si fissarono un
attimo, presi in contropiede, per poi scambiarsi un sorrisetto
complice.
Potevano ancora farcela... no?
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Revisione effettuata il 01/03/2018
Nota Delle Autrici:
Avevamo detto che gli ultimi capitoli erano stati un po' "poveri"... beh, speriamo di aver rimediato con questo! (Provvediamo a fornire bombole d'ossigeno per i lettori che intraprenderanno la lettura di questo capitolo in una volta sola!) xD
Beh, qui esce un po' fuori il caratterino di Kyle, speriamo che il suo "lato oscuro" (biscotti!) non vi abbia trumatizzato. Ma dopo il fucile a canne mozze, siete pronti a tutto, vero, nostri prodi? :D
Allora, pensiamo che adesso sia il momento di fare il punto della situazione! Nel senso: avremmo dovuto chiedervelo subito, ma... come immaginate le innovative protesi di Tony? Noi ci siamo scervellate un bel po' per immaginarcele e, non essendo davvero brave a disegnare, abbiamo ricercato nel web per trovare qualcosa che corrispondesse al nostro immaginario. Manco a dirlo, sono saltate fuori un sacco di opere che comprendevano la biomeccanica (FullMetal Alchemist, tanto per citarne uno di cui io -Light- sono fan sfegatata) ed è venuto fuori che la nostra idea era un po' un miscuglio di tutte: un mix tra il braccio di Anakin (Star Wars) gli Automail di Edward (FullMetal Alchemist) e le Augmentation di Jensen (Deus Ex: Human Revolution). Insomma, la conclusione è questa:
http://tinypic.com/r/a3y0w/6 questo qui è il braccio di Tony attorno al capitolo "Another Brick In The Wall"; -re: FullMetal Alchemist -
http://razelim.deviantart.com/art/Sarif-Industries-Wallpaper-252555794?q=boost%3Apopular%20deus%20ex%20arm&qo=8-> questo è il braccio quasi ultimato (solo che nella nostra mente è quasi nero, tipo un grigrio fumo, ecco) -re: Deus Ex: HR-
http://schall.deviantart.com/art/Impulso-cover-261821247?q=boost%3Apopular%20augmented%20leg&qo=8-> questa è la gamba nella sua forma quasi-finale (immaginate la pianta un po' meno convessa) -re: Impulso (è un fumetto originale di alcuni autori di DeviantArt)-
http://slimak.gwiezdne-wojny.pl/grafika/2005/mar/zd8.jpg -> questa è la protesi nel suo stato attuale; tenete conto che è uno "spaccato" e che non tutti i componenti sono così allo scoperto (le parti in oro sono di Unobtanium, anche se in realtà non è dorato) e tenete conto che, ovviamente, la protesi parte dalla spalla e ne comprende lo snodo. Questa è quella di Anakin, che ha perso "solo" l'avambraccio. -re: Star Wars-
E, visto che siamo in tema DeviantArt, vorremmo ringraziare tantissimo Sherlock_Watson che si era offerta tempo fa di disegnare delle vignette per la nostra storia, e ne pubblichiamo qui una -> http://giulialennon94.deviantart.com/art/Tony-does-not-approve-xD-312601317?q=gallery%3Agiulialennon94%2F36341253&qo=9 questa è la nostra preferita (anche se in realtà è riferita al cap coi Vendicatori xD). Ne pubblicheremo altre nel corso della storia!
(se i link non funzionano fatelo presente, provvederemo a rimediare!)
Dunque, euforia a parte, poemi a parte e tralasciando il fatto che, sì, secondo noi la Stark Tower è stata progettata durante un delirio di Tony, vorremmo ringraziare un po' di bella gente: prima di tutto la carissima e gentilissima Alley, che ha compiuto l'impresa titanica di leggere e recensire ogni singolo capitolo di Phoenix in pochi giorni, rendendoci felici come bimbe a Natale *-* Grazie di cuore; poi, non meno importanti, Rogue92, Sherlock_Watson (nostre fedeli), Micchi (sei tornata!), xhellosweety e DigiGaia (nuove seguaci) <3
Grazie a tutte, vi amiamo tanto u.u
Moon&Light
© Marvel
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Capitolo 22 *** Rage against the machine ***
21
Rage
against the machine
"Corrupt
You
corrupt
And bring corruption to all that you touch
Hold
You'll
be hold
And beholden for all that you've done"
[Take
A Bow – Muse]
3
Aprile, 6:20, Villa Stark
«Colpevole!
Colpevole!»
Il
giudice torreggiava su di lui, col martelletto pronto a
schiacciarlo.
«Colpevo–...»
«Basta!»
Tony si svegliò di
soprassalto, mandando all'aria i fogli... e la scrivania, che
crollò
a terra con un fracasso assordante.
"Oh,
merda."
Tony
alzò le mani cercando di valutare i danni che aveva appena
commesso,
attento a non sfiorare nessun altro oggetto con la protesi e
ribadendo un'imprecazione a voce alta. Il pavimento era ora
invaso di scartoffie, componenti meccaniche e cocci di una tazza
rotta e fortunatamente vuota. Pepper entrò di corsa nel
laboratorio,
già pronta a sguainare la sua cartellina a mo' di ascia di
guerra per fronteggiare un potenziale pericolo.
«Cos'è successo?!»
La donna
spostò lo sguardo da lui
alla scrivania con fare preoccupato, chiedendosi quale
calamità
avesse appena colpito il laboratorio.
«Niente... davano repliche
nella mia testa e ho dovuto spegnere.»
Pepper lo fissò basita,
riprendendo improvvisamente in considerazione l'idea di chiamare uno
psicologo, e uno bravo.
«Non è importante,» minimizzò
Tony. «Ora sono sveglio e pronto a
riprendere il lavoro.»
Incrociò le braccia fissando i fogli
sparsi ovunque e assunse un'espressione concentrata.
«Il lavoro?»
domandò Pepper, forse aspettandosi una risposta
soddisfacente che
probabilmente non avrebbe saputo darle.
Lui non rispose, ma
assottigliò lo sguardo:
«Aspetto che si faccia da solo.» Corrugò
le sopracciglia, concentrato. «Guardi! La
pagina si è
mossa!» indicò falsamente estasiato un cumulo di
fogli immobili.
Fu
miracolo se i capelli ramati di Pepper non presero fuoco all'istante
e che la cartellina stretta nelle sue mani non avesse già
messo alla prova la
resistenza della testa di Tony.
«Si dia una sistemata,» disse, accennando
alla tuta da lavoro che indossava, che per quanto ne sapeva poteva
anche servirgli da pigiama. «Siamo in aula tra un'ora.
Immagino se ne fosse dimenticato.»
In realtà ne mancavano tre, ma con Tony sapeva
che sarebbero comunque arrivati sul filo dei minuti. Tony le fece
un occhiolino per nulla incoraggiante, alzandosi barcollante sulle
stampelle e dirigendosi a balzelloni verso l'ascensore, stranamente
pimpante per qualcuno che non avrebbe dovuto muoversi dal letto.
Pepper cercò di capire quando, esattamente, fosse
sgattaiolato via dalla
sua stanza per recarsi nel suo habitat naturale e combinare
chissà cosa. E soprattutto, quanti antidolorifici avesse
preso per non risentire di quello sforzo. Uscì dal
laboratorio in subbuglio,
alzando gli occhi al cielo e chiedendosi se Tony si sarebbe mai
deciso a dormire in luoghi preposti al sonno invece che su
qualsiasi piano orizzontale gli capitasse a tiro.
Sospirando,
tornò da Kyle che la aspettava nell'atrio.
«Virginia, tesoro.
Ti prego, infondimi
speranza,» disse questi, massaggiandosi le tempie.
«Mi stanno
venendo le rughe...» borbottò poi tra
sé e sé, esasperato.
Pepper
tentò un sorriso, ma l'immagine della scrivania capovolta
emerse
nella sua mente, congelandolo sulla sua faccia in quella che pareva
più una paralisi facciale.
Scosse la testa.
«Così
non mi incoraggi.» Anche Kyle scosse la testa.
«Vado
a cercare Ian.
Il "matusa" avrà pur qualche parola di
conforto.»
«Bambini,
vi sento...» la voce di Ian si levò dai meandri
della casa e
apparve il "matusa" in questione, occupato ad abbottonarsi
il panciotto e a fingere di essere perfettamente padrone della
situazione nonostante la nube temporalesca che insidiava il suo
volto.
Kyle gli rivolse un sorrisetto dispettoso, anche lui
impegnato a mostrarsi imperturbabile. Pepper nemmeno ci stava
provando, e continuava a spostare nervosamente il peso da un tacco
all'altro; l'unico desiderio che riusciva a formulare in quel momento
era il bisogno fisiologico di una tazza di tè.
«Pepper! Ha visto
la mia cravatta? Quella dorata!»
Una doppia
tazza di tè.
***
3
Aprile, 9:10, Tribunale di L.A.
Erano miracolosamente arrivati con quasi un quarto
d'ora d'anticipo, pur
sempre troppo poco. E adesso
erano nella saletta d'attesa, irrequieti e nervosi, mentre Pepper
tentava di riassumere la situazione alla ricerca di un piano d'azione
che non li facesse colare a picco nel giro di dieci minuti:
«Kyle,
cerca di rimanere calmo: non assecondare Knight, ma cerca anche di
non farti mettere i piedi in testa.»
«Pepper.»
«Ian, ti
prego... sii convincente;
e cerca di avere i
documenti...»
«Pepper.»
«... in regola stavolta. Non
possiamo permetterci passi falsi e...»
Tony le tirò la
manica:
«Pepper.»
La donna sospirò e si costrinse a
ricordare che picchiare gli invalidi non era un'azione socialmente
accettabile.
«Tony, lei invece deve. Stare. Zitto.»
«Sì,
lo so, ed è un peccato. Ma mi fa male la gamba destra, il
piede per
l'esattezza, il che non è possibile. Vero, Doc?»
chiese infine
preoccupato, ondeggiando a disagio sulla sedia a rotelle.
Ian
osservò corrucciato la sua gamba meccanica. Tony si era
ostinato a
voler agganciare la protesi – ecco svelato il mistero delle
sue
peregrinazioni notturne in laboratorio – nonostante fosse
incompleta e assolutamente non in grado di muoversi; ne aveva
fatto una questione estetica ed era stato irremovibile al
riguardo. La febbre stava decisamente esacerbando la sua indole
cocciuta, peggiorata anche dalla quantità esagerata di
medicinali
che aveva dovuto ingollare quella mattina per riuscire a mantenersi
vigile.
Il medico si aggiustò nervosamente il colletto, assumendo
un tono pacato:
«Sindrome dell'arto fantasma. Mi stupisce che non
l'abbia avuta prima e mi stupisce che le stia venendo adesso,
di tutti i momenti,» sciorinò, accigliato.
«Lo ignori. Non è reale.»
«Il mio cervello
la pensa diversamente. Pepper?»
«Cosa
c'è?!»
esplose infine lei, attirando l'attenzione della guardia di sicurezza,
già abbastanza incuriosita dallo strano gruppetto.
«Virginia, le
rughe, ricordati,» mormorò serafico Kyle, non
iniziando a correre
in giro preso dal panico solo perché ne era impossibilitato.
«A
pensarci bene, ne possiamo parlare dopo,»
dissimulò Tony,
decisamente terrorizzato dagli occhi furiosi della donna.
«Meglio.
Ok, sono calma. Entriamo,» si rasserenò di colpo
lei, distendendo
il volto.
«Giusto, entriamo pure!»
sbottò ironico Tony, rianimandosi. «Mi sto
già sentendo male qui, là
dentro andrà sicuramente a mera– ... aspetta, K.
Vuoi
entrare così?»
Tony si rivolse improvvisamente a Kyle, scrutandolo da capo a
piedi.
«Ho qualcosa in faccia?» il ragazzo si
accigliò,
tastandosi le guance ben rasate.
Ian e Pepper erano
momentaneamente ammutoliti chiedendosi che cosa diavolo ci fosse,
ancora.
«La cravatta,» puntualizzò Tony.
«Che problema ha,
la cravatta?»
«È... rosa.»
«Bene,
almeno non sei ancora daltonico. Preferisce un lillà, signor
Stark?»
«In realtà pensavo a qualcosa di più
classico...»
«Tony! Non possiamo discutere di colori e moda a
dieci minuti dal processo!» sbottò Pepper,
riuscendo non seppe bene
come a non urlargli in faccia solo perché era consapevole
che Tony,
probabilmente, era a un passo da un delirio febbricitante.
«Piuttosto
pensi alla sua, di
cravatta...»
«Cos'ha contro la mia cravatta?»
protestò lui, piantando una mano sulla stoffa dorata, in
contrasto con la camicia bordeaux. «Simboleggia Iron
Man!»
«... e soprattutto alle sue protesi,
che sono molto più vistose!»
«Ma non sono rosa!»
ribattè lui,
agitandosi.
«Dovrebbero, sa?» intervenne Ian.
«Ma non rosa
shocking!»
Ci
fu un momento di silenzio in cui si guardarono l'un l'altro; lo
sguardo di Tony era ancora fisso su Kyle, vagamente turbato e preso
da chissà quali elucubrazioni sconclusionate e frutto della
sua
mente sottoposta a una temperatura troppo alta.
«Va bene, la
tolgo!» esclamò infine l'avvocato.
Si slacciò la cravatta e la cacciò
nella tasca della giacca, allentandosi poi la camicia. Aveva
assunto un'espressione omicida.
«Bene. Knight è mio, andiamo.»
***
Justin
Hammer era la persona più detestabile di questo mondo, e su
quello
non c'era alcun dubbio. Julien Knight, oltre che detestabile, era
anche irritante; e anche su quello non c'erano dubbi. Come non ve
n'erano sul fatto che Hammer era stato evidentemente ben pagato per
dimostrare al mondo tutto che le sue protesi erano una "minaccia
incontrollabile".
"Ma se tutto ciò è così evidente...
che cosa diavolo ci faccio io seduto qui?" sospirò Tony,
fissando
con aria estremamente annoiata l'aula di tribunale con il suo miglior
sguardo da morto di sonno.
«Signor Stark, potrebbe almeno fingere
di prestare attenzione a
quel che succede? Si parla di lei, dopotutto,»
sbottò Knight, che
doveva appena avergli posto una domanda che non aveva colto.
«Oh,
beh... in realtà mi stavo giusto domandando
l'utilità della mia
presenza,»
disse svagato, non
degnandolo di un'occhiata. «Cosa stavamo dicendo?»
Hammer
– l'essere
più detestabile di questo mondo, sottolineò tra
sé
Tony – lo guardò con il suo solito falso
sorrisetto colmo d'ironia
e sicuro di sé, prima di aprire bocca e parlare in quel suo
tono
odioso:
«Non sei cambiato molto, Anthony.»
Il suddetto lo guardò
in cagnesco nell'udire il proprio nome di
battesimo. «Anche a lezione
non
stavi mai attento,»
concluse la frase
riprendendo il suo sorrisetto, come se fosse l'unica espressione che
era in grado di assumere.
Kyle e il Senatore si guardarono per un
istante e per una volta si trovarono d'accordo: due ragazzini da
gestire erano decisamente troppi. E Knight si godeva lo
spettacolo.
«Hai perfettamente ragione, Justin!»
esordì Tony con un
sorriso che preannunciava l'enormità della...
"... stronzata
in arrivo," pensò Ian, guardando di sottecchi Pepper che
sembrava essere sul punto di un crollo nervoso.
Di nuovo,
povera donna. Scosse la testa e riprese a seguire il processo con fare
rassegnato.
«Prestando un quarto della tua attenzione alle
lezioni mi sono laureato due anni prima di te e con il massimo dei
voti. Perciò si potrebbe dire che il tuo cervello equivale
circa a
un quarto del...»
«Signor
Stark, non divaghi,» intervenne il
giudice.
«Non
è finita! E oltre al cervello, ma su questo non
c'è paragone, direi
che parlando di dimensioni...»
«Signor
Stark!»
lo richiamarono
involontariamente in coro il giudice, Knight e persino Kyle, che era
diventato rosso quasi quanto Pepper.
«Molto simpatico, Anthony,
ma stavamo parlando delle tue protesi,»
disse Hammer,
sottolineando con particolare cattiveria il suo nome completo e le
ultime
parole.
Tony questa volta non ribatté e lasciò ciondolare
il
capo con fare annoiato. Hammer si schiarì la gola per poi
riprendere a parlare:
«Ho esaminato molto approfonditamente i
dati raccolti sulle tue protesi, forniti gentilmente alla corte dal
dottor Mitchell, anche se con un po' di ritardo e... ho qualche idea
in proposito.»
Tony lo fissò scettico e prese un respiro, preparandosi ad
ascoltare il più
grande ammasso di puttanate che avrebbe mai sentito in vita sua.
«Le
ho progettate io,
ma illuminami pure con le tue
idee.»
Hammer cavò fuori di tasca un breve prospetto, schiarendosi
la voce prima di iniziare a declamarlo:
«Il
telaio è realizzato in titanio e il rivestimento in fibra di
carbonio...»
«I
muscoli sono in fibra di carbonio e il rivestimento in titanio e
carbonio,» lo corresse all'istante Tony. «S'informi.»
«Tutto ciò è irrilevante; è
invece interessante notare come la composizione interna
presenti una
nuova lega, mai registrata,» lo ignorò Hammer.
«I progetti riportano del mercurio, in
particolare dove dovrebbe essere presente la cartilagine, quindi nei
punti di giuntura. Ricordo ai presenti che il mercurio è
particolarmente tossico e potenzialmente pericoloso,»
continuò Justin,
ignorando Tony.
«Signor Stark, può fornirci una spiegazione al
riguardo?»
intervenne
Knight.
«Unobtanium,»
lo accontentò lui,
lapidario.
«Ho chiesto di fornire alla corte una spiegazione,»
ripetè Knight,
scandendo meglio.
«È troppo lungo, complesso e tecnico da
spiegare... con tutto il rispetto per i signori della corte, ma non
capireste una parola.»
«Sono
stato convocato in quanto perito tecnico,»
ribattè Hammer,
leggermente piccato.
«Appunto.»
Si
udì il secco schiocco del martelletto, che quasi
penetrò un timpano
a Tony.
«State tediando i signori della corte. Cerchiamo di
raggiungere una conclusione al più presto, negativa o
positiva che
sia. Questo processo si è protratto fin troppo a lungo,»
concluse Stern, al colmo
dell'impazienza.
«Comunque questa lega, che lei ha ideato senza
informare la comunità scientifica, è pericolosa.
Vuole spiegarci
perché, signor Hammer?»
riprese Knight.
«L'
"unobtanium", così come è impiegato all'interno
della
protesi, fornisce circa il 35% di energia in più rispetto a
un
braccio normale. Ciò vuol dire che il signor Stark potrebbe
tranquillamente sfondare un muro senza subire alcun danno,»
spiegò serenamente
Hammer.
Ian intervenne, con un cenno d'approvazione da parte di
Kyle:
«Vorrei far notare la presenza di piaghe in corrispondenza
dei punti di giuntura con le protesi: "sfondare un muro"
non sarebbe affatto indolore per il mio paziente, e non lo
sarà per anni, visti i tempi di guarigione richiesti per
ferite simili...»
Tony
riprese a fissare il soffitto, imponendosi di lasciarsi scorrere
addosso quell'informazione che il medico gli aveva ovviamente taciuto,
ma che
lui aveva comunque già captato in modo indiretto. Averne
conferma, anche se probabilmente gonfiata per irretire la corte, non lo
fece sentire affatto meglio.
"Altri
anni di notti insonni? Fantastico."
«... senza contare che
il fisico umano non sarebbe in grado di sopportare una pressione del
"35%
in più",»
continuò Ian, con
professionale pacatezza.
Tony lo fissò con evidente perplessità,
ma ebbe la decenza di non parlare, anche se era piuttosto seccato dal
fatto che continuassero a inventarsi fantasiose teorie sulle sue
protesi. Si aspettava da un momento all'altro di sentir parlare di
alimentazione a polvere di fata, libri di magia nera e di vedere il
giudice col cappello di Merlino che lo accusava di stregoneria. Si
strinse le tempie con la mano, pregando che il suo cervello ormai
fritto la piantasse di proporgli quegli scenari paradossali.
«Mi
aspettavo un'obiezione simile, dottor Mitchell,»
ribattè allegro Hammer.
«Stando alle stime che ho potuto realizzare, non avendo avuto
la
possibilità di analizzare le protesi di persona,
teoricamente la
sola mano avrebbe una potenza del 10% superiore a una in carne ed
ossa. Quindi, con un semplice movimento del polso, che non
inciderebbe affatto sui moncherini, il signor Stark potrebbe comunque
recare non pochi danni a un essere umano, con la dovuta forza,»
concluse con vivace
soddisfazione.
«E sappiamo tutti come il signor Stark non sia
stato propriamente colmo di autocontrollo
nell'ultimo periodo,»
aggiunse Knight,
trionfante, frugando con un po' troppa soddisfazione tra le sue
cartelle. «Grazie per il suo intervento, signor Hammer. Ci
è
stato estremamente utile e la inviterò a testimoniare
successivamente se necessario,»
continuò, con
preoccupante allegria.
Justin si accomodò con un piccolo cenno
del capo dopo aver rivolto un sorriso viscido a Tony, che fremette
non sapendo cosa aspettarsi, ma di sicuro nulla di buono.
Cercò
lo sguardo di Pepper, presa altrettanto alla sprovvista da
quella brusca interruzione, e poi quello
di Kyle, che però non lo intercettò e
continuò a fissare
corrucciato Knight, come se stesse decidendo sul momento un modo per
contrattaccare.
Deglutì, sentendosi improvvisamente stretto
sul banco dei testimoni. Doveva ammettere di non aver precisamente
mantenuto un modello di comportamento corretto durante l'ultimo
processo, ma le conoscenze dei presenti riguardo alla sua
irritabilità e allo scarso controllo che esercitava sulla
sua protesi si fermavano
lì...
giusto?
La comparsa di alcune fotografie dalla cartella di Knight
spazzò brutalmente via quella convinzione.
«Vorrebbe spiegarci
queste?»
Knight sventolò una
serie di immagini dall'aria compromettente, sorridendo
amabilmente.
Tony sgranò l'occhio quando captò di sfuggita
quella
che sembrava una veduta del proprio salotto impressa sulla filigrana
di una foto, sempre che la sua vista menomata non lo stesse tradendo.
«Questi sono solo alcuni degli scatti effettuati a
Villa Stark nel periodo successivo al primo processo e li ritengo
particolarmente interessanti per la corte.»
«Obiezione,»
intervenne Kyle,
mortalmente serio. «Questa è violazione della
privacy e
diffamazione.»
«Non
le hai ancora viste, Kyle. Come mai così prevenuto?»
lo stuzzicò Knight
sottovoce, mentre dava le spalle alla giuria nel richiudere la
cartella.
«Respinta,»
dichiarò il
giudice.
Kyle strinse le labbra, inghiottendo la risposta
pungente.
Tony era come pietrificato sul banco dei testimoni, lo
sguardo calamitato dalle foto nel tentativo di capire da dove fossero
saltate fuori. Sentì un nodo gelido stringergli le viscere e
per un
momento il suo stato febbricitante fu spazzato via dal frenetico
rincorrersi dei suoi pensieri che si accapigliavano per trovare un
senso a quel che stava succedendo.
E lo trovarono abbastanza
velocemente. Non per niente era un genio.
Un genio che, come la maggior parte
degli esseri umani di sesso maschile, tendeva a diventare un idiota
avventato quando smetteva di pensare col cervello per delegare il
compito ad altri organi.
Si costrinse a rilassare la sua
espressione, ma nulla poté contro il rossore rovente che gli
imporporò le guance esangui fino a pochi istanti prima. Era
sicuro
che la sua testa fosse sul punto di fondersi tra febbre, vergogna e
rabbia verso se stesso, ma cercò di ripescare un briciolo di
ottimismo: magari ne sarebbe comunque uscito quasi
indenne, almeno dal punto di vista
dell'amor proprio. Incrociò
involontariamente lo sguardo di Pepper, preoccupato quanto il suo, e
pregò con tutto se stesso
che Knight non esplicitasse il modo
in cui aveva ottenuto quelle
foto. Non sapeva se sarebbe riuscito a sopportare anche
quell'umiliazione.
L'accusa mostrò platealmente le foto al giudice e a Tony
che impallidì nuovamente, facendo quasi prendere un infarto
a
Pepper, che non voleva neanche immaginarne il contenuto, se era in
grado di turbare perfino lui. Improvvisamente tutti i disastri che
Tony aveva combinato in quell'ultimo periodo le scorsero in testa a
velocità folle.
Knight porse la prova a Kyle rivolgendogli
un sorrisetto di commiserazione misto a scherno, e l'avvocato
osservò
raggelato la prima fotografia, con Pepper e Ian che si sporsero a loro
volta per vedere. Pepper sentì il proprio cuore battere a
vuoto: l'immagine mostrava un'ammaccatura nel muro,
di almeno venti centimetri di diametro e un paio di
profondità, nel punto in cui Tony aveva accidentalmente
sferrato una gomitata qualche settimana prima. La
successiva era una stampella contorta con l'impugnatura deformata da
una stretta troppo forte. Le altre erano sullo stesso tono: piccoli
danni, incidenti di percorso che Tony aveva compiuto nel periodo di
perfezionamento delle protesi. Il cuore le balzò nel petto
nel
vedere l'ultima foto, e si costrinse a rimanere impassibile. Ben
evidenti su un piano di metallo che identificò come il
bancone della
cucina, erano impresse a fondo le dita di una mano.
«Signor
Stark, ha deciso di rimodernare la cucina, nell'ultimo periodo?
Dovrebbe fornirci una spiegazione plausibile in proposito,»
insinuò Knight,
mellifluo, guardando nella sua direzione
Allungò un'ultima foto al giudice, che assunse
un'espressione perplessa che non lasciava dubbi sul suo contenuto.
«E si astenga dall'uso dell'ironia. Lo
dico per lei.»
______________________________________________________________________________________________________
Revisione effettuata il 01/03/2018
Note delle Autrici:
CE L'ABBIAMO FATTA (?) Oggesussanto.
Non avete idea di quanto, QUANTO abbiamo dovuto soffrire per partorire questo capitolo. Un travaglio di un mese... dolore... sofferenza... you... will suck... the life... out of meeeheee! *Light si trasforma in Matthew Bellamy*
Ma un momento! Godiamoci il momento e diamo uno "sbratto-party!" (neologismo di Light, che sa di cosa parla *Moon annuisce stancamente* Sì, Light... sì...). Ah, in tutto ciò:
Tony è nella cacca, che novità :3
Passiamo a cose più amene. L'immagine a fine note *omino indica in basso* è una delle cose più belle che abbiamo mai visto ç_ç Siamo commosse e spargiamo lacrime di gioia per julialicious, che con le sue manine sante ha realizzato questa piccola perla <3 E, sì, il capitolo da cui è tratta è "That's My Shirt", ma dettagli, lo mettiamo qui pecchéssì. Questo è il suo DA -> http://julialicious.deviantart.com/
Ringraziamo tanto (Tony non ringrazia perché non ne può più) Rogue92, Alley, blackepearl_, MissysP, julialicious (grazie, grazie, GRAZIE per il disegno <3 <- color cravatta di Kyle), DigiGaia e Sherlock_Watson (abbiamo inserito anche la tua vignetta nel capitolo "Sinking" *-* Thank you SO much (: ).
La gioia delle vostre recensioni e di ricevere fanart relative alla storia è paragonabile alla luna che splende luminosa nel... BOOM! *Hulk le tramortisce ponendo fine alle loro sofferenze*
Grazie mille, alla prossima, sicuramente in tempi più decenti... ci faremo perdonare per il ritardo.
Goobye!
Moon&Light
P.S: Kyle. Abbiamo detto tutto.
Edit 01/03/2018: continua l'opera di contenimento-danni per quel buchetto di trama di cui accennavo! Mi rendo conto che la vergogna e il pudore sono sentimenti abbastanza estranei a Tony, ma ho pensato che in una situazione del genere non sia il massimo vedersi esposto da quel punto di vista, soprattutto con la consapevolezza di aver fatto un'enorme stronzata (e di essere sotto gli occhi non troppo pazienti di Pepper). [-Light-]
© julialicious
© Marvel
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Capitolo 23 *** Unsustainable ***
22
.
.
Unsustainable
"Leave
me alone, it's
nothing serious
I'll do it myself
It's got nothing to do with
you
And there's nothing that you could do"
[Cave
– The Muse]
3
Aprile, 11:20, Tribunale di L.A.
Kyle
picchiettava ritmicamente con una matita sul bancone della difesa,
sotto lo sguardo di Knight che se la stava ridendo sotto i
baffi. Pepper si passò una mano sul volto, esausta,
mentre
Ian era rigidamente immobile come una mummia sulla sua sedia.
Hammer
si era defilato da almeno mezz'ora, e non avevano fatto altro che
parlare del comportamento inadeguato di Tony nel corso del
periodo di "degenza" tra i due processi. Le foto a conti fatti non
erano poi così scandalose, esclusa
quella della
cucina devastata. Kyle era infine riuscito a far valere la sua
obiezione
riguardo alla violazione della privacy, sostenendo inoltre che
potevano benissimo essere state ritoccate e contraffatte, visto che
Knight non era stato disposto a rivelarne la fonte.
In tutto ciò il diretto interessato era rimasto muto, con lo
sguardo fisso sul banco dei testimoni e un pallore malsano sul volto,
seguendo ciò che accadeva attorno a lui con movimenti rapidi
dell'occhio, senza mai intromettersi e rispondendo a
monosillabi. Aveva tirato un sospiro di sollievo solo
quando il discorso si era finalmente allontanato dalle foto.
Knight
aveva masticato veleno quando Stern si era mostrato incline
ad accettare l'ipotesi della contraffazione, soprattutto considerando
la loro provenienza incerta, ma non
sembrava particolarmente turbato da quel fatto. Era evidente che
avesse raggiunto il suo scopo primario, ovvero minare ancor di
più la
credibilità di Tony e gettare fango sulla sua immagine
già non
immacolata. Era poi tornato alla carica
con l'aiuto di Hammer per mettere in luce altri dettagli
"potenzialmente pericolosi" riguardanti le
protesi.
Naturalmente Tony non ne era stato affatto
felice, già sufficientemente irritato dal suo precedente
contrasto
con Hammer, e aveva fatto sfoggio del suo sarcasmo più
pungente;
poco ci era mancato che il giudice gli lanciasse il suo tanto odioso
martelletto per zittirlo, accettando senza ulteriori esitazioni le
accuse di Knight.
Quest'ultimo, dopo la mossa fallita delle foto
sulle quali Kyle ancora si lambiccava il cervello, aveva appena
riassunto saccentemente alla giuria i punti salienti dello scorso
processo, cambiando apparentemente linea d'attacco: ancora una volta
addentrarsi nei dettagli tecnici della faccenda non avrebbe fatto
altro che metterlo in difficoltà, visto lo scarso aiuto che
gli stava fornendo Hammer. Si soffermò naturalmente sui modi
e sulle risposte
spregiudicate di Stark e sulla sua evidente riluttanza a collaborare
e adottare un comportamento civile. La cosa aveva stuzzicato ancora di
più Tony, che si
mordeva a stento la
lingua per non intervenire. O almeno, per non farlo troppo
spesso.
Kyle prevedeva dove voleva andare a parare quel subdolo sciacallo della
legge
– doveva ammettere che apprezzava quel temine coniato da
Stark –
e ne ebbe la conferma dopo poche altre, estenuanti frasi del
suddetto.
«Signor Stark, vuole confermare ancora alla giuria che
è mentalmente abile a mantenere il controllo delle Stark
Industries?»
L'interpellato fece scorrere pigramente lo sguardo
per tutta la sala, come se pensasse che la risposta si trovasse
là
attorno, ma non avesse davvero voglia di cercarla. Appoggiò
il
mento sulla mano destra, esponendo in bella vista la protesi e
sollevando infine l'occhio su Knight, che aspettava con impazienza
repressa che lui parlasse.
«Come, scusi?» disse infine, in
tono disincantato e con un sorrisetto sfrontato.
Per un momento
sembrò che Knight stesse per scaraventargli contro l'intero
banco
dell'accusa, ma, Kyle dovette riconoscerlo, mantenne un notevole sangue
freddo e ripeté la domanda con assoluta calma e un tono
completamente piatto, tanto da suonare innaturale. Probabilmente
immagini di morte e distruzione scorrevano nella sua mente, ma fece del
suo meglio per contenerle.
Tony deglutì. Il numero di
persone ansiose di stringere la mani attorno al suo collo aumentava a
vista d'occhio.
«Non mi sembra sia insorto alcun problema
riguardo le mie industrie, e non mi sembra nemmeno che interessi
questo processo,» svicolò, monocorde.
«Non è stato molto
in grado di gestire il suo impero finanziario, ultimamente.»
«Oh,
sono molto ben organizzato in proposito: sa, tra un'operazione e
l'altra, quando magari sono in stato un po' meno comatoso del solito,
mi ritaglio del tempo libero e penso anche ai miei affari. Liquidata
questa domanda, cos'altro vuole da me?» espose Tony,
tamburellando ostentamente sul bancone con la protesi e causando un
irritante, discontinuo ticchettio metallico.
«Quante
operazioni,
per l'esattezza?»
«Pardon?»
«Signor Knight,» intervenne
Kyle, per troncare sul nascere quello che sembrava l'inizio di una
discussione tanto inutile quanto infinita. «Il dottor
Mitchell le ha
fornito tutta la documentazione necessaria.»
«Stavolta,» precisò
Knight, pignolo.
Ian emise un sospiro, mettendosi a braccia
conserte nel chiaro sforzo di non intervenire. Pepper lo
rassicurò posandogli una mano sulla spalla: la
situazione era già abbastanza disastrata e non c'era alcun
bisogno di
peggiorarla ulteriormente.
«La invito comunque ad esporre alla
giuria l'esatta natura delle sue protesi e lo svolgimento delle
operazioni; abbiamo bisogno di tutte le informazioni possibili per
emettere un verdetto...» lasciò la frase
in sospeso, come se
stesse per aggiungere di che tipo di verdetto si trattasse, poi
continuò, in tono altrettanto viscido: «...
inoltre abbiamo qui
anche il giudizio del dottor Raven, che ha visitato il signor Stark
due giorni fa e ...»
«Obiezione,» lo interruppe in tono
rigido Kyle, lanciandogli un'occhiata penetrante da dietro gli
occhiali.
Knight si interruppe seccato, poi assunse un'espressione
falsamente cordiale e fece un cenno per invitarlo a
parlare:
«Prego.»
L'altro represse una smorfia infastidita
dal tono saccente dell'avversario e mantenne un contegno
impeccabile.
«Vorrei far notare alla giuria il fatto che il mio
cliente, quando la visita è stata effettuata, era
pressoché
moribondo.»
«E con ciò?» proferì
Knight,
incrociando le braccia con fare impaziente, rimediandosi
così
un'occhiata astiosa da parte del diretto interessato.
«Gli sono
stati concessi solo due giorni supplementari per ristabilirsi e
francamente ritengo un miracolo il fatto che il signor Stark non sia
ancora collassato a causa del...»
«Sta criticando la scelta del dottor Raven, approvata dalla
giuria stessa?» lo
stuzzicò
pericolosamente Knight.
«Sì,» intervenne Tony,
prevedendo
la difficoltà della risposta per Kyle e sollevando
all'istante un
mormorio di voci nell'aula. «Verifichi anche questo
sulle
cartelle mediche del dottor Mitchell. Credo seriamente di sfiorare i
quaranta di febbre in questo momento e un morto in tribunale
è
proprio ciò che ci serve
adesso,» aggiunse, e il velo lucido
sul suo occhio sembrava corroborare quell'affermazione.
Kyle si
sforzò di rimanere calmo, non potendo negare che la risposta
di Tony fosse quello che effettivamente pensava anche lui... ma non
doveva
dirlo così. Doveva controllarsi
o a lui sarebbero uscite
le saette dagli occhi e un cliente – nonché unico
testimone – in
cenere non sarebbe stato molto d'aiuto.
Il sorrisino sadico che si
delineò sul volto di Knight non feceva sperare nulla di
buono,
mentre spostava lo sguardo da Kyle a Tony e infine a Pepper e
Ian. Era pronto ad annientarli.
«Signor Stark, con quale
facoltà lei afferma l'incompetenza del Dottor Raven e
perché...» continuò a
blaterare incontrastato Knight, mentre
Tony sembrava sul punto di svenire e faticava a mantenere
l'attenzione, distratto anche dalle fitte ai
moncherini, risvegliatesi con lo scemare degli antidolorifici.
A sua volta, Stern non era esattamente attento a ciò
che avveniva nella sua aula. Pepper scambiò un'occhiata
eloquente
con Kyle: “fermalo”, interpretò lui, a
colpo
sicuro. Effettivamente, se non avesse tappato la bocca a Stark
–
che, per l'amor del cielo, aveva appena spedito a quel paese Knight
– il processo sarebbe finito nel giro di pochi minuti. La
fissò
di rimando, annuendo appena in segno affermativo. Ora doveva solo
trovare un miracolo a
poco prezzo per tirarli fuori da quel guaio. Fece per obiettare,
sperando che le parole da pronunciare si presentassero nella sua
testa al più presto, ma rimase congelato a metà
del gesto:
«Vostro
Onore, mi offro come testimone.»
Kyle non osò muovere un
muscolo, e tutti i presenti si girarono come un sol uomo verso Pepper,
che
si era alzata in piedi e fissava determinata la giuria.
“Ma che
cazzo,” pensò Kyle, esasperato.
«Ma che cazzo?!» esplose
Tony.
***
«Se
Knight fa una
sola osservazione
fuori luogo su me e Pepper
durante la testimonanianza io...» cominciò a
sbraitare Tony non appena furono usciti
dall'aula.
Era stata indetta una pausa di pochi minuti dopo le prime due ore di
processo, che si erano concluse, naturalmente, in un disastro
completo dopo che la donna si era offerta di testimoniare.
«La
prego, così non aiuta nessuno, tanto meno
me,» mormorò
Pepper, stremata.
Tony la ignorò.
«Sono disposto a
denudarmi in pubblico per mostrare che le protesi sono innocue! Non
c'è bisogno che lei testimoni!»
«Capisco il tuo nervosismo e i
tuoi istinti violenti, ma ci sfogheremo in separata sede, da soli e
in altro modo e... ricevo solo su appuntamento, se non ti
dispiace,» si espresse Kyle con la massima
tranquillità, in un
debole tentativo di sdrammatizzare e tranquillizzare Tony.
Ian
si coprì la bocca con una mano, emettendo una specie di
grugnito
strozzato; Tony neanche se ne accorse e rimase interdetto per qualche
secondo, poi assunse un'espressione neutra un po' forzata:
«Mi hai terrorizzato. E mi sento già
più calmo
così, grazie
mille.»
Fece un respiro profondo e un po' rantolante
che
culminò in un accesso di tosse secca: era decisamente
arrivato al suo
limite fisico.
«Piuttosto, Stark, da dove diavolo saltavano fuori
quelle foto?» sbottò Kyle, ancora
evidentemente seccato per
l'inconveniente.
A quella domanda Tony raggiunse un nuovo livello
di pallore.
«Non saprei,» rispose, muovendo appena le
labbra secche.
Sperò che la febbre fosse una scusa sufficiente
per la sua scarsa loquacità.
«Beh, è un problema. Ho fatto
dichiarare le prove contraffatte, ma sappiamo che non lo sono, visto
che quei danni esistono. E
hanno comunque contribuito a influenzare la giuria in
negativo.»
«Già. Dovrò
indagare meglio,» rispose seccamente
lui.
Percepiva lo sguardo di Pepper che lo fissava con insistenza,
e ciò aumentò la sensazione di bruciore sulla sua
pelle. Doveva
essere così, andare in autocombustione.
«Tony?» scandì
lei, e dal suo tono era lampante che avesse intuito come lui non
fosse totalmente ignaro riguardo alla faccenda.
Si ritrovò
trafitto da tre paia d'occhi inquisitori, mentre lui si limitava a
starsene sulla sua sedia a rotelle con una mano spalmata sul volto e
la testa reclinata all'indietro, come se tutto ciò che
accadeva
attorno a lui gli fosse completamente estraneo e indifferente. Si
raddrizzò un poco
e si schiarì la gola.
«Ho detto che indagherò. Cos'altro
devo...»
«Lei mi sembra stranamente poco preoccupato,
considerando che è sempre stato un maniaco della sicurezza
per
quanto riguarda Villa Stark e che normalmente dà di matto
persino
quando qualcuno passa a farle visita senza preavviso. Quindi mi
chiedo come lei possa rimanere così calmo nel sapere che
qualcuno è
entrato in casa sua, aggirando i suoi sistemi di sicurezza, per
spiarla,» enunciò in tono pacato Pepper.
«Il fatto
che io non sia preoccupato
al riguardo dovrebbe sollevare
anche voi da qualsiasi
preoccupazione,» rispose
lui a tono, lasciando cadere la farsa.
«Oddio, Stark, che diavolo
hai combinato?» sospirò Kyle, affranto.
«Io,
niente!» sbottò lui, con la testa che gli
pulsava e ribolliva
come un vulcano sul punto di eruttare.
Non era decisamente in
grado di reggere quell'interrogatorio ancora per molto e loro non
sembravano avere intenzione di demordere.
«Stark, sapere come
quelle foto sono state ottenute potrebbe aiutarci a...»
«Non ci
aiuterà, credetemi,» rispose lui,
precipitosamente.
Imprecò
tra sé per aver ceduto e maledì il proprio stato
alterato per non
riuscire a districarsi da quella situazione con la consueta
sfacciataggine. Si costrinse a inspirare profondamente, notando che
la poca pazienza rimasta al suo "team di supporto" stava
per esaurirsi, e che non era sicuro di quanto ancora potessero
sopportare, prima di abbandonarlo al suo vortice distruttivo per se
stesso e gli altri.
«Le ha scattate Christine
Everhart,» esalò
infine. «È una
giornalista.» aggiunse, a beneficio Kyle e
Ian.
«Quella Everhart?» chiese
conferma Pepper,
basita.
«Sì, quella,»
rispose
secco Tony.
Lo
sguardo di Pepper si fece ancor più bruciante e Ian e Kyle
parvero farsi da
parte per sottrarsi a una discussione che si prospettava decisamente
poco piacevole.
«E cosa ci faceva la Everhart a casa sua? E soprattutto,
quando?»
«Mentre lei era a Seattle ho
acconsentito a un'intervista.»
«Di sua volontà?»
«Folle,
eh?» ribatté lui in modo irritante.
«Direi geniale,
vista la situazione. Non la si può lasciar solo un
momento.»
«Concordo, ma ormai è fatta,
quindi...»
Tony stava giusto per tirare un sospiro di sollievo
per aver evitato la questione in scioltezza quando le successive,
perplesse parole di Ian infransero quella convinzione:
«E ha lasciato che la Everhart scattasse foto a destra e a
manca
mentre la
intervistava?»
Scoccò un'occhiata velenosa al medico
intimandogli il silenzio, ma era troppo tardi, perché adesso
Pepper
aveva di nuovo appuntato i suoi occhi acuti su di lui, stavolta
illuminati da un barlume di comprensione.
«Tony, la prego, non mi
dica che lei ha veramente...»
«Diciamo che non è
stata solo un'intervista,»
capitolò
lui,
interrompendola ed evitandole il fastidio di esprimere ciò
che
pensava.
Il volto di Pepper non mostrò nessuna evidente reazione,
se non un freddo sconcerto.
«Stark...» fu l'unico commento
avvilito di Kyle; si udì il sospiro di Ian fargli eco.
«Signor
Stark...» cominciò Pepper, stranamente
pacata, ma Tony non la
fece neanche cominciare:
«Lo so cosa sta per dirmi e non ho
intenzione di ascoltarla. Ho avuto un singolo istante di
debolezza, e
credo sia comprensibile, dopo tre mesi di totale...»
«Signor Stark, in
tutta franchezza, non mi sono mai minimamente interessata alla sua
vita sessuale, se non quando mi incaricava di "smaltire la
spazzatura",» lo freddò Pepper, e lui si
ritrasse a
quelle parole.
Vi fu qualche secondo di silenzio imbarazzante nei
quali tentò di elaborare una qualsiasi risposta sagace,
senza
successo.
«Il mio solo rimprovero è: di tutte le decine
di
donne che si era già portato a letto, doveva proprio
scegliere
l'unica che avesse un serio interesse a
danneggiarla?» gli occhi cerulei di Pepper mandavano
lampi
nella sua direzione.
Tony ammutolì di fronte a tanta schiettezza,
che lo trapassò come una pugnalata nell'accorgersi di come
Pepper
sembrasse totalmente indifferente al fatto in sé e piuttosto
preoccupata per le sue conseguenze. Come effettivamente ci si
doveva aspettare dalla sua assistente. Si
limitò a
chinare il capo, incassando il colpo e allo stesso tempo negando
quanto si sentisse intrinsecamente ferito da quello sfoggio di
distacco.
E poteva prendersela solo con se stesso, anche
stavolta.
«Pep, io...»
«Ormai è fatta, l'ha
detto lei,» lo troncò la donna, e quelle
parole suonarono
definitive alle sue orecchie, più del martelletto di un
giudice.
«Speriamo solo che quelle siano le uniche foto e che non
ne saltino fuori altre,» s'intromise Kyle, nel
tentativo di
riportare il diverbio nel contesto dei loro problemi più
urgenti.
«Spero di no,» si lasciò
sfuggire
Tony.
«Spera? Quante diavolo ne ha
scattate sotto al
suo naso?» stavolta fu Ian a
guardarlo storto.
Una
scintilla di rabbia rianimò Tony:
«Ehi, non ero esattamente
nelle condizioni di poterla tenere
d'occhio mentre
faceva il tour di casa mia. E avevo disattivato JARVIS, come sempre
per... in quei casi. Per avere un po' di
privacy,» aggiunse nervoso,
intuendo la
successiva domanda di Pepper, che fece solo un secco, irritato
movimento con la testa.
«Era evidentemente nelle condizioni per
causare altri problemi. Spero almeno che ne sia valsa la
pena,» commentò acidamente lei, senza
riuscire a
trattenersi.
«Lasciamo perdere...» bofonchiò
di rimando
Tony, appena udibile e stropicciandosi l'occhio gonfio.
«Vogliamo
stendere un velo pietoso, per favore?» intervenne a
quel punto
Kyle, e Tony gli rivolse un'occhiata grata: aveva
notato lo
sguardo perplesso di Pepper che doveva aver captato o intuito le sue
ultime parole.
«Sia come sia, ormai è andata e dobbiamo
cavarcela con ciò che
abbiamo,» proseguì l'avvocato in tono
ragionevole. «Virginia, mi è impossibile
prepararti
all'interrogatorio di Knight. Mi affido al tuo buonsenso, ma evita
altri colpi di testa,» concluse, esprimendo
finalmente la sua
contrarietà per la piega che aveva preso il processo.
Pepper
assunse un'aria contrita, forse rendendosi conto solo in quel momento
di ciò che si apprestava a fare.
«Giusto, quasi
dimenticavo...» riprese Tony, che era
riuscito in qualche modo
a riprendere una parvenza di contegno. «Lei. Da dove prende
tutta la
santità per immolarsi al posto mio sul
patibolo?» ironizzò,
rimanendo però mortalmente serio in volto; una ruga profonda
solcava
la sua fronte aggrottata.
Pepper si prese la radice del naso tra
le dita, dandosi del tempo per rispondere, per poi fare
spallucce:
«Rientriamo in aula.»
Ian si arrischiò a
parlare:
«Dovremmo almeno decidere cosa...» ma fu
sovrastato dalla voce di Tony, che si rivolse alterato a
Pepper:
«Rientrare in aula! È tutto quello che ha da
dire?»
Pepper evitò di guardarlo negli occhi e fece per seguire
Ian e Kyle che si stavano defilando il più in fretta
possibile per
scampare all'imminente tempesta, ma Tony la afferrò appena
in tempo
per un lembo del tailleur, costringendola a fronteggiarlo.
«Dobbiamo parlare.»
***
«Signorina
Potts, vorrebbe ripetere alla corte riguardo a cosa, esattamente,
vorrebbe testimoniare?»
Pepper sembrò realizzare
solo in quell'istante in che razza di situazione fosse andata a
cacciarsi. Cercò
gli occhi
di Tony e lui non seppe se interpretarlo come una ricerca di
rassicurazioni o
come una minaccia.
L'ultima ipotesi era più plausibile.
«Intendo
dimostrare tramite la mia testimonianza diretta che le protesi del
signor Stark sono innocue.»
Tony battè la palpebra: soltanto a
lui sembrava che si stesse sforzando enormemente per pronunciare
quelle parole?
Knight si concesse un sorrisetto di
condiscendenza.
«Quale ardire, signorina Potts. I referti del dottor Raven e
le analisi del signor Hammer lasciano intendere il
contrario.»
Knight afferrò un voluminoso fascicolo di
documenti – lo stesso che era stato aperto e richiuso una
buona
ventina di volte nel corso della prima parte del processo – e
iniziò a sfogliarli a colpo sicuro mentre Pepper riprendeva,
approfittando di quella pausa:
«Innocue perché, naturalmente, il
loro proprietario non è nelle condizioni né ha le
intenzioni di
nuocere a nessuno.»
"Giusto?" sembrò domandarsi la sua testa.
Rivolse automaticamente un'occhiata a Tony, che celava a malapena
la sua insicurezza, agitandosi al banco della difesa.
«Ne abbiamo già discusso ampiamente poco
prima con il signor Hammer, signorina
Potts,» tagliò corto
Knight, «e il punto rimane lo stesso: la volontà o
meno del signor
Stark di usarle a scopo offensivo non annulla la loro
pericolosità. Non ha seguito il processo?»
aggiunse,
provocatorio.
Pepper non fu affatto turbata dalle parole pungenti
di Knight, che sembrava voler riversare su di lei tutta la
frustrazione per non essere riuscito a chiudere quella causa fin dal
principio. Mantenne un contegno e una sicurezza
invidiabili, sostenendo il suo sguardo. D'altronde, nel corso della sua
carriera lavorativa si era fin
troppo abituata a discutere e avere la meglio su uomini d'affari ben
più
importuni, testardi e irritanti di Knight. E questi, a conti fatti, non
possedeva la centesima parte dell'arroganza e della sfacciataggine
che caratterizzavano Tony nei suoi giorni migliori; per non parlare
di quando era di cattivo umore e riuscire a cogliere una sua frase
che non grondasse sarcasmo diventava un'impresa. No, non era affatto
intimorita da Knight.
Evitò comunque di soffermarsi su
cosa fossero stati per lei quegli ultimi mesi, e anche di collegarli al
fatto che tutti gli sforzi compiuti in quel periodo potevano
riversarsi in ogni sua mossa. Distruggendoli o compensandoli, questo
non era
ancora in grado di dirlo, ma doveva stare attenta ad ogni singola
parola che avrebbe lasciato le sue labbra. Non poteva rendersi
nuovamente responsabile di un disastro.
«Sì,» rispose
infine, con voce sottile ma ferma, per entrambe le domande di
Knight.
«Come scusi? Non la sento,» la
incalzò lui,
portandosi con fare derisorio due dita all'orecchio, col chiaro
intento di innervosirla.
A quel punto Tony, che aveva continuato a
muoversi inquieto sulla sedia come se fosse diventata
improvvisamente troppo stretta per lui, non riuscì
più a
contenersi e impedì a Kyle, che aveva appena aperto bocca
per
obiettare a tutela di Pepper, di intervenire:
«Faccia poco lo
stronzo, Knight. Tenga per sé i suoi commenti e si limiti a
controinterrogare la signorina
Potts,» sbottò, battendo d'istinto la
protesi sul bancone con
il palmo aperto; una sottile scalfittura intaccò la
superficie
lucida, attirando subito lo sguardo di Knight.
Kyle non ebbe nemmeno la
forza di arrabbiarsi o tirare una gomitata a Tony: si limitò
a
posarsi una mano sul volto e a sfregarsi lentamente gli occhi, come
sperando che un'illuminazione lo colpisse sul momento. O un
fulmine, magari: sarebbe stato altrettanto gradito. Pepper era
impietrita al banco dei testimoni.
«Signor
Stark, la richiamo all'ordine! Siamo in un
tribunale!» sbottò
Stern dopo un silenzio attonito, sbattendo il martelletto con quasi
altrettanta forza.
Quanto a Knight, il suo viso era ora teso in una
maschera ostile. Si avvicinò flemmatico al banco della
difesa e tracciò con un
dito il graffio che solcava il legno, per ora invisibile alla giuria. I
suoi occhi chiarissimi
incontrarono brevemente l'iride scura di Tony, in un misto di
sufficienza e trionfo. Lui sostenne lo sguardo, ma colse
chiaramente il messaggio che gli stava inviando, pungente: mancava
poco. E, più subdolo, celato nel sorrisetto minaccioso che
si era
allargato sul suo volto, un avvertimento che Tony non riuscì
pienamente a cogliere.
In quella frazione di secondo, un blocco
d'ansia ostruì la gola di Tony, mentre una terribile
consapevolezza
si faceva strada in lui: Knight aveva cambiato obiettivo, o meglio,
il modo per raggiungerlo. Non aveva più bisogno di
attaccarlo
direttamente quando poteva stuzzicarlo e portarlo al punto di rottura
semplicemente facendo pressione sul suo punto debole, ora
più che
mai: Pepper.
Pepper, che poco prima aveva sopportato il suo sfogo
e le sue parole aspre e irragionevolmente irritate con una calma
rassegnata che l'aveva turbato nel profondo, più che se
avesse
reagito con la sua solita fermezza e l'avesse affrontato ribattendo
metodicamente ad ogni sua affermazione. Si era limitata ad ascoltarlo
in modo passivo, poi all'improvviso l'aveva fermato con un semplice
gesto della mano, chiudendo gli occhi velati di un'estrema
stanchezza. E lui, semplicemente, aveva smesso di parlare, attonito,
perché mai aveva sentito la sua voce così esausta.
"So
quello che faccio. Lei non ha niente di
cui preoccuparsi," gli aveva detto, concludendo con un debole, finto
sorriso.
Non aveva saputo come ribattere, perché aveva percepito
una punta d'accusa in quelle parole che sentiva di meritare. In
quel momento aveva capito che qualcosa si era rotto già da
tempo, nel giorno in
cui le aveva posto una domanda della quale dava per scontata la
risposta, ma che lei non era stata capace dare subito, insinuando in
lui il
tarlo del dubbio. Era da allora che quel dolore sordo e pulsante
lo accompagnava, il dolore di una ferita che stenta a rimarginarsi e
che piano piano si impara ad ignorare, o si cerca di riempire con
altro, abbandonandosi a distrazioni inutili e superficiali. Solo
allora aveva percepito di nuovo la sua presenza, risvegliata dagli
occhi limpidi e stanchi di Pepper, e adesso non riusciva a scrollarsi
quel
dolore di dosso mentre la ferita riprendeva a sanguinare,
approfondita da tutti gli errori con cui aveva creduto di
sanarla.
Tony alzò lentamente lo sguardo verso la donna, convinto
di non aver mai visto i suoi occhi così spenti,
né di averla vista
così fragile ma allo stesso tempo così
concentrata; si scoprì a
pensare fuggevolmente a quanto fosse bella, nonostante la situazione.
Un sentimento indefinito si agitò in lui, ma fu prontamente
soffocato
dall'ansia.
La consapevolezza che stesse mentendo per lui,
rispondendo a quella stessa domanda che le aveva posto, e che non fosse
riuscita a guardarlo nel rispondervi di nuovo lo
distruggeva. Abbassò lo sguardo, momentaneamente smarrito, e
sperò che Knight non avesse intenzione di porgli altre
domande. Non
sarebbe più intervenuto: Pepper aveva bisogno della massima
concentrazione per mentire e risultare convincente nel dire alla giuria
che lui non era pericoloso. Una stoccata al
petto lo lasciò quasi senza fiato e dovette stringere
l'occhio e
abbassare il capo per non lasciarsi davvero sfuggire un lamento.
Kyle
lo guardò preoccupato, convinto che si stesse sentendo male,
poi
Tony
riprese quella che riteneva essere un'espressione serena, ma che
conservava ancora un residuo di tensione ben visibile.
«Diceva,
signorina Potts?» riprese Knight, scoccando
un'ultima occhiata
velenosa a Kyle, che fumava di rabbia, prima di
voltarsi di nuovo verso la giuria e la sua testimone.
Pepper
osservò per un momento il punto in cui Tony aveva sbattuto
la
protesi, con un chiaro tentennamento.
«Dicevo... che è innocuo.
Posso garantire che il lavoro del signor Stark e quindi delle Stark
Industries è più che sicuro per la nazione. Il
dottor Mitchell può
confermare che le protesi a cui sta lavorando il signor Stark,
testandole direttamente su se stesso assumendosi tutti i rischi del
caso, sono
un grande passo per la biomeccanica e la medicina mondiale.»
«Un
intento molto nobile,» riconobbe Knight con
apparente
sincerità, sorprendendo Pepper e Tony.
Kyle non era affatto
convinto dalla sua "ammirazione".
«Ma discutibile. Mi sembra di
capire che queste protesi siano palesemente pericolose e che le Stark
Industries avrebbero già ipotizzato di metterle sul mercato.
Senza
aggiungere che le forze belliche non ne sono attualmente al corrente
né sono tanto meno in possesso dell'arma Iron Man.»
«Obiezione.
Il signor Stark non ha mai parlato di mettere in commercio la
tecnologia delle sue protesi e ciò non ha nulla a che fare
con
l'esercito.»
«La famiglia Stark ha passato l'intera vita ad
arricchirsi vendendo armi; va da sé che il signor Stark
abbia preso
in considerazione l'ipotesi.»
«Il signor Stark ha interrotto da
tempo la manifattura di armi. Le Stark Industries sono ora
concentrate sul settore dell'energia pulita, come dimostrano i
registri,» dichiarò Pepper con sicurezza.
«Dubito che le protesi
facciano parte di progetti ambientalisti, considerando la loro
potenziale pericolosità. E ciò non esclude che le
Stark Industries
stiano contrabbandando armi sottobanco come faceva ai tempi il
defunto signor Stane.»
«Le protesi non
sono armi,»
ribatté lei, leggermente alterata per quelle
continue accuse infondate. «E le ho già
detto che la sezione
armamenti...» fu però sovrastata dalla
voce di Tony, venuto meno all'autoimposto obbligo di non intervenire
non appena aveva captato il nome dell'ex-collega:
«Queste
sono pure illazioni! Non ero a conoscenza dei traffici di Stane, e ho
un paio di arti in meno a dimostrarlo! Ho smesso di produrre armi
più
di un anno fa, in modo definitivo,»
concluse, con un leggero affanno dettato dalla stanchezza, dalla febbre
e
dall'angoscia che diventava sempre più difficile da
controllare.
«Ha
smesso di produrre armi per
l'esercito,» precisò
a sua volta Knight. «E da quel momento ha deciso di tenere
per
sé le
sue scoperte, belliche o meno. Per esempio questo
"unobtanium".»
«Quando avrò il tempo e la voglia di
impelagarmi nelle eterne procedure per brevettarlo, sarò
lieto di
condividere le mie scoperte coi buffoni della comunità
scientifica,»
ribatté tranquillamente lui.
«Il signor Stark ha pieno potere
decisionale sull'amministrazione delle proprie industrie e delle
proprie invenzioni, essendone rispettivamente il titolare e
l'ideatore materiale,» aggiunse Kyle, tentando di smorzare
l'arroganza del suo cliente.
«Giusto. E in quanto tale solo lui è
autorizzato ad avallare e firmare documenti e disposizioni relative
alle sue industrie,» confermò Knight, con un po'
troppa
allegria.
Pepper ebbe un presentimento per nulla piacevole.
Si irrigidì sul banco dei testimoni, cercando di
intercettare
lo
sguardo del suo capo.
«Alcuni dei suddetti documenti sono invece
stati firmati dalla qui presente assistente, la signorina Potts, che
ha inoltre sostituito il signor Stark in tutte le riunioni tenutesi
ultimamente.»
«E dov'è il
problema?» sbottò Tony, un po'
troppo sfrontatamente. «È la mia amministratrice
delegata.»
Un
attonito silenzio calò nell'aula, mentre Pepper stringeva i
pugni
guardando davanti a sé senza realmente vedere. Tony sembrava
essere sceso dal palco lasciandole tutta la scena. Lei contrasse
appena le sopracciglia al pensiero che l'avesse lasciata sola sotto i
riflettori sempre riservati a lui solo perché aveva deciso di
farlo. Da quando
era diventata amministratore
delegato? Riconsiderò l'idea di picchiare gli invalidi.
«Infatti.
Non vedo dove sia il problema,» cercò comunque di
riprendersi, con
evidente fatica, sentendo il peso di ogni singolo sguardo puntato su
di lei dopo quella notizia scioccante.
Knight dopo il primo momento di sorpresa si rilassò,
come a concludere che quell'affondo fallito non fosse poi un problema
così grande, per lui che già aveva quasi la
vittoria in pugno.
Si
rivolse mellifluo a Tony:
«Ciò non risulta nei registri delle
Stark Industries... che svista disdicevole.»
«Gli errori
burocratici capitano,» ribatté Tony, con fermezza
del tutto
fasulla.
«Eppure il suo avvocato di solito
è così preciso.»
Kyle
gli rifilò un sorrisetto dolce che nascondeva una vena di
panico.
Intrecciò le mani sul banco e lo fissò
intensamente:
«Ha
ragione, signor Knight. Me ne assumo la responsabilità...
sono così distratto,» disse
in tono piatto, rivolgendo un'occhiata disinvolta di scuse al
giudice.
«Sì, sì... al solito,»
borbottò questi. «Cartelle
mediche imprecise, scarsa documentazione, esibizionismo da manuale e
interventi inopportuni. Sappiamo com'è fatta la difesa del
signor
Stark.»
«Oh, ma fortunatamente c'è il signor Knight
che prende
tutto con
estrema serietà. Ora, appurato il fatto che la signorina
Potts è
amministratore delegato... come influisce ciò sulle sue
conclusioni,
signor Knight?» continuò mellifluo Kyle,
non risparmiandosi
una frecciatina al procuratore, che illividì di
rabbia.
«Semplicemente, anche lei è responsabile delle
azioni
delle Stark Industries e quindi dell'occultamento di armi al governo.
Vostro Onore, abbiamo perso da qualche parte l'imputazione della
signorina Potts?»
A quelle parole l'aria composta di Tony sembrò
sgretolarsi all'improvviso sotto lo sguardo preoccupato di
Pepper. Kyle fu il primo a riprendersi dall'improvvisa svolta e
intervenne seccamente:
«Obiezione. La signorina Potts non ha
niente a che vedere con la progettazione, la realizzazione e
tantomeno la messa in commercio delle tecnologie Stark. Dovrebbe
rimanere coi piedi per terra, signor Knight.»
«Respinta.
L'osservazione dell'accusa è pertinente e inconfutabile.
Cos'ha da
dire a sua discolpa, signorina Potts?»
Lei esitò, presa in
contropiede da una domanda così diretta, e cercò
così di prendere
tempo:
«Non ho ancora partecipato così attivamente
all'amministrazione delle Stark Industries e...»
«Basta
così!» esclamò con veemenza
Tony, reprimendo l'istinto di
alzarsi in piedi.
La sua voce risuonò chiara e potente in aula e
tutti ammutolirono. Per un attimo, sembrò che indossasse
nuovamente l'armatura e che potesse ridurli in cenere con un semplice
sguardo. In quel momento emanava un'aura di pericolosa tensione e
furia, nonostante le sue condizioni tutt'altro che stabili e la sua
situazione disperata.
«La signorina Potts non è tenuta a
rispondere a nessuna
di queste domande.»
Cercò lo sguardo di
Pepper, che aveva già trovato il suo.
Il viso di Tony si
contrasse in un'espressione sofferente, quasi sentendo il peso del
senso di colpa che lo schiacciava inesorabile a terra, cercando di
farlo cadere di nuovo. Aveva sempre dato per scontato che fossero
insieme in quella faccenda, ma faceva male, troppo male, vedere che
ad ogni gesto che compiva poteva metterla in pericolo. Avrebbe dovuto
tagliarla fuori dal principio, prima che venisse messa al centro
dell'attenzione, prima che si sentisse in dovere di proteggerlo
perché lui non ne era più in grado. Quella presa
di coscienza fu
la più dolorosa, ma dovette ammetterlo: se lei non gli
avesse teso
la mano quando era quasi scivolato nell'oblio, non sarebbe mai
riuscito a rialzarsi da solo.
Adesso era in piedi. Doveva solo
rimanervi senza alcun aiuto.
Approfittò del silenzio vantaggioso
che si era creato e continuò a parlare, sentendo che la
rabbia
contro se stesso per aver posto Pepper in quella situazione aumentava
a poco a poco, tanto che dovette frenarsi per non far tremare la voce
e mantenere un volume accettabile.
«L'unico imputato in questo
processo sono io e
sono io che
ho costruito le protesi, e Iron Man, e qualunque arma l'accusa e il
governo
pensino che io nasconda sotto il letto. La signorina Potts si
è
limitata ad apporre qualche firma qua e là sotto mia supervisione,
seguendo le mie
direttive
e la esonero da qualsivoglia responsabilità. Non credo di
dovervi
ricordare chi è il proprietario delle Stark Industries:
c'è il mio
nome su quel marchio, ma mi sembra che la gente tenda a dimenticarlo
un po' troppo spesso,» aggiunse aspramente,
trapassando Knight
con la sua occhiata più feroce.
Dopo un primo momento di
spaesamento, questi si ricompose e assunse di nuovo il suo
atteggiamento saccente.
«Molto bene, signor Stark. Ha una dote
naturale nel fare sfoggio della sua instabilità. Non mi
stupisce
che, da quanto afferma, Obadiah abbia cercato di salvare le Stark
Industries dallo sfacelo che stava perpetrando, sebbene in modi
opinabili.»
Tony contrasse la mascella, ma prima che potesse
controbattere lo schiocco del martelletto risuonò nell'aula.
«Qui
si sta divagando. Signor Stark, i suoi capi d'accusa sono
così tanti
e così complessi da analizzare che potremmo tranquillamente
prevedere un'altra decina di processi da qui a due
mesi,» osservò
Stern, evidentemente scocciato.
«Vostro Onore, mi sembra che i
fatti siano abbastanza chiari per emettere un verdetto
definitivo,» propose Knight, noncurante.
«Concordo con lei
almeno in parte, signor Knight.»
Kyle fece per aprir bocca:
«Non
ascolterò nessuna sua obiezione, signor
Andrews,» lo anticipò
il giudice, scoccando un'occhiata esasperata al banco della
difesa. «È chiara a tutti la potenziale
pericolosità delle
protesi e lo scarso controllo che il loro proprietario vi esercita,
ma ci sono ancora molti punti da chiarire... tra i quali l'incidente
al settore 16, la gestione dell'armatura e il ruolo del dottor
Mitchell in tutto questo.»
Ian sollevò di scatto la testa,
chiedendosi perché diamine fosse stato chiamato in causa, ma
Kyle
gli fece cenno di non agitarsi, nonostante anche lui fosse
evidentemente sorpreso dalla cosa.
«Senza contare che siamo
ancora all'oscuro della reale portata degli interventi del signor
Stark in veste di Iron Man, e che ciò richiede un ulteriore
consulto
con le alte cariche militari.»
A quelle parole Knight si rabbuiò,
vedendo sfumare l'occasione di chiudere lì la faccenda, ma
si
illuminò dopo pochi secondi, probabilmente prospettando
l'immensa
quantità di prove che avrebbe potuto raccogliere
nell'intervallo tra
i due processi. Anche Kyle si rilassò. Tempo: era quello che
serviva per mettere in chiaro le cose e ricostruire una linea
d'azione, soprattutto senza che la sua principale fonte
d'informazioni e aiuto fosse febbricitante, moribonda o
intrattabile. Si concesse anche un sorrisetto d'incoraggiamento a
Pepper, che aveva recuperato un colorito un po' più
naturale, prima
che le successive parole di Stern gli facessero mancare un
battito.
«Presa visione degli ultimi fatti, delle prove
analizzate e delle testimonianze fornite, la corte ritiene necessaria
un'ulteriore udienza per confermare o confutare definitivamente le
conclusioni raggiunte. Preso atto di ciò, la corte dichiara
il qui
presente imputato Anthony Edward Stark colpevole di
aver occultato prove e fatti rilevanti ai fini del
caso. Inoltre
le protesi sono, ad effetto immediato, interdette all'utilizzo in
pubblico, e passabili di sequestro in caso violazioni senza
possibilità d'appello.»
Tony annaspò, voltandosi di scatto
verso Kyle con occhi increduli e spalancati, a bocca semiaperta
mentre cercava di articolare qualche parola di protesta. Kyle si
limitò a scuotere la testa e a lanciare un'occhiata di
sconforto a
Pepper, impalata al banco dei testimoni e di nuovo pallida come un
cencio. Lei strinse le labbra e accennò a Tony come se non
fosse neanche lì,
senza
nascondere il suo disappunto e la sua delusione.
«La corte si
aggiorna.»
__________________________________________________________________________________________________________
Revisione effettuata il 01/03/2018
Note delle Autrici:
Avremo fatto di nuovo tardi, ma questa volta è bello lunghetto il capitolo! *tentano di giustificarsi* Avevamo detto che avremmo aggiornato prima e invece il capitolo è rimasto a fermentare nella cartella. *continuano a fustigarsi*
Cercheremo di essere più brave dal prossimo capitolo: in questi mesi abbiamo avuto l'impedimento "studio"; vedremo di rimediare...
Un arco di trionfo sarebbe il minimo per il nuovo album dei Muse che tenta di ispirarci (2nd Law ti amiamo *^*) SPAM! Il titolo deriva da quello e, giusto per rimanere in tema, anche la citazione è loro <3
Detto ciò, ringraziamo tantotantotantotantotantotanto Alley, DigiGaia, The_best_who_sing, Sherlock_Watson, julialicious, MissysP e Rogue92 per aver recensito lo scorso capitolo! :D <3
See ya,
Moon&Light
© Marvel
|
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Capitolo 24 *** Message in a bottle ***
23
.
.
Message in
a bottle
"You
accelerate
Stubborn in your anger
People living
And you
keep crashing bottles
To your god like he's gonna hear
What you
say"
[V – About Wayne]
3
Aprile, 13:30, Tribunale di L.A.
«Sono
in procinto di abbracciare il buddhismo per ritrovare la pace
interiore...»
Ian fissava ormai privo di alcuna speranza Tony che
battibeccava da almeno dieci minuti con Pepper. Magari lo avrebbe
picchiato. Molto forte. Avrebbe voluto farlo lui, ma la sua etica di
medico glielo impediva. Alla fine di tutta quella storia avrebbe
sicuramente bruciato il suo giuramento di Ippocrate...
La sua
visione di roghi e focolai fu interrotta dalla valanga di
oscenità
che uscì dalla bocca di Kyle:
«E io sono in procinto di calarmi
le mutande e mettermi a novanta davanti a Knight, perché
dato che la
mia pace interiore è andata a puttane magari lui mi aiuta a
ritrovarla!» gesticolò in preda al panico, o forse
a un raptus
omicida.
Ian sospirò, più scoraggiato di prima. Vedere
Kyle
così agitato lo preoccupava, ma era lieto che cercasse di
mantenere
un contegno, anche se a modo tutto suo.
«Direi che non c'è
bisogno che ti sacrifichi, K, visto che hai appena riassunto
perfettamente gli eventi di oggi... Knight sarà
contento!» commentò
Tony, distraendosi momentaneamente dal suo acceso dialogo con
Pepper.
Fu ripreso dallo sguardo furibondo di quest'ultima, che
sembrava voler nascondere qualsiasi traccia di senso di colpa dal suo
volto. Dopo essersi offerta di partecipare attivamente al processo si
sentiva responsabile per le conseguenze. Certo, senza di lei
sarebbero colati a picco già da un pezzo, ma aveva tante di
quelle
cose da rimproverarsi da riuscire a malapena a tenerne il conto
e...
"Oh, al diavolo il senso di colpa," pensò infine,
stizzita.
Ne aveva passate troppe in quegli ultimi tempi e
riteneva del tutto giustificabile essere infuriata con Tony,
soprattutto se si ostinava a volersela prendere con chiunque come se
tutto ciò che aveva combinato in quegli ultimi mesi fosse in
qualche
modo giustificabile. Lo tirò per il colletto, costringendolo
a
guardarla di nuovo in faccia. Lui scrollò le spalle,
cercando di
liberarsi da quella stretta improvvisa e assolutamente inaspettata:
non era da Pepper alterarsi così e non ricordava di essere
mai stato
richiamato in modo fisico da lei. Quel gesto sembrò lasciare
un'impronta, una sensazione di disagio tangibile che si
annidò in lui, assieme a tutte le altre che si rimescolavano
nella
sua psiche già abbastanza disorientata. Percepì
infine quanto
profondamente fosse turbata e quanto lui, forse, avesse sottovalutato
la sua situazione.
«Si può sapere qual è
il suo
problema?» gli intimò, senza lasciare la presa
dalla stoffa.
Tony si rese
conto in ritardo di essere sobbalzato come a una scossa elettrica e
si affrettò a risponderle come se nulla fosse, aggiungendo
una buona
dose di sarcasmo nel suo tono:
«Oh, molti: le rispondo in ordine
cronologico o alfabetico?»
«Può mantenere un briciolo di
serietà, per una volta in vita
sua?»
Pepper ritrasse la mano
di scatto, come rendendosi conto di aver superato un limite, e Tony
si risistemò il colletto con fare seccato.
«Non ne vedo il
motivo,» ribatté, imperturbabile.
«Abbiamo praticamente perso la
causa, che senso ha "rimanere seri"? Avrebbe più senso
ubriacarsi, a questo punto,» continuò con
più veemenza, seriamente
tentato dall'idea.
«Lei ha perso la causa, signor Stark. Non
osi fare un bis dello scorso processo dando la colpa a chi
cerca di difenderla!»
Il suo sguardo corse a Kyle, che si stava
impegnando a fingere di non seguire la conversazione, che
però a quel punto
si rivolse a entrambi, chiaramente a disagio per essere stato tirato
in mezzo:
«Virginia, ti ringrazio per prendere le mie difese, ma
stavolta...»
Tony non lo fece concludere:
«Io non me la sto
prendendo con lui,» continuò a
fissare Pepper, senza la
minima traccia d'esitazione.
A quel punto Pepper non ci vide più,
ma al contrario di quanto Tony si aspettava – e forse sperava
–
non esplose in mille improperi furibondi. Il suo viso divenne
semplicemente una maschera glaciale, ogni lineamento solidificato in
un'espressione di pura ira, e fu come assistere al lento, quieto, ed
inesorabile sgretolarsi di un iceberg, pochi istanti prima che la
massa di ghiaccio impatti col mare sprigionando gigantesche colonne
d'acqua. Tony si rese conto solo allora di non aver mai visto Pepper veramente
arrabbiata. Si sarebbe volentieri risparmiato l'esperienza, ma era
un po' tardi per pensarci.
Era sempre tardi per pensarci.
«Come
si permette di dare la colpa a me dopo tutto
ciò che ho fatto
per aiutarla?» la sua voce era tanto calma e frigida da
risultare
innaturale.
Tony, al contrario, sentiva di nuovo montare quella
rabbia calda e irrefrenabile che ottenebrava completamente ogni suo
pensiero logico; voleva solo andare a casa, levarsi quei vestiti
asfissianti di dosso, ingollare una decina di pasticche per smaltire
la febbre, bere qualche litro d'acqua – magari anche
qualcos'altro
– e mettersi a dormire senza pensare a niente.
Invece era
bloccato lì su una maledetta sedia a rotelle, a discutere di
faccende inutili su un processo inutile
che riguardava
cose inutili. Trattenne la tentazione di prendersi
la testa
tra le mani, ma ne sentiva veramente il bisogno, almeno per illudersi
di poter contenere il magma di pensieri e timori che rischiava di
straripare dalla sua bocca.
Lo lasciò invece traboccare:
«È
lei che ha
deciso di voler testimoniare in modo del tutto
illogico!»
«Oh, immagino che sarebbe andato tutto a meraviglia,
se non l'avessi fatto!»
«Magari non sarei passato anche per
qualcuno che lascia allo sbando la sua azienda!»
«Perché, non è
quello che sta facendo?»
«È impazzita? Non riesco neanche a
camminare,
come pretende che presenzi alle riunioni delle
Stark...»
«Come pretende che io mi faccia carico di
tutti
i suoi problemi?»
«Io non ho preteso che lei si
esponesse al mio posto!» Tony inalò una boccata
d'aria, a corto
d'ossigeno e parole. «Ha idea di come mi sia sentito quando
si
è
offerta di testimoniare? O quando Knight l'ha accusata?»
aggiunse, in tono involontariamente
incrinato.
«Certo, dimenticavo che lei è sempre la vittima
della
situazione.»
«Non sarei la vittima, se lei avesse avuto più
autocontrollo e non fosse balzata in piedi offrendosi come
una martire...»
«Autocontrollo? Da che pulpito, detto da
qualcuno che dà sempre spettacolo per il gusto di farlo e va
a "concedere interviste"
a...»
«Non ricominci con quella storia! Le foto sono state
dichiarate false e la faccenda è chiusa!»
urlò Tony con
tutto il fiato che gli era rimasto, sentendo la testa che riprendeva
a pulsargli così violentemente che per un momento credette
di
perdere i sensi.
Rimasero a fronteggiarsi, entrambi rossi in volto
e furenti, ognuno barricato nella sua posizione, evidentemente senza
nient'altro da aggiungere che potesse sbloccare la situazione.
Kyle
e Ian si erano prudentemente defilati, risolvendosi ad aspettarli in
corridoio e lasciandoli soli nella saletta d'attesa.
Tony, da un
remoto angolo della sua coscienza ancora lucida, si chiese
perché si
stesse infuriando di nuovo con Pepper. Se l'era chiesto spesso,
ultimamente, e ogni volta si era convinto di quanto fosse insensato
farlo, sentendosi poi un essere infimo per quello che le stava
facendo passare. Adesso, invece, si sentì in minima parte
giustificato, quasi gratificato dal potersela prendere con qualcun
altro oltre se stesso e per giunta con un valido motivo.
Iniziò ad accusare quel silenzio pesante, ma si costrinse a
non
romperlo, nonostante volesse solo liberare quella marea di rabbia
inconsulta che continuava a riempirlo, incurante di quante volte
cercasse di darle sfogo e liberarsene. Stava per farlo, deciso a
infrangere tutto definitivamente, deciso a mettere un punto fermo a
quella sfilza di azioni insensate che l'aveva portato in quella
situazione, ma non vi riuscì. Improvvisamente,
così come era
salita, la marea si acquietò, lasciandogli una strana
sensazione di
vertigine e spossatezza che lo costrinse a chiudere l'occhio per
domare i capogiri e i puntini luminosi che avevano preso a
lampeggiargli davanti, oltre il velo di febbre.
«Tony?» la voce
di Pepper era ancora alterata, ma stavolta celava una nota di
preoccupazione che lo ferì più che se l'avesse
insultato.
Sentì
un peso gravargli sulle spalle e schiacciargli le parole in gola
mentre si costringeva a riaprire l'occhio, riprendendo a guardare la
donna con sguardo spento. Si rese conto che quel peso non sarebbe mai
scomparso, a dispetto di tutto ciò gli altri facevano per
lui. Come
diceva suo padre?
"Sei irrecuperabile", gli risuonò in
testa, anche a distanza di anni e anni.
Con tutta probabilità lo era
sempre stato e adesso lo era più che mai, oltre ad essere
guasto e
rotto e completamente a pezzi. Fissò Pepper che, invece,
oltre
quella patina di rabbia e delusione, ancora sperava di poterlo
aiutare in qualche modo, magari di aggiustarlo. Gli venne da sorridere
amaramente. Era
davvero stanco di continuare a illudere e deludere tutti.
Il suo
volto diventò grave e quando parlò fu a malapena
udibile, segno di
quanto gli costasse pronunciare quelle parole:
«Sto solo facendo
finta che vada tutto bene come al solito,» sbottò
con
frustrazione, ma la sua voce era esausta, priva della viva collera
che aveva provato fino a qualche secondo prima, e non riuscì
a
sostenere lo sguardo della donna per più di qualche istante.
Si sospinse verso l'uscita prima che potesse rispondere, ma colse di
sfuggita il suo volto attonito, coi limpidi occhi azzurri che lo
fissavano nel tentativo di capire appieno cosa le avesse appena
detto.
«Andiamocene. Sto soffocando, qua dentro,» si
limitò a
spronarla, raggiungendo infine Kyle e Ian, che parlottavano tra loro
con voce bassa e preoccupata.
L'avvocato scosse la testa nel
vederlo, ma evitò di commentare.
«Muoviamoci,» sospirò
semplicemente, dirigendosi verso l'uscita del tribunale.
In quel
momento, come se lo stesse aspettando, gli passò accanto
Knight, che
dopo avergli rivolto uno sguardo pungente accompagnato da un
sorrisetto provocatorio lo superò rapidamente.
«Fai fatica a
camminare, Kyle?» commentò, quando era
già lontano.
«Mai
quanto te, Julien,» ribattè prontamente il
ragazzo, mentre un
sorriso un po' perfido si disegnava sul suo volto.
Knight si voltò
appena, ogni traccia di compiacimento scomparsa dal suo volto, e
affrettò il passo.
Ian diede un colpetto soddisfatto sulla spalla
di Kyle, aiutandolo a raggiungere l'uscita.
***
3
Aprile, 15:40, Villa Stark
Le
file di bottiglie allineate nel minibar sembravano disposte
sull'attenti davanti al suo sguardo indagatore, e rilucevano alla fioca
luce della lampadina. Due compatte casse di birra in
lattina occupavano il piano inferiore, quasi troppo strette in quello
spazio ridotto. Non ricordava di avere così tanti alcolici
in casa,
ma forse dipendeva dal fatto che non doveva aver bevuto più
di una
bottiglia di birra nel corso degli ultimi sei mesi. Anche una
lattina, ora che ricordava, che era poi stata ridotta a un ammasso
informe di alluminio.
«Sta intrattenendo una conversazione con le
uova, signor Stark?» lo raggiunse la voce di Pepper,
palesemente
seccata dal fatto che Tony si fosse allontanato senza una parola non
appena messo piede in casa, quando avevano tacitamente stabilito di
"dover parlare", di nuovo.
I suoi sforzi per mantenere
la calma erano ammirevoli. Fu facile vanificarli in meno di mezza
frase:
«No, ma la birra sta cercando di dirmi qualcosa. La porto
di là con me così ci confrontiamo
meglio,» rispose pacato,
afferrando una bottiglia e stappandola noncurante col pollice
metallico.
Notevole: avrebbe potuto fare a meno di
un'apribottiglie per il resto della vita. Dopotutto qualche lato
positivo c'era. In fondo alla bottiglia, forse.
Tracannò con
sollievo un sorso di birra e si stupì di aver quasi
dimenticato il
suo sapore in tutto quel tempo. Quando la abbassò,
scoprì che ne
era rimasta meno di metà, così la
finì, ne prese un'altra dal
frigo e si diresse in salone, dove Pepper, da quel poco che aveva
registrato, aveva minacciato di staccare la corrente all'intera casa,
laboratorio incluso, se avesse provato a toccare una goccia
d'alcol.
Non aveva colto il resto del suo monologo, ma era certo
includesse un'altra decina di divieti e altrettante "punizioni".
Bevve con stizza un altro sorso, già iniziando ad accusare
l'alcol che stava ingollando così velocemente a stomaco
vuoto. Ma non aveva più tredici anni ed era stanco di essere
trattato come tale: poteva bere tutta la birra che voleva senza paura
di una tirata d'orecchie. E poi voleva davvero darle altri ottimi
motivi per farla rinunciare a quella missione di salvataggio che si era
autoimposta. Magari così avrebbe finalmente
capito
quanto fosse "irrecuperabile".
Entrò nel salone
con passo svogliato, per quanto gli concedessero le stampelle,
fingendo di non vedere Pepper che lo fissava invece con espressione
impaziente, che si tramutò in furia pura quando
notò la bottiglia
che teneva in mano.
«Tony. Ha ascoltato una singola parola
di quello che ho detto?» sillabò, incrociando le
braccia in un
sospiro.
Lui finse di pensarci su, poi rispose con un'alzata di
spalle:
«Ho colto il senso generale: bere fa tanto male e non me
lo permetterà. Ma lo farò lo stesso... Altro,
"mamma"?»
Pepper
sgranò appena gli occhi, incredula per quelle parole intrise
di una
fredda insolenza che non gli aveva mai sentito usare. Fece per
parlare, con la netta impressione che la loro "sessione-chiarimenti"
fosse appena andata a monte, ma Tony la anticipò,
sovrastandola:
«Comunque, ho convocato la stampa. Per...» si
fermò. «per mostrare il vero
me
stesso.»
Pepper ci mise
più di qualche secondo per realizzare ciò che
aveva appena detto, e
quando finalmente riuscì ad articolare una risposta, fu in
tono
assolutamente sgomento:
«Lei ha fatto cosa?»
«Magari
non sto messo troppo bene fisicamente, ma mi sembra di parlare ancora
la sua lingua, signorina Potts: ho convocato la
stampa,»
ripeté, scandendo con ostentata lentezza quelle parole.
«E non ho
intenzione di ritornare sulla mia decisione. Mi accusavano di
"isolamento volontario"? Bene, quell'isolamento finisce
oggi,» concluse, attaccandosi di nuovo
alla bottiglia e
sprofondando nella sua poltrona in un gesto esausto, con la protesi
inferiore
distesa sul poggiapiedi.
«Se intende dare spettacolo ci sta
riuscendo benissimo anche ora. Spero solo che questo non sia il vero
se stesso,» gli fece notare pungente lei.
Tony scoppiò a ridere
del tutto a sproposito. Il rossore sulle sue guance non prometteva
nulla di buono.
«Mi spiace deluderla sempre, dev'essere di
famiglia,»
disse con voce impastata, poggiando la bottiglia di birra
rigorosamente vuota sul portabevande.
«Io esco,» annunciò
Pepper. «Credo di dover sedare una rivolta in corso alle
Stark
Industries, esplosa per colpa sua,» sottolineò
accusatoria.
«E
la stampa? Non mi fa compagnia?» chiese Tony, che si era
appena rialzato e
stava frugando attentamente nell'armadietto degli alcolici, pescando
infine una bottiglia di whiskey.
«Non è un mio problema se è
impazzito.»
«Non sono impazzito... esprimo me stesso. Magari tra
i giornalisti trovo qualcuno disposto ad ascoltarmi,»
commentò
acido, scoccandole uno sguardo astioso.
Pepper lanciò un'occhiata
eloquente alla bottiglia ancora per poco piena, esentandosi dal
rispondergli a tono.
«Benissimo. Conferenza stampa tra un'ora, signor Stark.
Buona fortuna.»
***
3
Aprile, 16:45, Villa Stark
Li
odiava tutti! Perché erano in casa sua? Ah, sì...
li aveva invitati
lui: dieci bottiglie di birra prima.
L'alcol stava per finire, o almeno quello
consumabile. E questo lo irritava ancora di più. Da qualche
parte
doveva esserci il cherosene per il suo aereo che avrebbe potuto
sostituire la penuria di alcolici.
Era sicuro che, sempre dieci
bottiglie prima, fosse riuscito ad articolare un discorso quasi
coerente
riguardo all'insensato accanimento del governo nei suoi confronti,
alle conseguenze disastrose che comportava l'assenza di Iron Man per
la sicurezza mondiale e al fatto che le sue protesi fossero
innocue. Tra la quarta e la quinta bottiglia aveva perso il filo e
si era trovato a parlare della chiara impotenza fisica e mentale di
Justin Hammer, passando per insulti più o meno espliciti al
Senatore
e a Knight, finendo poi col raccontare in tono melodrammatico il
voltafaccia di Rhodey. Poi era arrivato lo scotch e la cosa era
degenerata in una lagna da sbronza triste. Aveva totalmente
rinunciato a ritrovare un filo logico ormai perso tra i flussi
dell'alcol, rassegnandosi semplicemente a dar fiato alla bocca senza
più preoccuparsi di ciò che diceva.
«Signor Stark, a cosa si
deve questo suo improvviso ripensamento riguardo al non voler
rilasciare dichiarazioni?»
«Dovreste chiederlo al mio
subconscio, ma dubito che anche lui abbia delle risposte...»
biascicò prima di riattaccarsi spudoratamente alla
bottiglia.
«Signor Stark! Cosa può dirci delle sue protesi
biomeccaniche?»
«Ci vivo e convivo,» rispose lapidario.
«Stark,
quando ha intenzione di rivestire il ruolo di Iron Man?»
«Oh...
ho appeso l'armatura al chiodo.»
«Può volare con le sue
protesi?»
Tony ci pensò un po' sopra, lo sguardo annebbiato
dall'alcol:
«No. Ma ho le palle d'acciaio, baby!»
«Ha
qualche missione incombente che dovrebbe svolgere?»
«Tipo andare
in bagno?» rispose Tony, suscitando il riso tra i giornalisti
che in
realtà si sentivano abbastanza nervosi, considerando che
avevano
davanti un "supereroe" in grado di incrinare il vetro del
tavolo con una semplice pressione delle dita meccaniche. «No,
sul
serio, devo andare in bagno. Ma resisterò solo per
voi.»
"Dovrei
mettere un filtro all'armatura," pensò di sfuggita tra una
domanda e tre bicchieri di qualcosa che ormai aveva perso qualsiasi
sapore nella sua bocca insensibile.
«Ma lasciate che vi parli di
quel gran figo con la benda che si diverte a fare il despota con
me...» esordì, con un sorrisetto alticcio e una
vena di perfidia.
***
3
Aprile, 17:00, Helicarrier
Lo
schermo di controllo si spense con un sibilo al gesto stizzito di
Fury.
Il comandante della SHIELD si voltò verso la vetrata,
lasciando spaziare lo sguardo sulle nuvole, sulle quali viaggiava
silenziosa la portaerei volante.
"Quel gran figo con la
benda, eh?"
Lo avrebbe ammazzato con le sue stesse mani un
giorno di quelli...
«Agente, trovi un modo per risolvere
quest'altro macello, prima che mi salti anche
l'altro occhio.»
«Subito. Uso le maniere forti?»
«Le
più forti che abbiamo.»
__________________________________________________________________________________________________________________
Revisione effettuata il 03/03/2018
Note Delle Autrici:
Questo voleva essere un regalo di Natale ma... non ci è riuscito. Può essere un buon augurio per il nuovo anno, però... Augurio de che, non è dato sapere, viste le condizioni di Tony. Ma comunque!
Buon Natale (in ritardo) e Felice Anno Nuovo (visto che prima che aggiorniamo... uuuh! Sarà già il 2014! Quindi sono gli auguri per l'anno prossimo ancora u.u)
Dopo questi convenevoli.
Siamo consapevoli di essere abomini del genere umano per pubblicare così alla, perdonateci il francesismo, cazzo di cane, ma tra la fine della scuola, le vacanze e, prima, lo studio immane, non abbiamo avuto un minuto per scrivere. Ma siete sempre nei nostri cuori <3 (T: non nel mio *brontola*)
E insomma... questo capitolo. Beh, getta le basi per il prossimo, no? Perché sì, dal prossimo si rientra nel vivo. Lo sappiamo, abbiamo un po' trascinato quest'ultima parte della FF, ma considerate tutte le faccende legali e tecniche da risolvere, abbiamo svolto tutto anche troppo in fretta (vi siete salvati :D), ma adesso la fase di transizione è finita e prossimi capitoli... beh, BOOM! u.u
Sì, ci divertiremo tanto: ci sarà un po' (tanta) d'azione e tanto angst/fluff :3
Mentre Light lascia un polmone sulla tastiera [L: zto balissimo ç_ç] ringraziamo i prodi che sono arrivati fin qui senza rimanerci secchi, cioè chi ha aggiunto la storia tra le preferite/ricordate/seguite, chi ha recensito e chi ha semplicemente letto, in particolare: Rogue92, MissysP, Julyet_M, Sherlock_Watson, The_best_who_sing, DigiGaia, julialicious e Alley :)
Grazie a tutte e alla prossima (si spera in tempi umani)
BUONE FESTE!
Moon&Light
© Marvel
|
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Capitolo 25 *** Your bridges are burning down ***
24
Your
bridges are burning down
"You
used to say I
couldn't save you enough,
So I've been saving it up, I started
saving it up.
And when you said I couldn't give you enough,
I
started giving you up, I started giving you up."
[Arlandria
– Foo Fighters]
3
Aprile, 18:30, Villa Stark
Non
ricordava l'ultima volta che era salito sulle montagne russe,
ma il
suo stomaco pareva ricordarlo invece piuttosto bene e aveva deciso
di rinfrescargli la memoria in quel preciso momento. Momento in cui
il giornalista davanti a lui stava cautamente domandando quali
fossero gli effetti collaterali delle protesi. Giornalista dalla
giacca orribile, tra le altre cose, dal verde smorto.
"Sembra
color palude, color vom–..."
Tony si tappò la bocca e
sussultò in un conato, riuscendo a malapena a trattenerlo.
Il
giornalista si ritrasse di scatto, togliendosi dalla sua traiettoria
e rinunciando ad avere risposta. Un'altra giornalista, più
temeraria, si fece avanti, scrutando preoccupata una bottiglia vuota
di birra che ondeggiava ai suoi piedi prima di porre l'ennesima,
infida domanda. Tony sollevò appena lo sguardo dal piano del
tavolo, che aveva continuato a fissare come in trance, sfiorandone la
superficie lucida con un dito.
Quello che vide non risollevò il
suo umore.
Biondo. Capelli biondi.
Christine.
Preferiva
il verde vomito.
«Tony,» esordì,
con voce
dolce quanto una vipera pronta a morderlo, «confermeresti una
voce
che gira da molto tempo nel... nostro ambiente?»
L'uomo la
trapassò con l'unico occhio annebbiato dall'alcol, ma ancora
abbastanza
lucido da riconoscere una domanda a trabocchetto e da aver presente
di chi era la colpa, o almeno parte di essa, se lui aveva dato fondo
alla riserva d'alcol.
«Dipende,» rispose
secco, improvvisamente più saldo sulle gambe e nei pensieri
al
ricordo del loro ultimo "incontro".
Si costrinse a
rimanere guardingo. Avrebbe potuto rovinarla con poche, semplici
parole, ma era un'arma a doppio taglio. Non aveva alcuna voglia di
sputtanare in diretta la sua vita sessuale complicata da moncherini e
protesi. Si chiese remotamente se non lo stesse mettendo alla
prova, nella speranza che si facesse scappare qualcosa in preda
all'ebbrezza, così da poter spiattellare la sua performance
scadente
sulla copertina di Vanity
Fair.
Si chiese anche, con orrore, se per caso non avesse scattato altre
foto a sua insaputa, potenzialmente più compromettenti di
una cucina distrutta. Si costrinse a concentrarsi sull'attuale
domanda della donna, già abbastanza difficile da comprendere
senza
aggiungerci le sue elucubrazioni.
«È vero che il suo avvocato,
Kyle Andrews, nonostante le sue condizioni,»
puntualizzò perfida, «intrattiene rapporti intimi
con la sua
amministratrice delegata, Virginia Potts?»
Tony fissò il vuoto.
Scosse appena la testa, poi comprese quello che aveva appena sentito
e si sollevò di scatto.
«Cosa? K?! Allora mi ha
mentito!»
Christine fece un balzo indietro, ma era segretamente
compiaciuta e insistette:
«Allora è vero? Andrews e
Potts?»
Nella mente di Tony veleggiò un pensiero coerente:
"Io
indagherei piuttosto su Knight..."
«Non è vero. Ma se è
vero lo ammazzo,» biascicò, bevendo un sorso di
liquore e
scombinando le poche sinapsi che ancora non erano affogate
nell'alcol.
Il debole freno inibitore che gli aveva impedito di
proferire troppe idiozie cedette:
«E visto che siamo in tema, spero
che Knight l'abbia pagata bene per il suo servizio, "Miss
Brown",» le sibilò,
badando bene a tenersi fuori dalla portata degli altri
microfoni.
L'occhiata sprezzante e allo stesso tempo compiaciuta
di Christine fu una risposta sufficiente e Tony si ritrovò a
contrarre il pugno, prima che lei si defilasse prudentemente.
«Signor
Stark, potrebbe rispondere a qualche...» una scarica di flash
lo
accecò.
Ne aveva abbastanza. Si alzò incerto, facendo leva
sul tavolo per non poggiarsi sulla protesi inferiore già
dolorante e
gesticolò imperioso con la mano, come a volerli spazzar via.
Il
tutto risultò in un ondeggiare piuttosto debole e instabile.
Troppo
instabile. Si sbilanciò in avanti e sbatté sul
tavolo con le
gambe; ritrovò
l'equilibrio scattando indietro, ma atterrò poco
decorosamente...
"... culo a terra. Grandioso. Sono rovinato.
Lo ero anche prima. Pepper mi ucciderà lo stesso. Ma prima
spero
risolverà questo casino..." pensò sconclusionato.
E Pepper
apparve davvero, non seppe se per grazia o per punizione divina.
Ora
poteva svenire in pace.
***
Fu
svegliato dalle penetranti esplosioni che rimbombavano nel
pavimento.
Socchiuse gli occhi e si rese conto che il mondo aveva
un'angolazione innaturale. Da quando i tavoli crescevano sulle
pareti?
Scacciò la nebbiolina che aleggiava nella sua visuale con
un battito di palpebre; fu allora che percepì la sua guancia
contro
la superficie gelata del pavimento e sospirò sollevato.
Almeno il
campo gravitazionale funzionava ancora. Lo stesso non si poteva
dire delle sue gambe, ridotte a una massa gelatinosa abbandonata dietro
di lui.
Tentò di rialzarsi, o anche solo di muoversi... di
strisciare, ma il
peso della protesi posteriore sembrava inamovibile.
Rialzò la
testa, facendo sì che il salotto turbinasse attorno a lui
come un
ciclone attorno al suo occhio: pessima mossa.
Almeno ora era in
grado di associare le "esplosioni" di poco prima ai tacchi
di Pepper che viaggiavano avanti e indietro per la stanza a pochi metri
dal suo naso. Quando provò a chiamarla l'unico suono
che riuscì a produrre la sua lingua intorpidita fu un
mugugno
inarticolato, che però ebbe il potere di spostare gli occhi
gelidi
della donna su di lui. Non lo degnò di una parola e
passò
oltre.
Tony intravide qualcosa stretto tra le sue braccia, che
identificò vagamente come dei vestiti. Si sollevò
sui gomiti,
acquistando qualche metro di visuale. Una valigia e una borsa da
viaggio erano poggiate sul divano, la prima chiusa e apparentemente
piena, l'altra ancora semivuota e aperta. Ci mise un po' a mettere
in linea i pensieri e a connetterli alla bocca:
«Chi si
trasferisce da noi?» articolò a fatica, mettendosi
carponi con la
protesi distesa, concludendo che quello era il massimo grado evolutivo
che poteva raggiungere in quel momento senza mettersi a
urlare per la piaga che gli infiammava la gamba destra.
Non
ricevette alcuna risposta.
In uno sprazzo di energia improvvisa
tentò di rialzarsi in piedi, troppo velocemente per la sua
testa
annacquata. Ma dov'erano le sue maledette stampelle? Non
riuscendo a individuarle nel raggio di dieci metri, fu costretto ad
appoggiarsi al muro, facendovi leva per riportarsi in posizione
più o meno eretta, con la testa che vorticava inarrestabile.
La luce era
abbastanza tenue, ma bastava ad accecare la sua retina ancora
funzionante ma resa fotosensibile dall'alcol, e ad inviargli le fitte
di
una nascente emicrania. Si portò la mano alla fronte, come
se
così potesse impedire alla sua testa di continuare a cadere.
Non
ottenendo risultati concreti la prese tra entrambe le mani,
cercando almeno
di farla smettere di girare e accasciandosi completamente contro il
muro. Cercò di non pesare sulla protesi, ma quella
continuava a dolergli al minimo movimento.
Pepper gli passò di nuovo davanti, stipò
nella borsa una bracciata di vestiti con un gesto stizzito, senza
perdere un briciolo della sua solita compostezza, e chiuse di scatto
la zip.
«Pepper? Dove vai?» la richiamò, un po'
troppo
bruscamente.
La donna si girò appena verso di lui.
«Ho
bisogno di un po' d'aria pulita,»
dichiarò rigidamente,
scandendo bene le parole, e
lui non comprese se per farsi capire da qualcuno nelle sue
"condizioni" o semplicemente per non gridargli in
faccia.
Un'inspiegabile ondata di rabbia lo scaldò dalla testa ai
piedi, scacciando momentaneamente il senso di
stordimento.
«Prego?»
Pepper si mise in spalla la borsa senza
fornire ulteriori spiegazioni e trasferì i bagagli accanto
alla
porta. Tony fece lo stesso, rasentando i muri col palmo sano per non
cadere.
«Non
mi ignorare,» aggiunse in tono irritato e più alto
del
necessario.
«Lei lo ha fatto per fin troppo tempo,»
replicò
freddamente lei.
«Non ignorarmi, ho detto,»
ripeté Tony a voce più alta, dando un lieve colpo
al muro
senza neanche
rendersene conto.
Pepper sussultò nel sentire lo schianto di un
quadro che cadeva a terra e andava in mille pezzi. La protesi di Tony
aveva sbriciolato l'intonaco, che si sgretolava lentamente ai suoi
piedi in un picchiettio sommesso. L'uomo sembrò rendersi
conto di
quel che aveva fatto e si allontanò appena dal muro,
scrollandosi la
polvere dalla mano metallica e fissando allibito le schegge di vetro
che costellavano il pavimento tra loro.
La donna prese
definitivamente i bagagli e aprì la porta, dopo aver
lanciato uno
disgustato a lui e a tutto ciò che lo circondava. Tony si
sentì
improvvisamente accaldato, non sapeva se per la vergogna o per la
rabbia.
«Me ne vado. Non mi aspetti per un po',»
dichiarò lei
risoluta, facendo per mettersi la giacca.
Anche Tony fu risoluto,
forse troppo: ancora un po' ondeggiante, cercò di
trattenerla per il
braccio, usando istintivamente la destra; riuscì ad
afferrarla, ma
lasciò subito la presa sentendola sussultare e trattenere
bruscamente il fiato. Dove si era posata la sua mano, poco sopra
il gomito, il calco esatto della sua mano era impresso sulla sua
pelle lattea in un rosso acceso. Lui la fissò attonito,
ritraendosi come se si fosse scottato, in cerca di parole che non
esistevano. Fissò il proprio palmo metallico, poi di nuovo
la pelle arrossata di Pepper senza riuscire a connettere le due cose,
boccheggiando ancora a vuoto nel tentativo di cpaire cosa fosse appena
successo.
L'ultimo sguardo che gli rivolse Pepper lo gelò fino
alle ossa e si sentì rimpicciolire. Per un attimo, fu di
nuovo di
fronte a suo padre che lo guardava con occhi colmi di
delusione. L'attimo dopo la porta di casa sbatté con forza
di fronte a
lui,
inghiottendo la sagoma della donna, mentre la sua mano si tendeva di
nuovo verso di lei in un gesto inutile.
Strinse il pugno meccanico e lo
lasciò ricadere lentamente, sentendosi stordito.
Individuò
finalmente le sue stampelle, a pochi metri da lui. Le
ignorò
e raggiunse barcollante il salone, aggrappandosi a ciò che
trovava
in giro senza curarsi di romperlo o rovesciarlo; si poggiò
infine sul tavolo come
se stesse studiando uno dei suoi progetti sul vetro lucido, mentre
il suo sguardo era
in realtà catturato dai riflessi sulla bottiglia di whiskey.
La
sollevò e ne bevve distrattamente un sorso, sentendo il
liquido che
bruciava la sua gola contratta.
Non riusciva ancora a dare un
senso alle immagini che si accapigliavano nell sua mente, e sentiva un
bruciore crescente nel petto che nulla aveva a che fare con
l'alcol.
Intravide il proprio riflesso nel vetro e serrò
l'occhio.
Poi rovesciò il tavolo a terra e urlò.
***
Non
gli capitava spesso di essere mandato in missione. Non che fosse un
tipo particolarmente attivo, dopotutto: preferiva di gran lunga la
tranquillità del suo laboratorio sull'Helicarrier al lavoro
sul
campo.
Cercò di convincersi che un po' di moto gli avrebbe fatto
bene: era un periodo che allo SHIELD si respirava un'aria fin troppo
rilassata, e gli unici che potevano vantarsi di fare qualcosa di
utile – e pericoloso, come ci tenevano a sottolineare
– erano gli
Agenti Barton e Romanov. Thor era momentaneamente irreperibile,
probabilmente disperso in qualche piega spazio-temporale dell'universo
e impegnato a battibeccare col fratello; Steve cercava ancora di
abituarsi al XXI secolo e di capire il funzionamento di uno
smartphone; lui era impegnato nei suoi progetti e Coulson per una
volta dormiva sonni tranquilli con la sua violoncellista delegando ad
altri il lavoro sporco.
In quel
clima così pacifico Tony... beh, Tony dava il meglio di
sé, come al
solito.
E l'unico a farsi saltare i nervi invece di chiudere anche
l'occhio buono era stato ovviamente Fury, che a quanto pareva si
rodeva il fegato per l'assenza di Iron Man, ma allo stesso tempo si
sarebbe mangiato la benda piuttosto che ammetterlo. Quella mattina
aveva sopportato l'ultima goccia, dando
infine in escandescenze e mandando qualcuno a ripulire i cocci.
Qualcuno che,
in quel momento, avrebbe volentieri barattato metà delle sue
ricerche e della sua materia grigia – e verde, soprattutto
–
piuttosto che trovarsi lì.
Bruce sospirò nel guardare la villa
arroccata sulla scogliera, enorme, sontuosa e desolata. Si era sempre
chiesto cosa se ne facesse Tony di tutto quello spazio, escludendo le
sue feste megagalattiche. Si fece forza e scese dall'auto, non del
tutto sicuro che il detto "ambasciator non porta pena"
avrebbe funzionato, quella volta.
Era a meno di venti metri dal portone della villa e stava
per entrare nel patio quando fu quasi travolto da Pepper, che
sbucò da dietro un'aiuola piombandogli addosso
mentre si fiondava fuori dal cortile, diretta alla
sua auto e ingombrata da una borsa da viaggio. La trattenne d'istinto,
impedendo che ruzzolassero
entrambi a terra sul patio, e percepì con
fastidio il cuore
che accelerava appena i battiti per la sorpresa... ma non sarebbe
sicuramente esploso per un incidente simile. Piuttosto, era
preoccupato per la faccia paonazza di Pepper e per i suoi occhi
lucidi. Fece per parlare, ma lei lo precedette, riprendendosi in modo
straordinariamente rapido dalla sorpresa di trovarlo lì, e
dal modo in cui parlò capì che sarebbe stato un
miracolo se avesse trovato
Tony
vivo:
«Non chiedere. Non chiedere nulla. Lasciami andare,»
disse forzata e con un evidente tremito
nella voce, non
sapeva dire se di rabbia o pianto.
«Virginia, sei sconvolta, non
posso lasciarti andare via in queste condizioni e...» le
aveva posto
delicatamente le mani sulle braccia nel tentativo di calmarla, ma lei
sussultò
all'improvviso al solo contatto e Bruce s'interruppe.
Notò solo
allora la chiazza rossastra sul braccio della donna, sul quale era
ben intuibile il contorno di una mano.
Non chiese. Non chiese
nulla. Ma si accigliò così tanto che i suoi occhi
parvero
scomparire e lasciare già spazio a quelli verdastri e
torbidi di Hulk.
Sentiva la sua delusione che si mischiava inesorabile alla rabbia, e
seppe distintamente quanto ancora ci sarebbe voluto per farlo
arrabbiare sul serio. La scostò con gentile fermezza e
riprese ad
avviarsi verso l'ingresso.
«Trovi la mia macchina all'ingresso. Aspettami lì,
non ci metterò
molto,» aggiunse,
girandosi appena.
Era quasi certo che, data la situazione, Pepper
avrebbe potuto stabilirsi allo SHIELD, e qualcosa gli diceva che era
meglio tenere sotto controllo anche lei, oltre a Tony. Pepper lo
fissò incerta per un attimo, poi annuì. Poi la
sua espressione
s'indurì e assunse una piega cupa che stonava completamente
con il
suo modo di fare sempre cortese e pacato.
«Gridagli contro, picchialo,
fagli male: non m'interessa come, ma fallo tornare in
sé,»
disse con voce appena udibile, prima di
voltargli le
spalle e allontanarsi a passo svelto.
***
Fu
accolto dal rumore del vetro che si infrangeva, seguito da uno
schianto fragoroso che gli ferì le orecchie.
Resistette
all'impulso di correre: il suo autocontrollo era già
sufficientemente messo alla prova così e gli sarebbe
dispiaciuto
ridurre Tony in poltiglia prima di averci perlomeno parlato.
Superò l'atrio ed entrò
nel salone, aspettandosi di trovarlo devastato. In realtà
era in
condizioni migliori di quanto si aspettasse – personalmente,
aveva
combinato di peggio. Certo, i frammenti del tavolino di vetro erano
sparsi per tutta la stanza e i suoi miseri resti giacevano a gambe
all'aria addossati al muro come una balena arenata, c'erano ben pochi
soprammobili rimasti integri e il divano candido era macchiato da
quello che doveva essere alcol, ma... sì, si aspettava di
peggio.
Almeno i muri erano ancora in piedi, per ora.
Si rese conto
solo ora che mancava qualcosa, o meglio qualcuno: l'autore di quel
disastro.
Dov'era finito Tony?
Bruce avanzò cautamente fino
al centro del salone, chiedendosi dove potesse essere sparito in
così
poco tempo, considerando le sue scarse capacità motorie al
momento. Fortunatamente gli risparmiò la fatica di farsi
cercare,
perché la sua voce risuonò proprio dietro di lui.
Non riuscì ad
afferare subito le parole, per quanto erano roche e impastate
dall'alcol e dalla rabbia. Si girò sforzandosi di rimanere
calmo, per il proprio bene e, soprattutto, per quello dlel'amico.
Tony era
addossato al muro, il viso spalmato sulla superficie liscia che
sembrava dargli un qualche tipo di sollievo, a giudicare dalla sua
espressione sofferente. Indossava ancora la sua appariscente camicia
bordeaux, con le maniche arrotolate fino ai gomiti e la
cravatta dorata che pendeva mezza sciolta dal colletto.
Le protesi erano ben visibili, e fu allora
che comprese che quella sofferenza era provocata da quella alla
gamba, visto come si arpionava il moncherino con la sinistra:
riusciva a malapena a stare in piedi e non riuscì a
immaginare
quanto male dovesse fargli e quanto dovesse essere fuori di
sé per non
essersene accorto mentre metteva a soqquadro la casa. Il suo occhio
era appannato, non sapeva dire se per la sbronza o il dolore, ma la
sua iride appariva più scura del solito, quasi minacciosa.
La benda
sullo sfregio si era quasi scollata, lasciando intravedere la ferita
sottostante ancora fresca.
Tony dovette capire di aver parlato in
modo incomprensibile, perché si schiarì la gola,
deglutì con
evidente sforzo e ripeté cercando di articolare meglio le
parole:
«Ti manda Pepper?»
La rabbia di Bruce si attenuò un
poco. Non capiva se la domanda di Tony fosse piena di speranza o di
angoscia, ma provò comunque una sorta di compassione nel
sentirlo
parlare a quel modo. Non riusciva più a scorgere, sotto
quegli
strati di rabbia e rassegnazione, l'amico, forse l'unico, che
aveva. Era rimasto in silenzio per più di quanto volesse e
il
miliardario sembrava non rendersene del tutto conto, ma continuava a
guardarlo con espressione un po' vitrea, in attesa di una
risposta.
Bruce si avvicinò di un passo.
«Mi manda lo SHIELD,»
disse cautamente, osservando il suo volto con preoccupazione.
La
sua unica reazione degna di nota fu alzare le sopracciglia con fare
derisiorio.
«Hanno deciso di togliermi di mezzo, finalmente? Era
ora...» accennò
una risata stentata che si
spense subito nel silenzio dell'atrio.
Prima che Bruce potesse
controbattere, riprese a parlare con più foga, trovando la
forza di
staccarsi dal muro e tenersi in equilibrio precario sulle sue gambe
malconce, con una mano ancora piantata contro la parete a fargli da
sostegno.
«Mi stupisce che abbiano mandato te. Devono proprio
volermi morto, lassù.»
Aveva parlato in tono leggero, ma la sua
voce era rotta e tremante, come se avesse il petto pieno di qualcosa
che gli impedisse di respirare. Era impotenza, e frustrazione, e
dolore,
e rimpianto, e rancore, il tutto pressato e trasformatosi in collera,
racchiusa nel suo corpo che sembrava diventato troppo piccolo e fragile
per contenerla. A Bruce bastò un'occhiata ai brividi che lo
scuotevano per capire che era sul punto di esplodere. E lo capiva fin
troppo bene.
Si sentì terribilmente meschino quando pronunciò
le
parole che sapeva avrebbero acceso la sua miccia:
«Sei
arrabbiato?»
La domanda sembrò rimanere sospesa nell'aria, quasi
come una minaccia.
Tony si ripiegò su se stesso e ondeggiò,
improvvisamente instabile. Chinò la testa e le sue spalle si
alzarono e si abbassarono in un sospiro profondo, per poi precipitare
in un rantolo affannato. Rialzò di scatto la testa, l'occhio
lucido e il volto deformato dal dolore. Tutto quello che vide
Bruce fu un uomo sul punto di cadere in pezzi.
«Sono
disperatamente
arrabbiato!» gridò Tony con voce roca,
indietreggiando per poggiarsi
con la schiena al muro, come sbalzato via dalla sua stessa ira.
Si prese la testa
tra le mani e si accasciò per terra, svuotato di ogni
energia. Bruce incrociò le
braccia con fare noncurante e un cipiglio torvo riapparve sul suo
volto nel ripensare a Pepper.
«Bene. Perché io lo sono di
più,» annunciò,
dirigendosi ad ampie falcate verso di lui, con una sfumatura verdognola
che iniziava a delinearsi sulla sua pelle.
Si costrinse a tenere a
bada la bestia: doveva prima far recuperare a Tony un briciolo di
lucidità con le buone. Fargli raggiungere il bagno gli
sembrava un buon inizio, alla ramanzina avrebbe pensato in seguito.
Tony vanificò i suoi propositi pacifici:
spinto da chissà quale impeto, forse sentendosi minacciato
dal suo
incedere minaccioso, si risollevò di scatto e si
scagliò contro di lui, cogliendolo
del tutto
alla sprovvista. Gli assestò un pugno con la protesi che lui
parò
d'istinto, sbarrando gli occhi nel percepire la forza imprevista del
colpo.
Qualcosa scattò in lui, troppo rapidamente perché
riuscisse a
controllarla, non in uno stato già così alterato.
I suoi vestiti si tesero all'istante sopra la sua pelle che andava via
via
inspessendosi, sempre più verde, per poi strapparsi con un
rumore secco di
stoffa lacerata. Le sue scarpe cedettero sotto alla pressione dei piedi
diventati enormi e il
pavimento cominciò a sgretolarsi con secchi scricchiolii,
formando
dei bassi crateri. Il soffitto, per quanto fosse particolarmente
alto, si trovò fin troppo vicino alla sua testa e sarebbe
bastato un salto
o anche solo alzare un braccio per toccarlo e mandarlo in pezzi. Un
ruggito profondo scosse le mura della villa, riverberando nell'aria
ferma.
Dietro gli occhi neri di Hulk si poteva appena scorgere la
coscienza rimasta lucida e razionale del dottor Banner, per ora
sopraffatta e
messa da parte dalla rabbia incontrollabile che Tony aveva appena
fatto esplodere.
Intanto l'"artificiere", aveva ritratto
il braccio ma era rimasto immobile, spalle al muro, probabilmente in
attesa che
l'amico verdastro lo scagliasse fuori dalla finestra frantumando
ciò
che era rimasto di lui.
***
Tony
si scoprì indifferente alla minaccia verde e potenzialmente
mortale
che gli si era appena scatenata davanti. Non provava paura: si
sentiva naufrago in un mare di apatia e non scorgeva nulla
di salvifico all'orizzonte; anzi sperava che non accadesse
più
nulla. Aveva un
disperato bisogno di mettere un punto fermo a quella giornata, e far
infuriare Hulk gli era sembrato un ottimo modo per ottenere
ciò che
voleva.
Soltanto quando Hulk lo afferrò nella sua mano gigantesca
spremendogli l'aria dai polmoni e la morsa ferrea intorno a lui
iniziò a stringere quasi oltre il limite di sopportazione
delle sue
costole cominciò ad avvertire il terrore. Il dolore non lo
aveva mai
torturato a tal punto, non quanto stava facendo Hulk in quel momento,
probabilmente in modo involontario e anche trattenuto;
avvertì la protesi del
braccio
che si deformava sotto la stretta impossibile da allentare.
Quando
i polmoni furono sul punto di collassare, il verde scuro della mano
decisa a sbriciolarlo sembrò schiarirsi, come obbedendo a un
comando
imperioso. Hulk lo lasciò andare e Tony cadde a terra
schiacciato
dal suo stesso peso, insostenibile per la giuntura della protesi che
gli inviava continue e strazianti stilettate lungo l'arto inferiore.
L'aria ritornò nei suoi polmoni troppo bruscamente,
presentandosi
come una maledizione nonostante il desiderio di respirare.
Hulk
indietreggiò, sempre meno verde e sempre più
Bruce. La statura
diminuiva, i muscoli tesi si rilassavano... ma l'apatia di Tony
cedette il posto a una furia cieca nel vedere la protesi di nuovo
danneggiata.
Si rialzò carponi, nonostante tutto il
suo corpo dolorante lo implorasse di rimanere a terra, e
tentò di assestargli uno spintone con il braccio
artificiale, ma tutto
ciò che ottenne
fu di farlo imbestialire del tutto. E stavolta era Hulk ad essere
arrabbiato, non Bruce.
In un lampo e non sapendo come, Tony si
ritrovò a impattare contro il muro. Il dolore al volto
arrivò dopo,
attraverso il velo di stordimento e il fischio acuto che gli esplose
in testa e gli fece passare qualsiasi voglia di rialzarsi.
Colse
un lampo azzurrino nella sua visuale.
"No, no, no, non di
nuovo..." si premette il palmo sano contro l'occhio, cercando di
scacciare quei flash terrorizzanti.
Focalizzò con fatica Bruce
che cercava di riprendere il controllo di se stesso, dimenandosi per
la stanza e distruggendo tutto ciò che capitava a tiro.
L'intera spalla gli
doleva tremendamente per aver sferrato quel pugno, ma era troppo
impegnato ad arretrare di fronte alla furia di Hulk per
realizzarlo, venendo finalmente investito da una sana, razionale
paura. Strisciò dietro... cosa? Il muro del salone era
appena
crollato. Tony venne investito dai calcinacci e per una volta fu
contento di avere un braccio di ferro a fargli da riparo.
Tossì
nella nuvola di detriti sottili che si era sollevata e rimase immobile,
in
posizione fetale, chiedendosi come facesse ad essere ancora vivo e se
ciò fosse davvero un bene.
Dopo un tempo che non seppe definire, intervallato dai ruggiti di
Hulk, un piede si abbatté a tre centimetri dal suo naso.
Aspettò
di sentirsi spalmare sul pavimento, terminando così la sua
inutile
esistenza, ma quando ciò non accadde si arrischiò
a sollevare
appena il capo. Si ritrovò ad essere scrutato da un paio
d'occhi
scuri e preoccupati.
«Bruce?» articolò, realizzando con
sollievo che la pelle dell'amico era di nuovo del suo colore
naturale.
«Ehi, sei vivo?» la voce dell'altro era ancora
sforzata, ma decisamente più calma di prima.
Tony realizzò con
sollievo di essere fuori pericolo, per poi provare una punta di
disturbante
rammarico al pensiero.
«Più o meno. Non grazie a te,»
commentò, sputando sangue per una ferita all'interno dlela
guancia.
«Non grazie a te,
vorrai dire,» ribatté Bruce. «Che
diavolo
ti è venuto in mente? È
un miracolo che non abbia perso il controllo...» aggiunse,
incredulo.
«Ah, quello non era "perdere il controllo"?»
biascicò Tony.
«Hai attaccato Hulk! Cosa ti aspettavi che
succedesse?»
«Ho agito d'istinto. E l'alcol...» Tony
tentò di
nuovo di rimettersi in piedi.
«Stai fermo,» lo tenne a bada l'altro,
trattenendolo a terra con una mano sulla schiena. «Senti,
dove trovo dei
vestiti?» aggiunse, con lieve imbarazzo.
«Uh...» mugugnò lui, notando in quel
momento che
Bruce era rimasto con solo i resti dei suoi pantaloni stracciati
addosso. «Prova in camera mia. Là,»
rantolò, additando una
porta che si affacciava sul salone, e Bruce si defilò.
Tony
rimase ad ondeggiare da fermo con la fronte contro il pavimento, a
tempo con le valanghe di nausea che lo scuotevano. Si passò
una mano
sul volto nel tentativo di ripulirsi dallo strato di calce, polvere
e... era altro sangue, quello? Si tastò lo zigomo, ricevendo
un'altra
scossa di dolore e ritraendo le dita macchiate di rosso. Si
tamponò
lo spacco col colletto della camicia, rassegnato.
Bruce si
ripresentò poco dopo in un paio di pantaloni grigi di una
tuta e con
una vecchia maglietta dei Rolling Stones che gli andava
decisamente stretta.
«Trattala bene,» tossicchiò Tony, in un
disperato tentativo di mostrarsi spigliato.
Si sentiva a un passo dallo
svenire, e Bruce si passò il suo braccio buono sulle spalle
e lo
sollevò di peso.
«Ti ho mai detto quanto mi faccia incazzare
vedere gente incazzata?»
«Penso di essermene reso conto da solo,
grazie per la simpatica dimostrazione,» disse Tony, con la
bocca
impastata dall'alcol, che per i suoi gusti si stava muovendo un po'
troppo nel suo stomaco... già, un po' troppo.
Bruce
dovette rendersi conto che per gli altri non era normale assumere una
sfumatura verdognola, così lo lasciò andare di
colpo poco prima che
il pavimento venisse inondato, trattenendolo per il colletto per
evitargli l'impatto.
«Credo di dover vomitare anche
l'anima...» riuscì ad articolare Tony, scansandosi
di lato con un
barlume di lucidità.
«Vedo. Non ha un bel colore.»
Bruce
riuscì a trascinarlo in bagno alla bell'e meglio per farlo
svuotare
del tutto e gli rimase accanto a sostenerlo. Ecco, adesso poteva
dire di aver provato l'ebbrezza di reggere la testa a qualcuno che
vomitava.
«Uccidimi,» bofonchiò confusamente Tony,
tra un conato
e
l'altro.
«Chiedi all'altro,» rispose assente Bruce,
impegnato
piuttosto a sorreggerlo, non guardare e cercare al contempo di toccarlo
il meno
possibile.
Sarebbe stato più incline a farlo se avesse avuto la
peste...
«Uccidimi! Non è per questo che ti ha mandato qui
Fury?» quasi urlò, non risultando per niente
convincente col water
che gli faceva da megafono.
«No, in realtà, io...»
«No, non
me ne frega un caz–...» lo stomaco non contenne la
sua furia.
«Oddio, basta!» implorò, tossendo.
Bruce fu
tentato di lasciargli andare la testa e farlo soffocare, ma poi gli
avrebbe fatto un favore. Pensò di chiedergli se aveva
finito, ma
l'ennesima ondata di alcol gli rispose di no.
«Che hai intenzione
di fare? Quando avrai finito, intendo.»
«Non mi sembra di
chiedere così tanto,» balbettò invece
lui.
Bruce ci mise un po'
a ricollegare quelle parole alla sua richiesta di poco prima,
rimanendone agghiacciato.
«Dai
così poco valore alla tua vita?»
«Quale
vita?» disse lui, tirando fuori la faccia dal water e
rivolgendogli
un'occhiata stralunata.
«Sei sempre tu
a ridurti così. Da solo. Ci hai mai fatto caso?»
Bruce alzò un
sopracciglio quando l'unica risposta fu Tony che rituffava la testa
nella tazza, stavolta in un conato di bile. Alzò anche
l'altro
sopracciglio: riteneva un po' assurdo parlare di vita, morte e
miracoli con il suo interlocutore appassionatamente abbracciato alla
tazza del cesso. Tutto ciò era paradossale.
«È meglio dell'alternativa,»
riuscì ad articolare Tony, affannato.
«Allora, se sei
così incline a morire,» replicò Bruce,
stringendo la presa sulla sua fronte e sulla sua spalla sana,
«perché hai quel reattore
arc in mezzo al
petto? Perché ti sei costruito quelle protesi? Se davvero
avessi
voluto morire, avresti potuto farlo tempo fa.»
«"Tempo fa",
tutto questo non sembrava così difficile,»
sibilò lui tra i denti.
«La vita non è
facile, Tony. Pensavamo l'avessi capito, ormai.»
«Ed io pensavo
che la parte "difficile" della mia vita fosse già passata.
Due volte. Un tris non
era contemplato.»
Bruce avrebbe potuto replicare in mille modi,
ma avrebbe avuto altre occasioni per rigirare il coltello nella piaga
e non aveva alcuna voglia di parlare di rapimenti e incidenti d'auto.
Sarebbe
stato troppo crudele anche in quella situazione. Tony trovò
finalmente la forza di sfuggire alla sua presa e staccarsi dal water,
apparentemente svuotato. Cercò a tentoni lo sciacquone e si
trasse
in piedi aggrappandosi al lavandino per darsi una ripulita, sperando
che non cedesse sotto il suo peso, visto che le sue gambe si
rifiutavano di camminare e le sua protesi non erano esattamente
leggere, né utili. Sosteneva tutto il corpo con la gamba
buona;
l'altra, inerte, gli serviva solo da contrappeso.
«Fatto?»
chiese cautamente Bruce.
«A meno che non voglia sputare anche gli organi interni,
sì,» rispose Tony con voce ovattata
mentre cacciava la
testa sotto al rubinetto e si sciacquava a fondo la bocca.
Sollevò il
viso grondante d'acqua, tamponandolo con un asciugamano e ravviandosi
i capelli bagnati e scomposti, sentendosi già più
lucido. La sua esperienza
decennale di sbronze e doposbornie serviva a qualcosa, almeno.
Si
tolse la benda di garza fradicia sperando che Bruce non fosse troppo
impressionabile, e ne cercò a tentoni una pulita
nell'armadietto. Lo sfregio – quanto odiava quella parola
–
era di un rosso più acceso e più gonfio del
normale; il pugno di
Bruce gli aveva spaccato solo superficialmente lo zigomo opposto,
evitando
fortunatamente la piaga. Si
asciugò meglio la pelle attorno ad essa, trattenendo piccole
smorfie di fastidio, poi applicò la garza adesiva sopra alla
palpebra
chiusa, facendola aderire con cura. Si
tamponò il sangue sulla scalfittura con
l'asciugamano,
mordendosi contrariato il labbro nell'osservarsi allo specchio. Era
un po' che non lo faceva, e oltre a scoprire di essere dimagrito
più
di quel che avesse pensato, incontrò nel suo sguardo una
luce spenta che non ricordava di aver mai visto, neanche al ritorno
dall'Afghanistan. Serrò la mascella e diede un colpetto allo
specchio con le nocche metalliche, abbastanza forte da romperlo senza
causare
troppi danni, se non un paio di piccole schegge che caddero nello
scarico del lavandino. Il suo riflesso si sfaccettò,
attraversato
dalla ragnatela di crepe. Provò un senso di
sollievo irrazionale nel non doversi più guardare
in faccia
e finì di asciugarsi il viso come se nulla fosse,
percependo su di sé gli occhi attenti di Bruce.
Nel vedere Tony che infrangeva lo
specchio, questi ebbe una spiacevole sensazione di deja-vù:
poteva
immaginare fin troppo bene che cosa stesse pensando. Con fare
rassegnato, lo sostenne aiutandolo a barcollare fino al water chiuso,
dove lo lasciò cadere seduto, senza più un
briciolo di forza in
corpo. Non aveva l'aria di voler parlare, ma allo stesso tempo
sembrava non poterne fare a meno.
«Tu come fai?» chiese infine,
tormentandosi la mano meccanica.
«A fare cosa?» chiese Bruce,
accigliandosi appena.
Si appoggiò allo stipite e incrociò le
braccia, preparandosi a un lungo e interminabile discorso che avrebbe
messo duramente alla prova i suoi nervi già abbastanza
logorati.
«La
rabbia. Come la controlli?»
«Non mi sembra di farlo.»
Bruce fece una smorfia nervosa e
adocchiò il salotto in rovina.
«Ma sicuramente non la
controllo così,»
aggiunse, facendo un gesto eloquente verso di lui, lo specchio, la
casa, in
generale il caos che aveva provocato.
Tony sbuffò e voltò la
testa dall'altra parte, riluttante ad ammettere i suoi sbagli.
Strappò un pezzo di carta igienica, riprendendo a tamponarsi
lo
zigomo sanguinante.
«Pepper non sarà contenta quando...»
Lo
sguardo perplesso di Bruce fu la risposta più eloquente che
potesse ricevere.
Si interruppe e annuì appena, con un sorriso amaro a
solcargli le
labbra.
«Giusto.
Non tornerà,» mormorò, passandosi una
mano tra i capelli fradici come a farsi entrare bene in testa quel
fatto.
«Puoi davvero darle torto?» gli chiese Bruce,
duramente, e Tony concluse che avrebbe preferito perire per mano di
Hulk piuttosto che pensare a quello che le aveva fatto.
Si limitò a scuotere piano la testa, comprimendo le labbra.
Avrebbe finito per rompere tutto ciò che lo circondava, e in
un certo senso era sollevato nel pensarla lontano da lì, e
da lui. Forse sarebbe tornata, ma con gli occhi spenti, il
volto gelido e parole colme di delusione, il che equivaleva a non
riaverla affatto. Aveva bisogno di lei, ed era uno conclusione a cui
era lentamente arrivato nel corso di quegli anni; ma se prima non era
mai stato del tutto sicuro di meritarsi la sua presenza, adesso ne
aveva la certezza.
Bruce si fissava la punta dei piedi scalzi con fare
concentrato, come a decidere se fosse meglio urlargli contro o
lasciarlo lì a rimuginare con se stesso. Infine
sembrò optare per
una via di mezzo, perché alzò di scatto la testa
e lo guardò
dritto negli occhi, con l'espressione più seria che Tony gli
avesse
mai visto.
«Cosa hai intenzione di fare?» gli chiese
ancora.
Tony fece per parlare, poi scosse la testa e si lasciò
andare a una risatina rassegnata e spenta.
«Ma che razza di domanda è?
Cosa vorrei fare, secondo te?» sbottò poi, quasi
con
irritazione.
Bruce non si turbò più di tanto, ma la risposta
che
lasciò le sue labbra fu tagliente:
«Posso immaginarlo, ma
ricordati che per te non ci sarebbe nessuno a sputare il proiettile. E
comunque è bello vedere come ricambi gli sforzi degli altri
per
mantenerti in vita.»
A quel punto Tony si voltò bruscamente,
alzando la voce:
«Ma mi hai visto? Non riesco a muovermi senza
stare attaccato a qualcuno o a una stampella, vedo poco e male,
quando prendo qualcosa devo sperare di non romperla...» a
quel
punto l'unica cosa a rompersi fu la sua voce, e il suo pugno
metallico si strinse nel vuoto, come tentando di afferrare qualcosa
di troppo lontano. «O qualcuno...»
sussurrò poi, appena
udibile, più a se stesso che a Bruce.
Questi stava giusto per
dire qualcosa, ma Tony parlò per primo, con parole intrise
di
rabbia
e frustrazione:
«Sono rimasto solo con un... prototipo
di me stesso, sono circondato da macchine in cui non posso fare a meno
di
riflettermi. Ogni giorno, ogni cazzo di giorno della mia vita mi
costringo a trascinarmi avanti anche se in realtà non
voglio. A che serve, se non potrò
più fare ciò che vorrei fare?! Iron
Man è distrutto, non tornerà mai! E sono stato un
idiota
anche solo a pensare di poterlo fare!» fece una pausa,
riprendendo fiato, la
voce
spezzata. «Sarei dovuto morire un anno fa in quella
grotta,»
mormorò infine, le parole appena comprensibili.
Fu allora che Bruce
s'intromise, con forzata calma.
«È vero. Guarda cos'hai
combinato: hai cacciato
chi ti ama, hai voluto
distruggere Iron Man, ti comporti da ingrato con chi si
sacrifica per
te, hai affossato la tua immagine pubblica e tutto questo per cosa?
Per dimostrare a Pepper, a me, al mondo intero o a chiunque altro che
Tony Stark non è cambiato? È cambiato tutto, la
tua vita è
sconvolta e tu continui a fare finta di nulla e a comportarti come
prima. Quando ti
deciderai a cambiare anche tu?»
«Non vedo perché dovrei farlo,»
s'impuntò Tony.
«L'hai già
fatto e sei diventato Iron Man, mi pare,» osservò
Bruce, sollevando appena le sopracciglia.
«Sì, ma non mi
sembra che il mondo sia mai cambiato per me. Io ho provato a
cambiarlo, il mondo,
ma mi ha fatto lo sgambetto e poi mi ha sputato in faccia,»
concluse
aspramente.
«Il
mondo non cambia a comando, Tony!» sbottò Bruce,
esasperato. «Non l'ha fatto neanche per me e io
al contrario di te non
posso cambiare chi sono!» alzò la
voce per poi bloccarsi, facendo un respiro profondo per riprendere la
calma.
«Eppure non mi sembra di pensare solo a me stesso come fai
tu,»
riprese, di nuovo controllato.
«Io non...» provò a dire Tony, ma le
parole gli morirono in gola e furono soverchiate da quelle di
Bruce:
«È questo il tuo problema: "io". Se qualche
volta pensassi anche agli altri,
forse ti renderesti conto che non sei solo! Prendi
me: io voglio rimanere
calmo e concentro tutte le mie forze per farlo, e non ho una macchina
che mi aiuti, né qualcuno che mi stia accanto. Sai quanta
rabbia mi
fa, vedere come tu abbia ogni mezzo immaginabile per tirarti su e
come ti manchi il coraggio per usarlo?»
«Ho tutto e niente...
questa storia l'ho già sentita,»
borbottò Tony con un sospiro
esasperato, ignorando volutamente il resto.
«Non è questo il punto...»
«Hai ragione! Il
punto è che la mia vita è andata a puttane, di
nuovo, e io
non sono riuscito a fare nulla per impedirlo! Tu pensi che mi scoraggi
troppo
facilmente, ma la verità è che sono stato troppo
coraggioso e ambizioso. Ho voluto cambiare il mondo, ho voluto
rimediare ai miei errori e cercare di fare qualcosa di giusto, e adesso
mi ritrovo in questa situazione di
merda!» disse d'un fiato, con veemenza. «Dici che
sono egoista... bene, se solo lo fossi stato un po'
di più, sarei potuto comodamente crepare con una pallottola
in testa,
invece di farlo un passo alla volta come ora, e forse sarebbe stato
meglio!»
gridò con tutto il
fiato che gli era rimasto.
«Hai davvero ripensamenti del genere?
Ti stai davvero
pentendo di aver salvato delle vite?»
Bruce adesso sembrava
più
turbato di quanto desse a vedere, e Tony era convinto che solo
un'altra parola sbagliata avrebbe potuto farlo esplodere.
Così
non rispose, fissando ostinato il pavimento, non sapendo in
verità
come replicare a quell'accusa.
«A volte penso a cosa direbbe mio
padre se potesse vedermi in questo stato,» disse invece, fin
troppo
calmo. «E me lo immagino mentre mi accusa come al solito di
averlo
deluso, di aver tradito le sue aspettative, di non essere mai
all'altezza della situazione. Di essere irrecuperabile.»
Sospirò piano, guardandosi le mani ancora strette tra loro.
«Come si fa a
non deludere
le persone? Ad essere sempre all'altezza?»
guardò
Bruce come in cerca di una risposta, poi continuò, a voce
più
bassa: «Forse il vero problema è che mi
basta essere all'altezza di me stesso... ed è sempre troppo
poco.
Mi sono
addirittura creato Iron Man per rimediare. Non è
ridicolo?» concluse con scherno.
«Tu
sei riuscito a creare qualcosa di buono.
Non solo per te stesso, ma anche per gli altri. Qualcosa in cui
credi,» ribatté Bruce, senza
scomporsi, con voce salda.
Tony gli
riservò solo un ostinato silenzio, al che Bruce
esitò.
«Ci
credi ancora, vero?»
«Che importanza ha? Ho mandato tutto in
fumo,» replicò piattamente lui.
Bruce sembrò improvvisamente
farsi più comprensivo e il suo sguardo quasi si
addolcì quando parlò in
tono più pacato:
«Sei già rinato dalle ceneri, Tony.»
Lui lo fissò assorto, colpito da quell'affermazione
così
inaspettata.
«Davvero non puoi farlo ancora?» si
limitò a
chiedergli.
Attese una risposta che non arrivò, chiusa nei
pensieri di Tony.
***
3
Aprile, 19:20, Villa Stark
Avrebbe
avuto bisogno di un bagno, ma il solo pensiero di dover entrare e
uscire dalla vasca con le protesi che gli inviavano fitte lancinanti
lo fece desistere.
Dopo. Dopo un'aspirina. Dopo una dormita. Dopo
aver buttato nello scarico tutto l'alcol che aveva in casa. Dopo.
Adesso aveva tutto il tempo del mondo.
Bruce aveva avuto la premura di
portargli le stampelle prima di andar via, così
riuscì a sollevarsi
con un po' più di stabilità, piuttosto che
avanzare a balzelloni e
aggrapparsi al portasciugamani, al lavandino e a ciò che
trovava in
giro. Il suo unico pensiero in quel momento era il letto. O
meglio, il divano, che era decisamente più vicino e
proponibile
nelle sue condizioni. Una bella dormita, poi avrebbe ingollato tre
litri
d'acqua e smaltito la sbornia, si sarebbe dato una ripulita e dopo...
il dopo
non rientrava ancora nei suoi programmi. Revisionare
le protesi. Sì, era un buon "dopo": cervello impegnato e
mani impegnate, uguale a "niente pensieri e niente
danni". Dopo,
magari, sarebbe tornata. Non era
sicuro che quel "dopo" fosse esprimibile in misure di tempo
conosciute, ma era una bella prospettiva, per quanto intrinsecamente
terribile.
Stava
delirando. Avrebbe fatto meglio a cadere addormentato il prima
possibile per evitare altre, inutili elucubrazioni mentali.
Mandò
giù i suoi antidolorifici come fossero ambrosia, pregando
che
facessero rapidamente effetto, poi zoppicò a fatica fino
all'atrio e
al salone distrutti. Hulk aveva davvero
abbattuto il muro. Almeno non aveva avuto un'allucinazione. In
compenso il pavimento ondeggiava un po' troppo per i suoi gusti e il
divano sembrava fin troppo distante: a separarli c'era un mare di
detriti, vetri e resti di mobili fracassati.
Iniziò la
traversata, ma era arrivato ad appena un paio di metri dallo
schienale che la protesi della gamba cedette con uno scricchiolio
agonizzante, e
si ritrovò bocconi per terra prima di poter realizzare come.
Batté la testa,
come se non gli facesse già abbastanza male. Ogni
tentativo
per
rialzarsi, o anche solo muoversi, fu inutile. Rimase accasciato
lì, inerme, indeciso se addormentarsi o chiedere a JARVIS di
chiamare qualcuno. Giusto... aveva disattivato JARVIS poco prima
di darsi alla pazza gioia in un mare d'alcol. E Bruce aveva staccato
la corrente per evitare ulteriori danni.
Non ebbe neanche la forza
di sospirare: riuscì solo a chiudere l'occhio e a lasciarsi
precipitare in un sonno buio e profondo.
___________________________________________________________________________________________________________________________________
Revisione effettuata il 04/03/2018
Note delle Autrici:
Da qualche parte nel mondo... Kyle innaffiò lo schermo della tv con dell’ottimo tè."
Povero Kyle. è rimasto sconvolto, da... tutto. (Se non l'avete capito ORA, avete perso ogni speranza di comprensione. Scherziamo, sveleremo tutto... prima o poi :D)
A parte tutto! Carissime... Siamo vive! *Light e Moon sventolano bandiere e lanciano coriandoli* Usciamo dal mare di apatia, come Tony con questa roba, altrettanto indigeribile (attenti allo stomaco. Le autrici consigliano l'uso di buscopan) e sì, ci assentiamo per mesi e torniamo con i mattoni. Ma non saremo doRci? Amateci, ci metterete un mese a digerire questa cosa e nel frattempo speriamo di aver già aggiornato. SPERIAMO.
Che dire... questo capitolo. È stato anch'esso un parto plurigemellare con complicazioni. Le amabili scene in cui Tony dà il megli odi sé derivano da questo -ribadiamo fantastico- video: http://www.youtube.com/watch?v=FSFjFGUZGIg<3
Ringraziamo chiunque è sopravvissuto fino ad ora: chi ha aggiunto la storia tra le seguite/preferite/ricordate, chi ha letto, recensito, soprattutto lo scorso capitolo; Alley, MissysP, Aston, Sherlock_Watson, The_best_who_sing e Rogue92! :D Grazie mille a tutti <3
See ya,
Moon&Light
P.S. Prego notare come l'aura benefica dei Foo Fighters si irradi da questo capitolo! *MoonRay dà una padellata i ntesta a Light* M: Ebbasta! L: Foo... ç^ç
Edit 04/03/2018: si è resa necessaria una modifica dello scontro con Hulk... o meglio una giustificazione al suo scoppio d'ira; per questo adesso Tony si comporta ben due volte da idiota pensando di poter anche solo scalfirlo con un pugno. Per capirci, la prima volta Bruce "sbrocca" di riflesso ma è ancora in grado di controllarsi; la seconda il suo autocontrollo è bello che andato, di qui il cazzottone devastante e potenziamente mortale a Tony.
A conti fatti, Bruce non avrebbe mai usato volontariamente il suo "lato verde" per far rinsavire un amico e ci voleva un primo "casus belli". [-Light-]
© Marvel
|
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Capitolo 26 *** Hycarus ***
25
Hycarus
"'Cause
there's a side to you that I never knew, never knew
All the things
you'd say, they were never true, never true
And the games you'd
play, you would always win, always win"
[Set
Fire To The Rain – Adele]
"I
don't know what stressed me first
or how the pressure was fed
But
I know just what it feels like
To have a voice in the back of my
head"
[Papercut
– Linkin Park]
3
Aprile, 22:45, Villa Stark
Lo trovò rannicchiato dietro al
divano in posizione quasi fetale, un
braccio alzato a coprirgli il viso stravolto.
Pepper si chiese
cosa, esattamente, l'avesse spinta a rifiutare la cortese offerta del
dottor Banner per conto dello SHIELD e a tornare là. Avrebbe
potuto
passare qualche giorno di serenità sull'Helicarrier o alla
loro base, senza doversi costantemente
preoccupare di cosa stesse combinando il suo capo e di quale misure
avrebbe dovuto adottare per arginare i relativi danni.
Invece
era di nuovo lì dopo neanche mezza giornata, nel buio cupo
dell'atrio devastato. Bruce doveva aver avuto la previdenza di
staccare corrente. Con fare cauto ma rassegnato si avvicinò
a
Tony, che dal respiro lento e regolare sembrava profondamente
addormentato e ignaro della sua presenza. Represse l'impulso di
svegliarlo a schiaffi solo quando notò il livido violaceo e
il
rivolo di
sangue che correva lungo la sua mandibola, segno che Bruce era stato
costretto a inculcargli un po' di buonsenso con metodi un po'
più
diretti dei suoi.
Ci volle una buona dose di scossoni e di
richiami per farlo rinvenire, ma infine aprì
l'occhio appannato
dal sonno e dagli strascichi della sbronza. Annaspò per
qualche
secondo come non rendendosi conto
di dove si trovava, forse riscosso da un incubo, poi sbattè
la
palpebra nel tentativo di mettere a fuoco il mondo. Sbarrò
l'occhio
nel riconoscerla e si ritrasse di scatto abbassando lo sguardo.
Pepper si accorse dello sguardo fugace che aveva lanciato al suo
braccio dove, sotto al giacchetto, spiccava ancora l'alone rosso
lasciato dalla sua mano.
Bene. Aveva almeno la decenza di sentirsi
in colpa.
Ci fu un lungo, teso, imbarazzante silenzio, che Pepper
non ritenne opportuno rompere.
«Non pensavo che saresti
tornata,» gracchiò
infine Tony con la voce sfibrata dall'alcool e dalle urla,
nell'evidente sforzo di far coincidere i pensieri con le
parole.
«Neanch'io,» lo
freddò la donna, duramente.
Tony ammutolì, distogliendo di nuovo lo
sguardo. Si sentiva così debole e confuso da riuscire a
malapena a mettere in ordine le sensazioni che gli inviava il suo corpo.
Uno smorzato pigolio del
suo stomaco gli ricordò di non aver toccato cibo da quella
mattina
prima del processo, ma il solo pensiero di mangiare gli
rivoltò le
viscere. Provò a muoversi, ottenendo solo una sonora
protesta dei
suoi muscoli indolenziti per le troppe ore passate sul pavimento
duro. La cosa non sfuggì a Pepper, che si
accigliò e si avvicinò
appena, acquistando una visione più dettagliata del suo
stato pietoso, dalla camicia macchiata di sangue ai pantaloni sporchi
di
polvere e calce, passando per suoi capelli sconvolti e umidi.
Sospirò.
«Potevi almeno
trascinarti fino al divano,» commentò,
mantenendo la propria asprezza.
Prese nel frattempo nota del preoccupante rossore
sulle guance dell'uomo e dell'occhio troppo lucido per essere solo
assonnato. Probabilmente stava ancora scontando la febbre degli
ultimi giorni, che in quel momento doveva toccare vette
inarrivabili. Tony trasalì con un po' di ritardo alle sue
parole,
poi sollevò svogliato un sopracciglio:
«È perché mai? Il
pavimento è così comodo,» rispose,
abbozzando un sorrisetto smorto.
Pepper non replicò, ma si alzò
di scatto e si allontanò in direzione della
cucina. Tony
sperò con tutto se stesso che tornasse con un'aspirina. O
con un
sedativo per elefanti. Sentiva che l'effetto degli antidolorifici
stava scemando di nuovo, lasciando posto alle solite fitte e a un
solido, arroventato cerchio alla testa.
Abbandonò la posizione
vagamente composta che aveva assunto per sdraiarsi di nuovo a terra e
poggiare la fronte bollente sulla superficie fresca del pavimento di
marmo. Era un bel
po' che non aveva un mal di testa post-sbornia. Cominciava a
ricordare perché li detestasse tanto, e adesso aveva l'onore
di
sperimentarlo in combinazione con la febbre. Non trattenne un rantolo
esasperato. Iniziò a rendersi conto delle sue condizioni e
di
quanto patetico dovesse apparire, con una faccia che immaginava
essere terribile dopo il pugno Bruce e la quantità immane di
alcool.
Senza contare i capelli, che era sicuro fossero in quello stato per
allontanarsi il più possibile dal loro proprietario. Si
passò una
mano tremante tra essi trovandoli ancora umidi; tentò di
districarli, ma finì solo per arruffarli di più.
Rinunciò con un
moto di stizza ed emise un mugolio involontario nel girarsi
sulla
schiena.
"Alzati."
"No," risposero
indifferenti le... la... al diavolo, le gambe.
Si costrinse ad
aspettare il ritorno di Pepper, tre minuti di attesa che gli parvero
lunghi tre ore. Temeva che se ne andasse di nuovo, per davvero.
Temeva di sentire i suoi tacchi avvicinarsi e poi superarlo
dirigendosi verso la porta. Temeva di sentire il rombo di una
macchina che si accendeva e lo stridio di ruote che si allontanavano
sul vialetto. E poi sapeva che avrebbe ripreso a urlare.
Il
ticchettio che preannunciava l'arrivo di Pepper risuonò
nelle sue
orecchie e un nodo d'ansia gli strinse lo stomaco già
contratto
dalla fame. Fu con immenso sollievo che sentì la mano della
donna
che si posava sulla sua fronte. Non si era neanche reso conto di aver
serrato l'occhio. Avrebbe voluto prolungare quel contatto, ma lei
si ritrasse e lo sospinse per farlo mettere a sedere. La sua
impressione di deja-vù
aumentava di secondo in secondo.
Magari in
futuro avrebbe potuto far infuriare pure Thor, così da farsi
pestare anche da lui per ripetere tutta quella scena una terza
volta.
Pepper gli porse un bicchiere d'acqua con una pasticca che
sembrava essere qualcosa di più forte di un'aspirina. Non si
soffermò a riflettere e ingollò il tutto senza
fiatare, sperando
improvvisamente di potersi mettere a dormire e chiudere tutto il
mondo fuori dalla sua mente. Aveva appena posato il bicchiere a
terra, già convinto di sentirsi meglio, quando le parole
lasciarono
le sue labbra, senza consenso:
«Perché sei qui?»
"Sempre
più in gamba, eh, Tony?"
La domanda ebbe l'effetto immediato
di accentuare ogni ombra sul viso di Pepper, rendendola insolitamente
minacciosa. Sembrò tentata dal non rispondere, poi lo
guardò
dritto negli occhi, dietro un velo di tristezza.
«Perché da solo
non ce la faresti,» disse
piano e, nonostante fosse certo che non avesse voluto realmente
ferirlo, sentì un dolore atroce stritolargli il petto e si
sentì svuotato di tutta la rabbia che ancora era annidata
in lui.
Si sentì solo debole e indifeso, più che mai. Era
di
nuovo nella grotta, qualcuno aveva di nuovo il suo destino in mano,
aveva ancora i mitra puntati alla testa e la vita che gli scorreva
via tra le dita senza che lui potesse fare nulla per trattenerla. La
guardò smarrito, poi scosse la testa, tentò di
tirar fuori il suo
sorriso sfrontato, e gli uscì solo una smorfia penosa. Vide
qualcosa che somigliava terribilmente a compassione fare capolino sul
volto di
Pepper.
«Perché continuate a pensare che abbia bisogno di
aiuto?» sbottò, indurendo il volto in una maschera
sprezzante.
«Non ne ho bisogno, non ho alcun bisogno dell'aiuto
di...»
«Tony...» mormorò
semplicemente Pepper, e lui ammutolì senza neanche capirne
il motivo.
«Perché sei qui per terra?»
gli chiese, e lui assunse un'espressione
spaesata.
«Che razza di
domanda è?»
«Tu rispondi.»
«Perché ero ubriaco e sono caduto, ecco
perché! Credevo fosse evidente! E sto già bene,
adesso,» mise in
chiaro, irritato, non capendo dove volesse andare a parare e
già
presagendo un'interminabile paternale.
«Allora alzati,» commentò
semplicemente Pepper.
Fu un'altra stoccata al petto che gli mozzò il
fiato. Si aspettava un
rimprovero, una sfuriata, un addio, qualunque cosa,
ma non quella schiettezza quasi crudele. Se la meritava, e lo sapeva,
ma non potè fare a meno di sentirsi tradito, come se avesse
ricevuto
una pugnalata alle spalle da chi aveva il compito di
proteggerlo. Tentennò, incapace di imbastire la solita
facciata
di circostanza.
«Non ho molta voglia di... adesso
non...»
«Tony.»
Stavolta
c'era una sfumatura più severa nella sua voce.
Sentì la vergogna affiorargli al volto in una vampata
rovente,
mentre si sforzava di cacciar fuori quelle parole.
«Non ce la
faccio,» esalò
infine, sentendosi scoperto, soffocato dall'umiliazione. «Non
riesco
ad alzarmi da solo,» si
costrinse ad aggiungere, combattendo contro le parole aspre e
sprezzanti che gli salivano alle labbra.
Girò di scatto la testa,
rivolgendole il lato cieco e desiderando come non mai di poter
correre via. E non poteva. Non avrebbe più potuto,
si rese
conto. Per un attimo tutto quello che aveva costruito gli
sembrò
una vana illusione, elaborata per l'uomo perfetto che lui non era.
Respinse il pensiero, ma questo si rifugiò in un angolo non
troppo
remoto della sua mente, pronto a rispuntare al momento
opportuno.
Sentiva lo sguardo di Pepper su di sé,
opprimente.
«Era così difficile ammettere di aver bisogno di
qualcuno?» sospirò
lei, e gli sembrò improvvisamente esausta.
Tony captò la differenza
tra "aiuto" e "qualcuno", ma non volle
riconoscerla e si ostinò a rimanere in silenzio.
Lei gli
scostò i capelli dalla fronte accaldata, in un gesto
delicato che non seppe
come interpretare. Non sapeva neanche decifrare quello che stava
provando in quel momento, se non un'immensa debolezza e il desiderio
di ancorarsi a qualcosa, a qualsiasi cosa, ma attorno a lui percepiva solo il vuoto.
Pepper arrivò a riempirlo, posandogli una mano sulla guancia
con una gentilezza
che non si
sarebbe mai aspettato né meritato dopo tutto quel che era
successo. Gli fece
male, anche quello. Non si ritrasse, ma socchiuse l'occhio, non
osando muoversi nel timore che si scostasse. Avrebbe voluto fare
molte cose in quel momento, tra cui abbracciarla, accarezzarla,
chiederle scusa, baciarla, stringerla a sé – non
necessariamente in
quell'ordine.
E invece, come al solito, fu la parola ad arrivare
prima delle azioni:
«Pensi che adesso cambierà qualcosa?»
Ecco,
adesso l'avrebbe schiaffeggiato, e a ragione. Invece gli prese il
volto tra le mani e lo costrinse a guardarla, gli occhi chiari che
sembravano leggergli dentro. Per un attimo ebbe il folle impulso
di baciarla lì, adesso, ma esitò: il momento
giusto era passato tempo fa
e lui l'aveva sprecato.
«Tony.» L'uomo
sfuggì brevemente i suoi occhi. «No,
guardami. Non
sto scherzando,
come non ho mai scherzato in tutto questo tempo. Non sei il solo ad
essere "stanco".» A quel punto esitò brevemente,
per poi riprendere con voce più cauta e bassa: «Ti
voglio bene, e lo sai, ma non ho più né la
pazienza,
né la
forza per badare a te.»
Tony fece per protestare, sentendo un'alternanza di spilli roventi e
gelidi pungergli il cuore a quelle parole inaspettate, ma lei lo
anticipò:
«Riesci a capirlo?»
L'uomo tentò debolmente di
svicolare alla sua stretta, ma rinunciò quasi subito.
Annuì piano,
rassegnato, sentendosi un bambino che ammette di aver torto. Pepper
gli liberò il volto, ma lasciò una mano sulla sua
guancia bollente,
appena sopra l'escoriazione che gli solcava lo zigomo.
«Capisci
cosa sto cercando di dirti?» mormorò
ancora, lasciando scivolare via la mano in una lieve carezza.
Lui annuì
di nuovo, muto. Lo capiva molto bene.
Gli stava dicendo che la
prossima volta non sarebbe tornata indietro. E, se fosse caduto di
nuovo, l'avrebbe lasciato a sprofondare nel fango.
***
4
Aprile, 00:10, Villa Stark
Mentre
Tony si stava ancora slacciando le scarpe, il vapore aveva
già
iniziato a condensarsi sullo specchio.
Le mani gli tremavano
nello sforzo di controllare le dita e sciogliere i nodi. La protesi
rifiutava di collaborare, probabilmente a causa della situazione
disastrata in cui versava la sua mente: i nervi dovevano essere ormai
annegati nell'alcool. Al terzo tentativo mandò
definitivamente a
quel paese le scarpe e le scalciò via esasperato, come a
scacciare
anche i pensieri che lo assalivano: il processo, i giornalisti,
Christine, la sbronza, Hulk, la casa semidistrutta... e Pepper.
"Che
macello..." considerò tra sé, lanciandole
un'occhiata di
sottecchi.
Non sapeva con quali forze, nascoste nel suo corpo così
minuto, era riuscita a trascinarlo
fino al bagno evitando persino di farlo svenire durante il tragitto.
Pensò
che forse il suo aiuto gli sarebbe servito anche per arrivare alla
vasca. Nonostante tutti i disastri della giornata si era persino
offerta di aiutarlo a lavarsi, dato il suo scarso controllo
psicofisico. Non era la prima volta che succedeva, anzi, si era
completamente affidato a lei quando le protesi erano ancora in
progettazione e lui era decisamente incapace di spostarsi da solo,
tantomeno entrare nella vasca. C'erano stati molti momenti d'imbarazzo,
soprattutto da parte propria verso il suo corpo abbrutito, e si era
sentito sollevato quando negli ultimi tempi però era
arrivato a
fare sempre a meno del suo aiuto, man mano che recuperava le sue
facoltà motorie. Peccato che adesso riuscisse a
malapena a
reggersi in piedi e fosse regredito a quella fase iniziale.
Si chiese quanta pazienza potesse davvero avere
quella donna. Al posto suo se ne sarebbe andato... dal primo istante?
Non senza averlo prima picchiato a sangue, ovviamente.
Pepper aprì
l'acqua calda e sistemò gli asciugamani, sempre voltandogli
accuratamente le spalle. Tony aspettava perso nei suoi pensieri,
volti soprattutto a distogliere l'attenzione da cosa avevano
riversato le sue viscere nel water, chiuso, su cui era
seduto. Avrebbe voluto avere modi più costruttivi per
occupare la
sua mente, ma non aveva molta scelta, al momento, a parte continuare
a litigare con bottoni, lacci, asole, zip e altre invenzioni del
demonio.
«Posso aiutarla?» gli chiese infine lei in
tono
neutro, probabilmente notando le sue evidenti difficoltà di
coordinazione.
Più che un'offerta sembrava una domanda ironica,
come se la risposta fosse scontata. Con un cenno appena percettibile
della testa annuì, sentendosi terribilmente spossato e con
la
sbronza ancora in via di smaltimento. Non riuscì nemmeno a
ringraziarla, ad articolare una risposta sufficiente o anche solo a
guardarla negli occhi.
"Tony Stark" e "senso del
pudore" erano due concetti collocati pressoché agli antipodi
l'uno dall'altro, ma in quel momento riuscì a provare solo
un
profondo senso di vergogna e inadeguatezza al pensiero di farsi
svestire da lei, soprattutto considerando l'ultima occasione in cui si
era fatto spogliare da una donna.
"Fa' che si sbrighi, ti
prego," si ritrovò a pensare, rivolto non sapeva bene a chi,
non riuscendo a sopportare di stare nella stessa stanza con lei
ancora per molto.
Pepper gli si avvicinò e lo liberò dalla
cravatta, iniziando poi a
sbottonargli la camicia con dita gentili, sfiorandolo appena. Tony
concentrò il suo sguardo su un punto poco oltre la testa di
lei,
cercando di non pensare a quanto sarebbe stato piacevole quel gesto
in un'altra situazione. Arrossì violentemente, in un misto
di
vergogna e imbarazzo per quel pensiero inopportuno, un mix di
emozioni che non credeva avrebbe mai provato in vita sua e che soffocò
sul nascere il lieve tramestio al basso ventre.
Pepper
aveva appena allentato l'ultimo bottone e stava per allargargli la
camicia per farla scivolare dalle sue spalle, il tutto senza che una
sola traccia di
emozione solcasse il suo viso. Tony dal canto suo non riusciva quasi
più a
sopportare la sua presenza: troppo immeritata... troppo bella, tanto
da farlo agitare di nuovo. Era come se si fosse riempito
così tanto,
di rabbia, di frustrazione, di impotenza, da essere infine
straripato, ma l'acqua non si fermava e continuava a riempirlo, e lui
a straripare, ininterrotto, come un fiume in piena. Arginò
quell'inondazione in cui si sarebbe volentieri lasciato annegare, per
poi realizzare con un lampo di puro panico di essere a petto nudo,
col reattore in bella vista. Perse il controllo appena recuperato e si
ritrasse
bruscamente dalle mani di
Pepper, voltandosi di lato, non del tutto sicuro di essere in grado
di guardarla negli occhi adesso sorpresi. Celò con una
mano il reattore e con esso il lieve reticolo violaceo che lo
contornava; fu con sollievo che chiuse nuovamente i lembi della
camicia nascondendolo del tutto.
«Lasci. Faccio da solo,» quasi
ringhiò, come un animale ferito che tenti di difendersi con
le
ultime forze nonostante sia già in fin di vita.
Vide uno
scorcio di esitazione da parte sua e capì che si stava
chiedendo se fosse davvero
il caso di lasciarlo da solo.
«Che aspetta? Le ho detto che faccio da solo,»
sbottò,
con una voce che odiava essere così aspra eppure
così
tremante.
Quando lei esitò ancora continuò, alzando
la
voce. La cacciò praticamente fuori, quasi urlandole che ce
la faceva
da solo e che non doveva preoccuparsi per lui, che era stanco che
tutti si preoccupassero per lui, di avere sempre tutti attorno e poi
non riuscì a ricordare cos'altro. Qualunque cosa, pur di
allontanarla da quell'ulteriore preoccupazione, da quell'ennesima
crepa che solcava il suo guscio inutile.
Pepper, che aveva subito lo sfogo senza proferir parola, non aggiunse
nulla,
freddata da quell'esplosione improvvisa, ed uscì
semplicemente senza
guardarsi indietro, sbattendo la porta. Non seppe decifrare se non lo
avesse insultato per rassegnazione o puro
sdegno. Quell'indifferenza fu peggio di qualsiasi rimprovero.
Avrebbe voluto che gli urlasse contro, che gli dicesse finalmente
quanto lo detestasse e quanto fosse ingrato, che se ne andasse
lasciandolo davvero nel fango – e invece continuava a tornare
indietro e diceva di tenere a lui. La gola ancora
gli bruciava per lo sforzo e se prima si era sentito un mostro,
adesso non sapeva come definirsi.
Scosse la testa, questa volta
veramente sgombra da qualsiasi pensiero per quanto era stanco e
spossato. Fece per togliersi la camicia, ma la costola incrinata e la
spalla meccanica indolenzita gli impedirono di girarsi a sufficienza
per liberarsene; riprese quindi a lottare con la chiusura dei
pantaloni. Alla fine, esasperato, si lasciò scivolare nella
vasca
ancora parzialmente vestito, quasi cadendoci dentro. Emise un sospiro
di sollievo
nel sentirsi abbracciare
dall'acqua calda, ma i dolori muscolari lo assalirono subito dopo. Non
si era reso conto dello sforzo che il suo fisico
non più in forma come una volta aveva dovuto sopportare.
Prese il
doccino e se lo puntò sulla nuca, rilassandosi completamente
sotto
il getto che gli accarezzava i capelli, alleviando almeno
apparentemente l'emicrania. Rimase così a lungo, godendosi
quel
momento di estasi.
Dopo molti minuti si risolse ad
abbandonare quel sollievo e si immerse del tutto, con la testa
più
leggera poggiata mollemente sul bordo della vasca. Con enorme
fatica si liberò dall'impiccio della stoffa lacera, sporca e
pesante, che gettò poi sul pavimento. Tirò un
sospiro di sollievo nel
ritrovarsi completamente libero e a diretto contatto con il calore,
abbandonandosi al suo effetto ristoratore. Solo allora
notò quanto
fosse dimagrito: i pantaloni non gli andavano più
così larghi da
mesi...
Qualche chiazza violacea incominciava a delinearsi sulla
sua pelle attraverso la membrana cristallina dell'acqua e la visione
delle sue dita impresse sul braccio di Pepper si ripresentò
prepotente. Tastò un livido sulla gamba sana, assicurandosi
che
facesse male, e sperando di rivivere il colpo che Bruce gli aveva
sferrato, ma il dolore non era paragonabile a quello che provava nel
vedere il volto di Pepper contratto a causa sua, una macchina di
ferro incompleta che invece di autodistruggersi demoliva ciò
che gli
stava intorno.
Poggiò una mano sul reattore, avvertendo il lieve
ronzio che emetteva senza sosta. Quello almeno era rimasto
invariato, ma non sapeva se fosse un bene o un male. Non cambiava il
nucleo di palladio da circa tre mesi, da poco dopo l'incidente. Era
così irreale, quando fino a pochi mesi prima era costretto a
cambiarne uno ad ogni utilizzo dell'armatura. Eppure una
singola, sottile venatura nera spuntava evidente dal reattore,
solcandogli la pelle. Era irregolare, dai contorni squadrati, e si
protendeva minacciosa verso il suo collo arrivando qualche centimetro
sotto la clavicola. Era lì da un po', in effetti, ma
all'inizio era
così piccola e fine da non avergli dato troppo peso. Adesso,
oltre
alla linea che serpeggiava pericolosamente vicina all'attaccatura
della protesi, intravedeva sottopelle un reticolo di striature
più chiare attorno alla
circonferenza del
reattore,
che sembravano pronte a seguire la sua compagna e ad estendersi per
tutto il suo
torace. Colto da un sospetto improvviso inclinò la testa e
cercò di
guardare l'attaccatura della protesi anteriore: anche lì
intravedeva
dei capillari più scuri che si intrecciavano lungo il bordo
metallico, ma erano appena percettibili e molto più sottili.
Spostò
lo sguardo sulla gamba, notando solo la piaga più infiammata
del
solito che probabilmente poteva già celare un altro reticolo
di vene
intossicate.
Il suo volto si fece corrucciato mentre tastava con
malcelato ribrezzo la linea scura in leggero rilievo. Era sempre
stato consapevole della tossicità del palladio, ma non
aveva mai pensato seriamente a come contrastarla, a parte bevendo un
litro e mezzo di clorofilla al giorno. Aveva riso degli avvertimenti
di Ian in proposito e si era sottratto a qualunque altro controllo
medico da parte sua, proibendogli di farne parola con Pepper.
Forse
aveva sottovalutato la cosa.
Poggiò di nuovo la testa sul bordo
della vasca e chiuse l'occhio, lasciando ricadere la mano lungo il
fianco: non aveva senso cercare soluzioni quando non era neanche
sicuro di volerne trovare.
Si lasciò avvolgere dall'abbraccio
invitante della vasca, immergendo completamente la testa e avvertendo
il tepore che lo scaldava pian piano fino ai muscoli indolenziti.
Percepiva a malapena il peso del cilindro metallico nel suo petto; la
luce azzurrina che ne scaturiva dipingeva riflessi contorti sulle
pareti levigate della vasca. Lo strato trasparente d'acqua gli dava una
visione distorta del mondo esterno, ridotto a una massa tremolante
sopra di lui, dai contorni indistinti, quasi come la realtà
che
non voleva vedere con chiarezza. Sbattè un paio di volte la
palpebra prima di chiuderla, un po' infastidito. Incominciava a
risentire della mancanza di ossigeno, ma il suo corpo sembrava
abbandonato sul fondo della vasca e la testa era così
pesante da
sostenere... l'acqua invitante e accogliente. Non aveva nessun motivo
per riemergere da quella quiete. Qualche tremolante bolla
d'aria sfuggì alle sue labbra, risalendo verso la superficie.
Un
bussare ovattato lo raggiunse fin sotto l'acqua, attraversando senza
difficoltà la dimensione di tranquillità che era
riuscito a
ritagliarsi.
Non rispose: non voleva riprendere aria. Non
ora...
«Signor Stark?» chiese Pepper, non
ricevendo alcuna
risposta.
I polmoni brucianti per la carenza di ossigeno
lo costrinsero a riemergere, respirando affannosamente. I
capelli arruffati e grondanti d'acqua che sgocciolavano
interrompevano a malapena lo sgradevole silenzio.
Notò con la
coda dell'occhio la porta che si schiudeva appena.
«Non
entri,» rispose infine col fiato corto, quasi
ansioso,
impedendo alla donna di affacciarsi.
Pepper richiuse la porta,
l'ennesima tra di loro.
***
4
Aprile, 01:20, Villa Stark
La
polvere dei calcinacci era ancora ovunque, il muro stesso sembrava
essersi spalmato ovunque. Sul divano, per la cucina, sul pavimento
dell'intera casa...
Nonostante tutto, Tony si sentì quasi
soddisfatto del suo lavoro da casalinga disperata: i calcinacci erano
radunati in pile più o meno ordinate, le bottiglie d'alcool
erano finite nell'immondizia e un paio di
mobili avevano ripreso una posizione verticale.
Eppure gli
sembrava di non aver concluso ancora nulla. La casa era ancora
sottosopra, immersa nell'intonaco sgretolato e in qualche bottiglia
dimenticata, col tavolo ancora a gambe all'aria, e aveva patito le pene
dell'inferno per sistemare quelle
quattro cosette che non avevano cambiato poi molto la situazione
generale. Anzi, la protesi alla gamba sembrava andare a fuoco e
poteva giurare di sentire anche lo sforzo dei muscoli metallici
nonostante il cocktail decisamente azzardato di antidolorifici che
aveva ingollato prima di mettersi all'opera. Era addirittura riuscito a
mangiucchiare a forza qualche cracker, l'unico cibo di fronte al quale
il suo stomaco non si fosse ribaltato per la nausea, accompagnato da un
mezzo bicchiere d'acqua dal retrogusto alcolico.
L'unica nota positiva
in tutto quello scompiglio era di essere riuscito a non svegliare
Pepper, che dopo essersi accertata delle sue condizioni era andata a
dormire stremata al piano di sopra,
rivolgendogli uno sguardo che voleva chiaramente dire:
"fatti-trovare-in-piedi-e-ti-ammazzo". Purtroppo il suo
istinto di conservazione sembrava essere andato in vacanza, visto che
era ancora impegnato a vagare da un capo all'altro della villa nel
tentativo di renderla presentabile.
"Ok, JARVIS, hai vinto
tu."
Tony si rassegnò a riconnettere la scheda madre
dell'intelligenza artificiale che amministrava la casa e che
l'avrebbe tirata a lucido attivando il sistema di aspirapolveri e
robot appositamente installato, così si trascinò
con le stampelle fino all'ascensore e scese in laboratorio. Era da meno
di un giorno che
non vi metteva piede, ma sembrava già essere un secolo, e
doveva
ammettere che gli mancava terribilmente la sua "sala giochi"
e anche il benvenuto di JARVIS. La stanza si illuminò
automaticamente come vi mise piede, ma gli mancava ancora quella
scintilla di vitalità che aveva di solito: gli schermi erano
spenti
e le interfacce assenti. Quasi non riconosceva il suo covo.
Chiunque
avrebbe potuto notare a colpo d'occhio la sua assenza, seppur breve:
tutto era quasi ordinato, il contrario di ciò che restava
dopo il
suo passaggio. Era anche vero che l'ultima cosa sulla quale aveva
lavorato era la propria gamba: non c'era modo di creare troppo
disordine. Si accigliò quando quell'impressione fu
smentita
dalla scrivania nell'angolo, ancora rovesciata così come
l'aveva
lasciata quella mattina. La lasciò lì e si
diresse con decisione
verso il pannello di controllo piazzato in un angolo. Spostò
a colpo
sicuro qualche filo per poi reinserire la scheda, e questa riprese
subito vita, illuminando i suoi circuti della familiare luce
azzurrina.
"Azzurro. Perché azzurro ovunque?" si chiese
distratto, picchiettando un ritmo sul reattore mentre un ronzio
rassicurante pervadeva l'ambiente, segno che JARVIS stava riattivando
le connessioni.
«Bentornato, signore,» lo
accolse cordialmente, e Tony si
sentì
finalmente di nuovo a casa.
Assistette soddisfatto al riavvio del
laboratorio: improvvisamente tutto riprendeva vita.
Quasi
tutto. La parete delle armature rimase immersa nel buio, come sempre
da quando l'aveva isolata e aveva trovato il tempo e la forza per
schermarne il vetro, in modo da celarne il contenuto. Una vista
dolorosa in meno per il suo già affaticato occhio.
Si fece strada
fino alla consolle, scostando dal suo percorso i progetti e le
interfacce dimenticate aperte nell'ultima sessione, poi si sedette
sulla sua sedia come un re da lungo assente che riprende posto sul
suo trono.
«Tesoro, ti sono
mancato?» cinguettò
scherzosamente, scostando uno schermo fluttuante in maniera quasi
affettuosa e non volendo ammettere a se stesso il contrario.
Visto
che gli avvisi del reboot di JARVIS cominciavano a privarlo dello
spazio
vitale, con un gran gesto delle braccia radunò tutte le
schermate e
le ridusse a una pallina di dati tremolante, che gettò poi
nel
cestino virtuale che gli apparve accanto.
«Signore, la
planimetria dell'abitazione è stata
modificata.» Tony alzò
l'occhio al cielo. «Vuole registrare l'aggiornamento
o...»
«Registra
l'aggiornamento e tieni da parte il vecchio progetto della casa:
forse il mio nuovo hobby sarà costruire muri.»
«Sì,
signore.»
Essere tornato nel suo mondo gli dava un senso di
sicurezza, un misto di serenità e sollievo: era dove poteva
lasciare
fuori tutti i suoi problemi e decidere di far entrare solo quelli che
desiderava. E al momento aveva davvero bisogno di concentrarsi su
qualcosa di pratico, fisico e concreto. Avrebbe voluto riprendere in
mano la
progettazione delle protesi, ma sentiva di aver già fatto
troppo per
quella giornata, e non era esattamente di umore creativo per
fantasticare su tecnologie ancora inesistenti. Soprattutto non con le
mani che ancora gli tremavano e la vista vagamente ondeggiante per
l'alcool. C'era qualcos'altro che lo preoccupava
maggiormente.
«JARVIS, avvia ricerca: compatibilità elementi
esistenti con il nucleo del reattore arc.»
«Eseguo. Ricerca in
corso.»
Tony sollevò la maglietta fino a scoprire il reattore,
utilizzando lo schermo davanti a lui come specchio: osservò
incuriosito la vena innaturalmente squadrata che incombeva minacciosa
sul suo petto. Avrebbe potuto giurare che si fosse già
allungata, ma forse
era solo suggestione. Intanto un secondo schermo lampeggiante
richiamò la sua attenzione, mostrandogli i risultati della
ricerca.
«Nessun elemento compatibile con la tecnologia arc, signore.
Al
momento il palladio è l'unica soluzione
disponibile.»
Tony osservò
la tavola periodica appena analizzata, cercando di pensare a qualche
possibile combinazione tra i vari elementi, poi con un gesto
scacciò
via la schermata. Non credeva davvero di avere forze sufficienti per
sostenere anche quell'esito negativo. Inoltre, non riusciva a non
preoccuparsi per il fatto che se mai avesse dovuto sostituire il
nucleo del reattore, i micro-reattori che alimentavano le protesi
avrebbero dovuto subire la stessa sorte. E ciò voleva dire
modificare un qualcosa che era ancorato alla protesi... e al suo
midollo osseo.
Si passò una mano sul pizzetto, turbato dalla
necessità di dover subire una qualsiasi altra operazione:
dopo
l'intervento alla gamba aveva momentaneamente accantonato anche il
progetto di un occhio sintetico, per quanto era spaventato all'idea
di finire
– in ogni senso – di nuovo sotto i ferri. Ma
dopotutto le protesi non erano così dannose e i sintomi
potevano
essere tenuti sotto controllo dalla clorofilla e da qualche altra
diavoleria che era sicuro di poter trovare o inventare: avrebbe
potuto cambiare solo il nucleo del reattore centrale, decisamente
più
problematico, visto che si trovava a contatto diretto coi suoi organi
interni.
Si accigliò, rendendosi conto che anche in questo caso
avrebbe avuto un'unica possibilità. Quanto gli sarebbe
costato
inserire un elemente incompatibile nel reattore? E
soprattutto: un arresto cardiaco causato da una scheggia che gli
spaccava il miocardio sarebbe stato meglio o peggio di una morte
lenta e dolorosa per intossicazione da metallo pesante?
Tornò ad
osservare la venatura nerastra che spiccava sulla sua pelle. Sentiva
un lieve senso di oppressione al petto e gli sembrava che i polmoni
fossero meno ampi del solito.
"Solo suggestione,"
si ripeté con fermezza, ma il suo volto non si
rilassò.
«JARVIS...»
Esitò. Voleva
davvero saperlo?
«Quanto... tra
quanto
l'intossicazione
diventerà un problema serio?» modificò
la domanda in corso d'opera, sentendo
che in quel momento non era nelle condizioni di farsi rivelare il
tempo che gli rimaneva.
«Mi è impossibile eseguire dei calcoli
precisi, ma la mia stima è che tra circa sei o sette mesi i
sintomi
diventeranno evidenti, quando la concentrazione di palladio
supererà
il 20%»
«Sintomi?»
Le sopracciglia di Tony si aggrottarono ulteriormente mentre seguiva
le venature di palladio con l'impressione di riconoscervi forme e
figure geometriche.
«Signore, le sconsiglio vivamente di
ricercare i sintomi dell'intossicazione da metalli pesanti,»
rispose
JARVIS, in uno slancio di premura inatteso.
«Mh. Per
fortuna ti ho dotato di più buonsenso di me,»
commentò lui, con un
sorrisetto spento, decidendosi a lasciar ricadere la maglietta.
Il logo degli AC/DC
tornò a celare il
reticolo venefico che occupava il suo petto.
Fissò assente
il suo riflesso, cercando di collocare quell'ultimo problema nel
puzzle già abbastanza complicato e malmesso che era
diventata la sua
vita. Per ogni tassello che sistemava al posto giusto ne spuntavano
fuori altri dalle forme stravaganti che sembravano non avere nulla a
che fare con i pezzi che già aveva.
«Signore, posso suggerirle
di utilizzare un rilevatore di tossicità?»
Tony sobbalzò,
riportato alla realtà dalla voce elettronica del suo
maggiordomo
virtuale. Uno schermo galleggiava a un palmo dal suo volto e lo
allontanò un poco con la mano, focalizzando lo spaccato di
un
congegno. Nella sua mente era ancora impressa l'immagine della
vena squadrata e nociva che risaltava sulla sua pelle. Strinse il
pugno metallico più volte, nervoso, poi afferrò
titubante gli
occhiali da saldatore rimasti abbandonati sulla consolle.
Li
soppesò per qualche istante, mentre la vena prendeva a
ramificarsi
nella sua immaginazione, occupando pian piano tutto il suo petto.
Scrollò la testa e a quel gesto la sua spossatezza
sembrò
evaporare dalle sue membra.
Scivolò rapido al banco di
lavoro, iniziando ad assemblare il congegno.
***
4
Aprile, 04:20, Villa Stark
Il
salone aveva un aspetto molto più presentabile, adesso, per
quanto
una stanza con un muro diroccato potesse essere presentabile. La
polvere e
i calcinacci erano spariti, segno che JARVIS aveva svolto a dovere la
pulizia.
Tony era sprofondato nel divano dopo essere brevemente
passato per il letto solo per rigirarsi insonne tra le lenzuola, e il
suo occhio era ancora spalancato nel buio. Sarebbe dovuto
teoricamente collassare per la stanchezza di quella giornata
interminabile, ma temeva quel che avrebbe potuto sognare se l'avesse
chiuso, così si limitava a fissare il circoletto azzurrino
del
reattore proiettato sull'immensa vetrata, sperando che potesse
ipnotizzarlo e
conciliargli il sonno.
Non stava funzionando.
Le protesi
gli facevano meno male, adesso, ma ogni movimento era comunque
un'agonia.
Si massaggiò le tempie e cambiò posizione, con
l'emicrania che gli martellava
ancora il
cervello; chiuse appena l'occhio e quando lo riaprì il suo
sguardo
fu catturato da un tenue riflesso di fronte alla parete crollata.
Riconobbe i vetri sparsi attorno a un oggetto più scuro: la
cornice
che aveva accuratamente evitato di raccogliere prima.
"Quello
è di Pepper," pensò stancamente, recuperando le
stampelle e
alzandosi senza quasi rendersene conto.
Si inclinò un poco,
esaminando i resti del quadro: il vetro era irremediabilmente
infranto e la cornice un po' storta, ma la tela era integra: una
semplice striscia nera su fondo bianco, dalla bellezza a lui
incomprensibile. Pepper teneva immensamente a quel pezzo,
il primo che aveva acquistato per la collezione d'arte moderna, e non
riusciva a ricordare quante volte l'avesse implorato di trattarlo con
cura durante le sue numerose e fantasiose ristrutturazioni della
villa.
Sospirò e lo sollevò con qualche
difficoltà, rischiando
di perdere l'equilibrio.
Ancora dolorante, recuperò un chiodo dai
recessi della casa e si avvicinò alla parete che dava
direttamente
di fronte alle scale, dietro alla cascata a vetro. Al piano superiore
dormiva
Pepper: non sarà stato un gran modo per chiedere scusa, ma
poteva
essere un inizio. Si guardò istintivamente intorno in cerca
di un
martello, poi sbuffò, dandosi dell'idiota e piantando il
chiodo con
un paio di manate ben assestate della protesi. I tonfi rimbombarono
nel salone, più forti di quanto avesse pensato, ma si
arrischiò a
dare un altro colpetto per fissarlo meglio. In tutta fretta
riappese il quadro e fece per scivolare via il più
silenziosamente
possibile, ma i pochi secondi che perse per imbracciare le stampelle
bastarono a Pepper per comparire in cima alle scale.
«Cosa ha
rotto adesso?» lo
apostrofò
senza giri di parole, con voce ancora assonnata.
"Avrei una
lunga lista..." pensò lui.
«Qualcosa a cui tenevi,» rispose
invece, a voce bassa.
Pepper lo fissò spaesata, indecisa se
prenderlo sul serio. Notò solo allora il quadro appeso alle
spalle
di Tony, e rimase davvero senza parole.
«Perché sposta quadri nel
cuore della notte?» chiese,
scendendo cautamente le scale, nel chiaro tentativo di mascherare la
sua sorpresa.
Era avvolta in una vestaglia chiara, coi capelli ramati
sciolti e un po' scomposti dal sonno; i piedi nudi si posavano
silenziosi ed eleganti sul marmo dei gradini. A Tony parve di vederla
di nuovo fasciata da quel vestito blu elettrico che le aveva
"regalato". Non poté evitare che un sorriso
malinconico gli incrinasse il volto al ricordo, subito sostituito da
un'espressione a metà tra il colpevole e l'imbarazzato non
appena
Pepper si portò dinanzi a lui. Distolse lo sguardo da quello
indagatore di lei e si limitò ad alzare le spalle,
trattenendo una
smorfia di dolore. Udì distintamente Pepper sospirare, per
poi
incrociare le braccia. Il suo sguardo spaziò nel salone
adesso quasi
in ordine, accentuando il suo stupore.
«Si è dato da fare,» si
limitò a dire infine, in tono
neutro. «Adesso, la
prego:
vada a dormire,» aggiunse,
non potendo fare a meno di notare che l'iride nocciola di Tony si era
improvvisamente illuminata al suo commento.
«Scusa,» replicò
lui, stavolta cercando i suoi occhi.
Pepper ebbe un altro moto di
sorpresa, probabilmente chiedendosi quando, in vita sua, avesse
sentito Tony Stark che si scusava.
«Me
lo avrebbe dovuto dire prima, forse,» ribatté, riluttante ad abbandonare le
formalità.
«Non cambia nulla,
ma scusami. Per tutto.» insistette
lui, e s'incupi, colpito da molti pensieri spiacevoli che non
poteva tradurre in parole.
Pepper notò quel turbamento.
«Cos'altro deve dirmi?»
Tony esitò,
rimanendo con le labbra socchiuse, senza decidersi a
parlare.
«Ho dei pensieri strani,» mormorò
poi, mentre una miriade di sensazioni esplodeva nella sua testa
risalendo prepotentemente fino alla bocca, non chiedendo altro che
essere espresse, ma le ricacciò indietro con violenza.
«Di che tipo?» Pepper
si accigliò, improvvisamente inquieta e attenta.
Attenta per lui,
ancora, nonostante tutto. Sentì una stretta al petto e
poteva essere il palladio, così come il senso di colpa o
qualche altra emozione a cui esitava a dare un nome.
«Niente
d'importante,» sospirò,
un po' brusco. «Torna pure a dormire,»
aggiunse
con voce più dolce.
«Tony, capisco che adesso non vuoi darmi
altre preoccupazioni, ma non vuol dire che tu non debba mai dirmi
nulla,» ribatté
lei, seria e rassegnata, e incrociò più
strettamente le braccia sotto al seno,
rimanendo piantata al suo posto.
Lui, nel vederla ancora
così forte e incrollabile, si scoprì ad
osservarla con un'intensità
che non aveva mai usato e che gli suscitò un vivo pizzicore
nello stomaco.
Tacque, con la sensazione ineluttabile di aver perso troppo tempo, e
che adesso fosse troppo tardi per recuperarlo.
***
Pepper
non si aspettava che le rispondesse, ma rimase comunque amareggiata
dal suo silenzio. Fu solo allora che lo osservò meglio e la
rassegnazione si tramutò in apprensione.
Una luce esausta
brillava nel suo sguardo, che cercò il suo e vi si
ancorò per
secondi interminabili. Un sorriso stanco e inclinato da una piega
amara attraversò il suo volto, così rapido da
sembrare un
miraggio.
«Sei bellissima,» disse
infine, semplicemente, e Pepper non riuscì a cogliere alcun
velo
d'ironia o sfacciataggine in quelle parole del tutto fuori
luogo e inaspettate.
Riconobbe quello
sguardo e quel timbro, che forse era il più espressivo
tra la vasta gamma che Tony
era in grado di utilizzare. Era quella voce più grave del
solito,
fredda e quasi priva d'inflessione; si sarebbe detta provenire da
un'altra persona totalmente estranea se non fosse stato per quella
luce di serietà e determinazione nello sguardo, che pareva
diventare
così profondo da potervisi perdere dentro.
Alle orecchie di Pepper acquisiva
una sfumatura minacciosa.
Era lo stesso tono che usava
quando parlava di suo padre, quelle rare, dolorose volte. Lo stesso
con cui le aveva detto che non voleva più produrre armi.
Quello con
cui le aveva spiegato perché era diventato Iron Man e le
aveva
confessato quanto solo fosse in realtà; con il quale le
aveva
chiesto, tremante, di togliergli le bende in un giorno che sembrava
una vita fa. Lo stesso che aveva usato quando era crollato,
impotente, stroncato da una doccia di caffè e da un peso
troppo
voluminoso che gravava sulle sue spalle. Temeva quella voce venata di
una tristezza irreale e di una grave compostezza che non gli si
addiceva, perché era associata a ricordi e confessioni
dolorose e
colme di rabbia e impotenza.
E quello sguardo apriva un abisso
denso nel suo occhio spossato.
Le parole che le aveva rivolto, che
sarebbero suonate allegre e forse scherzose in un momento normale,
assunsero una sfumatura più cupa, più profonda,
tanto che non
riuscì a coglierla del tutto, ma non potè fare a
meno di sentire un
velo freddo che le ostruiva la gola impedendole di ribattere.
«Si
è fatto veramente tardi. Sarà meglio che vada a
dormire. E anche
lei,» commentò infine lui in rapida successione,
apparentemente
distaccato «Buonanotte,» aggiunse
poi, recuperando quel mezzo sorriso mesto che lei non riuscì
a
ricambiare.
«Buonanotte,» replicò lei con voce
sottile, così piano
che dubitava l'avesse sentita.
Lui distolse lo sguardo senza
aggiungere altro, allontanandosi a passi stanchi.
Pepper tornò
lentamente in camera, sentendo di avere le mani ghiacciate, e forse
anche il cuore.
____________________________________________________________________________________________________________
Revisione effettuata il 04/03/2018
Note delle Autrici:
Gesùbbambino... LA FATICA! Manco le ostetriche fanno così tanta fatica a far partorire... ma siamo qui. Ancora. Onnipresenti. Sempre più logorroiche, cattive e odiate da Tony. Sempre più r-o-m-p-i-b-a-l-l-e. *scandiscono*
Questo capitolo è un massacro per Tony, per voi e lo è stato per noi, credeteci! Ci stiamo rendendo conto che tutte le pene che gli facciamo passare alla fine si riversano anche su di noi sotto mentite sembianze di blocco dello scrittore e di scornamenti vari.
Ah, si pregano i gentili lettori di prestare particolare attenzione alla citazione iniziale, quella "spaccata": la parte blu è Tony, quella arancio Pepper. Tipo "dialogo interiore", o qualcosa del genere... E sono lievi spoiler del prossimo capitolo, quindi scervellatevi pure! :D
NOTA BENE:
Possiamo ufficialmente comunicarvi che il prossimo capitolo verrà pubblicato il 18 MARZO, giorno dell'anniversario di questa fan-fic, e sì, è un anno che stiamo qua e nessuno ci ha ancora preso a sprangate :3 Sarebbe anche ora, in effetti. Comunque, tutta questa importanza data al prossimo capitolo e il nostro estremo fomento sono dati da 3 principali motivi:
1. [Edit 04/03/2018: Teoricamente nel capitolo successivo si sarebbe dovuta concludere la prima parte della storia, almeno secondo il piano originario; in pratica ciò è stato slittato al capitolo 28, più sensato in seguito alla revisione e in luce dei nuovi capitoli.]
La FF è stata pensata in tre parti, rappresentati la vita della Fenice: Flames, Ashes e Rebirth, per concludere appunto con Phoenix.
Tutto ciò, soltanto perché è una cosa figa che ci è venuta in mente e volevamo darvi un'idea più precisa della storia: non è campata del tutto in aria come potrebbe sembrare. La sofferenza di Tony avrà un perché.
2. È un capitolo che abbiamo in mente dall'inizio della storia e, dopo che lo avrete letto, vi renderete conto di quanto stiamo male... perché così stiamo. MA, ma, ma... Chi vivrà vedrà e "Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate"; (?)
3. Riusciremo a pubblicare quando lo diremo noi, dato che il capitolo è già pronto, concluso e completo *piangono dalla commozione*
Detto ciò, ringraziamo chiunque abbia letto, recensito in passato, presente e futuro, aggiunto la storia tra le seguite/preferite/ricordate e in particolare coloro che hanno recensito l'ultimo capitolo! Rogue92, Alley, Thirrin, 81serena, aston e Sherlock_Watson <3
Moon&Light
P.S.: LA FATICA! Anche la citazione ci ha fatto sanguinare... adesso siate sadiche e godetevi la nostra sofferenza :D Bye!
Edit 04/03/2018: È stata introdotta in maniera più incisiva la problematica del palladio, che diventerà in effetti il filone principale di tutta la seconda parte della storia
© Marvel
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Capitolo 27 *** Apocalypse, please ***
26
Apocalypse,
please
"So
what ails you is what impales you
I feel like I've been crucified to be satisfied
I'm a victim of my symptom
I am my own worst enemy"
[Restless
Heart Syndrome – Green
Day]
4 Aprile,
Villa Stark
Tony
osservò il nuovo progetto della protesi inferiore
posizionato
sul tavolo davanti a sé. Gli strumenti da lavoro del suo
laboratorio
erano allineati in ordine lì accanto, pronti a essere
utilizzati
per creare qualcosa di inesistente o di straordinariamente geniale
degno di portare il marchio STARK.
Continuò a fissare assente
il
tutto, muovendosi svagato sulla sedia girevole, poi prese a
guardarsi intorno, spaesato, quasi non sapesse dove si trovava. La
visione desolata del suo laboratorio illuminato unicamente dalla luce
del bancone non contribuì a migliorare il suo umore
già tetro.
Non si
era ancora del tutto ripreso dalla sbronza: di sicuro il mal di testa
non era passato, e preferiva attribuirlo a quella piuttosto che ad
altre cause meno piacevoli, come sostanze nocive che non avrebbero
dovuto essere nel suo corpo. Ricercare i sintomi
dell'intossicazione da metalli pesanti non si era dimostrata una
mossa furba, doveva dar ragione a JARVIS.
Si sistemò infastidito
la benda sull'occhio: la piaga non gli aveva dato un attimo di tregua
dalla sera prima, ballando a tempo con l'emicrania. Quella mattina sul
presto, dopo appena un paio d'ore di sonno agitato, aveva ingollato una
dose di antidolorifici decisamente rischiosa e si era
trascinato in laboratorio con l'intenzione di rimettersi al lavoro.
Dopo qualche minuto di traffici inconcludenti, si
era reso conto ben presto che non riusciva davvero a comportarsi come
se
niente fosse accaduto. Così si era semplicemente lasciato
sprofondare nei suoi pensieri, aprendo infine quelle porte che
aveva tenuto serrate fino ad allora. Il caos che ne era
fuoriuscito l'aveva quasi sbalzato via ed aveva impiegato quelle che
era abbastanza certo fossero ore a districare ogni filo contorto dei
suoi pensieri senza più cercare di nascondersi nulla. Non
sapeva cosa stesse cercando di fare, esattamente. Forse sperava ancora
di trovare una soluzione a quel che era diventato, forse cercava la
conferma del fatto che non esistesse, e in entrambi i casi non riusciva
a capire come avrebbe dovuto reagire.
Di certo, le
conclusioni a cui era arrivato l'avevano gettato in un pozzo ancora
più buio di quanto avesse pensato. Un pozzo vuoto, come
quello che
gli si allargava nel petto man mano che dipanava quella matassa di
pensieri intricata che si abbarbicava nel suo cervello come un'erba
infestante.
Sapeva esattamente cosa aveva, ma sapeva anche che
cosa gli mancava, ed entrambe le cose rendevano la sua vita
insopportabilmente invivibile. Era da quando si era risvegliato
mutilato su
quel letto d'ospedale che faticava anche a fare le cose
più semplici. E non si ricordava un giorno in cui non avesse
provato qualcosa che non fosse senso
d'impotenza e
dolore – quel dolore sordo, che nulla aveva a che fare coi
moncherini, che non scompariva mai e che si accentuava quando qualcuno
cercava di aiutarlo. La sfiducia lo attanagliava, e a nulla serviva il
fatto
di non essere del tutto solo in quel disastro. O piuttosto, di
costringere gli altri a seguirlo in esso. Se possibile rendeva il tutto
ancora più intollerabile.
Al momento, i suoi pensieri avevano preso a roteare minacciosi attorno
a un unico fulcro, come un ciclone di dimensioni spaventose che ruota
attorno al proprio occhio. Pepper. Non riusciva ancora ad accettare
come reale quel che le aveva fatto. Quella mattina non l'aveva
vista e ne era stato sollevato, così da non dover
riconoscere la prova tangibile della propria meschinità
impressa sul suo braccio.
Voleva pensare e
convincersi che quel gesto avventato fosse stato solo colpa della
sbronza e magari del
palladio – che a quanto pareva causava sbalzi d'umore assieme
a
un'altra ventina di sintomi che aveva ignorato fino ad allora e che
avrebbe preferito continuare ad ignorare. Voleva crederci davvero, ma
la verità era che,
palladio o no, sobrio o meno, sentiva di non essere più del
tutto padrone di se stesso. Era come se ci fosse un difetto di
fabbricazione in lui, che lo faceva agire costantemente nel modo
sbagliato e reagire in modo imprevedibile e dannoso per se stesso e gli
altri. Aveva la consapevolezza che, se anche ci fosse stata
una mano tesa verso di lui per aiutarlo a uscire da tutto quel nero,
non sarebbe riuscito ad afferrarla né a vederla, o magari
non
l'avrebbe semplicemente considerata.
Quanto se la meritava, in fondo? Cosa avrebbe potuto offrire in cambio,
se non altri problemi, altri frammenti di sé, altre paure?
Sentiva di non avere più nulla, e niente sembrava
più
appartenergli: la sua casa, le protesi, Pepper, Iron Man, la sua stessa
vita...
Da
quant'era che si svegliava con quel senso di apatia totale? Ci aveva
messo un po' a capire quando, esattamente, quel buco nero avesse
iniziato a risucchiarlo, e ancor di più a individuarne
l'origine materiale. Era niente più che una capocchia di
spillo nel suo oceano di problemi, ma adesso brillava con pungente
intensità nella sua testa, riportandolo al momento in cui la
persona a cui avrebbe affidato la propria vita senza pensarci due volte
aveva stabilito che non poteva farcela. E a nulla erano serviti i
litigi e le riappacificazioni: quelle parole avevano continuato a
dibattersi come lame nel suo petto, conficcandosi sempre più
a fondo.
Aveva avuto la netta percezione delle proprie mani che lasciavano il
volante della propria vita, lasciando che sbandasse a destra e a manca,
incurante di ciò che sarebbe successo poi e delle
conseguenze. Si era lasciato andare, e tutto era peggiorato dopo
l'operazione alla gamba: quella "fase" di prostrazione non era mai
passata. Covava dentro di sé, a
sua stessa insaputa, nascosta dietro la facciata d'indifferenza e
spavalderia che costruiva ogni giorno con cura e dedizione. Ma
tornava a galla, sempre, nel cuore della notte, quando era solo coi
suoi pensieri: protesi e protesi, miglioramenti, Iron Man, Pepper,
ancora protesi e poi il vuoto. Sempre quel vuoto che si faceva strada
in lui con le unghie e con i denti, ma piano, lentamente,
così
lentamente che quando lo aveva percepito la prima volta era
già una
voragine insanabile.
Il respiro gli tremò e si portò una mano a
coprire gli occhi –
l'occhio, dannazione.
Sbattè il pugno sul
tavolo, lasciando un'intaccatura nel metallo. Poi c'erano quelle
volte il cui il vuoto si faceva così profondo da rodergli il
cuore e
far scattare la scintilla dell'ira. Lui la lasciava divampare, e i
risultati si erano visti: una casa distrutta, lividi ovunque e Pepper
gelida e ferita come non mai. E lei ancora non
sapeva dei
marchingegni rotti accatastati in laboratorio, non vedeva i crateri
nei muri e i tavoli rovesciati e non sentiva le vetrate rotte e non
aveva idea di dove fossero finite le armature, perché lui
rimetteva
sempre tutto in ordine perfetto, preciso, metodico. Come un assassino
che fa scomparire le prove del suo omicidio, rimetteva a posto e
ridipingeva la sua facciata d'indifferenza, e tutto sembrava di nuovo
lontano e insignificante. Quando persino gestire se stesso e
conviverci era un'impresa titanica, non trovava più un senso
nel
continuare a sperare in qualcosa di impossibile come il "ritorno
di Iron Man".
Ripensò alle parole di Bruce: forse un tempo
aveva davvero creduto in ciò che faceva, ma adesso si
rendeva conto
che la sua amata maschera di ferro era solo un'altra facciata che gli
infondeva sicurezza, un' armatura difettosa che con le sue falle
esponeva il suo cuore
alle interperie e al caso mentre lui fingeva di essere indistruttibile.
Ma non lo era, e si stava rompendo un pezzo alla volta.
Deglutì
a fatica, sentendosi improvvisamente la bocca secca, e si costrinse a
mettere da parte quei pensieri e a serrare di nuovo quella porta. Si
sarebbe riaperta; l'avrebbe riaperta lui stesso, ne era certo, ma
adesso aveva un bisogno fisico di immergersi nei suoi calcoli e in
qualcosa di manuale che richiedesse la massima concentrazione.
Potersi estraniare a quel modo era una grazia dal cielo, una delle
poche.
Ancora frastornato dagli echi dei suoi pensieri, si tirò
su la gamba del pantalone e scoprì il punto di contatto tra
l'articolazione meccanica e la piastra metallica che si congiungeva
alla coscia; con estrema attenzione svitò con un cacciavite
una vite
della struttura principale e la ripose sul tavolo. Circondò
poi la
gamba con entrambe le mani e cercò coi polpastrelli della
mano buona
le due piccole scanalature incassate nel metallo, premendole con
forza e tirando lievemente la protesi verso l'esterno. Quel passaggio
faceva sempre un po' male, perché i punti di sutura non
erano ancora
guariti: spiccavano rossastri sulla linea di giunzione tra carne e
metallo. Strinse i denti tirando un altro po', e la protesi
si staccò
infine con un lieve rumore di barattolo sottovuoto appena
aperto.
Pensando al paragone, Tony si accorse di non avere nemmeno
fame: eppure dal giorno prima si era limitato a mandar giù
controvoglia un paio di cracker insipidi e a malapena un bicchier
d'acqua, anche perché
qualsiasi cibo continuava ad avere uno spiacevole sapore di alcool
che gli torceva lo stomaco. Quella mattina si era dovuto forzare
persino a bere una tazza di caffè esageratamente zuccherato
nella speranza di assimilare con esso un briciolo di sostanze
nutritive. Era già da qualche settimana che non
sentiva la necessità di mangiare nulla; forse se il suo
corpo
avesse avuto facoltà di parola avrebbe avuto qualcosa da
ridire, ma
lui poteva passare tre giorni senza avvertire i morsi della fame.
Probabilmente era un altro degli effetti della clorofilla, che non
era la sostanza più semplice da digerire, pur avendo un
apporto calorico insignificante. Come di
riflesso, ne bevve un paio di sorsi dalla borraccia sempre a portata di
mano. Non si chiese quanta utilità potesse avere quel
gesto: non aveva neanche la forza di pensarci.
"Sei, sette
mesi..." gli balenò in testa, ma soppresse il resto.
I
suoi pensieri vagavano un po' troppo liberamente, quella
mattina, e si impose
di concentrarsi nuovamente sul perfezionamento delle protesi.
Poggiò la gamba meccanica sul tavolo,
ignorando
consapevolmente la
cavità provocata poco prima dal suo pugno, che
trovò un utilizzo
pratico quando gli permise di poggiarvi il tallone per mantenere
diritto l'arto. Non si sarebbe mai abituato a vedere un
pezzo di se stesso davanti ai suoi occhi, ma si fece forza. C'era
ancora molto da fare: le dita non erano neanche lontanamente vicine
ad avere delle sembianze umane; il piede aveva assunto una forma
più
naturale, ma doveva ancora ricreare la funzione del tendine d'achille
e almeno la maggior parte delle ossa. Doveva anche riparare i danni
provocati dallo scontro con Hulk: c'erano vari graffi,
un'ammaccatura non indifferente sul polpaccio e vari punti in cui i
legamenti ancora scoperti sembravano essersi allentati. Nessuna
sorpresa per il fatto che riuscisse a camminare solo con le stampelle
e che avesse continuamente l'impressione di doversi perdere l'arto da
un momento all'altro. Senza contare che il braccio continuava a
fare le bizze ed aveva anch'esso urgente bisogno di riparazioni.
Riusciva a malapena a controllarlo e prima o poi avrebbe dovuto
affrontare il problema, rimasto parzialmente insoluto sin dallo scontro
con Rogers.
Era un carico di lavoro immenso. Le fitte alla
gamba non miglioravano la situazione ed era consapevole del fatto che
nel suo stato sarebbe stato impensabile anche solo alzarsi dal letto.
D'altronde né Ian, né tantomeno Pepper gli
avevano più ricordato
quel piccolo dettaglio, forse perché sapevano che li avrebbe
semplicemente ignorati. Tony si passò le mani tra i capelli,
cercando di riordinare le idee o, più che altro, di
eliminarne una parte nella speranza di ridurne il sovraccarico.
Non
aveva più
tempo. Era troppo tardi per rimediare agli errori
e troppo
presto per pensare di poter andare avanti, di poter trovare qualcosa
dove non c'era niente.
Non ce la faceva più. Aveva solo voglia di
chiudere gli occhi e dormire, sperando che quando li avrebbe
riaperti, entrambi, si sarebbe risvegliato nella
sua casa,
insieme alla sua amata assistente dai capelli rossi e alle sue
armature...
magari anche con un reattore in corpo: poteva sopportarlo, se la sua
vita fosse tornata esattamente com'era con un semplice battito
di ciglia.
Troppe volte si era risvegliato volendo credere che fosse
stato tutto un terribile incubo e che il dolore fosse solo
un'illusione. Ma l'illusione non c'era; non c'erano trucchi
né inganni ed era tutto assolutamente vero, al
punto da avergli distrutto
la vita pezzo dopo pezzo, come un castello di sabbia che si dissolve
alla prima onda troppo vicina.
Tamburellò distrattamente sul
reattore, ormai abituato al netto seppur esitante ticchettio che
provocavano le sue dita meccaniche sulla piastra metallica.
Scostò
il colletto della polo, sbirciando il congegno che lo teneva in vita,
o meglio, l'intrico di tenui venature bluastre che si diramavano da
esso.
Si era allargato?
Quella più evidente si era ormai
congiunta all'altro reticolo semitrasparente che scaturiva dalla
protesi, sulla clavicola. La situazione era ancora sotto controllo,
si ripeté: non aveva avuto bisogno di cambiare il nucleo di
palladio, ma la cosa iniziava a farsi realmente preoccupante.
Fissò
con astio il congegno che aveva ideato sotto suggerimento di JARVIS
per tenere sotto controllo il livello d'intossicazione; quindi lo
prese, premette il pollice sul minuscolo ago e lesse il valore che
lampeggiò dopo pochi istanti sul display: 11%. Appena il
giorno
prima era ancora al 10%, realizzò con un'improvvisa morsa di
paura.
Questo con un reattore e due micro-reattori in corpo. Non
era poi così alto, doveva ammettere, ma per quanto tempo
sarebbe
rimasto in quei range? In pochi mesi sarebbe salito al 20, 30%. I
micro-reattori erano in grado alimentare le protesi ancora per una
cinquantina d'anni. Quanti ne avrebbe vissuti lui? Due? Quanto
poteva reggere il suo corpo già così indebolito?
Il suo pensiero corse
involontariamente a Pepper. Avrebbe dovuto dirglielo, così
avrebbe
potuto infuriarsi anche per quello, ma il solo pensiero gli
causò un
dolore sordo allo stomaco, come se qualcuno gli avesse sferrato un
pugno.
Posò di
malagrazia il dispositivo sul bancone. A pensarci bene non aveva alcuna voglia di
lavorare sulle
protesi, né di fare qualcosa di diverso dallo stare seduto a
fissare
il soffitto del laboratorio. Scosse la testa e prese l'arto
meccanico, reiserendolo nella sua sede con uno
scatto secco e un gemito soffocato. Rimase per qualche secondo
ripiegato su se stesso,
inerte, nel silenzio pesante del laboratorio rotto solo dai suoi
respiri
profondi.
Si raddrizzò dopo un intero minuto in cui il dolore aveva
tenuto lontana qualunque riflessione, risvegliando il malsano istinto
di staccare e riattaccare nuovamente la protesi, così da
prolungare quel momento di lieto oblio. Dominò
quell'impulso e riprese inevitabilmente a pensare. Non si
sforzò neanche di indirizzare le
sue riflessioni verso una rotta ben precisa: le
lasciò
scorrere con fare indifferente, come se non gli appartenessero. Se il
solo odore dell'alcool non gli avesse dato la nausea, ne avrebbe
volentieri bevuto un sorso per accompagnarne l'andazzo ondeggiante.
Iron Man. Pepper. Le protesi. Il
sequestro delle protesi. Pepper. Le Stark Industries. Christine.
L'Afghanistan. Suo padre. L'intossicazione. Pepper. L'occhio. Ancora
Pepper. Sempre Pepper.
Lo aveva perdonato? Ne dubitava. Lo avrebbe mai fatto?
Dipendeva da lui. Voleva veramente essere
perdonato?
Forse
no: avrebbe voluto dire che sfasciare la casa, farle male, ridursi
sull'orlo del coma etilico, vomitare l'anima, attirarsi le ire dei
Vendicatori ed essere irremediabilmente ingrato erano tutti
comportamenti perdonabili.
Si passò le mani sul volto, in un
gesto stremato. Come diavolo ci era arrivato, lì?
Eppure
all'inizio non era sembrato così difficile.
Un paio di protesi:
poteva farcela; un occhio andato: poco male, avrebbe trovato una
soluzione; capi d'accusa che piombavano da tutte le parti:
probabilmente se tutti non fossero stati così preoccupati
non si
sarebbe neanche presentato in aula. Poi era arrivato una sentenza
definitiva dall'unica persona di cui si fidasse ancora. Verdetto:
irrecuperabile.
E poi aveva
cominciato a pensare, a ripercorrere le volute contorte che l'avevano
condotto a quello sfacelo. Gli capitava troppo spesso di perdersi nella
freneticità del momento e realizzare solo troppo tardi cosa
vi fosse
all'origine.
Iron Monger, certo. Era stato lui a ridurlo in quello
stato pietoso. E dentro la macchina, l'uomo, l'amico.
Cercava
di non pensarci, ma quelle rare volte riusciva solo a provare
un'atroce delusione e una rabbia cieca e ingiustificata: Obadiah
ormai era morto. L'aveva ucciso lui, a quanto pareva. E se all'inizio
ne era rimasto quasi scioccato, adesso rimpiangeva di non riuscire a
ricordare l'esatto momento in cui quello che avrebbe dovuto essere la
sua guida era stato carbonizzato dal reattore. Poteva dire di aver
avuto almeno un briciolo di giustizia per ciò che aveva
subìto. Per quanto non fosse un
pensiero nobile ne traeva una qualche, seppur amara,
consolazione.
Era a quel punto, quando la sua mente si districava
tra il groviglio dei suoi ricordi fino al nodo di Stane, che
intravedeva le radici della sua rabbia inconsumabile, e in quel punto
cercava di ritrarsi di scatto, distoglieva i pensieri, serrava l'unico
occhio fingendosi completamente cieco. Perché l'immagine
successiva che lo
colpiva era la sabbia rossa del deserto, proiettili che sibilavano e
una bomba con sopra impresso il suo nome che gli esplodeva in faccia.
E l'esplosione rimbombava all'infinito, nell'eco di centinaia di
altre bombe, mine, ordigni, tutti con il netto e preciso marchio STARK che spiccava
sulla corazza plumbea. Ad ogni
detonazione, un ferito, un morto, un mutilato. Un viscido senso di
colpa che gli mordeva le viscere.
Avrebbe pensato che fosse a
causa di una qualche remota giustizia divina che si trovava con
qualche pezzo di ferro in più, se non fosse stato per il
fatto che
quei pezzi di ferro lo tenevano in piedi e gli permettevano di
vivere. Un privilegio, assieme a quello di aver potuto dirottare la
propria vita in una direzione migliore, che lui stava sprecando e
buttando al vento. In
quei momenti avrebbe voluto strapparsi le protesi, il reattore,
l'anima, se solo avesse potuto.
Che se ne faceva un corpo rotto, di
un'anima?
Magari la "giustizia divina" aveva solo
fallito nel suo intento e non c'era alcun profondo motivo da
conferire
alla propria esistenza. Magari stava solo lottando contro
qualcosa che
in fin dei conti era ineluttabile.
Riprese a tamburellare sul reattore,
mordendosi il labbro inferiore con fare concentrato, lo sguardo fisso
sulla
parete delle armature ancora schermata. Non le vedeva, ma vedeva
il proprio riflesso leggermente distorto. Si chiese quanta differenza
ci fosse, ormai, tra i resti contorti delle armature e il suo corpo
rotto e mutilato.
"Forse..." quella
considerazione fu troncata di netto dal suo buon senso, il poco che
gli era rimasto.
Il suo corpo non lo ascoltò e si trovò a posare
una mano sul reattore stringendo le dita sul bordo metallico. Lo
fissò,
poi fissò di sfuggita il suo riflesso; poi di nuovo le
armature, infine il
reattore. Si accigliò, frenato da una forza invisibile che
però si rivelò estremamente facile da
contrastare. Estrasse il congegno dal
suo petto e ne fissò il bagliore azzurrino. Il nucleo di
palladio
fumava appena, ma era pressoché integro.
Peccato non si potesse
dire lo stesso del resto. Di tutto il resto.
Esitò,
rigirandosi in mano quel cilindretto vitale ed indispensabile, il dono
di qualcuno che aveva creduto in quello che avrebbe potuto fare.
Qualcuno che
lui, puntualmente, aveva deluso.
Perché
era troppo debole, senza la sua armatura. Perché nessuno
voleva davvero fidarsi di qualcosa di rotto. Perché non meritava di essere vivo senza
un motivo. Perché, in fondo, era sempre stato
irrecuperabile.
La luce sembrava pulsare nel suo palmo, quasi fosse dotato di vita
propria. Iniziava a sentire un senso di vuoto claustrofobico al
centro del petto, col cuore che rincorreva i battiti mancati.
"Ho sentito spesso parlare di quella vocina
che ti dice 'stai facendo una stronzata'..."
Poggiò il
reattore sul tavolo, reclinò la testa all'indietro e chiuse
l'occhio, in quieta attesa.
"...io non la sento."
______________________________________________________________________________________________________
Revisione effettuata il 04/03/2018
Note delle Autrici:
Carissime seguaci, nuove e vecchie, buonasera! *tono da presentatrici televisive*
Avevamo promesso di pubblicare il 18... e in effetti è così. un po' in ritardo, ma è ancora il 18 Marzo. Impegni vari ci hanno impedito di essere puntuali, ma... non è quello che vi interessa. Vi interessa piuttosto la sorte di quel pover'uomo *omino indica in alto*.
Siete autorizzate a prendere torce e forconi e a porci sotto assedio, ma sappiate che questo era il fondo, e da qui non si può che risalire! *lettori scuotono la testa, chiedendosi quanti doppifondi abbia questa maledetta storia*
A parte ciò: è già passato un anno da quando abbiamo pubblicato questa fan fiction, e sembra davvero incredibile: a pensarci, sembra un giorno *cliché piovono dal cielo*
È una storia a cui siamo veramente molto legate e speriamo davvero che continuerete a seguirla, perché noi ci siamo divertite e ci divertiremo ancora a scriverla -pensa te che sadiche...- e ci auguriamo che trasmetta le nostre stesse emozioni a voi che leggete.
Perché, su, a parte l'angst dirompente, ammettete che ogni tanto vi strappiamo un sorriso o una voglia di suicidarvi per il fluff -o forse no.
Hoc dicto *Moon tramortisce Light reduce dallo studio*, vogliamo ringraziare tutti, proprio TUTTI coloro che hanno seguito, recensito, aggiunto la storia tra le preferite/seguite/ricordate.
In ordine (cronologico o alfabetico):
Recensori: _Sof_, alliearthur, Rogue92, Sherlock_Watson, Micchi, blackpearl_, bluephoenix, Lupoz91, DigiGaia, xhellosweety, Alley, julialicious, MissysP, The_best_who_sing, Julyet_M, aston, Thirrin, 81serena e my brother under the sun.
Preferiti: BENNYloveEFP, bluephoenix, Camilla85, Checca Cullen, crow_, C_laudine, Dark_Lucy, DigiGaia, DirtyVale, Edward_Son 2, Enigmista96, feddy92, Frosba, Fuckthisshit, girlstreet, julialicious, laFlo, Lupoz91, my brother under the sun, Ookami_96, Sherlock_Watson, Van, WhiteRabbit e _Willenna_.
Seguite: Alley, alliearthur, almostnice, Amaerise, aston, blackpearl_, cleme_b, DigiGaia, Doctor Smith, Elena Salvatore, Eleonoraa11, Enigmista96, Fairy84, fior di loto, Frosba, itsandreea, kay33, kh2zvn, Lady Holmes, LaFolie108, LifeCristal, Luna_Bella, Lupoz91, MANDARINO ZEN, MissysP, Morrigan, Nature_, NemesiS_, Nightly Blossom, ny152, Rogue92, serysaku, Sherlock_Watson, Sophiathebest, The_best_who_sing, valedisy, Vehuel, WhiteRabbit, xhellosweety, _Elentari_, _M4r3TT4_ e _Sof_.
Ricordate: crystaleyes, Eleonoraa11, Frosba, HollyCupcake, Rayne e Sherlock_Watson.
(Siete tantissimi! *-*)
Un grazie speciale a Rogue, irreducibile, intrepida seguace e recensitrice dal primo all'ultimo capitolo (speriamo!), a Sherlock_Watson e julialicious che ci hanno rese felicissime coi loro disegni splendidi, ad Alley, che arditamente s'è letta d'un fiato tutti i capitoli e continua a seguirci coprendoci di splendidi complimenti, a MissysP, instancabile seguace, a Micchi, che ci colma di gioia (e risate impagabili) con le sue recensioni, a blackpearl_, le cui recensioni sono di quanto più solare e meraviglioso ci sia al mondo e a Darkshines_, che pur non avendo mai recensito ha avuto l'onore (o l'onere) di sorbirsi tutte le anteprime, le bozze e gli schizzi di questa storia in prima persona, scleri inclusi, dimostrando un livello di sopportazione che non credevamo possibile -soprattutto per un essere di sesso maschile.
Grazie di cuore a tutti e per tutto!
E... al prossimo capitolo! <3
Moon&Light
*Tony fa ciao ciao, un po' moribondo*
P.S.: Ci scusiamo per l'estremo ritardo, ma l'editor faceva i capricci. Ed è venuto fuori un "Text-wall" assurdo. Ooops.
P.S.2: Non abbiamo risposto alle recensioni nello scorso capitolo, e ci scusiamo, ma come avrete capito è stato un miracolo riuscire a pubblicare per tempo a causa di imprevisti e impedimenti vari. Promettiamo di rispondere al più presto: sabato noi menti malvagggie ci vedremo e rimedieremo ;)
© Marvel
|
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Capitolo 28 *** Of storms, shells and shattered dreams ***
27
Of
storms, shells and shattered dreams
"Is
this the real life?
Is this just fantasy?
Caught in a
landslide,
No escape from reality"
[Bohemian
Rapsody – Queen]
"Darkness
Imprisoning
me
All that I see
Absolute horror
I cannot live
I cannot
die
Trapped in myself
Body my holding cell"
[One
– Metallica]
4 Aprile,
11:20, Helicarrier
Le
nuvole scorrevano placidamente sotto al ventre dell'Helicarrier,
candide e vaporose.
Fury non avrebbe potuto trovare antitesi più
perfetta per il suo umore cupo e tempestoso, tanto che poteva
considerarsi un
miracolo che dal suo occhio buono non scaturissero fuoco e fulmini
pronti a incenerire chiunque nel raggio di cinque metri. Non
sapeva con quale residuo di pazienza si stava trattenendo dal fare
uso di tutta la potenza balistica dell'Helicarrier per distruggere
una certa villa a Malibu...
«Signor Direttore, ha sentito?»
La voce di
Coulson gli suonò stranamente allarmata. L'agente si era
prudentemente tenuto fuori tiro, a circa una decina di passi di
distanza, sul ponte inferiore.
«Sì, purtroppo.» ringhiò,
voltandosi infine con più
foga di quanto avesse voluto.
Phil ammutolì, forse intimorito dal
suo sguardo omicida. Fury continuò a rimanere in silenzio,
rimuginando su vari e fantasiosi metodi di tortura da applicare a
quella calamità ambulante che passava sotto il nome di "Iron
Man".
Coulson si arrischiò a interrompere quella serie di
immagini quasi piacevoli:
«La squadra medica è già sul posto,
ma dovremmo inviare...»
«Qualcuno? Abbiamo già inviato
qualcuno!»
esplose infine il direttore a voce leggermente più alta, e
tutti gli
agenti sul
ponte di comando si voltarono verso di lui, paralizzati,
interrompendo qualunque cosa stessero facendo.
Era normale che
Fury si arrabbiasse, inveisse contro il mondo intero, minacciasse
punizioni a destra e a
manca, si agitasse oltre l'immaginabile e facesse uso improprio dei
dispositivi dell'Helicarrier sfruttandoli come armi da lancio verso
gli agenti che gli facevano perdere le staffe. Ma non era
assolutamente normale che rimanesse immobile, glaciale, con
un'espressione mortalmente seria stampata in faccia e uno sguardo che
avrebbe fatto sembrare Loki un moccioso vestito da Carnevale.
Un
silenzio totale era piombato sulla plancia. Silenzio che Coulson
ruppe appellandosi a un coraggio che non sapeva di avere:
«Forse
quel qualcuno non era il più adatto a...»
«Banner era la
persona più affidabile che avremmo potuto mandare a far
ragionare
Stark,» lo interruppe Fury. «E dico "affidabile",
perché
anche nell'eventualità che si fosse trasformato in un mostro
verde
rabbioso, come in effetti ha fatto, avrebbe forse potuto inculcare un
po' di buonsenso a quell'idiota! E così non è
stato!» continuò in
tono crescente, schiumante e sul punto di farsi saltare la benda per la
rabbia.
Coulson quasi indietreggiò, ma mantenne un'espressione cupa
che stonava col suo portamento di solito
così
rilassato.
«Direttore, è la signorina Potts ad aver bisogno
d'aiuto, non Stark,» precisò, sempre senza perdere
la sua abituale
compostezza, ma tradendo una traccia di preoccupazione nella
voce.
Fury lasciò trapelare una vaga sorpresa, mentre dentro di
lui si malediceva per non averla fatta portare allo SHIELD da Banner,
volente o nolente.
«Vai e risolvi questo inconveniente,»
ordinò, riconquistando la calma, almeno apparentemente.
«Ti autorizzo a
usare qualunque mezzo riterrai necessario per trascinare qui Stark, e
stavolta non accetterò scuse o attenuanti,»
sentenziò seccamente,
voltandogli le spalle.
Coulson, ripresosi da quell'improvviso cambio
di atteggiamento, fece un rapido cenno di congedo prima di
avviarsi a passo rapido verso il laboratorio.
«Vado a cercare
Banner,» annunciò, prima di lasciare il ponte di
comando.
«Porta
Rogers,» replicò Fury, con una vena beffarda nella
voce.
«Cerco
Banner,» ribadì testardamente Phil, non osando
immaginare quali
conseguenze nefaste avrebbe potuto avere la presenza di Steve in un
frangente delicato come quello.
Probabilmente avrebbe di nuovo
avuto l'onore di testare la potenza della protesi di Stark sulla
propria
pelle. Allungò il passo scacciando quel pensiero e diede
un'occhiata
al cellulare, notando con un misto di preoccupazione e sollievo di
non avere chiamate perse. Non sapeva se fosse un buono o un cattivo
segno.
Entrò nel laboratorio a passo di carica, già
pronto a
strappare lo scienziato al suo lavoro, ma vide che Bruce, per una
volta, non era indaffarato tra strumenti e calcoli. Era appoggiato al
bancone invaso di provette e alambicchi vari, con il mento puntato
sulla mano e lo sguardo perso in chissà quali pensieri. Phil
decise di ignorare la stranezza della cosa, riservando le domande a
un momento più tranquillo, se mai ci sarebbe stato nei
giorni a
venire.
«Vieni, ci servi a Villa Stark,» gli
comunicò senza
giri di parole.
Bruce alzò lo sguardo trasalendo, come se non si
fosse neanche accorto del suo arrivo, e l'agente si tenne cautamente a
distanza, temendo di aver scatenato qualche
reazione poco piacevole. Invece Banner si limitò ad
aggrottare le
folte sopracciglia e a staccarsi dal bancone.
«Di nuovo? E perché?»
chiese, già aspettandosi il peggio.
Ed era convinto di
averlo già visto, il peggio.
«Non lo vuoi veramente sapere.
Meglio che ti arrabbi lì, sarebbe più
utile,» disse l'altro, senza
perdersi in dettagli e sentendo l'esigenza immediata di saltare in
una delle navette supersoniche e sfrecciare al più presto
fino a
Malibu.
Lo scienziato esitò un attimo, poi parlò, sempre
incerto, ma apparentemente più preoccupato che stupito:
«Cosa ha
fatto?» sospirò con rassegnazione. «Ieri
era un po' sopra le righe, ma...»
«Un
po'
sopra le righe?» ripeté basito Coulson,
rivolgendogli un'occhiata scettica.
«Era ingestibile,» si
corresse allora l'altro, ora più a disagio.
«Ma...» tentò
nuovamente.
«È totalmente
fuori
controllo,» lo interruppe Phil. «Non avresti dovuto
lasciarlo lì,
ubriaco, soprattutto non
con Virginia da sola. Perché non
l'hai portata qui?» aggiunse, stizzito.
«Ha rifiutato, non potevo obbligarla,» si difese
lui, togliendosi gli occhiali con fare imbarazzato. «E poi
è
l'unica che riesca a far ragionare Tony,» aggiunse, un po'
debolmente.
Coulson non replicò per evitare di scaldarsi,
perché
“scaldarsi” con Bruce poteva concludersi con
l'essere ridotti in
poltiglia.
«Lasciamo perdere,» sbuffò, riprendendo
il suo
abituale controllo. «E muoviamoci, adesso, prima
che...»
«Tu
vai,» lo interruppe Bruce, perfettamente tranquillo e non
accennando a
muovere un passo.
Coulson rimase interdetto, rendendosi conto che il dottore non aveva
pienamente colto la gravità della situazione. Si
schiarì appena la gola, rinunciando però ad
edulcorare più di tanto ciò che stava per dire:
non c'era un modo delicato per informarlo.
«Banner,
Stark ha cercato di...»
«Posso
immaginare cosa abbia fatto, dopotutto ci sono passato
anch'io,» lo interruppe cupamente lui. «Pensavo di
averlo dissuaso... ho già fatto tutto quel che
potevo,» aggiunse, e Coulson
colse una profonda tristezza nelle sue parole, non sapeva se dettata
dalla delusione per ciò che aveva fatto Stark, per il senso
di colpa nel non essere riuscito ad aiutarlo o dal dispiacere
nell'immaginare i possibili esiti di tutta quella situazione.
«E come lo porto
qui?» sbottò debolmente e con un po' di forzato
ottimismo, agitandosi nel sentire il cellulare che
vibrava nella tasca.
Fece appena in tempo a leggere il nome di Pepper
sul display che la chiamata s'interruppe. Bruce lo notò ed
esitò,
prima di parlare:
«Porta qui lei. Lui la seguirà, prima o
poi,»
affermò, con una smorfia un po' colpevole ma tirata, dando a
sua volta per scontato che Tony sarebbe stato ancora in grado di
seguirla.
Lo scienziato incrociò le braccia,
stringendo nervosamente la stoffa della camicia.
«Massacrarlo di
nuovo di pugni non servirà a convincerlo,
soprattutto non nello stato in cui sarà... dopo. E se volete
davvero trascinarlo su questa prigione volante e rinchiuderlo, non
aspettatevi dei cambiamenti: è inutile confinarlo
fisicamente se lui
non è in grado di farlo emotivamente,»
commentò, senza celare il
suo aperto dissenso.
«Lo SHIELD non si occupa di riabilitazione
mentale, ma della sicurezza mondiale. Se Stark non è in
grado di
controllarsi, dovremo costringerlo a farlo.»
Bruce fece un
sorrisetto accomodante, annuendo con fare derisorio:
«Sì, ho
capito fin troppo bene come funzionano le cose, qui allo
SHIELD»
disse, pronunciando il nome quasi con disprezzo. «Le ferite
che ha
Tony non si chiudono con la porta di una cella,» aggiunse,
stringendo appena i pugni.
«A noi serve Iron Man, non Tony Stark,»
sbottò a disagio Coulson, distogliendo lo sguardo da quello
accusatorio di Bruce, ed uscì rapido dal laboratorio.
Un po'
scosso, recuperò il cellulare e si diresse quasi di corsa
alla pista
di decollo, afferrando per la collottola un Clint piuttosto perplesso
durante il
tragitto e facendogli capire che, sì, voleva che "pilotasse
uno
di quegli aggeggi meravigliosi a velocità supersonica"; in
tutto ciò rimase col dispositivo incollato
all'orecchio, contando con
apprensione gli squilli a vuoto. Lasciò
andare il fiato solo quando sentì finalmente la voce di
Pepper all'altro capo del
telefono.
«Phil?»
«Stiamo arrivando,» la rassicurò subito
lui, mentre saliva goffamente nell'abitacolo del
mini-jet.
«Sbrigati,» riuscì solo a dire lei,
innaturalmente calma ma
con voce rotta.
«Sbrigati,» riferì lui a Barton, che
si era
già seduto con fare baldanzoso sul sedile del pilota.
Il
sogghigno che aveva stampato in volto evaporò nell'istante
stesso in
cui vide gli occhi cupi e terribilmente seri di Coulson, che gli
fecero cogliere la gravità della situazione.
«Sissignore,»
borbottò, avviando con un gesto secco i motori.
***
Due
ore prima, Villa Stark
Pepper
era ferma in
cima alle scale del laboratorio, appoggiata al muro con le braccia
incrociate.
Fissava con sguardo assente la cascata artificiale che
scorreva accanto a lei, come sperando che i suoi pensieri facessero
lo stesso. Era lì da un tempo indefinito, intenta a
chiedersi se
fosse o
meno il caso di scendere al piano di sotto. Là c'era Tony,
c'erano il suo sguardo spento, il viso stanco e la voce triste. Non
era ancora riuscita a costringersi ad affrontarli. La
spaventavano terribilmente, perché quello non era
Tony: era
solo una sua immagine sbiadita e flebile, pronta a evaporare.
Erano ormai
mesi che continuava a considerare il suo comportamento instabile come
una "fase", ma si rendeva conto solo ora che era una
facciata dietro la quale lei si ostinava a nascondere la
realtà,
permettendo a lui di fare lo stesso. Adesso
riusciva a capire il perché del suo atteggiamento spavaldo e
quasi
superficiale, di tutte le ostentazioni di sicurezza e
normalità che
sfoggiava giorno dopo giorno: era molto più facile ridere e
chiudere
gli occhi di fronte alla verità, piuttosto che guardarla in
faccia
e affrontarla. Si nascondeva dietro un sorriso, mentre il suo sguardo
gridava in cerca d'aiuto. E lei non aveva colto quel grido in
tempo.
Non lo aveva mai capito fino in fondo, tutto quel dolore
che Tony continuava a portarsi dentro e che si rifiutava di mostrare.
Solo ora, dopo molto tempo, aveva intuito cosa lo distruggesse
così nel
profondo, e la consapevolezza le procurava un senso di colpa che non
riusciva a reprimere, assieme a quello che si trascinava dietro dal
giorno dell'incidente.
Semplicemente, la mente di Tony era troppo
per un corpo normale. La sua genialità, le sue ambizioni
sconfinate
e la sua indefessa volontà di scoprire sempre
più, di
superare
qualsiasi confine, erano concentrate in un corpo di per sé
limitato. Era sicura che fosse anche per quel motivo che aveva creato
proprio Iron
Man: per superare quel limite che gli era stato imposto e fare di
più, per spaziare su orizzonti più vasti e
appagare la sua
inesauribile curiosità e voglia di vivere. Se prima era
irritante
essere costretto ad affidarsi alla tecnologia per compiere qualcosa
che lo soddisfacesse, adesso doveva essere una tortura trovarsi
rinchiuso in un corpo mutilato che non riconosceva come suo.
Ma
ciò che più la spaventava era la sua improvvisa
fragilità. Non
sapeva come confrontarsi con essa. Tony non si era mai, mai,
mostrato debole – e forse nemmeno si era mai sentito tale.
Vederlo
così distrutto e prostrato ogni giorno di più le
aveva fatto capire
che
aveva ancora molta strada da fare, ancora molto dolore da sopportare,
prima di poter guarire. O crollare.
Quello che era successo il giorno
prima era solo la riconferma del fatto che qualcosa, ormai, si era
irrimediabilmente rotto. Solo adesso riusciva a capire esattamente
cosa: Tony.
E lei continuava a non sapere se avesse
dovuto far finta che nulla fosse accaduto, ignorare le crepe che
ormai solcavano la facciata dell'uomo, o se fosse stato meglio
lasciarlo lì per evitare di farlo soffrire ancora,
condannandolo
forse a crollare definitivamente. Poteva andarsene, come gli aveva
promesso. Come aveva deciso di fare qualche ora prima, guardando il
cratere nel muro del salone, e aveva rinunciato definitivamente a
fare poco dopo, nel vedere il quadro appeso alle sue spalle.
Si
stropicciò il viso, nervosa, frustrata, cercando di muoversi
mentre la
decisione si faceva strada in lei, spazzando via tutte le sue
incertezze e lasciando che la donna determinata che era sempre stata
riprendesse il controllo.
Non poteva andarsene così. C'era una
terza opzione, oltre a rimanere e fingere o andarsene e ignorare. Era
la più difficile e anche la più impegnativa, ma
non si sarebbe
tirata indietro adesso. Per l'ultima volta, o forse per la prima,
voleva prendere la decisione giusta: rimanere e riparare
ciò
che si
era rotto.
Anche se sarebbe stato meglio, molto, molto meglio non
dover incrociare di nuovo il suo sguardo scuro acceso solo da una
luce di incredulità e non fornire spiegazioni che non era in
grado
di dare e rispondere alle sue domande incerte e dare voce ai propri
pensieri e rischiare di finire
abbracciata a lui e...
Era arrivata ai piedi delle scale, e fu con
pensieri rivolti altrove che inserì il codice d'accesso con
un gesto
ormai automatico. Entrò nel laboratorio, non accorgendosi
subito
dell'insolita penombra che vi regnava. Si fermò perplessa,
notando
che l'unica luce accesa era quella del banco di lavoro, davanti al
quale
intravedeva la sagoma di Tony, rilassata all'indietro sulla sedia
mentre dormiva profondamente. La seconda cosa che notò fu
l'assenza dei familiari ologrammi e proiezioni digitali che
fluttuavano perennemente in quella sala. Aveva di nuovo disattivato
JARVIS?
Gli altri dettagli le si rovesciarono addosso in una
sequenza frenetica: la parete delle armature schermata, la posizione
leggermente scomposta dell'uomo, la cavità impressa sul
piano
metallico del bancone, il fatto che questo fosse vuoto, eccetto che
per un oggetto che si rifiutava di identificare, ma che emanava un
inconfondibile bagliore azzurrino che–no,
non poteva
essere...
Pochi istanti dopo era accanto all'uomo e fissava il suo
viso pallido e privo d'espressione, per poi soffermarsi sul congegno
che gli illuminava il volto in maniera spettrale.
I suoi occhi
sgranati oscillavano increduli tra quei due elementi che la sua mente
non
riusciva a far coincidere.
Il reattore di Tony. E la cavità vuota
in mezzo al suo petto.
***
Il
sole gli scaldava dolcemente il viso mentre una lieve brezza pregna
di salsedine iniziava a solleticargli il naso.
Le onde si
infragevano calme e placide sulla riva in un mormorio continuo; le
più coraggiose si staccavano dalla massa d'acqua per
allungarsi sul
bagnasciuga, come per tentare di inghiottire più sabbia nel
loro
riscivolare indietro. Una di queste lambì i piedi di Tony,
che
si mosse appena, più sorpreso che infastidito dal fresco
contatto
dell'acqua marina. Socchiuse gli occhi e sbattè un paio di
volte
le palpebre, girandosi su un fianco sulla sabbia fine e facendosi
schermo dal sole con il braccio, rimanendo comunque
abbagliato dalla luce. Affondò la mano tra i granelli caldi,
lasciandoli scorrere piacevolmente tra le dita mentre un'altra onda
più forte
gli sfiorava le gambe, bagnandogli il costume. Lanciò
un'occhiata
distratta al mare calmo, poi lasciò ricadere la testa sulla
sabbia
bianca, girandosi sulla schiena e godendosi quegli istanti
così
perfetti e rilassanti.
Non ricordava di aver apportato tutte
quelle migliorie alle protesi, che risultavano essere meccanicamente
perfette – quasi vere, aggiunse tra sé, con un
mezzo sorrisetto compiaciuto. Gli
sembrava di riavere il suo braccio e la sua gamba, e che l'incidente
e tutto il dolore che aveva portato con sé non ci fossero
mai
stati...
Impiegò qualche secondo nel rendersi conto che non solo
il suo braccio destro era perfettamente funzionante e integro, ma che
aveva anche una pelle e che su quella stessa pelle poteva percepire i
brividi di felicità e di sorpresa, oltre al tocco ruvido
della
sabbia. Spalancò di colpo gli occhi, improvvisamente sveglio
e libero
dal
torpore, guardando sbigottito il suo braccio, sano, e poi la sua
gamba, anch'essa integra. Un sorriso stupito e incantato si
disegnò
sul suo volto, fino a sfociare in una fragorosa risata piena di gioia
incredula. Saltò in piedi – senza fatica, senza
quelle orride
stampelle, senza dolore – tastandosi la gamba e percependo
entrambi i piedi
affondare nella sabbia, perfettamente stabili e saldi. Percepiva i
granelli tra le dita e l'acqua lambirgli le caviglie.
Era vero.
Lui era proprio lì, ed era proprio lui! Tony
Stark, Iron Man, in perfetta forma. Forse il suo braccio e la sua
gamba non erano esattamente i suoi, ma anche se fossero state delle
protesi... beh, in quel caso erano perfette.
Un'onda
più energica delle altre si abbattè sulla riva,
tempestandolo di
goccioline e richiamando la sua attenzione all'immensa distesa
cristallina che si perdeva all'orizzonte. Preso dall'euforia del
momento si lanciò in acqua, correndo sulla secca e
tuffandosi poi
senza esitazioni, pazzo di gioia per il poter nuovamente camminare,
correre, nuotare e dimenarsi in acqua urlando a squarciagola
semplicemente per il gusto di poterlo fare. Si sentiva libero,
finalmente, capace di apprezzare tutte quelle piccole cose che fino a
pochi mesi prima avrebbe dato per scontate e che adesso gli sembravano
una conquista. Si immerse brevemente
per poi risalire in un ventaglio di spruzzi, inebriato dal sapore
dell'acqua salata.
Si placò all'improvviso e piantò i piedi nel
fondale basso, rimanendo immerso fino al busto, col sole intenso che
già gli
asciugava le spalle grondanti. Fece per portarsi una mano al
volto ma si bloccò, preso da un'improvvisa angoscia.
Tentò di
specchiarsi nell'acqua limpida e splendente per controllare le
condizioni dell'occhio. Attese impazientemente e col fiato corto che
l'acqua si calmasse e smettesse di confondere e intrecciare il suo
riflesso; per un attimo temette di essere rimasto sfigurato, ma
il suo gemello gli restituì l'immagine perfetta e intatta
del suo
volto. Si tastò stupefatto la guancia, la linea ininterrotta
del sopracciglio, la palpebra aperta,
sentendo l'occhio vivo e mobile sotto i polpastrelli.
Neanche una
cicatrice era rimasta a a testimoniare l'incidente. Nulla: solo
pelle, liscia e integra.
Seguì un profondo sospiro di sollievo e
la sensazione che il sole avesse preso a brillare un po' più
intensamente.
Stava giusto iniziando a chiedersi come avesse fatto
a guarire e a progettare delle protesi e dei potenziamenti
così
perfetti senza ricordarsene, quando si bloccò allibito.
Aveva preso
a tamburellare sul reattore come era solito fare mentre rifletteva,
ma non aveva percepito nulla sotto le dita se non il suo petto.
Abbassò lo sguardo per accertarsi di non esserselo
immaginato, ma con uno stupore misto a paura constatò che il
suo
torace, sempre accompagnato dalla vitale luce azzurrina, era vuoto e
intatto. I suoi polmoni si gonfiavano al massimo, le costole non
incontravano alcun ostacolo, lo sterno non gli doleva ad ogni respiro
più profondo. Non c'era nemmeno la piastra metallica,
né qualcosa
che
potesse suggerire l'esistenza di un congegno che lo teneva in vita.
Semplicemente, era normale.
E nemmeno una vena da intossicazione di palladio si scorgeva
sottopelle.
Rimase pietrificato.
Il geniale congegno era
sparito. Ma stava bene, anzi, benissimo. Molto meglio di quando aveva
un pezzo di ferro nel petto che lo stava dolorosamente e lentamente
uccidendo; un peso costante di cui finalmente si era liberato, che
poteva ricordare solo come un brutto sogno. L'incubo era finito. E
non importava come, o quando, o perché: in quel momento
desiderava
soltanto riabbracciare la propria vita.
Seguirono altre grida e
altre risate, mentre si godeva l'acqua fantastica della sua spiaggia
e nuotava fino a sfiancarsi, finché non si
abbandonò mollemente
sulla superficie delle onde, galleggiando tra i flutti con un sorriso
realizzato a inclinargli le labbra e gli occhi persi nell'azzurro sopra
di lui.
Poco lontano scorgeva la sua
splendida villa arroccata sulla scogliera rossastra. Sulla sabbia, a
piedi nudi e
con i capelli ramati scossi dalla brezza, intravide la persona,
l'unica, che gli mancava in quel momento. Pepper lo salutò
con un
piccolo gesto della mano, sorridendo, così splendente nei
suoi semplici
pantaloncini e camicia da far sembrare il sole una lampadina al
neon.
Tony ricambiò il saluto sbracciandosi, voltandosi poi con
una capriola
nell'acqua e
incominciando a muoversi ad ampie bracciate verso la costa avvertendo
con piacere la ritrovata forza del proprio corpo contro la corrente.
Non
desiderava altro che correrle incontro per abbracciarla, baciarla e
raccontarle di quel miracolo inspiegabile. Improvvisamente si era fatto
dimentico di tutto: il reattore, le protesi, la spiaggia... non c'era
più niente per lui, solo lei.
Aumentò il ritmo della nuotata,
impaziente. L'acqua gli arrivava ancora all'altezza della vita,
eppure gli sembrava di aver percorso più distanza; avrebbe
dovuto
incominciare a uscire fuori dall'acqua, ma continuava a nuotare...
I
suoi piedi iniziarono a farsi sempre più pesanti, restii a
muoversi,
finché non sprofondarono nell'acqua ancorandosi sul fondale,
immobili.
Riuscì a tenere la testa fuori dall'acqua, fattasi
improvvisamente più alta, ma ne
ingoiò una sorsata salmastra che lo fece tossire forte. La
paura si
fece subito strada in lui, mentre tentava di alzare i
piedi o anche solo di trascinarli sul fondo, ottenendo solo di
sprofondare ancora di più, come se fosse nelle sabbie
mobili.
Il
suo sguardo corse subito a Pepper, ancora ferma sulla spiaggia.
Ma non sorrideva più e non faceva nulla per
aiutarlo: non
muoveva un
passo, non si agitava, non mostrava alcun segno di preoccupazione nei
suoi confronti e i suoi occhi erano di ghiaccio mentre continuava ad
osservarlo da lontano.
«Pepper!» tentò
di chiamarla, ma come pronunciò il suo nome si
ritrovò
completamente sott'acqua e il suo grido si perse in una raffica di
bolle.
I piedi erano come saldati a terra, l'aria fuggiva veloce
dai suoi polmoni incapaci di trattenerla. Anche le gambe
incominciavano a irrigidirsi sempre di più,
finché non fu
totalmente cementato fino alla vita. L'acqua continuava a farsi
sempre più alta sopra di lui, allontanandogli la fonte
d'aria più
ovvia ed essenziale. Le braccia si dimenavano invano, tentando
inutilmente di raggiungere la superficie o di muoversi in qualunque
modo. Tentò di staccare i piedi con le mani, di forzare le
gambe, ma
quando le toccò erano fredde come il ferro e della stessa
consistenza.
Iniziò a inghiottare acqua quando si accorse che
erano realmente
di durissimo metallo. Ogni fibra del suo corpo
gridava dal dolore per la mancanza d'aria e il tormento divenne
insostenibile quando la patina argentea riprese a inghiottire il suo
corpo. Le vene e i tendini si solidificavano, il petto bruciava
sempre più e il cuore rallentava come schiacciato dai
polmoni che si
dibattevano in cerca d'aria.
L'ultimo atomo d'ossigeno sfuggì
alle sue labbra nello stesso momento in cui il metallo avvolgeva la
sua testa, e improvvisamente non sentì più nulla,
se non il battito
distante del suo cuore che diventava un'eco sempre più
debole e ovattata.
«Dove
sono?»
____________________________________________________________________________________
Revisione effettuata il 04/03/2018
Nota delle autrici:
Buonasera, dolci pulzelle!
Torniamo (quasi) a tempo di record! Vi stiamo facendo sospirare questi capitoli, ce ne rendiamo conto...
Dunque, dovete sapere che l'idea per il bel Tony spaparanzato su una spiaggia è tutto merito di Moon, che ha questi lampi di genio improvvisi. Un applauso a lei! E la mega-super-iper-cazzola mentale di Pepper è stata partorita da Light, che non può vedere i personaggi in pace con loro stessi per più di mezza pagina.
Date queste premesse, come potevate aspettarvi che ne uscisse qualcosa di sano e coerente?
Per quanto riguarda le due citazioni iniziali... rappresentano i due lati "onirici" di Tony: il sogno e l'incubo. E stanno là pure perché le amavamo entrambe. E perché dovete adorare sia i Queen che i Metallica.
Amen.
Avete assistito anche al ritorno del "dove sono", che ormai è il nostro leitmotiv preferito <3
Vi ringraziamo immensamente, assolutamente e calorosamente (VI AMIAMO) per avere continuato a seguirci e a leggerci! In particolare per aver aggiunto la storia tra le preferite/ricordate/seguite, per averci aggiunto agli autori preferiti <3 e per aver recensito, in particolare chi ha recensito lo scorso capitolo: 81serena, Rogue92, Alley, Tony Stark, MissysP e Thirrin :D
A presto! ;)
Moon&Light
© Marvel
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Capitolo 29 *** Innervision ***
28
Innervision
"Someone
who cares
Your own Personal Jesus
Someone to
hear your prayers
Someone who's there."
[Personal
Jesus – Depeche Mode]
Ancora
quel dannato specchio.
Tony lo vedeva davanti a sé, a pochi passi. Aveva imparato a
odiare ferocemente quella superficie lucida
sulla quale si proiettavano le sue paure o le sue speranze, e avrebbe
voluto infrangerlo in mille pezzi, se solo avesse potuto.
Invece si
avvicinò. Non poteva fare altrimenti: non aveva controllo
sul
proprio corpo quando si trovava in quel limbo terrificante ed oscuro,
frutto della sua mente sconvolta.
Stavolta intrappolata sulla
lastra riflettente c'era l'immagine di lui prima.
Prima dell'incidente, delle protesi e del mondo che gli era
crollato addosso. Si fissò negli occhi, ancora due, con un
residuo di vitalità a farli scintillare. Ma anche quel
riflesso era
pallido e debole, oppresso dalle preoccupazioni che segnavano il suo
volto di rughe premature. Assottigliò lo sguardo, perplesso,
e
riconobbe con un vuoto allo stomaco il reattore infisso nel
petto del suo gemello: era rudimentale, coi cavi scoperti e
proiettava un bagliore tremolante. Notò solo allora i
vestiti
stracciati e i lividi e i graffi che ricoprivano il suo corpo. Stava
guardando se stesso prima, sì, ma non poi così
lontano nel tempo. Eppure, in un certo senso in quel frangente era
più remoto che mai.
Quando era ancora
prigioniero, parzialmente inconsapevole di dover lottare davvero con
tutte le sue forze, ignaro di cosa volesse dire sacrificare qualcosa,
ma ancora strenuamente attaccato alla vita che gli sarebbe stata donata
contro ogni sua aspettativa. Un dono che, alla fine, aveva sprecato. Si
scoprì a
rimpiangere quei momenti, per quanto fossero stati dolorosi e
strazianti, perché nonostante il duro colpo che aveva subito
quando aveva
visto infrangere tutte le sue certezze, ne aveva poi trovate altre
più salde, più giuste. Si vergognò di
se
stesso.
Fu
allora che il suo riflesso poggiò le mani sul vetro.
Vetro.
Non
uno specchio, ma un vetro spesso che li separava nettamente,
invalicabile.
Tony, il nuovo Tony, poggiò anch'egli una mano su
quella superficie lucida, ma la ritrasse subito e la portò
davanti al
volto sbarrando gli occhi. Era di metallo. Ma era la sinistra, non la
destra. Si guardò le gambe, ed entrambe erano protesi,
così come
il busto, il petto, il suo intero corpo era costellato di giunture,
meccanismi e placcature metalliche. Scorse fugacemente il suo
vero riflesso e vide quello che sembrava un androide
terribilmente simile alle armature di Iron Man, col loro stesso
cipiglio minaccioso.
Fece un altro
passo agitato lungo la parete e notò uno strano riflesso ai
margini
del suo campo visivo, come se qualcosa incombesse su di lui.
Guardò
di scatto verso l'alto e, così lontano da essere appena
percepibile,
colse il brillio lontano del sole, oltre un muro d'acqua scura e
pesante e oltre un'altra spessa lastra di vetro. Si rese conto
solo allora di essere rinchiuso in una teca, simile a un
acquario subacqueo poggiato sul fondale marino.
Stralci di ricordi
onirici sfiorarono la sua mente – la spiaggia, il sole,
l'oceano,
Pepper, un'allucinazione idilliaca poi sprofondata in quell'incubo
–
ma erano tanto dolorosi che li ricacciò indietro con
rabbia.
Riabbassò il capo e i suoi occhi misero di nuovo a fuoco
il vecchio se stesso che lo guardava come in attesa, stranamente
calmo, sempre premendo contro il vetro coi palmi aperti. Sembrava
chiedergli qualcosa con lo sguardo – speranzoso? –
ma non
riusciva a capire cosa dovesse fare, a parte prendere atto di essere
probabilmente morto o in coma. Quello era probabilmente il suo
personale purgatorio.
Il suo doppio a quel punto
batté
piano sulla lastra trasparente, causando un lieve tonfo che
riverberò
sott'acqua, e riconobbe sul suo volto l'espressione tronfia e un
po'saccente che soleva fare quando qualcuno stentava a capire
concetti per lui ovvi e basilari. In quel momento si sentì
immensamente stupido.
Fu sicuro di vedere un sospiro che
abbandonava le labbra del suo gemello in una raffica di bollicine,
prima che battesse con molta più veemenza sul vetro,
stavolta con
entrambi i pugni. Una lieve crepa incrinò la superficie, e i
suoi
occhi si accesero di un brillio soddisfatto.
Finalmente capì. E
sferrò a sua volta un pugno al vetro.
Grazie alla sua forza inumana lo scheggiò visibilmente, e un
debole zampillo d'acqua sgorgò
nell'acquario. Un secondo, un terzo, un quarto pugno e la parete
finalmente si infranse, riversandgli addosso una violenta ondata
d'acqua; fu sommerso quasi del tutto e annaspò in cerca
d'aria,
prima di ricordarsi che il suo corpo metallico non ne aveva bisogno.
Riuscì a tenersi saldamente in piedi senza sforzo,
contrastando la pressione.
Solo allora
si accorse che il suo gemello boccheggiava, come se accusasse
improvvisamente il fatto di essere sott'acqua.
Tony, con le membra
d'acciaio insensibili e privo di polmoni che registrassero
la carenza d'aria, sfondò ciò che rimaneva del
vetro e protese un braccio verso se stesso. Gli afferrò
una mano, e all'improvviso non fu più lui. Perse la
percezione
rigida e fredda del suo corpo artificiale, trovandosi catapultato in
quello del vecchio sé, caldo, vivo e fragile.
Sbarrò gli occhi, sconvolto e con la mente che cercava
disperatamente di capire cosa fosse successo.
L'acqua adesso
pesava sul suo petto, ne sentiva l'abbraccio gelido e percepiva la
pressione insostenibile sui timpani che sfociava in un sibilo acuto.
Guardò in
basso e vide quello che fino a pochi istanti prima era stato lui,
ormai un guscio artificiale vuoto ed inerte sprofondato nell'abisso,
con le braccia tese verso l'alto come una statua sommersa.
I suoi
polmoni si dibatterono smaniosi d'ossigeno e ingoiò una
sorsata
d'acqua salata che gli oscurò la vista.
La coscienza perse la presa sul suo corpo, e
quando tentò di rimanere lucido la sua mente
incontrò solo il
nulla.
***
Non
si svegliava. Non si svegliava ancora.
Da quanto lo rianimava?
Troppo poco...o troppo?
Pepper si lasciò sfuggire un
singulto di disperazione, unito alla pressione delle sue mani sul
petto di Tony adesso di nuovo irrorato dalla luce rassicurante del
reattore che ne illuminava freddamente il volto pallido.
Quando se
l'era tolto? Quanto tempo poteva resistere prima di...
Pepper
scosse la testa con forza e continuò a comprimere il suo
torace,
perché non era il momento di fermarsi a pensare.
Non
voleva riflettere su cosa avrebbe voluto dire fermarsi. Sentiva le
sue braccia sottili dolere per lo sforzo, ma non si fermò
nonostante
i muscoli bruciassero e reclamassero una tregua.
Non doveva
fermarsi. Fermarsi voleva dire arrendersi.
Tony si era arreso, ma
finché lei resisteva poteva riportarlo indietro. Era per
quello che
era rimasta fino a quel momento, e anche se i suoi bagagli la
aspettavano al piano di sopra, anche se avrebbe già dovuto
essere
lontana, era ancora lì.
Non se n'era ancora andata: aveva preso la sua decisione.
Improvvisamente ricordò il volto e l'espressione di
Tony in quel giorno che sembrava lontano anni luce, quando dopo tre
mesi di dolorosa assenza era sceso sano e salvo da quell'aereo, e
come era apparso immensamente più forte e bello nel momento
in cui aveva respirato la libertà. E
lei era
lì, come sempre, per aiutarlo a rialzarsi. Ma allora lui si
era già
rialzato, anzi, si era spinto ancora oltre, era arrivato a volare
senza il suo aiuto.
Sentì una lacrima solitaria rigarle il volto
al pensiero, sommata a una rabbia cieca nei confronti di quell'uomo che
aveva consapevolmente scelto di lasciarsi scivolare nell'inerzia
rinunciando a contrastarla. Dopo essersi costruito un cuore
artificiale pur di non morire, aver costruito un'armatura pur di
rimediare lui stesso ai propri errori, e aver progettato delle protesi
pur di
non dover chiedere aiuto per camminare, gettava via tutto questo
perché pensava di non potercela fare, di non essere
abbastanza forte, quando lei sapeva che lo era stato sempre, per tutta
una vita.
Semplicemente, si era
arreso. Lui, Iron Man, aveva smesso di lottare.
Non gliel'avrebbe
permesso. Continuò a rianimarlo, instancabile.
Un flebile
sussulto scosse il petto di Tony.
***
Le
onde si infrangevano su di lui. Onde che si infrangevano anche sulla
sua mente e gli impedivano di focalizzare i pensieri. Tutti
scivolavano via insieme alla risacca, nel blu dell'acqua e poi
nell'indaco dell'oblio e infine nel nero dell'abisso spalancato sotto
di lui. Non respirava e i suoi sensi erano annichiliti. Sentiva
solo un rombo ovattato e scorgeva un flebile riflesso sopra di lui.
Acqua.
Era ancora acqua quella in cui fluttuava? I suoi
polmoni si contrassero ricordandogli il suo spasmodico bisogno
d'aria, ma lui non sapeva neanche dove fosse il resto del suo corpo e
rimase inerte.
Il suo cuore batté un debole colpo e un
impercettibile calore si propagò nelle sue membra,
donandogli pochi
attimi di lucidità in cui riuscì a catturare un
unico pensiero,
prima che questo venisse spazzato via.
Riemergere.
Doveva
riemergere.
Come?
O meglio, perché?
Il suo cuore batté
di nuovo, più forte, e l'acqua sussultò attorno a
lui.
Per
qualcuno.
Socchiuse gli occhi, tornati a svolgere il loro dovere,
e colse il lieve brillio del reattore.
Doveva riemergere, perché
qualcuno gli aveva detto di non sprecare la sua vita.
Un'altra
pulsazione e un altro battito.
La luce era più
vicina, adesso. La superficie era frammentata dai raggi del sole e
sembrava a poche bracciate da lui.
Doveva riemergere, perché
tutti contavano ancora su di lui.
Il suo cuore batté ancora, più
deciso, e l'acqua fu scossa dalla vibrazione.
Improvvisamente
voleva riemergere, per sentire di nuovo il sole
sulla sua
pelle, il vento tra i capelli bagnati e l'acqua che lo abbracciava
come una carezza e non come una morsa.
Voleva riemergere, perché
c'era qualcuno là fuori che lo chiamava.
L'abisso si spalancò
sotto di lui con le fauci pronte ad inghiottirlo, ma lui ormai era
fuori, tra le onde, e respirava.
FINE
PARTE PRIMA
___________________________________________________________________________________________
Revisione effettuata il 04/03/2018
Note Delle Autrici:
Buongiorno cari lettori!
Prima di iniziare qualsivoglia sproloquio, crediamo sia necessario una piccola -eufemismo- introduzione.
Come potete ben notare non abbiamo aggiornato per qualcosa come nove mesi; di conseguenza abbiamo buoni motivi per credere che l'80% dei lettori e recensori si sia volatilizzato, abbia rimosso la storia dalle seguite, si sia rassegnato al fatto che la storia rimarrà incompleta e abbia semplicemente fatto vela verso nuovi lidi invece di stare ad aspettare un improbabile aggiornamento. E questo a noi sta più che bene: come dice il saggio, scriviamo prima di tutto per noi stesse; se poi otteniamo anche del seguito, ben venga e ben vengano critiche e commenti.
Adesso, qualche delucidazione sui vari motivi che ci hanno portate a una pausa così lunga.
Prima di tutto, il periodo tra Aprile e Giugno è stato per noi quanto di più vicino ci sia a un inferno e ci ha tolto qualsiasi voglia di scrivere o pubblicare o anche solo prendere in considerazione l'idea di continuare le storie che avevamo e abbiamo in corso.
Aggiunto a ciò, quest'estate è stato un periodo decisamente impegnato per entrambe, vuoi per la scuola -MoonRay ha cambiato indirizzo scolastico e ha avuto decisamente poco tempo per badare allo scrivere-, vuoi per problemi personali, vuoi per mancata ispirazione.
Ma più di tutto, il problema attuale è che noi due siamo da settembre a circa 1200 km di distanza.
Prendo brevemente la parola -Light-: sto partecipando a un programma annuale all'estero e sono attualmente in Germania, frequentando una scuola locale. Come potete ben immaginare non ho un minuto libero, tra scuola, studio della lingua, attività varie e viaggi-studio e nonostante mi sia trovata a scrivere più spesso che in Italia (!) non si tratta mai di cose inerenti a EFP o FanFiction. Ovviamente la lontananza, oltre che essere difficile per noi come amiche, è anche un ostacolo allo scrivere, dovendoci affidare a Whatsapp, Skype e Facebook per sentirci e questi non sono esattamente i mezzi adatti per elaborare qualcosa di scritto. Senza contare il fatto che, sì, lo ammettiamo, la voglia di scrivere ci era un po' passata in generale. Ho avuto svariati problemi da quando sono qua e l'aggiornare le tante FanFiction in sospeso non rientrava esattamente nelle mie priorità.
Chiusa parentesi egocentrica, riprendiamo a parlare al plurale.
Abbiamo deciso di dare una chance allo scrivere e in particolare a Phoenix, soprattutto perché il pensiero delle ore e ore passate a scervellarci su trama, personaggi e dettagli tecnici ci impedisce di abbandonare la storia senza neanche provare a continuarla.
Quindi, cercheremo in qualche modo di aggiornare ancora nel corso del prossimo anno -Light torna a luglio- o quantomento di procedere con la trama e i capitoli per poi pubblicarli in seguito. Non promettiamo nulla, come capirete la situazione è quel che è, e ad aggiungersi ai problemi tecnici c'è il fatto che in quasi un anno sono successe molte cose e altrettante ne accadranno. Diciamo che potrebbe diventare evidente un cambio di stile, considerando il fatto che siamo cambiate entrambe non poco in questo lasso di tempo.
Ma diamo tempo al tempo e vediamo che succede...
Intanto, ringraziamo tutti coloro che continueranno a seguirci e che hanno seguito e recensito Phoenix!
Grazie di cuore!
Moon&Light
P.S. Light: io chiedo venia per qualunque errore dovesse trovarsi nei pezzi scritti da me, ma mi sto bellamente dimenticando l'italiano a forza di parlare unicamente tedesco e inglese. Dopo la mia perla “libro” scritto “L'ibro” posso considerare la mia lingua madre defunta...
Edit 04/03/2018: la fine della prima parte della storia, Flames, è stata spostata qui. Non cambia nulla, in realtà, ma credo avesse più senso, visto che questo capitolo è un punto di rottura sia per Tony che per la storia in sé, visto che dal capitolo successivo comincia la scrittura "in solo". Lo trovavo appropriato, insomma. [-Light-]
© Marvel
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Capitolo 30 *** In noctem ***
Parte
Seconda
"Ever tried. Ever
failed.
No matter.
Try again. Fail again.
Fail better."
S. Beckett
.
29
In
noctem
"I'm
frozen to the bones, I am
A soldier on my own, I don't know the
way
I'm riding up the heights of shame
I'm waiting for the
call, the hand on the chest
I'm ready for the fight and fate."
[Iron
– Woodkid]
19
Aprile, Villa Stark
Villa
Stark era più silenziosa del solito. Il mare si abbatteva
scrosciando con tenace insistenza contro la scogliera su cui era
arroccata l'enorme edificio, con la spuma che riluceva sotto la luna
in tenui nastri argentei. Le onde si ritiravano con forza, per poi
tornare ad
abbracciare la roccia rossastra con altrettanto impeto. Era l'unico
suono che si diffondeva nelle stanze vuote ed echeggianti.
La luce
lunare filtrava timidamente nel salotto ancora devastato, illuminando
qualche scheggia di vetro superstite, e si riversava appieno nella
terrazza slanciata sull'oceano. Qui riluceva anche sulle protesi
metalliche di Tony, seduto sul bordo di un'aiuola di ginestre,
intento a scrutare l'orizzonte marino e la campagna circostante
illuminata quasi a giorno. Osservò la luna, una pallida
perla a cui
mancavano ancora un paio di falci per essere perfetta. Doveva essere
quasi mezzanotte. Forse era più tardi, non avrebbe saputo
dirlo.
Si
era seduto in terrazza nel tardo pomeriggio senza alcuno scopo preciso,
barcollando come
sempre, ma stavolta con insolita lentezza e cautela. Si era ritrovato
ad ammirare l'oceano d'un blu profondo, che si era poi striato di
pennellate dorate, poi rosse, infine tinto della sfumatura
verdognola del crepuscolo, fino a calare in un nero denso e mobile. A
quel punto stava per rientrare, quando il riflesso argenteo della
luna non aveva illuminato nuovamente le creste delle onde. Ed era
rimasto lì, ad ammirarne la lenta ascesa in cielo, nell'aria
dolce
di fine aprile.
Una raffica di vento un po' più sospinta portò
con sé una scia di salsedine intensa e fece dondolare
leggermente i
piccoli fiori gialli della ginestra, che assecondarono con flessibile
grazia quell'improvviso turbamento. Tony inspirò a fondo
quel
profumo salmastro e familiare, e per una volta non fu accompagnato
dal ricordo spiacevole dei suoi sogni tormentati di... molto tempo
prima, ma non abbastanza.
Cominciava ad avvertire una leggera fame, ma era riluttante
ad abbandonare quella quiete. Si sentiva bene.
In effetti non
sentiva nulla, ma lo considerava un miglioramento rispetto alle sue
ultime vicissitudini. La sua mente era attiva e in costante fermento,
ma era un'attività tenue e controllata, proprio come la
risacca del
mare calmo. Non era in bonaccia, ma la tempesta era lontana, impigliata
all'orizzonte. Era un mare navigabile e non per questo meno
infido, ma un capitano esperto poteva attraversarlo senza sforzo. E
ultimamente aveva avuto modo di conoscere fin troppo bene la sua
mente, mappandola con più precisione di quanto avesse mai
fatto in vita sua. Per questo, quando captò l'ombra di un
sentimento
inquieto
far capolino sotto la superficie, si limitò a respingerla
con
fermezza verso i fondali, senza scomporre il suo naviglio
improvvisato.
Con estrema lentezza prese le stampelle, una delle
quali un po' piegata, vi incastrò gli avambracci e si
tirò su
facendovi leva, avvertendo la protesi anteriore che premeva
spiacevolmente sui punti di sutura. Poggiò appena la gamba
destra, ma il dolore
sordo
che seguì lo fece desistere. Cambiò gamba
d'appoggio e, lanciando
un'ultima occhiata malinconica al cielo riflesso nel mare,
rientrò
nel salone buio chiudendo la porta-finestra dietro di
sé. JARVIS
attivò le luci in modo soffuso, rischiarando le stanze senza
renderle eccessivamente luminose. Negli ultimi giorni era diventato
fotosensibile, non sapeva dire esattamente per quale motivo, ma non
riusciva a sopportare più di tanto le violente luci
artificiali
della villa, tantomento quelle al neon del laboratorio. Ian aveva
detto che poteva essere lo stress – e non lo metteva in
dubbio –
ma Tony era abbastanza convinto che avesse a che fare anche con il
palladio. Non vi aveva dato comunque troppo peso: era sopportabile e
comunque sembrava scemare col passare del tempo. O forse era solo lui
che vi si stava abituando.
Si appoggiò un po' affaticato allo
schienale del divano, riprendendo fiato senza mettersi fretta. Non
c'era niente e nessuno che lo aspettasse, in quel momento: poteva
seguire i suoi tempi.
Gli era mancato stare da solo.
Era una
conclusione a cui era arrivato dopo giorni di disperazione per la
partenza di Pepper, adesso probabilmente chiusa nella sua stanza
sull'Helicarrier a qualche chilometro d'altezza. Era il tipo di
conclusione che portava con sé un po' di amarezza, ma non
poteva
negarne la verità. No, non avrebbe voluto che se ne andasse.
Sì,
ammetteva, aveva avuto perfettamente ragione a farlo: poteva
sopportare la sua sfrontatezza e incostanza, i suoi scoppi d'ira, le
sue crisi depressive e tutte le parole che diceva ma che in fondo non
intendeva per davvero. Poteva anche sopportare che distruggesse mezza
casa – quello era anche colpa di Bruce, in realtà
– e che si
sbronzasse senza ritegno. Non avrebbe dovuto sopportare il male che le
aveva fatto, eppure era tornata per l'ennesima volta, concedendogli di
rivolgerle delle scuse inadeguate e zoppicanti come lo era lui, poi...
poi aveva superato il limite. L'aveva
superato molte volte, così aveva creduto, ma c'era una
differenza
sostanziale tra il varcare il limite della sopportazione degli altri
e quello sacro, inviolabile, della propria vita. Non era il tipo di
azione che si potesse semplicemente rimproverare o comprendere o
dimenticare. Era un gesto che tracciava altri limiti, altri confini;
che troncava fili tessuti nel corso di anni.
Sì, capiva
perfettamente perché se ne fosse andata, ed era per questo
che,
dopotutto, non aveva neanche cercato di contattarla. Era lei il
motivo per cui aveva scelto di vivere quando era ormai troppo tardi,
era la sua figura quella che aveva obbligato il suo inconscio a non
lasciarsi andare, ma dirglielo avrebbe solo complicato le cose.
L'aveva percepita andar via, discretamente: la sua àncora di
salvezza veniva levata e lui rimaneva alla deriva, solo in mezzo al
mare. Però
continuava a galleggiare. Con un po' di tempo e fortuna, forse
avrebbe anche toccato terra, un giorno, e non avrebbe più
avuto
bisogno di ancore provvisorie.
Per ora stare in solitudine aveva
allentato una tensione che non si era reso conto di sopportare. C'era
solo lui, là dentro. Nessuno che lo guardasse, nessuno con
cui dover
sfoggiare un'apparenza noncurante, nessuno da ferire. Era
liberatorio. Da due settimane si sentiva in vacanza, ed era una
consapevolezza che lo faceva sentire un ingrato. Ingrato,
sì, ma un
ingrato sereno.
«Signor Stark, ha un messaggio sulla segreteria
telefonica, ricevuto alle 19:12. Ho ritenuto più sopportuno
non
disturbarla fino a quando non fosse rientrato.»
Incredibilmente,
persino JARVIS aveva acquisito un'insolita dose di tatto.
«Da
chi?» volle sapere subito.
Raramente aveva ricevuto chiamate o
messaggi, se non saltuariamente da Kyle, che si era dimostrato
insolitamente incline a soprassedere sugli ultimi eventi –
esperienza personale? si era chiesto Tony – e da Ian per il
suo
check-up settimanale. Il medico, al contrario, sembrava trattarlo con
ripugnanza e svolgeva il suo dovere con rapida
professionalità,
senza dilungarsi né aprir bocca se non per un "dica
trentatré",
per poi lasciare Villa Stark a passo di marcia. Di Pepper nessuna
notizia, ma sperava in cuor suo che fosse un buon segno. Se ci
fossero stati problemi l'avrebbero informato... no?
«È sulla
linea criptata dello SHIELD» l'annuncio di JARVIS
portò qualche
ombra sul suo volto, ma non si scompose.
«Oh, che gioia. Si sono
ricordati che esisto.»
"Chissà se
anche stavolta vogliono mandarmi un regalino verde..."
«Sentiamo,»
sospirò, e si decise a sedersi sul divano.
Uno schermo olografico
azzurrino fu proiettato dinanzi a lui: era un messaggio video, a
quanto pareva. La figura di Fury si delineò, un po'
tremolante a
causa delle interferenze. Si chiese da quale angolo remoto del mondo
lo stesse chiamando, e se davvero fossero notizie su Pepper.
Sperò
di no, o forse di sì, o forse entrambe le cose.
«A quanto pare sei troppo impegnato per rispondere al
telefono, qualunque cosa tu abbia da fare laggiù che sia
più
importante di una chiamata dei tuoi datori di lavoro,»
esordì Fury,
palesemente seccato, tanto che Tony si aspettava di vedergli saltare
la benda da un momento all'altro.
L'allusione ai "datori di
lavoro" non gli piacque affatto. Era lui che si metteva a
disposizione dello SHIELD, e non era certamente sotto contratto.
Tanto più che, fuor di metafora, era sull'orlo del
licenziamento da
mesi.
«Comunque, sei sparito dai nostri radar un po' troppo a
lungo, così manderemo uno dei nostri a controllare che sia
tutto più
o meno in ordine. E,
se fosse necessario, a
tenerti d'occhio per un po',» aggiunse l'ultima frase come se
ci
avesse pensato in quel momento.
Tony incrociò le braccia,
accigliandosi profondamente mentre fissava con insistenza la barra di
riproduzione del video che arrancava ancora verso la metà;
si chiese
cos'altro dovesse mai dirgli.
«Come potrai immaginare, Rogers non
smania per vederti. Banner potrebbe ridurti in poltiglia dopo gli
ultimi fatti, Thor è attualmente oltre il Bifrost, l'agente
Coulson
è ancora sconvolto per lo stato in cui ti ha ritrovato e la
signorina Potts... beh, non te lo devo spiegare.»
Tony abbassò
involontariamente lo sguardo. Era comunque affascinante vedere come
fosse riuscito a mettersi contro tutti i Vendicatori in un batter
d'occhio. Non conosceva i le usanze asgardiane, ma era probabile
che anche Thor non vedesse l'ora di piantargli Mjöllnir in
testa per
quello che aveva tentato di fare.
«L'agente Romanov era disposta
a prendersi l'incarico, ma l'ultima missione è stata
più dura del
previsto e si sta ancora rimettendo. Al posto suo si è
offerto
l'agente
Barton. Non che avesse molta altra scelta,»
puntualizzò, lapidario.
«Aspettati una visita domani, probabilmente nel
pomeriggio,»
concluse Fury, chiudendo la chiamata, e lo schermo ridivenne azzurro
per poi sparire in uno sfarfallio.
Tony notò come Fury non avesse
dato in realtà degli estremi molto precisi per la visita,
probabilmente per impedirgli di "prepararsi". Non che ne
avesse bisogno. Non aveva nulla da nascondere: l'alcool era sparito
per far posto a quantità industriali di clorofilla e non si
sentiva
così bene da... da mesi, ora che ci pensava. Il massimo
pericolo che
Barton poteva incontrare era un'approfondita descrizione dei metodi
di fusione dell'unobtanium o una sua stretta di mano un po' troppo
energica. D'altronde, l'agente era sempre stato piuttosto incline
a farsi i fatti propri; anche quando si era dichiarato contrario alla
sua permanenza nei Vendicatori, sapeva che l'aveva fatto in spirito
puramente oggettivo, tanto più che aveva poi cambiato
posizione al
riguardo. A mente fredda, se si fosse trovato dall'altra parte non
avrebbe mai permesso a se stesso di rimanere nel Progetto Vendicatori,
o almeno non di parteciparvi attivamente. Sì, era grato che
Fury mandasse Hawkeye. Parlare con
Natasha sarebbe forse stato più piacevole, magari si sarebbe
mostrata più comprensiva – ne dubitava –
ma tra loro c'era quel
grado di confidenza in più che l'avrebbe fatto sentire
giudicato.
Per non parlare di Bruce. Scacciò il pensiero, consapevole
di aver
profondamente deluso l'amico, e si alzò zoppicando.
Raggiunse la
cucina, dove si fece preparare dai robot una confezione di noodles
pronti che trangugiò in pochi minuti, stranamente affamato,
poi filò
a letto senza passare per il laboratorio. Negli ultimi giorni i
progressi tecnici erano stati minimi e poco incoraggianti –
una
stretta di bullone qua, un cavo messo a posto là, magari un
piccolo
miglioramento della struttura del piede – ma non se ne
crucciava.
Aveva un braccio più o meno funzionante, la gamba era
praticamente
un peso inerte e inutile che riusciva a malapena a muovere, ma
svolgeva la sua funzione d'appoggio e lo bilanciava quel tanto che
bastava per rimanere in piedi qualche secondo se necessario. Non
aveva realmente bisogno di nient'altro, per ora, a parte
riposarsi. Si era piuttosto dedicato con crescente inquietudine
alla progettazione di un nuovo modello di reattore con alimentazione
alternativa al palladio, con poco successo visto che lavorava sempre
dal
salotto, senza sedersi fisicamente al tavolo da lavoro –
d'altra
parte, non aveva neanche voglia di tornare nel posto in cui si era
quasi tolto la vita.
Sdraiato sul letto, sbirciò l'area
circostante il reattore. Le venature bluastre non erano sparite, ma
sembravano, se non diminuite, almeno un po' meno spesse. Forse
aumentare ancora le dosi di clorofilla si era rivelata una scelta
vincente, anche se gli toglieva totalmente l'appetito. Certo, a lungo
andare avrebbe potuto fare la controfigura per Hulk, ma meglio che
morire intossicato.
"A lungo andare... chissà quanto,
ancora."
Si addormentò con quel pensiero, che era tornato ad
assumere una connotazione minacciosa e non malsanamente attraente
come poco tempo fa. Meglio così.
Dormì sonni tranquilli,
svegliandosi di tanto in tanto per il dolore ai moncherini con una
sensazione di vuoto al petto, ma riaddormentandosi quasi subito
rassicurato dal tenue chiarore azzurrino del reattore.
***
20
Aprile, Villa Stark
Clint
arrivò, o meglio, comparve dal nulla nel tardo pomeriggio,
mentre
Tony era impegnato in una partita di scacchi virtuale con JARVIS;
considerando che lo aveva impostato per seguire gli schemi di
Kasparov stava andando anche meglio del previsto, e stava perdendo
meno miseramente del solito. Scacciò l'ologramma con un
colpo
svogliato della mano e si voltò a guardare il nuovo arrivato
senza
alzarsi dalla poltrona.
«Buonasera, Agente Barton. Cominciavo a
preoccuparmi: ero sicuro che ti saresti presentato alle sei del
mattino.»
«Sono partito a quell'ora da Rio de Janeiro,»
replicò
asciutto lui, lasciando intendere il suo scarso buonumore per
l'alzataccia.
Si
fermò nel bel mezzo del salotto e sembrò
improvvisamente a disagio
nel vedere il muro divisorio crollato per metà.
«Quello...»
cominciò, esitante, e Tony lo anticipò:
«Sì, è opera di
Banner, cioè Hulk. A sua discolpa, aveva i suoi buoni motivi
per essere
arrabbiato.»
«Immagino.»
«No, non immagini. Credimi.»
Tony
si lasciò sfuggire un breve sbuffo e tamburellò
con le dita sui
braccioli della poltrona, mentre l'altro ammutoliva di nuovo e
riprendeva a guardarsi intorno con aria a metà tra il
distratto e
l'assonnato. In realtà, ne era certo, aveva registrato ogni
minimo
dettaglio della villa che fosse nel suo campo visivo. Hawkeye era
stranamente in borghese, con indosso una semplice felpa verde
militare e un paio di jeans un po' logori, ma assicurata alla cintura
si intravedeva la sua balestra portatile. Gliel'aveva progettata lui
stesso: un'arma estraibile completa di dardi compressa in una
scatoletta che a una prima occhiata sembrava una macchina
fotografica. Era stato uno degli ultimi lavori che aveva svolto per i
Vendicatori. Le sue dita smisero di colpire ritmicamente la stoffa
beige della poltrona, contraendosi appena.
Adesso sarebbe
cominciato l'interrogatorio, da un momento all'altro. Si chiese cosa
stessero aspettando: voleva concludere quella prassi il prima
possibile, ma Clint era più taciturno del solito e se ne
stava
impalato in mezzo alla stanza, osservando la villa con un interesse
ingiustificato. Dopo quella che gli parve un'eternità, Tony
decise di non poterne più:
«Vogliamo arrivare al dunque o hai
intenzione di fissare il muro finché Fury non ti
richiama?» sbottò,
fancendogli al contempo un cenno verso il divano per invitarlo a
sedersi.
Barton alzò le spalle in un gesto noncurante, anche se
si scorse un lieve fastidio attraversare il suo volto; non si sedette
e si piantò di fronte a Tony, incrociando le braccia.
«Francamente,
Stark, non so neanch'io cosa dovrei fare,»
snocciolò, cogliendolo di
sorpresa.
Si riprese in fretta.
«Pensavo dovessi "tenermi
d'occhio".»
Mimò le virgolette con le dita in modo
sarcastico.
«E perché mai?»
Clint sembrò
sinceramente
perplesso dalla domanda. Tony iniziava a non raccapezzarsi
più.
«Senti, Legolas, non so per quanto tempo sei stato disperso
in Amazzonia, ma pensavo ti avessero fornito almeno i dati
essenziali. Tipo che ho poco brillantemente cercato di porre fine
alla mia esistenza un paio di settimane fa.»
Dirlo ad alta
voce lo
faceva sembrare un evento quasi irreale, ma in qualche modo anche
più
gestibile.
«Lo so,» replicò Clint, lapidario.
«Non vedo
comunque il motivo di farti la guardia.»
Tony battè stolidamente
le palpebre. Dopotutto, doveva esserci un motivo se
Barton era
un agente che si limitava a eseguire gli ordini nonostante fosse
teoricamente un Vendicatore. O forse risentiva semplicemente del
jet-leg. Non avrebbe saputo dirlo: il suo volto era imperscrutabile e
temprato da anni di interrogatori. Si rassegnò a rispondere,
scandendo le parole e cercando di smorzare il sarcasmo che
però gli
uscì spontaneo:
«L'ipotesi più quotata è che potrei
essere leggermente instabile. Un po' di depressione, forse anche
qualche problemino di autocontrollo. Magari sotto sotto ho anche
voglia di riprovarci. Inezie del genere.»
Fece un gesto
noncurante
con la mano meccanica. Hawkeye sembrò forse irritato dal suo
tono, ma dalla sua voce non trapelò la minima emozione.
«Al
momento non mi sembra che tu abbia nessuno di questi
problemi,»
dichiarò piattamente.
Di nuovo, Tony stentò a credere alle sue
orecchie. Quella era buona. C'era veramente qualcuno che non lo
ritenesse uno schizzato depresso?
«E lo deduci da cosa?» chiese
ironico, iniziando a sentirsi preso in giro.
«Dal fatto che io
sono qua in piedi mentre tu resti lì seduto, e che la cosa
ti sia
indifferente.»
Stavolta Tony rimase interdetto, la bocca
semiaperta che aveva dimenticato come volesse replicare. Distolse lo
sguardo. Sentiva la tentazione rispondere con una battuta, ma la
soffocò, perché aveva intuito benissimo dove
voleva andare a parare
Barton. E non avrebbe mai ammesso apertamente quanto, in effetti,
avesse colto nel segno, dimostrando un'acutezza che esulava dalla
semplice abilità di arciere.
Solo qualche settimana prima sarebbe
scattato in piedi al primo trillo del campanello, fregandosene della
protesi malmessa e della sua andatura zoppicante, si sarebbe
probabilmente imbottito di antidolorifici pur di camminare senza
risentirne sul momento e sarebbe andato incontro all'ospite con passo
ridicolmente baldanzoso, come se non avesse un solo problema al mondo
nonostante il suo aspetto trasandato dicesse ben altro.
Adesso se
ne stava sprofondato nella poltrona, la protesi stesa sul poggiapiedi
per far riposare il moncherino, con un thermos di clorofilla a
portata di mano e nessuna intenzione di alzarsi. Nonostante
indossasse i soliti pantaloni da lavoro e un paio di ciabatte
più
vecchie di lui, la maglietta era pulita e aveva ripreso a radersi
alla meno peggio – per quanto gli consentisse la protesi
senza
recidersi la giugulare – e a sistemarsi i capelli diventati
un po'
troppo lunghi.
E no, non gli importava di non potersi alzare
in piedi, perché in effetti non voleva
alzarsi in piedi. Era
una differenza sostanziale che aveva cominciato a realizzare nel
corso delle ultime due settimane, quando aveva cominciato ad
apprezzare i pregi della solitudine. Non aveva sentito neanche il
bisogno di scusarsi o di mettere in chiaro che non dipendeva da lui;
non aveva neanche pensato di dover in qualche modo ricordare
all'altro quanto facesse schifo la propria situazione con qualche
commento pungente o una battuta autoironica. La sua situazione era
abbastanza evidente senza bisogno di parole superflue.
Si accorse
di sorridere appena, un'ombra di quel sorrisetto sardonico che
aleggiava spesso sul suo volto in tempi più sereni. Hawkeye
ricambiò
con un'occhiata forse meno fredda del solito.
«Va bene, hai fatto
i compiti a casa, dopotutto,» commentò infine
Tony.
«Adesso però
siediti davvero, ti prego. Mi fai stancare solo a guardarti,»
aggiunse in tono leggero.
Clint acconsentì senza dire una parola
e si accomodò sul divano di fronte a lui, lasciando vagare
lo
sguardo come se non avesse già perfettamente memorizzato
ogni angolo
del suo salotto; e notava benissimo come di tanto in tanto gli
scoccasse un'occhiata quasi casuale, ma di un'intensità
evidente.
Dopotutto, lo stava tenendo d'occhio.
Decise di rompere il
silenzio: meglio parlare con Barton piuttosto che perdere un'altra
partita a scacchi.
«Quindi, tu che ne pensi?» esordì
cautamente
e, in fondo, con sincera curiosità che però
trasparì solo dal suo sguardo.
Il suo tono rimase quasi noncurante.
«Di cosa,
esattamente?»
Era molto difficile capire se Barton facesse il
finto tonto o meno, ma la cosa iniziava a irritarlo e divertirlo allo
stesso tempo.
«Di questa faccenda. Cioè, non
di questa,
ma di quella di due settimane fa,» puntualizzò,
con un gesto della mano a dare enfasi.
«Non pensi che
debba essere internato in un centro di igiene mentale, e già
così
ti poni contro il buon senso di tutti i tuoi colleghi. Sarebbe il
colmo se pensassi anche che io non sia stato un idiota a fare... beh,
a quasi fare quello che ho fatto.»
Barton sembrò esitare,
come se fosse riluttante a intavolare il discorso. O forse trovava
semplicemente strano che qualcuno chiedesse la sua opinione. Infine
intrecciò le mani dietro la nuca e poggiò la
caviglia sul ginocchio,
come decidendo che, se proprio doveva parlare, tanto valeva stare
comodi.
«Certo che penso che ti sei comportato da idiota. Ma chi
sono io per giudicarti?»
La sua espressione rimase neutra e
indecifrabile come sempre.
«L'hai appena fatto,» lo rimbeccò
Tony.
«Mi hai chiesto un parere. Se pensi che ti dica quello che
vuoi sentirti dire, parli con la persona sbagliata. »
«Allora
spiegami perché pensi che sia un idiota.» Tony
intrecciò a sua
volta le dita sul ventre, in ascolto. «Premettendo che hai
perfettamente ragione e che penso anch'io di essere stato un
idiota,»
aggiunse a mo' di chiarimento.
«Tu perché lo pensi?» replicò
Barton.
Sembrava che Clint avesse seri problemi a distinguere un
interrogatorio da una conversazione normale, e cercasse di lasciar
trapelare meno informazioni possibili da parte sua, nel tentativo di
spostare il discorso su un terreno sicuro.
«Il suicidio non è una
risposta ai problemi,» si costrinse a dire, un po'
meccanicamente. «E
mi ci sono praticamente costretto con le mie mani. Avrei dovuto
cercare di andare avanti, invece di...»
«Tu mi stai dicendo
perché gli altri pensano che tu sia un
idiota. O la società
in generale. Nessuno vuole che la gente si suicidi,
no?»
Clint non
era davvero tipo da girare intorno alle questioni, né gli
piacevano
troppo i giochi di parole. Parlava schiettamente, senza dargli
modo di replicare.
«Io però ti ho chiesto perché tu
pensi di essere un idiota.»
Tony rimase interdetto, prima di
tutto perché era la prima volta che lo sentiva pronunciare
più di
due frasi di fila. L'agente Barton gli era sempre sembrato il tipo di
uomo che svolgeva i suoi doveri senza farsi troppe domande e che in
generale evitava di pensare troppo. In realtà, si rese
conto, di lui
non sapeva proprio nulla. Al contrario degli altri Vendicatori,
Barton era per lui un grande punto interrogativo, così come
Natasha,
anche se in misura minore. Forse era per quello che erano
così
affiatati, quei due.
Si prese del tempo per riflettere. La
prima risposta che gli balenò in mente fu Pepper. Era per
lei che aveva deciso
di
vivere. Ed era lei a considerarlo un idiota
più di
tutti gli altri. Nonostante la cosa lo imbarazzasse un poco, stava
per dirlo, quando si bloccò, come folgorato.
Certo, voleva vivere
anche per lei. Lo faceva stare bene, provava
sentimenti per
lei su cui aveva deciso di non soffermarsi in modo serio, ma che
puntavano decisi verso una direzione inconfutabile; erano sicuramente
legati da un profondo affetto consolidato negli anni, ma... era
veramente tutto ciò
che lo
teneva ancorato in questo mondo? Trovava il pensiero confortante in
sé, ma allo stesso tempo si rendeva conto di quanto
quell'ormeggio
fosse labile. Essere legato alla vita solo tramite un'altra persona
lo faceva sentire vulnerabile. Le persone avevano la tendenza ad
allontanarsi, ferire, tradire, essere imprevedibili. Alla fine
scomparivano, che fosse per colpa di un'auto difettosa o di una
stretta un po' troppo salda sul braccio. Erano troppo
fragili.
Un'improvvisa consapevolezza scese su di lui, emersa
insieme a quella parte buia e ancora bruciante di sé che
teneva a
bada ogni giorno.
Lui doveva vivere, ed era questo pensiero
che lo aveva spinto a non mollare quando credeva di aver perso tutto.
Era per quello che non si era arreso all'idea che Iron Man fosse
morto, ed era per quello che si sentiva così prepotentemente
furioso
con se stesso e col mondo che sembrava ostacolarlo ad ogni passo che
faceva. Per quello, dopo il disastro sfiorato che aveva perpretato
con le sue mani, si era svegliato con un profondo senso di disgusto
verso se stesso.
Spiò l'uomo seduto scompostamente di fronte a
lui: Barton aspettava paziente la risposta, per nulla turbato dal suo
lungo silenzio.
«Mi è stato detto di non sprecare la mia
vita,»
disse infine a mezza voce, come togliendosi un gran macigno dalle
spalle che poi, lo sapeva, sarebbe tornato a pesare più di
prima. «Ho
troppi debiti con questo mondo: non posso permettermi il lusso di
abbandonarlo di mia volontà e lasciarli insoluti.»
Hawkeye annuì
brevemente, forse non capendo appieno il contesto delle parole di
Tony, ma cogliendone il concetto. Tony realizzò di essersi
forse
scoperto un po' troppo e accennò un sorrisetto spavaldo:
«E tu,
Robin Hood? Perché tu credi che sia un
gesto da
idioti?»
Clint sembrò divertito dall'improvviso risvolto della
situazione, ma ciò trasparì solo dal fulmineo
contrarsi delle sue
labbra, un sorriso troncato sul nascere. Per un istante Tony credette
che non avrebbe risposto, ma fu smentito:
«La vita non è stata
molto generosa con me, all'inizio,» esordì vago.
«Ho avuto
più di un buon motivo per
farla finita. In realtà ne avrei ancora adesso, ma sono
semplicemente troppo cocciuto per mollare tutto. E ci sono delle
persone che contano su di me e mi ricordano per cosa valga la pena
vivere,»
alzò le spalle,
come a scusarsi per quella banalità, poi si fece
più
serio. «E poi sono
un sicario. Sarebbe piuttosto ironico se mi ammazzassi,
no?»
Esprimere ad alta voce quel pensiero parve rabbuiarlo, e
sprofondò in un silenzio che Tony non volle interrompere.
Rimasero
muti così a lungo che ormai entrambi avrebbero trovato
strano
riprendere il discorso, anche se forse avevano ancora qualcosa da
aggiungere. Clint finì con l'assopirsi, a braccia incrociate
e con
la testa reclinata all'indietro sullo schienale del divano –
Fury
sarebbe stato fiero del suo lavoro di sorveglianza.
Tony avrebbe
voluto alzarsi, ma si sentiva troppo indolente; d'altronde, non aveva
nulla d'urgente da fare. Ma, nella sua indolenza, iniziò ad
annoiarsi. Quasi gli venne da alzare gli occhi al cielo per la sua
stessa incoerenza, ma si decise a scendere di soppiatto in
laboratorio.
Un po', doveva ammetterlo, gli mancava.
***
L'aria
era stantia e c'era odore di ferro bruciato e polvere. Era tutto
esattamente come l'aveva lasciato: i componenti sparsi sui tavoli da
lavoro, la cartacce sul pavimento, le apparecchiature per la fusione
dell'unobtanium in un angolo, la parete delle armature schermata.
Solo la sua sedia era innaturalmente distante dalla scrivania, come
se qualcuno l'avesse scostata con forza. Sentì le sue membra
formicolare d'inquietudine, reali e artificiali, ma fu l'unica reazione
del suo corpo che
registrò. Non avvertendo altri segnali negativi
avanzò proprio fino
a quella sedia, chiedendosi se volesse veramente prendervi posto.
Era
la sedia su cui aveva passato forse la maggior parte del suo tempo
quando stava a casa. Su di essa aveva avuto idee brillanti, momenti
di scoraggiamento, aveva riso, battibeccato con Pepper e JARVIS,
passato ore e ore a progettare, scrivere e navigare tra schermi e
ologrammi. Era la sedia che lo aveva accolto di ritorno
dall'Afghanistan e su cui si era seduto come tra le braccia di una
madre. Lì sopra aveva visto per la prima volta l'interezza
delle
sue ferite, riflesse in uno schermo spento. Seduto lì sopra
si era
mostrato per la prima volta debole a Pepper, quando aveva creduto di
non farcela. Passò la mano sensibile sui braccioli usurati,
sulla
pelle nera ormai screpolata.
Da quel giorno in poi, tutto era
andato disgregandosi sempre più: il suo mondo, la sua mente,
i suoi
affetti – uno più di tutti – fino ad
essersi trovato
nuovamente seduto lì, senza reattore e senza speranza. Si
accorse di stare affondando le dita nell'imbottitura morbida e si
riscosse, come da un
sogno.
Squadrò la sedia: era una sedia, realizzò con
improvvisa
ovvietà.
Solo una sedia.
Si sedette senza più esitazioni e
accese i monitor con uno schiocco di dita, dimentico di tutto
ciò
che tentava di emergere dentro sé per riportarlo verso il
basso. Si
fece proiettare da JARVIS un modello del braccio: non aveva voglia di
impegnarsi troppo col progetto della gamba e preferiva svagarsi
apportando qualche modifica estetica di poco conto. Fino ad allora la
protesi era sempre stata una struttura di metallo vistosa e
abbastanza tozza, attraversata da fasci di cavi di svariati colori
che attiravano inevitabilmente lo sguardo; ogni tanto si sentiva un
Replicante piuttosto malriuscito. Forse era il momento di darle un
aspetto un po' più definitivo: la spalla e il gomito
funzionavano,
solo la mano era ancora in fase di sviluppo e doveva essere lasciata
aperta per ulteriori modifiche.
Tony prese a modellare gli
ologrammi con tocchi un po' svogliati della mano sana. Dopo una
decina di minuti iniziò ad avvertire una certa sonnolenza,
ma
non
voleva lasciare a metà il lavoro. Si rese conto di quanto
iniziasse
ad accusare l'astinenza da caffeina, ma si impose di non indulgere in
una tazza di caffè almeno fino al mattino dopo.
Quando modificò
l'ultimo dettaglio sull'avambraccio diede un colpetto soddisfatto al
modello 3D, facendolo roteare su se stesso in una piroetta
vittoriosa. Sembrava una di quelle protesi che si vedevano nei film
di fantascienza: affusolata, con dei rilievi morbidi che celavano i
cavi e i circuiti dando l'illusione che sotto alla placcatura
metallica vi fossero dei muscoli. Certo, adesso la mano incompleta
avrebbe stonato decisamente rispetto al resto, ma avrebbe rimediato in
futuro. Forse il giorno dopo si sarebbe messo al lavoro per
realizzare quegli ultimi miglioramenti.
Salvò il modello,
poi ci
ripensò e modificò il colore del rivestimento.
Aveva pensato di
farla di metallo cromato, ma forse lasciarla di quel nero antracite
tipico della fibra di carbonio sarebbe stato meno vistoso. Magari col
tempo si sarebbe convinto a rivestirla di pelle artificiale come gli
aveva suggerito tempo addietro Ian, anche se al momento trovava
l'idea piuttosto disturbante. Fissò con improvvisa
consapevolezza
la figura che galleggiava di fronte a lui. Stava davvero rimuginando
sul colore della sua
protesi? Fino a tre mesi prima gli sembrava impossibile anche solo
pensare di farsene
impiantare una. Strinse il pugno davanti al volto e la mano
eseguì
il suo comando, sebbene in ritardo. Gli sembrava impossibile di
averla creata lui stesso. Non era perfetta, non ancora, ma poteva
diventarlo. Si rese conto che un giorno avrebbe potuto far finta che
niente fosse mai successo. La sua stretta si serrò un poco e
il
suo volto si tirò, amareggiato. Quelle estraneità
metalliche
facevano parte del suo corpo e del suo essere, così come il
reattore: non avrebbe mai potuto dimenticare. Però poteva
andare
avanti.
Colto da un pensiero improvviso, selezionò con un tocco
preciso un'icona nell'ologramma dinanzi a lui, aprendo la cartella
PH.01 X – avrebbe davvero
dovuto rinominarla – in cui erano raccolti e catalogati i
vari
schizzi e progetti della protesi, ai quali si aggiungevano le miriadi
di bozzetti cartacei disseminati per tutta la casa. Ne
selezionò
alcuni, trascinandoli da parte e ordinandoli cronologicamente. Li
guardò a lungo, a metà tra l'incredulo e il
compiaciuto. Non
riusciva a realizzare che dal primo progetto, una sorta di struttura
metallica rozza e grossolana, con dei pistoni al posto delle dita, si
fosse generata la meraviglia che era attaccata al suo corpo e che
riusciva a muovere con tanta naturalezza.
Il suo entusiasmo scemò
rapidamente. Come aveva potuto gettare al vento tutto quel lavoro?
Non riusciva a capire come fosse riuscito a sprecare così
tanto
tempo prezioso che avrebbe potuto utilizzare per fare progressi, per
portare avanti quei progetti. Se non si fosse smarrito, se avesse
mantenuto la calma, se non si fosse ammalato nel corpo e nell'animo,
forse in quel momento sarebbe stato capace di reggersi in piedi, magari
di
camminare liberamente.
Aveva ritardato ancor di più un
possibile
ritorno di Iron Man. Per un suo stesso capriccio e per la sua
testardaggine si trovava confinato quasi sempre su divani, sedie e
letti, col solo ausilio delle stampelle e continui dolori ai
moncherini, che dopo tutti gli scossoni subiti avevano deciso di
fargli patire le pene dell'inferno. Sapeva di aver commesso molti
errori; spesso ne aveva avuto la consapevolezza nel momento stesso in
cui aveva pronunciato una parola di troppo o compiuto un gesto
avventato; sapeva di aver ferito persone a lui care, di essersi
ferito lui stesso e di aver causato più guai in quei pochi
mesi che
in una vita intera. Ma non aveva mai pensato al tempo perso e alle
ore sprecate a lavorare cocciutamente senza raggiungere alcun
risultato perché era troppo stanco, troppo distratto, troppo
furente
per prestare la dovuta attenzione a calcoli e schemi.
Quanto tempo
aveva effettivamente perso? Forse qualche settimana. Si sarebbero poi
tramutate in anni? La vecchiaia gli balenò dinanzi agli
occhi
prematuramente, accelerata dai quei congegni salvifici e allo stesso
tempo venefici che disseminavano il suo corpo. Se mai vi sarebbe
arrivato.
I suoi pensieri corsero e alla discussione con Hawkeye e
si chiese come avesse potuto dimenticare il suo debito. Le parole di
Yinsen risuonavano chiare nella sua mente, esalate nel suo ultimo
respiro: non
sprecare la tua vita, Stark.
Si
sovrapposero inaspettatamente ad altre parole, molto più
vecchie,
che si era sentito ripetere fino allo sfinimento in tono duro: non
perdere tempo, Anthony.
Una figura alta,
allampanata, ferma sulla soglia di una porta che non varcava mai fece
capolino nella sua memoria. Scacciò
quell'immagine con rabbia e non poté star seduto un secondo
di
più.
"Perché deve avere sempre ragione?" si ritrovò
a pensare mentre se ne stava in piedi appoggiato alle stampelle.
Salì
al piano di sopra scosso, con l'intenzione di fare due chiacchiere
per distrarsi, ma mise piede in un salotto immerso nella penombra
serale e deserto. Clint se n'era andato inosservato, così
com'era
venuto. Sul tavolino del salotto, messo bene in vista, c'era un
foglio spiegazzato recuperato chissà dove, su cui si
intravedeva il
disegno scartato di una gamba meccanica. Sotto di essa, in una
calligrafia
affrettata e decisa, era scarabocchiato un conciso "Buon
lavoro. H."
Tony era sorpreso, ma
allo stesso tempo si rallegrò per quella
solidarietà
inaspettata. Si mise il biglietto in tasca, per poi voltarsi verso
la vetrata dalla quale si vedeva il mare. Si era fatto mosso: tirava
un vento teso che trascinava le foglie delle palme e scagliava i
cavalloni contro la spiaggia e la scogliera con fragore violento. Il
vetro era costellato di goccioline d'acqua che si rincorrevano in
torrentelli imprevedibili. Stette ad osservarli per un po', fissando
di tanto in tanto la linea agitata dell'oceano grigio plumbeo che
calava pian piano nell'oscurità, finche non
iniziò a dolergli la
gamba e dovette sedersi sulla poltrona.
Rimase vicino alla vetrata
a lungo, sorseggiando clorofilla, ancora una volta calmato dal buio
della notte e dall'oceano, che trovava confortante nel suo essere
inquieto e scosso da tumulti invisibili. Di tanto in tanto brontolava
un tuono lontano, e ne avvertiva la vibrazione nelle pareti e nelle
ossa. Lasciò che il suo sguardo venisse trascinato e cullato
dalle onde ormai
appena
distinguibili nella notte inquieta e velata da spesse nubi.
Si
risvegliò con un lieve fremito, senza avere la minima idea
di quanto
tempo fosse passato, col collo rigido e dolorante. Una sottile
linea rosata all'orizzonte accolse il suo occhio ancora assonnato, e
la guardò inspessirsi e diventare più intensa,
mentre il sole
sorgeva invisibile alle sue spalle, rischiarando a poco a poco il
cielo e il mare di riflessi caldi nell'aria pulita dopo il temporale.
Quando i colori virarono sul rosso-arancio fu colto da un'improvvisa
malinconia e si decise ad abbandonare la sua postazione per bere una
tazza di caffè.
Dopo qualche minuto di pigra indecisione si
lasciò guidare dall'istinto e scese in laboratorio. I suoi
passi
zoppicanti lo portarono dinanzi alla parete delle armature e come in
sogno premette un tasto per eliminare il vetro schermato. La Mark II
si rivelò dinanzi a lui, con lo sguardo vacuo fisso dinanzi
a sé
come in attesa di ordini. Ai suoi lati, simili a sentinelle cadute,
vi erano gli ammassi informi della Mark I e della Mark III. Le
accarezzò con lo sguardo, nostalgico.
Oltre alla consapevolezza
delle responsabilità legate a indossarla, si affacciava in
lui
l'infantile desiderio di volare. Quelle sensazioni di
libertà
erano lontane nel tempo e sembravano ancora più
inconcepibili se
pensava che adesso riusciva a malapena a stare in piedi e che gli
sembrava un grandissimo risultato anche solo barcollare in giro senza
capitolare a terra troppo spesso. Si sarebbe sentito molto
più
protetto, molto più forte, se solo avesse potuto indossarne
una.
Poggiò una mano sul vetro, all'altezza della
cavità del
reattore nella sua amata Mark II argentata: la sua prima, vera
armatura. Ricordava ancora quel senso di piacevole vertigine nel
librarsi in aria e sfrecciare nel cielo, senza alcun freno.
Brandelli
di visioni oniriche aleggiavano remoti nella sua coscienza: ricordi
di un altro vetro, di un riflesso troppo perfetto e della propria
caduta. Le scacciò con veemenza. Non era quello il momento
per
cadere. Piantò gli occhi nelle fessure vuote dell'elmo
impassibile.
Il lieve ronzio del reattore sembrava riverberare in tutto il suo
corpo, rassicurante. La sua nostalgia si affievolì,
sostituita da
una fermezza del tutto nuova.
"Non perdere tempo. Non sprecare la
tua vita."
Si staccò dal vetro, saldo sulle gambe.
Non aveva
sempre bisogno dell'armatura, per essere Iron Man.
_________________________________________________________________________________________
Note Dell'Autrice:
Ssssalve :)
A causa degli svariati rimaneggiamenti del layout dei capitoli, le note originali di questo sono andate perse per una mia svista. Erano un papiro più o meno dettagliato sui motivi che ci avevano allontanate dalla storia, che adesso a pensarci bene hanno perso d'importanza.
Basti sapere che da questo capitolo in poi non si tratta più di una storia a quattro mani, ma portata avanti in singolo da me (Light), con qualche saltuario input da parte della mia ex-collega (nello specifico per questo capitolo e il prossimo). Gran parte degli sviluppi successivi è stata ideata da me in modo indipendente, il resto l'ho rielaborato a partire da vecchi appunti comuni, quindi la proprietà intellettuale rimarrà sempre di entrambe :)
Per chi ha iniziato a leggere di recente probabilmente il cambio di stile non sarà così netto, in quanto i capitoli precedenti sono stati da me sottoposti a revisione completa previa approvazione di MoonRay. Diciamo che la storia era invecchiata maluccio (iniziammo a scriverla a 15 anni, e credo che ciò basti come spiegazione :'D) ed era doveroso mettere qualche toppa qua e là.
Per quanto riguarda il capitolo in sé, credo sia piuttosto esplicativo anche senza aggiungere nulla e segna l'inizio di un lento, lentissimo recupero psicofisico per Tony. Non sarà facile né leggero e di batoste dovrà subirne ancora molte, ma è pur sempre un inizio.
La storia ha dovuto necessariamente "cambiare tono" dopo una pausa così lunga; oltretutto, ho deciso di inserire qualche "letimotiv" in più, quale il padre di Tony che qui fa già capolino, più insistenza sulla figura di Yinsen e su quella di Stane e varie ed eventuali supercazzole che esulano da protesi&co.
Ritengo improbabile che vecchi lettori ripassino di qui, ma mi sembra doveroso aprire una parentesi di ringraziamento: che seguiate ancora o meno, che abbiate recensito o no, è anche merito vostro se la storia è arrivata fin qui e se viene portata avanti oggi,
Un grazie speciale ad Alley, che all'epoca si prese l'onere di recensire tutti i capitoli di fila in modo meraviglioso, a Sherlock_Watson, che fu una delle primissime lettrici e segnalò la storia per le scelte (cosa di cui mi sono accorta ORA, tra l'altro) e continua a seguire tutt'ora e a Yavanna Norrey, che ci lasciò la prima recensione in assoluto seguendoci poi assiduamente <3
Una nota di ringraziamento a parte va ad _Atlas_: è grazie a lei se ho deciso di riprendere Phoenix dopo una pausa di quasi 3 anni e non finirò mai di ringraziarla per questo <3
Au revoir, vi auguro un buon proseguimento di lettura :)
-Light-
© Marvel
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Capitolo 31 *** Iron and bones ***
30
Iron
and bones
"It's
time to make our move, I'm shaking off the rust
I've got my heart set on anywhere but here
I'm staring down myself, counting up the years
Steady hands, just take the wheel"
[Stop
And Stare – OneRepublic]
21
Aprile, Villa Stark
"E
se le protesi prendessero il controllo del mio corpo?"
Tony
si fermò col cucchiaio di cereali a mezz'aria, la bocca
schiusa e un'espressione attonita sul volto. Lasciò ancora
per qualche
momento
che il pensiero cercasse di radicarsi nella sua mente, terrificante.
Poi si riscosse, mangiò la cucchiaiata e decise che fare una
maratona di film di fantascienza la sera prima non era stata una
grande idea, soprattutto perché la metà dei
titoli includeva una
qualche ribellione delle macchine. E poi, se proprio doveva dar
retta a quelle visioni distopiche, erano sempre le intelligenze
artificiali a fare casino. Fissò con improvviso sospetto le
spie blu
dei monitor di JARVIS, all'altro capo del laboratorio; per fortuna
durante la costruzione del maggiordomo virtuale si era premurato di
aggiungere un dispositivo di shut-down
istantaneo. Solo un idiota avrebbe lasciato a una
super-intelligenza potere decisionale.
Rasserenato dalla propria
lungimiranza, Tony finì alla svelta la sua colazione,
ansioso di
mettersi al lavoro. O meglio, di stilare la sua tabella di marcia per
poi mettersi al lavoro. Nonostante l'euforia del
giorno
prima si era reso conto che non poteva gettarsi a capofitto in
quell'impresa senza prima avere ben chiare le sue priorità.
Il
che si riduceva a: prima il reattore, o prima le protesi?
Quanto,
effettivamente, lo stava intossicando il palladio? Quanto era
importante riacquistare mobilità in breve tempo? Ai
fini di Iron
Man cos'era più urgente? E, soprattutto, a cosa era in grado
di
lavorare con più costanza?
Aveva decisamente bisogno di un piano.
In un certo senso era grato di non sentirsi in obbligo di consultarsi
con qualcuno – e anche di non averne modo. Però
poteva
immaginare cosa avrebbero detto gli altri.
Ian lo avrebbe
probabilmente spinto a rinnovare il reattore prima di avere
più
palladio che sangue in corpo, e gli avrebbe fatto un'altra scenata
perché i micro-reattori delle protesi non erano
sostituibili. In
sostanza, gli avrebbe dato dell'idiota, e a ragione. Kyle lo
avrebbe sicuramente indirizzato verso il progetto delle protesi. Non
poteva fargliene una colpa: avevano stretto un accordo consolidato
anche dal tempo passato assieme, ma a parte qualche schizzo e
progetto campato in aria, di un modo per farlo riprendere a camminare
non v'era traccia. E Pepper... Tony si sfregò sovrappensiero
la
benda sul volto, che lo irritava da quella mattina.
Perché lei
doveva sempre essere un interrogativo? Magari gli avrebbe solo detto
di lasciar perdere e riposarsi, che ne aveva già combinate
abbastanza e che avrebbe fatto meglio a lasciar perdere tutto per un
bel po'. Sbuffò, improvvisamente nervoso.
Su una cosa era certo:
tutti e tre non avrebbero visto nessuna scelta come un qualcosa per
tornare a essere Iron Man, anzi, sapeva già che avrebbero
ostacolato
quell'idea con tutte le loro forze ritenendola una follia. Persino
Fury, nonostante in fondo ci sperasse, non riteneva plausibile un
ritorno del supereroe corazzato.
Il loro disfattismo lo faceva
imbestialire. Era perfettamente cosciente che non sarebbe tornato
a indossare l'armatura l'indomani, né tra qualche giorno,
né
probabilmente per molti mesi; perché, però, non
avrebbe dovuto
porla come suo obiettivo finale?
Come di riflesso, diede un'
occhiata alla pelle attorno al reattore, ancora solcata da quelle
venature malsane. Prese dalla scrivania il rilevatore di
tossicità, anche se l'aveva misurata appena la sera prima.
L'ago
scattò fastidioso, pizzicandogli un polpastrello, e dopo
qualche
istante il display si illuminò: 13%. Si ripulì la
mano con un
fazzoletto, tranquillizzato. Da qualche giorno la percentuale era
stabile, e sembrava in diminuzione da quando aveva ripreso dei ritmi di
sonno-veglia
più regolari; aveva avuto un picco del 15% poco dopo aver
rimosso il
reattore, ma doveva essere stata una reazione al trauma e allo
stress.
Il problema si sarebbe posto con Iron Man. Ricordava
che nel periodo prima dell'incidente consumava quasi un nucleo di
palladio a missione. All'epoca non aveva minimamente pensato alla
tossicità del nucleo e si era limitato a controbilanciarla
con la
clorofilla, ma era un problema che se fosse stato pienamente attivo
avrebbe comunque dovuto risolvere alla svelta, prima o poi. Gli
scappò un
sorriso amaro. Non solo non era pienamente attivo,
non lo era
nemmeno per un quarto.
Scosse la testa tra sé: il consumo delle protesi era
minimo... probabilmente le vene di quel blu-nerastro erano una
conseguenza della vicinanza del palladio ai tessuti ed erano meno
pericolose di quel che sembrasse. Non aveva veramente del
palladio
nelle vene. Almeno così sperava, ma non riusciva a credere
che
avessero una correlazione con una tossicità così
bassa. Il vero
problema era il reattore cardiaco, di cui non poteva fare a meno
neanche volendo. D'altronde, non aveva ancora avuto bisogno di
sostituire il nucleo centrale, quindi la quantità di
palladio non
doveva essere così drammatica. Per i micro-reattori ormai
non
poteva ormai fare nulla. Sperava solo di aver fatto bene i suoi calcoli
e
che fossero davvero innocui: sarebbe bastato
un piccolo malfunzionamento per avvelenarloancor di
più o per rendere inutili le
protesi. Strinse nervosamente il pugno artificiale. Si stava
pentendo di aver affrettato le cose, all'epoca. Lanciò il
fazzoletto
nel
cestino con stizza: si stava pentendo di molte cose, ma non era
quello il momento giusto per pensarci. Si appoggiò allo
schienale, massaggiandosi le tempie per scacciare un principio di
emicrania.
Lasciò vagare lo sguardo nel laboratorio,
rilassandosi prima di riprendere le sue riflessioni. Le armature
erano di nuovo visibili, immobili e pazienti. Qualche ologramma
dimenticato fluttuava qua e là; un neon aveva preso a
sfarfallare
fastidiosamente. La scrivania era stranamente ordinata: aveva
fatto sparire tutti i progetti senza né capo né
coda che aveva
partorito nel mese precedente, spesso così confusionari da
essere
incomprensibili a lui stesso. In realtà aveva cominciato a
mettere
ordine col proposito di fare una cernita dei vari fogli e bozze...
finché non aveva trovato lo schizzo di due
braccia e gambe
meccaniche con propulsori integrati affiancate da note vaneggianti. A
quel punto aveva raccolto a bracciate tutta quella carta straccia e
l'aveva buttata nell'inceneritore. Era meglio non sapere se fosse
stato lucido o meno quando aveva ideato quella roba.
Si
riscosse, sentendosi più concentrato. Con un cenno della
mano
disattivò il neon difettoso, che lo stava decisamente
irritando.
Eliminata quella distrazione, si fece proiettare da JARVIS le
cartelle coi progetti delle protesi, ossia tre interfacce
tridimensionali che ruotavano pigramente su se stesse. Poteva
anche cestinare quella dell'occhio, tanto più che era
semivuota.
Stava già per eliminarla, quando ebbe un ripensamento
repentino e si
limitò a spostarla nella sezione "progetti incompiuti",
dove finì tra motori di automobili e altri congegni inutili
e
innocui. Sistemata quella pratica, esitò ancora un istante
tra il
braccio e la gamba, prima di selezionare quest'ultima.
Era il
momento di rimettersi in piedi, stavolta per davvero.
***
Se
Tony avesse dovuto spillare un nichelino per ogni insulto, impropero
e bestemmia che lasciò le sue labbra durante la
realizzazione del
piede della protesi, si sarebbe trovato ben presto povero in canna.
Maledisse per l'ennesima volta ogni singolo ossicino, ognuno a quanto
pare d'importanza capitale, e prese un sorso di caffè,
decaffeinato.
Ed era consapevole che fosse decaffeinato, ma si sentì
comunque
rinvigorito.
Scoccò un'occhiata all'orologio: le 22:30. Aveva
ancora un'ora di autonomia, poi sapeva di dover dormire per
riprendere la mattina successiva. Imporsi dei turni di lavoro era
quanto di più frustrante potesse immaginare, ma almeno era
sempre
riposato e con la mente fresca. Meno errori, meno stress,
più
progressi. Sarebbe stato così semplice se avesse iniziato da
prima...
Scacciò il pensiero e si immerse di nuovo tra circuiti e
legamenti. Pensare ai "se" e ai "ma" non
l'avrebbe aiutato con l'articolazione della caviglia.
Si rimise
all'opera, continuando a masticare parolacce tra i denti e a maledire
il saldatore.
***
25
Aprile, Villa Stark
Alla
quarta caduta, che per poco non lo mandò a fracassarsi la
testa
contro lo spigolo della scrivania, Tony dovette ammettere che
evidentemente la colpa non era della protesi, ma dell'ammasso di ossa
e muscoli a cui essa era attaccata.
Rimase seduto a terra a gambe
distese, un po' dolorante e molto frustrato, con la schiena poggiata
contro la scrivania. Mentre riprendeva fiato si assicurò per
l'ennesima volta che i collegamenti neurali funzionassero:
fissò con
intensità l'alluce meccanico, cercando di piegarlo con
scarso
successo. Avrebbe avuto più possibilità di farlo
muovere con la
forza del pensiero piuttosto che, semplicemente, piegando
l'alluce.
Alla fine gli parve di scorgere un lieve movimento o meglio,
un'intenzione
di movimento che era
poco più di un fremito e che probabilmente si era
immaginato.
Invece, si mosse di sua spontanea volontà il mignolo.
Sospirò:
si ricominciava con le dita scombinate. Gli urti dovevano aver
falsato i contatti.
Di piegare il ginocchio neanche a parlarne.
Quella meraviglia della tecnologia si riduceva a un tubo di metallo
appiccicato al suo corpo, al cui confronto le gambe di legno dei
pirati sembravano invenzioni all'avanguardia. Era conscio di
quanto fosse diventata esile la sua gamba sinistra. Era decisamente
dimagrito in quei mesi – le costole e le scapole erano ben
visibili
e aumentavano l'impressione di fragilità generale, oltre che
vive reminiscenze dell'Afghanistan
– ma almeno il
braccio e la parte superiore del corpo mantenevano una parvenza di
tonicità, mentre le gambe, o quel che ne rimaneva, erano
smunte e deboli. Non c'era da
stupirsi che avesse difficoltà a stare in piedi.
Non era mai
stato un grande sportivo, ma dal suo rapimento, prima, e con l'inizio
dell'attività di Iron Man, poi, si era reso conto di non
poter
trascurare la sua forma fisica e si era messo d'impegno a boxare sul
ring con Happy e a correre per chilometri lungo la spiaggia di Malibu,
con qualche occasionale lezione di corpo a corpo con Rogers e
Nataša.
Adesso
erano mesi che non camminava davvero, le stampelle reggevano quasi
sempre
tutto il suo peso e passava la maggior parte del tempo alla
scrivania, sul divano o a letto. Senza contare che ormai aveva
preso il vizio di fare tutte le operazioni faticose con la destra,
dotata di una forza decisamente superiore. Era quasi ambidestro, ma
ogni tanto si rendeva conto che il braccio sinistro era diventato
leggermente più debole.
Si diede una pacca sulla coscia
sinistra, sentendo chiaramente l'osso sotto il palmo. Prima di
poter usare le protesi al massimo doveva rimettere in funzione il suo
intero corpo.
Il campanello trillò.
Tony sobbalzò con un
groppo in gola quando sentì il segnale della porta
principale che
veniva aperta in automatico da JARVIS. Doveva essere qualcuno di
conosciuto, o avrebbe chiesto il permesso per farlo entrare. Attese
con trepidazione l'annuncio del maggiordomo virtuale.
"E se
fosse..."
«Il Dottor Mitchell la attende nell'atrio, signor
Stark.»
Tony tirò un sospiro di sollievo, subito seguito da una
preoccupazione più immediata: come diavolo ci arrivava lui,
nell'atrio?
Il medico avrebbe fatto i salti di gioia a vederlo in quello
stato...
«Digli di scendere! Doc, sono un po' bloccato,
al momento...»
disse poi direttamente, attivando
l'interfono e cercando
di mostrarsi il più calmo possibile per non
destare sospetti.
Dopo aver tentato più volte ad alzarsi –
perché,
perché aveva abbandonato le stampelle?
– e aver
constatato di avere una rotula meccanica disarticolata e un malleolo
rotto, si
rassegnò a rimuovere la protesi diventata più un
peso che un
aiuto.
In quel momento si aprirono le porte dell'ascensore e ne
uscì Ian; era passato un lasso di tempo considerevole da
quando gli
aveva detto di raggiungerlo. O la vecchiaia iniziava a farsi sentire
anche per lui, o non aveva alcuna fretta di vederlo –
d'altronde,
perché usare un ascensore quando si avevano due gambe
funzionanti? Forse il ritardo era dovuto a entrambe le cose, concluse
notando il
volto
stanco del medico.
Troppi turni di notte avevano recentemente segnato
i suoi occhi già assediati dalle rughe. Ovviamente si era
licenziato
dalla sua posizione alle Stark Industries, riprendendo a lavorare a
pieno ritmo al General di Los Angeles. La sua barba era stranamente
incolta e il
grigiore lo faceva apparire più vecchio dei suoi
cinquant'anni
appena superati. Indossava uno dei suoi opinabili completi, con una
giacca a coste color ruggine che sembrava saltata fuori da una raccolta
dell'Esercito della Salvezza. La camicia era un po' sdrucita,
e i pantaloni troppo larghi e tenuti su da una cinta stretta in modo
vistoso.
Tony non lo salutò
subito, preso in contropiede dalla sua aria provata e alquanto
sciatta. Quella trasandatezza non era da lui: a parte il suo gusto
orribile per le giacche era sempre impeccabile nel vestire e nella cura
personale. Già
la settimana scorsa aveva dato qualche cenno di stanchezza, ma quel
cambiamento era troppo drastico. Si soffermò brevemente
sull'ironia che lo spingeva a preoccuparsi per il proprio medico,
quando quest'ultimo aveva preso a interessarsi poco e niente di lui.
Non che potesse dargli torto...
«Signor Stark, sta cercando di
nuovo di ammazzarsi?» esordì infatti,
più caustico del solito, mentre Tony
rimuoveva la gamba con un rumore abbastanza disturbante di barattolo
sottovuoto che si apriva.
Ignorò la provocazione, piantò la
gamba ora inerte contro il pavimento e la usò come stampella
di
fortuna per issarsi in piedi. La gamba sana gli tremava per lo sforzo
e si abbandonò sulla sedia più vicina con la
fronte imperlata di
sudore. Si piazzò la protesi in grembo, con una mano posta
con fare
protettivo sul ginocchio e l'altra che si allentava il colletto della
polo mentre sbuffava accaldato.
Ian aveva assistito alla scena
senza schiodarsi dalla soglia dell'ascensore. Osservava il
laboratorio con malcelata sorpresa, come se il suo aspetto lo
sorprendesse. Tony gli concesse altri dieci secondi di
meditazione, chiedendosi perché ultimamente i suoi
visitatori
fossero affetti da mutismo, poi si decise a rompere il silenzio:
«È
venuto per visitarmi o per rubare i segreti del mio
successo?»
sbottò, distogliendolo da un modello di piede
tridimensionale che
volteggiava svogliato per il laboratorio.
«Sono solo sorpreso di
vederla... in movimento. E stranamente in salute,»
commentò lui,
cautamente.
"Aspetti di vedere di nuovo i miei tatuaggi al
palladio..."
La prima volta che li aveva notati, il dottore
era andato a dir poco su tutte le furie. Oltre alla sua ovvia
preoccupazione per le possibili ripercussioni del palladio sul suo
corpo, alla rabbia verso di lui per non aver valutato a dovere i
rischi di quella tecnologia e al nuovo, malcelato disprezzo con cui
lo trattava dopo il tentato suicidio, Tony aveva notato una scintilla
di terrore nella sua reazione. Era stato lui a impiantargli quei
congegni e, volente o nolente, era stato lui a permettere quel
risvolto inaspettato. E, Tony ne era abbastanza convinto, quel senso
di colpa ingiustificato era l'unica cosa che gli aveva impedito di
abbandonare il suo paziente ingrato.
Ogni volta che lo visitava
sembrava quasi dimenticarsi dei moncherini, dello sfregio e delle
protesi, concentrandosi quasi ossessivamente su quelle venature
bluastre e innaturali, senza per questo chiedergli nulla al riguardo.
Concludeva le sue visite sbrigativamente ma con una palese
insofferenza, di chi avrebbe voluto trattenersi e chiedere di
più,
ma non voleva o non osava farlo.
Anche adesso, dopo il suo
commento evidentemente sfuggitogli in un istante di distrazione, non
si spinse oltre e rimase in silenzio. Si avvicinò
però alla
scrivania, dove depose la sua valigetta con gli strumenti medici.
«Ho
ripreso a lavorare su questo gioiellino,» annunciò
Tony, senza
che
Ian lo interpellasse, deciso a ignorare il suo solito atteggiamento
scostante. «E questo...» alzò il braccio
col nuovo rivestimento.
«Questo è il futuro.»
Ian non diede cenno di aver ascoltato e
si limitò a un mugugnio generico e poco impressionato.
Indossò lo
stetoscopio. Tony abbandonò la sua giovialità e
si rassegnò
alla solita prassi, scalpitando per rimettersi al lavoro. O meglio,
per ricominciare a cadere a peso morto...
Ian cominciò ad
auscultarlo con rapida professionalità, concedendosi un
lieve cenno
d'assenso nel constatare che i polmoni e il cuore erano a posto
–
per quanto un cuore minacciato da barbigli metallici potesse essere
"a posto" – per poi passare alle protesi, e qui la sua
espressione si scurì. Come volevasi dimostrare.
«Beve ancora
la sua clorofilla?»
«Tutti i giorni, un litro e più al giorno, come
sempre,» rispose
lui monocorde.
«Ha apportato modifiche alle protesi?»
«Nulla
che abbia a che fare coi reattori.»
«Mi sembra che gli effetti
del palladio stiano scemando...» affermò Ian, come
se ciò
implicasse necessariamente una qualche modifica che gli voleva
nascondere.
«La tossicità è scesa al 13%.
È un bene, no?»
«Non sono assolutamente
in un range accettabile.»
Detto ciò, ripose i suoi strumenti
nella valigetta, col chiaro intento di andarsene senza aggiungere
altro. Stavolta Tony non nascose il suo stupore e cercò di
trattenerlo. Non si aspettava quella superficialità, tanto
più ora
che aveva assolutamente bisogno di parlargli...
«Già finito? Non
mi ha neanche controllato l'occhio... cioè, l'ex-occhio, che
giusto
l'altro giorno...»
«Signor Stark, non so che novità si aspetta
di sentire da me, ma di sicuro non le annuncerò la
miracolosa
ricrescita di un arto o l'imminente ritorno di una visione
bifocale,» sbottò a quel punto Ian con stizza
ingiustificata,
facendolo ammutolire. «Le sue condizioni non hanno margine di
miglioramento allo stato attuale e...»
«È quello che ha detto
anche quando mi ha conosciuto. Invece mi sembra di aver fatto almeno
qualche
miglioramento, nonostante il suo scetticismo.»
Tony
alzò la voce,
sentendosi ingiustamente attaccato.
«Non mi sembra che ci tenga
molto a quei miglioramenti, visto come si è comportato con
se
stesso,» replicò Ian con voluta
malignità.
Tony si costrinse a
moderare il volume della sua voce, nonostante non volesse far altro
che esplodere, ma doveva
dimostrargli di essere cambiato. Doveva controllarsi, si
ripeté
stringendo il pugno meccanico con forza. Si erano tutti convinti che
fosse instabile e collerico e sfatare quel mito era più
difficile di
quanto immaginasse.
«Ho commesso qualche... molti
errori in corso d'opera,» ammise a fatica. «Alcuni
dei quali
imperdonabili. Non ho bisogno della sua paternale per
capirlo.»
Lo
guardò fisso negli occhi e Ian parve sfuggire lo sguardo per
un
istante, come se si aspettasse tutt'altra reazione. Esitò
nel
rispondere e Tony lo anticipò:
«Sto ancora
cercando di migliorare. Non m'importa cosa ne pensiate voi.»
Ian
parve riscuotersi a quelle parole e il suo tono tornò ad
essere più
pacato, anche se si notava quanto ancora fosse irritato dal suo
comportamento.
«La strada mi sembra ancora lunga, signor Stark.
Da solo non arriverà lontano,» aggiunse in tono
fermo e molto
eloquente, ma quasi forzatamente distaccato, quasi fosse incline ad
abbandonare l'idea che si era fatto di lui ma non volesse farlo
troppo in fretta.
Tony incassò il colpo, ma non lasciò
trasparire la sua delusione, anzi, sfoggiò un sorrisetto
impertinente.
«Sono abituato ad essere lasciato solo e me la sono
sempre cavata. Non mi sottovaluti.»
Ian non replicò, ma fece una
strana, incomprensibile smorfia che poteva significare tutto o
niente, anche se poi il suo volto si fece più sereno, come
rassicurato da quelle parole. Si rimise lo stetoscopio al collo e si
accinse a completare la sua visita a occhi bassi, come se lo scoppio
di rabbia di poco prima lo imbarazzasse e volesse rimediare.
Tony
lo lasciò fare, anche se era piuttosto perplesso dal suo
comportamento. Anche normalmente era irritabile, cinico e propenso
al disfattismo, ma non si era mai permesso di apostrofarlo in modo
così duro come poco prima. Le poche volte in cui aveva avuto
qualcosa da ridire l'aveva sempre esternato con la massima educazione
e professionalità, salvo rari casi, e mantenendo le
distanze. Da lui
non si sarebbe mai aspettato un attacco tanto personale, soprattutto
non in modo così rancoroso. Anche mentre lo visitava
mantenne una
strana aria assente.
Gli stava giusto puntando una torcetta
nell'occhio integro per verificare i riflessi della pupilla, dandogli
modo di vedere da vicino la stanchezza sul suo volto, quando Tony si
decise a parlare:
«Doc, sicuro che vada tutto bene?»
L'altro
sussultò, scansò il fascio di luce dalla sua
iride e ripose la
torcetta nel taschino con un gesto un po' troppo brusco.
«A parte
un certo
paziente recalcitrante...» borbottò cercando di
sviare il discorso,
prendendo un appunto sul suo taccuino. «Inizi a lasciare la
ferita sul volto scoperta, almeno in casa. Vediamo come reagisce
all'esposizione prolungata alla luce. A proposito, dovrebbe anche
prendere un po' di sole: rischia di avere una carenza di vitamina D se
continua a vivere recluso in casa,» sciorinò
rapido.
«Se potessi me ne andrei
in spiaggia, ma sono un po' bloccato,
al momento. E non posso andarmene a zonzo con le protesi sotto
sequestro... mi accontenterò della terrazza.»
Alzò le spalle, frustrato.
«Mi
basta un sì o un no, non chiedo altro,» insistette
poi, liquidando la questione e già aspettandosi che andasse
di
nuovo in escandescenze.
Con suo sorpresa, invece, Ian si appoggiò
al bordo della scrivania e si mise a pulire i suoi occhiali con
l'orlo del camice, pensieroso, in un gesto che conosceva bene e che
non prometteva nulla di buono. Continuava a evitare il suo sguardo;
era restio a parlare, ma allo stesso tempo sembrava cercare le parole
giuste. Tony si sentì un po' in colpa per aver insistito e
corse
ai ripari:
«Lo prenderò per un no... io invece sto
bene?»
«Sì,
direi che è in una situazione molto stabile su cui si
può
lavorare...» rispose distratto Ian, continuando a pulire gli
occhiali.
«Perfetto, le volevo giusto chiedere se...»
«Ha
ragione. Non va tutto bene,» lo interruppe lui, prendendolo
di
sorpresa.
Aveva parlato in fretta, col suo solito tono
burbero.
«Non sono abituato a sentirmelo chiedere,» disse
quasi
scusandosi, e si rimise gli occhiali incorniciando nuovamente i suoi
occhi color acquamarina.
Incrociò le braccia, senza accennare a
parlare né muoversi. Tony rimase in attesa, fingendo di
controllare
la giuntura del gomito, senza mettergli fretta.
«Recentemente
è... accaduta una disgrazia.» Si bloccò
esitante e si passò una
mano sulla barba cercando di calmarsi. «Un collega, un mio
ex-allievo ha...
oh!» sbottò
improvvisamente, come rendendosi conto di ciò che stava
dicendo.
«Lasciamo perdere. Tanto è inutile parlarne con
lei,» concluse,
scostandosi dalla scrivania.
A Tony diede l'impressione di un
animale in gabbia che non sa più da che parte voltarsi... e
che non
si rende conto che la gabbia è aperta. Realizzò
che capiva fin
troppo bene la sua situazione. E sapeva anche che insistere
nell'offrire un aiuto non gradito sarebbe stato
controproducente. Però era anche incredibilmente curioso:
sapeva
così poco del suo medico di fiducia. A parte la nota
amicizia di
lunga data con Kyle, ormai uno di famiglia per lui, tra una
chiacchierata e l'altra si era lasciato sfuggire poche informazioni:
aveva una moglie e una figlia, delle quali però parlava
raramente e in modo nostalgico. Aveva dedotto che fosse separato, o
divorziato, ma non ne era del tutto certo. Non aveva mai menzionato
amici o colleghi con cui fosse in
confidenza. Sembrava un uomo estremamente solo, ma che si trovava
bene nella sua solitudine.
Stette in silenzio per un po'; poi,
vedendo che Ian non accennava comunque ad andarsene, si
arrischiò a
tornare alla carica:
«Perché me ne sta parlando? O meglio,
perché non
me ne sta parlando quando evidentemente vorrebbe?»
«È una
questione delicata che io stesso non so come gestire,»
rispose lui
meccanicamente, senza però irritarsi della sua insistenza.
«E cosa
c'entro io?»
«È lei che mi ha chiesto se andasse tutto
bene!»
stavolta suonò piccato.
«Sì, ma se fosse un qualcosa di
strettamente personale se lo terrebbe per sé senza
coinvolgere
qualcuno di cui evidentemente si fida molto poco, oppure me lo
direbbe senza problemi, perché non mi riguarderebbe
minimamente.»
Il medico tacque, ma gli scoccò un'occhiata nervosa.
«Le
serve aiuto per qualcosa?» tentò Tony, con fare
sicuro.
Ian si ritrasse a quella domanda e si
fece scuro in volto.
«O serve aiuto a quel collega di
cui...»
«Non sono affari che la riguardano, almeno non per
ora.»
Parlò con
distacco, ma nel suo sguardo si leggeva quanto avrebbe voluto
abbandonare quell'orgoglio e quella riservatezza, e quanto lui avesse
colto nel segno: Tony si ritenne soddisfatto.
«Ok, ok, quando
vorrà,» tagliò corto, arrendendosi.
Ian si rilassò
visibilmente e affondò le mani nelle tasche della giacca,
meditabondo.
Fu lui a riportare la discussione in campo neutro:
«Dunque,
stavamo dicendo del suo occhio...» esordì,
schiarendosi un poco la
gola.
Tony fece un gesto col la mano meccanica, come a scacciar
via l'argomento.
«Sì, certo: mi tolgo la benda e vedo che succede.
Dovrò farmene rimediare una decente da Fury,»
aggiunse
poi, adocchiando con lieve disgusto la garza adesiva nel
cestino.
Stavolta un'ombra di sorriso apparve sul volto di
Ian.
«Magari gliene rimedio una più discreta.»
«Perché
mai? Ho sempre sognato di fare Barbanera a Carnevale.»
sospirò
Tony, sollevato che la tensione si fosse un po' allentata.
Ian
alzò gli occhi al cielo e prese la valigetta, facendo per
congedarsi.
"Ah, no! Dovevo chiedergli... cos'è che dovevo
chiedergli?" annaspò Tony, sicuro che fosse qualcosa di
molto
importante e molto delicato, che doveva presentare nel giusto
modo.
«Allora ci vediamo tra una settimana. Le mando conferma
come sempre il giorno prima, in caso...»
«Doc, ma come la
vedresti un po' di fisioterapia?» proruppe Tony prima di
connettere il cervello, di
getto, nel momento sbagliato, nel modo sbagliato e con le
parole sbagliate.
Il volto di Ian sbiancò così di colpo che per
un attimo temette che gli fosse venuto un ictus. Si aggiustò
gli
occhiali sul naso, incrociò le braccia e lo
guardò come se fosse
impazzito. Era uno sguardo che conosceva molto
bene...
«Fisioterapia?» ripeté, attonito.
«Sa, serve per
riprendere a camminare...
quella cosa che cerco di fare da mesi senza successo, se ben
ricorda.»
Ian tentò di riprendersi dallo stupore, e alzò le
mani facendogli cenno di calmarsi.
«Un momento, mi faccia capire
bene. Vuole essere aiutato?»
A
quel punto Tony si sentì improvvisamente in imbarazzo, come
se
stesse confessando la più infame delle colpe. Si
passò una mano tra
i capelli e si lisciò nervosamente il pizzetto,
interessandosi d'un
tratto al reticolo olografico sospeso sulla sua testa.
«Beh, non
proprio... cioè, sì, ma non nel senso
di...» si bloccò, trasse un
respiro profondo e concluse: «Diciamo che le stampelle non
sono più
un supporto sufficiente.»
Il medico lo fissò allibito ancora per
qualche secondo, come assicurandosi della sua lucidità, poi
sbuffò
indeciso. La sua bocca rimase tirata in una linea severa, ma gli
occhi avevano un'espressione calda.
«Ormai avevo perso le
speranze, signor Stark.» Riprese il suo posto appoggiato alla
scrivania. «È bello vederla finalmente di nuovo
fra
noi,» aggiunse,
pungente come al solito.
Tony non rispose e si limitò a fare un
ampio sorriso sornione, compiaciuto della reazione dell'altro.
Ian
non gli fornì informazioni specifiche, ma disse che prima
avrebbe
cominciato, tanto meglio, visto che a detta sua rischiava di
ritrovarsi l'altra gamba atrofica; avrebbe chiesto a qualche collega
fidato per rimediare un fisioterapista altrettanto fidato. La vaghezza
con cui parlò lo insospettì un poco, ma
preferì non mettere eccessivamente alla prova il suo
atteggiamento bendisposto.
Dopo
che Ian si fu congedato promettendogli presto novità, Tony
passò
una buona manciata di minuti semplicemente a dondolarsi e ruotare
sulla sedia girevole, con una strano misto di sollievo, contentezza e
aspettativa che gli fece venire un grande appetito e una gran voglia
di mettersi al lavoro.
Scoccò un'occhiata calorosa alla parete
delle armature: sembravano avvicinarsi sempre più.
***
«Pronto?»
«Kyle!
Ti disturbo?»
«Ehi, Ian. Guarda, in realtà sono un po' preso,
ma se hai bisogno di parlare ti richiamo tra...»
«No, no, non si tratta di
me. Stacca un attimo: questa la devi sentire.»
«Come mai così
allegro? Che mi sono perso?»
«Delle buone notizie, finalmente;
torno da Villa Stark.»
«Oh! E come ha fatto uno come Stark a
metterti così di buonumore? L'hai guarito da ogni
male?»
«Non
proprio, però siamo sulla strada giusta. Diciamo che si sta
guarendo
da solo.»
«Ah, bene! ...cioè?»
«Sta' a sentire...»
***
29
Aprile, Villa Stark
Il
suo cellulare vibrò una, due volte di fila, e una terza dopo
qualche
secondo, con insistenza sospetta. Tony, già presagendo
brutte nuove,
fece sporgere con estrema cautela lo schermo dalla tasca con la
destra, sbirciando il mittente mentre saldava i contatti con la
sinistra, compiacendosi del suo multitasking. La sua soddisfazione si
smorzò quando vide che i tre messaggi erano di Kyle, e ancor
di più
quando il suo pollice metallico scivolò d'istinto e
inutilmente sul
touch-screen
con un ticchettio. Sospirò, posò il saldatore a
penna e sbloccò il
telefono con la mano buona, ripromettendosi per l'ennesima volta di
integrare dei polpastrelli touch quanto prima possibile.
Aprì i
messaggi e si accigliò.
Domani
alle 10:15 in tribunale. Ti viene a prendere Happy alle 9:00.
PUNTUALE,
recitava il messaggio successivo, in un caps-lock minaccioso.
E
niente
protesi, ricordati che in teoria sono sotto sequestro.
L'ultimo
messaggio scacciò via definitivamente il suo buonumore. Si
apprestò
a rispondere, scrivendo in fretta e furia con una mano sola, senza
che il cipiglio lasciasse il suo volto:
Le
protesi sono un mio diritto, dovranno togliermele sul posto. Non ho
intenzione di presentarmi là su una sedia a...
S'interruppe,
fissando ciò che aveva appena scritto. Lasciò
ricadere il cellulare
in grembo, tirando un respiro profondo per calmarsi.
Non poteva
ricominciare da capo.
Se avessero esteso il sequestro delle
protesi rendendolo definitivo e materiale sarebbe stato tutto inutile,
e quel lavoro di fino che stava facendo sui legamenti del metatarso
sarebbe finito in un tritarifiuti o in una fonderia. O peggio,
nelle mani sbagliate. Premette con forza il tasto "cancella",
desiderando che la sua frustrazione sparisse assieme ai caratteri
neri sullo schermo.
Esitò qualche istante prima di ricominciare a
scrivere. Trovare un compromesso era così difficile... ancor
di più
se non si era mai stati abituati a farne.
Infine si decise, anche se non era
del tutto soddisfatto.
Ok.
Lascio le protesi buone a casa, ma voglio un paio di protesi fisse,
così non turberò troppo i signori della corte e
potrò usare le stampelle.
Premette
invio prima di poterci ripensare; tenne il cellulare in mano,
abbandonando momentaneamente il lavoro. Sapeva che Kyle era
probabilmente in trepidazione dall'altro capo del messaggio e che la
risposta non si sarebbe fatta attendere.
Doveva ammettere che,
preso com'era dagli ultimi avvenimenti, si era più o meno
volontariamente dimenticato del processo, nonostante Pepper, prima, e
Kyle, poi, gli avessero periodicamente ricordato la data fatidica
incitandolo a prepararsi all'udienza, visto che avevano avuto la
fortuna di
una pausa così lunga grazie all'intercessione dello SHIELD,
che si era finalmente degnato di prendere ufficiosamente parte alla
faccenda. Tony aveva ignorato entrambi.
Nell'ultima settimana Kyle
non ne aveva fatto parola, ma aveva notato il suo crescente
nervosismo anche per telefono: le loro chiacchierate erano diventate
sempre più brevi e aveva iniziato a porre domande abbastanza
specifiche sul suo lavoro, sulle Stark Industries e su altri
argomenti che non rientravano tra i suoi favoriti per una
conversazione tra amici.
Sperò che si fosse preparato almeno lui,
o sarebbero andati incontro al disastro più totale. Chiusa
la
questione delle protesi, sarebbero passati a Iron Man. O forse
all'Afghanistan e Stane. Non sapeva quale delle due
possibilità lo
turbasse di più, e decise di non interrogare Kyle al
riguardo. D'altronde, non poteva sperare di preparare in mezza
giornata quello che avrebbe dovuto preparare in un mese. Ma era bravo
a improvvisare: in qualche modo se la sarebbe cavata.
Lo schermo
del cellulare si illuminò, accompagnato da una nuova
vibrazione.
Chiedo
a Ian, ma il preavviso è poco. Faccio il possibile.
Stava
già per riporre il cellulare, quando un altro messaggio di
Kyle lo
distolse, ovvero una grande emoticon di un pollice in su. Gli
scappò
un sorriso.
Forse non era poi così solo come credeva.
_____________________________________________________________________________________________________________________________________________________________
Revisione effettuata il 04/03/2018
Note dell'Autrice:
Sono in ritardo! Potevate forse dubitarne?
Riguardo al capitolo... Confermo che ormai ci troviamo definitivamente in un AU, anche se cercherò di mantenere contatto col resto degli avvenimenti Marvel. Mi spiego meglio: gli avvenimenti sono quelli (ignorando volutamente Iron Man 3 per licenza poetica) ma la linea temporale è un po' sfasata. Sono ancora indecisa sul momento esatto in cui concludere la storia (tranquilli, il finale già c'è) ma sarà sicuramente prima o a ridosso degli eventi di The Avengers. Ho sparso un paio di riferimenti più o meno espliciti nel capitolo (uno è Tony che, porello, crede che controllare delle intelligenze artificiali sia semplice. Un carissimo saluto da Ultron dal futuro). L'altro spero sia un po' più velato e questo sì che avrà un ruolo più importante anche nella storia.
Siamo in un momento di stallo, anche se mi sto impegnando ad accelerare i progressi di Tony. Non potevo lasciarlo ancora a lungo a vegetare sul divano, né potevo farlo alzare in piedi in stile Lazzaro, quindi ho optato per una via di mezzo. In questo momento è passato all'incirca un mese dal tentato suicidio: Tony ha avuto modo di riposarsi, riflettere e darsi dell'idiota a sufficienza.
Come avrete notato ho spostato molto il focus su Ian. Visto che ci avviamo (con calma) verso la conclusione, ho deciso di approfondire un po' i "nostri" personaggi, che hanno avuto forse poco spazio dal punto di vista dello sviluppo personale. Quindi, eccovi qua Ian in tutto il suo cinismo. Non è un personaggio particolarmente amabile, ma non deve esserlo e credo che Tony abbia bisogno di una figura di contrasto benevola, visto che di antagonisti ne ha abbastanza.
Chiudo il papiro. Ringrazio infinitamente _Atlas_, che incredibilmente segue ancora questa storia e mi ha fatto un po' commuovere con le sue parole, e Alexandre94, nuova lettrice che si è addirittura convinta a recensire dopo aver visto un aggiornamento a distanza di tre anni, il che dimostra non poco coraggio. Spero (speriamo, lo so che leggerai, MoonRay) di non deludervi. Grazie mille per le recensioni :)
A presto,
-Light-
P.S. Vi lascio con un piccolo inedito, sperando che vogliate perdonare le mie scarse doti artistiche (è stato fatto in un momento di sclero a tempo perso e no, non so disegnare le labbra). Questo è Ian al 100%, espressione incazzata inclusa. Nel prossimo capitolo, altro piccolo inedito in arrivo!
© Marvel
|
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Capitolo 32 *** Chasing cars ***
31
Chasing
cars
"I
dreamt about you nearly
every night this week
How many secrets can you keep?
'Cause
there's this tune I found
That makes me think of you
somehow
And I play it on repeat
Until I fall asleep"
[Do I
Wanna Know? - Arctic
Monkeys]
30
Aprile, 03:13, Villa Stark
Tony
sbarrò l'occhio nel buio, col fiato corto e la sensazione di
essere
in imminente pericolo.
Subito la luce azzurrina del reattore lo
rassicurò, ma portò comunque una mano al petto
per accertarsi che
fosse ancora lì, in un gesto ormai condizionato. Le sue dita
sfiorarono il contorno metallico del congegno, percependone il lieve
calore e cercando di trarne conforto. Socchiuse la palpebra
respirando piano, ma non azzardò altri movimenti,
paralizzato dal
dolore ai moncherini. Li sentiva pulsare violentemente contro il
metallo delle protesi e aveva l'impressione che anche gli arti
metallici lo percepissero; a nulla serviva convincersi che fosse solo
la sindrome dell'arto fantasma – o come diavolo l'aveva
chiamata
Ian. Si arrischiò ad allungare la testa per guardare
l'orologio sul
comodino, sentendo un'acuta fitta alla spalla. Erano appena le tre,
realizzò con disappunto. Aveva sperato che fosse
più tardi – o
più presto, a seconda dei punti di vista – per non
sentire
l'obbligo di doversi riaddormentare. Di solito le crisi lo assalivano
verso le cinque di mattina e aveva almeno la consolazione di
intravedere l'alba sul mare dalla vetrata. Adesso però la
finestra era una lastra nera e opaca; si intravedeva solo il lumicino
intermittente di una boa lontana. Si stancò ben presto di
fissarlo
nel tentativo di riprendere sonno.
Prese un profondo respiro prima
di girarsi sulla schiena, ignorando il breve e atroce dolore che lo
investì e ottenendo
subito dopo un po' di sollievo. Si premette il braccio sano sulla bocca
per soffocare nell'incavo del gomito i lamenti che gli risalivano il
petto, spinti dalla
morsa che continuava a stritolargli le piaghe. Non osò fare
altro
e tenne lo sguardo lucido rivolto al soffitto, dove si proiettava
flebilmente
la luce del reattore. Stette ad osservarla per qualche minuto,
cercando nel frattempo di distrarsi pensando ai progetti delle
protesi, ma ogni fitta gli faceva perdere il filo e gli riusciva
sempre più difficile mantenere la concentrazione. Alla fine
si
rassegnò a lasciar vagare la propria mente: che andasse dove
preferiva,
non aveva comunque la forza di tenerla a bada.
E subito i suoi
pensieri iniziarono a rimbalzare qua e là frenetici, come
pesanti
palline di
un flipper impazzito.
La consapevolezza del suo imminente processo
gli si stagliò davanti, simile a una chimera minacciosa:
ormai
mancavano poche ore e non si sentiva assolutamente preparato. Da
quel nucleo compatto di preoccupazione ed ansia sgorgavano mille
altri pensieri, tutti spiacevoli e difficilmente ignorabili. Le
protesi,
la fisioterapia, il palladio, Iron Man, i Vendicatori, suo padre
–
perché
suo padre, poi? – Stane, i suoi incubi,
l'Afghanistan... e
qui frenò il flusso con decisione ferrea, calando una
cortina
impenetrabile. La sua attenzione vagò smarrita per qualche
istante intervallato da altre stilettate ai moncherini,
finché non
si rassegnò a soffermarsi sul suo problema più
urgente e più
ignorato, che faceva capolino solo quando abbassava la
guardia.
"Capisci cosa sto cercando di dirti?" gli
rimbombò improvvisamente in testa, e vide i suoi occhi
azzurri
davanti a lui.
Affondò con rabbia la testa nel cuscino,
irrigidendosi nel sentire la tensione dei muscoli in aumento che gli
serrava lo stomaco e gli indolenziva il collo. Avrebbe voluto rigirarsi
nel letto per
sfogare un po' la sua irrequietezza, ma le proteste del suo corpo lo
dissuasero. Ancora, cercò di deviare i suoi pensieri, ma si
infransero contro la barriera oltre la quale scorgeva le fauci
spalancate di una grotta buia piena di armi e bombe e corpi... si
ritirò di scatto, chiudendo di nuovo quella porta e
ricominciando a
fluttuare smarrito tra immagini minacciose.
Non voleva pensare a
niente, soprattutto non all'Afghanistan e non a lei. Doveva
concentrarsi sul processo,
su qualcosa di tangibile e che era effettivamente in grado di
gestire. Doveva provare a imbastire una linea d'azione per l'udienza,
decise. Ma la sua risolutezza vacillò e di nuovo
sprofondò nel
buio della propria mente. Fu solo quando la sua attenzione confusa
dal dolore e dal sonno cominciò ad oscillare con insistenza
tra il
rapimento e suo padre – e sua madre e quell'addio mancato
–
perché proprio adesso, perché?
– che si arrese quasi con
liberazione, tremante.
L'immagine di Pepper gli apparve subito davanti
più nitida che mai, e si stupì di ricordare ogni
dettaglio del suo
volto, ogni lentiggine e capello ramato, inclusa l'espressione dura e
cupa degli ultimi tempi. I suoi occhi erano congelati nell'istante in
cui l'aveva guardato per l'ultima volta, in una sera irreale di
quelli che sembravano anni prima. Ricordava chiaramente il
quadro con la cornice rotta, sbilenco sul muro, a far da labile confine
tra loro. Rivedeva la
rabbia, la confusione e la preoccupazione che lei aveva cercato di
non far trasparire, ma che per lui erano fin troppo evidenti; gli
echi di una conversazione surreale, come sospesa nella notte,
trapelavano dalla scena.
Quello era l'ultimo ricordo che aveva di lei.
Quando si era risvegliato dopo il tentato suicidio era già
solo.
Nessun messaggio, nessun addio. Non trattenne un sospiro avvilito:
ci era abituato, le persone se ne andavano senza preavviso, ma
ciò
non addolciva la pillola. E in fondo sapeva di non potersi
lamentare. Quella sera l'aveva salutata, in un certo senso.
Cercava di convincersi che fosse così: non avrebbe
sopportato un
altro addio mancato a pesargli sulla coscienza.
"Sei
bellissima."
Sospirò, coprendosi il volto con le mani: di
tutto ciò che avrebbe potuto dirle... ma era il minore dei
problemi. C'erano domande più pungenti a cui non era ancora
stato in grado di trovare risposta. All'epoca sapeva già che
sarebbe stata l'ultima volta
che la vedeva? Forse la parte deviata di se stesso aveva già
deciso
di porre fine alla sua vita? Non riusciva a ricordarlo; forse non
voleva; forse non l'avrebbe mai saputo.
Lei non aveva proferito parola: l'aveva solo fissato spaesata. Ma
aveva capito? Aveva intuito l'intenzione orribile
che si celava dietro quella sorta d'addio implicito?
Scacciò il pensiero con stanchezza: ormai non
importava più.
Si concesse però di chiedersi cosa stesse facendo
in quel momento. Probabilmente dormendo, come tutte le persone
normali senza preoccupazioni, sensi di colpa e arti amputati fanno
alle tre di notte. Sperò fosse così e forse, al
contempo, una parte di sé sperò che non lo fosse.
Il nodo allo stomaco si strinse, ma allo stesso
tempo percepì un sottile velo di calma posarsi su di lui.
Era
una sensazione strana, non positiva, ma neanche negativa. Era il
sentimento di ovattato sconforto di chi si trova nello sfacelo causato
da una
catastrofe naturale: dopo i primi momenti di panico, diventa
perfettamente consapevole di non poter fare nulla per rimediare
all'istante e si
rassegna alla devastazione che lo circonda accettandola come normale,
cominciando semplicemente a ricostruire tutto un mattone dopo
l'altro. L'alternativa: disperarsi e correre all'impazzata in cerca
di una soluzione immediata e inesistente. Si adagiò in quel
limbo di indifferenza, nel quale di tanto in tanto penetrava la
consapevolezza del disastro già avvenuto e al momento
irrimediabile.
E insieme, concretizzò la consapevolezza ormai acquisita che
da
quando era solo gli sembrava di vivere molto meglio e di saper
gestire i suoi problemi in maniera quasi impeccabile, se non per
qualche momento di depressione momentanea e di sovraccarico emotivo
– come in quel momento. Prima con lei si era sentito
sicuro, protetto, guidato. Aveva creduto di non potercela fare senza di
lei,
di crollare; vi si era aggrappato con tutto se stesso e aveva finito
col trascinarla in basso con sé, per poi respingerla,
disgustato
dalla propria inadeguatezza e incapacità che l'avevano solo
ferita.
Adesso si rendeva conto che tutto quello che credeva di
riuscire a fare grazie a lei era in grado di farlo anche da solo
– ma non aveva avuto il coraggio di provarci davvero. Si
sentiva un perfetto idiota ad averlo realizzato solo adesso.
Certo,
gli mancava. Se ne rendeva conto ogni giorno, quando credeva di
sentire dei tacchi che scendevano le scale, o una voce sottile che lo
chiamava dal piano di sopra, o intravedeva uno sprazzo di rosso che
poi si rivelava essere solo un riflesso del sole. Sentì un
familiare vuoto farsi strada in lui, e riconobbe
la sensazione che aveva dimenticato da anni proprio grazie a
Pepper.
Si sentiva solo.
Anche se proprio per questo era riuscito a fare
passi da gigante, a recuperare un po' del tempo perso, a ritrovare
una parte del vecchio sé – il resto era ancora
lontano, forse
perduto per sempre – e a dimostrare a se stesso e agli altri
di
potercela fare, la solitudine aveva cominciato a scavare un nuovo
solco tra le tante cicatrici. Le telefonate di Kyle e le visite di
Ian alleviavano quel peso, sebbene in modo minimo, ma per il resto
del tempo l'unica voce che udiva era quella di JARVIS.
Essere
solo col suo maggiordomo nella villa deserta gli causava una
spiacevole sensazione di deja-vù. Si aspettava di sentire la
macchina di suo padre arrancare nel vialetto da un momento all'altro
o di vedere sua madre in terrazzo a leggere. A volte imboccava
sovrappensiero la porta sbagliata, memore della vecchia planimetria
della villa. C'erano ore intere di silenzio assoluto, intenso,
rotto solo dalla risacca. In quei momenti il raro squillo del
telefono gli faceva sobbalzare il cuore di un terrore irrazionale, ed
era sempre con indescrivibile sollievo misto ad amarezza che sentiva
la voce di Kyle o di Ian o di Fury all'altro capo, invece del timbro
monotono di un ufficiale di polizia che ha già dato troppe
volte
brutte notizie a qualcuno.
Pepper era riuscita a riportare una
scintilla di vitalità in quel guscio vuoto che era diventata
Villa
Stark dopo l'incidente dei suoi. In quel clima non si stupiva di
pensare ai suoi genitori molto più spesso del solito. Aveva
avuto la
tentazione di aprire lo studiolo in cui aveva ammassato tutta la loro
roba – era troppo furioso con loro per esporla in bella
vista, ma
troppo addolorato per buttarla semplicemente via – ma infine
si
era
risolto nell'evitarlo categoricamente. Non era quello il momento;
non era mai il momento per pensare.
Odiava quelle ore
insonni in cui il suo cervello rimuginava e si arrovellava senza
sosta quasi a rinfacciargli quel rifiuto, arrivando a conclusioni che
lo inquietavano nel profondo
senza per questo arrivare mai a nulla di concreto.
Si rigirò
lentamente nel letto, stremato dall'insonnia, dal dolore spietato ai
moncherini e dal turbinio dei suoi stessi pensieri. Iniziava a sentire
la
palpebra farsi pesante e fu con sollievo che la chiuse, anche se il
sonno tardò ancora ad arrivare, interrotto continuamente da
ricordi
e immagini sfumate che si affacciavano nel suo dormiveglia come
invitati non richiesti.
Oltre una coltre onirica percepì infine l'inizio
di uno di quei suoi sogni vividi e allo stesso tempo surreali, popolati
di
androidi, specchi e cloni, che gli capitava di fare dal giorno
dell'incidente. Gli piacevano quei sogni. Gli davano la
rassicurante impressione che, in fondo, il suo inconscio sapesse
perfettamente ciò che doveva fare, e cercasse
così di guidarlo nel
percorso a modo suo.
Il suo volto si rilassò al pensiero e si
abbandonò finalmente al sonno.
***
30
Aprile, Helicarrier, 12:15
Perché
doveva essere così difficile?
Pepper sospirò, bevve ancora un
sorso del suo caffè decaffeinato e fece un respiro profondo.
Solo
allora tornò a fissare lo schermo del computer, sul quale
lampeggiava minaccioso un avviso che la informava freddamente di un
errore nel modulo appena compilato. Eppure aveva controllato
più
volte... e non voleva chiedere di nuovo l'aiuto dell'Agente Hill,
così si rassegnò a passare in rassegna per
l'ennesima volta i
documenti cartacei dello SHIELD. Si sentiva più seccata del
dovuto per quell'inconveniente; forse perché una parte di
lei, che
si premurava di tenere a bada, le ricordava che qualche tempo prima
sarebbe bastato chiedere a JARVIS per avere delle risposte –
e
probabilmente sarebbe stato lui a occuparsi dell'intera
faccenda.
Finalmente trovò l'errore – aveva osato mettere
uno
spazio in più del dovuto in una delle caselle – lo
corresse e
premette l'agognato tasto "invio". Stavolta il computer
non ebbe nulla da ridire. Si godette la sua vittoria per pochi
istanti, prima di tornare a fissare la colossale pila di documenti
ancora in attesa di fronte a lei.
Il fatto era che Fury aveva
finalmente deciso di digitalizzare gli archivi dello SHIELD. Una
decisione lodevole, se non per il fatto che ciò comportava
il
riesumare approssimativamente quarant'anni di documenti antecedenti
l'era informatica. Quindi i valorosi agenti dell'organizzazione
erano impegnati a ticchettare sulle tastiere da mattina a sera,
combattendo il terrorismo e i supercattivi nelle pause
pranzo. Persino Banner era stato inchiodato a una scrivania, e
Pepper temeva di vederlo trasformarsi in un colosso verde da un
momento all'altro. Hawkeye era stato abbastanza scaltro da farsi
inviare in missione in un villaggio sperduto della Sokovia, lontano
da ogni forma di telecomunicazione, Nataša era
più sfuggente del
solito, anche se cercava abbastanza spesso la sua compagnia, e i
tentativi di istruire Steve e Thor alle nuove tecnologie si erano
rivelati fallimentari. Ciò lasciava lei, Hill, Coulson,
Banner e
altri sfortunati di basso rango a sorbirsi quell'incarico ingrato.
Pepper
lo odiava particolarmente. Negli ultimi tempi aveva avuto un forte
rigetto per la tecnologia e il suo nuovo compito l'aveva incupita
molto. Avrebbe preferito tornare a occuparsi dell'agenda dello
SHIELD dal punto di vista organizzativo, cosa che non differiva poi
molto
da ciò che faceva prima, visto che sorprendentemente
ciò includeva
spesso la supervisione di svariate e sontuose feste per le alte cariche
politiche e militari. Per la sicurezza, certo, l'antiterrorismo,
ovvio, la sorveglianza generale dell'evento, naturalmente... ma era
davvero necessario ordinare personalmente casse di champagne e chili
di caviale? La risposta di Fury a questo interrogativo era stata
un'alzata di spalle molto, molto seccata e un
qualche
riferimento a potenziali avvelenamenti di massa. Pepper sapeva
che tra sé e sé avrebbe volentieri mandato al
diavolo gli alti
gradi che gli davano incombenze simili, ma tutto sommato lei non
aveva nulla di cui lamentarsi: era un lavoro con cui aveva confidenza
e vi si era destreggiata molto bene nell'ultimo mese.
E adesso,
questo. La stava innervosendo in modo
indescrivibile. Quella
mattina, poi, si era ritrovata tra le mani un dossier secretato
riguardante Obadiah Stane. Fino a pochi mesi prima, posta nella
stessa situazione, si sarebbe limitata a metterlo subito da parte
senza aprirlo, lasciando che fosse qualcun altro a occuparsene.
Stavolta invece aveva avuto una lunga esitazione, sormontata da una
traccia di indifferenza da una parte, e di curiosità
dall'altra. Avrebbe potuto aprire tranquillamente il file:
lavorava per lo SHIELD adesso, non aveva alcun obbligo nei confronti
del suo precedente datore di lavoro. Stava per seguire questo
ragionamento, quando si era resa conto che una parte di lei si
sentiva profondamente a disagio all'idea di leggerlo.
Stane era
stato un vecchio "amico" di famiglia degli Stark. Era
sicura che in quel fascicolo vi fossero informazioni sensibili anche
su di loro e leggerle a sua insaputa era
semplicemente
sbagliato. E poi Stane era il vero, unico responsabile di tutto
ciò che era successo in quei mesi e quella
consapevolezza la
scombussolava e riempiva di frustrazione solo a leggerne il nome
stampato sulla carta. Se non fosse stato per lui, lei non avrebbe
mai dovuto premere quel pulsante... a quel punto si era sentita di
nuovo sprofondare al pensiero di ciò che aveva causato.
Così
aveva poggiato senza una parola la cartellina sulla risma di Maria
Hill, prendendone in cambio una più voluminosa. L'altra
donna aveva
alzato la testa, squadrandola perplessa per un istante, poi aveva
adocchiato il dossier e un lampo di comprensione era balenato nei
suoi occhi. Di sfuggita, Pepper l'aveva vista mentre stava per
dire qualcosa, per poi tacere e tornare al suo lavoro.
"Meglio
così," aveva pensato: non era dell'umore per parlarne.
Il
fatto le era ritornato in mente per tutto il giorno e anche adesso la
pungolava fastidiosamente mentre cercava di concentrarsi
sull'ennesima cartella di documenti, costringendola a rileggere ogni
riga tre volte per essere sicura di non dimenticare nulla. Quando
il pensiero si faceva troppo invadente afferrava quasi con foga il
bicchiere di caffè, bevendone un gran sorso senza
però ricevere il
beneficio della caffeina. Sospirò, scocciata.
Doveva essere così
che si era sentito T...
Poggiò il bicchiere sulla scrivania con
tanta veemenza che quasi strabordò, ma a malapena
registrò
l'occhiata allarmata dell'Agente Hill. Mormorò una qualche
scusa
riguardo a un mal di testa e si alzò in fretta, dirigendosi
verso il
bagno a passi veloci. Fu con sollievo che chiuse la porta dietro di
sé, attutendo il suono di decine di mani che ticchettavano
sulle
tastiere. Entrò in un cubicolo e si chiuse dentro, tentando
di
calmarsi.
Per la prima volta in tutto quel tempo aveva permesso
che qualcosa rompesse il suo equilibrio; e non stava facendo nulla
per recuperarlo, anzi, si stava lasciando sbilanciare quasi con
sollievo. Si era già resa conto della sua ipocrisia nel
voler
evitare di affrontare i problemi: lei, convinta sostenitrice di come
ciò fosse indispensabile. Non era esatto dire che li
ignorasse;
piuttosto li osservava da lontano chiedendosi se sarebbero mai
riusciti a raggiungerla. E, nel dubbio, continuava a indietreggiare
senza perderli di vista, non riuscendo però a metterli a
fuoco del
tutto.
Rimase nel bagno a lungo, ancora riluttante a soffermarsi
sulla questione. Cercava di aggirarla e non concretizzarla in
forme e parole reali, temendo quel che poteva accadere. Quanto
poteva resistere ancora quella sua parvenza di equilibrio? Si era
convinta di stare bene, stava bene: lavorava, era
impegnata da
mattina a sera e quando si ritirava nella sua stanzetta
sull'Helicarrier riusciva a leggere appena un paio di pagine di un
romanzo prima che il sonno avesse la meglio. Non si lasciava tempo
per pensare.
Aveva anche delegato il suo ruolo di amministratore
delegato delle Stark Industries ai burocrati dello SHIELD. Questi
l'avevano consultata solo un paio di volte per delle delucidazioni
che aveva fornito in modo assolutamente professionale e distaccato.
D'altronde non si poteva certo lasciare allo sbando la più
grande
industria tecnologica al mondo.
Certo, nei primi tempi aveva sofferto un
po' di solitudine. Per natura tendeva ad essere abbastanza schiva
con tutti, ma era in ottimi rapporti con Phil e iniziava anche ad
avvicinarsi all'Agente Hill, sebbene le incutesse un po' di
soggezione. Passava le pause pranzo in loro compagnia e di tanto in
tanto riusciva a intercettare Phil per una tazza di tè tra
una
mansione e l'altra. Per il resto non era ancora scesa
dall'Helicarrier da quando vi era salita un mese prima e, nonostante
iniziasse a sentire la mancanza di terra solida sotto ai piedi e si
tenesse ben lontana dalle vetrate per non fomentare le sue vertigini,
non trovava nulla di serio di cui lamentarsi.
Allora perché era
bastato un fascicolo su Stane per causarle una crisi simile? Iniziava
a dubitare che il suo equilibrio fosse mai stato così solido
come
pensava.
Diede un'occhiata all'orologio, decidendo di concedersi
qualche altro minuto prima di tornare a lavorare. Fu in quel
momento che notò la data odierna, nella minuscola casellina
bianca
sul quadrante. Di colpo le fu chiaro il perché del suo
nervosismo e
si chiese come avesse fatto a ignorarlo fino ad allora.
«Potts!
Tutto bene?» da dietro la porta le arrivò ovattata
una voce, che
riconobbe come quella squillante dell'Agente Hill; bastò a
interrompere il flusso dei suoi pensieri e gliene fu grata.
Fece
un breve respiro profondo, rilassando il viso. Si sistemò la
frangetta un po' scomposta e impose un timbro morbido alla propria
voce:
«Ho un po' di nausea, devo aver bevuto troppo
caffè,»
rispose, sbloccando la porta e facendo capolino per rassicurare la
collega.
Maria era appoggiata al piano dei lavandini e sembrava
sentirsi abbastanza fuori posto. Soprattutto, sembrava non sapere
dove mettere le mani, se lungo i fianchi o davanti a sé o se
poggiarle sul piano d'acciaio. Infine si risolse a incrociare le
braccia.
«Ah, bene. Cioè, mi dispiace, ma almeno non
è nulla di
serio.»
Era chiaro che non fosse convinta, ma non
insistette. L'Agente Hill era tanto competente e decisa sul campo
quanto impacciata nelle relazioni sociali, e il fatto che fosse venuta
a cercarla
fin lì confermava quanto ritenesse fondata la sua
preoccupazione. Pepper si decise a uscire dal cubicolo,
avvicinandosi a un lavello per rinfrescarsi il viso.
«Magari vuoi
staccare prima?» la incalzò Maria, un po'
bruscamente.
«Sarebbe
un problema?» replicò l'altra, troppo in fretta, e
tacque subito
nel rendersene conto.
Anche l'altra esitò, e Pepper fu conscia di aver commesso un
passo falso. Normalmente era
estremamente riluttante a sottrarsi al suo lavoro e si sarebbe fatta
pregare come minimo una decina di volte prima di accettare
l'offerta.
«Certo che no. Si tratta solo di un paio d'ore in
meno,» minimizzò comunque l'altra, scrutandola con
perplessità.
Pepper non
aggiunse altro e le rivolse un sorriso un po' tirato mentre si
asciugava; Maria ricambiò con un cenno del capo prima di
avviarsi
verso la porta. Si bloccò sulla soglia, come colta da un
pensiero improvviso.
«Sicura di star bene?»
Il sorriso di
Pepper s'incrinò un poco.
«Ho solo bisogno di una pausa. Grazie,
non preoccuparti.»
Finalmente l'agente uscì, lasciandola sola e
permettendole di ricadere in un'espressione cupa che si riflesse
nello specchio. Osservò le occhiaie sotto ai propri occhi,
che non
avevano nulla a che vedere con l'insonnia. Non era così
sicura di
stare bene.
Indugiò ancora un po' nel bagno, prima di uscire e
dirigersi verso l'ufficio di Phil.
***
30
Aprile, Tribunale di L.A., 12:30
Tony
uscì dall'aula del tribunale con malcelato sollievo, per poi
abbandonarsi su una delle poltroncine nel corridoio, con le stampelle
posate sulle ginocchia a mo' di bastoni da passeggio.
Ian gli si
affiancò in piedi, e si allentò il nodo della
cravatta e il primo
bottone della camicia con un gesto insofferente. Sembrava sentirsi
fuori posto senza camice addosso e si era agitato nel suo discutibile
completo di
tweed per tutta la durata del processo, chiedendosi come Tony potesse
essere più disinvolto di lui in abito formale avendo due
arti in
meno. A quel proposito, sia Kyle che Ian avevano notato che il
loro assistito aveva scelto una tenuta decisamente meno vistosa del
solito, presentandosi in un sobrissimo completo grigio e cravatta
nera in luogo delle sue amate giacche e cravatte appariscenti. In
questo modo il suo aspetto sembrava meno costruito e più
spontaneo,
a partire dai capelli lasciati leggermente più lunghi, ma
ordinati e
senza brillantina.
Soprattutto, aveva deciso di non indossare la
benda sull'occhio. L'aveva già rimossa da qualche giorno su
consiglio di Ian per aiutare la guarigione della ferita, ma il medico
non si sarebbe mai aspettato che Tony fosse già pronto a
mostrarsi
così in pubblico, né tantomento che fosse in
grado di mantenere il
suo aplomb nel subirne la reazione. Aveva
affrontato la cosa
con totale indifferenza, nonostante il brusio pettegolo che aveva
accolto il suo ingresso in aula. Se l'era però rimessa non
appena uscito dall'aula con un gesto quasi frenetico, chiaro segno che
non fosse poi così a suo agio come voleva far credere. In
generale aveva comunque tenuto un
atteggiamento decisamente più composto e stavolta sembrava
aver
preso il processo quasi sul serio e non come un'occasione per
pavoneggiarsi. Erano addirittura riusciti ad arrivare in
anticipo, nonostante fosse evidente che aveva dormito molto meno del
dovuto.
Ian notò il modo in cui Tony si stringeva la gamba, che
doveva aver risentito degli spostamenti forzati e aveva preso a
dolergli nonostante gli analgesici. Gli scoccò un'occhiata
significativa e pungente, ma si astenne da commenti. Tony
sfuggì il suo
sguardo, ma intuiva a cosa fosse rivolto il rimprovero inespresso del
medico. E adesso ammetteva che sarebbe stato meglio usare la sedia a
rotelle come aveva suggerito lui, invece di usare le stampelle.
Fortunatamente aveva dovuto
zoppicare solo dal banco della difesa a quello dei testimoni ed era
anche riuscito a non inciampare in diretta nazionale.
Considerata
la sua docilità nel rinunciare alle vere protesi durante il
processo, sia Ian che Kyle avevano deciso di soprassedere sulla sua
repulsione per la sedia a rotelle; dopotutto, tanto peggio per
lui. Tony si sentiva dolorante e anche un po' stupido per quella
presa di posizione, ma era sollevato per essersi risparmiato le
battutine pungenti di Knight sulla "accoppiata perfetta" e
per averle risparmiate forse anche a Kyle.
Quest'ultimo uscì
finalmente dall'aula facendo lo slalom tra la fiumana che affollava
il corridoio e che, notò Tony con fastidio, non si
preoccupava più
di tanto di agevolare il suo passaggio. Infine li raggiunse,
mascherando la sua palese irritazione con una piccola sgommata della
sedia a rotelle. Era stranamente su di giri per aver passato le
ultime tre ore a parlare ininterrottamente, e i suoi occhi verdi
erano illuminati da una luce vivace.
«Allora? Come sono andato?»
esordì Tony prima che l'avvocato potesse aprire bocca.
Kyle ci
pensò su un momento. Ian si cacciò le mani nelle
tasche della
giacca e sembrò ruminare una risposta caustica.
«Otto per
l'esposizione, sette per i contenuti e sei in condott,.»
concluse
infine Kyle, lasciando trasparire un lieve disappunto.
Il processo
era filato relativamente liscio, senza particolari momenti di
epicità
– niente rivelazioni teatrali, foto scabrose o mani che
cadono. La
deposizione di Ian non aveva portato alla luce nulla di rilevante per
Knight. e l'accusa si era dimostrata stranamente a corto di prove,
aveva avuto modo di constatare Kyle. Sospettava che lo SHIELD
c'entrasse qualcosa. Evidentemente i superiori di Stark avevano molto
interesse a proteggere i loro beniamini, anche quelli più
turbolenti.
Il
processo si era concluso con un battibecco tra Stark e Hammer sulla
tecnologia arc e sui suoi rischi, condita dalle battutine snervanti
di Knight e dalla sua apparente ossessione per Howard Stark e i
progetti originari del reattore. Doveva ammettere che in quel
frangente Tony aveva mantenuto un notevole sangue freddo, riuscendo a
non mandare a quel paese il procuratore. Non subito, almeno.
Tony
si agitò sulla sedia, sentendosi esaminato dallo sguardo di
Kyle.
«Mi sembrava di aver mantenuto un comportamento
ineccepibile.»
Stavolta Ian si schiarì la gola in modo
eloquente.
«Ha detto che Hammer avrebbe potuto effettuare perizie
tecniche solo sul suo cesso, Stark.»
«Quella è la pura verità,»
lo rimbeccò serafico Tony, celando un sorrisetto compiaciuto.
«Anche la
digressione di venti minuti sulla "meravigliosa cromatura della
Mark III" era po' fuori luogo,» aggiunse Kyle.
«È stato un
espediente per prendere tempo...» ammise controvoglia Tony,
in un
mugugno.
Stava giocherellando sovrappensiero con la mano in
vetroresina inerte della protesi, sorbendosi la paternale senza
però
risentirsene troppo. Aveva cercato di moderare parole e comportamenti
riuscendoci anche abbastanza bene, visti i suoi standard, ma la combo
"Knight-Hammer" avrebbe fatto uscire dai gangheri un
santo.
«E poteva risparmiarsi le frecciatine a Knight,»
aggiunse
per l'appunto Ian. «O evitare almeno di farne una ventina a
interrogatorio.»
Qui Tony si fece improvvisamente serio.
«Lui
poteva risparmiarsi quelle su moncherini e sedie a rotelle. E su mio
padre.»
Ignorò il medico che alzava gli occhi al cielo,
evidentemente a corto di commenti per due adulti che bisticciavano
come ragazzini delle elementari. Tacque per un istante prima di
riprendere con più veemenza, rivolgendosi stavolta al suo
avvocato:
«Senti, K, io non sono un tipo violento...»
Ian e
Kyle
si scambiarono un'occhiata di sottecchi, probabilmente sforzandosi di
non sbottargli a ridere in faccia.
«... va bene, non lo sonospesso,»
si
corresse con un secco sospiro. «E non so che problemi ci
siano fra te e Knight. Ma
giuro
che se finita questa storia lo incrocio per strada gli spacco la
faccia. Con questa,» aggiunse, alzando
rigidamente la protesi
provvisoria e ben poco minacciosa.
Ma una volta completata quella
vera, ricevere un pugno con quella o con l'armatura di Iron Man
avrebbe fatto ben poca differenza. Forse non avevano tutti i torti
a volergliele sequestrare...
Ian sospirò, ma Kyle si lasciò
sfuggire un sorrisetto.
«Quando mi avrai rimesso in piedi, Stark,
mi toglierò quella soddisfazione di persona.»
«Io farò finta
di non aver mai sentito nulla,» borbottò subito
Ian, ma dalla sua
faccia si capiva che trovandosi di fronte a Knight reduce da un
pestaggio avrebbe probabilmente messo da parte il suo giuramento di
Ippocrate per curarlo nel modo più rude e sbrigativo
possibile.
Tony
si limitò a strizzare l'occhiolino a Kyle. Non si era
dimenticato
della promessa ed era contento di vedere come l'avvocato continusse
ad avere fiducia in lui, nonostante tutto. Nel periodo di
convalescenza aveva evitato di menzionare il suo "pagamento",
forse intuendo che mettergli pressione non era il modo migliore per
farlo mettere all'opera, soprattutto in un frangente così
critico. Aveva dimostrato una dose di tatto e pazienza
inaspettata.
«Comunque, in attesa di quel giorno...» Kyle
sollevò trionfante il foglio dall'aria ufficiale che teneva
in mano
da quando era uscito dall'aula, «... possiamo prenderci una
piccola
rivincita.»
Tony prese il documento, mentre Ian lo scrutava da
sopra la sua spalla. Entrambi si illuminarono leggendo le prime
righe.
«Knight si è preso un'ammonizione?»
enunciò incredulo
Tony, continuando a scorrere il foglio senza nascondere il suo
entusiasmo.
«Strano che non sia per lei, eh?»
commentò Ian, ma
anche lui sfoderò un sogghigno soddisfatto.
«Ho fatto notare al
giudice che i suoi modi poco garbati di interrogare un testimone ed
imputato in chiaro stato di disagio psico-fisico ed emotivo potevano
avere risultati deleteri e falsare la deposizione,»
sciorinò Kyle
con serenità.
«Per una volta sono contento di essere considerato
uno squilibrato,» borbottò Tony, restituendogli il
foglio. «Quindi è
stata una vittoria,» concluse, stiracchiandosi per poi
pentirsene
immediatamente nel sentir scrocchiare la giuntura metallica della
spalla.
Represse la smorfia di dolore e continuò, ancora pimpante:
«Un'altra
udienza tra un mese, potrò legalmente usare le protesi in
casa mia e
forse troviamo un cavillo per farmele usare fuori, le foto presentate
all'ultimo processo sono state ufficialmente dichiarate invalide, e
abbiamo tutto il tempo per prepararci alla questione di Iron
Man...»
cominciò a elencare, contando sulle dita sane,
«...
Knight è
ammonito, e vista la situazione Hammer non farà perizie
almeno per un
altro po'. Ho dimenticato qualcosa? A parte lo champagne.»
«È
andata sicuramente meglio delle altre volte,»
concordò Kyle,
evitando di aggiungere che non era un gran risultato migliorare
rispetto ai precedenti processi, visto che difficilmente si poteva
fare di peggio.
Era riluttante a smorzare la rediviva positività
di Tony, ma d'altra parte non voleva neanche che si adagiasse troppo
sugli allori. Doveva però dire che apprezzava molto il fatto
che si
fosse sforzato di comportarsi in modo consono a un'aula di tribunale,
nonostante avesse avuto qualche caduta di stile.
«Per la prossima
udienza dovremo prepararci meglio,» lo avvisò.
«Sai dove potrebbero
andare a parare.»
Tony si accigliò e il suo sguardo si fece
attento, quasi guardingo, come se si sentisse improvvisamente
accerchiato.
«L'incidente,» precisò Kyle intuendo un
fraintendimento, e Tony si rilassò, allentando la stretta
sulle
stampelle.
Le sue nocche ripresero un colorito roseo, ma
l'espressione rimase circospetta. Si sfiorò inconsciamente
la benda sull'occhio e sobbalzò
al
contatto un po' troppo brusco, trattenendo un singulto.
«Sì, certo. L'incidente,»
ripeté, come se la cosa fosse ovvia.
"Non l'Afghanistan, non
Pepper, non mio padre. Va tutto bene," si rassicurò
mentalmente.
«Finora ti hanno lasciato stare, vista la situazione
e il focus sulle protesi, ma non potrai fare scena muta per sempre.
Knight preferirebbe farti condannare per l'uso improprio
dell'armatura per avere il suo momento di gloria e implicare
nell'affare anche le intere Stark Industries e la loro trascorsa
manifattura bellica, ma se non troverà appigli si potrebbe
accontentare di una semplice condanna per omicidio
volontario.»
«Non
sto facendo "scena muta",» ribatté gelidamente
Tony. «Sono
mesi che
provo a ricordare, ma il massimo che ottengo sono delle
immagini sconnesse. E non posso beccarmi un'altra accusa di falsa
testimonianza.»
«Non sto dicendo che sia colpa tua, ma dobbiamo
trovare una soluzione o almeno elaborare un piano B.»
«L'unica
altra testimone è Pepper,» disse Tony, a voce
più bassa. «Mi ha
detto che è stata lei a sovraccaricare il reattore arc,
anche se a
quanto dice gliel'ho chiesto io, ma non ho idea di cosa sia successo
dopo. E non ho intenzione di farla testimoniare ancora,»
riprese
subito con fermezza, alzando una mano e anticipando Ian, che stava
per aggiungere qualcosa. «Abbiamo la chiave USB con le prove
che
incastrano Stane. Se veramente mi troverò messo
all'angolo...»
deglutì, sforzandosi di continuare con tono leggero,
«... porterò
la discussione sulla mia vacanza in Afghanistan. Terrò
impegnati
quegli avvoltoi, non vedono l'ora di sentirmene parlare. Ci
farà
guadagnare tempo. E dipingerò Stane come il bastardo che
era.»
Prese fiato, di nuovo oppresso dai pensieri di quella notte.
«Nel
frattempo, sì, cercherò di ricordare, anche se mi
ci vorrebbero
delle sedute spiritiche. Ma se non dovessi riuscirci, sono disposto a
dire che l'ho ucciso io, piuttosto che coinvolgere di nuovo Pepper.
Non è neanche così sbagliato accusarmi del suo
omicidio e
tecnicamente non
mi dispiace che sia morto,» aggiunse con leggerezza.
Ian e Kyle
non seppero replicare e calò un silenzio teso.
«Beh, ci
penseremo al momento, genio. Credo che per ora il problema
più
tangibile sia quello di Iron Man. Finché non ricorderai
qualcosa,
anche la corte preferirà concentrarsi su quello,»
alzò le spalle
Kyle, chiudendola lì mentre estraeva il cellulare dal
taschino. «Ora
perdonatemi, ma devo iniziare a fare qualche telefonata preparatoria.
Un mese passa in fretta!» concluse, sospingendosi verso
l'uscita con
rinnovata vitalità.
Tony lo guardò allontanarsi, adesso
incupito. Ian percepì la sua tensione, ma non era mai stato
bravo
con le parole e si limitò a passarsi una mano sulla nuca con
fare
imbarazzato, in cerca di un modo per stemperare l'atmosfera.
Nel
frattempo il corridoio si era svuotato. Di tanto in tanto li
superavano giudici e procuratori in toga, diretti frettolosamente
verso le rispettive udienze. Qualcuno diede segno di aver
riconosciuto Tony, ma nessuno li importunò, troppo presi
dalle loro
faccende. Tony stava aspettando che il fastidio alla gamba cessasse per
potersi alzare e uscire il prima possibile da quel posto che odorava
fastidiosamente di cera per pavimenti e polvere.
«Ho parlato con quel collega di
cui le dicevo l'altro giorno,» esordì infine Ian,
cauto.
L'attenzione di Tony si risvegliò all'istante e gli fece
cenno di continuare.
«In realtà l'avevo chiamato per altri
motivi, ma la discussione è arrivata a lei, così
ne ho approfittato
per chiedere un parere medico. Anche lui
è un neurochirurgo.
È diventato molto più bravo di me, anche se
teoricamente
è stato un mio allievo.»
«Di sicuro non ha impiantato delle
protesi biomeccaniche sperimentali alimentate da reattori arc, ma le
credo sulla parola,» ribatté Tony.
Ian esitò, preso in
contropiede da quel complimento indiretto; sembrò voler dire
qualcosa ma poi scosse la testa.
«È una persona molto
riservata,» premise, come a giustificarsi. «Ma
forse
potreste
venirvi incontro coi vostri... problemi,» concluse spiccio.
Tony lo fissò
confuso.
«Doc, quale sarebbe questo "parere medico"?»
Ian
sospirò con rinnovata reticenza.
«Sa perfettamente che io non ho alcuna
intenzione di operarla per un possibile intervento
all'occhio,» si
decise a confessare, e Tony rimase stolidamente a bocca
aperta. «Forse
lui sarebbe disposto a farlo. Ma ora
non può. È
complicato e...»
cominciò subito a frenarlo, come preoccupato di essersi
sbilanciato
troppo e temendo la reazione del suo paziente.
«Doc,» lo
interruppe Tony, pacatamente. «Ho due protesi incomplete, un
corpo
che è praticamente da buttare tra atrofia e palladio e
un'armatura
da rimettere in sesto. Per una volta direi che posso anche aspettare
qualche tempo prima di riprendere a pensare a progetti
futuristici.»
Ian
rimase di sasso di fronte a quell'inaspettata dimostrazione di
razionalità. O era rassegnazione? Si sarebbe piuttosto
aspettato
un interrogatorio serrato e implacabile per estorcergli quante
più
informazioni possibili.
«Ma se posso farò qualcosa per quel suo
collega,» riprese Tony, con un accenno di sorriso.
«A questo punto
potrei prenderlo come uno svago dal lavoro sulle protesi.»
Ian
non rispose, ma annuì e lo aiutò a rialzarsi per
raggiungere Kyle e Happy e
tornare a Villa Stark.
«Ah, a proposito di novità...» riprese
Ian, strada facendo.
«Cos'è, la giornata delle belle
notizie?»
ridacchiò Tony, di nuovo incuriosito.
«Forse le ho trovato anche
una fisioterapista.»
«Una?»
Tony rallentò
il passo per
squadrare guardingo il medico.
«Sì. E non le piacerà.»
***
30
Aprile, Helicarrier, 12:50
Forse
era stata una decisione avventata.
Pepper indugiava di fronte
all'ufficio di Coulson, tormentandosi le mani senza avere il coraggio
di bussare. Probabilmente stava lavorando. Sarebbe stato scortese
interromperlo... per poi, cosa? Non sapeva esattamente cosa volesse
dirgli, né come lui potesse risolvere il suo problema, se
davvero ne
aveva uno. Rimase ferma, fissando il cartellino "P. Coulson"
fissato alla porta all'altezza dei suoi occhi. Accanto era
appiccicato un adesivo di Capitan America un po' sbiadito.
Pepper
sospirò, costringendo le proprie mani a smettere di tremare.
Bussò
lievemente, sperando in cuor suo di non ricevere risposta.
In
effetti, non arrivò.
Invece di tornarsene sui suoi passi come
voleva disperatamente fare, bussò con più
decisione.
«Avanti,»
arrivò da dietro la porta, a voce un po' alta.
Ormai era troppo
tardi per tirarsi indietro. Entrò risoluta, mettendosi allo
scoperto.
Coulson era seduto dietro alla scrivania con delle ampie
cuffie in testa, completamente abbandonato sullo schienale mentre
fissava svogliatamente il computer. Prendeva appunti su un tablet in
modo abbastanza disordinato e a portata di mano aveva una tazza di
tè
fumante con il logo dei Vendicatori. La sua giacca era scivolata per
terra e un plico di documenti occupava l'unica sedia libera di fronte a
lui. Alzò
lo sguardo all'ingresso di Pepper e si affrettò a liberarsi
delle
cuffie e a mettere in pausa il video in riproduzione, rivolgendole un
sorriso cordiale.
«Pepper, che sorpresa!» esordì,
rendendosi
poi conto del disordine che regnava nell'ufficio e affrettandosi a
liberarle la sedia e a raccogliere la giacca. «Ti offro un
tè? Ce
n'è ancora!» le propose allegro, accennando al
thermos poggiato
accanto alla tazza.
«No, non disturbarti, sono solo di
passaggio,» mentì lei, messa in imbarazzo
dall'agitazione del
collega, ma si sedette volentieri di fronte a lui.
Coulson era
solitamente impeccabile e compassato ed era raro vederlo scomposto o
in momenti di relax – o di grande noia, come era evidente
dalla
rapidità con cui aveva messo da parte il suo lavoro per
accoglierla. Nonostante il suo rifiuto le riempì una tazza
di
tè,
questa con lo scudo di Capitan America – Pepper si ritenne
onorata.
Adocchiò un'altra tazza delle Stark Industries in cima a un
portadocumenti, ma decise di ignorarla fermamente.
«Tutto bene?» ruppe il
silenzio Pepper, bevendo subito un sorso di tè per
nascondere la sua
espressione poco stabile.
Si rendeva conto di essere tesa, ma non
voleva che Coulson lo notasse, anche se l'aveva probabilmente
già fatto. Questi sospirò, mostrandole le
cuffie.
«La digitalizzazione degli archivi comprende anche la
revisione dei file audiovisivi...» si limitò a
dire in tono
eloquente. «Centinaia di ore di nastri registrati in pessima
qualità.
Un toccasana per le orecchie.»
Pepper annuì in modo comprensivo:
quell'improvvisa decisione di Fury stava mettendo a dura prova i loro
nervi e tutti non vedevano l'ora di tornare alle loro solite
mansioni. Phil era particolarmente frustrato dal suo stato di
"prigionia", come le aveva confessato di recente, ed era
spesso di malumore, soprattutto perché non vedeva Audrey da
dieci
giorni. A guardarlo bene, anche lui iniziava a dare cenni di
stanchezza.
L'occhio le cadde involontariamente la custodia del
nastro in riproduzione. L'etichetta recitava "H. Stark.,
Project: Rebirth, 1943". Si accigliò: forse quel
giorno
il caso voleva dirle qualcosa...
«Noi siamo a buon punto. Credo,»
cercò di rassicurarlo un po' debolmente, anche per
mascherare il suo
turbamento.
Phil alzò le spalle con noncuranza.
«Se questi
sono i nostri problemi più urgenti, tanto meglio,»
commentò, con
poca convinzione e un po' di ipocrisia.
Si vedeva che scalpitava
per tornare a lavorare sul campo e che avrebbe preferito un'invasione
aliena al lavoro d'ufficio. Ci fu un lungo momento di silenzio, in
cui Pepper sorseggiò il suo tè, chiedendosi come
le fosse venuto in
mente di presentarsi lì. Phil diede un'occhiata distratta al
suo telefono e una lieve sorpresa gli attraversò il volto.
«Sei in
pausa?»
Di sicuro aveva realizzato che, teoricamente, quello era
il suo orario di lavoro.
«Ho staccato prima e ho pensato di
passare a salutarti,» rispose lei con disinvoltura.
«Non mi sentivo
molto bene,» aggiunse cautamente.
«Sono stati giorni pesanti.
Forse dovresti prenderti delle ferie,» le
consigliò, con apparente
leggerezza, ma lei notò che la stava fissando in modo quasi
inquisitorio. «Fuori dall'Helicarrier, intendo.»
Pepper si
rabbuiò, ma finse di pensarci su qualche istante,
trattenendo la
risposta impulsiva che le era balenata in mente, ovvero "neanche per
sogno".
«Vorrei prima concludere questo lavoro...»
Phil fece
un profondo sospiro, scoccando uno sguardo astioso al computer e alle
cuffie abbandonate sulla scrivania che le strappò un
sorrisino
forzato.
«Già, prima il dovere,» si decise a
concludere, in
tono definitivo, e Pepper capì con una punta di smarrimento
che la
sua visita si era già conclusa.
Fissò la sua tazza quasi vuota. Si
stava sentendo un'idiota, ma si alzò comunque con
naturalezza. Non
riuscì però ad evitare di soffermarsi qualche
istante di troppo
nell'ufficio, maledicendosi per la propria indecisione.
Infine si
risolse ad aprire la porta, ma la voce di Phil la bloccò
sulla
soglia:
«Il processo è finito poco fa,» disse
laconico.
Lei
si girò repentinamente, colta in fallo, e sentì
accentuarsi una
stretta al petto che non si era accorta di provare. Sarebbe
stato
inutile fingere disinteresse adesso, così optò
per il
tacere.
Phil era
imperscrutabile come sempre, ma non le sembrava ostile.
Interpretò
il suo silenzio come un invito a continuare – e, in fondo, lo
era.
«Mi ha chiamato Kyle. Non sono arrivati a un verdetto, ma
sembrava ottimista per la prossima udienza e ha detto che quella di
oggi è stata perlopiù positiva.»
Pepper abbassò lo sguardo,
non sapendo come prendere la notizia. Sicuramente non se
l'aspettava. Aveva pensato che il processo si sarebbe concluso quel
giorno nel peggiore dei modi, considerando... l'instabilità
dell'imputato.
Si mordicchiò nervosamente le labbra.
«Quando
sarà la prossima?» chiese infine.
«Tra circa un mese. Credo che
Kyle ti informerà non appena verrà decisa una
data.»
Phil sembrava
intento a scrutare le sue reazioni e Pepper era altrettanto decisa a
non mostrarne.
«Bene.»
Non sapeva cos'altro aggiungere, anche se
avrebbe voluto chiedere di più. Aveva saputo in modo
più o meno
indiretto della situazione più stabile di Tony, ma non aveva
idea di
cosa significasse quel "più stabile" e il fatto che quel
dettaglio la interessasse la faceva adirare con se stessa. Non
meritava la sua attenzione, non dopo ciò che quell'ingrato
aveva
osato fare e farle.
Phil si dondolava inquieto sulla sedia girevole, con
le cuffie al collo, come ponderando il da farsi. Infine si
appoggiò coi gomiti sulla scrivania, sporgendosi verso
Pepper e
cercando di incrociarne lo sguardo basso.
«Pepper, anch'io sono
ancora arrabbiato. Non riesco a immaginare quanto tu lo sia, ma
continuare così non ti farà stare
meglio.»
A quel punto Pepper
rialzò di scatto gli occhi di un azzurro penetrante.
«Cosa
vorresti dire? Che dovrei tornare sui miei passi e perdonare tutto
come se nulla fosse?» sbottò, e non
riuscì a controllare il
tremore nella sua
voce.
«Al contrario,» ribatté lui, secco.
Pepper sentì una
punta di consapevolezza farsi strada nella sua mente. Phil
sembrò
rendersi conto di essersi esposto troppo e ammutolì
nuovamente. Si
stropicciò gli occhi, per poi tornare a poggiarsi contro lo
schienale. Incrociò le braccia a disagio.
«Non sono affari
miei,» ammise, parando le mani avanti. «Ma penso
che dovresti decidere
chiaramente se ti
importa o meno di lui, e convivere con la tua decisione.»
Pepper si trovò ad abbassare di nuovo gli occhi,
trovando conferma dei propri pensieri. Nel momento in cui aveva
lasciato Villa Stark, aveva deciso che, no, non le importava
più.
Era diventato troppo doloroso per importarle. Ma i suoi pensieri
si soffermavano sempre lì, su di lui, anche quando non ne
era
pienamente
consapevole. Sapeva che, nel profondo, oltre il velo di rabbia e
delusione che la tratteneva, forse le importava ancora. Non era davvero
riuscita a prendere una decisione, si era solo imposta di ignorare il
problema, e ciò le richiedeva uno sforzo tale che
paradossalmente le
impediva di ignorarlo davvero. Ed era consapevole di essere scappata,
senza davvero mettere la parola fine a nulla, se mai c'era stato un
inizio.
Phil aveva ragione: rimanere in un
limbo che la faceva palesemente soffrire non l'avrebbe
aiutata. Doveva uscire da quell'impasse, se lo ripeteva da
settimane; settimane passate a crogiolarsi nell'indecisione, incapace
di scacciare il senso di colpa che le impediva di ignorare veramente
tutto ciò che le dava pensiero. Incapace di ammettere che,
sì, le importava di Tony, ed era per questo che era ancora
così profondamente arrabbiata con lui; era per questo che
non riusciva ad andare avanti, ma nemmeno a tornare indietro. Non ora,
almeno.
Pepper si arrischiò a rialzare
gli occhi su Coulson, che si stava rimettendo le cuffie come se
niente fosse accaduto, probabilmente per lasciarle i suoi spazi dopo
averli invasi così indiscretamente. Gli rivolse un sottile
sorriso di gratitudine, che lui ricambiò appena, poi
uscì chiudendo
piano la porta dietro di sé. Non era stata esattamente la
chiacchierata che aveva prospettato.
Si decise ad avviarsi verso
la mensa per la pausa pranzo, per una volta sovrappensiero, quando il
suo cellulare vibrò nella tasca della giacca riportando
un'ombra sul
suo volto.
Era Kyle.
Soppesò il telefono per qualche istante
per poi rimetterlo in tasca, lasciandolo squillare a
vuoto. Sentì la
tensione sul suo viso sciogliersi come cera al sole.
Aveva ancora
bisogno di tempo.
Forse, si rese conto all'improvviso, ne avevano
bisogno entrambi.
_______________________________________________________________________________________________________________________
Note dell'Autrice:
Massalve, popolo di EFP *balla di fieno*
Dopo troppo tempo torno ad aggiornare questa storia, che era destinata a non trovare una fine sino a due mesi fa. Adesso, invece, annuncio ufficialmente (a chi nun se sa) che Phoenix ha imboccato la strada della conclusione; dopo 6 anni era pure ora... ci è voluto un po', ma c'è una mezza dozzina di capitoli pronti (!) e un prossimo aggiornamento è previsto per il 18 Marzo, anniversario della storia.
In realtà avevo intenzione di tornare proprio il 18, ma diciamo che questo capitolo è un regalo.
Yes, cara _Atlas_, dico proprio a te, che hai predetto un aggiornamento di Phoenix per il 6 marzo... e visto tutto il supporto che mi hai fornito in questo periodo, il minimo che potessi fare era far avverare la tua profezia ;)
Grazie di tutto, davvero, se non fosse stato per te non avrei mai ripreso in mano la storia né la scrittura <3
Tornare su questi schermi (?) dopo così tanto tempo è un'emozione e un'ansia allo stesso tempo, ma spero che qualcuno apprezzerà tutti gli sforzi che sono stati versati in questa storia da me e in precedenza anche da MoonRay (spero che prima o poi passerai di qui anche tu <3)
Come avrete notato questo è un altro capitolo di stallo, anche se mi sono decisa a introdurre nuovamente Pepper, sebbene a distanza. Nulla di nuovo, insomma, a parte un Tony più stabile del solito e un paio di indizi qua e là sulla trama.
Diciamo che il tono di questi capitoli sarà in linea con il titolo di questa seconda parte, Ashes, anche se la situazione si fa più movimentata già dal prossimo.
Chiudo il papiro ringraziando di nuovo infinitamente _Atlas_, che si è impegnata a recensire tutti i capitoli corretti, e Alexandre94 che ha recensito lo scorso capitolo :)
-Light-
P.S. Per chi fosse un vecchio lettore (dubito fortemente) e abbia coraggio da vendere, consiglio di rileggere almeno parte dei capitoli precedenti, in quanto sono stati revisionati in toto con correzioni, aggiunte e modifiche a volte sostanziali. Sssì, Phoenix era invecchiata maluccio e c'era qualche buco di trama, ora corretto.
© Marvel
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Capitolo 33 *** It can only get better ***
32
It
can only get better
"Can
you tell me a story
without any words
Then mold me misshapen from the soaking
dirt
Keep feeding me courage that I don't deserve
So I don't
feel broken like I have no worth"
[I'll
Survive – Seether]
2
Maggio, Villa Stark
Tony Stark era abituato
ad avere belle donne in casa e difficilmente si
trovava in imbarazzo col gentil sesso. Dopotutto, aveva passato una
vita ad affinare il suo charme
da Casanova, e in quel
momento avrebbe anche avuto un discreto bisogno di una compagnia
femminile, anche se preferibilmente non alle sette e mezzo di
mattina. Ma quando si affacciò intontito dal sonno in
salotto e si
ritrovò Nataša Romanov seduta tranquillamente sul
divano, senza che
neanche JARVIS avesse ritenuto necessario notificare la sua presenza,
il suo livello di sconcerto e disagio schizzò
improvvisamente alle
stelle. Certo, era abituato ad avere donne in casa... ma all'epoca
non aveva due arti meccanici e un occhio in meno che attiravano
l'attenzione nei punti sbagliati. Ed era meglio dimenticare la sua
ultima esperienza in merito.
«Immagino che tu sia la
"fisioterapista",» esordì quindi a mo' di saluto,
terminando la
frase in uno sbadiglio e fermandosi sulla soglia della sua camera per
riposare la gamba formicolante.
«Buongiorno anche a te, Stark,»
replicò lei senza scomporsi, e alzò appena la
testa dal libro che
stava leggendo.
«Sì, sì, è proprio una bella
giornata. Chi non
vorrebbe avere un risveglio del genere...»
borbottò lui in
risposta, indeciso se lasciare il sostegno sicuro dello stipite e
avvicinarsi o se rimanere a debita distanza da quella che era
comunque una spia dello SHIELD addestrata a uccidere. «Quando
Ian
mi ha parlato di una "professionista" non pensavo
intendesse te,» commentò poi, trattenendo un altro
sbadiglio.
Nataša
chiuse il libro con uno schiocco secco e lo poggiò sul
tavolino da
caffè, trapassandolo coi suoi occhi chiari e gelidi.
«Mi avevano
detto che eri molto motivato a intraprendere la
riabilitazione,»
osservò piattamente, in vago tono di rimprovero.
Tony si passò
una mano sul pizzetto e sfuggì il suo sguardo, puntando il
proprio
sulla vetrata.
«Non mi aspettavo che sentiste ancora il bisogno
di tenermi d'occhio. Tutto qui,» precisò, con
cenno infastidito del
capo.
«Che tu ci creda o no, non è quello il mio
compito. Non
solo, almeno.»
Tony si lasciò sfuggire un verso di scherno, ma
non replicò. Non si era certo aspettato di riconquistare la
fiducia
di Fury semplicemente facendo il bravo per qualche settimana, ma la
sua apparente paranoia nei suoi confronti cominciava davvero a
infastidirlo.
«Penso di poter sopportare una spia in casa, se mi
aiuta a rimettermi in piedi come si deve.»
Si
staccò appena dal
muro e face leva sulle stampelle per mantenersi in equilibrio come
gesto esplicativo.
«Non mi ci vedo molto a indossare
l'armatura in
queste condizioni. Mi toglierebbe mille punti allo stile.»
Nataša
non commentò, ma gli parve di vedere un'ombra di disagio
passare sul
suo volto. Giusto: ormai era quella l'impressione che faceva alla
gente.
Si decise ad avvicinarsi a balzelloni fino al divano usando
la gamba sana come appoggio e si sedette al capo opposto di
Nataša
per far riposare il moncherino, poggiando le stampelle per terra.
Poteva sentire il suo sguardo posarsi
di sottecchi su di lui, come un ricercatore che osserva il
comportamento anomalo di un animale ferito. Represse il suo
fastidio, ripetendosi che era solo un'impressione errata del suo
orgoglio già abbastanza malandato. E aveva il coraggio di
chiamare Fury paranoico...
Notò anche che di tanto in tanto
fissava il punto dove,
un tempo, c'era stato il muro divisorio tra l'atrio e il salone. Non
aveva bisogno di spiegarle la sua assenza: aveva probabilmente
già
letto tutti i rapporti riguardo all'incidente con Hulk e lui non
aveva davvero intenzione di rivangare l'episodio.
Si trattenne dal
chiederle come stessero gli altri. O cosa ne pensassero di lui. In
realtà riusciva a immaginarlo senza fare grandi sforzi di
fantasia:
Rogers che lo biasimava, Banner che ridiventava verde solo a sentir
parlare di lui, Thor disgustato da quello che riteneva probabilmente
un atto vile, Clint che riprendeva a disinteressarsi di tutto
ciò
non riguardasse arco e frecce, Fury che puntava una batteria di
missili su Villa Stark "per sicurezza", Coulson che si
pentiva del giorno in cui aveva pensato di candidarlo per il progetto
e Pepper... frenò il suo flusso di coscienza. Non voleva
davvero
sapere cosa ne pensasse di lui.
Sollevò lo sguardo su Nataša.
Chissà cosa ne pensava lei, piuttosto. Nulla di positivo, a
giudicare dalla sua aria decisamente scocciata e dai suoi modi freddi
quanto un vento siberiano. D'altra parte, dubitava di averla mai
vista con un atteggiamento diverso.
«Quanto rimani?» chiese
infine, per rompere il silenzio.
«Questo dipende da te,» ribatté
seccamente lei. «Non più del necessario per
riportarti in uno stato
fisico decente.»
Tony si sdraiò sul divano con la testa sul
bracciolo, rivolto nella sua direzione; dovette sollevare manualmente
la gamba artificiale rigida e inerte.
«Peccato. Mi mancava un po'
di compagnia,» commentò malizioso, sogghignando
nel
notare lo sguardo
inviperito della donna. «A prescindere da quanto rimarrai,
è tutto a
tua disposizione,» continuò poi, con un ampio
gesto ad indicare la
villa. «Io passo comunque la maggior parte del tempo in
laboratorio e
mi nutro d'aria e clorofilla.»
Fece un sorriso ironico, ma
non era
poi così lontano dalla verità.
«Farò buon uso della sala
cinema, della piscina e dell'impianto stereo, allora,»
commentò
lei con aria
falsamente civettuola. «Anche se non credo che
pernotterò spesso
qui. Sono comunque un agente operativo con missioni di livello S da
svolgere,» sottolineò più seriamente, a
riprova del fatto che
quella
"missione-baby-sitter" era un fuori
programma.
«Potrei convincerti, con un po'
d'impegno,» insistette Tony, sfoggiando un sorriso dissoluto.
«Stark.»
«Va bene, va bene. Peggio per te,»
sbuffò lui, fingendosi offeso e alzando le mani in segno di
resa.
Il
suo braccio emise un cigolio penetrante che fece socchiudere appena
gli occhi a entrambi, e Tony lo riabbassò con cautela,
sentendosi di
nuovo osservato. Rimasero in silenzio per qualche secondo, poi
Nataša si alzò e si avvicinò alla
vetrata che dava prima sul
terrazzo e poi sull'oceano luccicante. Era una bella giornata di
inizio maggio e il sole aveva già riscaldato i vetri,
rendendo
l'ampio salone meno freddo del solito, illuminandolo di una luce
dorata.
«Ti mancherà pure la compagnia, ma di sicuro non
ti
manca lo spazio,» commentò lei, quasi
sovrappensiero.
«Spazio
vuoto,» puntualizzò lui a denti stretti.
Si chiese se quella
fosse una frecciatina per valutare la sua situazione emotiva; in quel
caso non aveva intenzione di dare adito ad altre domande, visto che
non sapeva neanche lui quale fosse. Sicuramente in condizioni
migliori della sua situazione sessuale, concluse distogliendo a
fatica lo sguardo dalle curve di Nataša. Lei ne era
probabilmente
consapevole, ma continuò a guardare oltre
la
vetrata evitando gentilmente di piantargli un meritato
coltello in testa. Gli faceva
strano non vederla in divisa e armata, vestita semplicemente in jeans
e t-shirt. Più probabilmente, aveva davvero una decina di
pugnali
nascosti qua e là.
Si chiese se avesse svolto missioni di
recente. Quell'incarico doveva sembrarle una vacanza in confronto a
quelli che era abituata a svolgere; anche se, conoscendosi, l'avrebbe
probabilmente fatta ricredere su quel punto.
«Toglimi una
curiosità,» disse all'improvviso, non riuscendo a
trattenersi
oltre.
Nataša si voltò verso di lui, in attesa di una
domanda
che probabilmente si aspettava e che Tony non sapeva come
porre. Negli ultimi tempi aveva iniziato a ponderare con più
attenzione le proprie parole, ma la cosa gli riusciva ancora difficile,
soprattutto per la carenza di interlocutori. E aveva pur sempre passato
una vita intera a dare voce a tutto ciò che
gli passava per la testa, più o meno senza conseguenze.
«Perché
proprio tu?» disse infine, non riuscendo a trovare altro modo
per
formulare il suo pensiero. «Non fraintendermi,
ma...» si affrettò a
correggersi, ricordandosi di colpo che non stava parlando con una
donna normale, ma con un'ex-assassina biopotenziata del KGB che aveva
già tutti i buoni motivi per ridurlo al silenzio.
«Mi sono
offerta io,» lo sorprese lei con schiettezza, ignorando il
modo
abbastanza goffo in cui si era espresso.
Lui rimase interdetto.
Qualcosa non gli tornava.
«Quindi Ian ti ha...» si interruppe ancora
più confuso, rendendosi conto di un ingranaggio mancante nel
suo
ragionamento.
«Il dottor Mitchell si è attenuto alla procedura,
ovvero passare a noi qualunque questione riguardasse la tua salute e
potesse coinvolgere altre persone oltre ai membri approvati dalla
SHIELD,» sciorinò tranquillamente lei.
Tony reclinò la testa
sul bracciolo del divano e incrociò le braccia, limitandosi
a
guardarla mentre assorbiva l'informazione.
Davvero ci era arrivato
solo adesso?
«Non mi dire che non te lo eri
immaginato.»
La voce
di Nataša era sinceramente stupita. Lui alzò le
spalle
sentendosi ottuso, una sensazione che ultimamente si
trovava a provare un po' troppo spesso.
«Ho avuto altro a cui
pensare,» tagliò corto. «Adesso mi
sembra
ovvio.» aggiunse, con un
sospiro seccato.
Si ravviò i capelli, meditando su
quell'informazione.
«Immagino che anche K sia stato "approvato"
dall'eminenza grigia, prima di essere assunto,»
commentò con
improvvisa consapevolezza.
Nataša si limitò ad annuire e Tony si
accigliò di nuovo.
«Pensavo che il Doc volesse tenere le
distanze da voi.»
«L'ha fatto nei limiti del possibile. Abbiamo
contattato il dottor Mitchell non appena hai messo piede in ospedale
e da quel momento l'abbiamo monitorato e abbiamo vagliato tutte le
sue proposte, incluso il signor Andrews. Era una situazione
delicata: non potevamo permettere che persone inaffidabili venissero
coinvolte negli affari dei Vendicatori o si avvicinassero a te e alle
tue tecnologie,» spiegò con un'ovvia scrollata di
spalle. «Assieme alla signorina Potts abbiamo anche fatto in
modo che le tue industrie non piombassero nel caos o sfuggissero al
tuo controllo – cosa che stiamo facendo anche ora. Magari
saremmo anche riusciti a tenere segreta la tua
identità, se non avessi voluto dare spettacolo al
processo.»
Tony
rifletté su quelle parole, rendendosi conto di quanto lavoro
fosse
stato portato avanti alle sue spalle mentre era impegnato a... a fare
cosa?
Autodistruggersi?
Si passò una mano sul volto e rimase
pensoso per qualche istante. Si accorse che la cosa non lo
infastidiva più di tanto. Forse qualche mese prima avrebbe
dato in
escandescenze per essere stato spiato tramite persone che riteneva
fidate a lui soltanto, ma adesso riusciva a provare solo una vaga
ammirazione per la lungimiranza di Fury. Certo, gliel'avrebbe
rinfacciato a vita, ma avrebbe potuto fare di peggio, dati i
precedenti. Per esempio rinchiuderlo sull'Helicarrier nella gabbia a
prova di Hulk. Con
Hulk.
Scosse la testa
e infine gli sfuggì una risatina.
«Va bene, sono un idiota,»
ammise rassegnato ma
allo stesso tempo divertito prima di riprendere a fissare
Nataša,
sorpresa dalla sua reazione bonaria.
Si stupì lui stesso della
disinvoltura con cui riusciva a parlare con lei, poco più
che una
perfetta sconosciuta. Non era mai stato in alcun modo un tipo
riservato, ma dal suo incidente aveva preso a relazionarsi in modo teso
con chi lo circondava o, al contrario, con finta ed eccessiva
giovialità. Anche con Pepper non era riuscito a mantenere
quel
rapporto spontaneo che amava. Il pensiero lo intristì, ma
non lo
diede a vedere e si costrinse a tornare al presente.
Con Nataša
aveva sempre adottato un atteggiamento giocoso che lei ricambiava con
circospezione; era ben diverso dalle frecciatine che si scambiava con
Cap e dall'umorismo pacato che usava con Banner. C'era un'intesa
diversa tra loro ed erano un buon team durante le missioni;
nonostante sul campo si trovassero spesso in contrasto e non amassero
il lavoro di squadra, lei riusciva a tenergli testa senza troppi
problemi e senza la spocchia altezzosa di "Capitan
Giustizia", e di rimando lui la rispettava in quanto agente in gamba ed
estremamente più competente di lui nell'ambito del loro
operato.
Adesso era contento che fosse lì, in modo imposto o meno.
Il senso di solitudine si era fatto più intenso
dopo il processo e la calma che l'aveva seguito, e in quella settimana
Kyle l'aveva chiamato solo una volta; Mitchell aveva rimandato la
visita per un "impegno di lavoro" improvviso – adesso
capiva quale: probabilmente era stato costretto a farsi un giro
sull'Helicarrier per una riunione logistica. Il fatto che
sprecassero risorse per seguirlo lo faceva ben sperare: Fury doveva
aver capito che rinunciare al suo potenziale e ai suoi contributi
poteva rivelarsi deleterio.
«Quindi ti sei offerta volontaria perché
sei molto buona o è un modo carino per dire che avete tirato
a
sorte?» continuò Tony, con lo stesso tono
tranquillo e
un mezzo
sorriso.
«Nessuna delle due cose, in realtà,»
rispose infine
Nataša, come sempre in modo indecifrabile.
«Diciamo
che non ero la
persona più qualificata ad assumere l'incarico, ma ero
l'unica
disposta a farlo. E Fury ha insistito per mantenere la cosa il
più circoscritta e controllata possibile, senza coinvolgere
altri
membri esterni allo SHIELD.»
"Dopotutto è
paranoico..."
«Se
riprendessi ad organizzare feste con un minimo di duecento invitati
gli prenderebbe un colpo, allora,» scherzò senza
pensare.
Lei dovette notare l'uso del
"se" e non del "quando", ma non commentò, e anche lui
evitò di correggersi.
«Quindi...
oltre ad essere una spia internazionale sei anche una personal
trainer?» continuò in fretta, rendendosi
conto del modo
penetrante in cui l'aveva fissato Nataša.
«Non proprio. Diciamo
che ho una certa familiarità con la ginnastica e la
riabilitazione.
Ma teoricamente il motivo è top-secret.»
«Teoricamente,»
puntualizzò Tony, non nascondendo la sua
curiosità.
Nataša
sospirò e sembrò agitarsi, come se volesse
chiudere lì la
questione, poi replicò con un rapido sorrisetto:
«Dovrai
guadagnarti queste informazioni. Prendilo come un motivo per
impegnarti.»
«Pensavo che voler riprendere a camminare e vivere
normalmente fosse una motivazione sufficiente.»
«Melius
est abundare quam deficere.»
enunciò lei, lasciandolo inebetito per qualche istante.
«JARVIS?»
capitolò infine, sotto lo sguardo sornione della donna.
«La
signorina Romanov le fa notare che, vista la sua scarsa costanza,
sarà meglio per lei avere più di un incentivo per
dedicarsi
interamente alla riabilitazione,» rispose monocorde il
maggiordomo.
«Non sono sicuro che abbia detto proprio
questo.»
Tony si tirò
il pizzetto meditabondo, trovando conferma dei suoi sospetti
nell'espressione divertita di Nataša; si chiese da quanto
l'intelligenza artificiale avesse riattivato in modo autonomo il chip
dell'umorismo. Scacciò i suoi improvvisi sospetti riguardo a
un'imminente ribellione delle macchine e si decise a riprendere le
stampelle, alzandosi con sforzo dal divano. Nataša non si
avvicinò
per aiutarlo e lui apprezzò la cosa: nonostante l'ovvia
difficoltà
che incontrava e la sua lentezza, era in grado di spostarsi in modo
più o meno autosufficiente per qualche metro.
«L'unica cosa che so in
latino è "tempus
fugit".
Uno dei mille motti di mio padre,» aggiunse un po' acidamente
mentre attraversava l'atrio. «Per una volta sono d'accordo
con
lui,»
concluse, chiamando l'ascensore per scendere in palestra.
***
La
sala era buia e c'era odore di chiuso. L'unica fonte di luce erano le
finestre sulla parete di fondo, poste in alto e al livello del terreno.
JARVIS
attivò
subito i neon, che sfarfallarono per qualche secondo prima di
stabilizzarsi, rivelando la palestra privata di Villa Stark. Non era
enorme come sembrava a prima vista, ma ospitava tutto il necessario
per tenersi in forma, nonostante anche normalmente Tony usasse di
rado gli attrezzi. Oltre alle panche, ai bilancieri e a un tapis
roulant, al centro della stanza troneggiava un ring circondato da
sacchi da boxe e manichini. Nonostante fossero passati diversi
mesi dall'ultima volta che era entrato lì dentro, tutto era
piuttosto pulito: il sistema di pulizie della villa aveva funzionato
a dovere.
Nataša si guardò intorno con aria interessata.
«Direi
che abbiamo tutto ciò che ci serve,»
commentò soddisfatta,
puntando le mani sui fianchi.
«Iniziamo subito?»
Tony non
voleva sembrare impaziente, ma effettivamente non vedeva l'ora di
mettersi all'opera. Quei mesi di inattività forzata
iniziavano a
farsi sentire: l'aveva già visto nei vari collaudi delle
protesi,
soprattutto quella inferiore. Era anche piacevole staccare per un po'
dal lavoro mentale per dedicarsi a quello fisico; e poi spesso gli
era capitato di avere intuizioni brillanti proprio quando era
distrutto dalla fatica di una missione o di un allenamento. Era da un
po' che sperava in un'illuminazione che gli permettesse di migliorare
ulteriormente le protesi, che da qualche settimana languivano nel
medesimo stato. Anche per quello si era convinto che intraprendere
la fisioterapia fosse lo step successivo più ovvio e
naturale.
«Non
vedo perché aspettare,» concordò
Nataša, dopo un istante di riflessione. «Vai a
cambiarti,»
gli intimò poi, accennando in modo eloquente alla t-shirt XL
rosso-oro e ai
bermuda che
usava come pigiama. «Io do un'occhiata in giro,»
disse, puntando con
decisione una cesta con degli attrezzi ginnici nell'angolo.
Tony
non se lo fece ripetere e zoppicò fino al piccolo
spogliatoio
adiacente alla palestra. Si appoggiò al suo armadietto per
alleviare
il peso sulla protesi e lo sbloccò con l'impronta del
pollice,
sperando che dentro fosse rimasto almeno un cambio pulito.
Recuperò
con successo un paio di pantaloncini e una canotta, gettandoli sulla
panca
lì
accanto; stava per richiudere lo sportello quando notò altri
vestiti
appallottolati sul fondo. Li ripescò con l'intenzione di
metterli a lavare, ma il suo gesto si congelò quando si
accorse che era
una
delle tute aderenti che indossava sotto l'armatura.
Non ricordava
neanche perché fosse lì dentro. Forse era tornato
da una missione
con ancora abbastanza energia per tirare qualche pugno al sacco.
Magari voleva tenerne una a portata di mano in caso d'emergenza.
Davvero non riusciva a ricordare. La sua stretta sul tessuto
sintetico aumentò brevemente, poi la allentò di
colpo e lasciò
ricadere la tuta sul fondo. Chiuse l'armadietto con più
forza del
dovuto, poggiandovi poi contro la fronte.
Aveva perso e stava
perdendo così tanto tempo...
Si sedette sulla panca sentendosi
improvvisamente la testa pesante.
Tra le tante preoccupazioni che
cercava di gestire, Iron Man si era sorprendentemente rivelata la
più
semplice da ignorare. Si era convinto a intraprendere la strada verso
il suo ritorno un passo alla volta – aveva sperimentato cosa
volesse dire accelerare i tempi e non sarebbe riaduto nello stesso
errore – ma a volte la consapevolezza della sua assenza come
supereroe lo frastornava e avrebbe voluto tutto, subito. Le sue
evidenti limitazioni continuavano ad assillarlo e anche se riusciva a
controllare la frustrazione molto meglio di prima ciò non
gli
rendeva più facile accettarle. Spesso gli rimbombavano in
testa
le parole di Rogers: "non ci serve un mezzo supereroe, tantomeno
un mezzo uomo". Con la riabilitazione avrebbe scoperto
finalmente cosa significasse di preciso quell'espressione.
Una
morsa gli strinse il petto, familiare, e lottò per
dissiparla. Si
fissò le mani, coi palmi rivolti verso l'alto. Una rosea e
piena, segnata da calletti, cicatrici sottili e scottature, l'altra
grigia e leggermente
asimmetrica, lucida sotto la luce del neon. Percepiva distintamente
il dolore costante ai moncherini e al volto, memento costante delle
proprie mancanze.
Prese un respiro
profondo.
Ricacciò indietro quella massa scura che intravedeva
dentro di sé, la soppresse sul nascere. La sua mano sinistra
era
scossa da un leggero fremito, la destra era immobile, fredda. Strinse
con forza i pugni; la protesi eseguì con qualche istante di
ritardo,
più goffa e pesante, ma si mosse ed obbedì con un
sibilo di
giunture meccaniche.
Lasciò andare il fiato e percepì il petto
rilassarsi.
Aprì e chiuse di nuovo i pugni con più
convinzione,
sentendo il proprio respiro che si calmava. Adesso era davvero tutto
nelle sue mani.
"Da qui, può solo migliorare."
***
«Ci
hai messo un po',» commentò Nataša,
vedendo Tony che zoppicava
verso di lei poggiandosi pesantemente sulle stampelle.
Lui sfoggiò
un sorrisetto poco convincente, contornato da pieghe rigide.
«Volevo
presentarmi al meglio per non sfigurare,» la
blandì, e per
un'attimo l'ombra del miliardario playboy si riaffacciò sul
suo
volto, prima di abbandonarsi poco aggraziatamente sulla panca di un
bilanciere.
Adesso le protesi erano del tutto scoperte e Nataša
si rese conto di quanto sembrassero massicce in confronto al resto
del corpo dimagrito. Il braccio sembrava in uno stadio di progettazione
più
avanzata: era del tutto ricoperto da una placcatura antracite e solo
una sezione dell'avambraccio lasciava intravedere i circuiti e i
componenti sottostanti, probabilmente per permettergli di
ricalibrarlo sul posto al bisogno. La mano era un po' tozza e rigida
nei movimenti ma abbastanza funzionale da permettergli di imbracciare
la stampella con fermezza. Forse troppa, a giudicare dall'impugnatura
deformata e placcata in metallo per renderla più resistente.
La
gamba invece era poco più di una struttura metallica
rudimentale,
con fasci di cavi scoperti e giunture in vista. L'unica parte che
sembrava prossima al perfezionamento era il piede, la cui
articolazione sembrava decisamente più curata rispetto a
quella del
ginocchio, poco più di una sfera mobile piazzata a far da
collegamento tra coscia e polpaccio.
Nataša aveva notato che
anche quando "camminava" con l'aiuto delle stampelle la
protesi inferiore rimaneva rigida, come se avesse una gamba ingessata
più d'ostacolo che d'aiuto. Il braccio doveva aver subito un
collaudo più lungo e aveva movimenti goffi ma più
naturali.
Sicuramente rompere ripetutamente le protesi a causa della miccia
corta del loro ideatore non aveva giovato al loro sviluppo.
Era
evidente che gli facessero entrambe molto male, ma era anche
impressionante che riuscisse a spostarsi così speditamente
dopo poco
più di quattro mesi dall'incidente senza un aiuto esterno.
Certo a
questo contribuivano molto il suo orgoglio e la sua testardaggine,
che però si erano attenuati dall'ultima volta che l'aveva
visto.
Sembrava aver smorzato anche il suo solito sarcasmo. Clint le
aveva accennato un presunto "cambiamento" di Tony, ma non
l'aveva preso troppo sul serio, nonostante il suo compagno si
sbagliasse raramente a inquadrare qualcuno. Sicuramente il nuovo
atteggiamento di Stark era ancora in fase di collaudo, visto il
repentino cambio d'umore.
Ed era certa che ciò che aveva in mente
di fargli fare non l'avrebbe rallegrato.
«Allora? Da dove
cominciamo? Flessioni? Addominali? Devo rimettere in sesto anche
loro...» commentò Tony, sollevando appena la
maglietta per farle
constatare la ritirata dei muscoli e l'insolita magrezza.
Oltre
il suo tono scherzoso era chiaro che non avesse perso la sua
determinazione.
"O la va, o la spacca," pensò lei,
rassegnata.
«Prima di tutto, togliti le protesi.»
Tony la
fissò stolidamente, preso in contropiede, ma
Nataša non mosse un
muscolo e continuò a fissarlo in paziente attesa. A quel
punto
l'espressione di Tony si fece infastidita. Lei non si scompose:
se l'era aspettato. Le cose partivano male fin da subito.
«È
proprio per muovere queste,» Tony si
sforzò in modo
encomiabile di mantenere la calma e accennò in particolare
alla
gamba, «che ho deciso di fare fisioterapia.»
L'unica reazione di
Nataša fu un fugace movimento degli occhi verso l'alto, al
che il
volto di Tony divenne livido. Fece per tornare alla carica, ma la
donna lo anticipò:
«Cominciare con quelle addosso sarebbe
inutile,» disse piattamente. «È il tuo
corpo ad avere bisogno di
esercizio. A muovere le protesi penseremo dopo, quando avrai recuperato
un po' di tono muscolare.»
Lui esitò.
Sembrava turbato dall'aver considerato le protesi parte integrante
del suo corpo. Nataša lo osservò senza mettergli
fretta. La
questione stava filando anche troppo liscia: si era aspettata come
minimo un accesso di rabbia.
Dopotutto aveva davanti il genio che
aveva attaccato briga con Capitan America e Hulk. Tony le
scoccò
un'ultima occhiata risentita, poi si chinò a rimuovere la
gamba,
sbloccando le sicure e tirando con cautela. Fece una smorfia quando
il metallo si staccò dai contatti con un rumore di
sottovuoto
aperto. Poggiò delicatamente la protesi accanto a
sé e fece cenno a
Nataša di avvicinarsi.
«Reggi il braccio,» bofonchiò senza
guardarla, cercando a tentoni le sicure sulla clavicola e dietro la
spalla con la sinistra, premendole con un po' di difficoltà
con pollice e medio.
Un altro schiocco, e il
braccio ricadde inerte tra le mani della donna, che lo posò
con
accortezza accanto alla gamba percependone il notevole peso. Tony
ruotò un paio di volte la spalla destra adesso stranamente
leggera e
iniziò a percepire un vago formicolio al moncherino
inferiore,
sospeso nel vuoto. Si mise di traverso sulla panca per appoggiarlo,
attendendo nel frattempo istruzioni da Nataša, che sembrava
meditabonda, ma che forse gli stava solo dando tempo per abituarsi
alla situazione anomala.
Non si toglieva le protesi da... da quel
giorno, in effetti. Un forte vuoto al petto seguì quella
realizzazione. Per scacciare il pensiero si chinò a
sistemare un
paio di cavi sporgenti dalla piastra d'aggancio
inferiore. All'improvviso qualcosa lo pungolò dolorosamente
in
mezzo alle scapole, facendogli raddrizzare di scatto le spalle
incurvate. Si voltò di scatto verso Nataša,
fulminandola, e lei
ricambiò con aria sfacciata senza togliere il dito dalla sua
schiena
e, anzi, opponendo resistenza per mantenerlo in
posizione.
«Cominciamo dalla postura,» disse semplicemente,
liberandolo infine dalla pressione.
Tony sbuffò, ma si impegnò a
tenere diritta la schiena, cosa decisamente meno stancante senza il
peso del braccio meccanico. Non si era neanche accorto di essere
così incurvato, e percepì il petto farsi
più ampio grazie a quel piccolo cambiamento.
Guardò di sottecchi le protesi
accanto a
lui e Nataša se ne accorse, sfoggiando un sorrisetto.
«Uno a
zero per te,» concesse Tony, controvoglia. «Spero
che la sessione di
oggi non si riduca a questo.»
Il sorriso di Nataša si allargò
nel porgergli un oggetto che aveva accuratamente tenuto nascosto
dietro la schiena fino a quel momento. Lui si ritrasse
d'istinto.
«No, mettila lì, odio che mi si porgano le
cose,»
protestò, indicando la panca e fissando con malcelato
sconcerto la
pallina di gomma blu dinanzi a lui.
«Seriamente?» sospirò lei,
ma eseguì comunque la sua richiesta.
Tony prese la pallina con la
cautela che avrebbe riservato a delle scorie radioattive e la tenne
sollevata tra due dita, fissandola con evidente scetticismo.
«Spero
sia uno scherzo,» commentò «Mi hai fatto
togliere le protesi per
giocare con una pallina?»
A questo punto Nataša si accigliò e
il suo viso assunse delle ombre spigolose.
«Ti aspettavi di
boxare sul ring alla prima sessione di fisioterapia?» chiese
pungente, scrutandolo significativamente da capo a piedi.
«Qualche
flessione mi sarebbe andata benissimo,» rispose lui tra i
denti, ma
allo stesso tempo lo sguardo gli cadde sul suo braccio sano e si
incupì.
Di nuovo, la consapevolezza di quanto fosse diventato
fragile lo colpì nel vedere quanta tonicità
avesse
perso.
Fletté appena il bicipite e la differenza che
percepì fu minima,
quasi ridicola. Strinse una volta la pallina nel palmo, trovandola
più resistente del previsto, e già
avvertì un fastidio
all'avambraccio. Guardò di nuovo la donna che continuava a
fissarlo inespressiva, ma con una certa sicurezza che gli fece capire
quanto fossero prevedibili le sue reazioni.
Sospirò e fissò
quella stupida pallina blu in silenzio, in attesa.
«Fanne tre
serie da trenta,» gli intimò Nataša,
capendo che non avrebbe più
opposto resistenza. «E dopo prova ad usare questo,»
e gli poggiò
accanto un manubrio a molla per allenare la mano. «Poi
passeremo alla
gamba,» concluse.
«E tu?» le chiese, inarcando un sopracciglio
inquisitore.
«Io me ne starò qui a
controllare che tu non batta la fiacca e a farmi i fatti
miei,»
cinguettò lei in tono falsamente amabile.
Si sedette sulla panca
di fronte alla sua sulla quale era poggiato il libriccino nero di
poco prima, che riprese a leggere intentamente. Tony compresse la
pallina tre volte, contando a mente, ma fu subito interrotto dalla
voce di Nataša:
«Stringila a fondo. E tieni dritta quella
schiena,» aggiunse minacciosa, scoccandogli un'occhiata da
sopra le
pagine.
Tony si affrettò ad eseguire alzando l'occhio al cielo,
col braccio già indolenzito. Sarebbe stata una lunga
prima
sessione.
***
2
Maggio, 21:45, Villa Stark
«...
la Casa Bianca non si esprime. La Guardia Nazionale ha sospeso lo
stato di emergenza in Nuovo Messico e smentisce l'ipotesi di una
possibile minaccia agli Stati Uniti. La situazione sembra essere
tornata alla normalità e...»
«JARVIS, almeno quando mangio
vorrei non dover pensare alla sicurezza mondiale,»
sospirò Tony,
masticando con poco gusto il suo riso condito alla meglio con un po'
di salsa di soia.
Il televisore della cucina si sintonizzò su un
canale di documentari naturalistici, mostrando una veduta aerea di
una foresta tropicale accompagnata da una voce narrante vagamente
melodrammatica.
«Ecco, questo è più rilassante.
Muto,» ordinò
subito dopo, deglutendo a fatica l'ultimo boccone con un sorso di
clorofilla.
Si sentiva più che sazio e in realtà avrebbe
volentieri saltato la cena, ma quando Nataša aveva
realizzato che
"nutrirsi d'aria e clorofilla" non era una metafora gli
aveva intimato di mangiare qualcosa che fosse vero cibo, se non
voleva stramazzare a terra al secondo giorno di
riabilitazione.
Quella prima sessione non era stata
particolarmente faticosa, ma iniziava ad accusare i muscoli degli
arti sani e degli addominali in fiamme. E la prospettiva era un'intera
settimana di esercizi di allungamento e rinforzo. Sbuffò al
solo
pensiero, ma d'altronde cosa ne capiva, lui, di riabilitazione?
Nataša invece, da quel poco che era riuscito a evincere
dalle
sue risposte sibilline, sembrava avere dimestichezza con esercizi
ginnici di vario genere, particolarmente utili per la sua schiena
decisamente squilibrata dalle protesi. Non si spiegava il nesso
tra la ginnastica e il KGB, ma si era ripromesso di indagare
–
anche per conto suo, se necessario.
Fece per prendere il cellulare
dalla tasca con la destra e si rese conto di non percepire il
movimento del braccio. Una spiacevole sensazione di deja-vù
lo colpì, facendolo sudare
freddo per qualche istante,
prima di ricordarsi di non avere la protesi attaccata al corpo. Aveva
deciso in modo autonomo di limitare in generale l'utilizzo del braccio
finché
non l'avesse alleggerito: a detta di Nataša, a
lungo andare
gli avrebbe deformato in modo permanente la schiena col suo peso, e lui
non aveva alcuna intenzione di diventare Quasimodo, visto che
esteticamente era già sulla buona strada.
Ciononostante, svolgeva alcune azioni con la destra d'istinto, e ogni
volta riviveva quegli attimi terrificanti in ospedale, quando aveva
realizzato di aver perso il braccio. Insieme a tutto il resto.
Prese
il cellulare con la sinistra, col cuore che ancora batteva
più
concitato
del normale per lo spavento, e constatò di non avere
messaggi né
chiamate. A ricambiare il suo sguardo c'era solo il sobrio logo
delle Stark Industries che aveva come sfondo, in sostituzione di quello
di Iron Man che aveva abbandonato da mesi. Meditò se
chiamare
Kyle, ma era già piuttosto tardi, e poi avrebbe sicuramente
portato
il discorso sul processo... o sull'altra valanga di problemi. Non si
sentiva in vena di affrontare argomenti impegnativi. Nataša
era
uscita un paio d'ore prima, probabilmente per qualche incarico dello
SHIELD, e dubitava che sarebbe tornata prima della sessione
dell'indomani. In generale sembrava volersi trattenere a Villa Stark
lo stretto indispensabile per tenerlo d'occhio.
Il suo sguardo
tornò allo schermo del televisore, stavolta occupato da una
distesa arida e
sabbiosa mossa dalle dune. Spense turbato il dispositivo.
Privo di
altre occupazioni, si decise ad assolvere il compito più
fastidioso
della giornata e tirò fuori dalla tasca il rilevatore di
tossicità.
Dopo qualche secondo e un pizzico al dito, un tranquillizzante 14%
lampeggiò sullo schermo. Scostò il colletto della
maglia per
osservare l'area attorno al reattore, ma non riscontrò alcun
cambiamento. Le venature plumbee erano ancora lì,
sottili e diafane, né più né meno
di prima. Diede un colpetto al reattore arc, quasi una pacca
d'incoraggiamento, prima di riporre in tasca il rilevatore. Rimase
seduto al tavolo ancora per qualche istante, prima di imbracciare la
stampella e alzarsi cautamente. Era sempre difficile mantenere
l'equilibrio senza l'aiuto della protesi anteriore, ma
riuscì ad
arrivare più o meno integro alla sua camera, dove si
lasciò
sprofondare sul letto sentendosi improvvisamente esausto.
Rimase però a
fissare la sveglia sul comodino, osservando i secondi che
lampeggiavano nel buio trasformandosi in minuti. Aveva già
capito
che sarebbe stata un'altra notte insonne. Non capiva da dove
provenisse quella sua angoscia sommersa. Era stata una giornata
positiva, no? Aveva finalmente iniziato la riabilitazione. Magari
passare il tempo a stringere palline e tendere elastici non era
esattamente
entusiasmante, ma necessario.
Era un passo avanti.
Di nuovo lo
artigliò quella sensazione di impotenza, di lentezza
inevitabile. La
ignorò. Non poteva accelerare ancora: quello era il massimo
che gli
era concesso.
Serrò i denti. Sapeva che quei
pensieri erano sbagliati e tossici: perché non riusciva a
scacciarli? C'era una parte di lui che avrebbe voluto mettersi
l'armatura e decollare così com'era ridotto per vedere cosa
sarebbe
successo.
Magari avrebbe funzionato. Poteva essere la soluzione
che cercava: usare subito
Iron
Man.
Sentì un vuoto allo stomaco al pensiero, come quello che
provava quando spiccava il volo, e il suo cuore accelerò i
battiti.
I pensieri aumentarono d'intensità nella sua testa,
sembrando
insensatamente convincenti ad ogni secondo che si lasciava inebriare
da quella prospettiva. Perché non avrebbe dovuto funzionare?
Non
poteva esserne sicuro se non ci provava.
Se avesse indossato
l'armatura per volare adesso...
"Ti
schianti. Ecco cosa succede."
La realizzazione s'infranse nella
sua mente assieme ad Iron Man, annientando quelle riflessioni
pericolose.
Si girò sul fianco sano per smettere di fissare la
sveglia, tirandosi il lenzuolo sopra la testa.
***
4
Maggio, Villa Stark
«Oh,
sono sicurissimo
che
al corso per aspiranti spie vi facessero fare roba del
genere!»
esclamò Tony tra i denti, mentre stava a gambe –
si fa per dire –
incrociate con il braccio teso verso l'alto, sentendosi un
idiota.
«Era molto peggio, credimi. Adesso tendi il braccio verso
l'esterno.»
Nataša girò una pagina del
suo libro.
«E ringrazia di
non dover fare esercizi sulle punte,» aggiunse, divertita.
Tony
rimase a fissarla, sconcertato.
«Sulle punte? Ma che razza
di...»
«Finisci la serie in silenzio e forse ne saprai di
più,»
lo stuzzicò lei.
«Di sicuro non ti hanno insegnato ad essere
convincente,» ribatté lui sotto sforzo, cercando
comunque senza
troppo successo di allungare ulteriormente il braccio.
«Facciamo
due
serie,
allora.»
Tony imprecò tra i denti.
***
10
Maggio, Villa Stark
Il
clangore della protesi che atterrava malamente a terra
risuonò nella
palestra insieme all'esclamazione soffocata di Tony. Si tirò
su a
sedere, un po' frastornato e decisamente dolorante.
«Direi che
per oggi è sufficiente,» osservò
Nataša facendo per avvicinarsi,
ma Tony rifiutò il suo aiuto con un gesto brusco, issandosi
da solo su
una
panca a forza di braccia.
«Ci riprovo,» ribatté caparbio,
sfidandola a
contraddirlo, cosa
che lei fece puntualmente:
«Così ti riempirai solo di lividi, ti
servono altri esercizi di coordinazione e rinforzo.»
«Altri?» ripeté lui,
scettico. «Non ho fatto altro nell'ultima settimana, ma non
mi
sembra
che ci siano stati miglioramenti!»
«Appunto. Per questo non mi
sembrava una grande idea provare a camminare adesso,»
lo rimproverò Nataša, fissandolo con distacco.
Tony sostenne il
suo sguardo.
«Prima o poi dovevo provarci.»
«Benissimo, ci
hai provato. Ora torniamo alla nostra tabella di marcia con qualche
acciacco in più.»
Tony le scoccò un'occhiata risentita. Nataša
era stata estremamente severa e a tratti impietosa nel corso della
riabilitazione, ma la cosa non lo aveva infastidito. Anzi, era quasi
contento di non essere trattato come se fosse fatto di
cristallo, nonostante l'avesse maledetta più volte quando lo
obbligava a rimanere in posizioni sfiancanti o dolorose. Adesso
però sentì un moto di rabbia nei suoi
confronti : stava liquidando la questione con troppa
superficialità.
Aveva provato a camminare più volte e aveva fallito, ma se
l'aspettava.
Per questo doveva riprovarci e riprovarci
ancora.
Avrebbe voluto opporsi alla sua indifferenza, ma si
costrinse a non reagire: non aveva senso inimicarsela.
Ci avrebbe
riprovato; da solo, se necessario. Attese direttive, che non tardarono
ad arrivare:
«Ruota la mano destra in una
direzione e il piede destro in quella opposta.»
Le sue protesi
fremettero a lungo, come impazzite di fronte a quell'ordine,
finché
non iniziarono a muoversi a scatti, totalmente scoordinate.
Imprecò:
ormai aveva perso la concentrazione.
«Ma se non riesco a farlo
neanche con con gli arti buoni!» proruppe infine, frustrato.
«Ci
hai provato per mezzo secondo.»
La voce di Nataša
vibrò di una
nota fredda di fronte al suo atteggiamento indisponente.
«Beh, "direi
che per oggi è sufficiente", no?» la
scimmiottò
stizzito.
Vide un lampo di rabbia passare negli occhi della donna
e fu sicuro che stesse ponderando se minacciarlo o atterrarlo.
«Sono
d'accordo,» rispose infine impassibile, prima di voltargli le
spalle
diretta all'uscita.
Probabilmente si era trattenuta dal picchiarlo
solo per le sue condizioni già precarie. Tony si
passò una mano
tra i capelli, maledicendo la propria impulsività. Ne era
passato di
tempo, da quando aveva discusso con qualcuno... il ricordo gli
lasciò
l'amaro in bocca.
«Romanov, possiamo parlarne?» la trattenne in
tono stanco, prima che varcasse la soglia.
La donna si fermò,
squadrandolo guardinga. Lui sospirò.
«Lo so, ti aspettavi che
tenessi il broncio fino a domani o che facessi una scenata, ma non ho
tutto questo tempo da perdere. Quindi risolviamo la questione e
torniamo al lavoro.»
Nataša sembrò fortemente indecisa tra
ignorarlo e scagliargli un bilanciere addosso. Infine
allargò le
braccia, come a dire che non aveva molta altra scelta, e
tornò sui
suoi passi.
«Se è solo per chiedermi scusa, Stark, puoi
risparmiarti...»
«Non è per chiederti scusa,» la
interruppe,
per poi rettificare all'istante, «Non che non
voglia...»
La sua
occhiata lo convinse a tacere e lasciar cadere la
questione.
«Apprezzo quello che stai facendo, davvero, ma...» quanto
poteva
essere ingrato? gli balenò in testa, «... mi
sembra
inutile.»
Nataša
alzò entrambe le sopracciglia e perse una nota di colore in
volto,
ma lo lasciò continuare.
«Mi ero convinto che il problema fosse
il mio corpo, ma adesso sto bene. O almeno, sto molto
meglio
di prima,» cominciò, cercando di farle capire che
era sincero.
In
quel breve periodo aveva davvero ripreso un po' di tonicità
e gli
sembrava di essere meno affaticato e più resistente. Non era
ancora
lontanamente abbastanza, ma era un inizio.
«Il problema sono
queste,»
sollevò il braccio prostetico, in un gesto quasi stizzito.
«Ci
stiamo lavorando adesso,» osservò lei, di nuovo
pacata.
«È inutile
lavorare con qualcosa di incompleto. Fidati del comparto
tecnico,»
soggiunse, a bassa voce.
Nataša scosse la testa, guardandosi
attorno come a cercare una risposta adatta a quell'osservazione.
«Con
tutti gli esercizi che hai svolto, ormai dovresti essere in grado di
muoverle meglio di così,» ammise infine.
«Ci ero arrivato
anch'io.»
Lei rimase in silenzio per un po' dandogli modo di
riflettere, cosa che lui apprezzò molto. Non sembrava
essersela
presa per il suo scoppio di poco prima. Anche lui si sentiva di nuovo
in controllo di se stesso, ma ciò non lo tranquillizzava.
Stava
di nuovo perdendo tempo, tempo che sentiva di non avere e che rubava
a chi ne aveva bisogno. Quante persone avrebbe potuto salvare fino
a quel momento?
Di nuovo, riemerse quella morsa fredda che gli
chiudeva il respiro. Si irrigidì senza volerlo e si
costrinse a
rilassare uno ad uno i muscoli contratti.
«Ho trascurato troppo
le protesi,» rifletté poi ad alta voce.
«Non
ci sono stati progressi.
Quindi non potrò farne neanch'io,» concluse a
malincuore.
Era
inutile cercare di negare il fatto che a quel punto dipendeva
completamente dalle sue creazioni, anche se era una consapevolezza
che iniziava a trovare disturbante.
«Vuoi tornare a dedicarti
alla progettazione,» dedusse Nataša.
Tony annuì, pensoso.
«È l'unica cosa
che posso fare,» mormorò, rendendosi conto che la
prospettiva non
lo attirava affatto.
Non aveva avuto alcuna "illuminazione",
al contrario di quanto aveva sperato. Erano giorni che nelle pause
della fisioterapia sedeva in laboratorio a fissare i progetti delle
protesi, senza riuscire ad aggiungere né modificare nulla.
Era
come se non riuscisse più a capirle. Quando riusciva
effettivamente
a buttare giù qualche formula o ad effettuare qualche
miglioria, si
trovava a cancellarla o annullarla dopo pochi minuti,
insoddisfatto. Per come le vedeva in quel momento le protesi gli
sembravano complete, ma sapeva
che
non era così. I suoi scarsi risultati nella fisioterapia ne
erano la
prova. Non era in grado di andare avanti, né mentalmente
né
fisicamente. Si sentiva arenato, o meglio in un mare in bonaccia
senza alcun solido appiglio e l'idea di tornare a un periodo di
stallo lo terrorizzava. Non si sentiva ancora abbastanza stabile per
uscirne indenne.
Nataša lo osservò perdersi nelle sue
riflessioni, notando quanto sembrasse stanco. Si era tenuta
piuttosto in disparte nel corso della "questione Iron Man",
pronunciandosi persino a suo sfavore riguardo alla sua permanenza nei
Vendicatori, ma in fondo le dispiaceva per la piega che avevano preso
le cose, e si era rallegrata nel sapere che sembrava aver ripreso le
redini dei propri problemi. Quando le avevano detto del tentato
suicidio era rimasta sinceramente scioccata: da un tipo come Stark,
che ostentava un amor proprio e un narcisismo da manuale, non se lo
sarebbe mai aspettato.
Si chiese quante facciate possedesse
ancora quell'uomo, e quante volte ancora dovessero cadere prima che
si decidesse a rinunciarvi. Di facciate, lei, ne sapeva qualcosa. E
sapeva anche quanto fosse doloroso vederle infrangersi dinanzi ai
propri occhi. Per questo trovava sorprendente vederlo in
condizioni tutto sommato così buone, anche se era evidente
che ormai
era quasi l'ombra di se stesso. La facciata che indossava in quel
momento sembrava molto più labile di quella che ricordava,
come se
la stesse ancora costruendo e testando, alla stregua delle sue
invenzioni.
Nataša si trovò a chiedersi se, con qualcun altro
al
suo fianco al posto di una semplice conoscente e collega, sarebbe
riuscito ad abbandonare quella farsa e riprendersi con più
convinzione. Quando tornava sull'Helicarrier le capitava di
incontrare Pepper, trovandola decisamente più cupa del
solito.
Sembrava piuttosto disinteressata alla sorte di Stark – e non
poteva biasimarla – ma un paio di volte le era capitato di
menzionarlo, per poi chiudere in fretta il discorso, lasciando
intendere che il suo era un disinteresse piuttosto forzato. Magari
con lei al suo fianco i suoi progressi sarebbero stati più
rapidi.
O
forse sarebbe solo peggiorato ancor di più,
chissà. Prima
dell'incidente, l'imprevedibilità di Stark era
così proverbiale da
risultare paradossalmente più gestibile. Adesso era
impossibile dire
anche cosa avrebbe fatto da un'ora all'altra.
«Forse hai solo
bisogno di una pausa,» si decise a suggerirgli, poco convinta.
Tony
sobbalzò appena dopo quel lungo silenzio, poi
scoppiò in una
risatina derisoria.
«No, non se ne parla. Conoscendomi riuscirei
solo a peggiorare le cose.»
Si passò una mano sul
volto, attento a
non toccare lo sfregio sull'occhio e coprendosi quello sano. Rimase
così per qualche secondo, come a raccogliere il coraggio per
parlare.
«Dammi una settimana di progettazione e collaudo,»
riuscì a dire, a voce bassa. «Ho bisogno di stare
per conto mio e
lavorare solo sulle protesi a pieno ritmo.»
«Interrompere la
fisioterapia...» cominciò Nataša, ma
lui la anticipò subito:
«Non
ho intenzione di vanificare il tuo lavoro. Posso gestirmi da solo,
almeno per una settimana. Conosco a memoria centinaia di formule,
teoremi e progetti, penso di potermi ricordare qualche esercizio
motorio,» la rassicurò, irritato dalla sua
sfiducia.
Nataša non
dubitava della sua memoria, piuttosto della sua costanza, ma non
vedeva molte alternative. Stark sembrava non solo essere scoraggiato
dalla mancanza di progressi, ma anche estremamente dubbioso riguardo
a quelli fatti. In quello stato mentale dubitava che riuscisse a
concentrarsi appieno sulla riabilitazione.
«Dovrò comunicarlo a
Fury,» lo avvisò.
«Mandagli i miei saluti e un mazzo di rose,»
ribatté lui con indifferenza.
Nataša sospirò. Il direttore non
ne sarebbe stato affatto contento: lasciare nuovamente allo sbando
Stark non rientrava nei piani.
«Una settimana. È tutto il tempo
che ti concedo. Poi sarò io a decidere se
quello che fai
è utile o
meno,» ribadì in tono severo.
Tony annuì accomodante, prima di
rialzare lo sguardo su di lei.
«Perché ci tieni così tanto?»
chiese all'improvviso. «Insomma, non volevi neanche che
restassi nei
Vendicatori.»
Nataša esitò, ponderando se rispondere o
meno.
«Siamo una squadra,» dichiarò infine.
«E cerco di fare
ciò che è meglio per essa. Questo include anche
cambiare idea sui
suoi elementi più... compromessi,»
enunciò, e storse il naso
a quella parola,
non trovandone però di migliori. «E non sono la
persona più adatta
per giudicarti in questo senso.»
«Lo so,» alzò le
spalle lui, rivolgendole un'occhiata carica di significato che lei
ricambiò senza vacillare.
«Hai letto i miei file della
SHIELD.»
Non era una domanda.
«I firewall sono i miei,»
rispose lui con ovvietà. «Ci ho messo circa trenta
secondi ad
aggirarli,» un sorrisetto spento balenò sul suo
volto.
«E hai
soddisfatto la tua curiosità?»
Una traccia di
irritazione trapelò
dalla voce di Nataša, ma non era veramente arrabbiata con
lui: si
era aspettata che avrebbe provato a ficcare il naso nei suoi dossier
e si era ripromessa di non strozzarlo quando l'avesse scoperto, anche
se la tentazione era comunque forte.
«Il tutù ti stava bene,»
commentò
lui con forzata ironia. «Il resto... avrei preferito non
saperlo,»
ammise poi, più serio.
Nataša sospirò e si sedette accanto a
lui, incupita.
«Ho qualche nota rossa di troppo sul mio registro
per venire a rimproverarti un tentato suicidio.»
Si pentì di essere stata così diretta nel notare
come Tony
ebbe un evidente fremito a quelle parole; i suoi respiri si fecero
più brevi e ravvicinati, ma rimase immobile.
«Dovresti vedere il
mio,» replicò poi con voce contratta, come se
stesse
lottando contro
qualcosa che gli ostruiva la gola. «Vent'anni e passa di
manifattura
bellica lasciano il segno. Sugli altri,
soprattutto.»
Portò repentinamente
la mano al suo
reattore, quasi volesse tenerlo al suo posto.
«Hai provato a
cancellarlo: per questo ti hanno fatto entrare nella
squadra,» gli
fece notare lei. «E la squadra ha bisogno anche di te. Sei il
nostro consulente, e sei Iron Man. Non
puoi
arrenderti di nuovo.»
Tony abbassò lo sguardo sulle protesi e
una smorfia gli increspò volto.
«Non mi sto arrendendo. Non ne
ho mai avuto il diritto,» ribatté inquieto, come
se non riuscisse
ad afferrare i pensieri che gli scorrevano in testa.
Chiuse il
pugno meccanico con un lieve stridio di giunture.
«Ma potrebbe
essere impossibile,» si lasciò sfuggire infine.
Nataša lo
fissò, sorpresa dal cambiamento della sua voce adesso venata
di
tristezza.
«Dov'è finito il tuo ego? Sei uscito da situazioni
peggiori, con mezzi peggiori,» gli ricordò
debolmente.
Non era
mai stata brava con le parole, se non negli interrogatori: essere di
supporto a qualcuno non era il suo forte.
Tony scosse con forza la
testa.
«Non intendo questo. Camminare, usare le protesi come
fossero arti veri... potrebbe andare oltre
le
possibilità di questa tecnologia,»
puntualizzò lui, e si strinse
le mani per tenerle ferme, agitato.
Nataša fissò il leggero
tremito del suo corpo, attraversato da una tensione quasi dolorosa da
quando aveva menzionato il suo suicidio. Nonostante le apparenze
che cercava ancora in parte di mantenere, Stark era ancora sull'orlo
baratro. Sarebbe bastato un soffio per farlo cadere di nuovo, o per
riportarlo al sicuro. Pensò alle sue "note rosse", a
quanto spiccassero ancora sul suo registro e a come alla fine fosse
riuscita a voltare pagina per ricominciare da una intonsa, almeno per
chi la circondava. Magari un giorno ci sarebbe riuscito anche
lui.
«"Quando le possibilità non ci sono, se le
inventa",»
citò infine, a bassa voce.
Tony sollevò di scatto la testa, come
folgorato, e il suo cuore mancò distintamente un battito:
riconosceva quelle parole. Se le era sentite ripetere così
tante
volte... in tono serio o scherzoso o incoraggiante o di rimprovero,
nel corso di più di dieci anni. Erano diventate una specie
di
motto su misura per lui, inventato dalla persona che lo conosceva
più
a fondo di chiunque altro.
«Hai parlato con... ?» la sua voce si
spezzò.
Nataša gli sorrise appena, uno dei suoi rari sorrisi
sinceri.
«Se non vuoi credere a me, almeno credi a lei.»
___________________________________________________________________________________________________________________________
Note dell'Autrice:
Oh oh oh! Incredibilmente riesco ad aggiornare quando promesso! Anche se a orari indecenti della notte...
Orsù, oggi Phoenix compie la bellezza di 6 anni! A pensarci mi fa veramente molto, molto strano, e non sono sicura che sia un traguardo positivo, considerando che tre anni e passa sono stati di stallo privo di aggiornamenti... sorvoliamo, va' :D
Questo capitolo invece è di quasi-stallo, ma l'ho ritenuto necessario sia per introdurre lo scoglio non indifferente della fisioterapia, sia per far "adattare" due personaggi ostici da gestire come Nataša e Tony. Ammetto che per me Nataša è abbastanza incomprensibile, nel senso che nel MCU è passata dall'essere un'assassina frigida a "zia Nat" in modo abbastanza inaspettato; qui diciamo che è un misto dei due caratteri, mantenendosi però prevalentemente sulla versione di Iron Man 2, visto che l'arco temporale è più o meno quello. Ho fatto dei riferimenti al suo passato come "ballerina" al Teatro Bol'šoj, senza scendere troppo nel dettaglio per ovvi motivi, ma era un fatto rilevante a giustificare in modo più o meno logico la sua scelta come fisioterapista da parte della SHIELD.
Qui Tony soffre come al solito, ma forse in modo un po' meno piagnone e un po' più costruttivo di quello a cui ci ha abituati negli scorsi 30 capitoli. Ovviamente la strada è tutta in salita e le ricadute sono dietro l'angolo, ma volevo sottolineare come nonostante la sua fragilità ancora molto evidente stia comunque cercando approcci diversi da "Hulk smash!" e prendersela con gli altri invece di risolvere i problemi.
Chiudo il papiro ringraziando infinitamente _Atlas_ per tutte le splendide recensioni che ha lasciato agli scorsi capitoli e per il costante supporto morale. Grazie, carissima <3
E grazie a chiunque leggerà e/o recensirà :)
Mi guardo bene dal promettere aggiornamenti a breve, visto le bugie enormi che ho sparato negli anni passati, ma ho una mezza idea di partire dal mese prossimo con un capitolo ogni due-tre settimane, se la stesura procederà in modo costante come adesso. Vedremo se sarà un proposito fattibile, anche considerando che starò fuori un paio di settimane in cui il tempo per scrivere sarà piuttosto esiguo.
Spero a presto,
-Light-
© Marvel
|
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Capitolo 34 *** Stay hungry ***
33
Stay
hungry
"Rising
up, back on the street
Did my time, took my chances
Went the
distance
Now I'm back on my feet
Just a man and his will to
survive"
[Eye
Of The Tiger – Survivor]
“Dove
sono?"
Tony si risvegliò in un mare oscuro. Si sentiva
galleggiare, ma sembrava una sostanza più densa dell'acqua,
simile a
inchiostro. Il reattore arc brillava nel suo petto, rilucendo appena
sulla superficie metallica delle protesi. Quello strano liquido
sembrava aiutare i suoi movimenti: si sentiva più leggero,
quasi
incorporeo. Provò a nuotare attraverso quella massa viscosa,
ma si
trovò solo a roteare su se stesso senza riuscire ad avanzare.
Rimase
calmo, stranamente non allarmato da quella situazione anomala. Non
percepiva dolore o fastidio, solo curiosità.
Intuì un movimento
dal suo lato cieco e voltò la testa: in lontananza si era
acceso un
puntino luminoso che sembrava pulsare. Fece per dirigersi verso di
esso, quando ne percepì un altro spuntare ai limiti della
sua
visuale, più grande del primo, seguito da un altro e un
altro
ancora, fino a che tutta l'oscurità non fu trapunta di luci
ovunque
posasse lo sguardo.
Stelle,
gli balenò in testa. Erano stelle.
Quello che aveva scambiato per
un oceano era in realtà il vuoto assoluto dello spazio.
Tutto
sembrava estremamente lontano da lui: stava andando alla deriva in un
quadrante vuoto dell'universo.
Improvvisamente avvertì un tremito
– nello spazio? – riverberargli nelle ossa e
aumentare, come se
qualcosa si stesse avvicinando. Si guardò intorno
più volte,
finché non individuò uno dei puntini in lento
movimento verso di
lui. Man mano che si avvicinava riusciva a distinguerne i colori
–
rosso e oro? – e finalmente si delineò la forma
inconfondibile
della sua armatura.
Si fermò davanti a lui e spense i propulsori
innaturalmente silenziosi nel vuoto. Notò l'assenza del
reattore
nella cavità della corazza; anche le fessure dell'elmo erano
spente,
prive della consueta luce azzurrina. Si accorse subito che non era la
Mark III: il suo design era più snello e il pattern della
cromatura
differente. Sembrava un'armatura leggermente più avanzata di
quella
che aveva perso nello scontro con Iron Monger.
Tese un braccio
verso di essa e quella imitò il gesto, specularmente.
Aggrottò le
sopracciglia.
"Ancora specchi?"
Abbassò il braccio
con una lieve inquietudine; l'armatura continuava a seguire i suoi
movimenti. Si protese in avanti cercando di raggiungerla e quella
diede una leggera spinta coi propulsori, arrivando a portata di mano.
La afferrò d'istinto per il polso col braccio artificiale,
senza
incontrare resistenza. La protesi si mosse con agilità
inaspettata.
Con sua sorpresa, le placche dell'armatura si schiusero all'istante
lasciando intravedere l'interno scuro e vuoto, come a
invitarlo.
Esitò, ma l'armatura l'aveva già inglobato,
saldandosi sulla sua pelle prima che potesse ritrarsi. Si
ritrovò
nella penombra familiare e stranamente fredda, priva di schermate
virtuali. Provò ad attivare i propulsori, ma l'impulso non
raggiunse
l'armatura. Non riusciva a spostarla con la sua sola forza; poteva
solo a sollevare appena gli arti meccanici, più potenti del
normale.
Era in trappola, realizzò con un rantolo, sentendosi
opprimere in quello spazio così angusto e rigido. Attraverso
le
fessure dell'elmo intravedeva solo buio: le stelle erano
scomparse.
Doveva trovare un modo per riattivare l'armatura, ma
sentiva il senso di claustrofobia che deviava i suoi pensieri.
L'involucro metallico sembrava pesare sul suo corpo, schiacciandolo.
Chiuse gli occhi in cerca di un barlume di lucidità e si
sentì
avvolgere da un'improvvisa calma; la stretta al petto svanì,
così
come il sudore freddo che gli imperlava la fronte.
Doveva trovare
una soluzione, certo. C'erano molte cose che doveva assolutamente
portare a termine... ma si sentiva protetto, là dentro.
Aveva
davvero così tanta fretta di uscire?
***
Tony
aprì a fatica l'occhio e fu colto da un senso di vertigine.
La prima
cosa che registrò fu una paurosa emicrania, seguita da una
fitta al
collo quando provò a muoversi. Fece una smorfia e
scollò lentamente
la guancia dalla scrivania sulla quale si era addormentato. Avrebbe
mai avuto un risveglio piacevole?
«Ben svegliato, signor Stark.
Sono le 10:45 del 12 maggio,» lo accolse non richiesta la
voce
elettronica di JARVIS.
Tony ebbe un sussulto nel sentire
l'ora.
«Quanto ho dormito?» chiese con voce impastata,
soffocando un enorme sbadiglio.
«Si è addormentato intorno a
mezzanotte, signore.»
Tony emise un grugnito scontento: non
poteva permettersi di oziare così a lungo.
«La prossima volta ti
autorizzo a svegliarmi con la fanfara di Capitan America dopo al
massimo sette ore,» bofonchiò.
Si poggiò allo schienale,
sentendosi più indolenzito del solito, e si concesse qualche
minuto
per svegliarsi completamente e riattivare i neuroni ancora persi nel
vuoto siderale. Iniziava ad averne abbastanza di quei sogni
strampalati, soprattutto quando non gli fornivano intuizioni geniali.
Come se avesse bisogno di un ulteriore promemoria riguardo
all'urgenza di rimettersi in piedi per riprendere il suo ruolo di
Iron Man.
Sbuffò, stropicciandosi la nuca nel tentativo di
alleviare il mal di testa incipiente, mentre scandagliava la scrivania
alla
ricerca di qualcosa da bere. Individuò una borraccia e vi si
attaccò
assetato, venendo inondato dallo sgradevole sapore della clorofilla
che gli anestetizzò la lingua, ma ormai ci aveva fatto
l'abitudine.
Subito dopo recuperò il rilevatore di tossicità,
riscontrando che
il tasso di palladio era ancora fisso al 14%. Forse doveva passare
più tempo in laboratorio...
Ripose in tasca il congegno e si
decise a riprendere il foglio su cui stava lavorando la sera prima.
Sospirò:
decifrare la sua scrittura mancina e assonnata non fu facile,
soprattutto con un occhio solo. Nel frattempo stiracchiò il
braccio e la gamba artificiali in un coro di cigolii e proteste
metalliche. Sì, doveva decisamente fare qualcosa per le
articolazioni, ribadì tra sé mentre sgranchiva
goffamente le
dita di mano e piede senza riuscire a controllarle appieno.
Rilassò
infine le protesi avvertendo delle spiacevoli fitte ai moncherini,
come sempre più acute al mattino.
Poggiò il foglio sulla
scrivania e vi scribacchiò un appunto per completare una
frase
lasciata in sospeso, poi afferrò le stampelle là
accanto e si
sollevò lentamente per completare la sua routine mattutina:
colazione-lampo, antidolorifici, bagno, barba e medicazione
dell'occhio. Avrebbe rimandato gli esercizi di fisioterapia a dopo
pranzo: aveva già perso tempo dormendo più del
dovuto, ma non aveva intenzione di scombinare del tutto i suoi bioritmi
appena ritrovati.
Mezz'ora
dopo era di nuovo operativo e si districava tra modelli 3D, esplosi
delle protesi e vari ologrammi che fluttuavano pigramente attorno a
lui mostrando dati e grafici. Ogni tanto dava un'occhiata alla
protesi inferiore e prendeva qualche nota abbastanza disordinata,
sorseggiando con parsimonia il suo unico caffè non
decaffeinato
della giornata. Si tamponò infastidito un taglietto sul
mento che si
era rimediato mentre si rasava: a volte la mancina si dimostrava
ancor meno collaborativa della protesi. Represse la frustrazione per
quei piccoli, costanti incidenti, e si concentrò nuovamente
sui suoi
calcoli.
Nei giorni precedenti era già riuscito a riprogettare la
protesi trovando il giusto equilibrio tra resistenza,
mobilità e
peso, che aveva ridotto drasticamente: ora non gli restava che
applicare le modifiche. Sicuramente avrebbero facilitato i suoi
movimenti, ma era consapevole che il peso non era il problema
primario.
Stava infatti lavorando a un nuovo modello di
articolazione, qualcosa che aveva in mente da tempo ma che aveva
sempre rimandato, restio a modificare a tal punto il progetto
originario. L'unobtanium svolgeva un buon lavoro nel sostituire la
cartilagine, ma l'attrito era ancora troppo e le giunture rimanevano
rigide, dando delle movenze robotiche e imprecise ai suoi gesti. Per
piegare braccio e gamba doveva prima vincere una resistenza
innaturale ed era anche per quell'impedimento che perdeva
l'equilibrio mentre cercava di camminare. Aveva passato la scorsa
notte a ideare delle capsule di sospensione in unobtanium gelatinoso
che avvolgessero completamente l'articolazione, invece di fare solo
da cuscinetto tra i punti di giunzione. Ciò avrebbe dovuto
rendere
più morbidi e meno faticosi i movimenti riducendo
ulteriormente
l'usura, ma realizzarle richiedeva molto più di una
settimana –
cinque giorni, ormai – e aveva bisogno di qualcosa che
accelerasse
i suoi progressi nell'immediato. Solo la fusione e la modellazione
dell'unobtanium
necessario per ginocchio e caviglia gli avrebbe portato via due
settimane, forse dieci giorni se avesse lavorato ai ritmi massacranti
di qualche mese prima. E quella non era un'opzione accettabile.
Finì
di disegnare un bozzetto della capsula contornato di note a margine,
percentuali e vettori, poi mise da parte il foglio su una risma
ordinata in un angolo della scrivania, dove già erano
impilati i
progetti per la struttura alleggerita delle protesi, e
ordinò a
JARVIS di scannerizzarlo.
Fece oscillare tra le dita sane la penna
e si dondolò sulla sedia girevole, pensoso. Gli veniva in
mente
almeno una decina di migliorie possibili, nessuna utile ad aiutare la
sua mobilità. Sbuffò frustrato. Continuava a
pensare che forse
l'unica soluzione fosse modificare la piastra d'aggancio delle
protesi, ma era un'idea al momento inapplicabile, oltre che
pericolosa, e richiedeva l'assistenza di Ian.
Eppure la sua mente
continuava a pungolarlo in quella direzione. Ci doveva essere
qualche
problema alla base, gli diceva l'istinto. E il suo istinto
raramente... – gli eventi degli ultimi
mesi passarono in
rapida successione nella sua testa, demolendo la sua sicurezza. Ok,
forse il suo istinto non era così
infallibile, ma almeno per
le questioni tecniche non l'aveva mai deluso.
Fissò il braccio
prostetico, muovendo con attenzione le dita. Queste risposero come
sempre con un leggero ritardo e a scatti. Corrugò le
sopracciglia.
C'era stato un momento, subito dopo l'innesto del
braccio, in cui muovere la protesi era stato più facile. Non
certo
facile, ma sicuramente più di
adesso.
Riusciva addirittura a
impugnare una penna, anche se goffamente e spesso rompendola.
Provò
a farlo e, mentre gli riuscì più semplice trovare
la giusta forza
per non disintegrarla, non riuscì a controllare e coordinare
le dita
come avrebbe voluto. Le dita metalliche scivolavano sulla superficie
liscia, senza fare presa – "palmo antiscivolo"
appuntò
velocemente su un foglio con la mancina cercando di non perdere la
concentrazione, ma quello era il minore dei problemi. C'era troppo
ritardo tra il suo impulso nervoso e l'esecuzione. Anche tenendolo da
conto non riusciva a governare i suoi movimenti, che sembravano
andare a singhiozzo. Non appena si distrasse, la penna cadde sulla
scrivania con un toc
sommesso.
Tony si accarezzò concentrato il pizzetto, fissando un
punto indefinito tra i vari ologrammi che lo circondavano. Si
ricordava di come prima riuscisse a muovere il braccio più
liberamente; gestiva persino la fusione dell'unobtanium da solo senza
troppi problemi. Non poteva dire che si muovesse in scioltezza, ma in
confronto ad ora sembrava un giocoliere.
Cosa era cambiato? Lo
sguardo gli cadde sulla bottiglietta di antidolorifici. Sicuramente
prima ne assumeva molti di più. Potevano aver inficiato i
nervi in
modo permanente? Gli sembrava improbabile, o avrebbe avuto
difficoltà
motorie generalizzate, ma a parte una lieve atrofia muscolare dovuta
all'immobilità, durante la riabilitazione non aveva
riscontrato
alcun problema grave.
Cosa era cambiato? Socchiuse
l'occhio, cercando di riordinare i pensieri.
Adesso assumeva più
clorofilla, ma difficilmente poteva essere determinante, se non nel
dargli una marcia in più a un provino per il ruolo di Hulk.
Gli si
era staccata una mano al processo – uno dei momenti
più alti della
sua carriera, doveva ammetterlo – e poi... poi
Rogers aveva
completato il lavoro, distruggendola del tutto. Che in
quell'occasione si fosse danneggiato il microreattore?
S'incupì:
se davvero la causa di tutto era da imputare a quel damerino a stelle
e strisce, non avrebbe risposto di sé. A ripensarci gli
saliva
ancora la rabbia, nonostante si rendesse conto di non aver fatto
nulla per evitare il conflitto, anzi. Per colpa di quel disadattato
temporale aveva dovuto riprogettare da zero braccio e gamba... anzi,
la gamba fortunatamente no, quella era venuta dopo...
Si
riscosse di colpo e schioccò di riflesso le dita buone,
puntando lo
sguardo sulla protesi inferiore come un detective che ha appena
trovato una pista.
Ecco cos'era cambiato: si era impiantato la
gamba!
"... e quindi?"
Il suo entusiasmo scemò un
poco. Poteva sentire le sinapsi che si accapigliavano tra loro per
cercare di
trarre un senso da quella conclusione.
Più peso? Più unobtanium?
Picchiettò meccanicamente sul reattore in mezzo al petto,
mordendosi nervoso le labbra. Arrestò bruscamente la
marcetta che
aveva preso a tamburellare sulla superficie metallica, dandosi
dell'idiota mentre rivolgeva lo sguardo alla luce azzurrina: più
reattori. Ecco la differenza che cercava. Un sorrisetto
trionfante si allargò sul suo volto: il problema era
alla
base. In quel campo il suo istinto non lo tradiva mai.
«Ehi,
JARVIS, capta le radiazioni elettromagnetiche emesse dai reattori
arc,» ordinò, ruotando allegramente qua e
là con la sedia per
chiudere le varie schermate aperte.
Forse aveva finalmente dato
una svolta al lavoro apparentemente inutile di quei giorni. Una
luce verdognola prese a scansionarlo e un olografico apparve davanti
a lui, con tre oscillogrammi che vi si dipanavano seguendo le
variazioni di frequenza dei tre reattori. Apparivano abbastanza
stabili,
se non per dei lievi picchi simultanei. Tony selezionò con
due dita
uno dei picchi, ingrandendo la traccia con interesse.
«Sembra che
vi siano delle interferenze reciproche tra i campi elettromagnetici
dei reattori, signore,» disse JARVIS, anticipando la sua
osservazione.
«Notavo. Ed è una gioia per il mio corpo,
immagino.»
Una colonna di dati numerici affiancò il grafico, con
dei valori evidenziati in tre colori diversi a rappresentare ognuno
dei reattori.
«Il reattore cardiaco mostra di non risentire degli
effetti in modo preoccupante,» rilevò JARVIS,
ingrandendo i valori
più bassi di poco superiori alla norma.
«Ringraziando il cielo,
o sarei già morto d'infarto,» borbottò
Tony corrucciato.
«Al
contrario, i micro-reattori sono soggetti a variazioni di frequenza
ingenti sia reciproche che causate dal reattore centrale.»
«Prima
funzionava tutto a dovere... dev'essere stato il terzo reattore a
mandare in tilt il sistema,» concluse Tony.
«Parrebbe di sì.
Rilevo una concentrazione troppo alta di onde elettromagnetiche.
Ipotizzo che ciò ostacoli la trasmissione degli impulsi
nervosi.»
"Eureka," pensò lui, tetramente.
La sua
soddisfazione era svanita. Un malfunzionamento dei reattori era
irreparabile sotto ogni punto di vista. Portò una mano alla
fronte,
sentendosi improvvisamente spossato.
Come aveva fatto a non
rendersene conto prima? Era perfettamente consapevole delle
interferenze che si venivano a creare tra due flussi di energia arc;
semplicemente non aveva pensato che potessero riguardare dei reattori
così piccoli. Ripensò all'incidente avvenuto
durante l'impianto del
braccio, quando era quasi andato in arresto cardiaco: quanto era
stato ottuso a non dare a quell'evento il giusto peso?
Strinse i
denti, rimproverandosi ancora. Era stato troppo avventato nel volersi
impiantare definitivamente i micro-reattori senza un periodo di
prova. Ian aveva tentato di avvertirlo, ma no, lui doveva fare
testa
propria. Quella negligenza avrebbe potuto costargli la vita, oltre alla
mobilità.
Si
schiarì la gola, notando solo ora l'assenza dei commenti
pedanti del
suo maggiordomo virtuale.
«Qualche suggerimento per risolvere
questo casino? A parte trovare un'alternativa al
palladio,»
si affrettò a precisare, vedendo apparire dinanzi a
sé la
proiezione di una tavola periodica.
«Sarebbe la soluzione più
logica: sostituire il palladio con un ipotetico elemento compatibile
modificherebbe l'orientamento delle molecole nei reattori,
evitando...» continuò lui implacabile, aggiungendo
un modello
molecolare a un palmo dal suo naso.
Tony lo scacciò con un gesto
seccato.
«Lo so, e grazie per aver messo in dubbio
la mia
laurea in fisica, ma ti sembra che abbia il tempo per inventarmi un
nuovo elemento? Non dico che non potrei, ma ho una certa fretta di
tornare a camminare.»
Il suo sguardo corse involontariamente
alle
armature, ma lo distolse subito.
"Prima camminare, poi
volare," si rammentò: Iron Man sarebbe stato
tutt'altro
problema...
Seguì un breve silenzio poco promettente da parte
dell'intelligenza artificiale, al che Tony capì che ormai
non poteva
più parlare di "soluzioni", ma solo di "contenimento
danni".
Riprese in mano la penna. Se gli impulsi nervosi
avevano difficoltà a trasmettersi doveva cercare di
amplificarli, per
tentare di far arrivare un segnale più leggibile alle
terminazioni
artificiali. Aumentare la potenza dei reattori era impossibile e
nocivo, ma almeno per il braccio poteva eliminare i resistori
impiantati qualche mese prima, dicendo addio al calore del braccio:
un sacrificio risibile, in confronto al poterlo muovere
decentemente.
Poi avrebbe dovuto migliorare la conduttività dei
nervi in unobtanium in entrambi gli arti. Per ora gli interessava
solo la gamba: al braccio avrebbe pensato in seguito. Sperava solo
che bastasse aumentarne la densità per aggirare il problema
e avere
più controllo sui propri movimenti. Probabilmente avrebbe di
nuovo
avuto difficoltà a dosare la potenza delle protesi e sarebbe
tornato
in modalità "elefante in una cristalleria", ma era un
compromesso accettabile. Dopotutto non doveva certo informare i suoi
amichetti in toga e parrucchino di ogni modifica potenzialmente
pericolosa che apportava alle sue presunte "armi".
Cercò
con lo sguardo il fidato robot telescopico e lo individuò in
fondo
al
laboratorio.
«Ehi, tu! Mani di burro!» Dum-E si
rianimò con un
ronzio. «Rispolvera l'attrezzatura per la fusione. E niente
pozze di
unobtanium in giro, stavolta. Si torna al lavoro,»
ordinò con
vivacità, sentendosi rinvigorito dall'avere di nuovo
qualcosa da
fare.
Non era una soluzione, ma era tutto ciò di cui disponeva al
momento.
***
13
Maggio, Villa Stark
«Ok,
adesso piano. Piano!»
Dum-E scattò bruscamente in
avanti facendogli perdere l'equilibrio, ma lui riuscì a
mantenere la
presa sul braccio telescopico e compensò la distanza con un
cauto
passo della gamba sana. Il moncherino protestò per la
posizione
scomoda, ma la protesi resse.
"Ora l'altra," si
incoraggiò, cercando la percezione del suo arto meccanico.
In
seguito alle modifiche gli sembrava leggermente più
sensibile,
infatti riuscì a muovere il piede di qualche centimetro. Si
aggrappò
più saldamente al robot, tentando di governare quell'impulso
che
sembrava sfuggirgli e che non riusciva ancora a localizzare. Il suo
ginocchio fremette, ma il resto dell'arto non rispose.
Imprecò
tra sé.
"Quanto potrà mai
essere difficile muovere una
stramaledetta gam–..." la protesi scelse quel momento per
reagire inaspettatamente, sferrando un involontario calcio in avanti
che assomigliava molto poco a un passo.
Frenò appena in tempo lo
slancio, ma la pianta del piede impattò con durezza col
pavimento,
inviandogli una vibrazione dolorosa fino al moncherino.
Serrò denti
e occhio, grato per aver progettato un robot ottuso ma solido:
sostenne il suo peso evitandogli di rovinare a terra, seppur con un
lieve ronzio di protesta.
«Signore, secondo i miei calcoli la
capacità di trasmissione...» cominciò
JARVIS, inopportuno come
sempre.
«Muto,» lo zittì lui con un sibilo
sforzato.
Cercò a
tentoni la sedia dietro di sé e vi si abbandonò
sentendosi già
esausto, ma determinato. Stavolta era riuscito a muovere la gamba,
seppur non come voleva, ma la potenza del segnale era ancora troppo
ridotta e instabile.
Rivolse uno sguardo sconsolato al piano di
lavoro invaso di componenti elettronici, pozze semisolide di metallo,
e cavi. Aveva passato una giornata intera a modificare la
densità di
ogni singolo nervo in unobtanium e adesso doveva ricominciare da capo
per aumentarla ancora. E in futuro avrebbe dovuto fare tutto una
terza volta per il braccio...
Si costrinse a riscuotersi da quelle
considerazioni: non aveva tempo da perdere. Rimosse con un gesto
deciso la gamba ignorando la replica della ferita e la
poggiò
nuovamente sul bancone, studiandola con aria di sfida. Era una sua
creazione e avrebbe funzionato come voleva lui.
Si rimise gli
occhiali protettivi e fece seccamente cenno a Dum-E di avvicinarsi,
fissando nella sua pinza un saldatore caricato ad unobtanium e
impugnandone un altro lui stesso.
«Tu, fai quello che ti dico io
o diventerai la mia prossima stampella,» gli
intimò, ricevendo un
ronzio agitato in risposta. «JARVIS, memorizza i valori
errati
e
resetta il collaudo. Ci riproviamo.»
***
17
Maggio, Villa Stark
«Che
ti avevo detto?» sbottò Tony, sfoggiando un ghigno
soddisfatto
nonostante l'affanno che gli spezzava la voce.
Nataša non si
mostrò particolarmente impressionata e si limitò
a fissarlo con la
faccia di qualcuno che sta seriamente prendendo in considerazione
l'omicidio, anche se sembrava in realtà trattenere il suo
stupore.
«Quante volte vuoi ribadire che avevi
ragione?»
sospirò infine.
«Tutte le volte che lo riterrò
necessario,»
rispose prontamente lui, piegando di nuovo la gamba meccanica con
evidente sforzo.
Era sdraiato sulla schiena con la gamba a
mezz'aria, impegnato coi soliti esercizi di mobilità con
molto più
successo, come aveva avuto modo di puntualizzare ripetutamente e in
modo saccente nel corso dell'ultima ora.
Nataša non si era
aspettata di trovare Tony d'umore più che positivo. Aveva
pensato
di doverlo minacciare per farlo tornare al lavoro: quando il
miliardario aveva invocato una pausa per "migliorare le
protesi", aveva creduto che fosse solo una delle sue scuse per
potersi crogiolare nell'indolenza e nell'autocommiserazione, come
aveva già fatto in precedenza. Invece aveva appena fatto in
tempo
a mettere piede a Villa Stark che si era vista il padrone di casa
venirle incontro con aria euforica, rischiando di inciampare tra
stampelle e protesi senza per questo curarsene, annunciandole che
doveva assolutamente vedere gli "straordinari progressi"
che aveva raggiunto in sua assenza.
Nataša si era mostrata
scettica, ma le erano bastati i primi minuti di esercizi per capire
che quelle di Stark per una volta non erano esagerazioni. Adesso era
veramente in grado di controllare la gamba artificiale. Con
difficoltà, ovvio, e tirando giù un intero
calendario anche solo
per alzare un dito, certo, ma non era più il peso morto che
si
trascinava dietro fino a una settimana prima. Assieme alla
mobilità fisica sembravano ricomparse anche la sua arroganza
e
naturale indisciplinatezza, rendendolo decisamente più
temerario di
quando l'aveva lasciato. E gestibile quanto un bambino di cinque anni
con troppo zucchero in circolo.
«Bene, direi di passare a
qualcosa di più impegnativo!» stabilì
infatti l'uomo, facendo leva
sul bordo del ring per issarsi in piedi, ancora decisamente
instabile.
Appunto.
"Ma come ha fatto Potts a sopportarlo
per dieci anni?"
Se gli ordini di Fury non fossero
stati categorici gli avrebbe già spezzato l'osso del
collo... anche
se doveva ammettere che preferiva questa sua versione energica e
ribelle allo stato di quiete prossimo alla prostrazione in cui
l'aveva trovato.
«A cuccia, Stark. Che ne dici di non mandare
tutto a puttane subito, per una volta?» lo
richiamò con cipiglio
minaccioso, ma lui rispose con un verso di scherno, l'occhio
illuminato da una luce ostinata.
«Ho passato tre notti insonni su
questo gioiellino,» esordì scuotendo con orgoglio
la gamba ancora
restia ad eseguire i suoi ordini. «Ho tutto il diritto di
testarlo
come mi pare e piace,» sentenziò, e
lasciò al contempo il
supporto del
ring.
Nataša fece per scattare in avanti per afferrarlo prima
della prevedibile caduta ma si bloccò, interdetta: Tony era
rimasto
in piedi, oscillando appena, con le braccia sollevate in alto come a
dimostrare che non
c'era alcun trucco.
Un sorriso sghembo gli attraversava il volto
sfidandola a dire qualcosa; solo le increspature della sua fronte
tradivano il suo reale sforzo e la concentrazione che quel gesto
apparentemente banale gli richiedeva. Dopo appena un paio di secondi,
spostò il baricentro un po'
troppo in
avanti e fu costretto cercare di nuovo il sostegno della pedana,
puntandovi i palmi senza però abbandonare la sua posizione
eretta.
La sua
felicità era
palpabile, al punto che lei non ebbe cuore di riprenderlo
ancora. Incrociò le braccia, scuotendo la testa con falso
rimprovero.
«Questa te la sei preparata,» si limitò
ad
insinuare divertita e Tony alzò le spalle con fare
innocente, colto
in fallo.
Quel piccolo movimento bastò a squilibrarlo del tutto, e
fece per
aggrapparsi convulsamente alle corde del ring per non far collassare
la protesi. La mano meccanica mancò l'appiglio, le
sue gambe s'incrociarono malamente e lui
rovinò a
terra, sbattendo lo zigomo sul bordo della pedana. Gli
sfuggì un
lamento prolungato, mentre si tastava con cautela il volto dolorante
e si lasciava scivolare sul pavimento.
Nataša si avvicinò
scuotendo la testa e si accovacciò al suo fianco, aiutandolo
a
raddrizzarsi seduto e assicurandosi che non si fosse rotto nulla; lo
squadrò con severità.
«Che ti avevo detto?» lo prese in
giro, imitando il suo tono derisorio di poco prima.
Tony scostò
la mano dalla guancia arrossata, su cui sarebbe rimasto un bel
livido, e Nataša si accorse che stava ancora sorridendo,
come
estraniato sia dalle sue parole che dal dolore.
«Funziona... sta
funzionando!» riuscì ad
esclamare infine, guardandola con lo
sguardo che luccicava, e stavolta la sua voce era incredula e quasi
tremante.
Nataša distolse lo sguardo, stringendolo appena per le
spalle in un gesto che voleva essere di sostegno sia fisico che
morale. Aveva la netta sensazione di essere di troppo. Non era lei
a dover essere accanto a Stark in quello che probabilmente era il
momento più importante della sua vita negli ultimi mesi.
Strinse le
labbra amareggiata mentre aspettava che si riprendesse dalla caduta,
rimanendo comunque chinata alla sua altezza, senza muovere le mani.
«Ehi, cos'è quella
faccia? Ti faccio disperare così tanto?»
sbottò Tony dopo un po',
nuovamente scherzoso, facendola sobbalzare.
«Non ne hai idea,
Stark., scosse la testa lei, seccata per essersi fatta
sorprendere
con la guardia abbassata.
Si scostò da lui e si rimise in piedi
riprendendo le sue distanze, ma gli rivolse un fugace sorrisetto:
dopotutto era contenta di rivederlo così spigliato e quasi
sereno.
«Prima o poi doveva toccare anche a te,»
commentò lui,
decidendo che rimanere seduto là era decisamente
più comodo che
tentare di alzarsi ancora.
Si accorse dello sguardo interrogativo
della donna e si affrettò a chiarificare:
«Prima Coulson, poi
Fury, poi Banner, poi Hawkeye, adesso tu...»
elencò, cercando di
contare sulle dita della protesi con un po' di difficoltà.
Si
accigliò: doveva decisamente trovare il tempo di ricalibrare
anche
quella.
«Tutti voi vi siete trovati a supportarmi e sopportarmi
in un modo o nell'altro. Più del solito, intendo.
All'appello
mancano solo Thor... e Rogers,» considerò infine,
poco entusiast.a
«Francamente, posso sopportare un semidio Asgardiano che
gironzola
per casa scolandosi il mio whiskey, almeno finché mi lascia
analizzare Mjolnir, ma
penso che
chiuderei Mr. Frisbee nello stanzino a far compagnia alle anticaglie
di mio padre.»
«Nessuno dei due sarebbe così entusiasta di
avere a che fare con te, credimi,» osservò
Nataša, chiedendosi se
quell'uscita improvvisa fosse un modo tutto suo per dire
"grazie".
«Ma dovranno! E prima o poi dovrò anche
offrirvi da bere per la vostra pazienza... sì, anche
a
Rogers, sempre che regga l'alcol,» puntualizzò,
storcendo le labbra imbronciato.
«Mi ha sfondato la
protesi, ma è grazie... beh, quasi
grazie a lui che ho
risolto qualche problema tecnico. Diciamo che ha involontariamente
aiutato il processo logico, ma potrebbe fare di meglio,»
minimizzò
infine.
Fece leva sulla panca davanti a lui, issandosi a sedere
con un altro lamento soffocato.
«Devo rimettermi in piedi al più
presto. Ho un bel po' di problemi da risolvere con...»
esitò,
incupendosi brevemente e passandosi una mano tra i capelli spettinati.
«Beh, con tutti, a pensarci bene. Ma a questo punto
è impossibile
non perdonami, no?» tornò a sfoggiare il suo
solito sorrisetto
impertinente, che sembrava aver ritrovato posto sul suo volto dopo
una lunga assenza.
Nataša si sentì contagiare da quella
ritrovata sicurezza e ricambiò con una delle sue occhiate
enigmatiche, stemperata da un'aria di sfida giocosa.
«Vedremo,»
rispose vagamente alla sua domanda e Tony ammiccò con
sfrontatezza,
prendendolo già per un sì.
***
19
Maggio, Villa Stark, 17:10
Kyle
ringraziò Happy per averlo aiutato a scendere dall'auto e
rivolse lo
sguardo all'ingresso di Villa Stark, sontuoso come se lo ricordava.
Sentì le ruote della macchina stridere sul vialetto
d'ingresso e
presto il rombo del motore si confuse con quello delle onde.
Il
cielo era grigio e prometteva pioggia, ma l'aria era calda e quasi
afosa. Un tuono brontolò in lontananza e Kyle si
affrettò a
sospingersi verso la porta d'ingresso; questa si sbloccò
automaticamente. I sensori di JARVIS dovevano averlo identificato.
Spinse un poco la sedia a rotelle e la porta si spalancò per
facilitargli l'entrata. Kyle si ritrovò a sorridere: un
maggiordomo
virtuale avrebbe fatto comodo anche a lui.
«Benvenuto, signor
Andrews,» la voce del computer risuonò nell'atrio.
Kyle si
guardò intorno perplesso. Non mancava qualcosa? Dopo un
altro paio
di occhiate registrò l'assenza della parete divisoria tra
ingresso e
salone. Sembrava che fosse... crollata? Si raddrizzò gli
occhiali
sul naso, al colmo della perplessità.
Ian aveva accennato ad un'
"accesa lite di Stark con uno dei suoi colleghi", e si
chiese se quella fosse una delle conseguenze. In verità,
preferiva
non saperlo. Bastava Ian ad essere trascinato qua e là negli
affari
dello SHIELD contro la sua volontà e gli lasciava volentieri
l'onore
e l'onere di conoscere le informazioni extra al riguardo.
S'inoltrò
un poco nell'atrio, trovandolo in un certo senso più vuoto
del
solito. Non entrava lì dentro da più di un mese:
dopo il
tentato suicidio aveva preferito lasciare a Tony un po' di respiro.
Capiva fin troppo bene quello che stava passando il suo cliente
– e
compagno di sventure, in un certo senso – ed era
più che
consapevole che presentarsi a casa sua non invitato non sarebbe stato
saggio, fino a qualche settimana fa. Certi eventi andavano
metabolizzati in solitudine.
Adesso però si era convinto che
fosse il momento giusto per fargli visita, soprattutto dopo averlo
visto così pacato al processo. E anche per lo strano
silenzio di
Virginia, praticamente sparita sia dai suoi radar che da quelli di
Ian. Il medico gli aveva suggerito di non immischiarsi –
"sono
adulti, idioti e vaccinati: lascia fare a loro" era stato il suo
unico, burbero commento in proposito –, ma Kyle temeva che ci
fosse
stato qualche deleterio confronto dietro le quinte tra i due. E doveva
ammettere che gli sarebbe dispiaciuto che troncassero i rapporti a
quel modo, dopo tutto quello che avevano superato assieme. Non
riusciva a spiegarsi altrimenti l'improvvisa irreperibilità
della
donna, quando
fino a un paio di settimane prima sembrava accogliere di buon grado i
suoi aggiornamenti sulla salute e le beghe legali di
Tony.
Quest'ultimo, d'altro canto, era abile come sempre nel
nascondere il suo reale stato d'animo; in quel breve periodo di
conoscenza aveva imparato che non poteva fidarsi dell'apparente
imperturbabilità del miliardario. Vederlo così
sereno al processo
poteva voler dire tutto e niente e il suo atteggiamento da sbruffone
poteva nascondere ben più cupi pensieri, anche se il
giudizio
positivo di Ian sulla faccenda lo faceva ben sperare. Sperava di
trovare conferma dell'anomalo ottimismo del suo medico.
Stava
giusto chiedendosi come mai Stark non si facesse vivo, quando il
campanello dell'ascensore trillò. Voltò la sedia
a rotelle in
quella direzione, chiedendosi in che stato avrebbe trovato il suo
imprevedibile assistito. A uscire dall'ascensore fu invece una
donna sconosciuta che lo trapassò subito con gli occhi di un
gelido
verde-azzurro. I capelli erano lunghi alle spalle, di un rosso cupo, e
aveva
un'espressione ombrosa che gli fece squillare un campanello d'allarme
in testa. Non riuscì a nascondere del tutto l'espressione
circospetta che gli affiorò in volto nel guardarla.
«Lei deve
essere l'avvocato del signor Stark,» esordì lei
con voce misurata
ma cordiale, tendendogli la mano.
«Kyle Andrews, piacere,
signorina...?»
«Nathalie Rushman. Sono la fisioterapista del suo
cliente,» si presentò, con un sorriso che non
raggiunse gli
occhi.
Kyle sorrise appena di rimando, tendendole la mano e
venendo ricambiato con una stretta molto più salda di quella
che si
aspettava. Ian era stato stranamente reticente sui dettagli
riguardanti la riabilitazione di Tony e l'avvocato sospettava una
nuova intromissione dello SHIELD. Non aveva intenzione di
approfondire la cosa, ma aveva la netta impressione che la signorina
"Rushman" non fosse esattamente una fisioterapista. Però
aveva apprezzato l'assenza di commenti e sguardi di compassione nel
vederlo: era abituato a venir squadrato dall'alto in basso in vari
modi egualmente fastidiosi, ma ciò non lo rendeva
più
sopportabile.
«Spero di non disturbare,» buttò
lì Kyle,
rompendo il silenzio un po' teso che si era venuto a creare.
«No,
assolutamente. Anzi, ha avuto un ottimo
tempismo,» rispose
lei, gli parve quasi con sollievo.
«Immagino. Stark non è
esattamente la persona più semplice da gestire,»
aggiunse con viva
comprensione.
Lei sembrò voler concordare per un secondo, poi il
suo volto tornò neutro:
«Diciamo che sa essere impegnativo. Sarò
da voi tra poco,» si congedò infine con un cenno
del capo,
avviandosi verso la cucina.
Kyle ammirò la sua compostezza,
sebbene forzata: Stark era davvero in grado far perdere le staffe a
chiunque.
Si risolse ad entrare in ascensore e solo allora si
accorse delle vibrazioni che aumentavano man mano che scendeva nel
seminterrato. L'ascensore si fermò e non appena si schiusero
le
porte l'avvocato fu quasi sbalzato via dalla musica che si
sprigionava a volume assordante dall'impianto stereo della palestra.
Dopo qualche secondo riconobbe le note di un qualche singolo degli
AC/DC oltre il muro di bassi frastornanti. Adesso capiva la fretta
di Nathalie nell'uscire di lì...
Si avvicinò con cautela,
individuando finalmente l'artefice di tutto quello scompiglio. Tony,
ancora ignaro della sua presenza, era impegnato a camminare, o almeno
a provarci, sorreggendosi a due sbarre di metallo parallele per non
cadere. Kyle si bloccò, meravigliato da quello spettacolo
insolito e
dimentico dei fragorosi accordi di chitarra in sottofondo.
Tony
forzò un passo stentato con la gamba meccanica, che
reagì con
rigidezza, fornendogli però un appoggio abbastanza solido
per
rimanere in equilibrio. Kyle lo vide contrarre il volto sudato per lo
sforzo, mentre cercava di non cedere: mancavano due passi alla fine
delle sbarre. Le sue nocche sbiancarono e le braccia ebbero un
fremito che riuscì però a controllare. Mosse di
nuovo la protesi e
stavolta riuscì a piegare meglio il ginocchio, anche se il
piede
rimase immobile. Concluse l'ultimo passo sbilenco e si
lasciò
sfuggire un rumoroso sospiro di soddisfazione e stanchezza,
inclinando il busto in avanti; continuò a sostenersi alle
sbarre e
rimase in piedi, nonostante le sue braccia tremassero
visibilmente.
Fu solo a quel punto che voltò appena la testa,
mettendo a fuoco Kyle, che sorrise di rimando. Sbarrò appena
l'unico occhio, spiazzato e
probabilmente imbarazzato per non essersi accorto di lui.
Schioccò
le dita e la musica scemò, diventando appena udibile.
«K! Da
quanto...» dovette interrompersi, troppo affannato per
parlare, e
ripiegò su un generico cenno di saluto con la mano.
Fu scosso da
un fremito e stavolta si lasciò scivolare a terra, vinto
dalla
spossatezza.
«Sono appena arrivato. Non volevo interromperti,»
rispose l'avvocato, sempre sorridendo.
Tony si limitò ad annuire,
ancora intento a riprendere fiato a grosse boccate. Aveva fatto appena
dieci passi e
si sentiva come se avesse corso una maratona. Si strinse la gamba nel
punto di congiunizione tra carne e metallo e poggiò la
fronte contro
il ginocchio freddo: non ricordava l'ultima volta che
gli aveva fatto così male. Anche il moncherino del braccio
era
provato per lo sforzo di sostenerlo e lo sentiva pulsare, a malapena
attenuato dagli antidolorifici. Eppure voleva ricominciare da
capo. Voleva rimettersi in piedi adesso, voltarsi e camminare di
nuovo fino all'altra estremità delle sbarre. E poi di nuovo,
e di
nuovo, finché non fosse riuscito a camminare davvero.
Si accorse
di sorridere e alzò la testa, incontrando lo sguardo
preoccupato di
Kyle.
«Tutto bene, Stark?»
Tony annuì di nuovo e deglutì a
fatica, sentendosi la gola secca.
«Devo ancora abituarmi. È solo
la terza volta che ci provo,» si schermì,
allungandosi per prendere
la borraccia di clorofilla, che bevve con più gusto del
solito per la
gran sete.
Non sentì arrivare risposta e quasi si strozzò
nel
realizzare la situazione. Si voltò a guardarlo con
espressione
colpevole: Kyle se ne stava seduto,
ovviamente, con aria tranquilla,
ma era sicuro che dentro di sé si stava chiedendo
perché Tony
Stark, egoista e megalomane ingrato con tendenza suicide, fosse in
grado di scorrazzare qua e là mentre lui era costretto a
guardarlo
da una maledetta sedia a rotelle. Sentì la stretta del senso
di
colpa, che ultimamente gli stava diventando un po' troppo
familiare. Da quant'era che non lavorava ai progetti per Kyle? O
meglio, da quanto non ci pensava?
«Senti, K, in realtà le
protesi non funzionano così bene come
sembra e... insomma,
non mi ero reso conto che...» stava per rimettersi in piedi,
ma ci
ripensò: magari era meglio rimanere lì per terra?
Perse il filo
del discorso.
Il giovane lo fissò stranito, non aspettandosi
quella reazione sconclusionata, poi un lampo di comprensione
balenò
sul suo volto, che si rabbuiò repentinamente.
«Stark, qualunque
cosa tu stia per dire, non dirla,» lo anticipò in
tono duro, ma
Tony non riuscì a trattenersi:
«Non è giusto, lo so, e capisco che tu
sia arrabbiato, ma...»
«Credevo che avessi un'opinione più alta
di me,» lo interruppe Kyle, risentito.
Tony batté le ciglia,
interdetto. Kyle si avvicinò a lui con un sospiro, lo
affiancò e
gli offrì una mano, sporgendosi dalla sedia a rotelle.
L'altro fissò
incredulo il suo palmo teso, incerto su come reagire, al che Kyle la
lasciò ricadere,
alzando platealmente gli occhi al cielo.
«Pensi seriamente
che metterò il broncio perché "tu puoi camminare
e
io no?"» impose
alla sua voce una cadenza ironicamente lagnosa, come di un bambino
che canzonasse qualcuno. «Per fortuna non sono
così
irritabile, o
dovrei prendermela col mondo intero,» sbottò
infine, e lasciò
trapelare tutta la sua irritazione nonostante sul volto fosse ancora
dipinta
un'espressione giocosa.
«Ne avresti tutto il diritto. Di
prendertela con me, intendo,» replicò Tony,
abbassando lo sguardo e
restio ad abbandonare il suo senso di colpa.
A quel punto Kyle
diventò paonazzo, come sempre quando perdeva la calma.
«Io ti ho
chiesto di fare qualcosa che tutti ritengono impossibile. Ho passato
una vita a sentirmi dire che non avrei mai più potuto
camminare,»
esclamò accalorandosi. «E adesso, proprio adesso,
tu ci stai
riuscendo! Stai provando al mondo che non è
impossibile!» si
aprì in un ampio sorriso spontaneo che lasciò
Tony a fissarlo con
aria stolida, allo stesso tempo colpito da quell'inaspettata
veemenza. «I tuoi successi saranno i miei
successi.
Io sto dalla tua
parte, Stark.» concluse con fermezza, e gli
tese di
nuovo la mano con fare perentorio.
Tony esitò ancora un istante
prima di accettarla.
«E io dalla tua,» replicò a bassa voce,
concedendosi un accenno di sorriso.
Si issò in piedi,
appoggiandosi un po' a Kyle e un po' alla sbarra e ritrovando un
equilibrio precario. Non si azzardò a lasciare il suo
sostegno,
sentendo la gamba ancora troppo provata per reggere il suo
peso.
Guardò di sottecchi Kyle. Non c'era traccia di
falsità sul
suo volto spigliato, con gli occhi animati dalla loro consueta luce
limpida e vivace. Ripensò alla prima volta che l'aveva
visto:
anche allora si era chiesto da dove potesse provenire quella sua
tenace allegria, in un corpo tanto fragile e ostile verso il suo
proprietario. Sentì la propria ammirazione per quel ragazzo
crescere
ancora, insieme a un pizzico di fiducia in più nei suoi
confronti.
Avrebbe potuto continuare a difenderlo per puro
tornaconto personale, invece si spingeva al punto da incoraggiarlo e
spronarlo con convinzione, ignorando il fatto che lui riuscisse
sempre a deludere tutti. Forse un tempo anche Kyle era stato prima
furioso e poi scoraggiato come lui, si trovò a pensare. Non
poteva
saperlo: non gliel'aveva mai chiesto. Era sempre troppo concentrato
su se stesso per pensare agli altri, realizzò con
amarezza.
«Comunque dovrei esserti grato per fare da cavia a una
tecnologia sconosciuta,» sogghignò Kyle, per
stemperare quel
momento un po' troppo serio e intenso per i suoi gusti.
Tony si
limitò a sorridere fingendosi divertito, chiedendosi se
fosse il
caso di informarlo dell'intossicazione da palladio. Magari non
l'avrebbe riguardato, se fossero riusciti a realizzare il progetto
del micro-reattore spinale. Dopotutto, a lui stava dando problemi
principalmente il reattore cardiaco, un congegno con evidenti limiti
e difetti strutturali ormai inalterabili. Gli effetti collaterali dei
microreattori erano in realtà minimi.
Fissò il volto speranzoso
di Kyle e tacque: non voleva lanciare un'ombra così cupa sul
suo
futuro.
«Direi di fare una pausa, prima che la "cavia"
abbia un collasso,» decise, zoppicando verso la sua solita
panca e
sedendovisi quasi di schianto.
Recuperò un cacciavite, saggiando
la tenuta delle viti sulla protesi inferiore e stringendone un paio.
Notò lo
sguardo incuriosito di Kyle.
«È ancora in fase di collaudo,»
gli spiegò, sobbalzando nel sentire un scossa lungo i nervi
quando
mosse troppo bruscamente il cacciavite sulla rotula.
«Mi sembra che funzioni
molto meglio di prima,» commentò Kyle, alzando le
spalle ad
ammettere la propria ignoranza in materia.
«Potrei elencarti nel
dettaglio tutte le modifiche che ho apportato nell'ultimo mese e
mezzo, ma penso che finiresti col farmi causa per molestie.»
«Mi
accontenterò di osservare i risultati.»
«Anche la fisioterapia
ha fatto la sua parte,» aggiunse Tony, con impensabile
modestia.
«Non stento a crederlo. La tua fisioterapista mi è
sembrata molto... autoritaria,» commentò Kyle,
alla vana ricerca di
un termine neutro.
«Oh, quindi hai incrociato Nataša,»
s'illuminò Tony, imprecando poi contro un falso contatto.
«Intendi
Nathalie?»
«Nathalie, Nataša, Nat...»
sbuffò
lui. «Che ne pensi di
lei?» aggiunse, con un sorrisetto malizioso.
«In che senso?»
«In
quel senso, K.»
Kyle arrossì un poco.
«Diciamo che
non è esattamente il
mio tipo.»
Tony smise di accanirsi su una
giuntura del ginocchio e lo fissò sbigottito, come se avesse
affermato che la terra era piatta.
«K, la bellezza è oggettiva,
non deve rispecchiare per forza i tuoi gusti
sess–...»
«Non
starei con nessuno che mi guarda come se volesse
uccidermi,»
lo interruppe lui, incrociando con decisione le braccia.
Lui
meditò per qualche momento su quell'informazione, per poi
alzare le
spalle con fare rassegnato.
«Quello è un grosso punto a
suo sfavore, ma ho un debole per le rosse,» ammise
sovrappensiero.
«Lo so,» commentò Kyle, sorridendo
candidamente sotto i baffi.
Solo
allora Tony si voltò a guardarlo di scatto con un moto di
panico,
realizzando le implicazioni di ciò che aveva appena
affermato. Kyle
si limitò a fissarlo sornione, mentre lui
metteva a
soqquadro il cervello alla disperata ricerca di una replica sagace,
ma il suo server dell'umorismo sembrava momentaneamente offline.
Si
sentì in quel momento il sibilo dell'ascensore in movimento,
seguito
dalle porte che si aprivano, suoni che Tony accolse come una salvezza
provvidenziale per trarlo d'impaccio, attaccando a parlare a raffica
di tutt'altro:
«Ehi, arriva Nataša! Tienti per te i tuoi pareri
su di lei o ti ammazza veramente. Sono serio. L'ho vista atterrare il
fossile a stelle e strisce per un commento sui suoi capelli.»
«Il
fossile a cosa?»
«Bel soprannome, eh? Lui preferisce il titolo
di "Primo Vendicatore",» Tony mimò delle esagerate
virgolette con le dita, «ma rimane un vecchio attempato in
calzamaglia che lancia un frisbee col mio marchio
sopra.»
Aveva
gradualmente e incautamente alzato la voce, mentre Nataša si
avvicinava accigliandosi per aver colto uno stralcio della loro
discussione: Tony aveva sottovalutato il suo udito superiore alla
norma.
«Non sono sicuro di voler
o poter
sapere
queste...»
cercò di frenarlo Kyle.
«Macché, tutti sanno di Capitan
Ghiacciolo e della sua inutilità, almeno una volta a
missione
rischiava di farmi ammazzare col suo ...»
«Stark.»
«Ehi,
Nataša!» si girò verso di lei senza
cogliere appieno il livore del
suo volto, che aumentò nel sentirsi chiamare col suo vero
nome.
Tony
continuò a parlare con aria gioviale:
«Digli di quella volta che
hai battuto Mr. Muscolo con...»
«Stark!»
«Cosa,
dolcezza?»
«L'espressione "copertura" ti dice nulla?»
sibilò avvicinandosi a passo di carica, adesso incurante di
mantenere un contegno dinanzi a Kyle; lui in tutta risposta
cercò di
apparire il più indifferente possibile e fece retromarcia di
un
metro buono.
«Nah, non mi dona; infatti la mia è durata molto
poco e... ehi! Ehi! Mollami!»
Nataša lo afferrò per il
colletto, sbilanciandolo dalla panca. «Così
è sleale, sono quasi
invalido e senza armatura, non puoi...» si ritrovò
per terra a
gambe all'aria, stordito e sorpreso come sempre dalla sua forza.
«Non
vedo l'ora che tu ti regga sulle tue gambe, Stark, così
potremo
cominciare anche le sessioni di allenamento vere,»
indicò il
ring con fare minaccioso, ma con un sottotono divertito che non gli
sfuggì.
«Quando vuoi, è sempre un piacere fare a botte con
te,»
replicò Tony con un sorrisetto sfacciato, forte del fatto
che almeno
per il momento era intoccabile in quanto atterrato.
«Sono sicura che l'Agente Barton
sarebbe molto felice di saperlo.»
Il sorriso si eclissò
dal volto di Tony. Gli mancava solo una freccia infilzata da qualche
parte...
«Poi dovrete spiegarmi il motivo di tutta questa
segretezza.» bofonchiò, rimettendosi a sedere e
lanciando
un'occhiata esasperata a Kyle, che in tutto ciò si stava
impegnando a
fingere di non esistere.
«Si chiamano protocolli, Stark. Quelli
che tu non segui mai.»
Tony non trovò di che ribattere e
anche Nataša sembrò aver concluso la sua
ramanzina.
«Bene. A
quanto pare io devo tornare alla base, mi hanno appena convocata
d'urgenza; starò via per qualche giorno... per faccende che non
ti competono,» si affrettò a specificare, prima
che il collega
potesse tempestarla di domande.
«Se è un'emergenza, dovrebbe
competermi,» precisò lui, imperterrito, tirandosi
su a sedere.
«Non nelle tue
condizioni.»
«Ehi, io sono prima di tutto un consulente, non ho
bisogno delle gambe per...»
«Tu per ora sei sul libro
nero di Fury,» gli ricordò Nataša,
costringendolo a tacere.
«Limitati ad essere "il Meccanico", almeno per ora... e
cerca di non combinare troppi disastri,» sospirò
in tono più
gentile, stringendogli brevemente il braccio sano a mo' di congedo.
Tony
fece un gesto esasperato con la mano, ma annuì e non
protestò
oltre, non nascondendo però la sua delusione per l'essere
messo
ancora una volta in disparte.
Nataša fece un breve cenno di
saluto a Kyle che somigliava molto a un "ti tengo d'occhio".
«Tu
non sai niente,» gli intimò.
«Sissignora,» rispose lui
docilmente con un'alzata di spalle, mentre la donna usciva in tutta
fretta senza voltarsi indietro.
Tony si grattò la testa,
perplesso per la piega improvvisa degli eventi.
«Pare che la mia
fisioterapista sia troppo impegnata per occuparsi di me,»
osservò
infine, girandosi verso Kyle con rassegnazione.
Lui sbuffò
appena, con un mezzo sorriso incoraggiante.
«Ho un paio d'ore da
sprecare prima di tornare ad occuparmi del tuo
caso.»
«Prepara i
popcorn.»
***
19
Maggio, Villa Stark, 21:00
Non
ricordava l'ultima volta che si era impegnato così tanto in
qualcosa. Ovviamente costruire le protesi gli aveva richiesto
un'attenzione costante che aveva riempito totalmente la sua vita
negli ultimi quattro mesi, ma era comunque qualcosa che era abituato
a fare. Anche in passato gli era capitato di spendere giorni interi
in laboratorio, immerso in qualche progetto particolarmente
complesso. Era cresciuto tra macchinari e apparecchiature
elettroniche: quello era il suo mondo, fatto di robot, computer e
dispositivi futuristici che curava e perfezionava con
dedizione.
Questo, invece...
Tony trattenne bruscamente il
fiato nel poggiare il piede, ma riuscì a non sbilanciarsi in
avanti
e si artigliò alle sbarre di sostegno. Questo era molto
più
difficile di qualunque progetto su cui avesse mai lavorato,
principalmente perché sentiva di non poter evitare in alcun
modo i
problemi che gli si paravano davanti. Quella era sempre stata la sua
mentalità: se non puoi risolvere un problema, aggiralo.
Aveva sempre
funzionato, anche nella fase di costruzione delle protesi. Per quanto
insormontabili gli fossero sembrati gli ostacoli tecnici in cui si
era imbattuto, era sempre stato consapevole di essere in grado di
superarli grazie al suo ingegno e a un po' di furbizia.
In quel
caso il limite era il suo corpo e quegli ostacoli potevano solo
essere abbattuti, a suon di tentativi, perseveranza e forza di
volontà, oltre a un considerevole quantitativo di lividi.
Fece un altro passo, spingendo con la gamba meccanica.
Gli sembrava un po' più stabile, o forse era solo il
moncherino che
si era intorpidito. Si sentiva bruciare i muscoli superstiti e aveva
già dovuto contenere un paio di crampi. Nataša lo
aveva
avvertito di non forzare le cose e di prendersi il riposo necessario
ma lui, nonostante le proteste del suo corpo, sentiva di poter
continuare all'infinito. Sapeva che in fondo era solo un'illusione e
che il mattino dopo si sarebbe risvegliato con dolori più
atroci del
solito, ma la sensazione elettrizzante di essere finalmente in piedi
sulle proprie gambe lo inebriava, ed era disposto a pagare le
conseguenze della sua testardaggine.
La sua concentrazione fu
spezzata da un sibilo preoccupante proveniente da uno dei raccordi
del ginocchio. Si affrettò a saltellare sulla gamba buona
per
raggiungere la panca. Valutò le condizioni della protesi,
innaturalmente calda al tatto; intravedeva addirittura un sottile
filo di vapore che scaturiva dal ginocchio. Assottigliò le
labbra,
contrariato.
Aumentare la capacità conduttiva dei nervi causava
un surriscaldamento eccessivo e di quel passo l'articolazione si
sarebbe usurata troppo rapidamente. A breve avrebbe dovuto
interrompere nuovamente la fisioterapia per sostituire le
articolazioni: non poteva rischiare di danneggiare irreparabilmente
la protesi. Sospirò con rassegnazione, contraendo la
mascella:
quel continuo tira-e-molla lo esasperava.
«JARVIS, scannerizza i
miei ultimi appunti ed elabora un modello digitale di quelle capsule
in unobtanium. Tienilo pronto per domattina,»
ordinò.
Seguì un
segnale acustico affermativo da parte del computer che
echeggiò
nella sala deserta.
Kyle se n'era andato verso sera dopo aver
pazientemente assistito ai suoi esercizi, facendogli addirittura il
tifo ed alleviandone il peso; nelle pause si erano ritrovati a
parlare del più e del meno, senza riferimenti a processi,
protesi e
agli eventi passati. Ciò l'aveva sollevato: si era sentito
più
loquace del solito e aveva accettato di buon grado la sua compagnia.
Si era persino arrischiato a chiedere informazioni su Pepper, ma la
risposta era stata estremamente vaga e Kyle aveva subito sviato
l'argomento, così aveva rinunciato senza rammaricarsene
troppo.
Avrebbe avuto modo di far fronte anche a quel problema, prima o poi.
Non poteva distrarsi proprio adesso che era così vicino alla
prima
tappa del suo percorso.
In compenso aveva ricevuto un resoconto
dettagliato dei trascorsi amorosi dell'avvocato, trovandosi per la
prima volta a corto di consigli in quel campo, a parte evitare come
la peste camicie hawaiane e cravatte rosa shocking. Kyle sembrava
aver trovato il suo imbarazzo molto divertente e si erano congedati
su una nota scherzosa, nonostante l'avvocato gli avesse
indirettamente ricordato di prepararsi al processo. Tony aveva
risposto con un falsissimo sorriso rassicurante, cosciente che non si
era avvicinato neanche per sbaglio alle scartoffie che Kyle gli aveva
diligentemente lasciato da studiare settimane prima.
Happy, passato a prendere Kyle, si era trattenuto brevemente per
salutare, e nel solito fare burbero del suo autista Tony aveva colto
una nota quasi commossa, unita alla promessa di un futuro incontro sul
ring. Tony sperava con tutto il cuore che sarebbe arrivato presto.
***
Si era
fatto buio da un pezzo, e le vetrate lasciavano intravedere solo le
luci soffuse
dei lampioni in giardino. Doveva essere molto tardi, ma non avrebbe
saputo dire quanto.
Tony revisionò rapidamente la protesi, adesso
più fredda, concludendo che era in grado di reggere almeno
un altro
paio di
passeggiate zoppicanti. Poi, a nanna. Non poteva pretendere troppo
dal suo corpo, o si sarebbe trovato di nuovo immobilizzato a letto.
Fece leva sulle stampelle e si alzò un po'sbilenco,
accigliandosi
per quella prospettiva poco entusiasmante.
Riprese posizione alle
sbarre, poggiandovi il proprio peso, e saggiò la
stabilità delle sue
gambe. Si preparò mentalmente ai dieci o quindici minuti che
gli
avrebbero richiesto quei pochi passi, poi si umettò le
labbra,
ignorando la stanchezza e concentrando le proprie energie sull'esatta
sequenza di movimenti che avrebbe dovuto svolgere. Scaricò
il peso
anche sulla protesi e dopo qualche secondo di oscillazioni
trovò un
punto di equilibrio.
Si arrischiò a lasciare la presa dal suo
sostegno, pronto a riafferrarlo, e con suo enorme stupore
riuscì a
rimanere in piedi per più di qualche secondo, sebbene con
sforzo.
Raddrizzò la schiena e la gamba meccanica tremò
leggermente, così
divaricò leggermente le piante dei piedi per ammortizzare
meglio la
vibrazione. Rimase immobile a lungo, testando la resistenza della
protesi e del proprio corpo. Perse lentamente la percezione del
moncherino, della pressione sulla piaga, della pesantezza e
rigidità
innaturali della gamba. Gli sembrava di non avere alcuna protesi: era
una strana sensazione, ma in un certo senso rassicurante.
Ebbe un
inatteso tuffo al cuore nel realizzare che era finalmente in
piedi.
Sentì un fiotto di calore infiammargli il petto,
improvvisamente conscio di quel che stava accadendo e la testa gli si
fece leggera, confusa dal rimescolarsi di mille sensazioni; il suo
volto non sapeva che espressione assumere e rimase vacuo per qualche
istante, prima di aprirsi in un sorriso incredulo e poi in una risata
liberatoria. Non si era mai immaginato di poter essere così
felice
per un gesto così semplice.
Si trovò a desiderare che ci fosse
qualcuno lì a guardarlo, ad assistere al suo successo, alla
conquista a cui aveva aspirato per tutti quei mesi. Il suo sguardo
spaziò sulla palestra vuota e sentì la sua
euforia smorzarsi un
poco, sapendo in cuor suo chi avrebbe voluto avere al suo fianco in
quel momento. Gli rimase comunque un'espressione soddisfatta stampata
in faccia, nella segreta speranza che, forse, il giorno in cui
Pepper avrebbe potuto vederlo in piedi sarebbe arrivato prima del
previsto.
"Forse
anche adesso..."
All'improvviso venne folgorato da un'idea
molto sciocca, ma anche molto allettante.
«Ehi, JARVIS,» chiamò
piano, timoroso di rompere il suo fragile equilibrio, e si
stupì nel
sentire il tremore emozionato nella sua voce. «Immortala il
momento.»
«Vuole rendere noti al mondo i suoi progressi,
signore?» chiese lui, con una curiosità insolita
anche per un
super-computer.
«Ancora no... per ora mi limito a spedire una
cartolina allo SHIELD,» replicò lui, con sicurezza.
Uno schermo-specchio olografico si materializzò davanti a
lui.
Tony
osservò il suo riflesso e per la prima volta dal momento
dell'incidente non provò rabbia o sconforto o rassegnazione
nel
vedersi. Era semplicemente lui,
stanco dopo una giornata di lavoro, coi capelli un po' arruffati e la
solita aria impertinente, ben saldo sulle sue gambe. La canotta scura
faceva risaltare la familiare, rassicurante luce azzurrina del
reattore arc. Quell'immagine gli appariva naturale. E il nero gli
donava, concluse in un guizzo d'amara autoironia, contemplando il
rivestimento opaco delle protesi fin troppo evidenti. Si
coprì esitante lo sfregio
in volto con la mano, seguendo i movimenti del suo gemello
olografico. Fece una smorfia dubbiosa e scoprì la ferita,
per poi
ripensarci, osservando l'effetto; si risolse a rimettersi la benda.
«Quando vuoi, JARVIS, non ho tutto il giorno,» lo
spronò
con uno schiocco di dita; iniziava a percepire una stanchezza
tangibile, ma si sentiva proprio in vena di una delle sue trovate
stravaganti e imprevedibili.
Un countdown di tre secondi lampeggiò
sull'ologramma mentre il computer aggiustava la messa a fuoco, pronto
a scattare.
Tony si mise in posa e sollevò entrambe le mani,
sfoggiando due segni di vittoria e un sorriso da spaccone.
_________________________________________________________________________________________
Note Dell'Autrice:
Buonsalve, gente!
Torno prima del previsto ad aggiornare, principalmente perché la stesura procede bene e perché, lo ammetto, un po' smaniavo per pubblicare questo capitolo.
Considero questo capitolo una conquista sia per Tony, che Alleluja è finalmente in piedi, sia per la storia, che finalmente arriva al punto di svolta agognato sin dall'inizio della stesura. Scriverlo mi ha messo allegria e spero che possa trasmetterla anche a chi legge :)
Come è evidente, mi sono votata nuovamente alle parti tecniche, stavolta con l'appoggio di un Consulente che mi ha aiutato (e impedito) di scrivere troppe stronzate riguardo ai reattori. Rimane comunque pseudo-scienza, ma manterrà una sua logica nel corso della storia.
A parte ciò, ho finalmente voluto dedicare un po' di spazio a Kyle, che era stato messo abbastanza da parte negli ultimi capitoli. Spero di essere riuscita a renderlo un po' più "vivo" come personaggio, insomma. Vi rallegro anche con una chicca su di lui, ovvero il disegno a fine note, realizzato da una mia (all'epoca) compagna di classe, che un tempo aveva un account qui come Biatheginger (che a quanto pare ha eliminato, ma mi sembra giusto creditarla).
Detto ciò, sommergo come sempre di ringraziamenti la carissima _Atlas_, supporter nr.1 di questa storia e sua assidua commentatrice <3
E grazie a chiunque leggerà e/o recensirà!
Spero di riuscire ad aggiornare prima dell'uscita di Infinity War (la butto là: probabilmente sarà il giorno prima), visto che la stesura dei restanti capitoli procede abbastanza bene :D
Hasta la vista,
-Light-
P.S. L'arrivo di Eye Of The Tiger come colonna sonora di un capitolo era un pelino prevedibile e scontato, ma non ho resistito :P
P.P.S. E parlando di cose prevedibili, anche il titolo del prossimo capitolo lo è, credo...
© Biatheginger
© Marvel
|
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Capitolo 35 *** Stay foolish ***
34
Stay
foolish
"I
think I found my
place
Can't you feel it growing stronger?
Little
conquerors
Learning to walk again
I believe I've waited long
enough
Where do I begin?"
[Walk
– Foo Fighters]
24
Maggio, Villa Stark
«Non
mi sembra una grande idea,» constatò ancora Tony,
fissando dubbioso
Nataša, al che lei alzò entrambe le sopracciglia.
«Ma come, non
eri tu a dire sempre che a volte "bisogna correre prima di saper
camminare"?» lo punzecchiò, facendogli poi cenno
di
muoversi.
«Era un'espressione metaforica. E mi sono
ravveduto,» borbottò lui, ancora più
riluttante a lasciare
l'appoggio delle stampelle.
Nataša sospirò, presa in contropiede
da quel suo atteggiamento stranamente cauto.
«Stark, fino a tre
giorni fa scalpitavi per fare tutto subito, come sempre. Cosa ti ha
fatto cambiare idea?»
Tony esitò, poi inclinò appena la testa
di lato e una smorfia a metà tra il contrito e il perplesso
gli
attraversò il volto.
«I lividi?» tentò infine, poco
convinto.
A quel punto Nataša si sedette di peso sulla panca,
poggiò i gomiti sulle ginocchia a sorreggersi il mento e lo
squadrò
fissamente da capo a piedi. Era in attesa e Tony sapeva che non si
sarebbe schiodata di lì finché non avesse fatto
ciò che doveva. Nel caso specifico camminare, o almeno
provarci.
Voltò la testa a
sfuggire le sue iridi chiare e impassibili. Non era certo la
prospettiva di qualche livido in più a frenarlo. A quelli si
era
abituato, così come al perenne dolore al petto, prima, e
alle
incessanti fitte ai moncherini, poi. A preoccuparlo era qualcosa di
molto meno ovvio e si chiedeva con apprensione se la sua improvvisata
fisioterapista, coi suoi anni di esperienza spionistica, riuscisse a
intuirlo.
Finché aveva tentato quasi per gioco di stare in piedi
o camminare da solo, ben conscio che fosse troppo presto per
riuscirci, non aveva dato peso ai suoi fallimenti e aveva invece
esaltato più del dovuto i suoi successi, per quanto minimi.
Nataša
si era sempre mostrata contraria a quelle bravate, insistendo che
fossero controproducenti, ma voleva credere che anche lei fosse
stupita dai suoi rapidi progressi. Lui stesso se ne meravigliava,
quando fino a pochi mesi prima non riusciva a immaginarsi neanche di
alzarsi da solo dal letto.
Adesso Nataša sembrava ritenerlo
pronto per i primi tentativi "ufficiali". La cosa
avrebbe dovuto entusiasmarlo. Al contrario, era paralizzato di fronte
alla prospettiva di un fallimento stavolta ingiustificabile. Temeva
di scoprire altri difetti in se stesso e nelle protesi, altre
limitazioni alle quali non avrebbe saputo porre rimedio. Era quasi
arrivato al capolinea: le protesi potevano ormai considerarsi
complete. Doveva solo sostituire le vecchie articolazioni con le
nuove, ma sapeva che anche quello non avrebbe migliorato in modo
sostanziale il loro rendimento e le interferenze tra i reattori
imperversavano, seppur in misura minore.
Intuiva con devastante
chiarezza che non avrebbe mai raggiunto il controllo completo dei
propri movimenti. Sentì un nodo alla gola nel dare forma
definitiva
a quel pensiero: non sarebbe mai riuscito a camminare così
bene come
aveva sempre ottimisticamente prospettato. Con tutta
probabilità
sarebbe
rimasto zoppo, e anche ammettendo che fosse un grande miglioramento
rispetto al non avere affatto una gamba, non riusciva a capacitarsi
di non poter fare di meglio.
Non voleva poi soffermarsi sui reali
limiti del braccio, che finora aveva evitato di sperimentare appieno,
ma la quantità di matite spezzate e oggetti rotti non faceva
ben
sperare. Così come il 15% di palladio nel suo corpo.
Aumentò la
stretta sulle stampelle, sentendosi appesantito da quei pensieri e
dalla fatica. A volte lo colpiva prepotente il desiderio di potersi
risvegliare quel giorno di cinque mesi prima per poter compiere scelte
completamente diverse da quelle che lo avevano portato in quella
situazione, non solo per quanto riguardava le protesi.
Lanciò
un'occhiata sfuggente a Nataša chiedendosi se al suo posto
avrebbe
potuto esserci qualcun altro, potendo ricominciare.
Si decise a
chiudere la porta su quei pensieri, prima che gli risucchiassero quel
briciolo di volontà che riusciva ancora a raccimolare ogni
mattina.
Lanciò un'occhiata alla palestra, come a verificare che
non ci fossero altri spettatori, poi lasciò andare i suoi
sostegni, facendoli cadere rumorosamente per terra.
Mantenne l'equilibrio in modo abbastanza naturale: a quello si era
ormai abituato, anche se non poteva ancora permettersi di perdere la
concentrazione. Adesso doveva solo... muoversi.
Sentì un
velo di sudore freddo che gli imperlava la fronte, mentre si sforzava
di trovare la percezione della propria gamba metallica. A quello non
si era ancora abituato.
«Muovi prima la protesi,» gli arrivò la
direttiva di Nataša, più un incoraggiamento che
un vero e proprio
consiglio.
Si era portata al suo fianco, così da poterlo
sostenere in caso di bisogno. Si teneva comunque a una distanza
ragionevole, rispettando quegli spazi ben delimitati dal suo
orgoglio: sarebbe stato tutto molto più semplice se si fosse
fatto
guidare lei, ma c'era un limite alla sua tolleranza per l'aiuto
altrui. L'estrema consapevolezza del suo corpo mutilato lo portava
comunque a schivare attivamente ogni tipo di contatto fisico, anche
se aveva finito per cedere un poco con Nataša.
Inspirò a fondo,
tanto che sentì una leggera costrizione allo sterno,
là dove il
reattore compenetrava la gabbia toracica. Rilassò il petto
alleviando la pressione.
Mosse cautamente il piede meccanico in
avanti cercando di non pensarci troppo e riuscì a
trascinarlo
pesantemente sul pavimento. Vacillò appena per lo
spostamento del
baricentro e dovette allargare le braccia per non cadere.
Nataša lo
sostenne brevemente per una spalla e annuì piano a quel
primo passo,
ma era accigliata:
«Devi provare a sollevarla come faresti con
l'altra. Stai dritto e abbassa le braccia.»
Lui si limitò a fare
un cenno affermativo, troppo assorto per rispondere e sentendosi
incapace di tenere a mente tutte quelle direttive. Si costrinse a
rilassare le braccia lungo i fianchi per non sembrare un funambolo e
trasferì lentamente il peso sulla protesi per tentare di
muovere il
passo successivo. Ci sarebbe stata una frazione di secondo in cui si
sarebbe ritrovato in equilibrio su una gamba sola, prima di poggiare
l'altra. Aveva simulato il movimento più e più
volte,
aveva
fatto valanghe di esercizi per imparare a coordinare le due gambe, ma
adesso gli sembrava di avere non una, ma due estremità
inerti e
insensibili ai suoi ordini.
"Salta prima di guardare,"
gli balenò in testa, e così fece, muovendo il
passo con
sicurezza.
La protesi cedette di schianto e si ritrovò carponi col
volto a un
soffio da terra; aveva avuto la prontezza di parare avanti almeno il
braccio sano. Si prese qualche istante per assicurarsi di essere
ancora tutto intero, ma a parte il palmo un po' arrossato e delle
fitte più acute del normale ai moncherini non sembrava aver
subito
altri danni. Fortunatamente aveva avuto l'accortezza di rinforzare il
rivestimento esterno delle protesi.
Accettò con riluttanza
l'aiuto di Nataša e si rialzò sorreggendosi il
meno possibile a
lei, lasciandola non appena fu sicuro che il suo punto d'appoggio
fosse stabile.
«Ok, quello era per scaldarmi,»
buttò
lì con
disinvoltura, molleggiando lievemente sulle ginocchia per testare la
tenuta delle articolazioni.
Il lampo accecante di dolore che seguì
quel piccolo gesto fu tale che gli si appannò la vista e
dovette
simulare uno sbadiglio per mascherare l'espressione sofferente e le
lacrime.
Nataša inarcò un sopracciglio ma non
commentò, probabilmente per
non demolire la sua ritrovata buona volontà.
Tony ci riprovò,
stavolta dosando con la massima attenzione i propri movimenti.
Riuscì
ad alzare appena il piede meccanico da terra e a riappoggiarlo senza
sbilanciarsi; allargò di nuovo le braccia per mantenere
l'equilibrio, sentendo un lieve fremito risalire lungo la sua gamba.
Spostò avanti e indietro il suo peso, senza decidersi a fare
leva
sulla protesi per muovere il passo successivo. Si umettò le
labbra secche, esitando ancora: in effetti non aveva così
voglia di
rimediarsi altri lividi, né di cadere ancora dando prova
della
propria incapacità.
"Cosa potrà mai succedere? Al massimo mi
rompo l'altra gamba," s'incoraggiò infine tetramente.
Smise
di guardare per terra e puntò lo sguardo su un punto
indefinito di
fronte a sé. Aveva ancora la percezione del suo appoggio; il
pavimento era freddo sotto la pianta del piede nudo, e si convinse di
poterlo sentire anche con quella artificiale. In qualche modo lo
aiutò a focalizzare meglio la sua posizione. Per una
frazione di
secondo ebbe la percezione di se stesso avvolto nell'armatura,
sollevato da
terra dai propulsori. Tutto ciò era davvero tanto diverso
rispetto
ai suoi primi, goffi tentativi di volo? Sentì un pizzicore
in fondo
allo stomaco al pensiero e gli parve che qualcosa lo sospingesse in
avanti con leggera fermezza.
Seguì l'impulso e mosse la seconda
falcata, un po' bruscamente per paura di cadere di nuovo. Lo slancio
fu troppo potente e fu costretto a compensare con un altro passo
affrettato della protesi, che si abbatté rumorosamente a
terra; si
ritrovò a incespicare in avanti senza più
riuscire a frenarsi.
Inarcò
la schiena all'indietro tentando di recuperare l'equilibrio e
finì
per atterrare a peso morto e ben poco dignitosamente sul sedere. Si
tastò l'osso
sacro dolorante, sforzandosi di non lasciarsi sfuggire neanche un
lamento, concludendo che era meglio finire culo a terra in privato,
piuttosto che in diretta come un paio di mesi prima.
Si lanciò
un'occhiata circospetta alle spalle, dove Nataša lo
osservava
impassibile.
«Ehi, quelli valevano come cinque passi, no?» le
chiese, con un ghigno tronfio.
Lei scosse la testa mentre si
avvicinava, tradendo un accenno di sorriso.
«Più o meno,» si
limitò a rispondere, offrendogli entrambe le mani e
aiutandolo
nuovamente ad
alzarsi.
«Sto iniziando a capire,» affermò lui in
tono
saputo, piantandosi di nuovo saldamente sui suoi piedi come
rinvigorito dalla caduta. «Dammi tre giorni e ti concedo quel
match
sul ring.» la sfidò poi con impertinenza.
Lei alzò gli occhi al
cielo, ignorando le sue solite sbruffonate, ma sembrava lieta che
avesse abbandonato la sua iniziale riottosità. In fin dei
conti
bastava poco per risollevargli l'umore e ancor meno per fomentare il
suo ego.
«JARVIS, metti qualcosa che mi dia la carica; la
playlist di volo della Mark III andrà bene,»
esclamò Tony,
attivando l'impianto stereo con un gesto della mano.
«Stark ti
prego, non ricominciare con quella tua musica infernale o...»
«Casa
mia, mie le regole!» la zittì con una linguaccia
infantile, mentre
la sua voce veniva coperta da un fragoroso accordo di chitarra
elettrica.
Nataša si tappò le orecchie sensibili. Non vedeva
l'ora che quell'incarico finisse, ma scosse la testa con fare
divertito nel vedere Tony che cercava di camminare facendo finta di
suonare una chitarra a mezz'aria.
***
26
Maggio, Villa Stark
«Stark,
concentrati, ci sei riuscito fino a...»
«È il Doc che mi sta
portando sfortuna!»
«È bello trovarla affabile come sempre,
signor Stark.»
«No, davvero, non ero caduto fino ad ora! Non è
una coincidenza!»
Tony sbuffò, rifiutò
l'aiuto di Nataša e si
issò sulla sua solita panca, accaldato e guardando storto
Ian; si
attaccò alla borraccia di clorofilla senza staccargli
l'occhio di
dosso. La donna scambiò un'occhiata esasperata col medico,
che
alzò le spalle, ormai abituato alle esternazioni di
"gratitudine"
del suo paziente preferito.
«Se ne occupa lei per un po'? Ho
davvero bisogno di una pausa,»
sospirò la donna,
sottintendendo un palese "altrimenti lo strozzo".
Era evidentemente sfiancata dopo aver passato gli ultimi tre giorni a
tenere a
bada un irrefrenabile e iperattivo Tony Stark che, tra una crisi di
scoraggiamento e l'altra, sembrava voler compensare tutto l'ozio di
quei mesi nel minor tempo possibile. Ian annuì
comprensivo, osservando Nataša uscire a passo di carica. Era
incredibile come quella donna, che dalle sue enigmatiche telefonate
con Coulson aveva intuito essere parte dello SHIELD, non l'avesse
ancora ucciso.
Il medico si avvicinò con falcate indolenti a
Tony, che si stava premendo una borsa del ghiaccio sulla testa
ammaccata scrutandolo ancora con espressione decisamente diffidente.
«Mi
sembra che la sua riabilitazione stia andando bene,»
commentò Ian,
mettendosi le mani in tasca e attirandosi una nuova occhiataccia da
parte sua.
«Fino a dieci minuti fa, sì,»
replicò
acidamente Tony.
Ian si schiarì la gola con fare
irritato:
«Quella non si chiama "sfortuna", ma "ansia
da prestazione".»
A quelle parole Tony sollevò la testa di
scatto, puntandogli contro l'indice:
«Io e un altro centinaio di persone
possiamo
confermarle che non soffro di nulla del genere e che...»
«Stark!
Non era questo che intendevo!» lo
interruppe Ian, diventando
paonazzo e non volendo assolutamente sapere se quella fosse
un'esagerazione o meno.
Tony ammutolì, rendendosi conto di aver
reagito un po' troppo bruscamente e piuttosto a sproposito.
«Mi basta la Everhart a
screditare la mia virilità in prima pagina. Non ci si metta
anche
lei, neanche per scherzo,» replicò infine piccato,
e riprese a
premere il ghiaccio contro il bernoccolo.
Ian mantenne un cauto
silenzio, rendendosi conto di aver toccato involontariamente un nervo
scoperto. Tony notò l'espressione impacciata del medico e si
lasciò
sfuggire un sospiro:
«Tranquillo, Doc, non me la prendo per così
poco. Ho comunque tutte le mie altre "performance" a
smentire le balle di Vanity Fair.» Terminò
la frase con un
sorrisetto sghembo che riportò al cielo gli occhi di Ian, e
ripose la
borsa del ghiaccio accanto a sé. «Comunque,
l'ansia è fatta per
essere superata,» continuò in tono esageratamente
teatrale,
cercando di alzarsi da solo ma rassegnandosi infine ad accettare
l'aiuto di Ian, che gli porse discretamente una mano.
Il medico era già pronto a sostenerlo, ma Tony
rimase saldamente in piedi, così si allontanò di
un passo,
aspettando incuriosito e con moderata aspettativa. Poco prima l'aveva
visto muovere appena un
paio di passi incerti prima che lui notasse la sua presenza e
rovinasse a terra all'istante. Anche solo il fatto di reggersi sulle
sue gambe era un risultato eccezionale, considerando le condizioni
pietose in cui versava fino a un mese prima.
Per ora, Tony continuava a spostare
nervoso il peso da una gamba all'altra, sentendosi troppo osservato.
Fino a
quel momento non si era minimamente posto il problema di come
apparisse ad occhi esterni, ma adesso si sentiva come alla prima di
uno spettacolo poco prima di salire sul palco. O almeno,
pensò che
così dovevano sentirsi gli attori o i musicisti: lui di
panico da
palcoscenico non se ne intendeva, visto che si comportava sempre come
se fosse
sotto i riflettori, con assoluta disinvoltura. Concluse
solo che non era una sensazione piacevole, ma s'impegnò a
tenerla
sotto controllo.
Quella era l'occasione giusta per mostrare a Ian,
sempre così scettico e negativo, che le protesi funzionavano
e,
soprattutto, che non doveva pentirsi di avergliele impiantate. Sapeva
benissimo che il medico era afflitto da molte più
preoccupazioni
riguardo al suo operato di quanto lasciasse trasparire, e voleva
cercare di alleviarne almeno una parte, visti anche i suoi recenti
turbamenti sui quali continuava a mostrarsi estremamente
riservato. Gli scoccò uno sguardo da sopra la spalla, con un
sorriso furbo:
«Stia a guardare. Sta per assistere a qualcosa che
non si vede tutti i giorni,» si vantò, suscitando
un'espressione
dubbiosa sul volto dell'altro.
Tony represse il nervosismo che gli
stava facendo tremare la protesi e ripeté la sequenza che
aveva
ormai imparato a seguire ed applicare: fece un respiro profondo,
trattenne l'aria e mosse il primo passo con la protesi, espirando.
Barcollò appena. Fece lo stesso con l'altra gamba e poi
ancora, e
ancora, a ritmo col proprio respiro. Era un trucco così
elementare che quando Nataša gliel'aveva suggerito era
scoppiato a
ridere, pensando che lo stesse prendendo in giro. Si era dovuto
ricredere ben presto. Non faceva certo miracoli, ma almeno lo aiutava
a cadenzare la camminata, anche se per ora, più che una
camminata,
era una marcetta ridicola e macchinosa. Ma riusciva a muoversi
senza aiuto, e questo fatto da solo lo riempiva di una gioia che non
provava da tempo. Era a malapena in grado di contenere l'entusiasmo
per quei pochi, stentati passi che riusciva a mettere in fila.
Contò
il settimo. Poco prima ne aveva fatti nove e si era messo in testa di
fare
sempre meglio della volta precedente, così
ricacciò indietro il
tremito dei suoi muscoli e si sforzò di non guardarsi i
piedi,
continuando ad avanzare e contare. All'undicesimo passo si
fermò di scatto a corto di fiato, avvertendo un tremito
cedevole nei muscoli; ridistribuì il peso su entrambe
le
gambe per non cadere di schianto e si prese qualche secondo per
metabolizzare il suo successo. Sentiva il moncherino in fiamme, ma
strinse i
denti e si
girò con cautela a guardare Ian che lo fissava con
espressione quasi
scioccata, nonostante cercasse di mantenersi compassato come
sempre.
Tony lasciò trapelare appena la sua euforia, prima di
sorreggersi con le mani sulle ginocchia per poi lasciarsi scivolare
lentamente a terra, nel tentativo di riprendere fiato tra i denti
serrati e di alleviare
il peso sulla ferita. Si sedette di peso e piegò un paio di
volte il ginocchio,
ignorando
le proteste della piaga e il cigolio della protesi. Si accorse
del medico che gli si avvicinava e si accovacciava alla sua altezza,
ma non alzò la testa per nascondergli la sua espressione
ancora
dolorante. A quel punto Ian ebbe qualche secondo di esitazione, per
poi dargli una goffa pacca sulla spalla e stringerla appena, puntando
però lo
sguardo da
tutt'altra parte.
Tony quasi sobbalzò, ma apprezzò il
tentativo. Sapeva che il medico trovava difficile esternare
ciò che
pensava, soprattutto se era qualcosa di positivo: da parte sua quel
gesto impacciato valeva più di mille parole. Si decise ad
alzare il
volto, con la tipica espressione sorniona stampata in faccia a
coprire quella ancora provata dallo sforzo.
«Non è così
difficile, dopotutto,» disse, in tono forzatamente leggero.
Dal
lampo che passò sul volto di Ian era sicuro di dover
ringraziare le
sue condizioni di salute ancora incerte per non aver ricevuto un
pugno in piena faccia. Strinse un poco la presa sulla sua spalla.
«E ci ha messo così tanto a capirlo?» lo
rimproverò laconico, ma in tono pacato, scrutandolo da
dietro le lenti.
Tony sentì la sua
soddisfazione rimpicciolire di fronte a quelle parole accusatorie. Si
scostò i capelli umidi dalla fronte e distolse lo sguardo,
improvvisamente a disagio. Intuiva perfettamente ciò che
intendeva Ian, anche se di solito cercava di non pensare a tutto
ciò
che era successo prima. E soprattutto al tempo
perso. Preferiva concentrarsi sui successi dell'ultimo mese, su
quei progressi incredibili che non avrebbe mai immaginato di poter
compiere in così breve tempo, sia mentalmente che
fisicamente.
Ritrovarsi in piedi era stato un fulmine a ciel sereno, e mentre
sapeva che era in gran parte merito suo, si rendeva conto di dovere
moltissimo anche agli altri. A dirla tutta doveva loro la vita, che
aveva un valore infinitamente più alto di qualche bravata
con le
protesi. La gratitudine non era una sentimento a lui familiare, ma
si era ritrovato a provarlo sempre più spesso in
quell'ultimo
periodo, soprattutto verso l'unica persona che gli mancasse in quel
momento.
«Sarò anche un genio, ma sono un po' lento in
queste
cose,» tentò di sdrammatizzare, per camuffare il
suo turbamento.
Era
fin troppo consapevole che avrebbe dovuto iniziare a mostrarsi
riconoscente molto, molto prima, quando invece gli unici sentimenti
che lo affliggevano erano fastidio, frustrazione e insofferenza verso
chiunque cercasse di entrare nel guscio impenetrabile che si era
impegnato a delimitare accuratamente, e che aveva infine tentato di
distruggere insieme a se stesso. Aveva davvero molto da farsi
perdonare, ma doveva pur cominciare da qualche parte.
Si accorse
con stupore che un sorriso appena accennato aleggiava sul volto di
Ian.
«Meglio tardi che mai.»
***
29
Maggio, Villa Stark, 08:20
Tony
si svegliò particolarmente indolenzito e passò
una buona mezz'ora a
crogiolarsi nel letto senza trovare la voglia di alzarsi. Sentiva di
meritare un po' di riposo dopo i successi dei giorni prima e per una
volta non si sentiva incalzato dal senso d'urgenza che aveva
permeato quelle ultime settimane, né dalla spossatezza
rassegnata
che lo trascinava spesso nell'apatia.
In quel caso aveva solo voglia di
concedersi un po' di sano riposo: i suoi progressi superavano le
aspettative e non sarebbero state un paio d'ore d'ozio a
rallentarli. Si rifugiò di nuovo sotto le lenzuola appena
lambite
dalla luce dorata del sole, godendosi il tepore e la quiete del
mattino mentre ondeggiava in un labile e piacevole dormiveglia.
Dopo
poco, però, la sua naturale irrequietezza ebbe la meglio
sulla
pigrizia e si destò del tutto. Si sedette sulla sponda del
letto e saggiò la
stabilità
della gamba, trovandola come sempre troppo dolorante per mettersi in
piedi senza sostegni come aveva ingenuamente sperato. Si
lasciò
sfuggire un sospiro deluso, ma non lasciò che
quell'inconveniente
abbattesse il suo buonumore e afferrò le stampelle issandosi
in
piedi. La protesi anteriore cigolò spiacevolmente
strappandogli una
smorfia infastidita. Fece qualche passo di prova, concludendo che
poteva poggiarla appena senza troppe conseguenze e si avviò
in
bagno, ansioso di abbandonarsi nella vasca per ridurre la pressione
che sentiva sui moncherini, in attesa degli antidolorifici. Poi
avrebbe potuto dedicarsi a qualche esercizio di "consolidamento
delle articolazioni", come li aveva chiamati Nataša.
La
donna aveva evidentemente esaurito la dose di buona volontà
e
pazienza nei suoi confronti e il giorno prima aveva stabilito che
adesso era in grado di cavarsela da solo, ma gli aveva lasciato
qualche compito a casa e aveva minacciato di scatenargli contro
Rogers se avesse battuto la fiacca o, al contrario, se avesse fatto
pazzie.
Lui si era limitato ad annuire e borbottare dei "sì"
assenti ad ogni sua raccomandazione decisamente inutile: non aveva
alcuna voglia di rompersi di nuovo le protesi per ricominciare tutto
da zero, di nuovo. Nonostante ciò, l'aveva ringraziata con
sincera riconoscenza e anche lei sembrava soddisfatta del lavoro che
aveva svolto con lui, arrivando a congedarsi con un fiducioso "a
presto", accompagnato da uno sguardo meno gelido del solito e coronato
da un rapido, saldo abbraccio che l'aveva sorpreso. Tony
si era limitato a sorridere di rimando e ricambiare in modo un po'
impacciato:
Nataša
aveva fatto per lui molto più di quanto si sarebbe aspettato
e
probabilmente più di quanto le fosse stato ordinato. Sapere
di
essere forse riuscito a riconquistare almeno la sua fiducia, dopo
quella di Clint, lo riempiva di ottimismo e alimentava la speranza
che un giorno sarebbe stato di nuovo bene accetto tra i
Vendicatori. Quel pensiero portò con sé una
ventata di serenità, e si godette il bagno con un lieve
sorriso ad aleggiargli sulle labbra.
Dopo
essersi districato goffamente tra vasca, accappatoio e vestiti,
riuscendo miracolosamente a non cadere, scese al piano terra, deciso a
fare una colazione rapida e a non perdere altro tempo. Avrebbe speso
la mattinata in laboratorio calibrando il braccio, visto che, da
quando aveva finito di modificare i nervi, la sua eccessiva potenza gli
era
già
costata tre bicchieri, un telefono e una stampella.
«JARVIS,
proiettami un modello della protesi anteriore,»
ordinò, mentre
sorseggiava la sua prima razione di clorofilla al posto del
caffè.
Premette distrattamente il dito sul rilevatore di tossicità:
ancora 15%. Allargò il colletto della maglia per sbirciare
il
reattore e intravide il solito leggero reticolo di vene scure a
circondarlo. Tutto nella norma.
L'ologramma era sospeso sul tavolo
della cucina e lui prese a ruotarlo qua e là mentre cercava
di
stemperare il saporaccio del "succo d'erba" con un toast un
po' bruciacchiato. Non era una combinazione vincente, concluse con
una smorfia schifata, ingrandendo intanto la capsula del gomito.
Avrebbe dovuto decidersi a realizzare le nuove articolazioni, ora che
non aveva più scuse per rimandare la cosa...
«Di' ai robot di
preparare un'altra partita di unobtanium. Me ne servirà un
bel po',
calcolane almeno tre o quattro di chili,» precisò,
tracannando
l'ultimo sorso dell'intruglio imbevibile.
«Subito. Robot
operativi,» rispose il suo maggiordomo, stranamente laconico
anche
per essere un'entità incorporea.
Seguì un breve silenzio interrotto solo dal
ticchettio distratto delle dita meccaniche di Tony sul tavolo, intento
a ruminare sulla sua colazione e sugli schemi azzurrini.
«Oggi
è il 29 maggio 2009,» annunciò
inaspettatamente JARVIS. «Buon
compleanno, signore.»
Tony rimase col toast a mezz'aria, preso
alla sprovvista.
«Oh, giusto. Grazie, JARVIS,» riuscì a
dire
infine, riprendendosi dallo stupore e addentando il toast con ancor
meno appetito.
Rimase pensieroso per qualche minuto, rimuginando
sui suoi trentanove anni appena compiuti mentre finiva di
mangiare. Doveva ammettere di aver perso completamente il conto
dei giorni. Era consapevole che il suo compleanno si avvicinava, ma
aveva volutamente ignorato la cosa, troppo preso dai suoi recenti
successi per prenderlo come un evento davvero significativo –
come se gliene fosse mai importato qualcosa, in effetti.
«C'è
qualche messaggio per me?» chiese dopo un po', suo malgrado
speranzoso.
Una schermata della sua posta elettronica fu
proiettata sulla superficie lucida del tavolino. Tony prese a
scorrere pigramente i messaggi, col mento sorretto dalla mano
meccanica.
«Ha ricevuto un centinaio di e-mail di auguri dai soci
delle Stark Industries e dai suoi ammiratori, oltre a quelli dei suoi
affiliati e...»
«Intendevo messaggi importanti.
Da gente che conosco di persona e che non ho incontrato una sola
volta in vita mia ubriaco a qualche festa o convegno,» lo
interruppe
lui, scurendosi in volto mentre selezionava con un gesto tutte le
mail arrivate quel giorno.
Le estrasse virtualmente dalla loro
finestra, le compresse in un agglomerato di pixel olografici e le
gettò a mo' di palla da basket nell'icona del cestino 3D,
che
registrò il canestro con un jingle da sala giochi.
«Ha un SMS da
parte del Colonnello Rhodes.»
«C'è ancora chi manda SMS? Anzi,
esistono ancora?» commentò lui, nascondendo lo
stupore e
connettendosi a distanza col suo telefono, probabilmente sepolto
sotto un mucchio di ciarpame in laboratorio.
L'SMS si rivelò
essere un lapidario "Auguri."
che suonava più come
un'intimidazione. Apprezzò lo sforzo di Rhodey, ma
evitò di
rispondere con un altrettanto minaccioso
"Grazie."
«Tutto
qua?» sbottò infine, senza nascondere la propria
delusione.
«Signore, è innegabile che il suo recente
comportamento non abbia ispirato sentimenti positivi verso di lei,
nemmeno nel giorno del suo compleanno.»
«Spero che questa
predica non sia il tuo
regalo,» sbuffò lui.
"Scommetto che se avessi organizzato
una delle mie feste qui mi sarei ritrovato mezza Los Angeles alla
porta, pronta a darsi alla pazza gioia," pensò infine con
amarezza, senza riuscire a trovare la voglia di alzarsi da
tavola.
Aveva sempre saputo che il suo enorme giro di conoscenze
era formato in gran parte da ipocriti e opportunisti che lo
frequentavano unicamente perché era Tony Stark: geniale,
avvenente,
ricco, e soprattutto generoso. Una combinazione che non poteva che
attirare sciami di adulatori come mosche sul miele. Col tempo si era
convinto di aver trovato delle persone che guardassero oltre i suoi
completi firmati, ma una gli mandava frecciatine spacciate per
auguri, l'altra l'aveva cacciata lui stesso dalla propria vita, e
l'ultima
si era rivelata una serpe e l'aveva ridotto in quello stato pietoso.
Si accorse di aver contratto la mascella e si impose di rilassarsi,
avvertendo un rancore bruciante che l'avrebbe probabilmente portato a
rompere la prima cosa gli fosse capitata a tiro. Fece bruscamente
leva su una stampella, allungandosi per afferrare l'altra, quando
sentì il metallo cedere sotto la spinta eccessiva della
protesi; si
sostenne al tavolo con la mano libera e sollevò l'attrezzo,
prendendo atto con sgomento
della
maniglia deformata e dell'asta completamente incurvata.
«Buon
compleanno a me,» canticchiò avvilito, alzando
l'occhio al
cielo.
Mollò per terra di malagrazia quell'arnese ormai
inservibile, sentendo la rabbia che scemava a poco a poco, a
ritmo coi respiri profondi che si imponeva di fare. Non era il caso
di mettere di nuovo a soqquadro la cucina. Si destreggiò
attraverso la stanza con la stampella superstite e dopo qualche passo
scoprì di non cavarsela così male come credeva:
l'impedimento più
grande era l'attuale dolore al moncherino, ma a parte ciò
riusciva a
spostarsi con relativa agilità.
Si trasferì zoppicando in bagno
– era decisamente
l'ora dei suoi antidolorifici – usando la stampella a mo' di
bastone da passeggio con il braccio sano per evitare di danneggiare
anche quella. Non era una soluzione malvagia, concluse adocchiando lo
strumento. Sicuramente adesso che controllava meglio la protesi
poteva essere un miglioramento rispetto alla sua solita andatura a
balzelloni, anche se così si spostava molto più
lentamente. Finché
non riprendeva a camminare in modo decente avrebbe potuto farci un
pensierino. Fissò il suo riflesso accigliato, con una piega
amara a
solcargli le labbra: d'altra parte, dubitava che sarebbe mai
più
riuscito a camminare senza un qualche tipo di sostegno.
Mandò giù
con più sollievo del solito le sue pasticche.
Un quarto d'ora dopo era
stravaccato indolentemente sul divano, di nuovo in pace con se stesso
e con l'impianto stereo che faceva vibrare i vetri con gli
spericolati riff deiVan
Halen.
Ascoltava distratto, muovendo appena il piede meccanico a ritmo con
la musica. La consapevolezza che fosse il suo compleanno
allontanava la sua mente dal senso del dovere, indirizzandola verso
una condizione di noia e fiacchezza. Avrebbe voluto festeggiarlo in
qualche modo, ma non c'era davvero molto che potesse fare, a parte
prendersi una pausa dal lavoro. Aveva constatato con fastidio che la
piscina era vuota e inutilizzabile, non era dell'umore per guardare
un film, non era esattamente un amante della lettura e stava
già
dando fondo alla sua collezione di vinili che non l'avrebbe tenuto
impegnato a lungo.
Avrebbe potuto riprendere qualche lavoretto
sulle sue macchine d'epoca. C'era ancora la Ford Flathead del '32 che
non era mai riuscito a perfezionare come voleva... ma che gusto c'era a
riparare auto se poi non poteva guidarle? Coi riflessi e la vista
che si ritrovava il quel momento sarebbe precipitato dalla scogliera
alla prima curva. E poi chi lo sentiva Fury...
Il suo sguardo si
aggirò svogliato per il salotto, registrando con una punta
di
rammarico la piattaforma un tempo occupata dal pianoforte. Non che
avrebbe mai potuto sperare di combinare nulla di che con una mano
sola, ma sarebbe comunque stato un diversivo piacevole. Peccato che
avesse avuto la brillante idea di schiantarcisi sopra con la Mark
II, e poté quasi sentire i comprensibili
rimproveri di sua madre.
Sprimacciò il cuscino sotto la testa, assorto. Era fin
troppo conscio del fatto che il più bel regalo di compleanno
sarebbe
stato poter indossare l'armatura e volare anche solo per qualche
minuto. Sentì il familiare senso d'incompletezza farsi
strada in
lui, ma lo soppresse con veemenza: almeno per quel giorno non voleva
dare vita ai suoi pensieri negativi. Dovevano rimanere inerti: solo
per quel giorno voleva vederli come semplici ombre in lontananza,
incorporee e innocue.
Quindi... aveva già escluso tre quarti di
ciò che amava fare. Ed erano appena le dieci del mattino.
Sospirò
annoiato.
Forse passare un po' di tempo in laboratorio non era
un'idea così
malsana. Avrebbe sempre potuto progettare
qualcosa di
assolutamente frivolo e inutile... per esempio un bastone da
passeggio all'avanguardia che non l'avrebbe fatto sembrare un relitto
appena uscito da una casa di riposo.
Si lasciò sfuggire un
mugolio annoiato: sembrava che l'unico vero passatempo rimasto fosse
la tv, che accese con un gesto svogliato della mano. Stava giusto
scorrendo una cineteca virtuale, alla ricerca di qualcosa che non lo
facesse addormentare dopo cinque minuti – evitando la
fantascienza:
basta rivolte delle macchine – quando adocchiò la
console sotto
l'enorme schermo piatto in salotto, rimasta a prendere polvere nel
corso degli ultimi anni.
Si tirò la punta del pizzetto e scostò
da parte l'ologramma, improvvisamente tentato.
Da quanto non
faceva una partita?
***
29
Maggio, Helicarrier, 10:30
Pepper
cancellò per l'ennesima volta il messaggio e mise nuovamente
in
tasca il cellulare, sapendo che probabilmente non avrebbe resistito a
lungo prima di riprenderlo.
Si costrinse a riportare l'attenzione
sulla riunione gestionale dello SHIELD, al confronto della quale il
summit annuale delle Stark Industries sembrava l'evento più
divertente di sempre. Soprattutto quando il proprietario si decideva
a presenziare, trasformando il tutto in uno spettacolo di cabaret. Si
accorse di sorridere al ricordo e la sua mano ripescò come
di
riflesso il cellulare, causandole un moto d'irritazione che dissolse
il sorriso dal suo volto, riportandolo a una maschera corrucciata.
Si
ritrovò a fissare la schermata del nuovo messaggio ancora
intonsa,
con la stanghetta di pixel neri che lampeggiava come incitandola
impazientemente a scrivere.
L'unico campo compilato era quello del
destinatario: "Tony Stark".
Accanto al nome c'era una
miniatura della foto che lui le aveva praticamente imposto di
assegnare al suo contatto: si distingueva Tony con degli occhiali da
saldatore indossati al contrario e una smorfia comica sul volto, col
laboratorio a soqquadro a fargli da sfondo. All'epoca aveva tentato
in tutti i modi di cambiarla, ma lui doveva aver criptato
chissà come il file per
evitarlo: tipico di Tony. Fu colta da un misto di rabbia e nostalgia.
Dalla foto si intravedeva già il puntino luminoso del
reattore:
notarlo le richiamò come sempre un leggero tremito nelle
mani e una
sensazione viscida e serpeggiante nello stomaco.
Sospirò e spense
lo schermo, fingendo di interessarsi a ciò che stava
blaterando
Coulson, anche se dalla sua voce monocorde non interessava
probabilmente neanche a lui. Dopo pochi minuti la disattenzione ebbe
di nuovo la meglio su di lei.
In quel lasso di tempo trascorso allo SHIELD aveva avuto
modo di pensare. E anche di non pensare. Aveva
passato due
lunghe settimane assorbita dal lavoro, serena e libera da
preoccupazioni. Era stato come concedersi un sonno ristoratore, e,
quando i pensieri che l'avevano angosciata avevano ricominciato a
fare capolino, aveva avuto la certezza di poterli affrontare con mente
fresca e razionale come era abituata a fare. Non sentiva più
il
bisogno di ignorarli, così aveva accostato la porta che
aveva tenuto
chiusa fino ad allora, lasciando trapelare tutto ciò che
aveva deciso
di accantonare momentaneamente.
Si era ritrovata a pensare sempre
più spesso a Tony, soprattutto in termini negativi: il
ricordo di
ciò che aveva tentato di fare a stesso continuava a
tormentarla. A
volte ripensava a quegli attimi eterni di panico e terrore, al buco
straziante che le aveva perforato il petto quando
aveva veramente creduto che fosse morto davanti a lei. In quei momenti
avrebbe solo voluto trovarselo davanti per potergli urlare in faccia
quanto
fosse stato un idiota e un ingrato e di quanto in quel momento
l'avesse odiato con tutta se stessa. Anche adesso pensarci le
provocava un miscuglio di sollievo nel saperlo viv,o e di cieca rabbia
per averlo visto lasciarsi andare a quel modo.
Le capitava ancora
di svegliarsi agitata nel bel mezzo della notte senza sapere
perché,
ma in cuor suo riusciva a intuire cosa avesse sognato e ciò
non
faceva che aumentare la sua frustrazione. A volte però
scorreva
nella sua testa anche tutto il resto: visioni fugaci di quei dieci
anni in cui aveva imparato a conoscerlo più di chiunque
altro,
almeno così le era sembrato, arrivando a segnare tappe che
andavano
decisamente oltre al puro rapporto lavorativo per scivolare in un
affetto sincero. Non provava alcun rancore per quegli anni, anzi,
avrebbe voluto tornare a quei giorni prima dell'incidente, anche
egoisticamente prima di Iron Man, nonostante sapesse quanto Tony
tenesse a quella parte di sé e quanto lei stessa avesse
preso a
guardarlo con occhi diversi da quando aveva intrapreso quella strada
tutt'altro che semplice. Nel costruire Iron Man e accettare tutto
ciò
che ne
conseguiva, aveva dimostrato una purezza d'ideali che mai si sarebbe
aspettata da una persona in apparenza superficiale e materialista,
costantemente barricata dietro sorrisi falsi, occhiali scuri e
completi costosi.
Ricordava chiaramente la loro discussione al
riguardo e fino a quel momento non lo aveva mai visto parlare in modo
così serio e con così tanto trasporto di
qualcosa. Le sembrava che
avesse iniziato a vivere veramente solo nel momento in cui aveva
indossato l'armatura, dandosi un obiettivo concreto.
Poteva
davvero biasimarlo fino in fondo per la reazione che aveva avuto dopo
l'incidente, quando aveva creduto di aver perso tutto ciò
per
sempre? Quel pensiero empatico verso di lui fu offuscato dalla
rabbia che riemerse nel rammentarsi seccamente che, nonostante il
percorso di redenzione che si era imposto, aveva tentato di porre
fine alla sua vita, e quello non avrebbe mai potuto
giustificarlo.
Pepper chiuse per un breve istante gli occhi,
riprendendo il controllo sui suoi pensieri così atipicamente
irresoluti.
Di una sola cosa era certa: prima o poi uno di loro si
sarebbe inevitabilmente trovato a fare un passo verso l'altro. Una
parte di lei esigeva
che fosse lui. Le sembrava semplicemente
naturale, visto come erano andati i fatti. Era estremamente raro e
inusuale che Tony chiedesse scusa a qualcuno, ma era riuscito a farlo
in un paio d'occasioni, di cui una fin troppo recente e dolorosa.
Sarebbe stato ragionevole aspettarselo anche in questo frangente, ma
aveva la netta impressione che non sarebbe andata così, per
il
semplice motivo che, se era raro che Tony ammettesse di aver
sbagliato, era ancora più inaudito che provasse vergogna. E
aveva la
certezza che si vergognasse profondamente del suo comportamento:
l'aveva percepito durante la loro ultima discussione, quando lui
aveva avuto a malapena il coraggio di guardarla negli occhi dopo
averle fatto male. Si toccò inconsciamente il braccio, che
non
recava ormai alcuna traccia di quel gesto avventato ma, ne era
cosciente, involontario. Tony poteva essere insopportabilmente
arrogante, indisponente ed egoista, ma non si era mai permesso di
sfiorarla neanche con un dito, figurarsi ferirla di proposito. E
soprattutto, pur di proteggerla aveva messo a rischio la sua stessa
vita, finendo per perderne proprio la parte più importante.
Ma quello era un pensiero che le causava un gorgoglio acido nello
stomaco e troppi dardi roventi nel cervello.
Comunque fosse, non
era sicura che Tony fosse in grado di superare quel muro di senso di
colpa di propria iniziativa, e per questo era consapevole che, forse,
il primo gesto doveva venire proprio da lei. Ciò la
indispettiva:
le sembrava un'ammissione di resa, un messaggio secondo il quale
tutto poteva essergli perdonato. E lei non aveva alcuna intenzione di
farlo, né adesso, né mai. Forse un giorno avrebbe
potuto accettare la cosa con occhi
diversi e leniti dal tempo, ma non sarebbe mai stata in grado di
dimenticare quella parte rabbiosa e ostile di lui che era emersa
così
prepotentemente, impossibile da contenere e dannosa per se stesso e
gli altri. Non era un qualcosa che si potesse semplicemente aggiustare:
sarebbe sempre rimasta una crepa a segnare quella rottura.
Quella
consapevolezza la addolorava, ma sapeva che era inevitabile, se mai
fossero davvero riusciti a radunare i cocci per porre rimedio a quel
disastro. Per il momento si era imposta di non tentare nulla di
avventato che potesse risultare fraintendibile o di cui si sarebbe
potuta pentire.
Poi, una settimana prima, aveva ricevuto la sua
mail. Non era riuscita a forzarsi ad aprirla subito, ma dopo poco
aveva capito che non era stata recapitata solo a lei, ma a tutto lo
SHIELD, sollevando un lieve scompiglio tra il personale in un misto
di incredulità, scetticismo e pettegolezzi. Pepper si era
quindi
decisa ad aprirla, trovando una semplice riga di testo – "per
una volta cammino prima di correre" – con una foto
in
allegato. Nel vederla aveva capito lo scalpore che aveva
suscitato: si vedeva Tony in piedi e senza sostegni, con le mani a
formare due "V" di vittoria e il solito sorriso irriverente
e compiaciuto di sé a illuminargli il volto.
Pepper sospettava
che Fury avesse volontariamente lasciato correre la cosa. In fondo,
sotto quella scorza d'acciaio, sapeva avere dei momenti di
umanità
inaspettata, e nonostante la breve, estremamente seccata comunicazione
via intercom che invitava gli agenti a ignorare l' "esibizionismo
da diva di Stark", era propensa a credere che la notizia dei
rapidi progressi di uno dei suoi collaboratori lo rallegrasse e
rassicurasse allo stesso tempo.
Soprattutto, dopo l'innaturale
riservatezza di Tony, che aveva incredibilmente tenuto un basso
profilo anche al processo e aveva addirittura accettato di
intraprendere la riabilitazione facendosi seguire da Nataša
senza
prenderla come un'umiliazione, Pepper era abbastanza convinta che
quello si potesse considerare ben più di un passo avanti.
Anche dai
brevi scambi che aveva avuto con l'agente Romanov, con la quale in
realtà si era lasciata sfuggire più di quanto
volesse, le era
sembrato che tutti avessero un'opinione più positiva di lui,
anche
gli stessi Vendicatori. Persino Coulson aveva mitigato le sue
considerazioni pungenti, forse anche vedendola più serena.
La
realizzazione l'aveva raggiunta con qualche giorno di ritardo: Tony
si stava rialzando. Stavolta per davvero e senza paura di mostrarsi a
tutti così com'era.
E adesso lei non riusciva neanche a spedirgli
un messaggio di auguri. Aveva passato gli ultimi tre giorni a
chiedersi se fosse il caso di farsi viva in modo così
improvviso.
Il
compleanno di Tony era sempre stato un momento molto delicato
dell'anno, immancabilmente onorato da un party grandioso e
monumentale alla Villa o in qualche locale di lusso; Tony, col suo
carisma e la sua dissolutezza, non aveva mai avuto problemi ad essere
l'anima
della festa e l'anfitrione più desiderato da tutti. Ma
questo era
come voleva apparire agli occhi degli invitati, spesso degli
sconosciuti che non avrebbe più rivisto in vita sua.
Solo lei
aveva avuto il raro e dubbio privilegio di vederlo subito prima della
sua festa, e quell'immagine strideva nettamente con quella che lui
voleva far trasparire. Era il ritratto di un uomo solo e
taciturno, perso tra macchinari e ologrammi digitali, con una tuta da
lavoro addosso e olio per motori sulle mani, sprofondato nel cofano
di qualche auto d'epoca. Era difficile credere che nel giro di
qualche ora avrebbe indossato il suo smoking migliore, sfoggiando un
sorriso smagliante e irriverente per tuffarsi tra fiumi di invitati,
alcool e fuochi d'artificio.
In quel giorno Pepper non l'aveva mai
visto ricevere visite da nessuno, se non Rhodey quando capitava che
non fosse in servizio o Stane quando se ne ricordava. Nessun parente,
nessun amico. Solo l'occasionale giornalista che sperava in
un'esclusiva e che veniva ricacciato indietro senza tanti
convenevoli, o al massimo qualche magnate o amministratore delegato che
sperava di fare buona impressione presentandosi a sorpresa con un
regalo molto costoso. Tony aveva per loro solo sorrisetti di
circostanza e una generale freddezza che gli era altrimenti estranea;
persino il suo lato da dongiovanni si attenuava e rifiutava inviti e
visite di donne a cui normalmente non avrebbe saputo dire di no,
almeno fino alla festa.
Con lei si poneva invece nel solito modo
di fare giocoso e impertinente e, anzi, la cercava più
spesso del solito. Pepper aveva finito per convincersi che fosse
felice di essere in sua compagnia in un giorno che avrebbe altrimenti
passato in completa solitudine. Era sicura che, anche se non lo
avrebbe mai ammesso, rimanere solo in quel giorno lo facesse
soffrire.
Probabilmente anche in quel momento stava lavorando
senza sosta per non pensarci.
***
29
Maggio, Villa Stark
«DEVI
COSTRUIRE ALTRI PILONI.»
«Lo so, chiudi il becco!» sbottò
Tony.
Diede una schicchera allo schermo virtuale dei comandi che
galleggiava di fronte a lui per scacciare il box della notifica e
piazzò in campo l'ennesimo pilone azzurrognolo con un gesto
esasperato.
«Signore, se posso permettermi, trovo l'intelligenza
artificiale di questo software oltremodo...»
«Muto. Non ti ci
mettere anche tu, JARVIS, è un momento delicato,»
lo zittì,
riportando lo sguardo allo schermo principale, preoccupato dalle
navicelle nemiche che si avvicinavano pericolosamente alla sua
base.
Ora ricordava perché non giocava spesso ai videogiochi:
diventava fin troppo competitivo e finiva per perdere la pazienza o,
come in questo caso, era terribilmente tentato dall'inserire nel
programma qualche stringa di codice in più che gli
garantisse dei
"vantaggi strategici" non del tutto leciti. All'ennesimo
squadrone d'attacco che venne sbaragliato senza troppi problemi
dall'avversario si decise a chiudere con stizza la schermata prima di
veder comparire il fatidico game over.
Il silenzio tornò
nel salotto e lui reclinò la testa sullo schienale del
divano,
sbuffando: era ancora mezzogiorno. Non ricordava che oziare fosse
così impegnativo. E neanche di essere così
arrugginito coi giochi
di strategia... scoccò un'occhiataccia alla console e
trattenne la
tentazione di riaccenderla per una rivincita.
Una ventina di
minuti passati a fissare il vuoto gli fecero capire che neanche quello
non
era un modo costruttivo per impiegare il suo tempo, così si
decise
ad alzarsi per scendere in laboratorio, dare un senso alla giornata e
finirla là con quella storia del suo compleanno. Si sentiva
frustrato. Almeno negli anni passati aveva avuto la prospettiva di
una festa notturna durante la quale avrebbe potuto darsi alla pazza
gioia per compensare l'apatia che si autoimponeva nel corso della
giornata. Stavolta non c'era neanche Pepper a rendergli più
piacevole quel giorno odioso in cui diventava improvvisamente
consapevole di quanto fosse solo.
Mentre attraversava lentamente
la stanza, posò involontariamente lo sguardo sulla porta
dello
studiolo chiuso a chiave e voltò subito la testa di scatto,
forzandosi a fissare invece la vetrata. Deciso a distrarsi, si
puntellò sulla stampella per fermarsi a guardare l'oceano,
scintillante sotto il sole a picco.
La sua espressione si fece
nostalgica. Una nuotata non gli sarebbe dispiaciuta, anche se dopo
le strane allucinazioni che aveva avuto in fin di vita non era sicuro
di riuscire affrontare la cosa con serenità.
Guardò con amarezza le
sue protesi: in effetti il problema non si poneva, nelle sue
condizioni.
"Già, le mie condizioni..."
Si
stropicciò l'occhio e tastò con cautela lo
sfregio che ultimamente
aveva preso a irritarlo più del solito, continuando a
esitare sul
posto e a rimuginare su quei pensieri deleteri. Si decise infine
ad aprire la porta-finestra e a uscire in terrazzo.
Si sporse dalla
balaustra a picco sull'oceano, scrutando l'orizzonte
accecante. Era
una giornata calda, ma una brezza marina tesa e frizzante gli
solleticava la pelle, rinfrescandolo. Aspirò a pieni polmoni
l'aria
densa di salsedine; il vento portava con sé delle minusole
goccioline d'acqua e ben presto percepì il sapore del sale
sulle
labbra. Sentì il metallo delle protesi scaldarsi rapidamente
al sole
e gli venne da sorridere, senza sapere bene perché.
Guardò in
basso, verso le onde di un blu profondo che si schiantavano contro la
ripida parete della scogliera, e avvertì un'improvvisa ma
piacevole
stretta di vertigine allo stomaco, simile a quella che provava nel
decollare con l'armatura. Si trovò a seguire con una punta
di
malinconia il volo dei gabbiani, che per il puro gusto di farlo si
gettavano in picchiata verso la spuma lanciando alte strida, per poi
risalire con elegante rapidità sulle ali delle correnti
d'aria.
Era
una cosa che aveva amato fare anche lui, fino a non troppo tempo
prima. Distolse a fatica l'attenzione da quelle acrobazie aeree e
seguì la linea degli scogli aguzzi che sporgevano a pelo
d'acqua, con le onde che vi si abbattevano in forme sempre
diverse. Inconsapevolmente si trovò a calcolarne la
traiettoria,
cercando di indovinare dove e in che modo si sarebbero infrante
contro la roccia rossastra; nel rendersene conto gli venne da
rimproverare quella sua parte fin troppo scientifica e razionale che
s'intrometteva in un momento così spensierato.
Il suo sguardo si
soffermò sulla piccola insenatura sabbiosa incastonata nel
fianco
della scogliera, che poi si allargava fino a diventare la sterminata
spiaggia dorata che si stendeva fino a Santa Monica. Seguì
con gli
occhi la stradina lastricata e abbastanza agevole che si dipanava
direttamente dal suo giardino fino alla caletta, una cinquantina di
metri più sotto in linea d'aria, poco più di
duecento a piedi.
Picchiettò sul reattore e poi prese a lisciarsi il pizzetto,
meditabondo e improvvisamente ispirato. Forse, in effetti, avrebbe
potuto farsi un regalo di compleanno...
Guardò di sottecchi la
stampella, dubbioso: con quella non sarebbe arrivato lontano. Si
staccò dalla balaustra e la soppesò con aria
assorta, sorridendo
tra sé.
«È ora di un upgrade, bellezza.»
***
Per
l'ennesima volta, Tony esaminò con aria critica l'attrezzo
che aveva
appena realizzato, reputandolo definitivamente un'idea molto
sciocca.
Aveva davanti quello che a prima vista sembrava un banale
tubo d'acciaio, che però terminava da una parte in un
grossolano
pomello. Forse era davvero un po' troppo rozzo, ma doveva essere
qualcosa di provvisorio e funzionale, non un'opera d'arte. A quello
magari avrebbe provveduto dopo.
Gli diede una schicchera con la
mano meccanica e quello produsse un tintinnio acuto che gli
infastidì i
timpani. Si risolse a smetterla di temporeggiare e sollevò
il
bastone da passeggio, impugnandolo goffamente con la sinistra e
soppesandolo. Era più pesante di quanto volesse, ma per un
qualcosa
arrangiato sul momento andava più che bene. Lo
puntò per terra
facendo leva per alzarsi, incontrando qualche difficoltà.
Riuscì
nell'impresa di non cadere a faccia avanti al primo tentativo e
scaricò tutto il peso sul bastone, costringendosi a
mantenere
l'equilibrio e cercando di abituarsi a quel nuovo supporto, meno
ingombrante delle stampelle, ma anche più complesso da
maneggiare.
Forse aveva bisogno di fare un po' di pratica, prima
di rompersi l'osso del collo con le sue passeggiatine fuori
programma.
Provò a muovere un passo ancora rigido e insicuro,
accompagnando la falcata col bastone e usandolo come appoggio insieme
alla protesi, per poi usufruire del supporto aggiuntivo per muovere
quello seguente. Quel movimento gli era del tutto estraneo e si
mosse in modo goffo, scoordinato, ma era sicuramente meglio che avere
entrambe le
mani occupate dalle stampelle; inoltre sarebbe almeno stato costretto
a usare davvero le gambe invece di relegare tutto lo sforzo sulle
braccia. Ultimamente lo snodo della spalla gli stava facendo vedere
le stelle ed era un sollievo poter riposare il braccio meccanico.
La
gamba non ne voleva sapere di muoversi come avrebbe dovuto: percepiva
ancora chiaramente dei fugaci punti morti nel segnale, causati da
quelle maledette interferenze.
Riuscì ad arrivare
all'angolo-cucina all'altro capo del laboratorio affaticato ma
integro, senza troppe ripercussioni sul moncherino comunque
dolorante. Quello che lo estenuava era lo sforzo mentale, il dover
pensare costantemente ad ogni minima flessione e contrazione delle
sue gambe per non rovinare faccia a terra. Sapeva che prima o poi
sarebbe diventato un automatismo, ma per ora stava rivivendo in modo
cosciente quello che un infante provava nell'imparare a camminare
–
scivoloni, capitomboli e bernoccoli inclusi.
Sospirò. Si era
abituato alla vita con un reattore, prima, e a volare con
un'armatura, poi. Sarebbe riuscito a controllare anche le
protesi.
Sorseggiò di malavoglia un bibitone di clorofilla,
più
per dovere che per sete, poi si staccò dalla credenza e
tentò
qualche altro passo claudicante. La sua idea sembrava funzionare.
Magari avrebbe dovuto perfezionare un po' quel suo nuovo accessorio
un po' stravagante, per lo meno da punto di vista estetico: dopotutto
gli era sempre piaciuto fare le cose con stile.
Anche se in quel
caso...
«JARVIS, quanto sono ridicolo da uno a dieci?»
sospirò,
fermandosi per sostenersi al banco di lavoro.
«Signore, i bastoni
da passeggio sono un'utilità ben nota anche ai nostri tempi,
sebbene
assai antiquati. Solitamente si preferiscono bastoni ortopedici
più
moderni, ma...»
«Riesci sempre ad avere una parola
d'incoraggiamento per me, cervellone, unita alla capacità di
demolirmi l'autostima,» lo troncò con uno sbuffo.
A volte si
pentiva di aver programmato un computer così
sagace.
"Io
sarei 'antiquato'?" pensò poi infastidito, coprendo i pochi
passi che lo separavano dalla sua sedia e venendo accompagnato dal
battito
metallico del bastone.
Si sedette, osservando attentamente e con
più convinzione il suo nuovo amichetto pseudo-tecnologico.
Sarà
anche apparso ridicolo e anacronistico, ma lo preferiva a una di
quelle diavolerie a tre piedi che aveva adocchiato in rete o, ancora
peggio, a un deambulatore. Certo, adesso gli sarebbe bastato
piazzarsi un cilindro in testa e inforcare un monocolo per sembrare
uscito da un romanzo Vittoriano. Era sicuro che gli avrebbero donato,
soprattutto il monocolo, magari sull'occhio sbagliato. Si
stropicciò
di riflesso lo sfregio sul volto, suo malgrado ironicamente divertito
all'idea. Anche i Vendicatori si sarebbero fatti grasse risate nel
vederlo...
Si piazzò il bastone sulle spalle, appoggiandovi i polsi con
fare indolente, e si concesse un attimo di respiro prima
di riscuotersi: era ora della prova sul campo.
***
29
Maggio, Malibu Beach, 18:20
Tony
maledisse se stesso, le sue idee, la sua testardaggine, il suo
orgoglio e il suo corpo, il tutto più o meno simultaneamente
mentre
arrancava lungo la stradina che si era rivelata non essere poi
così
agevole come ricordava. Incespicò sui suoi stessi piedi e
frenò la
caduta col bastone, fermandosi a prendere fiato.
Si guardò
intorno per l'ennesima volta, stentando a credere a ciò che
stava
facendo. Da mesi non usciva di casa se non in terrazzo o per qualche
spiacevole processo. Non si era accorto quanto gli fosse mancata
l'aria aperta e adesso se ne stava inebriando ad ogni
passo. Nonostante continuasse borbottare imprecazioni a mezza voce
e a convincersi che fosse un po' troppo presto per andarsene a zonzo
da solo, si sentiva più forte e saldo sulle gambe doloranti,
anche
se si rendeva conto che forse stava forzando un po' troppo i suoi
limiti, incluso quello della sua tolleranza agli antidolorifici.
"Nataša mi ammazza... poi Ian mi salva e mi ammazza
di nuovo," riuscì a pensare con uno sbuffo
affaticato.
Mancavano poche decine di passi che percorse quasi
trascinandosi: la fatica e il pulsare bruciante del moncherino gli
annebbiavano i pensieri e non riusciva più a controllare i
movimenti
della gamba, tornata ad essere un pezzo di ferro pressoché
inerte.
Arrivò ad avanzare sulla sabbia morbida, ondeggiando con
difficoltà
crescente. Si adagiò infine il più delicatamente
possibile sul
bagnasciuga e si tolse le scarpe, tirando un profondo sospiro di
sollievo e soddisfazione nel sentire le onde che gli lambivano i
piedi.
Quella scena gli era familiare.
Era simile al sogno, o
forse era stata più un'illusione voluta e agognata dalla sua
mente
esausta in
un momento che era riluttante a richiamare. Il ricordo
trapelò
appena oltre il filtro che si era imposto per quel giorno e
capì di
non poterlo trattenere. Percepì un senso di vuoto nel petto,
come se
si fosse di nuovo tolto il reattore, e fu di nuovo conscio dei
minuscoli barbigli metallici incastonati a pochi centimetri dal suo
cuore. Respirò a fondo per calmarsi, puntando lo sguardo sul
mare
che tremolava placidamente dinanzi a lui.
Non voleva ripensare al
suo suicidio. Gli interessava quel che era venuto subito dopo: quello
stesso mare, la spiaggia, la sensazione di felicità
incontenibile
nel riavere la sua vecchia vita. Per degli istanti infiniti si era
sentito felice e completo.
Adesso non sentiva la sabbia sotto le
proprie dita, non poteva nuotare, non aveva l'agilità che
ricordava
di aver avuto in sogno, aveva ancora le protesi, non c'era nessuno ad
aspettarlo sulla spiaggia. Ma era lì e ci era arrivato da
solo. Portò una mano al petto, al suo fidato reattore: nel
sogno
non aveva avuto neanche quello. Voleva dire che nella sua mente non
era mai stato rapito, non aveva mai avuto dei frammenti di bomba nel
petto, non aveva mai conosciuto Yinsen. Non era mai diventato Iron
Man.
Forse non era stato un sogno così bello, concluse con
amarezza, e anche una punta d'orgoglio nel constatare quanta strada
avesse
percorso da quel giorno di due mesi prima. Ormai aveva accettato
da tempo il reattore come una parte di sé. Avrebbe quasi
potuto
affezionarvisi se non fosse stato per l'intossicazione, ma anche
quella era inclusa nel prezzo del cambiamento e di ciò che
aveva
deciso di poter sopportare per essere migliore dell'uomo indifferente
e vile che aveva abbandonato nel deserto afghano. Magari un giorno
sarebbe riuscito ad accettare anche le protesi non come dei semplici
aiuti e supporti, ma come parte integrante di se stesso. Potevano
diventare qualcosa di più di due pezzi di ferro semoventi,
avere una
storia da raccontare che andasse oltre il dolore e la frustrazione.
Potevano diventare dei simboli di vittoria, come lo era diventato il
reattore.
Si sdraiò sulla sabbia e sollevò il braccio
meccanico
verso il cielo terso, come a prendere le misure, a voler controllare
quanto ancora fosse lontano da quella meta. Lo lasciò
ricadere
lentamente, sentendosi più vicino che mai.
Tornò a sedersi e a guardare
l'oceano, stanco ma soddisfatto, finché il cielo non
iniziò ad
assumere una tinta calda man mano che il sole si avvicinava
all'orizzonte. Si godette il tramonto sul mare, finché il
globo
rossastro non lanciò un ultimo raggio morente, lasciando
posto al
crepuscolo e a un'improvvisa brezza che lo fece rabbrividire nei suoi
vestiti leggeri.
Si riscosse e scoccò un'occhiata preoccupata
alla stradina che aveva percorso, rendendosi conto di quanto in
effetti fosse ripida, vista da laggiù. Il moncherino
inferiore pulsava in modo sordo e costante, scoraggiandolo dal provare
ad alzarsi.
Si arruffò
i capelli pieni
di sabbia, accigliandosi.
"Sì, è tutto molto bello e
poetico... ma adesso come ci torno a casa?"
***
29
Maggio, Villa Stark, 19:45
«Grazie
per il salvataggio.»
«Come sempre, capo.»
Happy lo osservò
dal finestrino mentre lui chiudeva la portiera.
«È tutto, signor
Stark?»
Tony ebbe un leggero sussulto a quelle parole familiari,
ma si ricompose in fretta:
«Sì, Happy. Spero di aver
bisogno più spesso di passaggi,» aggiunse con un
mezzo
sorriso.
Happy ricambiò, poi rimise in moto l'auto con un cenno
di saluto e svanì ben presto alla vista. Gli avrebbe davvero
dovuto
dare un
aumento... non si era aspettato che rispondesse con tanta prontezza
alla sua chiamata fuori programma, invece si era dimostrato quasi
entusiasta ed era stato stranamente loquace durante il
brevissimo tragitto in macchina.
Non appena rientrò in casa, tutta
la stanchezza accumulata gli si rovesciò addosso lasciandolo
stordito nell'atrio e per un attimo fu sicuro di svenire. Si mosse
come un sonnambulo per raggiungere il divano, dove collassò
stremato. La gamba meccanica reagiva a malapena ai suoi comandi e
anche il braccio era diventato difficile da controllare. Si
sentiva come al rientro da una missione, se non peggio, ma allo
stesso tempo lo riempiva un senso di spossata completezza che non
provava da mesi. Si abbandonò mollemente sui cuscini e
abbassò le
luci con un gesto stanco della mano, soffocando uno sbadiglio.
Un
sorriso si delineò sul suo volto nel realizzare di aver
appena
festeggiato il suo compleanno nel modo migliore che poteva. Il
pensiero fece appena in tempo a prendere forma nella sua mente che si
addormentò di colpo, facendolo decollare in sogni di voli,
acrobazie
e vertigini sempre più vividi.
***
29
Maggio, Helicarrier, 19:50
Pepper
lasciò squillare a vuoto il telefono per quasi un minuto,
prima di
riattaccare a metà tra il deluso e il sollevato. Rimase a
fissare lo
schermo, non sapendo come interpretare quel silenzio imprevisto. Si
convinse a non dargli troppo peso: dopotutto Tony era famoso per
rifiutare e ignorare telefonate prima ancora di sapere chi lo stesse
chiamando. Sospirò, rendendosi conto che la delusione
superava di
gran lunga il sollievo.
Alzò appena gli occhi e notò Coulson che
la osservava di sbieco seduto alla postazione di fianco alla sua. Lei
si
affrettò a riporre il telefono, tornando alle sue pratiche
come se
nulla fosse e ignorando l'espressione incuriosita del collega.
«C'è
qualche novità?» butto lì Phil con
nonchalance.
«Nessuna,»
ribatté secca lei, arrossendo fino alla radice dei capelli.
___________________________________________________________________________________________________________________
Note Dell'Autrice:
Prima di tutto: la mia ansia per Infinity War è tale che sto aggiornando in anticipo per paura di un infarto prematuro. Almeno vado al cinema serena di aver pubblicato :'D
Dunque, questo capitolo è interminabile. Mi rendo conto che potrebbe essere indigeribile, ma siete avvertiti: la lunghezza standard rimarrà più o meno questa. Ho optato per spezzettare i capitoli dall'interno e farli più lunghi, piuttosto che spezzare la storia in capitoli più brevi. Spero che non si riveli una scelta troppo pesante, ma a questo punto ritengo importante che ogni capitolo faccia progradire la trama il più possibile per non trascinare la storia.
Finalmente mi sono decisa a far "tornare" Pepper, anche se solo a distanza e con molta confusione in testa. Negli ultimi capitoli Tony è stato relativamente poco riflessivo per i suoi standard e mi sembrava giusto lasciare spazio a lei.
Volevo anche che per contrasto Tony sfoggiasse più sicurezza e intraprendenza, invece di lasciarsi in balia degli eventi come al solito.
Ah, d'ora in poi, salvo diversa indicazione, quando Tony "cammina" lo fa sempre con l'ausilio del bastone da passeggio. Mi rendo conto che può sembrare un'aggiunta fuori luogo, ma non ambisco a far tornare Tony "perfetto", almeno per ora, e volevo che iniziasse a confrontarsi anche con la parte puramente "estetica" della sua condizione, a partire dal rimanere zoppo.
Per il resto credo e spero che il resto del capitolo parli da sé :)
Tony, ve lo assicuro, ha ancora tanta strada da fare, ma siamo nella curva positiva di questa seconda parte, quindi godetevela finché dura :D
Ringrazio come sempre _Atlas_ che recensisce puntualmente questa storia e mi riempie di gioia nel sapere che ancora la segue. Grazie anche per averla citata nelle note della tua one-shot Undisclosed Desires (che è bellissima come tutto ciò che scrivi <3), mi hai resa un sacco felice :D
E grazie a chiunque leggerà/recensirà :)
Adesso non mi rimane che attendere con angoscia l'uscita di Infinity War, sperando che la Marvel non decida di farmi cadere in depressione col suo sadismo.
Au revoir,
-Light-
P.S. Piccola aggiunta forse pretenziosa: magari sono io a volermi convincere che la sopracitata Atlas non sia l'unica intrepida rimasta a leggere la storia e non sono davvero il tipo da elemosinare recensioni... ma ho notato un leggero aumento delle visite e qualche "seguita" in più tra le statistiche di Phoenix e mi farebbe veramente piacere ricevere un qualsiasi tipo di feedback da parte di chi legge/segue, fosse anche una mezza riga di critiche che mi arriva tramite MP.
Sto dedicando a questa storia moltissimo del mio tempo e ricevere le opinioni di chi la legge significherebbe molto per me anche per capire come e dove potermi migliorare :)
P.P.S. Tony sta giocando a Starcraft, un gioco di strategia che manderebbe ai pazzi chiunque. Il "devi costruire altri piloni" è uno dei tormentoni che deve sorbirsi chi gioca.
EDIT: Il mio estro "artistico" è riemerso negli ultimi tempi: qui sotto trovate uno schizzo senza pretese della scena sulla spiaggia :) (prima o poi lo inchiostrerò, ma il terrore di devastarlo mi frena :'D)
© Marvel
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Capitolo 36 *** Friends will be friends ***
35
Friends
will be friends
"All
my life
I
have been fighting
For this dream in my soul
And I won't let it go
You know that all my life
They try to keep me down but I just get higher"
[Higher
–
The Score]
4
Giugno, Portland, 07:30
L'agente
Coulson aveva ormai sviluppato un istinto molto fino per riconoscere
le brutte giornate. Perciò, quando quella mattina
aprì senza un
solo pensiero al mondo la sua posta elettronica, con tutte le
intenzioni di declinare qualunque richiesta da parte dello SHIELD per
godersi la sua meritata settimana di ferie a Portland, e vide di aver
ricevuto un messaggio da Tony Stark, capì subito che quella
sarebbe
stata una pessima giornata.
Ponderò per un minuto
buono di ignorarlo. Poi pensò di leggerlo, per poi
ignorarlo. E poi
di leggerlo e valutare se ignorarlo o meno.
Sospirò piano. Perché
doveva essere sempre così ligio al dovere?
Si alzò dal letto in
punta di piedi riuscendo a svicolare dalla stanza senza svegliare
Audrey e si trasferì in cucina: un buon tè
avrebbe forse mitigato
la probabile crisi di nervi che gli avrebbe provocato la mail di quel
coacervo di
problemi che era diventato Stark. Soltanto quando fu con le mani
strette
attorno alla tazza bollente e avvolto in una vestaglia decisamente
fuori stagione si decise ad aprire il messaggio con una pressione
decisa del dito. Ovviamente il suo
contenuto fece apparire non poche rughe corrucciate sulla sua fronte
ampia, e si ritrovò ad assottigliare gli occhi sempre
più ad ogni
parola di quel breve messaggio:
Agente,
dimentichi
per un attimo le spiacevoli circostanze del nostro ultimo incontro:
ho bisogno di parlarle con urgenza. Di persona.
Parole chiave:
Vendicatori&Iron Man. Massima priorità.
La aspetto alla villa
(Nick non è invitato).
TS
P.S. Saluti la sua
violoncellista.
Nel
leggere il post
scriptum Phil non si disturbò nemmeno ad assumere
un'espressione
stupita: non voleva immaginare come facesse a sapere che era a con
Audrey, ma era tipico di Stark ficcare il naso nei fatti altrui. Era
più occupato a
decifrare quel messaggio criptico e straordinariamente conciso per un
tipo come lui. Si era aspettato di tutto, da foto inappropriate e
vanitose a pagine e pagine dei suoi soliti sproloqui messi per
iscritto, ma non quell'insolita stringatezza quasi formale.
Stando agli ultimi
resoconti degli agenti Barton e Romanov, correva voce che il
vulcanico miliardario avesse messo la testa a posto, oltre alle
gambe. Phil si riservava il
diritto di rimanere scettico in proposito.
Diede una rapida
occhiata al calendario sul telefono, rendendosi conto che proprio il
giorno prima si era tenuta l'ultima udienza dell'infinito ed
estenuante processo su Iron Man: non gli fu difficile collegarne
l'esito al
messaggio appena ricevuto. Eppure l'udienza
precedente era filata liscia... cosa aveva combinato Stark di
così
grave da spingerlo a contattare proprio lui con tanta "urgenza"?
D'altra parte, se la conclusione fosse stata così
disastrosa era
certo che il direttore l'avrebbe prelevato con la forza dalle sue
ferie per avviare le procedure di contenimento danni.
Phil scosse tra sé la
testa, sentendosi come sempre irritato al solo pensiero del
cosiddetto "genio". Sin dal principio Tony
Stark non aveva suscitato le sue simpatie. Egocentrico, arrogante,
sfacciato e privo di qualsivoglia autocontrollo: aveva avuto il
presentimento che si sarebbe rivelato un'enorme fonte di guai per
tutti loro. E proprio per questo aveva suggerito a Fury di tenerlo
d'occhio molto, molto da vicino, a costo di
invischiarlo
collateralmente nel Progetto Vendicatori. Certo, poi aveva dato prova
di essere una risorsa di tutto rispetto sia sul campo – anche
se
nessuno l'aveva mai invitato ufficialmente
a partecipare alle
missioni – che dietro le quinte, ma ciò non
evitava a Coulson di
mantenere del sano riserbo nei suoi confronti. La serie di azioni
sconclusionate e nocive che aveva compiuto a partire dall'incidente,
culminate col suo tentato suicidio, non aveva fatto altro che
confermare le sue prime impressioni.
In altre circostanze,
dopo aver ripulito quel disastro, avrebbe semplicemente scrollato le
spalle con un laconico "io
l'avevo detto" indirizzato a Fury.
Quelle circostanze non includevano vedere Virginia Potts in preda a
un attacco di panico dopo aver tentato disperatamente di rianimare il
suo capo egoista e idiota sospeso a un passo dalla morte.
I suoi lineamenti si
indurirono al solo ricordo. Aveva passato mezza
giornata accanto alla donna, riuscendo infine a calmarla e attendendo
con
lei che Stark venisse dichiarato fuori pericolo dalla squadra medica.
Si era rifiutata di schiodarsi dalla villa finché non
aveva
udito la notizia con le sue orecchie e non aveva visto Stark dormire
fin
troppo serenamente coi suoi occhi, nonostante quello che l'uomo le
aveva appena fatto passare.
Coulson si era sempre
chiesto come la volontà ferrea di una donna intelligente
come
Virginia potesse puntualmente vacillare dinanzi alle trovate sempre
più nefaste di un individuo dissoluto e incostante come
Stark. O
meglio, si chiedeva perché avesse deciso di sfruttare quella
volontà
per cercare di indirizzarlo su una strada in salita sulla quale lui
chiaramente non aveva alcuna intenzione di inerpicarsi, visto che
aveva preferito gettarsi nel dirupo adiacente. Una risposta a quegli
interrogativi Coulson se l'era data già da tempo, e non del
tipo che lasciasse presagire razionalità nelle
azioni della
donna.
Per questo era rimasto
di stucco quando, poche decine di minuti dopo che le condizioni di
Stark si erano stabilizzate, si era ritrovato davanti una Virginia
Potts più seria e compita del solito con una borsa da
viaggio a
tracolla e la richiesta di potersi trasferire allo SHIELD seduta
stante. Richiesta che lui aveva soddisfatto senza pensarci due volte,
memore anche delle parole di Bruce riguardo a quell'evenienza
– e
che Fury lo degradasse pure per quell'iniziativa individuale.
Coulson si rigirò la
tazza ormai vuota tra le mani, consapevole che accogliere la donna
era stata con tutta probabilità l'unico freno che le aveva
impedito
di crollare definitivamente. Dalla loro ultima discussione Virginia
gli era sembrata più serena e in pace con la scelta di
lasciare che
le cose facessero il loro corso senza crucciarsi troppo, qualunque
fosse la conclusione a cui era arrivata. E Phil era abbastanza sicuro
di poterla intuire. Non aveva
potuto fare a meno di notare come quel cambiamento d'umore si fosse
accentuato dal giorno in cui Stark aveva inviato la sua "foto
vittoriosa" all'intero SHIELD. Doveva ammettere che aveva strappato un
sorriso incredulo anche a lui, anche se prevaleva ancora l'istinto di
sferrare un pugno in faccia a quel pallone gonfiato, che adesso aveva
avuto la malsana idea di rivolgersi a lui per... cosa,
di
preciso?
Phil rilesse il
messaggio intentamente, come se sperasse di trarne fuori qualche
significato cifrato e insondabile, ma quelle parole erano tanto brevi
quanto univoche persino dinanzi alla sua consumata esperienza
controspionistica e investigativa.
Magari
era
importante. E se era importante per
lui, poteva esserlo di riflesso anche per Virginia. Aveva
l'impressione che i passi avanti che Stark stava compiendo in
quell'ultimo periodo, metaforici e non, si tramutassero per lei in
altrettanti passi verso una stabilità che aveva perso e che
stava
lentamente recuperando. Sentiva di non avere
alcun diritto di turbare o interferire con quel recupero.
Fu così con riluttanza
che selezionò il numero di Stark dalla rubrica, avviando la
chiamata. Dopo una lunga serie di
squilli udì il segnale acustico della segreteria telefonica
risuonargli penetrante nell'orecchio, seguito dalla voce scanzonata
di Stark:
«Risponde
la segreteria telefonica di Tony Stark: genio, miliardario, playboy,
filantropo. Si prega il signor Agente di evitare chiamate inopportune
e di presentarsi personalmente a Villa Stark, Malibu Point 10880,
California, entro tre giorni, se è tanto interessato a
parlarmi.
Astenersi perditempo, vecchietti in calzamaglia e pirati irascibili.»
Coulson riattaccò con
un sospiro. Ecco, registrare un messaggio di segreteria telefonica
personalizzato era già più in linea con il
miliardario irriverente
che conosceva. Giunse le mani davanti
al volto coi pollici a sostenere il mento mentre rifletteva, ma in
realtà gli rimaneva un'unica cosa da fare, esattamente
quella che si
era ripromesso di evitare per tutta la durata delle sue brevi ferie.
Prese di nuovo il
telefono e premette il pulsante di chiamata rapida.
«Agente
Coulson, che succede?»
la
voce di Fury risuonò dopo il primo squillo, bassa e
apparentamente
adirata come sempre, ma l'orecchio allenato di Phil colse anche una
vena di apprensione nel suo tono burbero.
«Stark
mi ha contattato,»
gli
comunicò senza giri di parole.
Ci fu un brevissimo
silenzio dall'altro lato della cornetta, poi udì quello che
pareva
uno sbuffo seccato.
«E
cosa vuole?»
«Non
ne ho idea, vuole parlarmi di persona. Ha detto che riguarda Iron Man
e i Vendicatori, il che...»
«...
potrebbe voler dire tutto e niente,»
completò Fury, e Coulson poteva immaginarselo mentre
marciava ad
ampie falcate sulla plancia dell'Helicarrier, seminando
preoccupazione e timore tra i suoi poveri sottoposti.
«Lascialo
cuocere nel suo brodo. Non ho intenzione di assecondare ancora i suoi
capricci da primadonna,»
sbottò infine.
«Ha
detto che è urgente,»
buttò
lì Coulson, consapevole di essersi appena dato la zappa sui
piedi e
desiderando di potersi rimangiare quelle parole.
«Per
Stark anche la sua manicure è "urgente",»
commentò caustico il suo capo, e stavolta l'agente ebbe la
visione
del suo sguardo che fulminava chiunque capitasse disgraziatamente nel
suo raggio d'azione.
«Anche
a me è sembrato urgente.»
Coulson udì un altro
sospiro, stavolta rassegnato.
«Quando
vuole vederti?»
«Entro
tre giorni.»
«Adesso
si permette anche di dare ultimatum...»
lo sentì rimuginare tra i denti, e si chiese come stesse
frenando la
tentazione di puntare un missile a lungo raggio su Villa Stark.
Conoscendolo, a fatica.
«Agente
Coulson, goditi ancora due giorni di vacanza,»
si sentì dire infine. «Poi
va' a Malibu e cerca di arginare o impedire qualunque disastro stia
architettando quello spostato.»
«Ricevuto.»
«Attendo
aggiornamenti.»
La
comunicazione si chiuse, ma Coulson rimase ancora col telefono
all'orecchio, chiedendosi perché avesse appena deciso di
mandare in
fumo un incantevole finesettimana con la sua ragazza per tramutarsi
nella balia privata di Stark Jr. Come richiamata dalle
sue riflessioni, una voce femminile risuonò nella stanza:
«Phil?»
Audrey fece capolino in cucina con la sua cascata di capelli bruni e
lui si voltò a guardarla, ammirandone il viso ancora un po'
assonnato e sereno.
Per
poco.
«Chi
era, a quest'ora?»
la donna trattenne uno sbadiglio.
Lui
si alzò per andarle incontro e sforzò un
sorrisetto rilassato,
preparandosi in realtà alla tempesta.
Ecco,
quella sarebbe stata una discussione spiacevole.
***
Tre
giorni prima, 1° Giugno, Villa Stark
«Deve
sempre strafare...»
«Sto
benissimo, Doc. E poi dicono che l'aria di mare faccia bene.»
«A
lei farebbe bene un po' di buonsenso.»
«Il
buonsenso mi annoia.»
Tony addentò con gusto un altro waffle, divertito
dall'espressione
intransigente che emerse sulla faccia del suo medico, poi
sprimacciò
il cuscino dietro la schiena e sprofondò meglio contro la
testiera
del letto. Trascinò
in aria lo schermo olografico con la videochiamata, aggiustandolo al
livello del suo sguardo mentre si allungava per afferrare un altro
waffle dal piatto sul comodino. Erano bruciacchiati, ma da qualche
giorno aveva un appetito tale da farlo soprassedere sui disastri
culinari dei suoi robot. Colse l'occhiata di rimprovero che Ian
scoccò al suo cibo decisamente insalubre e prese un altro
morso con
deliberata lentezza.
«Piuttosto,
com'è Chicago?»
chiese bofonchiando tra un boccone e l'altro.
«Troppo
lontana per tenerla d'occhio, per i miei gusti,»
sospirò il medico.
L'inquadratura traballò e fu
scossa per qualche
istante mentre si muoveva nella sua camera d'albergo, indaffarato a
cercare qualcosa.
«Ma
allora si preoccupa davvero per me!»
sogghignò Tony. «Però
adesso si plachi, mi fa venire il mal di mare,»
aggiunse, distogliendosi dallo schermo divenuto un turbinio confuso
di colori e forme sfocate.
L'inquadratura
si stabilizzò, puntata su un anonimo soffitto, e Tony stette
ad
ascoltare Ian che, mentre disfava i bagagli in sottofondo, gli
riassumeva in modo stranamente loquace il suo viaggio in Illinois per
un ciclo di seminari a cui partecipava anche il dipartimento medico
delle Stark Industries, soffermandosi in modo per lui quasi
entusiasta sulla conferenza di quella mattina. Tony
sogghignò: era
segretamente soddisfatto che il medico fosse così su di giri
per il
suo lavoro alle Industries, e per l'ennesima volta si
congratulò con
se stesso per averlo convinto a riprendere il suo ruolo dopo il loro
periodo di "rottura".
«Deduco
che è contento di lavorare per me,»
lo interruppe quindi dopo qualche minuto, con malcelato
compiacimento.
«Quando
non è occupato ad attentare alla sua salute, sì,»
rispose l'altro burbero come sempre, ma Tony colse il sottotono
divertito nella sua voce. «Allora,
come si sente?»
chiese poi facendo di nuovo capolino nello schermo.
La
nota pungente emersa nei suoi occhi acquamarina comunicava che
stavolta non avrebbe potuto sottrarsi alla domanda come aveva
abilmente fatto poco prima. Ian era andato in escandescenze quando
gli aveva raccontato della sua scampagnata sulla spiaggia, anche se
era poi sembrato enormemente in imbarazzo quando lui gli aveva fatto
notare che era stata una sorta di regalo di compleanno improvvisato
per se stesso – erano seguiti gli auguri più
impacciati che avesse
mai ricevuto in vita sua. In fondo, capiva
le preoccupazioni del medico e non poteva dargli torto, visto che era
praticamente bloccato a letto dal giorno della sua impresa, afflitto
da continui crampi al moncherino inferiore e incapacitato a muoversi
se non per svolgere le funzioni basilari. Per fortuna grazie al suo
ingegno aveva una casa gestita da un'intelligenza artificiale
totalmente autosufficiente. E grazie al cielo esistevano le consegne
a domicilio.
«Diciamo
che mi sento meglio,»
mentì, trangugiando l'ultimo waffle.
«Stark?»
Ian non se la bevve.
Lui
alzò l'occhio al cielo.
«E
va bene, sono bloccato qui da due giorni. Deve essere lo scotto da
pagare per il progresso tecnologico. Ma a parte la noia mortale, sto
bene,»
concluse con fermezza.
Ian
si stropicciò gli occhi da sotto le lenti, evidentemente a
corto di
commenti di fronte alle sue solite gesta scapestrate.
«Aumenti
leggermente gli antidolorifici al bisogno. Con criterio.»
«Tranquillo,
Doc, non ho intenzione di andare in coma farmacologico,»
sospirò Tony, chiedendosi se desse davvero l'impressione di
aver
bisogno di controllo costante ventiquattr'ore al giorno.
«E
stia a riposo, deve essere in forma per il processo,»
disse ancora Ian, con una severità che gli
ricordò spiacevolmente
quella di suo padre, fugando il dubbio precedente.
«Sì,
giusto. Il processo. Ovviamente,» borbottò,
incrociando le braccia dietro la testa fingendo rilassatezza.
«Se
n'è dimenticato?»
Il
silenzio eloquente di Tony servì da risposta e Ian si
limitò a un
teatrale sospiro.
«Pensa
di riuscire a presentarsi in aula entro due giorni? Le rammento che
non tornerò in tempo per presenziare, quindi eviti di farsi
venire
un colpo in mia assenza.»
«Mi
sono presentato in aula con quaranta di febbre e in delirio, se ben
ricorda. Sono stato peggio.»
Tony si grattò a disagio il naso, per poi incupirsi un poco.
«Volevo
fare un ingresso in scena coi fiocchi, in stile Barnum, con tanto di
squilli di trombe ed elefanti, ma credo che ci sarà
un'involuzione
verso la sedia a rotelle,»
fu costretto ad ammettere, cavandosi a forza
ogni
parola dalla bocca e celando col sarcasmo la sua delusione per
quell'inconveniente.
«Saggia
idea, signor Stark. Non è il caso di farsi notare,»
concordò Ian. «C'è
altro che dovrei sapere? O posso dormire sonni tranquilli?»
chiese poi in tono quasi implorante: era chiaramente esausto per la
lunga giornata.
Tony
si lisciò il pizzetto, riflettendoci per qualche istante.
Qualcosa
c'era. E se non l'avesse detto a qualcuno, fosse anche il suo medico
scontroso e misantropo, sarebbe impazzito. A sua discolpa, non era
assolutamente
il caso di presentarsi al processo più
squilibrato del
solito.
«Oh,
mi ha chiamato Pepper,»
buttò lì alla fine, con
forzata noncuranza.
«La
sezione "cuori infranti" la gestisce Kyle,»
ribatté serafico l'altro.
«Doc!»
la voce di Tony virò sullo stridulo.
Al
dottore sfuggì un mezzo sorrisetto, soddisfatto per la sua
reazione.
«E
cosa le ha detto?»
s'interessò poi, scrutandolo con aria pettegola.
«Non
meriterebbe di saperlo,»
ribatté Tony, imbronciato. «Ma
il problema non si pone: non ho risposto.»
«Come,
non ha...»
Ian s'interruppe, portandosi un palmo alla fronte in un gesto
esasperato.
«Non
l'ho sentito, stavo dormendo!»
si giustificò in fretta lui, chiedendosi perché
avesse tirato fuori
la questione e soprattutto perché diavolo
stesse avvampando.
«Persino
Kyle potrebbe impartirle lezioni di savoir-faire,»
sospirò il medico, scuotendo la testa incredulo. «Ho
sentito dire che esiste il tasto "richiama": le è
familiare come concetto?»
«Non
potevo certo richiamarla... insomma, era il mio compleanno,
mi
avrà chiamato per... uhm, gli auguri, no? Perché
altrimenti mi
avrebbe... cioè, credo fosse per
quello... e comunque non
posso richiamare la gente solo per farmi fare gli auguri, neanch'io
sono così egocentrico!»
S'impappinò e si impose poi di sigillare la bocca, prima di
ricominciare a balbettare senza ritegno, ed evitò di
soffermarsi sul
fatto che in svariate circostanze aveva telefonato sia a Pepper che a
Rhodey per farsi fare gli auguri senza troppi problemi. Ian
sembrava godersi lo spettacolo del playboy vissuto che si incartava
con le sue stesse mani come un liceale alle prese col primo
appuntamento, poi tornò improvvisamente serio:
«Signor
Stark, le vostre vicende personali non sono affar mio...»
esordì, grave.
«...
ma ritiene comunque opportuno metter bocca,»
osservò Tony in tono leggero, non abbastanza da mascherare
il
fastidio emerso sul suo volto.
«...
ma la signorina Potts ha deciso di chiamarla dopo
tutto quello
che ha dovuto sopportare da parte sua negli ultimi mesi. E le
consiglio un ripasso mentale in proposito,»
rincarò acuendo lo sguardo, e Tony si sentì
costretto a distogliere
il suo .«Ci
rifletta,»
concluse semplicemente.
Tony
annuì in modo secco: come se avesse fatto altro negli ultimi
giorni,
tanto più che era confinato a letto e non aveva molti altri
modi
intelligenti per passare il tempo. Oltre a impugnare il telefono ogni
tre per due chiedendosi se fosse il caso di richiamarla o meno.
«Ho
capito, Doc: mi darò alla
meditazione. Magari quel suo
fantomatico collega ha ragione e mi guarirà da ogni male,»
sospirò ironico, scrutando però con interesse la
reazione del
medico.
In
cuor suo era ansioso di chiudere la chiamata e dimenticare quella
conversazione, ma non poteva esentarsi dal raccimolare qualche dato
in più sull'unica persona che poteva forse evitargli di
impersonare
un pirata a vita. Soprattutto se riusciva anche ad allontanare il
discorso da un
argomento che riteneva a dir poco delicato e imbarazzante.
«Non
mi sono dimenticato, signor Stark,» puntualizzò
subito Ian,
incupendosi appena. «Le ho detto che la terrò
aggiornato.»
«Non
ho fretta... solo che sto esaurendo la scorta di bende e vorrei sapere
se quella del suo amico è una proposta seria o
meno.»
«Sto
cercando di capirlo anch'io,» ammise l'altro, togliendosi gli
occhiali e prendendo presumibilmene a lucidarli al di fuori
dell'inquadratura. «Al momento credo che stia attraversando
una fase
di disorientamento.»
«Non
è proprio il termine che userei io... "discesa verso il
misticismo" mi sembra già una definizione più
calzante,»
commentò Tony, senza velare la criticità che
trapelava dalle sue
parole.
«Vogliamo
parlare della sua
fase di "disorientamento"?» lo rimbeccò Ian pacata
severità, inforcando di nuovo gli occhiali.
«Quella
come la
definirebbe?»
Tony
finse di pensarci per qualche istante, per poi alzare le mani in
segno di resa.
«Ho
un paio di idee che comprendono un largo uso dell'aggettivo "idiota"
e sue varianti... ma non credo che si aspettasse davvero una
risposta,»
realizzò poi, notando lo sguardo impaziente e decisamente
assonnato
di Ian.
«Mi
aspetto di dormire entro due minuti.»
«Messaggio
ricevuto. Grazie per il consulto multidisciplinare e
sogni
d'oro.»
«Non
faccia stronzate,»
gli ricordò il medico in tono più leggero prima
di chiudere la
chiamata, strappandogli un mezzo sorriso.
Tony
rimase a fissare lo schermo adesso oscurato con espressione vacua,
chiedendosi se quel suo "periodo di disorientamento" fosse
davvero finito. Per quanto lo riguardava si sentiva ancora fin troppo
nel pallone. Magari avrebbe dovuto dormirci su, ma come al solito il
rimescolarsi incessante di pensieri nella sua testa gli impediva di
lasciarsi scivolare facilmente in sonni tranquilli.
Si
riscosse dopo qualche minuto, improvvisamente deciso a non combattere
l'insonnia per impedirsi in tutti i modi di pensare; in quello ormai
era diventato bravo. Fece apparire un box virtuale azzurrino stipato
di file e ne selezionò uno, trascinandolo sul display
olografico e
facendo apparire una schermata di riproduzione video.
"La
meditazione può aspettare. E anche le stronzate."
«Ehi,
JARVIS, di' ai robot di fare un'altra dozzina di waffles,»
ordinò, ingrandendo lo schermo davanti a sé e
mettendosi comodo per
l'ennesimo rewatch di Star Trek.
***
3
Giugno, Tribunale di L.A, 10:30
"Azzurro
con un gessato marrone? Buon Dio..."
«Signor
Stark, potrebbe degnarsi di rispondere e almeno fingere
interesse?»
Tony
si riscosse e distolse lo sguardo dal completo di Knight,
ritrovandosi osservato – anzi, trapassato – dai
suoi occhi
slavati, sottili e decisamente seccati.
«La
sua cravatta mi distrae,»
ribatté flemmatico, additando l'oggetto celestino in
questione.
«Credo
sia illegale distrarre un testimone... non c'è qualche legge
a
tutelarmi?»
si guardò intorno in cerca d'appoggio.
«Signor
Stark, invece di impartire doverose lezioni di
stile a Knight
e appellarsi a diritti inesistenti, potrebbe provare a concentrarsi?»
Tony
si voltò sorpreso verso la fonte della voce; ovvero non
Knight, non
il Senatore Stern, né qualche altro individuo deciso a
condannarlo...
bensì il suo avvocato difensore, che al momento sembrava
alla
ricerca del modo più efficace per incenerirlo con lo
sguardo. Si
mosse a disagio sulla sua sedia a rotelle, rendendosi conto che forse
aveva di nuovo esagerato.
«A
quanto pare riesce ad esasperare proprio chiunque.»
Knight si lasciò sfuggire un sorrisetto beffardo.
«È
un talento naturale...»
si ricompose Tony, prima che Kyle riuscisse nel suo intento omicida.
«Dicevamo?»
«Parlavamo
della sua attività come Iron Man.»
«Sì,
sono Iron Man,»
rispose lui un po' assente, senza avere la minima idea di cosa gli
avesse chiesto poco prima il procuratore.
«Per
sua sfortuna, sì. Quindi, come giustifica i suoi ripetuti
interventi
in conflitti armati?»
Tony
riprese finalmente il filo del discorso:
«Erano
interventi necessari.»
Poteva
vedere Kyle fremere dietro al banco della difesa, probabilmente
incrociando le dita e applicando qualsiasi segno o rituale
scaramantico di sua conoscenza per evitare che dalla bocca del suo
assistito uscissero idiozie. Per
una volta anche Tony stava cercando di ponderare ciò che
diceva...
con un criterio tutto suo, ovviamente. Per fortuna l'ammonizione
aveva reso Knight più cauto con le domande e ciò
lo aiutava non
poco nel non lasciarsi sfuggire informazioni compromettenti. Non che
gli fosse rimasto molto altro da rivelare, in effetti.
Fino
a quel momento il processo non si era rivelato così
turbolento
come
temeva: la questione dello scontro con Stane era stata nuovamente
accantonata, grazie anche alla sua prontezza nel dirottare la
discussione sul ruolo di Iron Man, tema che gli risultava
immensamente più semplice da gestire rispetto al presunto
omicidio
del suo "padrino".
«Signor
Stark, in base a cosa definisce i suoi interventi "necessari"?»
insistette il procuratore, come sempre determinato a metterlo
all'angolo.
«Se
avesse prestato attenzione, signor Knight, saprebbe che il mio
obiettivo principale era distruggere le armi delle Stark Industries
vendute sottobanco da Stane. Non appena ne rintracciavo una partita o
un deposito mi recavo sul posto per provvedere di persona.»
«Perciò
in ognuna delle sue intromissioni nelle
regolari
operazioni militari, statunitensi e non, erano coinvolte le sue
armi?»
Tony
fiutò il pericolo in quella domanda e rispose evasivamente:
stava
imparando a riconoscere le trappole di Knight.
«Molti
si sono rivelati falsi allarmi, ma alcune delle circostanze in cui mi
sono trovato coinvolto mi hanno comunque obbligato a prendere parte
agli scontri in atto per difendermi,»
rispose senza esitazioni.
«E
in questi "scontri" da che parte si sarebbe schierato?»
«Per
difendermi,»
sottolineò ancora Tony. «Inizio
davvero a temere che lei abbia problemi d'udito. Mi
sono limitato a seguire la procedura d'estrazione standard. Ovvero
ritirarmi, se possibile pacificamente, dopo aver constatato l'assenza
delle mie armi,»
concluse con fermezza.
Colse
con la coda dell'occhio un gesto incoraggiante da parte di Kyle:
erano entrambi consapevoli di quanto fosse delicato quell'argomento,
visto che tecnicamente le missioni dei Vendicatori e dello SHIELD in
cui si era infiltrato erano top-secret e non avevano proprio nulla a
che fare con le sue armi. Knight
valutò la sua risposta, evidentemente dubbioso sulla sua
veridicità,
ma la spada di Damocle della sua ammonizione l'aveva reso molto meno
aggressivo e più incline a soppesare le sue accuse.
«Quindi
l'incidente coi Whiplash nella no-fly-zone di
Gulmira è da
considerarsi...»
«...
un incidente, signor Knight, come le ho ripetuto
fino allo
sfinimento per tre udienze,»
lo interruppe Tony, trattenendosi dallo sbuffare in faccia al
procuratore. «E
poi accusa me di essere distratto...»
aggiunse però a mezza voce.
«Ed
è avvenuto nel corso di una cosiddetta "procedura
d'estrazione"?»
Knight era evidentemente deciso a non mollare l'osso e Tony iniziava
suo malgrado a perdere la pazienza. Stava giusto
per ribattere a tono, quando qualcuno lo fece al posto suo:
«Signor
Knight, tutte le informazioni riguardanti l'incidente coi Whiplash
sono contenute nel mio rapporto ufficiale, di cui ha sicuramente
ricevuto una copia.»
Tony
non riuscì a nascondere il suo totale sconcerto nel sentire
la voce
di Rhodey levarsi dal pubblico, e rimase stolidamente con la bocca
semiaperta. S'inclinò
appena per scorgerlo, seduto in alta uniforme tra le prime file,
mentre tutta l'aula rivolgeva a sua volta l'attenzione verso di lui.
Persino Kyle era stato preso alla sprovvista, e l'espressione di
Knight era decisamente seccata, oltre che imbarazzata.
«La
ringrazio per il promemoria, Colonnello Rhodes,»
enunciò con gelida cordialità.
«E
grazie anche per l'assist, Rhodey!»
aggiunse con un sogghigno
Tony, decidendo di cogliere quell'inaspettata circostanza per...
"...
risolvere le tensioni? O qualcosa del genere."
«Ma
mi interesserebbe sentire la versione del signor Stark, se non le
dispiace,»
continuò imperterrito Knight, ignorando l'intervento del
suddetto.
«Per
la decima volta?»
vociò a quel punto Tony. «So
di essere bravo a intrattenere il pubblico,
ma sono un
po' stanco di concedere bis. A questo punto pretendo un compenso per le
mie prestazioni,»
s'illuminò, rivolgendosi sfacciatamente al giudice.
Lo
schiocco del martelletto interruppe sul nascere la diatriba.
«Qui
stiamo solo perdendo tempo,»
stabilì il Senatore, ignorandolo. «La
questione dei Whiplash è stata ampiamente chiarita e non
vedo motivo
di soffermavisi ancora, se non tenendo conto che si tratta comunque
di una violazione dei protocolli militari da parte del signor Stark.»
Tony
approfittò dello spaesamento di Knight per rivolgere un
occhiolino a
Rhodey, che ricambiò con un impercettibile cenno del capo e
un'espressione
meno truce del solito.
«Molto
bene,»
concesse infine il procuratore. «Resta
il fatto che non può giustificare il suo intervento
né in Gulmira
né negli altri scontri in cui si è intromesso.»
«Obiezione.
Signor Knight, eppure le è appena stata fatta
notare la sua
ridondanza: il signor Stark ha spiegato chiaramente il motivo della
sua presenza in zone di guerra.»
Il tono di Kyle sfiorava l'annoiato.
«Non
mi risulta che il signor Stark, e di conseguenza Iron Man, faccia
parte di alcun corpo o unità speciale autorizzata dal
Dipartimento
della Difesa a intervenire in tali situazioni,»
ribatté l'altro.
«Ho
agito come privato cittadino nell'interesse comune; potreste anche
ringraziarmi...»
chiosò l'interessato, alzando l'occhio al cielo.
«Ciò
non rende più legale la sua "attività
supereroistica".»
«Non
pensavo ci volesse una licenza apposita,» sospirò
tra sé.
Si abbandonò contro lo schienale
della sedia a rotelle,
agognando il
momento il cui avrebbe potuto collassare su un divano per far
riposare il cervello da quelle fesserie.
«Dovrebbe
esistere, visti i potenziali pericoli che questa attività
comporta.»
"Oh,
Capitan Harlock sarà felice di sentirselo dire..."
«Signor
Knight, non so dove voglia andare a parare con tutto questo, ma se si
aspetta che io legalizzi la mia posizione di "supereroe"
arriva al momento sbagliato, visto che sto per abbandonarla,»
scandì Tony scambiando un'occhiata d'intesa con Kyle, che
approvò
appena con un gesto discreto del capo.
Prevedibilmente
il tribunale fu pervaso da un brusio attonito che crebbe ben presto
d'intensità, costringendo Stern a riportare l'ordine. Tony
sorrise appena sotto i baffi, segretamente soddisfatto. Aveva avuto
intenzione di usare quel jolly in un momento più critico, ma
preferiva non addentrarsi in una discussione che avrebbe potuto
tirare in ballo lo SHIELD. Non aveva alcuna intenzione di
inimicarselo ulteriormente.
«Signor
Stark, vorrebbe spiegarsi meglio?»
lo incalzò Knight, quando fu tornata la calma.
Tony
dovette sforzarsi di cancellare il sogghigno che era affiorato sulla
sua faccia nel constatare come il suo diversivo avesse funzionato a
meraviglia. S'impose
un tenore più serio, ma non poté evitare
un'occhiata trionfante
verso il banco della difesa. Ebbe un involontario moto di delusione
nel realizzare che gli occhi azzurri che aveva cercato sovrappensiero
non
erano lì, ovviamente;
riportò la sua attenzione
alla superficie
lucida del banco dei testimoni, accigliandosi appena e realizzando
che Knight attendeva impaziente una sua risposta. Si
costrinse a uscire da dietro le quinte dei suoi pensieri per tornare
sul palcoscenico:
«Beh,
come dire... Io, anzi Iron Man, è
in pausa a tempo indeterminato,»
buttò lì con nonchalance.
«In
pausa?»
Tony
poggiò il gomito sul banco, rivolgendo il palmo della mano
verso
l'alto in un gesto incredulo:
«I
supereroi non hanno forse diritto a ferie?»
chiese retorico.
Knight
era evidentemente confuso dalla piega che stava prendendo la
situazione.
«Quindi
non ha intenzione di riprendere il ruolo di Iron Man?»
«Non
ho detto questo, ho detto solo che lo metterò momentaneamente
da parte.»
«Quando
si deciderà a fornire una risposta chiara
e coerente alla corte non sarà mai troppo
tardi, signor
Stark,»
intervenne il Senatore, con un sospiro esasperato.
«Pensavo
fosse cristallino: al momento sono impossibilitato a riprendere il
ruolo di Iron Man.»
Nel parlare, sollevò di peso e con fare esplicativo la
protesi fasulla e
inerte
con due dita della mano sana, facendo appello a tutta la sua faccia
tosta per nascondere il turbamento che gli causavano quelle
affermazioni. Odiava recitare la parte della vittima e sentiva le
pareti dello stomaco bruciare d'orgoglio represso, ma
doveva reggere il gioco, almeno per un altro po'.
«Di
conseguenza non ho alcun interesse né a ricostruire
l'armatura, né
qualsiasi altro congegno potenzialmente offensivo finché non
uscirò
da questa situazione poco piacevole... cosa che i "signori della
corte" stanno provando a impedirmi col sequestro delle protesi
che dovrebbero servirmi per la riabilitazione,»
concluse in tono deliberatamente afflitto, sollevando un'ondata di
commenti dal pubblico molto influenzabile, come previsto.
Di
nuovo Tony e Kyle si scambiarono uno sguardo d'intesa e
un'espressione complice attraversò i loro volti.
«Signor
Stark, fare la parte della vittima non le sarà di alcun
aiuto,»
lo intercettò duramente Knight, squadrandolo con aperto
astio e
fin troppo
consapevole che il processo non stava girando a proprio favore.
«Obiezione.
Signor Knight, si astenga da commenti inutili e volti a insidiare
l'imputato,»
intervenne Kyle.
«Accolta.
Le ricordo la sua ammonizione,»
osservò pigramente il giudice.
Knight
aveva un'espressione che ricordava quella di un serpente pronto a
sputare veleno, cosa che fece subito dopo:
«Ricordo ai signori
della corte e a tutti i presenti che le protesi sono state
ufficialmente interdette all'utilizzo pubblico per la loro potenziale
pericolosità, ma il signor Stark ha ancora il diritto di
utilizzarle
privatamente per la sua riabilitazione.»
«E mi spiega che me ne
faccio di una riabilitazione basata su delle protesi complete, se poi
non posso usarle neanche per andare a fare la spesa?»
commentò
beffardo Tony, e Knight esitò, rendendosi conto di stare per
entrare
in un vicolo cieco.
«Vostro Onore,»
s'intromise a quel punto Kyle, «a prescindere dalla
pericolosità
delle protesi, possiamo concordare sul fatto che restringerne
l'utilizzo alla sola sfera privata comporti delle ingenti limitazioni
alla libertà stessa del signor Stark.»
«Le limitazioni alla
sua libertà derivano dalle scarse capacità di
controllo dimostrate,
signor Andrews, appurate negli scorsi processi...»
s'intromise con
prontezza il procuratore.
«... con prove di
discutibile origine e respinte dalla giuri,»
completò l'altro,
interrompendolo sul nascere.
Tony
si agitò appena al banco dei testimoni, scrutando
preoccupato il suo
avvocato e cercando di comunicargli con lo sguardo quanto non
volesse
riportare la
discussione sulle foto della Everhart. Le successive parole di Knight
vanificarono le sue speranze di glissare sull'argomento:
«Vanity
Fair
ha ritenuto le prove
legittime, a quanto pare, assieme alle dettagliate
testimonianze che le corredavano,» insinuò
infatti, evidentemente alle strette e umiliandolo giusto per ripicca.
Tony si rabbuiò
all'istante e decise che ne aveva abbastanza di quelle frecciatine:
«Signor
Knight, se è così
interessato alle mie abilità amatorie posso darle una
dimostrazione pratica in privato... ma per ora vorrei continuare a
parlare di
protesi nel senso
stretto
del termine, se non le dispiace,» sbottò a
metà tra il serio e il
faceto, ma il suo sguardo rimase tagliente e decisamente poco
divertito.
Lo schiocco del
martelletto riportò l'ordine nell'aula, ora attraversata da
un brusio ilare e pettegolo.
«Signor Knight, signor
Stark, invito entrambi ad astenervi dal gossip: siamo in un'aula di
tribunale, non a un talk-show,» ricordò loro con
fare seccato Stern.
«Ciononostante, l'imputato ha indubbiamente fatto sfoggio di
instabilità nelle scorse udienze e, si presume, al di
fuori,»
continuò poi impassibile.
«Non vi è alcuna
valutazione psicologica ufficiale a sostegno delle tesi dell'accusa,
Vostro Onore. E le ricordo che nel corso dell'ultima udienza
l'imputato era febbricitante e fortemente debilitato da quelle stesse
operazioni necessarie a impiantarsi le protesi che, in seguito a un
possibile sequestro, si rivelerebbero solo un'inutile
sofferenza,»
sciorinò Kyle con sicurezza. «E ciò
sarebbe un considerevole danno
economico, emotivo e sociale per il mio cliente.»
«E mondiale,» aggiunse
Tony di getto. «Niente protesi, niente Iron Man... e niente
"deterrente
nucleare" per gli Stati Uniti,» si arrischiò ad
aggiungere,
rimediandosi un'occhiata ammonitrice dal suo avvocato, ma dal
pubblico arrivò un mormorio di consenso che sfatò
la sua
preoccupazione per quel commento azzardato.
«Una perdita
davvero
incommensurabile,» osservò sarcastico
Knight, ma
passò ignorato.
«È innegabile che ciò
lederebbe la vita privata del signor Stark, ma cosa suggerisce per
scongiurare questi "danni" e le "limitazioni"
alle protesi, signor Andrews, considerando le conclusioni della
giuria in merito?» insistette il giudice, dimostrandosi
inaspettatamente incline al dialogo.
A quel punto l'avvocato
si concesse un lieve sorriso sicuro di sé. Tony dal canto
suo si
sentì balzare il cuore in gola e si ritrovò a
incrociare tutte le
dita che gli rimanevano, pregando che la faccenda andasse per il
verso giusto: erano finalmente arrivati al punto cruciale del
processo, al quale avevano mirato con prudenza sin dal principio.
«Se le protesi sono
davvero considerate alla stregua di "armi", potrebbero
essere messe in regola con una banalissima licenza, come avviene
normalmente per qualsiasi altro tipo di arma.»
Il breve silenzio
attonito che seguì la sua affermazione fece capire a Tony
che
avevano appena colto nel segno: Knight era rimasto interdetto e si
potevano quasi scorgere i suoi pensieri ristagnare dietro agli occhi
chiari, come se fosse momentaneamente incapace di elaborare
ciò che
aveva appena sentito. Dopo aver meditato per
qualche istante, il giudice si rivolse a Kyle prima che Knight
potesse formulare una replica coerente:
«Signor Andrews, si
rende conto che stiamo parlando di congegni che esulano dal concetto
stesso di "arma"?»
«Non vedo perché non
dovrebbe essere possibile regolamentarle seguendo delle direttive
speciali e preposte al caso in questione,» ribatté
prontamente lui.
«Dopotutto, non costituerebbero un pericolo molto diverso da
una
comune pistola, tanto più che dovrebbero essere considerate
come
armi contundenti e non da fuoco.»
«Obiezione!» la voce
di Knight risuonò innaturalmente alta e allarmata.
«Non siamo ancora
a conoscenza della reale capacità offensiva delle protesi, e
ritengo
assolutamente prematuro avanzare richieste del genere,»
concluse, piuttosto debolmente.
«Per questo
ho
autorizzato una perizia tecnica sulle protesi non appena le
avrò
ultimate,» ribatté serafico Tony godendosi la
reazione di Knight, che
fu di puro sconcerto nel vedere apparire un documento che
passò
dalle mani di Kyle a quelle della guardia di sicurezza e infine del
giudice, che lo lesse incuriosito facendo sprofondare nuovamente il
tribunale in un mormorio agitato.
«Signor Stark, non ha
fornito una data precisa per questa "perizia",»
osservò Stern a
lettura ultimata.
«Le protesi sono ancora
in fase di collaudo: preferisco aspettare fino al loro completamento
precludendomi qualche gita fuori porta. Odierei dover ripetere tutto
una seconda volta, soprattutto se sarà Hammer a metterci su
le mani,»
puntualizzò lui con malcelato fastidio.
Il giudice annuì appena
e prese a parlottare coi membri della giuria, mentre tra loro
circolava varie volte il documento in esame, con grande aspettativa
di Tony e Kyle.
Quasi sobbalzarono quando il martelletto schioccò di
nuovo.
«La corte mette agli
atti l'autorizzazione controfirmata dal signor Stark,»
annunciò
infine Stern.
Tony si ritrovò a
sorridere con enorme soddisfazione mista a sollievo, cercando con
fare saccente gli occhi irati di Knight, adesso impalato rigidamente
davanti al banco dell'accusa e per una volta a corto di parole
taglienti con cui metterlo in difficoltà.
«La questione delle
protesi verrà archiviata fino alla loro ultimazione, a patto
che il
signor Stark continui a rispettare le limitazioni impostegli. Ogni
violazione in tal senso verrà severamente
punita.»
Stern trapassò
con lo sguardo Tony, come a sottolineare la serietà di
quella
minaccia. Lui si limitò ad alzare
le spalle e a soffiargli un irriverente bacetto di ringraziamento,
incurante del rischio di vedersi sbattere al gabbio seduta stante;
per sua fortuna il giudice si limitò a sbuffare sonoramente,
già
pentito della sua magnanimità.
Tony
scoccò un'occhiata di sottecchi a Kyle, che con sua sorpresa
non
stava ancora facendo una ola
di gioia per il risultato appena raggiunto. L'avrebbe fatta
volentieri lui, ad avere due braccia funzionanti, ma per ora gli
bastava non riuscire a togliersi dalla faccia un ghigno soddisfatto e
indirizzato soprattutto a un Knight paonazzo e ribollente di
frustrazione.
«Signor
Stark, anche escludendo le protesi, lei è comunque in
possesso di
armi devastanti, sebbene non sia al momento in grado di
usarle,»
tornò alla carica, in tono molto meno conciliante di prima.
«E
queste, non essendo sotto il controllo dell'esercito, potrebbero
essere sottratte e utilizzate in modo improprio come con la
tecnologia arc.»
«Ho i miei metodi per
assicurarmi che ciò non accada più, signor
Knight. Ho imparato la
lezione,» ribatté Tony laconico, accennando
alla benda sull'occhio.
«E noi dovremmo fidarci
della sua parola?»
«Dovreste fidarvi del
fatto che Iron Man è sempre rimasto in mio esclusivo
possesso,
escludendo la penosa imitazione di Stane che mi sono premurato di
porre sotto mia diretta custodia. O almeno, ciò che ne
rimane dopo
il tuffo nel reattore.»
Tony si rese conto con un brivido
d'inquietudine di aver portato il discorso in una direzione
pericolosa, ma Knight sembrava troppo accanito contro Iron Man per
cogliere l'opportunità:
«La sua parola non è
una garanzia sufficiente. Le "protesi" potranno anche
passare come giocattoli, ma spero non vorrà convincere la
corte a
concederle un porto d'armi anche per Iron Man,»
sbottò con
sarcasmo.
«Lungi da me, signor
Knight,» sospirò Tony, chiedendosi quante
energie dovesse
avere il procuratore per mandare avanti quella pantomima estenuante.
«Signor Stark,»
intervenne a quel punto il giudice, «le faccio notare che la
detenzione di armi di tale portata deve necessariamente essere
regolamentata e approvata dal Dipartimento della Difesa. Siamo stati
fin troppo clementi con lei: la invito caldamente e per l'ultima
volta a smantellare e consegnare di sua volontà l'arma Iron
Man, o saremo
costretti a processarla ufficialmente per possesso illegale di
dispositivi ad alto potenziale bellico,» annunciò
con fredda
formalità, e a quelle parole Knight s'illuminò
come non mai.
Al contrario Tony
sprofondò in un'espressione tetra, sentendosi messo alle
corde e
prendendosi qualche secondo per rispondere. Incrociò
goffamente le
braccia con un cipiglio contrariato.
«Obiezione,»
s'intromise con pacatezza Kyle. «Il signor Stark non
è attualmente
in possesso di armi simili, come dichiarato in precedenza.»
«Non
abbiamo la certezza che il signor Stark non possegga armature in
questo momento,» replicò Knight, come rinvigorito
dalle
affermazioni del giudice.
«Se
proprio insistete, vi invito per un tè a casa mia
così da constatare
con mano l'arsenale che secondo voi sto nascondendo nella Bat-caverna.
Ma
temo che troverete solo un sacco di rottami, computer e auto
d'epoca,»
intervenne Tony, e alzò le spalle falsamente dispiaciuto,
reggendo il gioco azzardato di Kyle.
Vi furono lunghi,
pesanti secondi di silenzio, interrotti solo dal fitto confabulare di
Stern con la giuria. Knight osservava il tutto con circospezione e
pacata aspettativa. Infine il Senatore si raddrizzò sul
suo
scranno, intercettando lo sguardo di Tony.
«Stia pur certo che
accetteremo presto l'invito, signor Stark.»
***
3
Giugno, Tribunale di L.A., 13:40
«K?»
«Stark?»
«Non ho ben capito se è
andata bene o male.»
Tony si passò una mano sulla
nuca con fare
perplesso, attendendo un'illuminazione da parte dell'avvocato, che
però non arrivò. Kyle era intento a
rileggere il verbale dell'udienza e si faceva sempre più
scuro in
volto ad ogni pagina che scorreva.
«K?» lo chiamò
ancora, con più insistenza.
A quel punto il giovane
chiuse seccamente la cartellina, come a chiudere con essa anche le
sue riflessioni.
«Siamo in pareggio,»
annunciò infine, con aria un po' assente.
«Già, avevo avuto
quest'impressione,» concordò lui, con uno sbuffo.
«Non mi sembri
particolarmente preoccupato. Ti hanno praticamente annunciato una
perquisizione e il sequestro di Iron Man,»
commentò l'altro,
scrutandolo coi suoi penetranti occhi verdi come a voler svelare il
segreto di quella calma così insolita.
«Che venissero pure in
gita alla villa: dovrò solo smantellare la Mark II. Non
è un grosso
problema,» commentò Tony, con una percepibile
punta di rammarico.
«Il Dipartimento della
Difesa non si accontenterà così facilmente:
vorranno i progetti
delle armature. E c'è la questione dei tuoi interventi nelle
operazioni militari... non sei Iron Man adesso, ma lo sei stato, e se
decideranno di appigliarsi ancora a quello, e lo faranno, neanch'io
potrò esserti d'aiuto.»
«Me la caverò come
sempre.»
Tony alzò le spalle con noncuranza. Lo sguardo di Kyle si
fece ancora più penetrante.
«Stark, se hai qualcosa
da dire, dilla adesso, non tra un mese quando
saremo di nuovo
in aula.»
«Sono in fase
meditativa. Sappi solo che ho un piano. Credo...» aggiunse,
inclinando appena la testa di lato con aria assorta.
Kyle non sembrò affatto
rassicurato, ma decise di lasciar correre, almeno per il
momento. A quel punto Tony
s'illuminò repentinamente, rivolgendogli un sorriso
raggiante:
«Il nostro piano però
ha funzionato: abbiamo praticamente vinto la causa delle
protesi!»
L'avvocato non poté
fare a meno di sorridere di rimando, contagiato dalla sua euforia.
«Almeno quella è stata
una vittoria. Merito della mia strategia,»
aggiunse,
portandosi una mano al petto in uno sfoggio di immodestia.
«Merito del mio charme,
vorrai dire! Devo aver finalmente fatto colpo su Knight: oggi aveva
uno sguardo da triglia più intenso del solito,» lo
rimbeccò Tony,
sogghignando.
«Oh, attento, sono quasi
geloso, Stark.»
L'altro ridacchiò, per
poi tornare a fissarlo accigliato:
«Come diavolo facevi a
sopportarlo? Io l'avrei picchiato al primo appuntamento,»
scosse la
testa,
incredulo e squadrandolo con malcelata curiosità.
«Infatti la cosa non è durata
molto. E a poter tornare indietro lo farei,» aggiunse, quasi
sognante al pensiero di assestare un gancio sul muso del procuratore.
«Piuttosto, oggi ti sei comportato quasi
bene. Devo preoccuparmi?» commentò poi, chiudendo
con decisione
l'argomento.
«Non più del solito,» l
assecondò Tony.
«Ho semplicemente deciso di provare l'ebbrezza di attenermi
ai
"protocolli",» mimò delle virgolette
infastidite.
Kyle lo fissò dubbioso
per qualche istante, ponderando quelle parole.
«Avvicinati,»
lo invitò d'un tratto.
Tony
arcuò perplesso entrambe le sopracciglia, sporgendosi
però
cautamente verso di lui dalla sedia a rotelle:
«K,
capisco che tu voglia congratularti con me, ma una stretta di mano
è
più che sufficien–... Ahia!»
esclamò, sobbalzando al secco scappellotto che Kyle gli
aveva appena
rifilato a tradimento sulla nuca.
«Se avessi avuto la
decenza di seguire le mie direttive fin dall'inizio, a quest'ora
saresti un uomo libero!» sbottò l'altro,
piantandogli
un indice a un
palmo dal naso con fare accusatorio e diventando rosso in volto.
Tony si massaggiò la
testa storcendo la bocca in una smorfia, senza osare ribattere e
sapendo quanto l'avvocato avesse ragione.
«Messaggio ricevuto,»
borbottò dopo un po' con aria colpevole. «Ma
è sbagliando che
s'impara,» aggiunse subito dopo con fare saputo, e un
sorrisetto da discolo riprese
a inclinargli le labbra.
«Tony!» la voce
stentorea di Rhodey lo riscosse, e si scoprì a sorridere
più
apertamente nel vedere l'amico che gli si avvicinava ad ampie
falcate, con la solita espressione di pietra sul volto.
Kyle dovette intuire al
volo di essere di troppo, perché richiamò
discretamente
l'attenzione di Tony con una rapida pacca sul braccio:
«Stark, io vado, ho un sacco di tuoi
casini da gestire. E chiamami quando elabori il tuo
"piano",»
gli ingiunse minaccioso, al che Tony alzò l'occhio al cielo,
ma
annuì conciliante.
«Colonnello...» Kyle
si portò due dita alla fronte in un accenno di congedo
militare
prima di defilarsi e lasciarli soli.
Tony si sistemò meglio
sulla sedia a rotelle, improvvisamente a disagio nel ritrovarsi sotto
gli occhi dell'amico dopo così tanto tempo... e soprattutto
dopo
averlo praticamente chiuso fuori dalla sua esistenza senza alcun
motivo preciso, se non il suo orgoglio. Rhodey lo salutò con
un
lieve cenno del capo, per poi piazzarsi di fronte a lui un po'
impettito come al solito. Tony lo scrutò brevemente: aveva
l'impressione che le medagliette appuntate sulla divisa fossero
aumentate.
«Bel
gioco di squadra, là dentro,»
esordì con leggerezza, indicando le porte dell'aula alle
loro
spalle.
«Non
ho certo stilato un rapporto per vederlo ignorare,» si
limitò a
commentare Rhodey a mo' di giustificazione.
Tony
si accorse che lo fissava con un misto di curiosità,
sconcerto e
preoccupazione: si chiese come avrebbe reagito nel vederlo appena un
paio di mesi prima, con molti chili in meno, un costante velo di
febbre e il doppio delle occhiaie. In
quel momento la cosa più disturbante era probabilmente lo
sfregio
che gli deturpava il volto, da cui lo sguardo di Rhodey sembrava
involontariamente calamitato. Non gliene fece una colpa, ma dovette
trattenere la tentazione di rimettersi la benda che aveva riposto in
tasca dopo il processo: i suoi sentimenti verso quel pezzo di stoffa
erano altalenanti e volubili, e raramente mostrava coerenza al
riguardo. Adesso
però non vedeva motivo di nascondersi di fronte al suo
migliore
amico, soprattutto dopo averlo tenuto all'oscuro di tutto per
così
tanto tempo. Sapeva perfettamente cosa si provava ad essere messi in
disparte.
"Quanto
posso essere ipocrita?" si ritrovò a pensare con
colpevolezza.
«Non
c'eri allo scorso processo,» osservò infine, con
tenue curiosità.
«Mi è toccato un
viaggetto in Afghanistan. Qualche sopralluogo, nulla di che,»
minimizzò subito con aria assente, reprimendo la sua chiara
riluttanza a
rispondere.
Tony si accigliò.
«Mh. Hai portato i miei
omaggi ai Dieci Anelli?»
«Più o meno. La
situazione è ancora calda.»
La conversazione morì
per qualche istante, finché non fu Rhodey a rompere
definitivamente il ghiaccio:
«Ho ricevuto la tua
mail. E la foto,» osservò cautamente.
Tony lo fissò con
improvvisa consapevolezza: adesso credeva di intuire cosa avesse
spinto l'amico a riprendere i rapporti. L'incrollabile fiducia
che Rhodey aveva in lui era a volte disarmante, ma se ne
sentì
rallegrato. Con una buona dose di senso di colpa a irritargli lo
stomaco per come l'aveva trattato negli ultimi mesi, ovviamente. Si
trovò a pensare che forse quel
messaggio di
auguri non era così minatorio come si
era convinto che
fosse...
«So di essere
fotogenico, ma non immaginavo di averti colpito così
tanto,»
scherzò senza incontrare i suoi occhi.
«Pensavo di trovarti in
piedi,» continuò Rhodey ignorando la sua battuta,
sempre con l'aria
di chi si sta addentrando nelle sabbie mobili timoroso di
sprofondarvi ad ogni passo.
Tony volse
ostentatamente lo sguardo al soffitto, camuffando l'imbarazzo:
«Ci sono state delle
complicazioni,» esordì vago, sentendosi sotto
esame quando lui
assottigliò lo sguardo. «Per
usare
le parole del mio segaossa, ho "strafato",» concluse a
malincuore.
«Chissà perché, non
mi sorprende.»
Tony non trattenne un
risolino autoironico:
«Mi conosci troppo
bene.»
«Ti trovo bene,»
ribatté di slancio lui.
L'altro lo fissò
sorpreso e momentaneamente senza parole, ma si ricompose alla svelta
senza dare a vedere quanto gli avesse fatto piacere quello che vedeva
come una sorta di riconoscimento ufficiale dei suoi progressi. E da
parte di Rhodey, che riteneva pressoché incapace di
dimostrare
alcuna emozione che non fossero orgoglio e dedizione al proprio
lavoro, contava come se gli avesse appena consegnato personalmente un
trofeo – e stavolta non era un inutile Apogee Award.
«Starei anche meglio se
il governo la smettesse di starmi col fiato sul collo,»
sbottò,
sfoggiando una smorfia contrariata nel tentativo di celare la sua
contentezza.
«Non sei nella migliore
delle posizioni,» riconobbe Rhodey, adombrandosi a sua volta
e
muovendosi a disagio sul posto.
«Posso contare su un
altro assist provvidenziale?» chiese a
quel punto Tony, quasi
facendogli gli occhi dolci; Rhodey non trattenne un mezzo sorriso, ma
il suo tono rimase severo:
«Tony, io posso
ammorbidire gli alti gradi, ma non faccio miracoli. Il governo e
l'esercito vogliono Iron Man, possibilmente senza includere te nel
pacchetto.»
«Avevo intuito un certo
astio nei miei confronti, ma pensavo fosse solo una mia
impressione,»
sbuffò lui, poggiando il mento sulla mano e
sporgendo il
labbro con fare imbronciato.
«Non scherzare: se non
consegni Iron Man metterai in pericolo anche le Stark Industries,
quindi evita altri colpi di testa,» gli ricordò
l'amico,
spronandolo a rimanere serio.
«Ehi, è finita la mia
"fase ribelle",» lo rassicurò lui, lievemente
irritato.
«Ora sono in quella "pensa-prima-di-agire".»
«E prima di chiudere
tutti fuori dal tuo mondo,» osservò Rhodey
pungente.
«Quella non è stata
una buona mossa,» riconobbe a malincuore, passandosi una mano
tra i
capelli un po' troppo lunghi e riconoscendo che l'amico si era
trattenuto anche troppo a lungo dal rimproverarlo direttamente.
«A proposito, dov'è
Pepper?»
«Domanda di riserva?»
Tony lo fissò con un sorrisetto tirato e implorante: non era
assolutamente dell'umore per affrontare l'argomento, soprattutto non
con lui.
«Tony... sei un disastro.»
Rhodey si portò
una mano al volto e chiuse gli occhi, probabilmente immaginando
chissà quali
scenari apocalittici che potessero giustificare l'assenza della donna
in un frangente così critico. Il che non si sarebbe discosto
poi molto dalla verità. Tony incassò il
commento, ritenendo più opportuno non rivelargli anche del
suo
tentato suicidio in un momento in cui sembrava incline a lasciarsi i
loro trascorsi alle spalle. Il pensiero della sua potenziale reazione
a quella notizia lo impensieriva più di quanto volesse
ammettere, ma
sapeva che prima o poi gli sarebbe toccato rivelargli anche quella
sua "prodezza", a costo di perdere definitivamente la sua
amicizia: non era di certo un tipo comprensivo né incline ad
abbandonare la sua rigorosità. Si accorse di aver
poggiato la mano sul reattore e confermò tra sé
la sua decisione di
rimandare quella chiacchierata. Non era poi così sicuro di
poter già
parlare della faccenda con chi gli stava a cuore come se niente fosse,
soprattutto contando il
numero di notti insonni che gli aveva causato.
«Tornando a noi...»
riprese cautamente, allontanandosi da quel campo minato. «Ho
una mezza idea per uscire da questo
pasticcio, ma forse mi servirà un po' più di un
mese.»
Lo guardò
di sottecchi con fare eloquente, e Rhodey sospirò incrociando
le braccia.
«Vedo che posso fare,
ma non ti assicuro nulla. Che intenzioni hai?»
A quel punto Tony si
rilassò nella solita espressione sorniona che assumeva
quando gli
veniva un'idea che riteneva geniale. E la maggior parte delle volte
si rivelava tale.
«Tanto per cominciare,
dovrò rovinare le vacanze a qualcuno...»
_____________________________________________________________________________________________
Note Dell'Autrice:
Ehilà!
Sto aggiornando in un orario che non so se definire notte o mattina, quindi mi dimenticherò probabilmente mille cose che volevo dire nelle note.
Innanzitutto ho finalmente avuto la meglio sull'HTML e sono riuscita a cambiare il layout del testo come volevo, cioè con l'interlinea 1,5 che rende più arioso il testo. Vi prego di segnalarmi eventuali problemi nella visualizzazione:)
Passando al capitolo... sì, torna il processo, per l'ultima volta. Il resto delle udienze verrà riportato in forma indiretta, per vostra gioia. Mi rendo conto della pesantezza, che ho cercato di smorzare per quanto possibile, ma questo era un passaggio importante per la storia, come avrete intuito. La questione del "porto d'armi" per le protesi suonerà forse ridicola, ma era la soluzione originaria che avevamo elaborato agli albori della storia e ho deciso di mantenerla per non complicare e allungare la questione, dato che in questa parte le protesi scivoleranno comunque in secondo piano rispetto ad altri argomenti e problematiche.
Credo che si noti la volontà di inserire un certo personaggio, almeno indirettamente... non dico nulla di esplicito, ma credo di aver fornito abbastanza indizi qui e negli scorsi capitoli (coffcoff riguardatevi il capitolo 3 coffcoff). Devo ancora incastrarlo per bene nella storia e non credo apparirà mai direttamente, ma penso che possa essere un'aggiunta interessante.
A parte ciò: sì, la Everhart alla fine ha pubblicato il servizio di vario tipo in cui mette alla berlina Tony in seguito alla loro scappatella poco riuscita. È stronza? Ovviamente. Ha rilevanza? La avrà, non molta, ma la avrà... *sadism intensifies*
Il riavvicinamento di Rhodey potrà sembrare repentino, ma in realtà è una scelta ben ponderata. Lui e Tony sono due testoni orgogliosi, ma Rhodey sa riconoscere quando è il momento di mettere da parte le questioni personali. D'altro canto, non sa ancora della "prodezza" di Tony, quindi è più incline a dimostrarsi conciliante con lui. Ma non durerà in eterno.
E Pepper è ancora una volta "nell'ombra"... giuro che prima o poi ne esce :P
Detto ciò, ci tengo a ringraziare 50shadesofLOTS_Always ed Emyclarinet che hanno recensito lo scorso capitolo, rendendomi felicissima nel sapere che questa storia è ancora seguita e viene addirittura "scoperta" a distanza di anni <3
Un ringraziamento speciale alla mia cara _Atlas_ che, oltre a recensirmi ovunque e sorbirsi le mie risposte chilometriche, sopporta anche i miei scleri infinity su Infinity War e le mie recensioni moleste. Tesevobbene <3
Grazie anche a chiunque leggerà/recensirà :)
Prevedo un aggiornamento entro il 25 maggio, forse prima, forse dopo, a seconda di come procederà la stesura (e anche perché ho un po' di strizza a pubblicare il prossimo capitolo, perché ci tengo assai ma allo stesso tempo è mooolto opinabile, strambo eeee niente, paro le manO avanti fin da ora).
Dasvidanija, people,
-Light-
P.S. Per rispondere ad Atlas riguardo a Kyle e Knight... direi che i tuoi film mentali sono più che confermati :D
© Marvel
|
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Capitolo 37 *** Show and tell ***
36
Show
and tell
"I
get mine and make no excuses, waste of precious breath
The
sun shines on everyone, everyone love yourself to death
So you gotta fire up, you gotta let go
You'll never be loved till you've made your own
You gotta face up, you gotta get yours
You'll never know the top till you get too low"
[I'm
So Sorry – Imagine Dragons]
7
Giugno, 22:40, Villa Stark
Quando
Coulson fermò l'auto nel patio di Villa Stark, fu fortemente
tentato
dal riavviare all'istante il motore e fare dietrofront
finché era in
tempo. Oppure rimanere chiuso nell'abitacolo fino allo scadere dell'
"ultimatum", in poco più di un'ora, così da
evitare quel
compito ingrato e tornarsene tra le braccia di Audrey.
Poggiò le mani sul
volante e il mento sulle dita intrecciate, scrutando
l'oscurità
interrotta dai
lampioni oltre il parabrezza. La villa era insolitamente buia; solo
un lieve chiarore si diffondeva dal seminterrato, dov'era il
laboratorio del miliardario. Un paio di luci isolate erano accese al
pianterreno, come sospese nel nulla. Il tutto aveva un'aria
più sobria del solito, come se l'edificio avesse deciso di
rispecchiare l'umore e le vicissitudini del proprietario in quegli
ultimi mesi.
La titubanza di Coulson
si risolse quando vide l'atrio illuminarsi a giorno e pochi secondi
dopo la sagoma di Stark fare capolino dalla porta a vetri
dell'ingresso, in sua chiara attesa. Doveva essersi accorto da tempo
del suo arrivo. L'agente si decise ad
aprire con studiata lentezza la portiera, rivolgendogli un
impercettibile cenno di saluto col capo, che lui ricambiò
appena con
un gesto della mano prima di dileguarsi per attenderlo in salone.
Coulson varcò la soglia
e si avviò senza fretta all'interno avvertendo un lieve
nervosismo,
considerate le ultime circostanze in cui si era trovato costretto a
venire in "visita" alla villa. Il suo sguardo fu
inevitabilmente catturato dalla parete mancante, di cui ancora si
scorgevano i resti semidistrutti.
«Cominciavo a dubitare
che avrebbe risposto al mio appello, Agente,» lo accolse Tony
a mo'
di benvenuto. «Mi coglie impreparato.»
Coulson avanzò di
qualche passo nel salone, individuando il suo interlocutore seduto
sul divano e intento a trafficare con la protesi del braccio al
momento disgiunta dal suo corpo.
«In realtà ne dubitavo
anch'io, ma ho ricevuto ordini ben precisi,» rispose,
scrutando con
perplessità l'ingegnere che poggiava il braccio meccanico
accanto a
sé, prendendo poi a rigirasi in mano un cacciavite con aria
irritata.
Era una scena molto
simile a quella a cui aveva assistito durante l'ultima, disastrosa
riunione dei Vendicatori in quello stesso salotto, con un Tony
decisamente più alterato e incline a farsi beffe del mondo
intero.
«Sono stupito che
Barbanera non si sia accodato a questa visita di piacere.»
«Ha ancor meno voglia
di vederla di me, Stark.»
«Non gli do torto.»
L'altro alzò le spalle con noncuranza e Coulson non colse
alcun
sarcasmo in quelle parole. Osservò meglio l'uomo,
con occhi allenati da anni di spionaggio che registrarono all'istante
i sottili cambiamenti rispetto all'ultima volta che l'aveva visto:
sembrava più rilassato, anche se si scorgevano ancora delle
pieghe
rigide sul suo volto un po' smunto, probabilmente dovute
all'insonnia. E forse a molti pensieri sgradevoli, viste le
ombre annidate nel suo unico occhio che lo scrutava con cauta
diffidenza. Il suo aspetto era più curato di quanto si
aspettasse,
sebbene al momento sembrasse appena reduce da una sessione in
laboratorio, a giudicare da uno sbaffo di fuliggine sul volto e dai
capelli scarmigliati e dalla piega viziata, come se avesse portato a
lungo degli occhiali protettivi. Indossava una semplice polo
verde da
cui faceva capolino il reattore, scoordinata rispetto ai pantaloni da
basket che lasciavano scoperta la protesi inferiore fino al
ginocchio, probabilmente per comodità. Sembrava
perfettamente a suo
agio, anche senza un braccio e con la gamba meccanica in bella vista,
ma non sapeva dire quanto quell'atteggiamento fosse ostentazione
forzata e quanto reale disinvoltura.
Coulson accennò col
mento al braccio prostetico poggiato accanto a lui:
«Pensavo avesse smesso
di "smontarsi".»
«In
realtà si è smontato da
solo,» ribatté Tony,
decisamente poco divertito dal commento, e Coulson notò come
sfiorò
inconsapevolmente la zona in cui era incastonato il reattore, quasi a
controllare non si fosse "smontato" anch'esso. «Ci
dev'essere qualche problema con le giunture, ma non sono ancora
diventato un contorsionista, quindi dovrà sopportarmi
così almeno
finché il Doc non verrà a
riaggiustarmi,» spiegò rapido, cercando
con fare esplicativo di raggiungere una vite sul retro della sua
scapola, chiaramente fuori dalla sua portata.
Rinunciò con un sospiro
snervato, lanciando poi con un gesto preciso il cacciavite nello
svuotatasche di cristallo sul tavolo, già stracolmo di
componenti
elettronici non
meglio identificati.
«Al momento però ho
problemi più urgenti.»
Stark fece per incrociare le
braccia
sovrappensiero e non riuscì a nascondere la smorfia di
fastidio e
perplessità quando si rese conto di non esserne in grado al
momento;
corresse il gesto portando bruscamente il braccio sano a
sorreggersi la nuca.
«Sentiamo,» replicò
serafico Coulson, decidendosi ad avvicinarsi.
Si piantò di fronte a
lui con le mani giunte davanti a sé e continuò a
scrutarlo in un
misto di scetticismo e tenue curiosità.
«Ha saputo del
processo?» esordì il suo ospite.
«Ero in ferie.»
Gli
scoccò un'occhiata accusatoria. In realtà aveva
ricevuto il verbale da Fury, ma non aveva
intenzione di scoprirsi troppo finché non
avesse capito cosa passava nella testa dell'uomo.
Tony fece una smorfia
colpevole e si pizzicò il naso, come indeciso su come uscire
indenne
da quella prima gaffe.
«Beh, se può
consolarla, non sapevo a chi altri chiedere aiuto,» si decise
a dire
infine, con franchezza.
Coulson si concesse una
lieve espressione sorpresa, trasmessa da un movimento impercettibile
delle sopracciglia verso l'alto. Tony
Stark che chiedeva aiuto?
Si aspettava che da un momento all'altro un meteorite si abbattesse
sulla villa per ristabilire l'ordine cosmico.
«Per farla breve: c'è
qualche problema con la "questione Iron Man",»
spiegò,
non nascondendo il suo cruccio nel pronunciare quelle parole.
«Dice?»
Coulson
stavolta non trattenne una decisa vena di rimprovero. L'altro si
accigliò
ulteriormente, forse presagendo dove sarebbe andato a parare il
discorso, e Coulson fu ben felice di confermare i suoi sospetti:
«I
suoi "problemi con Iron Man" sono iniziati nel momento in
cui lei ha deciso di ignorare deliberatamente ogni
nostra direttiva,
scambiando il processo per il suo spettacolino personale e rivelando
al mondo la sua identità,» gli illustrò
in tono compassato, ma il
suo volto tradiva la seria irritazione che provava al solo pensiero
di quanto si fosse imbestialito Fury quella volta... e ovviamente era
stato lui
a dover fare da
punching ball metaforico
per far sbollire la sua ira.
«Agente, è venuto per
ascoltare ciò che ho da dirle o per farmi l'ennesima
paternale?»
Stark non si mostrò affatto toccato da ciò che
gli aveva appena
detto; sembrava solo impaziente di lasciar da parte quella
discussione sterile per arrivare al dunque.
«La avverto che ho
già
una ventina d'anni d'esperienza con mio padre alle spalle, anche se
adesso sono un
po' arrugginito,» continuò con più
asprezza.
«Sono venuto per
ricordarle in che posizione si trova in questo momento, di ponderare
con criterio qualunque richiesta o proposta voglia sottoporre alla
mia attenzione e di aspettarsi che venga cordialmente rifiutata o
respinta,» sciorinò tranquillamente Coulson, senza
perdere un colpo.
A quel punto Tony si
limitò a scuotere con lentezza la testa, improvvisamente
più scuro
in volto e con una luce quasi adirata nello sguardo.
«È
incredibile vedere come proviate gusto a vanificare ogni
mio sforzo per risolvere la situazione. Fa parte della vostra
agenda?» osservò piattamente, prima di riprendere
con più
veemenza: «Ho
sbagliato. So
di aver sbagliato in ogni modo possibile. Adesso possiamo andare
avanti?»
Coulson non replicò, ma
in cuor suo era decisamente sorpreso dal tono tutto sommato pacato e
ragionevole in cui si stava svolgendo la discussione. Si era
già
preparato a dover subire l'ennesimo accesso di collera del "genio",
che stava invece dimostrando un autocontrollo che riteneva
impensabile, per un tipo che aveva avuto la sconsideratezza di
accapigliarsi con Rogers e Banner. E aveva davvero appena
ammesso di aver sbagliato? Quel meteorite era
decisamente in
ritardo.
«Spero solo che si
renda ben conto di ciò che le sue azioni hanno
causato,» commentò
solo, imperturbabile e restio a lasciare l'ultima parola a un
individuo che, fu costretto a rammentarsi, aveva piombato lo SHIELD
nel caos a più riprese senza pensarci due volte, oltre a
ferire
tutti coloro che aveva intorno e a distanziarsene per puro e ottuso
orgoglio.
«Mi
sono scritto un promemoria, nel caso me lo dimenticassi,»
ribatté
lui sferzante. «Ora, prima che possa ripartire per la
tangente
ricordandomi una per una tutte le stronzate che ho fatto, gradirei
arrivare al punto.»
Solo
allora Coulson si decise a sedersi sulla poltrona di fronte a lui, a
braccia conserte e in attesa di scoprire finalmente il motivo di
quella convocazione inattesa, concludendo che per il momento aveva
messo sufficientemente alla prova l'autocontrollo di Stark. Si
ritenne soddisfatto e anche un po' meravigliato dai risultati
ottenuti.
«La
ascolto.»
«Il
governo mi accusa del possesso di armi illegali, ovvero le
armature,»
esordì Tony dopo un breve momento di silenzio e con insolita
sinteticità. «In realtà ho appena
smantellato la Mark II. Mi
aspetto una visita con perquisizione in omaggio a giorni, ma non
troveranno niente di compromettente. Il problema è che se
dovessero
porre sotto sequestro i progetti non potrei costruirne altre.»
«Mi
sembrava che avesse deciso di rinunciare al suo ruolo.»
«È
stato solo un modo per... ehi! Allora non
è vero che non ne
sa nulla, del processo.»
Lo squadrò storto, ma Coulson si limitò a
sfoggiare un sorrisino eloquente che suscitò un sospiro da
parte
sua.
«Dovevo
immaginarlo... in ogni caso, non ho alcuna intenzione di ritirarmi
definitivamente, ma ho dovuto fare buon viso a cattivo gioco e dare
un contentino ai pagliacci del governo. Non sono comunque ancora
nelle condizioni di indossare l'armatura,» accennò
alla protesi
disarticolata, «quindi per ora non ho intenzione di
costruirne
altre... almeno non per
me,» aggiunse cautamente,
suscitando la curiosità di Coulson.
«Che
intende?»
«Quanta
fretta, Agente, ci sto arrivando. Pensavo non le interessasse
ciò
che avevo da dire,» lo redarguì, con un chiaro
compiacimento che
Coulson decise di ignorare. «Non si tratta solo del futuro di
Iron
Man, ma anche del suo passato, per metterla in modo poetico. Le
missioni che ho svolto con voi
durante lo scorso anno non sono passate inosservate e la corte mi
sembra abbastanza propensa a farne il fulcro del prossimo processo,
visto che ho agito in veste non ufficiale.»
Fece
una pausa, scrutando la reazione di Coulson, che dal canto suo
continuava ad
ascoltarlo in silenzio, assorto e cercando di capire dove volesse
andare a parare. E a non pensare a tutte le volte che Stark si era
infiltrato nelle missioni dei Vendicatori nonostante fosse un
semplice consulente, spesso causando problemi, più spesso
risolvendoli, ma provocando sempre qualche accesso
isterico al
direttore.
«Si
sono impuntati sulla "legalità" di Iron Man, che
ovviamente non posso dimostrare,» Tony a quel punto
sfoggiò un
sorrisetto, «a meno che io non riesca casualmente
a rientrare nelle grazie di una certa organizzazione in grado di
legittimare i miei interventi passati e futuri in quanto membro
ufficiale di un certo
progetto,» concluse, scoccandogli
un'occhiata
penetrante.
Coulson
in tutta risposta si limitò ad accavallare le gambe e a
spostare
pigramente lo sguardo al soffitto, prendendosi del tempo per
elaborare ciò che aveva appena sentito. Ed evitare di farsi
saltare
le coronarie.
«Lei
ha mandato a monte le mie ferie, mi ha costretto a volare fin qui
dall'Oregon in tutta fretta e ha spacciato tutto ciò per
qualcosa di
urgente solo per chiedermi di rientrare
nei
Vendicatori?» scandì infine, in tono pacato ma
decisamente sul
punto di inalberarsi. «Perché continuiamo a darle
retta?» sbottò
poi, più con incredulità che con astio.
Lo
sguardo di Tony non vacillò, anzi, diventò ancora
più ostinato:
«Probabilmente
perché sapete di aver bisogno di me.»
Coulson si
concesse una
smorfia dubbiosa di fronte a quella supponenza.
«E anche se
non ne
avete bisogno ora,
non potete negare che vi farebbe comodo riavermi
tra i vostri. Altrimenti mi avreste lasciato affondare tempo
fa,»
dedusse concluse senza scomporsi.
«Lei
mi sembra sempre più pieno di sé e sempre meno in
grado di
giudicare la situazione in cui si trova.»
«Che
ci crediate o no, so quello che sto
facendo.»
«La
sua recente valutazione psicologica fa pensare diversamente.»
«Quale
valutaz–... un'altra?» proruppe
Tony, adesso esasperato.
«Ne
abbiamo una cartella piena, con molte variazioni sul tema
"psicologicamente e fisicamente...»
«...
inadatto al progetto Vendicatori", lo so;
me lo
tatuerò
sul braccio buono,» quasi ringhiò l'altro.
«C'è
da dire che l'agente Romanov ha messo una buona parola per lei, ma
non è abbastanza per scuotere l'opinione generale della
squadra e
del direttore,» aggiunse Coulson per amor di
sincerità.
Tony
ebbe un lieve moto di sorpresa e portò la mano alla protesi
inferiore, prendendo a tamburellare nervosamente sul rivestimento
metallico. Si staccò poi dallo schienale del divano
sporgendosi
verso di lui e sembrò concentrare tutto se stesso in quel
gesto,
come sperando di riuscire a influenzarlo se si fosse dimostrato
abbastanza motivato. Coulson
si pose sul chi vive: Stark era sempre stato molto abile con le
parole e aveva una capacità di persuasione non indifferente
a cui si
ripromise di non cedere con tanta facilità.
«So
quello che faccio,» ripeté l'ingegnere, in tono
più controllato. «E
so anche che voi non potete permettere che Iron Man venga sequestrato
dal governo. Sarebbe un disastro, si immagina l'esercito con uno
squadrone di Mark male assemblate che svolazzano qua e
là?» Tony
esibì un'espressione atterrita. «E
sarebbero probabilmente pitturate a stelle e strisce, come se non
bastasse quell'attempato in calzamaglia patriottica a...»
«Se
anche il processo dovesse volgere a suo sfavore, non c'è
pericolo
che l'armatura finisca nelle mani sbagliate.»
Coulson si affrettò a interrompere quelle visioni
apocalittiche.
«Iron Man è... tutelato,»
continuò, scegliendo con accortezza le proprie parole.
Tony
ammutolì, preso in contropiede, per poi rilassarsi appena e
concedersi un sorriso sollevato e incredulo:
«Allora
non devo preoccuparmi! Potevate dirlo prima, mi avete fatto passare
mesi d'inferno con questa storia del...»
«Ho
detto che Iron Man è
tutelato,» ribadì Coulson, senza
abbandonare la sua espressione neutrale.
L'altro
rimase di nuovo interdetto per qualche secondo e il sorriso si
eclissò dal suo volto quando comprese il reale significato
di quelle
parole.
«Giusto,»
scandì, e stavolta il suo tono trasudava risentimento,
nonostante
cercasse evidentemente di tenerlo a freno. «"Iron Man:
sì. Tony
Stark: non consigliato",» citò con amara
delusione, prima di
abbandonarsi nuovamente allo schienale in modo scomposto.
«Dovevo
aspettarmelo,» disse dopo un po' con un filo di voce,
più a se
stesso che a Coulson.
«Al
momento lei rappresenta una responsabilità che non siamo in
grado di
sostenere,» lo riscosse l'agente, vedendo che sembrava perso
nei
suoi pensieri, come se quell'ultima notizia avesse stroncato tutti i
suoi buoni propositi, lasciandolo inerte.
«Oh,
sono così importante? Non mi sembrava,» rispose
lui, distratto ma
con un fondo di serietà.
«Pesante,
piuttosto,» lo corresse Coulson, ma il suo tono divenne meno
tagliente.
Percepì
una punta di disagio nel demolire una richiesta che, in
realtà, non
aveva ancora ascoltato fino in fondo. Si chiese remotamente se non
stesse davvero vanificando ogni tentativo di Stark di riparare i
torti commessi per partito preso, come l'aveva accusato di fare lui
stesso poco prima. Guardò
l'uomo davanti a sé, sprofondato nel divano con la mano a
coprirsi
la benda sul volto mentre era immerso nei suoi pensieri. Per una
volta non captò alcuna traccia di arroganza o sdegno nel suo
sguardo: intravide solo quella che assomigliava molto a disperazione,
unita a una fermezza che Stark aveva dimostrato in poche altre
occasioni in vita sua. E in quelle occasioni le sue scelte si erano
rivelate positive e dettate da intenzioni sincere: smettere di
produrre armi, diventare Iron Man, unirsi ai Vendicatori nonostante
fosse stato respinto. Gli venne da pensare che, probabilmente, c'era
qualcuno che avrebbe saputo elencargli altri momenti in cui Stark
aveva preso la decisione giusta.
Coulson
batté ritmicamente la punta della scarpe per terra con
improvviso
nervosismo. L'impulso era quello di alzarsi e andarsene, soprattutto
dopo il pensiero involontario a Virginia che aveva rievocato il suo
ultimo incontro con Stark. Si costrinse a sopprimere quella
tentazione, sentendosi meschino per quell'atteggiamento assolutamente
non professionale. Non
poteva abbandonarlo con tanta leggerezza nel pozzo buio che si era
scavato da solo: per la prima volta era stato lui a tendere la mano
in cerca d'aiuto, dopo aver rifiutato tutte quelle che si erano tese
verso di lui. Il minimo che poteva fare era stringerla; poteva sempre
decidere in seguito se era davvero troppo pesante o troppo rischioso
tirarlo fuori.
Si
schiarì la gola, richiamando la sua attenzione:
«Stark,
che cosa mi stava chiedendo, esattamente?»
Lui
rialzò lo sguardo, sorpreso dal suo repentino cambio di
tono, ma si
riprese in fretta con un brillio vivace nell'iride nocciola:
«Le
chiedo di ascoltarmi. E di convincere Fury e gli altri a fare lo
stesso.»
«Vorrebbe
incontrare la squadra?»
Tony
si limitò ad annuire con un unico, fermo cenno del capo; la
tensione
del suo corpo tradì l'ansia che stava provando
nell'attendere una
risposta.
«E
quest'improvvisa voglia di un incontro va interpretata come una
proposta seria o come l'ennesima esternazione delle sue manie di
protagonismo?»
«Racchiude
entrambe. Ultimamente mi sto impegnando ad equilibrare piaceri e
doveri,» sbuffò piano, e poggiò la
caviglia sinistra sul ginocchio
metallico scivolando in una posa decisamente più sicura di
sé,
quasi fosse perfettamente cosciente di aver ormai fatto breccia nella
sua cortina scettica e disinteressata.
Coulson
emise un profondo sospiro, chiedendosi perché si stava
ostinando a
impelagarsi in quella questione senza uscita.
«Ciò
che mi chiede è difficile. E non sono sicuro che il
direttore sia
così bendisposto nei suoi confronti, visto lo stato delle
cose.»
«Non
ho intenzione di presentarmi a mani vuote.»
Tony lo
fissò con la
sicurezza di chi sa di essere sempre un passo avanti a tutti e si
limitò ad attivare un olografico azzurrino a mezz'aria con
uno
schiocco di dita. Navigò
con gesti precisi attraverso alcune cartelle, fino a trascinare in
mezzo a loro quello che sembrava il progetto virtuale di un'armatura
non molto diversa da quella che aveva sempre usato. Gliela
mostrò
con un ampio e teatrale gesto della mano.
«Agente,
le presento la Mark IV.»
Coulson
spostò lo sguardo da lui all'ologramma senza nascondere la
sua
perplessità: aveva decisamente perso il filo.
«Cosa
dovrebbe essere?»
Le
labbra di Tony si schiusero in un sogghigno trionfante:
«Il
mio salvacondotto.»
***
25
Giugno, Helicarrier
Tony
scrutò criticamente le navette attraccate nell'hangar
interno
dell'Helicarrier.
«Certo
che senza di me il progresso tecnologico langue,»
commentò con sufficienza, battendo le nocche metalliche
sulla
fusoliera di un mini-jet supersonico. «Questo è il
rottame in
cui avete ripescato Rogers?» sbuffò
ironico.
«Non
si faccia cacciar via prima del tempo, Stark,» lo riprese
Coulson,
probabilmente tentato dall'acchiapparlo per la collottola e
trascinarlo via di peso.
«Se
me lo chiedete con garbo posso riprogettarvi questa bagnarola da cima
a fondo,» ribatté lui, lanciandosi un'occhiata
insoddisfatta
attorno, ma si decise a seguire l'agente nel notare il suo sguardo
pericolosamente accigliato.
La
ristrutturazione dell'Helicarrier poteva attendere.
La
base della SHIELD era semideserta e Tony se ne rallegrò,
visto il
suo aspetto insolito. Si era abituato abbastanza rapidamente a
camminare col bastone; si era persino concesso il vezzo di
farsene fabbricare uno d'ebano con un'elegante impugnatura d'argento,
ma
non poteva fare a meno di sentirsi fuori luogo a zoppicare qua e
là.
Come se non bastasse, la benda adesiva che aveva deciso di indossare
per quel
giorno non gli dava pace e continuava a irritargli lo sfregio. Per
lo meno le nuove articolazioni in unobtanium funzionavano a
meraviglia, ma il controllo della protesi inferiore era ancora
spigoloso e doveva concentrarsi al massimo per non inciampare sui
suoi stessi piedi; si costrinse a pensare in positivo e godersi la
sensazione quasi dimenticata di poter camminare sulle proprie gambe,
sebbene decisamente doloranti e poco collaborative.
Lo
preoccupava maggiormente il nodo formicolante d'ansia in cui si era
attorcigliato il suo stomaco. Si rassicurò per la centesima
volta da
quando si era svegliato quella mattina – a un'ora
improponibile per
via dell'insonnia. Andava
tutto bene, aveva tutte le carte in mano per non sfigurare e poteva
compensare gli eventuali scivoloni con la sua abilità
oratoria.
Aveva tenuto dozzine di discorsi di fronte a migliaia di persone in
circostanze decisamente più sfavorevoli che spesso
comprendevano un
massiccio tasso alcolico nel suo sangue. In
caso d'emergenza avrebbe sempre potuto avviare una gara d'insulti con
Rogers.
"Va
tutto bene. È una riunione di famiglia. Sei solo la pecora
nera..."
In effetti non
era un pensiero molto rassicurante.
Coulson
sembrava aver fretta di arrivare alla sala riunioni e procedeva a
passo spedito attraverso i labirintici corridoi della base,
costringendolo a forzare la sua andatura già stentata per
tenere il
passo. Come se non bastasse, la gamba meccanica gli stava dando
problemi: il moncherino era
ancora sensibile nonostante la dose doppia di antidolorifici che
aveva preso prima di partire e prevedeva già un'altra
settimana a
letto. Stavolta Ian l'avrebbe veramente ammazzato. Non
chiese di rallentare, ma alla fine fu costretto a fermarsi affannato
e si poggiò di peso sul bastone per riprendere fiato,
tirando una smorfia sofferente.
«Agente,
abbia pietà di un povero infermo,» lo
richiamò, più seccato di
quanto volesse ammettere per i limiti del proprio stupido corpo.
"Iron
Man un corno... Palla di Neve ha novant'anni ed è messo
decisamente
meglio di me."
Coulson
si fermò di colpo, lanciando occhiate nervose in giro;
sembrava
stranamente in allerta per essere nel luogo più sicuro del
mondo. Tony
si guardò intorno a sua volta, riconoscendo l'ala dei
laboratori.
Magari dopo avrebbe potuto fare una capatina nel suo... se fosse
andato tutto come previsto e non si fosse trovato scaraventato fuori
dall'Helicarrier da un cazzotto verde o con uno scudo in vibranio
spiaccicato in faccia o con Mjolnir a invalidargli i gioielli di
famiglia. Rabbrividì a quelle possibilità
tutt'altro che allettanti
e si concentrò sul loro obiettivo attuale: l'ascensore una
ventina
di metri più avanti, che se ricordava bene li avrebbe
condotti sulla
plancia di comando e da lì alla sala riunioni.
«Che
fretta c'è?» cercò di placare
l'inusuale irrequietezza di Coulson.
«Gli ospiti speciali si fanno sempre attendere,»
scherzò,
sentendosi già un po' più saldo sulle gambe
nonostante le
stilettate che gli risalivano l'arto inferiore come mille punture di
uno
spillo arroventato, scoraggiandolo dal ricominciare subito a camminare.
«Non
è davvero il caso di arrivare in ritardo
proprio oggi, non le
pare?» lo rimbrottò l'altro, sollecitandolo con lo
sguardo.
Tony
stava per controbattere con un'osservazione sagace relativa alle sue
innate doti ansiogene, quando lo vide sgranare leggermente gli occhi
e, per la prima volta da quando lo conosceva, gli udì
pronunciare a
mezza voce una singola parolaccia:
«Merda.»
Tony
si voltò allarmato, già presagendo di trovarsi
alle spalle una
qualche entità aliena pronta a sbranarlo.
Incrociò invece lo
sguardo sorpreso del dottor Banner, appena sbucato da dietro l'angolo
con una cartelletta sottobraccio che per poco non gli cadde di mano
nel riconoscerlo. Si raddrizzò gli occhiali sul naso come a
fugare
ogni dubbio su ciò che stava vedendo.
«Tony?»
riuscì ad articolare dopo qualche istante, in un misto di
sconcerto
e circospezione.
«Ehi,
Banner,» replicò lui in modo involontariamente
piatto, ondeggiando
appena sul posto.
Non
era sicuro di cosa prevedesse il galateo nel trovarsi di fronte un
caro amico che l'aveva quasi ridotto in poltiglia e che con tutta
probabilità era ancora letteralmente verde di rabbia nei
suoi
confronti, così optò per un silenzio neutrale.
Bruce
si avvicinò cautamente a loro, sempre senza abbandonare la
sua
espressione basita. Tony si chiese se fosse dovuta al vederlo
lì, al
vederlo vivo o al vederlo in piedi. Probabilmente una combinazione
delle tre cose. Si
schiarì la gola a disagio, ma il fatto che il dottore non si
fosse
ancora trasformato in un concentrato di rabbia verdognola e
devastante era un buon segno... no?
«Che
ci fai qui?» disse Bruce in tono tutt'altro che
conciliante, incrociando le braccia e facendo vacillare le sue
previsioni ottimistiche.
Poté
notare che gli occhi scuri del dottore rimasero cupi nel fissarlo,
come adombrati da pensieri scuri e pesanti, o più
probabilmente da
ricordi di chiacchierate filosofiche con lui impegnato a reggergli la
testa su un cesso. Si
costrinse a rispondere con naturalezza, scacciando quell'immagine
tragicomica dalla mente:
«Sono
venuto per la riunione, no?»
«Partecipi
anche tu?» lo stupore nei suoi occhi vinse per un momento
l'astio.
Stavolta
toccò a Tony rimanere perplesso.
«Certo.
Perché, non vi hanno...» la realizzazione lo
folgorò in
quell'istante e si voltò di scatto verso Coulson, impegnato
a
mimetizzarsi con la parete, «Non li ha avvertiti?»
esalò,
sentendo l'ansia che s'impennava alle stelle e il nodo allo stomaco
che diventava un cappio strozzato.
Probabilmente
fu per lo shock momentaneo che riuscì a suonare quasi calmo
e non
isterico come invece sentiva che sarebbe diventato di lì a
pochi
istanti.
«Direttive
dall'alto,» rispose Coulson senza guardarlo
«Quest'incontro era
fuori programma,» aggiunse accennando a Bruce, che fissava
ora l'uno
ora l'altro nel tentativo di raccapezzarsi.
Con
grande sorpresa di entrambi, Tony sbottò in una mezza risata
amara:
«Proprio
quando pensavo di potermi fidare di voi. Perché continuo a
darvi
retta, Agente?» commentò, riprendendo sdegnato le
sue stesse
parole.
A
quel punto Coulson riattaccò a parlare concitato:
«Stark,
il direttore ha apprezzato l'idea del suo "salvacondotto" e
voleva parlare con lei faccia a faccia per decidere personalmente la
sua reintegrazione nella squadra, ma...»
Tony
lo fulminò con ira, stringendo l'impugnatura del bastone
fino a
sbiancarsi le nocche.
«E
allora perché illudermi che avrei
partecipato alla riunione?!
Quante altre cazzate avete intenzione di...»
«...
ma io ho
deciso di ignorare
i suoi ordini!» lo bloccò Coulson, sovrastando le
sue invettive e
facendolo ammutolire con un sussulto. «La sto davvero
portando
alla riunione. Non vi ho informati per evitare ingerenze da parte del
direttore,» aggiunse rivolto a Bruce.
Tony
non poté far altro che rimanere impalato sul posto, stordito
da
quelle parole che gli suonavano quasi insensate.
«Fury
voleva tenerci all'oscuro di tutto e decidere senza
consultarci?»
intervenne a quel punto Banner, con voce pacata che nascondeva appena
il suo evidente fastidio.
«Infatti
non condivido la sua scelta,» chiarificò Coulson
con fermezza, per
poi rivolgersi nuovamente a Tony:
«Penso
che lei debba parlare prima con loro,»
accennò a Banner, «e che Fury debba accettare la vostra
decisione,» concluse con un sospiro soddisfatto,
riacquistando
all'istante la sua compostezza come se non avesse l'avesse mai persa.
Tony
rimase ancora in silenzio, senza la minima idea di come reagire,
né
di come interpretare quel comportamento inspiegabile. Fissò
l'agente, che sfoggiava il solito sguardo vitreo corredato da un
accenno di sorriso enigmatico.
Perché
si stava esponendo per lui? Gli
era sempre stata evidente l'avversione che provava nei suoi confronti
e non riusciva a spiegarsi perché proprio ora, nel momento
in cui
era più inutile,
problematico e danneggiato che mai, si fosse improvvisamente offerto
di prendere le sue difese.
«Ok,
questo non è l'Agente Coulson, ma un suo Life Model Decoy,
altrimenti non mi spiego...» cominciò con
titubante ironia, ma lui
lo interruppe con fermezza:
«Stark, sono ancora la persona più scettica e meno
incline a
fidarsi
di lei che ricorda, ma devo svolgere il mio lavoro tenendo conto dei
fatti e dei rapporti su di lei, non delle mie simpatie.»
«Vuol
dire che ho fatto bingo con Bonnie e Clyde?»
«Vuol
dire che le sto offrendo un'opportunità, basata anche sui rapporti
degli agenti Barton e Romanov. Non la
sprechi.»
Tony
sorrise incerto, ma era frastornato da quel gesto che avrebbe potuto
essere la sua salvezza ma che, dentro di sé, sentiva di non
meritare. A
quel punto sentì Bruce che gli poggiava una mano sulla
schiena,
sospingendolo appena per invitarlo a camminare verso l'ascensore.
«Sto
facendo tardi alla riunione,» rispose con naturalezza al suo
sguardo sorpreso. «Se
arriviamo tardi in due, magari non se la prendono troppo.»
***
Era
abituato a tenere discorsi dinanzi a migliaia di persone, su
palcoscenici illuminati a giorno e col suo primo piano proiettato su
megaschermi nei quali era possibile distinguere ogni singola
contrazione e piega che attraversava il suo volto; era passato
ripetutamente in diretta nazionale e internazionale, e ai suoi party
non mancava mai di porsi al centro dell'attenzione per tramutarsi
nell'intrattenitore di innumerevoli serate. Gli piaceva stare sotto i
riflettori e li cercava anche nei momenti meno indicati –
riunioni
amministrative, conferenze stampa e tribunali inclusi. In
quel momento, cinque paia d'occhi bastarono a farlo vacillare e a
fargli riconsiderare tutto ciò che aveva pensato di dire o
fare
davanti a loro, rendendolo intensamente consapevole di ogni minimo
movimento impacciato che compiva col suo corpo malandato.
Il
suo arrivo alla riunione aveva ovviamente causato scompiglio, con
Steve che era balzato in piedi esterrefatto, Thor che aveva stentato
ad articolare parole di saluto coerenti e Hawkeye che aveva sgranato
gli occhi rimanendo pietrificato sul posto; Fury era assente,
probabilmente impegnato a testare la resistenza del collo di Coulson
con le sue stesse mani. Banner, che non aveva comunque pronunciato
una sola parola durante il tragitto con lui, si era limitato a
sedersi al tavolo lasciandolo muto e impalato sulla soglia, alla
mercé di sguardi perplessi, ostili e diffidenti.
A
risolvere la tensione fu Nataša. Gli si fece
incontro quasi a passo
di carica e, in modo del tutto sbalorditivo per qualcuno che Tony
dubitava conoscesse il concetto di "esternazioni affettive",
lo abbracciò brevemente per poi piantarglisi di fronte a
braccia
conserte.
«A
quanto pare hai fatto il bravo.»
Tony
cadde dalle nuvole e riuscì finalmente a riemergere dallo
stato
d'inerzia in cui era sprofondato.
«Chi?
Io?» gli sfuggì con un'alzata di sopracciglia, per
un attimo
dimentico di essere il fulcro dell'attenzione di altre persone.
«Sei
vivo e sei in piedi. Per te è un risultato notevole: direi
che ho
fatto proprio un buon lavoro di recupero.»
A
quel punto Tony si riscosse del tutto:
«Veramente
è tutto merito mio, della mia inventiva e della mia
innegabile
abilità tecnica,» elencò con
semplicità disarmante; nel parlare
s'inclinò di lato col busto e si piazzò in una
posa ostentatamente
vanitosa, col bastone a fargli da perno.
«Bello
il nuovo look. Dove hai lasciato il cilindro?»
Nataša sollevò
appena un sopracciglio nell'osservarlo criticamente, strappandogli un
sorrisetto.
«Spiritosa...»
borbottò lui raddrizzandosi, per poi scostarla gentilmente
da parte;
nel farlo le strinse appena il braccio, in un ringraziamento discreto
per aver stemperato una situazione che aveva minacciato di
destabilizzarlo prima del tempo.
Adesso
si sentiva di nuovo padrone di se stesso, del suo ghigno beffardo e
della sua parlantina accattivante.
«Un
uccellino mi ha detto che c'era un party a cui non ero
invitato...» esordì con brio.
«Così mi sono preso la libertà di auto-invitarmi
per
ravvivarlo.»
Nel parlare si piazzò a capotavola,
poggiandosi in piedi allo
schienale della sedia con disinvoltura – e sollievo per la
sua
gamba – e prendendo a squadrare sornione i suoi interlocutori.
«Che
pensiero gradito.»
Il commento di Steve suonò
forse meno caustico e
più incredulo del solito, ma l'occhiata che gli
riservò era altera
come ricordava.
«Parli
proprio tu! Da Bella Addormentata nei Ghiacci dovresti sapere che
rischi si corrono a non invitare qualcuno alle feste,» si
finse
basito Tony.
Lui
rimase in silenzio, con l'aria di un pugile sul ring che sta
studiando un avversario per individuare una breccia nella sua
guardia.
«Dài,
mi sono pure sforzato di trovare una citazione abbastanza antiquata
per farla cogliere anche a te...» Tony sospirò con
ostentata
delusione, «... per te invece non ho nulla, Katniss: credo
che
tu
abbia già largamente superato la tua quota annua di
parole.»
Hawkeye
reagì alla battuta con un sorrisetto appena trattenuto,
unito a un piccolo cenno di saluto.
«Tu
piuttosto, Braveheart,» Tony si rivolse a Thor,
«è bello rivederti sulla
Terra e non disperso tra un mondo e l'altro; almeno ti sei
risparmiato i momenti più eclatanti della mia
carriera....»
L'asgardiano
ricambiò il saluto con un mezzo inchino del capo.
Sembrò voler dire
qualcosa, ma Tony non gliene diede modo e si rivolse all'ultimo
Vendicatore rimasto, senza tentare di celare la propria espressione
fattasi un po' colpevole:
«...
al contrario di Bruce. Ecco, tu hai il grande merito di avermi fatto
scoprire i pregi dell'open-space totale.»
La sua faccia tosta
s'incrinò appena nel notare quella ancora torva dell'amico,
forse
anche accompagnata da una sfumatura verdognola.
«Magari la
prossima
volta è meglio fare meno danni e dedicarci alla fisica
nucleare,
piuttosto che all'architettura.»
«O
allo scoprire quanto alcol possa sopportare un corpo umano prima di
collassare.»
Lui
incassò il colpo con una smorfia ironica:
«Nah,
ero ancora in condizioni decenti. Non sarà mai
peggio di
Baltimora nel 2001,» dichiarò con sicurezza.
Tony
battè un paio di volte sul tavolo col bastone a mo' di
martelletto,
come a concludere la sua introduzione in modo ufficiale. Si
trovò a
sorridere sotto i baffi: cominciava a divertirsi, dopotutto.
«E
ora, signori e signora,» scoccò un'occhiata
suadente a Nataša alle
sue spalle, che ricambiò con sguardo nuovamente omicida e
uno
leggero spintone nel tornare al proprio posto, «direi che
dopo
il
giro di convenevoli possiamo anche passare al tema della
giornata...»
si raddrizzò, lasciando l'appoggio della sedia e allargando
leggermente le braccia come se fosse realmente su un palcoscenico.
«Me. O Iron Man, se preferite il nome d'arte.»
«Io
preferirei capire perché sei qui, Stark.»
Steve
lo guardava fisso con la sua solita espressione corrucciata che
lasciava trapelare una discreta curiosità, in attesa di una
risposta
convincente. Era ancora in piedi con le braccia incrociate,
rigidamente impettito e stretto nei suoi soliti vestiti demodé.
«Non
l'ho appena detto? Per parlare di me. Anzi, di noi.
Ah, così
la faccio sembrare una consulenza di coppia...» si
portò
dubbiosamente la mano al pizzetto. «Comunque! Magari la cosa
vi
stupirà, ma mi mancano un po' le nostre uscite goliardiche
per fare
a botte coi cattivi.»
Vi
fu un momento di silenzio che sembrò prolungarsi
più del dovuto.
«Vorresti
rientrare nei Vendicatori?» interpretò infine
Steve, guardando gli
altri come a conferma di aver sentito bene.
«Vorrei
convincervi a farmi rientrare,»
ribatté Tony, stavolta più
serio.
Il
Capitano non trattenne un verso di scherno.
«Sarà
difficile,» intervenne Thor con la sua voce profonda.
«Sei caduto
più in basso di quanto avrei mai potuto immaginare, uomo di
ferro,»
lo rimproverò con asprezza.
«Troppo
gentile,» mormorò Tony, sfuggendo il suo sguardo.
«Ma adesso mi
sembra di essere di nuovo in sella.»
Fece un paio di passi a
dimostrazione della sua ritrovata stabilità, attirandosi con
soddisfazione gli sguardi dei suoi compagni.
«Un
guerriero caduto non si rialza così facilmente,»
lo contraddisse con durezza il semidio.
Tony
fece una smorfia a quelle parole che sarebbero suonate molto
più
appropriate in qualche sala del trono asgardiana. Era chiaro che il
suo sdegno per essersi quasi tolto la vita non sarebbe stato
così
semplice da dissipare.
«"Guerriero
caduto" mi è nuova. L'espressione più calzante
con cui mi
hanno definito ultimamente è stata "idiota patentato", ma
penso di potermi far andare bene anche la versione aulica,»
concluse
con un breve sorriso spento.
Lasciò
vagare lo sguardo sui suoi compagni di squadra, chiedendosi quanti di
loro lo ritenessero un fallito, quanti un egoista pericoloso, quanti
un qualcosa di rotto da buttar via, ma non riuscì a leggere
i loro
volti, che gli sembravano tutti improvvisamente vacui. I
loro occhi erano puntati su di lui, ma si sentiva come se non fosse
neanche lì. Non era
ancora davvero lì, si rese conto... ma
voleva esserci con
tutto se stesso.
«Non
dovevi convincerci?» la voce di Hawkeye si levò
quasi annoiata, ma
fu abbastanza per riscuoterlo e gli lanciò un'occhiata
grata,
incrociando il suo sguardo acuto.
"Ci
siamo."
Pescò
il cellulare dalla tasca e lo poggiò sul tavolo; dopo un
paio di
tocchi precisi un ologramma 3D si sollevò dallo schermo,
proiettando
un modello virtuale della Mark IV.
«Questo
gioiellino è il nuovo prototipo della mia armatura e la
prima fase
della mia "opera di convincimento".»
«Pensi
di indurci ad riaccettarti con le tue diavolerie high-tech?»
la voce
di Bruce era scettica, quasi offesa dalla sua apparente
superficialità.
«Penso
che possa essere un buon incentivo,»
lo corresse.
«Sarà un'armatura
teleguidata,» spiegò poi, e il volto del dottore
si fece confuso.
«Questo vuol dire che non avrete bisogno di me fisicamente.
Prendetelo come un omaggio della casa, nel caso doveste decidere di
escludermi dal vostro club. Un Iron Man vi farà comodo,
anche se non
ci sono io dentro. Certo, sarebbe un vero spreco,» concluse
in
fretta, rendendosi poi conto che la sua dichiarazione li aveva
spiazzati.
«Saresti
davvero disposto a farti da parte?» stavolta fu
Nataša parlare, con
una chiara nota d'incredulità.
«Mi
sto ripetendo che anche contribuire al Progetto Vendicatori da dietro
le quinte potrebbe essere gratificante. Ma il mio obiettivo
è non
dovermi fare da parte. Sono qui apposta, no?»
concluse
furbescamente.
Prese
un breve respiro e si riposizionò capotavola, decidendo
contro ogni
buonsenso di rimanere in piedi. Scrutò i suoi compagni, la
cosa più
vicina che avesse a degli amici e, forse, a una famiglia. Steve
si era finalmente deciso a sedersi, ma era ancora a braccia conserte
e stringeva appena la stoffa della camicia a quadri; Thor sedeva al
capotavola opposto, col capo leggermente inclinato e i lunghi capelli
a fare da schermo ai suoi occhi; Bruce si era appoggiato al tavolo e
lo scrutava da dietro gli occhiali in modo apparentemente neutrale,
ma la sua bocca era tirata in una piega rigida; Hawkeye era rimasto
compostamente in piedi; Nat si era accomodata seduta alla sua destra e
lo
fissava con tranquilla aspettativa.
Si fece coraggio e iniziò a parlare:
«Avevo
preparato un discorso molto elaborato per scusarmi e mostrarvi la mia
serietà riguardo ad Iron Man e tutto ciò che
implica riprenderne il
ruolo, ma non sono la persona più adatta a seguire le
direttive,
anche se sono le mie...»
Tirò
fuori un foglietto spiegazzato dalla tasca posteriore dei jeans, sotto
gli occhi
in parte incuriositi, in parte perplessi dei Vendicatori.
«"Prendo
atto delle mie azioni ingiustificabili e posso solo sperare che i
Vendicatori vorranno perdonare..." bla bla bla,»
declamò
falsamente pomposo, per poi appallottolare bruscamente il foglio e
gettarlo nel cestino. «Un mucchio di frasi fatte. Magari
avrebbero
anche funzionato.»
Fece una pausa, scrutando i suoi
ascoltatori e
poggiandosi di nuovo allo schienale della sedia per far riposare le
gambe. Non trattenne una smorfia infastidita quando la pressione sul
moncherino
diminuì bruscamente.
«Ma
non credo che sia questo il modo giusto per convincervi. Non sento
nemmeno di dover chiedere scusa a voi per quello
che ho deciso
di fare con la mia vita, per quanto opinabile.
Quella è una
questione tra me e... e me stesso. Sono qui per parlare del
resto.»
Quelle
parole portarono ombre più severe sui loro volti, ma si rese
conto
che lo stavano davvero ascoltando, incluso Cap, che
nonostante
la sua solita non-espressione gli lanciava sguardi meno ostili, come
interdetto dalla sua capacità di rimanere serio per
più di qualche
secondo. Tony
si passò una mano sulla nuca a raccogliere i pensieri e
si
scostò nuovamente dallo schienale, sentendosi irrequieto e
spostando
il peso da un piede all'altro nell'avvertire un fastidio sempre
più
persistente al moncherino. Imprecò tra sé: non
era davvero quello
il momento giusto per bloccarsi, né per soffermarsi sui suoi
problemi fisici.
Incrociò
di sfuggita gli occhi di Nat, che gli parvero quasi incoraggianti e
in un certo senso... soddisfatti? Forse vedere i risultati del suo
impegno stare in piedi dinanzi a lei era un buon motivo per
quell'espressione stranamente amichevole che faceva capolino sul suo
viso. Si sentì in parte rincuorato nel riscontrare la stessa
assenza
di freddezza sui volti degli altri Vendicatori, adesso non
più
simili a maschere bianche e impassibili, ma piuttosto a dei semplici
spettatori in attesa di un numero. E lui era sempre stato bravo a
intrattenere il pubblico.
«Mio
padre...» si arrestò e colse
delle occhiate perplesse.
Non
voleva cominciare da quello,
ma le parole gli erano sfuggite con una
spontaneità che non era riuscito a contenere.
Deglutì, facendosi
forza e riprendendo possesso del palcoscenico.
«Mio
padre fu uno dei capi fondatori dello SHIELD. Tranquilli, non lo sto
dicendo per arrogarmi chissà quali diritti, non sono un fan
del
nepotismo. Comunque, fino a meno di un paio d'anni fa ne ero
assolutamente all'oscuro. Se me l'avessero detto mi sarei messo a
ridere. Insomma, un'organizzazione per la difesa mondiale? Lui? Era
un mercante di morte, cosa diavolo gli importava della pace nel
mondo?»
Scosse la testa, arricciando le labbra.
«Cosa importava a
me, della pace nel
mondo?» aggiunse, più cupamente.
«Ci ho messo un po' ad elaborare
la cosa. Quest'immagine di lui non coincideva con quella che
conoscevo. Non riuscivo a spiegarmela, ma credo di averci capito
qualcosa proprio in quest'ultimo periodo.»
Fece
una breve pausa, chiedendosi dove mai sarebbe andato a parare, ma gli
sembrava che quelle parole stessero risalendo naturalmente verso la
sua bocca, e non si stava sforzando affatto per trovarle. Decise di
fidarsi del suo istinto e seguire quel flusso che aveva tenuto a
freno per tutti quegli anni e che si rimescolava nei suoi pensieri
contorti ogni notte, intrecciandosi alle sue mille altre
preoccupazioni e angosce.
«Per
farvi capire, devo fare un passo indietro,»
cominciò cauto.
«Mi
ricordo mio padre soprattutto nella sua assenza. Quando penso a lui
non lo vedo a casa, ma a un qualche meeting aziendale che
probabilmente celava anche i suoi incontri con lo SHIELD. Quando
tornava da noi si chiudeva in laboratorio. A volte riemergeva per i
pasti, ogni tanto si ubriacava, era costantemente irritato, scontroso
e aveva un tasso di sarcasmo insopportabile. Magari vi ricorda
qualcuno.»
Fece
un sorriso amaro, rendendosi conto di quanto volesse discostarsi da
lui e di quanto, invece, finiva con l'essergli simile sotto
molti aspetti.
«Uno
dei suoi tormentoni era "non perdere tempo, Anthony",»
mimò inconsapevolmente la sua voce burbera, che risuonava
cristallina nelle sue orecchie come se fosse lì accanto a
lui, «e da
ragazzo lo detestavo e lo ignoravo. Ho continuato a ignorare quelle
parole fino a poco tempo fa, e i risultati si sono visti. Ho davvero
perso troppo
tempo.»
Non trattenne un sospiro, seccato con se stesso.
«L'altro
tormentone è più divertente,»
rivelò, guardando di sottecchi Rogers. «Non la
piantava un istante di parlare di te, Cap, al punto che per un
brevissimo periodo sono stato un tuo grande ammiratore. Con tanto di
costume ridicolo, scudo giocattolo e spocchia cento per cento
patriottica. Poi a tre anni ho scoperto la robotica e sono guarito,
grazie al cielo.»
Si
concesse un sorriso scherzoso: anche Steve pareva divertito all'idea
e sapeva che gliel'avrebbe rinfacciata a vita sotto forma di
battutine pungenti.
«Quel
tuo scudo ce l'aveva appeso in laboratorio. Era una copia ovviamente,
ma ci
teneva come se fosse stato quello vero. Ogni tanto me lo indicava e
mi diceva "questo è il motivo per cui sono ancora qui. Trova
anche tu qualcosa che diventi la tua ragione
di vita". Io non capivo. Volevo solo che mio padre uscisse da
quel suo covo e mi degnasse di una parola.»
Si perse in quei ricordi amari, stentando per un momento a
riprendere il filo.
«Ovviamente
scoprii solo molto più tardi il suo vero ruolo durante la
guerra. È
sempre stato abbastanza riservato al riguardo, ma col tempo ha preso
a parlarne più spesso e io ho iniziato a ficcare il naso nei
suoi
appunti e ricerche. Era... oserei dire ossessionato dal Progetto
Rebirth. Ripeteva che era l'unica cosa buona che avesse fatto in vita
sua e che non sarebbe mai riuscito a fare di meglio. Che lo scudo era
il simbolo di ciò che era riuscito a fare.»
Tony
scrollò appena le spalle con fare noncurante e si
sistemò
distrattamente la benda sull'occhio.
«Per
me quello era solo un pezzo di latta appeso al muro. Un giorno, poco
prima di laurearmi, portai di nascosto lo scudo a un party del MIT...
non ricordo perché, credo fosse una qualche scommessa. Non
vuoi
sapere cosa ci abbiamo fatto,»
aggiunse rivolto a Steve, che alzò gli occhi al cielo.
Tony
a quel punto si rabbuiò.
«Mio
padre era freddo, calcolatore. Si arrabbiava in continuazione, ma non
alzava mai la voce. Non l'ho mai visto così infuriato come
quando
tornai a casa quella notte. Disse che ero un fallito e che non avevo
mai capito nulla né di lui, né del suo lavoro,
che ero
irrecuperabile
e non avrei mai concluso nulla in vita mia. A
distanza di anni ho capito che l'avevo ferito, forse per la prima
volta in modo inconsapevole: avevo arbitrariamente deciso che il
lavoro di una vita intera valeva quanto un giocattolo per far
divertire me e qualche compagno sbronzo. All'epoca
me ne fregai: gli dissi di tenersi il suo stupido frisbee e me ne
tornai al college. Non venne alla mia laurea. Poi mi spedì a
studiare all'estero. Morì... morirono poco dopo,»
concluse asciutto.
"E
non l'hai salutato, non gli hai detto che ti dispiaceva," gli
rimbombò in testa.
Colse
uno sguardo addolorato da parte di Steve e si affrettò a
continuare:
«Il
punto della storia strappalacrime è che aveva ragione,
almeno in
parte. È odioso ammetterlo, per di più a distanza
di quasi
vent'anni, ma non avevo davvero capito nulla di
lui. Non mi
ero mai fatto troppe domande su quel che faceva. Ho semplicemente
continuato a farlo. Fino a quando non mi sono visto esplodere in
faccia una bomba col mio nome sopra e non ho iniziato a chiedermi "dove
ho sbagliato?" Il resto lo sapete.»
Alzò le spalle con ovvietà.
«Credo che lui si sia chiesto per
tutta la vita dove
avesse sbagliato e forse, al contrario di me, non ha mai avuto il
privilegio di capirlo.»
Rialzò
lo sguardo sui suoi compagni, rendendosi conto di aver fissato fino
ad allora il modello azzurrino dell'armatura che girava lentamente su
se stesso, come ipnotizzato.
«Io
ho buttato all'aria quel privilegio. Ho commesso molti errori. E alla
fine ho... ceduto.»
Lasciò che quell'affermazione
sprofondasse nel
silenzio, sentendosi improvvisamente vulnerabile nell'essersi esposto
così tanto, nonostante non avesse rivelato neanche la decima
parte di
tutto ciò che gli era passato in testa nel momento in cui si
era
tolto il reattore. Dubitava di poterne essere del tutto consapevole
lui stesso, e quel pensiero continuava a pungolarlo ad ogni respiro
che era ancora in grado di compiere.
Si
costrinse a riprendere:
«Sto
cercando di rimediare. Lo devo a me stesso, a chi mi ha salvato e a
tutto ciò che è venuto... prima.»
Incrociò gli occhi di Nat e
seppe che stavano pensando entrambi al loro "registro macchiato"
e a quelle note rosse da cancellare.
«Forse un po' lo devo
anche a
mio padre,» ammise, e storse appena la bocca, pronunciando
malvolentieri
quelle ultime parole.
«Adesso
ho capito che il Progetto Rebirth e lo SHIELD furono per lui
quello che Iron Man è diventato per me, anche se poi lui non
è
stato in grado di continuare sulla strada che aveva scelto.
È sceso
a compromessi e ha iniziato a commettere errori su errori. Per tutta
la vita mi sono ripromesso di essere migliore di lui e non ho
intenzione di rimangiarmi ciò che ho detto. So
di essere un esibizionista. E adoro essere Iron
Man,»
confessò, con un fugace sorriso che apparve spontaneo sulle
sue
labbra. «Mi comporto
come se non me ne importasse nulla, ma l'armatura non è solo
una
"diavoleria hi-tech" con qualche cromatura fiammante. È
l'unica cosa giusta che sento di aver fatto in vita
mia e
l'unica in cui creda ancora, a questo punto. E sono venuto fin qui
sulle mie gambe per farvi capire che non saranno queste
a
impedirmi di essere Iron Man,» sollevò il braccio
meccanico, «e
non è solo quella a permettermi di
esserlo,» accennò all'armatura virtuale.
Il
suo tono si era fatto energico, intessuto di una fermezza ferrea.
«Non
credo che mio padre intendesse "trovare una ragione di vita"
in senso così
letterale.»
Picchiettò leggermente sul reattore al centro del suo petto,
metallo contro metallo.
«Ma
Iron Man è qui. E questo non possiamo
cambiarlo né voi, né
io.»
Tacque,
con la gola secca.
Si
sentì improvvisamente svuotato e incapace di focalizzarsi su
un'emozione ben precisa, con la testa leggera e quasi estraniato da
tutto ciò che aveva appena detto, come se fosse stato
qualcun altro
a pronunciarlo attraverso lui. All'improvviso il peso degli sguardi
appuntati su di
lui divenne eccessivo e tangibile. Si staccò dalla sedia con
un
movimento brusco e ricostruì la sua solita spavalderia di
facciata,
ansioso di rimarginare quella fessura che aveva incautamente esposto
a tutti.
«Bene,
immagino che a questo punto la riunione debba proseguire a porte
chiuse,» disse a mo' di congedo,
recuperando il telefono e facendo un passo frettoloso e sbilenco
verso la porta.
Sembravano
tutti troppo indecisi sul da farsi per tentare di fermarlo, ma Thor
si alzò dalla sua sedia, irrequieto, e Steve
scoccò un'occhiata
sbieca a Bruce, come in una domanda silenziosa. Colse Nataša
che
stava per dire qualcosa e decise di non avere abbastanza energie per
affrontare subito le ripercussioni del suo discorso improvvisato,
così le impedì di parlare:
«Ah,
ne approfitto per dire che quanto ho detto riguardo al frisbee
a stelle e strisce non voleva assolutamente essere
un elogio
alla qui presente Regina delle
Nevi,» indicò Steve
con il bastone, « e faceva
tutto parte del piano della manipolazione emotiva,»
dichiarò, con un gesto condiscendente della mano
artificiale.
«Fatemi
sapere; io vado a sgranchirmi le gambe, visto che posso,»
concluse
con un mezzo sogghigno tirato mentre arretrava verso l'uscita,
poggiandosi infine con la schiena contro la porta per uscire a
ritroso dalla plancia di comando.
Quando
fu in corridoio riprese finalmente a respirare e i suoi pensieri
tornarono a circolare a un ritmo normale invece di ristagnare in modo
quasi doloroso al centro del suo cervello. Colse un brusio vivace
oltre la porta e zoppicò un po' più in
là per impedirsi di
origliare ciò che avveniva alle sue spalle.
Si
guardò intorno alla ricerca di una sedia, o un qualunque
altro piano
orizzontale su cui abbandonarsi: rimanere in piedi era stata una
mossa azzardata e la stava scontando con crescente rimorso.
Individuò
una vetrata di fianco all'ascensore, con una sorta di davanzale
inclinato che poteva fare al caso suo. Si trascinò per
quella decina
di metri e si lasciò cadere di peso sulla superficie
metallica,
stringendosi il moncherino e ringraziando che il dolore gli impedisse
di pensare troppo lucidamente al fatto che con tutta
probabilità
aveva sprecato la sua unica occasione per rientrare nei Vendicatori.
Si scollò con sollievo la benda dall'occhio e la ripose in
tasca, in
un gesto un po' troppo brusco dettato dalla frustrazione.
Come
gli era venuto in mente di parlare suo padre? Era
seriamente
tentato di mettere ancora in dubbio la propria sanità
mentale, ma
non riuscì a pentirsi del tutto di ciò che aveva
detto su di lui,
anche se ciò non attenuava il risentimento che provava nei
suoi
confronti. Il dolore fisico scemò quel tanto che bastava
perché le
sue riflessioni riprendessero un andamento più lineare.
Quando
sua madre gli diceva che Howard era "tormentato", non aveva
mai capito appieno quella parola, traducendola quasi inconsciamente
con "distratto" o "indifferente". Quanto era
ancora in diritto di rimproverarlo dopo tutto quello che lui stesso
aveva fatto negli ultimi mesi? Si trovò a stringere con
forza il
reattore in mezzo al petto, con un velo di sudore freddo che si
posò
sulla sua fronte.
In
quel momento avrebbe davvero voluto trovarsi suo padre davanti per
chiedergli se quello che aveva appena detto su di lui fosse vero, o se
era solo un'illusione azzardata che si era costruito per giustificare
i comportamenti di entrambi, per accorciare quella distanza
incolmabile che era sempre esistita tra loro. Si costrinse a lasciare
la presa dal congegno, scacciando al contempo quei desideri insensati
e comunque irrealizzabili.
"Forse
sto davvero invecchiando," pensò scoraggiato.
Per
distrarsi, gettò lo sguardo oltre il vetro, sulla vista
vertiginosa
delle nuvole rade e sfilacciate immerse in un azzurro terso. Migliaia
di metri più in basso si scorgeva l'oceano, una compatta
lastra blu
cobalto. Poggiò la fronte sulla superficie lucida, fissando
quello
spazio con nostalgia e immaginando di poterlo attraversare in volo
per distogliersi dalle fitte di nuovo lancinanti alla gamba e dai
suoi pensieri tetri. Rimase così per quasi mezz'ora,
tranquillizzandosi a poco a poco e recuperando almeno una parvenza di
serenità, indotta anche dal quieto scorrere delle nuvole e
dalle sue
fantasticherie di volarvi attraverso.
"...
e poi attiverei i deflettori, farei una cabrata proprio vicino a
quella lì, poi un mezzo giro della morte attraverso
quell'anello e
scenderei in picchiata fino a..."
«Stark.»
Tony
fu ridestato dal suo sogno ad occhi aperti e non poté
evitare un
sussulto quando riconobbe la voce di Rogers; si staccò di
colpo dal
vetro, consapevole di non essere del tutto in grado di mascherare la
sua espressione sofferente, col moncherino che aveva accusato quel
movimento troppo brusco. Steve gli si stava avvicinando quasi a passo
di marcia, stranamente pimpante, e non poté fare a meno di
mettersi
in allerta, maledicandosi al contempo per essersi tolto la benda.
Quando
entrò nel suo raggio d'azione arrestò la sua
avanzata puntandogli
il bastone da passeggio contro il petto.
«Ah-ah!
Distanza di sicurezza, vecchio, non ho nessuna voglia di mettermi
nuovo a...»
Rogers non lo
fece neanche finire di parlare che scostò con
facilità il bastone e
gli tese la destra, in un gesto inaspettatamente amichevole. Tony
fu preso alla sprovvista e spostò lo sguardo dalla mano al
suo viso
per una volta privo della sua consueta ostilità;
esitò a
stringerla, studiandola con lo stesso sospetto che avrebbe riservato
a una trappola per orsi. Vedendo la sua titubanza Steve
sospirò
platealmente e gli afferrò a sorpresa la mano meccanica in
una
stretta salda.
"Ma
che diavolo...?"
Tony
ricambiò d'istinto, per poi piombare nella confusione
più totale,
chiedendosi cosa diavolo fosse successo in sala riunioni in sua
assenza e se c'entrasse l'influsso di qualche sostanza allucinogena.
«Hai
il mio supporto,» dichiarò
semplicemente Rogers, allentando subito la presa e recuperando mezzo
passo di distanza, come rendendosi conto solo in quel momento di
ciò
che aveva appena fatto.
Tony
lo fissò confuso, con la mano ancora ferma a mezz'aria.
«La
manipolazione emotiva ha funzionato?»
«Mi
hai sorpreso,» replicò Steve.
«Non
ci vuole molto: anche quando hai visto uno smartphone ti sei
sorpreso,» puntualizzò lui, mettendo il pilota
automatico al suo
sarcasmo mentre tentava di dare un senso a ciò che era
appena
accaduto.
Steve
alzò gli occhi al cielo.
«Intendo
dire che sei riuscito a parlare di tuo padre, del mio scudo e ad
ammettere i tuoi errori nello stesso discorso senza battere ciglio e
senza fare del tutto un elogio di te stesso. E sei stato
convincente.»
Fece una breve pausa.
«Mi hai
sorpreso,» ripeté,
apparentemente a corto di parole.
"Il
che non è strano per un supersoldato tutto muscoli e
niente... ok,
forse poco cervello."
Tony
distolse lo sguardo, non sapendo in verità nenche lui come
replicare
e trovando l'intera situazione molto imbarazzante.
«Non
era un discorso preparato,» buttò lì
tanto per dire qualcosa.
«Magari
se fossi sempre un po' meno "preparato" saresti
quasi sopportabile.»
Steve lo squadrò con
severità. Lui
si limitò a sbuffare gonfiando le guance, apprezzando in
cuor suo il
ritorno della tipica criticità nei suoi confronti,
decisamente più
gestibile di quella cortesia spiazzante. Si passò una mano
tra i
capelli, scostando qualche ciocca ribelle dalla fronte e cercanto di
inclinarla a coprire almeno parte dello sfregio, mentre
scoccava un'occhiata furtiva alla porta della sala riunioni.
«Tutta
questa molesta espansività da parte tua significa
che...?» insinuò
guardingo, non riuscendo a celare del tutto la sua aspettativa ma
sforzandosi di reprimere il sorriso che sentiva affiorargli sulle
labbra.
«Siamo
in fase decisionale,» lo tenne sulle spine Rogers,
riprendendo il
suo tono neutrale e compassato. «Thor non è
convinto; credo che ad
Asgard siano molto rigidi su... certe cose.»
«L'avevo
intuito.» Tony storse la bocca, contrariato.
«Pensavo lo fossi anche
tu,» sbottò prima di potersi trattenere.
«Lo
sono,» ribatté lui con fermezza.
«L'unica
volta che ho tentato
consapevolmente di uccidermi è stato per buttarmi su una
granata ed
evitare la morte dei miei compagni.»
«Figurarsi.»
Tony schioccò la lingua con fare derisorio.
«Mi
chiedo se tu saresti in grado di fare lo stesso,» lo
rimbrottò
Steve, fissandolo con improvvisa intensità.
Tony
tacque brevemente, grattandosi la tempia pensoso.
«Prima
di buttarmi su una granata cercherei di disinnescarla, deviarla prima
che venga lanciata o gettarla da un'altra parte,» concluse
con un
sorrisetto saputo.
«Sempre
una via d'uscita, eh?»
Steve scosse la testa e Tony si
rallegrò per
essere riuscito ad irritarlo come sempre.
«Se
non c'è, me la creo,» aggiunse un po' mestamente.
«Buttarsi sulla
granata è una via d'uscita un po' troppo facile.»
Steve
lo studiò per qualche secondo, infine sospirò
appena.
«Invece, magari
lo faresti davvero,» commentò quasi tra
sé. «Sono qui appunto
perché voglio darti il beneficio del dubbio,»
concluse in modo
evasivo.
Tony
lo scrutò con intensità, sondando quelle parole,
poi inclinò
appena la testa tirando le labbra in un smorfia dubbiosa.
«Non
me la bevo,» sbottò, rivolgendogli uno sguardo
inquisitore. «Ci
sono migliaia di universi paralleli al nostro e in nessuno di questi
mi daresti mai ragione su qualcosa solo perché "ti ho
sorpreso"
o perché vuoi "darmi il beneficio del
dubbio".»
Incrociò
le braccia, continuando a fissarlo di sbieco. Il
soldato spostò il peso da un piede all'altro e
voltò appena il
capo, improvvisamente meno impettito del solito. Quando
parlò lo
fece senza guardarlo, con gli occhi puntati sulla distesa di nuvole
oltre la vetrata:
«Un
tempo ero io quello considerato "fisicamente non idoneo".» La
sua mascella si irrigidì visibilmente al ricordo.
«Mi è stata
data una seconda possibilità e tuo padre vi ha contribuito.
Fare lo
stesso con te mi sembra un buon modo per... "chiudere il
cerchio".»
Pronunciò con esitazione quelle ultime
parole, come
riluttante a credervi, e il suo sguardo si fece quasi interrogativo.
«Niente
male. Ci hai messo solo qualche decennio per capire di dovere
qualcosa a qualcuno,» commentò Tony, fingendo di
essere colpito.
«Anche se quel qualcosa è la padella che ti porti
appresso,»
puntualizzò, trattenendo un sorrisetto compiaciuto nel
vedere i vari
gradi di crescente stizza passare sul volto del Capitano.
«Per
quanto
riguarda me, preferisco dire che mi sto costruendo
una seconda
possibilità,» precisò poi,
più serio.
A
quel punto Steve liberò un verso esasperato, fissandolo con
improvvisa e familiare antipatia; il suo tono si alzò,
diventando
aggressivo:
«Come
al solito sei incapace di capire quando qualcuno sta veramente
cercando di venirti incontro per colpa del tuo maledetto ego
che...»
Tony
lo interruppe, alzando a sua volta la voce per sovrastarlo:
«Senti,
ti ricordo che non troppo tempo fa mi hai dato del "mezzo uomo",
il che è assolutamente...»
«...
meschino, e mi dispiace, ma ciò non ti autorizza
a...»
«...
inesatto,» lo contraddisse lui con voce
squillante
e Steve si
accigliò confuso. «Insomma, non sono ancora
diventato Robocop, ho
solo due arti di metallo e un reattore cardiaco! Pretendo di essere
considerato uomo almeno per tre quarti,»
concluse facendo un
ironico gesto di OK con la mano meccanica.
Steve
esitò e un'ombra di sorriso involontario passò di
rimando sul suo
volto a quell'atteggiamento leggero e privo di rancore, ma si
affrettò a ricomporsi per ribattere a tono. A
quel punto Tony scorse Banner diretto verso di loro con la sua solita
andatura circospetta e un po' impacciata e gli fece un ampio cenno di
saluto, grato che il suo arrivo interrompesse sul nascere una
discussione che si sarebbe altrimenti protratta per ore.
«Sei
tornato in modalità "angelo custode"?» lo accolse,
con un
sorriso un po' incerto.
«In
verità ho ancora un po' voglia di picchiarti,»
replicò lui,
accigliato e con un mezzo sospiro.
Tony
si ritrasse d'istinto, sentendo il suo sguardo pesare su di lui come
un pugno del suo amico verde, ma si rasserenò un poco nel
vedere che
non sembrava essere così ostile come pensava. E,
soprattutto, di un
colorito roseo e innocuo.
«Oh,
anch'io, credimi,» borbottò quasi tra
sé, per rompere il silenzio.
«Sembra
che tu abbia smosso qualcosa, là dentro,»
commentò poi il dottore,
facendolo illuminare all'istante in volto. «Questo non toglie
che non
sei ancora scusato,» puntualizzò nel notarlo.
«Lo
so.» Tony poggiò la testa al vetro, guardando
entrambi i suoi
interlocutori con aria quasi annoiata. «Vi manderò
un mazzo di...
di... quali erano i fiori per chiedere scusa? Le violette? Insomma,
un mazzo a testa e la chiudiamo là.»
«Dovrai
impegnarti un po' più di così,
quasi-Consulente,» lo rimbrottò
Steve.
Tony
lo ignorò, facendosi assorto. Fissava Bruce quasi senza
vederlo,
ripercorrendo tra sé le circostanze del loro ultimo incontro
con un
misto di vergogna e colpevolezza. Si ritrovò a ticchettare
sul
reattore, come sempre quando si perdeva nelle sue riflessioni, ma
smise subito nel notare l'occhiata allarmata di entrambi.
«Avevi
ragione e avevi torto allo stesso tempo,» dichiarò
in fretta.
«Questo fa di te un paradosso. E verde, per di
più,» e puntò
Bruce con l'indice meccanico come a riconoscergli ufficialmente la
cosa.
Lui
fece un mezzo passo indietro guardandolo interrogativo, e Tony si
accinse a spiegarsi meglio:
«Qualche
tempo fa mi hai detto che per me non ci sarebbe stato nessuno
a sputare il proiettile,» disse d'un
fiato, sentendo che se si fosse fermato a riflettere sul reale
significato di quelle parole si sarebbe addentrato in un sentiero
tortuoso, dal quale non era sicuro che sarebbe riuscito a trovare la
via del ritorno.
Percepiva
già un senso di oppressione al petto solo a menzionare la
questione. Bruce
quasi sobbalzò e Steve spostò nervosamente lo
sguardo dall'uno
all'altro, come chiedendosi se fosse il caso di troncare lì
la
discussione, in un modo o nell'altro.
«Ti
sbagliavi. Magari io non volevo salvarmi, ma qualcun altro ha deciso
di farlo per me e ha deviato quel
proiettile.» Fece una breve pausa, domando il lieve tremito
nella sua voce.
«E
invece avevi ragione quando hai detto che non ero solo. L'ho solo
capito troppo tardi.»
Sorrise appena, con rammarico.
«Bastava
un "grazie", Stark,» commentò Steve a sguardo
basso,
spostando il peso da un piede all'altro.
«Tu
devi impegnarti un po' di più per meritarti un grazie da
parte mia,
Rogers,» lo rimbeccò, serio. «Non basta
una stretta di mano.»
«E
non bastano delle belle parole,» gli fece notare lui a sua
volta.
Tony
lo fissò per qualche istante, tentato di ribattere ancora,
poi
concluse che avevano raggiunto un punto di stallo abbastanza onesto
per chiudere lì la discussione. Gli rivolse solo un secco
cenno del
capo, a intendere che non si sarebbe affatto fermato alle parole, e
lui gli restituì lo stesso sguardo di sfida. Ruppero
il contatto visivo solo dopo qualche secondo, riacquistando entrambi
una postura più rilassata e tornando a includere Bruce.
«Finito?»
commentò quest'ultimo, guardandoli come avrebbe fatto con
due
bambini intenti a mettersi il muso a vicenda.
«Per
ora,» risposero involontariamente in coro loro due,
scoccandosi poi
un'altra occhiata risentita; Tony alzò l'occhio al cielo e
si
rivolse di nuovo a Bruce in tono più leggero:
«Per
oggi ho fatto il pieno di discorsi impegnati. Ho bisogno di far
prendere aria al cervello,» stabilì. «Ed
è un bel po' che non
faccio una capatina nel mio laboratorio su questa bagnarola,»
buttò
lì.
Vide
con compiacimento un lampo d'interesse accendersi negli occhi del
dottore, così lo incalzò:
«Ricordo
chiaramente che noi due avevamo un esperimento in sospeso riguardo a
metamateriali e campi elettromagnetici... Trilly, tu potresti fare da
pubblico,» si rivolse a Steve con un mezzo ghigno, facendogli
storcere il naso al suo ennesimo soprannome. «Andiamo, ci
serve un
po' di terapia di gruppo!» li incalzò con
più vivacità.
«E
va bene...» gli concesse Bruce, con più entusiasmo
di quanto
intendesse. «Tanto là dentro ne avranno ancora a
lungo: Thor si sta
agitando ed è arrivato Phil a gestire la situazione prima
che Nat e
Clint perdano la calma e si scateni una guerra tra Asgard e
Midgard.»
«Oh,
Agente è ancora vivo? Dovrò ringraziarlo in
qualche modo...»
borbottò poi tra sé, decidendosi a fare leva sul
bastone per
rialzarsi.
Ignorò
la protesta della gamba e la mano tesa di Bruce, ma quando fu in
piedi vacillò sul punto di cadere e venne prontamente
agguantato per
la collottola da Steve.
«Meno
male che c'è "Trilly" a salvarti,» lo
schernì col suo
solito tono saccente stemperato da un mezzo sorriso.
Lui
si liberò con uno strattone, lieto però di non
essere collassato a
terra.
«Giù
le zampe, distruttore di protesi.»
«Guarda
che te l'eri cercata.»
Tony
scosse la testa e non rispose, cedendogli il punto e piantandosi in
attesa davanti
all'ascensore col bastone a fargli da perno in una posa che ormai era
diventata abituale.
«Mi
ricordi qualcuno,» commentò Bruce,
accarezzandosi pensoso il mento.
«Probabilmente
un dottore cinico, zoppo ed emotivamente instabile,»
replicò lui prontamente.
Steve
ridacchiò, al che si girarono entrambi a fissarlo perplessi.
Lui
tornò di colpo serio.
«Giuro
che ho colto la citazione,» disse
sulla difensiva.
«In
effetti si presta a varie interpretazioni. Bel colpo,
Rogers.»
Tony gli assestò una decisa pacca sul braccio con la protesi
e
sogghignò quando lo vide trasalire per l'inaspettata
potenza,
sforzandosi allo stesso tempo di non darlo a vedere.
«Evitate
di azzuffarvi nei miei dintorni, per favore?»
sospirò Bruce,
frapponendosi tra i due a fare da cuscinetto.
Tony
si limitò a fissarlo con aria ribelle, mentre già
pregustava il suo
ritorno al laboratorio dell'Helicarrier, dove avrebbe potuto
lanciarsi in qualche brillante disquisizione scientifica con lui
irritando a morte Steve che non avrebbe capito un'acca.
In
quel preciso istante, proprio quando si soffermò su quei
pensieri
così futili, realizzò che dopo tutto quel tempo
le cose stavano
andando per il verso giusto. Era in piedi e stava scherzando coi suoi
compagni di squadra: alcuni
dei pezzi scoordinati del suo puzzle erano finalmente andati al posto
giusto e si sentì levitare a un palmo da terra, quasi avesse
di
nuovo addosso l'armatura. Adesso avrebbe di nuovo potuto prendere
parte alle riunioni, sarebbe uscito indenne dal processo... avrebbe
potuto dedicarsi ad Iron Man. Poteva ricominciare da capo.
La
realizzazione lo colpì, potente e incontenibile, e
liberò la risata
leggera che gli era salita alle labbra.
In
quel momento l'ascensore si aprì con un
sibilo. Tony si voltò,
ancora sorridente, e si trovò a incontrare gli occhi azzurri
di
Pepper.
____________________________________________________________________________________________________
Note Dell'Autrice:
Massalve!
Se siete arrivati fin qui meritate a prescindere un premio, data la lunghezza abnorme del capitolo... eeee ci sarebbe veramente tanto da dire in proposito ma non so quanto posso permettermi di dilungarmi ulteriormente senza ricevere insulti, quindi mi concentrerò sui punti salienti.
Ciò che mi preme dire è che questo è il primo capitolo il cui il "nuovo Tony" inizia ad emergere in modo significativo. Volevo che fosse un punto di svolta netto, quindi ho preferito scrivere di più dicendo però tutto ciò che ritenevo necessario a questo punto della storia. Per questo il discorso di Tony occupa gran parte del capitolo e per questo ho introdotto in modo così "prepotente" il rapporto problematico con suo padre: ammetto che sembra saltar fuori dal nulla; in realtà ho cercato di lasciare intendere più di una volta quanto effettivamente ci rimuginasse sopra e quanto le questioni che tira fuori in questo frangente lo stessero turbando o spronando già da tempo. Come avevo preannunciato, le protesi scivolano in secondo piano per lasciare un po' di posto alla psiche di Tony, alle sue varie problematiche emotive & co.
I riferimenti a dialoghi, situazioni ed eventi successivi e precedenti ad Iron Man e Iron Man 2 sono innumerevoli ma credo anche ben identificabili, a partire dal dialogo con Cap, che è allo stesso tempo un riadattamento del loro diverbio in Avengers e una "riparazione" allo scontro avvenuto nel lontano Capitolo 11 (Sinking).
Ci tengo a precisare che Tony a questo punto è in una situazione molto diversa da quella del MCU e di conseguenza le sue reazioni e pensieri differiscono per forza di cose da quelli che ci si aspetterebbero, rimanendo però coerenti con gli eventi che l'hanno segnato in Phoenix. È un IC nell'OOC, in un certo senso.
Sì, alla fine ce l'ho fatta a far tornare Pepper. Con un cliffhanger vergognoso (e credo perseguibile per legge in tutta la galassia), ma finalmente è tornata sui nostri schermi :D (e forse ci rimane pure. Chissà *fischietta*)
Chiudo qui prima di svalvolare più del necessario. Meno male che dovevo essere breve...
Un grazie a chi leggerà e/o recensirà :) E ringrazio come sempre tanto tanto tanto _Atlas_ (santa che mi sopporti più o meno ovunque <3) e Emyclarinet (grazie per continuare a seguire <3)che hanno recensito lo scorso capitolo rendendomi come sempre felicissima :D
Il prossimo aggiornamento sarà probabilmente tra un mese, se non più, perché la mia sessione estiva comincia brutalmente la settimana prossima e non avrò tempo per vivere, figurariamoci scrivere :'(
Sayonara,
-Light-
P.S. Ho revisionato credo per la 54esima volta il primo capitolo della storia, giusto per informazione; sto continuando a sistemare il layout degli altri capitoli e, visto che ci sono, a correggere gli errori di battitura (Atlas, avevi ragione, sono una quantità imbarazzante :'D)
P.P.S. La canzone dell'intro si chiamerà pure I'm So Sorry, ma ne consiglio vivamente l'ascolto per non farsi trarre in inganno dal titolo #TonyBAMF
P.P.P.S.(L'ultimo, giuro): quando Tony scherza sul dottore zoppo e cinico, si riferisce a Dr. House; Steve fraintende e pensa a Dr. Jekyll :P
© Marvel
|
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Capitolo 38 *** No man is an island ***
37
No
man is an island
"'Cause
love's such an old-fashioned word
And love dares you to care
for
The people on the edge of the night
And love dares you to
change our way of
Caring about ourselves"
[Under Pressure
– David Bowie/Queen]
25
Giugno, Helicarrier
Un
anno e mezzo prima era sceso da un aereo militare con passo stentato,
un braccio al collo e senza le solite lenti scure a celare gli occhi
gonfi e le escoriazioni sul volto, oltre alle ombre cupe che lo
avrebbero insidiato ancora a lungo. Quel giorno il sole era a picco,
il cielo terso, non spirava un alito di vento e tutto sembrava
quasi sospeso sull'asfalto infuocato e grigio, come un miraggio
rimasto ancorato per sbaglio al suo posto.
Ricordava quel momento
con chiarezza cristallina, perché allora era finalmente
riuscito a
ignorare il senso d'oppressione che per tre mesi gli aveva
occluso il petto martoriato. Si era concentrato unicamente
sul paio di occhi azzurri e lucidi che lo scrutavano dall'altro capo
dalla pista d'atterraggio, incorniciati da ciocche ramate, e sul
sussulto che aveva scosso il suo petto a
metà tra
il cuore e il reattore
nell'incrociarli. Ricordava anche di aver temuto follemente
che una delle maledette schegge avesse deciso di stroncarlo
lì,
proprio quando era riuscito a tornare a tutto ciò che gli
era
mancato.
Invece si era trovato
davanti a quegli occhi limpidi, avvolto dalla sensazione più
piacevole che avesse provato dopo quei mesi di prigionia, e aveva
pensato che, dopotutto, poteva davvero ricominciare a vivere. E aveva
scelto di farlo nel migliore dei modi possibili.
Quegli stessi occhi,
velati però di tristezza e incredulità, avevano
accolto il
risveglio peggiore della sua vita, anche più di quello in
Afghanistan: inerme su un letto d'ospedale, a
pezzi, con il terrore che gli aveva avvolto le membra rimaste
dissipato dalla semplice, lieve stretta di una mano fidata. C'era
stato di
nuovo quel sussulto vicino al reattore e poi più nulla. Solo
un
vuoto freddo che si era radicato nel suo petto. Si era rifugiato in
quell'apatia, perché allora sentire qualunque
cosa avrebbe
voluto dire sprofondare nel pozzo buio che aveva intravisto davanti a
lui, senza accorgersi che era già dentro di sé.
Si era aggrappato
a quella mano come se fosse l'unica cosa che potesse trattenerlo dal
cadere, e l'aveva sostenuto davvero, anche quando lui era stato
deciso a mollare la presa.
Era caduto. Si era
rialzato a stento, ferito, ed era caduto di nuovo. Lei l'aveva
afferrato
ogni volta. Ancora, e ancora, e ancora, sempre più in basso,
ogni
volta più a pezzi e più confuso, più
determinato a lasciarsi cadere.
Finché quegli occhi non
si erano riempiti di delusione e rammarico e la mano si era
tesa
un'ultima volta. E lui l'aveva sfiorata volendola stringere con tutto
se stesso, per poi ritrarsi, consapevole che anche tutto se stesso
non sarebbe mai stato abbastanza; consapevole che era troppo
rotto
per essere abbastanza, per meritarsi qualcosa, per tener testa a
quell'azzurro limpido col
suo nocciola torbido e mutilato. Si era lasciato cadere
in fondo al pozzo, nel fango, assieme ai pezzi del suo guscio ormai
infranto e a quelli che già erano caduti laggiù
da anni senza che
se ne fosse neanche reso conto.
Rialzarsi non gli era
mai sembrato così difficile come quando aveva visto l'uscita
solo
come una capocchia di spillo lontana sopra la sua testa. Ma in
qualche modo era riuscito a raccattare i pezzi più
importanti e a
risalire verso essa, un passo alla volta, con un guscio più
fragile,
ma anche più leggero. Voleva credere di essere
arrivato quasi in cima. In realtà sapeva di non essere
neanche a
metà strada e di poter cadere di nuovo da un momento
all'altro,
nonostante le
altre mani alleate che si erano tese verso di lui e che aveva
finalmente
deciso di accettare.
Adesso il medesimo,
inatteso sussulto di un anno e mezzo prima gli fece mancare un
battito nell'incrociare di nuovo i suoi occhi, questa volta
illuminati da una viva sorpresa, subito sostituita da una freddezza
estranea e dolorosa.
Il suo primo istinto fu
di ritrarsi. In alternativa, di poter scomparire o rimpicciolire a
comando per sfuggire a quello sguardo un tempo
salvifico e adesso insostenibile, lontano dai quegli occhi cerulei e
da quelle labbra che non era riuscito ad accettare e che
probabilmente non avrebbe mai davvero meritato. Avrebbe voluto fuggire
di
nuovo, ma qualcosa dentro di lui si ribellò con violenza a
quell'idea, anche se adesso avrebbe potuto farlo, grazie alle sue gambe
appena
riconquistate.
Invece rimase piantato al suo posto, ravvivò nuovamente
il sorriso di una risata trattenuta troppo a lungo prima che svanisse
del tutto dal suo volto, e si rifiutò di cedere ancora una
volta alla
sua stessa vigliaccheria:
«Non ho mai creduto al
caso, ma sto cominciando a cambiare idea,»
commentò, con un'alzata
di sopracciglia e il tono più disinvolto che gli
riuscì, nonostante
il peso che gli premeva nel petto fosse tangibile e cercasse di
arrestare quelle parole spigliate. «Salve, signorina
Potts,»
aggiunse con garbo.
Pepper rimase
comprensibilmente spiazzata, ma ebbe abbastanza prontezza da
rispondere quasi all'istante con la medesima cordialità,
cosa di cui
d'altra parte non aveva affatto dubitato:
«Buongiorno, Signor
Stark. Sono sorpresa di vederla qui.»
«Oh, non è l'unica,»
replicò lui, bloccando col bastone le porte dell'ascensore
che
avevano iniziato a richiudersi e svicolando dentro con un passo un
po' ondeggiante.
Notò con chiarezza la
donna che si irrigidiva stringendo la sua cartella di documenti come
uno scudo e fu tentato di schizzar via di lì all'istante,
rendendosi
conto del suo disagio, ma ormai il danno era fatto.
«Noi
stavamo giusto
andando in laboratorio,» aggiunse, trattenendo ancora le
porte e
scoccando un'occhiata eloquente a Bruce e Steve, che sembravano
essersi tramutati in statue di sale.
Ignorarono palesemente
il suo non tanto velato invito a salire a loro volta, per stemperare
quella situazione decisamente disagevole. O imbarazzante.
"Catastrofica,"
concluse tra sé, nel realizzare che probabilmente stava per
imbarcarsi da solo nei due minuti in ascensore
più lunghi
della sua vita.
«Tu
intanto vai...»
lo incitò Bruce, riprendendosi e indietreggiando di un
passo.
«Quanto
a noi, credo che sia meglio andare a controllare che stanno
combinando là dentro, con Thor e tutto... Capitano?»
«Buona
idea, Dottore,»
concordò l'altro, stranamente docile e accodandosi
all'istante, con
tanti saluti al famigerato coraggio del Vendicatore a stelle e
strisce che prendeva a pugni i nazisti.
"Figurarsi."
Tony
stentò un sorrisetto gelido che prometteva ripercussioni molto
dolorose su entrambi, non appena fosse stato in grado di rimettersi
l'armatura.
«Stronzi,»
commentò a mezza voce, ma abbastanza forte da arrivare
alle
loro orecchie, poco prima che le porte si sigillassero
in modo definitivo.
Era
dell'idea che probabilmente una cripta sarebbe stata molto meno tetra
e inospitale di quei tre metri quadri d'ascensore. Scoccò
un'occhiata al pannello dei pulsanti e notò che anche Pepper
era
diretta al piano dei laboratori, dieci livelli più su.
"Grandioso. Oggi il caso mi ha preso in simpatia."
Non
aveva ancora avuto la forza di guardarla volontariamente e lei teneva
lo sguardo fisso sulle porte come se volesse indurle ad aprirsi con la
forza del
pensiero. Iniziò a pensare che quello non fosse esattamente
il modo
migliore per riallacciare i rapporti, ma evidentemente tre mesi di
recupero psicofisico non erano stati sufficienti a
ridimensionare la sua avventatezza. Iniziava
a sentirsi soffocare, lì dentro. Giurò a se
stesso che il prossimo
progetto che avrebbe presentato per migliorare l'Helicarrier sarebbe
stato per degli ascensori supersonici...
«La
trovo meglio.»
Tony
trasalì e dovette convincersi di aver davvero sentito
quelle
parole, perché era abbastanza convinto che il suo cervello
gli
stesse giocando brutti scherzi, ma una fugace occhiata laterale lo
convinse di non esserselo immaginato, visto che adesso Pepper stava
guardando senza ombra di dubbio nella sua direzione. Di sottecchi e
con circospezione, ma stava almeno riconoscendo la sua presenza.
«Dice?»
mormorò, a voce più bassa di quanto avesse
voluto,
quasi stesse parlando
con un timido animale selvatico pronto a dileguarsi al primo gesto
troppo brusco. «Anch'io. Nel senso, trovo meglio
entrambi
anche se non è
difficile che lei mi trovi meglio rispetto a...»
s'interruppe. «Mh, lasciamo perdere.»
Portò una mano sul
reattore, ticchettandovi un paio di volte le dita nel suo solito
gesto automatico, ma smise all'istante nel notare la reazione tesa
della donna, che sembrò scansarsi appena da lui.
All'improvviso
desiderò solo avere qualcosa per coprire la luce azzurrina
che gli
brillava in mezzo al petto, vistosa contro la stoffa scura.
Tirò
su nervosamente col naso: con quella falsa partenza, era sicuro che
potesse scordarsi qualsiasi possibilità di intavolare una
discussione civile con lei. Senza contare che l'aveva irritata e
forse turbata, visto che le stava imponendo la sua presenza e la
stava forzando a parlare con lui, presumibilmente l'ultima persona
sulla Terra con cui volesse avere a che fare. Si
sentì riempire di una frustrazione tale da renderlo
assolutamente
insofferente alle quattro pareti metalliche in cui era rinchiuso.
Adocchiò il display dell'ascensore, notando che mancavano
solo tre
piani: la sua finestra d'opportunità stava per chiudersi.
«Time-out,»
proruppe infine, costringendosi con ogni fibra del suo essere a
voltarsi del tutto verso di lei. «Posso
ricominciare?»
Pepper
non lo degnò di uno sguardo, adesso di nuovo concentrata in
un punto
davanti a sé, apparentemente sorda alle sue parole.
«Ok,
proviamo un altro approccio: le va un caffè?»
«Signor
Stark, lei è assolutamente...»
«...
impaziente di uscire di qui, esatto,» rettificò
all'istante lui, e premette più volte il
pulsante del piano, come se così potesse far accelerare quel
mezzo
infernale.
Lei
non replicò e lasciò a metà il suo
commento, ma Tony si accorse
che lo stava di nuovo osservando con la coda dell'occhio e colse un
lieve sospiro da parte sua, immaginò di esasperazione.
Accolse
l'apertura delle porte come fossero i cancelli del Paradiso.
Varcò in
un solo passo claudicante la soglia, ansioso di chiudere se stesso in
laboratorio
e il resto del mondo fuori anche solo per qualche ora. Doveva darsi da
fare con
la Mark IV; avrebbe potuto cominciare a buttar giù il
prototipo lì
per poi...
«Va
bene.»
Tony
si arrestò così bruscamente su una gamba sola che
per poco non perse l'equilibrio. Si voltò di scatto verso di
lei, bilanciandosi col bastone appena in
tempo per non cadere.
«Cosa?»
Pepper
uscì dall'ascensore quasi sovrappensiero, avvicinandosi
appena a
lui.
«Il
caffè. Va bene.»
Tony
boccheggiò per qualche istante, con la netta impressione che
il suo
cuore stesse per implodere, non sapeva dire se di gioia o paura.
«L'ha
detto davvero o sto delirando?» chiese conferma, fissandola
incredulo.
Lei
ricambiò con gli stessi occhi inespressivi che gli aveva
riservato
poco prima, ma stavolta erano accesi da un'aguzza punta di
rimprovero.
«Non
mi faccia cambiare idea.»
«Caffè,
ricevuto. Offro io.»
***
Macchiato,
due cucchiaini di zucchero e bollente da far male. In vita sua aveva
portato a Pepper forse tre caffè, contro il probabile
migliaio che
gli aveva portato lei, ma non dovette neanche chiederle come lo
volesse, tanto quell'informazione gli era rimasta impressa.
La
zona relax dell'Helicarrier era fortunatamente deserta e
sperò
rimanesse tale, contando anche sul buonsenso di qualunque incauto
avesse avuto la malaugurata idea di concedersi una pausa in quel
momento così delicato. Aveva
praticamente costretto Pepper a sedersi a uno dei tavolini metallici,
insistendo per lasciar fare a lui, con una battutina molto poco
felice sul fatto che ora
sapeva destreggiarsi in una cucina senza
devastarla. In
verità avrebbe solo voluto sedersi anche lui per far
riposare il
moncherino, ma si costrinse a resistere. Si puntellò con le
mani sul
bancone, serrando l'occhio nel tentativo di smorzare il dolore alla
piaga. Aveva un tubetto di analgesici in tasca, ma preferiva svenire
per il dolore piuttosto che prenderli davanti a lei. La
benda nell'altra tasca rappresentava una tentazione ben
più
concreta alla quale s'impose a fatica di resistere. La ferita
all'occhio si
stava finalmente cicatrizzando, anche se la cosa non migliorava poi
molto il suo aspetto generale, e ormai l'aveva visto a volto
scoperto. Si tastò cautamente lo sfregio, come se
così potesse
renderlo meno visibile, ripetendosi che non era certo quello il suo
problema più grave al momento.
Il
bip della macchinetta del caffè lo
riscosse prima che potesse
indugiare
ulteriormente su quelle considerazioni. Posò sul
piano-cucina il
caffè di Pepper, passando al suo; esitò sui
tasti, per poi
selezionare con rassegnazione il decaffeinato. Non aveva davvero
bisogno di avere i nervi ancor più a fior di pelle. Stava
temporeggiando per dare una parvenza di ordine ai suoi pensieri, ma
la cosa non stava dando i suoi frutti, anzi, così si
rassegnò a doversi
sedere letteralmente a tavolino per intraprendere una discussione al
confronto della quale sentiva che avrebbe rimpianto le amene
chiacchierate coi suoi aguzzini dei Dieci Anelli, waterboarding
incluso.
Fece
per prendere le tazze, e solo allora si rese conto che in quel momento
difettava di una mano, essendo una impegnata dal bastone. Avrebbe
potuto metterselo sottobraccio e prendere così entrambe le
tazze, ma dubitava che sarebbe riuscito a coprire quella breve distanza
senza far traboccare le tazze o rovinare a terra. E comunque, chiedere alla sua protesi di non
sbriciolare qualcosa di fragile sarebbe stato decisamente azzardato.
"Cominciamo
bene..."
Prima
che potesse farsi venire in mente un qualche commento sagace per
camuffare la sua evidente difficoltà, si trovò
Pepper accanto: era
tanto preso ad arrovellarsi su come risolvere quella questione
così
banale che neanche l'aveva sentita avvicinarsi. La donna prese senza
una parola entrambe le tazze, tornando poi verso il tavolo e
sedendosi come se non si fosse mai alzata, col suo caffè
fumante
stretto tra le mani a coppa. Tony
rimase impalato sul posto per qualche secondo, sentendosi vagamente
umiliato
per il fatto che anche in quella situazione così sensibile
avesse
dovuto ricordargli di non essere autosufficiente. Scacciò
quella
sensazione e si risolse a interpretare il gesto come una semplice
gentilezza, senza per questo confidare abbastanza nella sua voce per
riuscire a pronunciare un "grazie" senza balbettare o
suonare sarcastico.
Sedette
a sua volta di fronte a lei, rivolgendole una breve occhiata prima di
prendere a fissare il caffè di fronte a lui. Ne bevve un
sorso,
ustionandosi e chiedendosi cosa sarebbe successo ora; anche
lei nascose
brevemente il volto dietro la tazza, prolungando il silenzio e
confermando l'impressione che nessuno dei due avesse la minima idea
di cosa fare.
Forse non era l'unico ad essere stato avventato,
concluse con una punta di sollievo.
«Ok,
come ci si comporta in queste situazioni? Ho perso un po' la
mano,»
ammise infine con malcelata frustrazione, in un debole tentativo di
rompere il ghiaccio.
A
quelle ultime parole lo sguardo della donna si spostò di
riflesso
sulla sua protesi; Tony realizzò solo allora l'ironia della
sua
affermazione.
«Giuro
che è stato involontario,» puntualizzò,
alzando un indice della
mano in questione. «Neanch'io faccio battute così
scontate.»
«Un
intero tribunale potrebbe smentirla,» replicò lei,
inclinando
appena il capo e scrutandolo pungente.
Un
fugace sorriso brillò sul volto di Tony, per poi svanire in
un'espressione più composta. C'era un accenno di tensione
in meno da parte di entrambi.
«Com'è
la vita sull'Olandese Volante?» le chiese con disinvoltura,
concentrando però l'attenzione sul simbolo dello SHIELD
stampato
sulla tazza.
«Monotona
e impegnata, ma non posso lamentarmi. È un lavoro come un
altro.»
«Pensavo
odiasse cercare altri lavori,» commentò lui, per
poi serrare la
bocca chiedendosi se avesse osato troppo.
Pepper
prese un piccolo sorso di caffè, lasciandosi tempo per
rispondere, e
Tony ne approfittò per scandagliare rapidamente il suo volto
alla
ricerca di qualche traccia di fastidio. Lo trovò rilassato
nella sua
serietà. Molto più rilassato
di quanto ricordasse, e bello
come sempre, rilevò tra sé. Forse era la sua
mente che si divertiva
a trarlo in inganno, ma gli sembrava di contare più
lentiggini sulle
sue guance. O forse era lei ad avere un colorito più sano e
roseo.
«È
vero,» rispose infine senza sbilanciarsi, e Tony si chiese se
dovesse cogliere una vena accusatoria nelle sue parole.
"Nel
dubbio, me lo merito."
«Lei
come sta?» gli chiese poi, con una chiara titubanza che
s'impegnò inutilmente a
mascherare.
«Oh,
mi sono dato da fare, come ha visto,» sollevò il
bastone da
passeggio e lo posò sul tavolo accanto per sbarazzarsi
dell'ingombro. «Anche se
mi immagino già
le caricature in stile Zio Paperone,» alzò
appena l'occhio al cielo, realizzando per la prima volta che in
futuro la satira avrebbe avuto molto materiale da
cui
attingere per metterlo in ridicolo, «ma
anch'io non posso lamentarmi,» concluse con un'alzata di
spalle.
«Sono
contenta di vedere che sta bene,» disse lei, in modo fin
troppo
distaccato e formale.
Tony
compresse le labbra, chiedendosi se quello fosse un mero commento di
circostanza, ma il modo in cui lo guardava tradiva un accenno di
calore in fondo ai suoi specchi cerulei. Bastò quello a
convincerlo
della sua sincerità e si rimproverò per averne
dubitato.
«Lo
sono anch'io,» replicò semplicemente, riportando
l'occhio alle
proprie mani asimmetriche senza frenare il sorriso che gli
increspò
un angolo della bocca.
Il
naturale silenzio che seguì quelle parole li avvolse come
una bolla
serena. Per un attimo, Tony poté fingere che tra loro non
fosse
accaduto nulla, e volle credere che anche lei si stesse aggrappando a
quello stesso pensiero.
«Di
cosa voleva parlare?»
La domanda di Pepper parve piombare tra
loro
con una pesantezza impensata per delle parole tanto innocue, rompendo
l'illusione di essere immersi in una chiacchierata come tante.
"Di
un paio di miliardi di cose spiacevoli, nulla di che."
Tony
impose al proprio cervello di filtrare il più possibile il
suo
istintivo sarcasmo, onde evitare disastri. Prese
a rigirarsi la tazza tra le mani, non sapendo in verità da
dove
cominciare. Erano entrambi consapevoli di dove sarebbe andata a
finire prima o poi quella discussione, ma si rendevano anche conto di
non potervi arrivare direttamente.
«Delle
nostre "esistenze complicate", suppongo,» si decise a
rispondere infine, rialzando per pochi istanti lo sguardo.
Lei
strinse le labbra, esitante.
«Direi
che sarebbe meglio partire dalla sua,
prima di parlare delle nostre,»
replicò infine con lentezza, soppesando ogni parola.
«Andata,»
concordò subito lui, pensando che dopotutto aveva ragione ed
era
decisamente lui l'addendo più problematico di
quell'operazione.
Battè
un paio di volte il fondo della tazza sul tavolino, come a spronarsi
a parlare.
«Partiamo
da qualcosa di semplice,» sospirò poi, mettendosi
a braccia
conserte sul tavolo. «Quando mi ha chiamato per farmi gli
auguri non
l'ho ignorata. Non ho davvero
sentito il telefono: ero più o meno in letargo dopo una...
uh,
sessione extra di fisioterapia particolarmente intensa,»
spiegò in
modo vago, scrutando la reazione della donna, che rimase forse
sorpresa dal modo frivolo in cui aveva deciso di iniziare la
discussione.
«Cosa
le fa pensare che l'avessi chiamata per farle gli auguri?»
indagò senza scomporsi.
«Non
si è mai dimenticata in quasi dieci anni. È
un'ipotesi più che valida,» la
fissò con impertinente sicurezza, mordendosi le labbra per
evitare a
un sorrisetto di sfuggirgli, ma lo vide affiorare quasi di rimando
negli occhi brillanti di Pepper.
«Non
mi ero dimenticata,» confermò, con voce
più morbida.
«È
meglio che non le abbia risposto. Non meritavo quegli auguri, non da
lei,» disse lui di slancio, per poi ammutolire a sguardo
basso.
Si
era appena gettato a capofitto nella parte oscura di quella
discussione in cui temevano entrambi di addentrarsi, come se stessero
camminando sugli argini di un fiume in piena pronto a straripare.
«Forse
no,» ammise lei, sfuggendo il suo sguardo con improvviso
nervosismo,
il volto nuovamente adombrato.
«Perché
mi ha chiamato, allora?»
«Era
riuscito a rialzarsi da solo. Ho pensato che forse voleva dire
qualcosa.»
«E
lo pensa ancora?»
Pepper
passò un dito sul bordo della tazza con fare assente,
provocando un lieve stridio sulla ceramica umida.
«So
che qualche mese fa non saremmo stati qui a parlarne e forse neanche
avremmo voluto.»
«A
parlare di cosa, poi?» mormorò lui, con un lieve
sbuffo spazientito.
«Non ha risposto alla domanda,» le fece notare.
«Penso
che sia cambiato qualcosa. O almeno lo
spero,»
si corresse.
«Non
ho più istinti suicidi, se è questo a cui vuole
arrivare,» replicò
lui in tono piatto, ostentando una noncuranza che non sentiva.
Pepper
si irrigidì, e sapeva che nella sua testa stava rivivendo il
momento
in cui l'aveva trovato in fin di vita. Si sentì crudele a
rivangare
quei ricordi in modo così brusco, ma era anche stanco di
girare
attorno alla questione come se fosse una mina pronta ad esplodere.
«Ha
la più pallida idea di cosa...» esordì
lei con calma forzata e il
tono gelido in cui aveva imparato a riconoscere il preludio alla
tempesta.
«No,»
la interruppe subito, intuendo il seguito e correndo ai ripari.
«Non
posso neanche immaginare cosa abbia passato. E non era mia
intenzione...»
«Non
era "sua intenzione"?» Pepper a questo punto lo
freddò
con un'unica occhiata che parve trapassarlo come una freccia
ghiacciata. «Cosa credeva che sarebbe successo?»
Tony incassò la testa tra le spalle a quelle parole
improvvisamente sferzanti e comprese di
non avere argomentazioni abbastanza solide per controbattere.
«Quello
che fortunatamente non è
successo,» rispose
senza pensare, sentendosi
incapace di far fronte a una rabbia che non si era ancora abituato a
vedere in lei, e che probabilmente non avrebbe neanche mai visto, se
solo avesse compiuto scelte diverse.
Nel
frattempo iniziava ad avvertire un senso di vuoto schiudersi al
centro del petto, sotto il reattore, ed era improvvisamente a corto
di fiato come se qualcuno gli stesse stringendo la gola in una presa
ferrea.
«È
stato un gesto stupido, e avventato,» ammise a fatica, per
non
lasciar scivolare la discussione nel silenzio e per distrarsi dalle
sensazioni spiacevoli che gli stava inviando il suo corpo.
«Oh,
davvero?» la donna inarcò appena un sopracciglio.
«Credevo fosse un
altro dei suoi colpi di genio per "risolvere la situazione".»
Pepper
non faceva spesso uso del sarcasmo gratuito – Tony compensava
ampiamente per entrambi – ma nei rari momenti in cui vi
ricorreva
risultava sempre tagliente come un bisturi. Anche in quel caso, il
colpo andò a segno con precisione chirurgica.
«Non
ero esattamente lucido, in quel momento,» replicò
a denti stretti,
sentendosi ferito da quella stilettata sferrata apparentemente senza
alcun rimorso.
«L'avevo
intuito dalla sua performance assolutamente sobria
davanti
alla stampa, da qualche parete crollata e dallo stato pietoso in cui
l'ho ritrovata.» Pepper non si fece intenerire,
apparentemente
decisa a non lasciargli l'ultima parola. «O dal
fatto che non
si sia
minimamente preoccupato delle conseguenze del suo gesto per gli
altri.»
A quel punto la sua voce fu
attraversata da un lieve
tremito, che sembrò riverberare di rimando nelle ossa di
Tony. Questi
si limitò a chinare il capo senza rispondere. Aveva
accettato di
venire rimproverato nel momento in cui le aveva chiesto di parlare,
ma era comunque doloroso sentirle pronunciare quelle parole
traboccanti di delusione e risentimento verso di lui.
«Quando... quando
l'ho trovata
avevo appena deciso che valeva ancora la pena starle accanto, nonostante tutto,» la sua voce
traballò e fu costretta a fare una pausa. «Ha
idea di quanto mi sia spaventata?» lo
incalzò poi, fremente.
Tony
scosse appena la testa storcendo la bocca in una piega amareggiata,
continuando a tacere.
«E
nonostante tutto mi ha salvato la vita,» mormorò
infine, scrollando
le spalle ancora incredulo. «Lo so che a questo punto non
vale
nulla,
ma... grazie.»
Nel dirlo riuscì a fissarla per la
prima volta negli
occhi senza esitare. Lei
non rispose, ma dal suo sguardo Tony capì che stava
soffrendo anche
solo nel ricordare quei momenti. Lui di quegli attimi terrificanti
ricordava solo la consapevolezza che ci fosse lei ad aspettarlo, al
di là del muro d'acqua oltre il quale era scivolato. Era
riemerso
anche grazie a lei, al suono distante della sua voce, ma questo non
poteva dirglielo senza che lo prendesse per pazzo, se già
non lo
pensava.
«Lo
rifarei. Ma non avrei mai voluto trovarmi nella condizione
di
farlo e non posso perdonarla per avermi
obbligata.» La voce
di Pepper era tesa come una corda di violino e virò quasi
sullo
stridulo. «Non riesco ancora a capire come è
potuto
succedere,»
aggiunse in fretta, come se temesse che quelle parole si ritraessero
prima di poterle pronunciare.
Lui
sbuffò piano, sempre più irrequieto e in cuor suo
impaurito dalla
piega che stava prendendo la discussione.
«Non
è importante,» affermò sbrigativo, con
un gesto secco della mano.
«Lo
è per me,»
lo contraddisse lei, stavolta in tono
più gentile.
Tony
si rifiutò di incontrare i suoi occhi, anche se poteva
percepirli
mentre lo scrutavano a fondo, quasi intimandogli di alzare il
proprio.
«Ho
fatto una stronzata. Non c'è nient'altro da dire,»
ripeté,
sentendo il suo respiro che accelerava senza motivo e l'urgenza quasi
fisica di chiudere quell'argomento adesso.
«Sto
cercando di capire,
Tony. Non
mi chiuda di nuovo fuori,» lo riprese lei, con una durezza
quasi
rassegnata.
Lui
soppresse la risposta acida che gli era salita alle labbra,
l'ennesimo tentativo di fuga a cui cercava di indurlo la sua mente,
cogliendo solo con un po' di ritardo l'importanza di ciò che
gli
aveva appena detto. Quand'era
stata l'ultima volta che qualcuno aveva cercato di capirlo, invece di
limitarsi a rimproverarlo? Nessuno gli aveva mai neanche chiesto come
si fosse sentito. Aveva solo ricevuto parole di biasimo, delusione e
stizza che sentiva di meritare, ma che suonavano comunque vuote e
impersonali alle sue orecchie.
Sospirò
profondamente e trovò il coraggio di guardarla.
Incrociò per appena
un secondo i suoi occhi, ma di nuovo non riuscì a
sostenerli. Tornò
a fissarsi le mani, sentendosi più vulnerabile che mai nel
realizzare che, oltre la cortina di severità e delusione che
li
offuscava, brillava ancora quella luce limpida che l'aveva sempre
spinto a fidarsi di lei oltre i limiti di quanto avrebbe ritenuto
ragionevole. Probabilmente c'era sempre stata, anche quando lui non
aveva voluto vederla. E c'era adesso, in un momento in cui avrebbe
avuto tutto il diritto di negargli qualsiasi aiuto e
comprensione.
Serrò la mascella, improvvisamente frustrato. Come
faceva a spiegarle tutto quando non riusciva a spiegarselo lui stesso?
Esitò
ancora, scandagliando la massa intricata dei suoi pensieri alla
ricerca di un punto di partenza.
«Mi
sentivo in un vicolo cieco. E mi ero convinto che quella fosse la
soluzione più semplice per tutti,»
confessò infine, appena udibile,
scuotendo la testa con rammarico.
"Soprattutto
per me," si trovò a pensare con vergogna.
«Tony,
ho passato–... abbiamo passato mesi a
preoccuparci solo
per lei e a cercare di aiutarla in ogni modo possibile,» gli
fece
notare incredula, ma anche avvilita da ciò che aveva appena
detto.
Lui
non rispose, ma contrasse le mani attorno alla tazza: era consapevole
di quanto fossero illogiche le riflessioni che si erano affollate
nella sua testa in quel momento così buio. Quando cercava di
ricordare con esattezza cosa avesse pensato incontrava solo una
spessa, impenetrabile lastra nera che gli spaccava in due la testa
oscurando qualsiasi razionalità. Una crepa si
delineò sullo smalto
della tazza e rilassò di colpo la mano meccanica,
attraversata da un
lieve tremito che la fece tintinnare contro il manico.
«Non
riuscivo più a pensare,» esalò con un
filo di voce.
Il
senso di asfissia si faceva sempre più intenso e dovette
lottare per
trarre i respiri successivi, mentre sentiva il cuore che iniziava a
battere in doppio tempo. Ebbe l'improvvisa percezione di ogni singola
scheggia infissa nel petto che sembrava lottare per farsi strada
attraverso le sue carni.
«Non
avrei mai voluto obbligarla a... credevo che ci sarebbe voluto meno
per...» adesso gli sembrava che i suoi pensieri avessero
preso a
spezzarsi a metà e a ricongiungersi tra loro senza un ordine
logico.
«Quando ho tolto il...» tentò di nuovo,
ma gli si bloccò il fiato
in gola.
Non
riuscva più a parlare e il suo intero corpo sembrava
compresso in
una morsa metallica, come quando stava annegando nel sogno, o
nell'allucinazione, o in quel limbo a un passo dalla morte
che–
Si
coprì di scatto la bocca con la mano, obbligandosi a
respirare dal
naso e cercando di frenare la forte nausea e i brividi che
lo squassavano da capo a piedi. Si voltò di lato,
chinato in
avanti, e fece un rapido cenno di diniego in risposta allo sguardo
ora colmo di apprensione e inquietudine di Pepper, che era
già
scattata in piedi bloccandosi poi sul posto, un plmo puntato sul tavolo.
Non
riuscì a evitare di stringere convulsamente il reattore,
come se
così potesse impedirgli di lasciare il suo posto. Trasse
subito
conforto dal ronzio sommesso che si propagava lungo il braccio
meccanico e chiuse l'occhio, domando i capogiri.
«Tony...?»
«Sto
bene.»
La sua voce trapelò ovattata dal suo palmo,
poco convincente
e innaturalmente acuta. Allentò
appena la presa sul reattore, ma il suo cuore continuava a
sbatacchiare contro le costole come un uccellino impazzito che tenti
di uscire da una gabbia troppo piccola.
«Non...»
deglutì a fatica. «Non pensavo che parlarne mi
trasformasse in un
adolescente con gli ormoni in subbuglio,» riuscì
ad articolare con
ironia forzata dopo un altro paio di respiri profondi, non riuscendo
a scacciare del tutto la persistente sensazione dell'acqua salata che
gli riempiva a poco a poco i polmoni.
Lei
lo osservò per qualche secondo, valutando le sue condizioni
con aria
guardinga, rimettendosi a sedere con lentezza.
«Credo
che questa reazione sia un bene,» giudicò infine
con fin troppa
calma, ma le occhiate che continuava a scoccargli lasciavano
trapelare chiaramente lo spavento che le aveva provocato.
Tony
annuì scosso, capendo quello che intendeva: sarebbe stato
molto
peggio parlarne come se fosse stata una cosa da nulla.
Un'intensa
fitta al moncherino del braccio lo colpì senza preavviso e
represse
un'imprecazione, che comunque non sfuggì a Pepper. Anche la
gamba
gli stava dolendo in modo sempre più
intollerabile. Lo stress gli
scatenava sempre quelle crisi: sapeva che tra poco la situazione
sarebbe degenerata, e non era in grado di gestire contemporaneamente
la sua psiche e
il suo corpo imbizzarriti.
Emise un sospiro
rassegnato nel tirar fuori dalla tasca il tubetto di antidolorifici,
che aprì sotto al tavolo per celarlo alla vista di Pepper;
lo
schiocco del tappo che si apriva risuonò comunque in modo
inequivocabile. Si affrettò a cacciarsi in bocca la pasticca
e a
mandarla giù con un sorso di caffè, incrociando
fugacemente lo
sguardo attento di Pepper nel processo.
«Sono
antidolorifici, non psicofarmaci,» ci tenne a chiarificare,
riponendo il tubetto e sentendo il dolore che scemava all'istante e
prematuramente per
l'effetto placebo.
"Magari
mi servirebbero," si trovò a pensare, poco divertito.
Lei
scosse appena la testa, come a significare che non era una
precisazione necessaria. Tony
riprese una postura composta, ignorando il gelo innaturale che ancora
sentiva sulla pelle, il lieve senso di vertigine e il fastidioso
retrogusto di bile in bocca che neanche il caffè riusciva a
dissipare.
Rimasero in
silenzio per quella che a lui parve un'eternità, anche se
probabilmente fu meno di un minuto.
«Devo
riuscire a parlarne,» mormorò poi frustrato,
fissando la superficie
lucida del tavolino.
Intravide
il proprio riflesso sfigurato e strinse il pugno metallico.
«Non
deve forzarsi adesso, abbiamo...»
«Voglio
riuscirci,» s'incaponì con voce ancora turbata.
Puntò l'indice
sul tavolo contro la sua immagine distorta, come sfidandosi a fissare
quel concetto:
«Sono sopravvissuto a una bomba, ai terroristi, a un
reattore nel petto, all'incidente e a due operazioni; fare una
chiacchierata sul mio... sul
mio suicidio,»
si obbligò a
scandire quasi in un singulto, «non sarà peggio di
aver vissuto
tutto ciò, e non ho intenzione di tirarmi indietro solo
perché mi
ritrovo col subconscio di un tredicenne confuso,» concluse
con
intensità crescente.
Annaspò
per un attimo, a corto di fiato.
«E
voglio parlarne con lei,» asserì infine, rialzando
lo sguardo.
Vide
con chiarezza lo stupore che si disegnò sul volto della
donna a
quelle parole, come se non si aspettasse tutta quella veemenza da
parte sua. In verità non se l'aspettava neanche lui, ma
iniziava a
provare una viva avversione per la sua incapacità di
controllare le
proprie debolezze. Rimettersi in piedi e "ripararsi" voleva
dire affrontare anche quelle. Non si sarebbe fatto sviare di nuovo
dalla sua rotta, non ora che l'aveva finalmente ritrovata e che si
sentiva di nuovo al timone, invece che alla deriva e in
balìa delle
correnti.
Pepper
rimase in silenzio e si poggiò allo schienale, scrutandolo.
«La
sua testardaggine non è cambiata,»
osservò infine in tono neutro,
ma i suoi occhi gli sembrarono meno freddi, come se constatare quel
fatto la rassicurasse.
«Non
posso cambiare del tutto, altrimenti non potrei più
chiamarmi Tony
Stark. Poi sarebbe un casino dal punto di vista legale e ho
già
abbastanza problemi in quel settore.»
Alzò le
spalle con ovvietà e
riprese un tono spigliato, sollevato nel vedere l'espressione
più
conciliante della donna.
«Quindi
sta davvero cercando di cambiare.»
Tony
rifletté brevemente su quella che, più che una
domanda, sembrava una
constatazione speranzosa. Incrociò le braccia sul petto
coprendo il
reattore, quasi a farsi da scudo contro tutto ciò che poteva
ferirlo
ancora.
«Prima... prima
ero furioso. Avrei voluto distruggere tutto, anche me stesso.
Ovviamente non era la soluzione giusta, ma non ci voleva un genio
come me a capirlo,» aggiunse in un blando tentativo di
alleggerire i
toni.
«Direi
di no,» commentò solamente Pepper con fare colmo
di sottintesi, al
che Tony sospirò appena, sentendosi di nuovo al banco dei
testimoni
mentre tentava di giustificarsi senza essere messo all'angolo.
Non
c'erano vie di fuga, stavolta.
«Adesso
sto cercando altri tipi di soluzione meno... irruenti.»
«E
crede che stia funzionando?»
«L'ha
detto anche lei che va meglio, no?»
Gli sfuggì un
sorrisetto, suo
malgrado soddisfatto nel notare di aver colto nel segno: lei in
apparenza rimase
assolutamente impassibile, ma fu tradita dalla luce più
morbida che
le illuminò gli occhi.
«Il
mondo non è disposto a cambiare per me,»
dichiarò infine.
«Il
che è estremamente scortese, considerando tutto
ciò che ho fatto
per lui. Ma non
ho molta scelta,» concluse poi, accigliandosi e rendendosi
conto di
aver appena mancato il nòcciolo della questione.
Gli vennero in mente i
discorsi di Bruce a quel proposito, colmi di biasimo e conditi da
metafore di ceneri e rinascite un po' troppo poetiche in bocca a un
tizio in grado di diventare un gigante verde radioattivo. Allora
affermare di
voler morire era stata più un'esternazione di impotenza
dettata
dall'alcol che un vero e proprio desiderio. Guardare indietro e
vedere quella versione di se stesso prostrata, furente e
assolutamente sorda a qualsiasi offerta d'aiuto lo riempiva di
vergogna.
Il suo stesso suicidio
era stato qualcosa di talmente impulsivo da farlo rabbrividire. Per
settimane aveva avuto il terrore di ripetere quel gesto in modo
inconsapevole, ripiombando nel blackout mentale che aveva
soppresso il suo raziocinio. Tutt'ora si svegliava spesso nel cuore
della notte convinto di essersi strappato il reattore nel sonno, con
le ultime parole di Yinsen che gli rimbombavano in testa, adirate e
colme di delusione.
E fino a qualche tempo
prima non sarebbe stato in grado di rispondere alle domande di Bruce.
All'epoca non si sentiva in grado di tornare ad essere se stesso,
figurarsi Iron Man o anche solo una versione migliore di ciò
che era
stato. Adesso era riuscito a
riprendere una presa salda su ciò in cui credeva ed era di
nuovo in
piedi, con tutti i suoi difetti e le sue imperfezioni che gli
ricordavano di non poter mollare neanche per un istante, se non
voleva cadere di nuovo. A quel punto non era del
tutto sicuro di poter cambiare del tutto se stesso, né di
volerlo:
sarebbe
stato come sostituire il suo guscio con un altro, senza preoccuparsi
di capire quali fossero le falle del precedente, né
volersene
davvero sbarazzare.
E lui detestava non
capire qualcosa, che fosse il motore di un'auto bizzosa o la sua
psiche in subbuglio.
Bevve un sorso di caffè,
a mascherare il volto teso per lo sforzo di venire a capo dei suoi
pensieri. Il calore della bevanda dissipò un poco il gelo
concentrato in un unico blocco compatto al centro del suo corpo.
Percepiva ancora un lieve tremito nelle mani, ma l'ondata di panico
che l'aveva avvolto poco prima sembrava essersi ritirata, anche se ne
avvertiva un imminente ritorno più burrascoso, come il
momento di
secca prima dello tsunami.
«In realtà non è
questo il punto. Non si tratta di cambiare e basta, non... Me l'ha
detto anche Banner, non avrebbe senso...» s'interruppe,
confuso, e si lasciò cadere di peso col gomito puntato sul
tavolo a sorreggergli il mento, scuotendo appena la testa.
Sospirò, frustrato e incapace di esprimere chiaramente tutto
ciò che gli stava scorrendo in testa. Si passò
una mano sul viso quasi ciò potesse
ripristinare un'espressione neutra e resettare anche le sue sinapsi
al momento scoordinate. Pepper non si intromise nel discorso e si
limitò a rimanere in silenzio, scrutandolo attenta.
Capì che gli stava
lasciando tempo. Tempo per riordinare i pensieri, per parlare, per
spiegarsi, per tirar fuori tutto quello che aveva compresso e tenuto
a bada per mesi.
Da quanto aspettava quel
momento? Da quanto lo aspettava lei?
Si sentì in dovere di
sfruttarlo al meglio: il minimo che potesse fare era essere sincero,
in tutto e per tutto. Gli balenò davanti l'immagine del
reticolo di
palladio che si dipanava sul suo petto e il suo volto
s'incupì.
"Quasi
tutto..."
Si rigirò nervosamente
la tazza tra le mani, guardando con aria assente il liquido che
sciabordava al suo interno in onde scure e concentriche.
«Quando stavo per
morire ho costruito Iron Man per salvarmi,»
esordì, lasciando
semplicemente fluire le parole che arrivavano alla sua bocca, come
poco prima coi Vendicatori. «Ha funzionato.»
Alzò le spalle per
chiudere l'argomento, percependo il vivo disagio da parte di Pepper
nell'affrontarlo.
«Adesso però...»
scosse la testa, sentendo nuovamente un vuoto al petto e presagendo
l'ondata di panico che si avvicinava pericolosamente.
Si maledisse per la
propria debolezza, ma non poté far altro che posare una mano
sul
reattore per ritrovare la calma, anche se notò come Pepper
si
accigliò a quel gesto. Si concentrò sulle lievi
vibrazioni che si
trasmettevano al suo palmo e contò fino a dieci –
si contava
sempre fino a dieci, no?
Sembrò funzionare,
perché l'ondata si ritrasse prima di abbattersi su di lui,
tornando
verso l'orizzonte. Schiuse le labbra e si sforzò di lasciar
trapelare le successive parole senza esitare.
«Sono stato io
a voler
morire,» esalò sfuggendo lo sguardo di Pepper.
«Stupidamente,»
aggiunse come se non fosse già abbastanza ovvio.
Non ebbe bisogno di
guardarla per vedere la delusione e il dolore riaccendersi nei suoi
occhi.
«Vorrei davvero spiegarle tutto, ma non lo capisco neanch'io.
Si... si è rotto qualcosa. E non capisco
come,» sbottò
frustrato, come sempre quando qualcosa gli sfuggiva.
Riuscì a scostare la
mano dal reattore, sebbene con sforzo, e si obbligò a
poggiare
entrambi i palmi sul tavolo.
«Adesso non posso
costruire un altro Iron Man.» Fece un
debole sorriso a schernire la sua stessa affermazione. «L'ho
già detto alla squadra,
prima: sono io Iron Man. Se non funziono, il resto
va a
rotoli.»
Fece una breve pausa,
umettandosi le labbra.
«Devo
ripartire dalle basi. Da... da qui.» Fece un gesto vago verso
se
stesso.
«Ho perso molto tempo e molte cose. E ne ho rotte
altrettante.»
Rialzò lo sguardo su
Pepper con involontaria intensità, costringendosi a non
distoglierlo,
e lei lo sostenne.
«Devo prima capire.
È come un progetto,» affermò d'impeto,
aggrottando le sopracciglia
con fare concentrato. «Puoi avere le idee più
geniali di questo
mondo, ma se non sai organizzarle e capire come renderle concrete
rimarranno per sempre solo idee. Non devo cambiare, devo solo...
ecco, devo riprogettarmi,»
stabilì trionfante, e
un guizzo vivace passò nell'iride
nocciola illuminando il suo volto. «Adesso so per certo che
almeno
le basi sono giuste, e non ho più intenzione di dubitarne. E
dopotutto sono un ingegnere, progettare cose è il mio
lavoro,»
concluse, dando voce a quell'intuizione improvvisa con un sorriso
esitante ma spontaneo.
Pepper abbassò lo
sguardo, come colpita da ciò che aveva detto, e
sperò solo che
fosse in modo positivo. Aveva semplicemente espresso ciò che
pensava, per quanto ingarbugliato, nonostante nel corso delle sue
notti insonni si fosse preparato discorsi molto più completi
ed
elaborati in previsione di quel momento. Non si pentiva di
ciò
che aveva detto.
«Non me l'aspettavo,»
commentò infine Pepper, rialzando gli occhi chiari.
Tony si accigliò,
circospetto.
«Lei è la seconda
persona che mi dice questa cosa, oggi. Capitan Fierezza l'ha battuta
sul tempo,» commentò con brio un po' forzato per
tastare il terreno.
«Cosa
non si aspettava?» aggiunse, non ottenendo
reazione da parte
sua.
«Tutto... questo. Il fatto
di riuscire finalmente a parlare come... come avremmo dovuto fare da
tempo,» si bloccò, forse non del tutto padrona di
ciò che stava
dicendo.
Aveva preso
involontariamente a gesticolare; Tony si trattenne dal sorridere nel
riconoscere quel segno di nervosismo per cui l'aveva presa in giro
innumerevoli volte in passato.
«E anche di vedere che
non sta facendo finta che... che "vada tutto bene come al
solito",»
aggiunse, citandolo.
Tony annuì appena,
mordendosi il labbro con lieve nervosismo nel ripensare a quanto si
era sentito scoraggiato quando aveva pronunciato quelle parole.
«E cosa si era
aspettata, allora?» le domandò poi, suo malgrado
incuriosito e allo
stesso tempo timoroso della risposta.
«Non lo so... una fiera
del sarcasmo, o qualcosa del genere,» rispose, quasi
distrattamente.
«Ammetto che
trattenermi è difficile, ma se le è mancato
così tanto rimedio
subito.»
Stavolta lasciò che il suo solito ghigno
sfacciato gli
emergesse sul volto e si sporse verso di lei inclinando la testa di
lato con fare
impertinente. Lei non rispose e chinò
il capo a fissare la tazza vuota, celando gli occhi dietro la
frangetta, ma Tony captò un accenno di sorriso sulle sue
labbra e si
sentì come se avesse conquistato per primo la vetta di una
qualche
montagna inaccessibile. Il suo entusiasmo scemò
un poco nel notare che Pepper non sembrava avere intenzione di
rialzare lo sguardo, e che aveva appena preso a tormentarsi le mani. Il
che non era mai un
buon segno.
«Questo è il punto in
cui lei dovrebbe dirmi cosa ne pensa di me, o cosa ha intenzione di
fare sapendo ciò che le ho appena detto,»
cercò di spronarla con
leggerezza, sentendosi in cuor suo di nuovo irrequieto per quel lungo
silenzio e lasciando quindi il freno della sua parlantina:
«Può dirmi qualuque
cosa, ormai me ne hanno dette di tutti i colori... ma sono contento
che abbia finito il suo caffè: non avrei sopportato che mi
macchiasse anche questa maglietta, soprattutto perché mi
sembrava
che piacesse molto anche a lei,» continuò in tono
forzatamente
vivace, accennando alla sua storica T-shirt dei Black Sabbath.
A quel punto lei rialzò
cautamente la testa e Tony realizzò con sconcerto che i suoi
occhi erano lucidi e sul punto di traboccare. Si sentì un
insensibile per
aver scherzato a quel modo su un episodio che, a pensarci bene, non
era stato bello né divertente, anche senza considerare le
docce di
caffè.
"Forse mi servono
davvero quelle lezioni di savoir-faire da K..." gli
balenò in testa.
«Pepper?» pronunciò
allarmato il suo nome come se potesse racchiudere ogni possibile
domanda, inclusa quella che non conosceva e che poteva fargli
ottenere una spiegazione a quel repentino cambio di atteggiamento.
«Sono un'ipocrita,»
proruppe lei, scuotendo appena la testa.
«Cos– perché mai?»
Tony si agitò sulla sedia, spiazzato.
«Perché l'ho accusata per tutto questo tempo di
non voler parlare, mentre io
facevo esattamente la stessa cosa. E l'ho rimproverata per la sua
sfiducia, quando invece...»
respirò a fondo, «...
adesso lei sta parlando di tutto e io
non riesco neanche a...» si interruppe, facendo un evidente
sforzo
per ricacciare indietro le lacrime.
Tony cercò in ogni modo
di non dare troppo a vedere il suo spaesamento per quell'improvviso
rovescio della situazione: avrebbe dovuto essere lui quello a
scusarsi e autoaccusarsi per... per tutto, in
effetti.
E adesso lei era sul
punto di piangere?
Lei, Virginia Pepper
Potts, era la sua donna di ferro, che non aveva bisogno di un'armatura
per
esserlo e che avrebbe sempre creduto assolutamente incrollabile e del
tutto immune al pianto, se non l'avesse vista in lacrime coi suoi
occhi al suo risveglio dall'incidente. Fu pervaso da un senso
d'angoscia crescente al pensiero che qualunque cosa la stesse
spingendo al suo limite, doveva avere una gravità almeno
pari
a
quell'episodio.
"Oddio, che cavolo
faccio, adesso?"
I suoi pensieri
tornarono repentinamente a qualche mese prima, quando avevano avuto
una discussione molto poco piacevole riguardo a psicologi e fiducia,
terminata con una brocca schiantata contro il muro. Non uno dei suoi
momenti più alti, in effetti, ma ringraziò i suoi
neuroni disorientati per aver ripescato provvidenzialmente l'episodio.
«Ero sincero quando le
dissi che poteva parlare con me,» si offrì
impacciato, senza
riuscire a nascondere un po' di rammarico per il fatto che all'epoca
non avesse voluto confidarsi.
Pepper non rispose, ma
il suo sguardo non lasciava spazio a fraintendimenti riguardo al
fatto che qualcosa la turbasse da tempo, nel profondo. In
realtà lui
ne aveva sempre avuto una vaga percezione, fin dall'incidente, ma
era stato talmente assorbito dai suoi problemi da estraniarsi da tutto
il
resto. Anche quando si era chiesto cosa pensasse o provasse Pepper, era
sempre in relazione al suo comportamento con lui.
"Dopotutto, sono
un egoista," si rammentò con amarezza.
«L'offerta vale
ancora,» insisté in tono più morbido, e
poteva leggere sul volto
di Pepper quanto volesse accettarla.
La donna si asciugò
rapidamente gli occhi, nonostante non una sola lacrima fosse sfuggita
alle sue ciglia, e giunse le mani di fronte a sé come
raccogliendo
le forze.
«Non è questo il
momento più adatto per parlarne,»
stabilì con fermezza.
«Il momento più adatto
sarebbe stato sei mesi fa, ma non sono la persona più adatta
a farle
la ramanzina per aver procrastinato,» la rimbeccò
Tony, e lei ebbe
un lieve sussulto, facendogli capire di aver colto nel segno.
La vide esitare e
barricarsi di nuovo dietro la sua compostezza, ma notò il
lieve
tremito del suo volto e seppe che quella facciata non avrebbe
resistito a lungo.
«Tony, ho premuto io
quel pulsante,» disse infine, tutto d'un fiato.
«Quale?»
Le
sopracciglia dell'uomo si aggrottarono appena mentre tentava di
raccapezzarsi.
«Quando era sul tetto,
con Stane.»
«Sì, me l'ha detto,»
replicò lui con lentezza, con un brutto presentimento.
«L'ho
premuto troppo tardi. Probabilmente non se lo ricorda, ma me l'ha
chiesto più volte e... e io ho esitato.»
Si interruppe, trattenendo le lacrime che le erano nuovamente salite
agli occhi. «E se non mi fossi trovata in pericolo... se solo
fossi
riuscita a scappare, lei non sarebbe dovuto intervenire e...»
s'interruppe di nuovo, a corto di fiato.
Tony si sentì
improvvisamente la bocca secca, capendo infine quello che gli stava
dicendo.
«No,»
riuscì a dire soltanto, alzando la mano come a frenare
quelle
affermazioni. «No, no,
Pep, non provare neanche a...»
Si prese la radice del naso
tra le dita, senza credere a ciò che stava sentendo.
Respirò a fondo,
sentendosi improvvisamente furioso con se stesso.
«È stata colpa mia,»
proruppe lei, e sentire la sua voce rotta fu peggio di qualunque
sofferenza fisica che avesse affrontato in quei mesi.
«No, Pepper,» ripeté con
veemenza. «Stavi agendo su mio ordine, ti
ho messa io
in quella situazione e non avevamo idea di chi fosse davvero
Stane,»
si adoperò per imporre tutta la fermezza possibile alle sue
parole,
vedendo che Pepper non ne sembrava assolutamente convinta. «E
ti ho
chiesto io di sovraccaricare il reattore: sapevo
quello che
sarebbe successo e...»
«Non potevi
saperlo,» proruppe lei,
facendolo ammutolire.
Non riuscì a trovare
una risposta adeguata, nella consapevolezza che, no, non aveva
minimamente immaginato le conseguenze della sua richiesta, ma si
odiò
ferocemente per averla costretta a compiere una decisione simile,
obbligandola a vivere con quell'immeritato senso di colpa.
«Se
non l'avessi premuto...»
Lui si riscosse,
contenendo a stento la rabbia ribollente verso se stesso.
«Sarei morto,» completò
con forza.
Si arrischiò a
sfiorarle il polso con la punta delle dita, celando a stento il suo
stupore quando lei si aggrappò alla sua mano quasi con foga.
Rimase
per qualche istante senza parole, sentendo la sua mano sottile
stringerlo con forza inaspettata.
«Finora mi hai salvato
la vita per ben tre volte. E non sto neanche a contare tutte quelle
in cui mi hai impedito di fare qualcosa di stupido prima di tutto
questo casino. Non hai nulla da rimproverarti.»
Pepper tacque un poco,
nel tentativo di ricomporsi.
«Per tutto questo tempo
ho avuto paura che tu mi chiedessi qualcosa al riguardo,»
riprese
poi, con voce umida di lacrime trattenute. «E allo stesso
tempo avrei voluto dirti tutto, ma non era... non era
mai il
momento giusto,» concluse con una traccia di rammarico.
«Anche
prima ti avrei risposto nello stesso modo. Io non ti ho mai
ritenuta responsabile di nulla. Il colpevole è solo
Stane,» la
rassicurò lui, senza riuscire a nascondere il rancore verso
il suo ex-socio,
sempre pronto a riemergere. «Semmai sono io ad averti messa
in
pericolo. Più volte,» aggiunse, abbassando lo
sguardo sul braccio
che le aveva ferito tempo prima senza volerlo, colpito come allora da
un bruciante rimorso.
Pepper continuò a
tenere lo sguardo puntato sulle loro mani, in silenzio, ma
tirò le
labbra in un'espressione poco convinta.
«Non
voglio che pensi queste cose.»
Tony parlò piano,
quasi cullandola
con quelle parole mentre le accarezzava appena le dita col pollice.
«Non riesco a non
pensarci,» confessò lei.
«Lo so.» Tony si
limitò a sorridere mestamente. «Ormai me ne
intendo
di pensieri
insensati.»
Le strinse appena la mano e fu contento di essere
riuscito a incurvare appena le sue labbra verso l'alto.
«E ha anche qualche
consiglio per ignorarli?» gli chiese con voce flebile,
riprendendo
le distanze almeno con le parole.
«Ascoltare gli altri è
un inizio,» mormorò lui, abbassando di nuovo lo
sguardo con
colpevolezza. «Quindi mi
ascolti quando le dico che non è
colpa sua.»
«Non può dirlo con
certezza, ha un'amnesia e...»
«Io
so
che non è colpa sua,» ribadì lui,
irremovibile. «Senza di lei... non
sarei qui,» aggiunse senza avere il coraggio di spiegare
davvero
tutto ciò che racchiudeva quell'affermazione.
Era stata la sua voce a
richiamarlo dalle viscere di una grotta buia, era grazie a lei che
aveva avuto un cuore di riserva a salvargli la vita, era seguendo la
sua eco che era riemerso dall'abisso delle proprie paure.
Continuò semplicemente
a stringerle la mano in una presa gentile, incapace di comunicarle
tutto ciò in altro modo. Lei non si ritrasse al contatto,
che
sembrava colmare il silenzio tra loro.
A quel punto allungò appena
l'altra mano, esitante, per poi posarla su quella meccanica di Tony
rimasta inerte lì accanto. Lui trasalì appena, e
nonostante non potesse percepirlo poté giurare di sentire le
sue
dita esili poggiarsi delicatamente sulle nocche fredde e metalliche.
Abbassò lo sguardo, tirando le labbra nel tentativo di
mantenere il
suo volto impassibile mentre veniva attraversato da una valanga di
emozioni contrastanti che rischiavano di straripare da un momento
all'altro.
Quella era la mano che
l'aveva ferita, che aveva distrutto così tante cose e legami
da
averne perso il conto. Aveva voluto vederla come un simbolo di
vittoria, ma era anche un memento di quanto fosse imperfetto. E lei
adesso stava accettando quell'imperfezione.
Aprì e chiuse la bocca
un paio di volte, ma ancora una volta non riuscì a trovare
parole che esprimessero
l'immenso calore che gli stava trasmettendo con quel contatto, anche se
dovette domare l'istinto di ritrarsi. Si
trovò a fissarla con
sguardo liquido e appannato, sperando solo che capisse quanto
significasse per lui quel semplice gesto, quel contatto nuovo che non
sapeva come gestire e che stava rischiando di sopraffarlo.
«So che non è colpa
sua, perché mi fido di lei,» mormorò
all'improvviso, stupendosi
della fermezza della sua voce, totalmente in contrasto col
caleidoscopio di pensieri che si agitava alla rinfusa nella sua mente.
«Mi sono sempre fidato,»
aggiunse, e stavolta il suo tono
era di scuse.
«Anch'io mi fidavo.
Vorrei poter fare lo stesso ora,» rispose lei distogliendo lo
sguardo, ma non si ritrasse e anzi, strinse con più forza le
sue
mani, entrambe.
Tony si aspettava un
commento simile, ma fu comunque un duro colpo. D'altronde, le aveva
mentito troppo a lungo per aspettarsi un perdono immediato. E in
realtà le stava ancora mentendo, si rammentò con
un fugace, doloroso pensiero
alla sua intossicazione.
«Tornerà a fidarsi
come prima. Glielo prometto,» si sforzò di
sfoggiare il suo solito
sogghigno spavaldo, ma era incrinato e si spense ben preso lasciando
posto a un'espressione mesta e incerta.
Pepper sorrise per lui,
un sorriso sottile ma sicuro di sé che lo scaldò
nel profondo. Si
era dimenticato delle fossette che si formavano sulle sue guance e di
come socchiudesse appena gli occhi in quel gesto così
naturale che
gli era mancato più di quanto si fosse reso conto.
«Non deve sempre fare
tutto da solo.»
«Da solo potrei anche
farcela,» ribatté lui con un pizzico di studiata
arroganza. «Ma in
due è più semplice,» ammise poi con la
sua solita aria furbetta.
Rimase brevemente in
silenzio con lo sguardo fisso sul tavolino, frastornato da
ciò che
stava succedendo e sconcertato dal fatto che, per una volta, a
confonderlo fossero tutte emozioni positive. Tornò a
guardarla e si
trovò ad affondare in quell'azzurro ravvivato da una traccia
del
calore che ricordava; lei ricambiò riflettendo il suo stesso
sguardo, quello di qualcuno che ha finalmente ritrovato qualcosa di
caro dopo tanto tempo. Nessuno dei due sembrava
intenzionato a rompere quell'esile vincolo tra le loro mani.
«Qualche tempo fa mi ha
detto che avevo chiesto "scusa" troppo tardi per essere
preso sul serio,» esordì lui dopo un po',
catturando di nuovo la
sua attenzione.
Era sicuro che
ricordasse in che occasione gliel'aveva detto, e una parte di
sé
sperava che ricordasse anche tutto ciò che le aveva detto
lui,
temendolo allo stesso tempo. Realizzò che poteva comunque
intuirlo
facilmente dal modo in cui la stava guardando: per lei non era mai
stato difficile intuire i suoi pensieri.
«Adesso sono fuori
tempo massimo. Perciò lascerò semplicemente
parlare i fatti. Vorrei
che fosse lei a decidere quando
e se le
avrò davvero
chiesto
scusa.»
Pepper schiuse appena le
labbra, presa in contropiede e in cerca di una replica adeguata, per
poi optare per un silenzio interrotto da un lieve cenno del capo, a
significare che accettava quell'idea.
«E quando vorrà, la
mia porta è sempre aperta,» aggiunse lui con lieve
titubanza, e lei
parve improvvisamente in difficoltà.
«Dovrà pur controllare i miei, uh...
progressi ogni tanto, no? Lo sa che sono un lavativo,» si
difese ironico, voltando appena la testa con fare nervoso, echiedendosi
se
si fosse spinto troppo oltre.
«Ogni tanto,» replicò
lei, con riserbo.
Tony si rabbuiò appena,
ma almeno non era un "no".
«Dica la verità,
almeno la villa le è mancata,» insinuò
poi per trarsi s'impaccio,
e seppe di aver fatto centro dal modo in cui lei abbassò
imbarazzata
gli occhi.
«Un
po',» ammise cautamente. «Vorrei solo lasciarle i
suoi spazi,»
aggiunse a mo' di spiegazione.
Tony rifletté
brevemente sulla cosa, poi le strinse appena la mano con quella sana,
come a
rafforzare ciò che stava per dire:
«I
miei spazi sono vuoti, e persino io non riesco a riempirli da solo. E
non ho nessuno se non lei.»
Fece la stessa, buffa faccia che
aveva
fatto molto tempo prima, quando le aveva detto per la prima volta
quelle esatte parole, con un brillio vivace negli occhi e un sorriso
sghembo. Come allora, Pepper
sentì accendersi quella che pareva una flebile fiammella nel
suo
petto, tiepida e rassicurante.
Si rendeva conto che in
realtà non avevano ancora risolto nulla: tutto
ciò che li opprimeva
si era semplicemente allontanato un po' dalle loro teste e continuava
a incombere minaccioso come una nube temporalesca, tenuta a bada solo
dalla volontà di entrambi di rimanere nell'occhio del
ciclone, in
quella tregua che erano riusciti a conquistarsi dopo un'attesa
così
lunga.
Adesso però avevano finalmente il tempo per lavorare insieme
e arrivare a
firmare una pace definitiva e duratura.
Ricambiò la stretta
delle sue mani con delicata fermezza.
Quello poteva essere il
primo passo.
____________________________________________________________________________________
Note Dell'Autrice:
Oh-oh-oh, guardate chi è arrivato in anticipo? Esatto, il fluff! (e pure l'aggiornamento, perché grazie ai graditissimi scioperi dei docenti ho avuto una pausa anticipata limortacciloro vepossino <3)
Ok, questo capitolo è un mattone dialogato, la fine sprizza melenso ovunque, l'ho riscritto trentasette volte e se non l'avessi pubblicato adesso avrei continuato a rimaneggiarlo peggiorandolo esponenzialmente.
Le uniche novità sono che 1) SI' sono arrivati i mirabolanti attacchi di panico di Tony, anche se in forma ancora piuttosto "blanda". Dopotutto non è passato per un portale alieno, ma ha comunque visto la morte in faccia e ho immaginato che questo avesse delle ripercussioni; 2) Finalmente scopriamo cosa ha tormentato Pepper per la bellezza di 37 capitoli. Vorrei solo precisare che si sente in colpa per tutta la situazione che si è venuta a creare al settore 16: l'aver premuto il pulsante è solo la punta dell'iceberg e ciò che la turba di più a livello conscio. 3) La solidarietà maschile va allegramente a cortigiane :D
Ringrazio immensamente _Atlas_, 50shadesofLOTS e Emyclarinet che hanno recensito lo scorso capitolo e Sherlock_Watson, lettrice storica di Phoenix che è tornata del tutto inaspettatamente e sta recuperando gli aggiornamenti *-* grazie del commento, è stata una sorpresa bellissima <3
Per il capitolo successivo me la prenderò con un po' più di calma, perché sto finendo quelli pronti e tutto sommato i prossimi 3 sono delle bombe a idrogeno per quantità di contenuti, quindi ve li lascerò digerire più a lungo.
Arrivata a questo punto mi sento di annunciare che, salvo modifiche drastiche, mancano esattamente 10 capitoli alla conclusione *stappa già lo spumante*, quindi posso pronosticare con relativa certezza che entro settembre, al più presto, o dicembre, al più tardi, a Phoenix verrà apposta la meritata parola "fine".
Detto ciò, mi eclisso sperando che il capitolo vi sia piaciuto e ringraziando chiunque passerà da queste parti, leggerà e deciderà di lasciare un commento, una recensione o uno sberleffo :P
Nasvidenje,
-Light-
P.S. @Atlas, ora sai cosa non volevo spoilerarti nell'ultima risposta riguardo ai giudizi e alla comprensione nei confronti di Tony, e sai anche che ti ho mentito sul fluff :P
P.P.S. Godetevi 'sta Under Pressure in sottofondo, come non me la sono goduta io ascoltandola quasi a loop durante la stesura. E la stesura è durata 4 mesi.
© Marvel
|
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Capitolo 39 *** Smoke and mirrors ***
38
Smoke
and mirrors
"Labyrinths
are rapidly moving
With
a pulse that I cannot predict
I
wanna breathe, I wanna see the sun
Come
out with me
I'm
lost, I'm lost, I'm lost"
[In
The Reign Of Flies – About Wayne]
1°
Agosto, Villa Stark
Il
caldo soffocante abbattutosi sulla costa californiana era mitigato
solo dalla brezza marina che a volte concedeva la grazia di
attraversare le stanze di Villa Stark.
Persino
Pepper aveva infine ceduto all'afa. Quel giorno, non avendo riunioni
alle Industries, aveva abbandonato i suoi completi formali ripiegando
su un vestito estivo e leggero a fitti fiorellini su fondo scuro,
senza per questo perdere un solo briciolo di professionalità
mentre
lavorava in salone, coi capelli ramati raccolti sulla nuca in un
ordinato chignon.
Tony
aveva optato per un approccio molto più disinibito, come
poté
constatare la donna quando lo vide sbucare dall'ascensore con addosso
unicamente un paio di boxer e una canotta, a piedi nudi e con un
ventilatore portatile sparato sul volto grondante. Lei
non si mostrò minimamente turbata dalla sua mancanza di
pudore:
l'aveva visto in tenute decisamente peggiori e in atteggiamenti molto
più sconvenienti, e in un certo senso la sua spigliatezza in
quel
senso era un fattore rassicurante. Notò comunque che aveva
celato la
giunzione tra protesi e gamba con una garza.
«Si
risparmi i commenti, signorina Potts, è
un'emergenza,» la anticipò,
con un gesto spossato della mano che impugnava il bastone da
passeggio.
«Si
è tagliato i capelli?» osservò invece
lei, notando che la sua
massa di folte ciocche castane era notevolmente diminuita rispetto a
qualche giorno prima, senza però alterare il solito ciuffo
ribelle
sulla fronte.
«Misure
drastiche contro il surriscaldamento,» rispose lui un po'
sconnesso,
tuffando poi la testa nel minibar alla disperata ricerca di qualcosa
di fresco. «E comunque era ora: ancora un paio di settimane e
mi
sarei potuto infiltrare a Woodstock nel '69,» aggiunse, in un
blando
tentativo d'ironia smorzato dall'insofferenza per quel caldo atroce
che non si curava di mascherare.
Era
stata una settimana torrida, con picchi di oltre quaranta gradi che
avevano fiaccato Pepper e soprattutto Tony, che quell'estate stava
dimostrando un'anomala avversione per il caldo, quando normalmente
era ben felice di arrostirsi al sole. Probabilmente avere del metallo
attaccato al corpo non aiutava la sua resistenza al calore. Aveva
risolto il problema chiudendosi a tempo indeterminato nel
laboratorio, godendosi l'aria condizionata che lei aborriva e finendo
per dormire quasi sempre sul divanetto là sotto, sostenendo
che facesse comunque più fresco che in camera sua. Pepper
aveva notato
che si sforzava comunque di riemergere a intervalli regolari almeno
quando lei era lì, forse per non darle l'impressione di
essere
ricaduto nei ritmi sonno-veglia deleteri di sei mesi prima.
Lei
di contro si imponeva di passare alla villa tre, al massimo quattro
volte a settimana, e solo per sbrigare il lavoro d'ufficio che poteva
richiedere l'attenzione diretta di Tony. L'uomo si era mostrato
dispiaciuto per la sua scelta, ma dopo averle offerto un paio di
volte di trasferirsi di nuovo da lui "per comodità",
incontrando un suo netto rifiuto, aveva desistito senza più
farne
parola. Si
era dimostrato insolitamente accomodante in quel mese, mantenendo le
dovute distanze da lei ma cercando la sua compagnia quando ne aveva
l'occasione, dando a volte spazio alla sua classica ironia
impertinente. Spesso, mentre lavorava in salotto, Tony appariva dal
nulla e sprofondava
nella sua poltrona a pochi metri da lei con gli auricolari nelle
orecchie. Poi apriva svariati ologrammi e prendeva a far ordine tra
le decine di cartelle virtuali dei suoi progetti, che da qualche
tempo avevano ricominciato a includere schemi e bozzetti per Iron
Man. Se ne stava lì in silenzio per una decina di minuti,
assorto
nelle sue elucubrazioni mentre spiluccava quantità deleterie
di snack
ipercalorici. Poi si alzava, le rivolgeva un sorrisetto un po'
esitante e se ne tornava in laboratorio con aria soddisfatta.
Pepper
aveva apprezzato quella sua sorprendente discretezza, capendo che in
realtà era lei
quella ad aver bisogno dei "propri spazi",
almeno per
il momento. Tony sembrava deciso a rispettare quella sua
necessità:
in ogni suo gesto coglieva una sorta di premura nei suoi confronti, e
spesso nel guardarla lasciava trapelare un'espressione meravigliata,
come se non riuscisse ancora a capacitarsi del tutto della sua
presenza lì. Lei
stessa faceva fatica a realizzare di essere tornata dopo una
così
lunga assenza. A volte si chiedeva se non avrebbe fatto meglio ad
andarsene di nuovo, poi si ricordava del momento in cui, solo pochi
attimi prima di vedere il suo mondo e Tony infrangersi dinanzi ai
suoi occhi, aveva deciso di restare. La sua prima
scelta era
sempre
stata quella, doveva
solo riuscire a conviverci. Così
era rimasta, e Tony in un certo senso stava cercando di fare lo
stesso, sforzandosi di tener fede ai suoi buoni propositi.
La
situazione che si era venuta a creare non era certo ottimale, e
lasciava spazio a molti momenti d'imbarazzo dettati da troppi sospesi,
ma la considerava un
miglioramento rispetto a quella logorante e tesa in cui si erano
trovati a navigare in precedenza. Soprattutto, e quella era un vera
boccata d'ossigeno, Tony non sembrava più costantemente
sull'orlo di
un collasso nervoso ed evitava di trascinarvi anche lei. La
sua riacquistata mobilità aveva fatto miracoli sul suo
umore. Saperlo così sereno era una piccola conquista anche
per lei,
nonostante non gli avesse ancora mai dimostrato in modo esplicito la
gioia che provava ogni volta che lo vedeva camminare, con inalterata
scioltezza e un cipiglio autoironico verso la sua buffa
andatura col bastone. Aveva ancora le sue fasi di abbattimento in cui
non spiccicava più di una decina di parole nel corso della
giornata,
irritato da qualche inconveniente tecnico o dalle sue stesse protesi,
ma erano più rare e meno intense, forse mitigate anche dal
fatto di
non essere sempre solo alla villa. E forse, al contrario, anche per
poter godere più spesso di un'autonoma solitudine che gli
era stata
impossibile in precedenza.
«Sto
veramente cominciando a invidiare i settant'anni di letargo tra i
ghiacci del nonnetto!» la sua voce esasperata si
levò dai meandri
del frigorifero, portandole un guizzo divertito sul volto.
Quando
si ritrovava a vivere quei momenti di assoluta normalità,
con le
battutine di Tony in sottofondo, i plichi di documenti accatastati
sul mobiletto accanto al divano su cui aveva lavorato per quasi dieci
anni, lo sfondo perenne del Pacifico alle spalle e il senso di
familiarità immutato che le trasmetteva la villa, si sentiva
davvero
a casa e riusciva a mettere da parte tutte le angosce e i timori che
la assillavano. Osservò Tony, che le dava le spalle poggiato
mollemente a uno dei sedili del piano-bar mentre sorseggiava con
sollievo quella che sembrava clorofilla ghiacciata, e si
trovò a
sorridere appena. Il
sorriso s'incrinò quando l'uomo si voltò verso di
lei, rivelando la
fredda luminescenza azzurrina in mezzo al suo petto.
Poi c'erano quei
singoli fotogrammi che infrangevano la sua serenità e la
catapultavano di nuovo di fronte a lui esanime, riverso per terra e
senza quel dannato reattore che...
Riabbassò
di colpo lo sguardo, interrompendo il flusso dei suoi pensieri. Colse
fuggevolmente la perplessità di Tony, che però
non si arrischiò a
indagare.
«Giuro
che ricostruisco l'armatura solo per emigrare in Antartide,»
disse
invece, con una mano a stringersi i capelli per scollarli dalla
fronte sudata.
«Il
governo ne sarà contento,» replicò
Pepper senza alcuna
inflessione particolare, gli occhi fissi su un contratto che non stava
realmente leggendo.
Tony
emise un verso di scherno, spalmandosi infine sul bancone di marmo
con un lamento sconsolato, il bicchiere gelato premuto sulla nuca e
il ventilatore puntato contro in cerca di refrigerio. Nel captare il
suo respiro affannato Pepper alzò lo sguardo, lievemente
accigliata.
«Signor
Stark, non fa così caldo,»
osservò, con tutto il tatto che
le riuscì.
«Parli
per sé. Se non temessi di turbarla, andrei in giro
nudo,» bofonchiò
lui.
«Eviti,
la prego,» sospirò lei. «È
sicuro di sentirsi bene?» chiese poi,
con un'impercettibile titubanza.
«In
generale, sto a pezzi e mi si stanno squagliando le protesi. Nello
specifico, ho mal di testa. Sarà l'insonnia,»
replicò lui
monocorde.
Pepper
decise di non indagare su quell'ultima affermazione. Aveva intuito
che avesse difficoltà a dormire nonostante lei stessa non
avesse più
pernottato alla villa: l'aveva sorpreso svariate volte ad assopirsi
nei momenti e nei luoghi più impensati, per poi destarsi di
scatto
da sogni chiaramente inquieti.
Si
trovò comunque ad apprezzare la sua insolita seppur stentata
sincerità. Sembrava aver preso molto a cuore il discorso
sulla
fiducia. Pepper era consapevole che anche il semplice atto di non
mentire a prescindere sul suo stato di salute era un enorme passo
avanti, visti i suoi standard. Ciò non serviva
però a dissipare
tutti gli altri dubbi e interrogativi che emergevano ogni volta che
lo guardava e che, immaginava, coincidevano almeno in parte con
quelli che assillavano lui. Per quelli ci sarebbe voluto ancora molto
del tempo che avevano entrambi tacitamente deciso di concedersi, ma
voleva credere che avessero imboccato la strada giusta, dovunque li
avrebbe portati.
Tony
si riscosse, strappandosi con chiara riluttanza dal bancone fresco;
tracannò
il resto del bicchiere, rischiando probabilmente una congestione, e
zoppicò poi verso l'ascensore
rivolgendole
un sorriso un po' fiacco:
«Tra
un paio d'ore arriva K. Gli dica di scendere nella "cella
frigorifera": non ho alcuna intenzione di schiodarmi da là
sotto finché non cala il sole,»
annunciò, con un ultimo gesto
eloquente al salone arroventato dalle vetrate.
***
Non
appena le porte si chiusero, Tony si accasciò contro la
parete di
fondo dell'ascensore con il ventilatore puntato in faccia, annaspando
nell'aria claustrofobica e pesante. La situazione gli
riportò alla
mente ricordi poco piacevoli e si assicurò con un vuoto allo
stomaco
che il reattore fosse ancora ben saldo al suo posto.
«JARVIS,
non hai qualche suggerimento per questo schifo?»
sbottò non
appena messo piede in laboratorio, liberandosi finalmente della
canotta fradicia e gettandola con ribrezzo sul divano, sentendo la
pelle madida di sudore.
«A
parte degli impacchi freddi o un bagno in mare, no, signore. E le
sconsiglio di abbassare ulteriormente l'aria condizionata, se non
vuole rischiare un colpo di freddo.»
Lui
sospirò, guardando con un senso di nausea la saldatrice sul
banco di
lavoro e inorridendo alla sola idea di avvicinarsi a qualcosa di
caldo. Per fortuna la temperatura glaciale del laboratorio iniziava a
mitigare l'impressione che il suo cervello stesse bollendo a fuoco
lento nella scatola cranica. Recuperò la borsa del ghiaccio
e se la
spalmò sul volto per accelerare il processo di
raffreddamento e
lenire l'emicrania.
Sprofondò nella sua sedia, imprecando a mezza voce
contro quell'ennesima seccatura. A
quanto pareva, l'intossicazione da palladio aveva sballato il suo
termostato naturale, convincendo il suo corpo di trovarsi nel Sahara
col sole a picco. Almeno, questa era la spiegazione che si era dato
negli ultimi giorni, quando il semplice fastidio per quell'ondata di
caldo improvvisa si era tramutato in un'insofferenza quasi patologica,
che gli faceva rimpiangere seriamente la sua scarpinata nel deserto
afghano.
Premette
alla cieca l'indice sull'ago del rilevatore di tossicità
poggiato
sul tavolo e scostò appena la borsa dall'occhio per
sbirciare il
risultato: 19%. Si
cacciò il dito in bocca per fermare il rivolo di sangue e
lasciò
vagare svogliato lo sguardo per il laboratorio, prima di rassegnarsi
a guardare la fonte dei suoi problemi: il reattore spiccava in mezzo
al suo petto attraversato da vene scure, ormai impossibili da
ignorare. Erano l'unico motivo per cui aveva evitato accuratamente la
spiaggia e la piscina, temendo di essere sorpreso a torso nudo da
Pepper. Dubitava che la scusa di un "tatuaggio all'avanguardia"
avrebbe retto quanto quella già traballante delle protesi
"non
ancora a tenuta stagna" con cui aveva giustificato la sua
riluttanza a nuotare nonostante il caldo.
Sospirò
ed ebbe l'improvvisa tentazione di rimettersi la maglietta,
così da
celare quella ragnatela venefica, ma così avrebbe rischiato
un colpo di calore.
Lanciò
di malagrazia la borsa del ghiaccio sul bancone, concentrandosi sul
nuovo progetto quasi ultimato e sbattendo con forza la porta in
faccia a quelle preoccupazioni moleste. Scacciò ogni
schermata
superflua dal banco di lavoro, poi selezionò da una playlist
un
brano a caso che sperò fosse abbastanza chiassoso, alzando
il volume
al massimo quando venne piacevolmente assordato da Innuendo.
Infine
impostò JARVIS in modalità silenziosa per evitare
commenti
non richiesti: aveva bisogno di qualcosa che gli anestetizzasse la
testa, e non era dell'umore giusto per sentirsi ricordare che non
c'erano alternative al palladio.
***
Pepper
rilesse dubbiosa l'intestazione del contratto e ricominciò a
scriverla da capo per la quinta volta. L'incerto ticchettio delle sue
dita sulla tastiera si arrestò nuovamente e si
ritrovò a fissare le
poche parole che aveva appena digitato con un piglio insoddisfatto.
Chiuse con un gesto secco il portatile, lasciando infine spaziare gli
occhi affaticati dallo schermo sul salone vuoto.
Si
sentiva tremendamente deconcentrata, e non era per i bassi smorzati di
una qualche canzone rock che provenivano dal piano di sotto. A quello
era ormai abituata; anzi, era rassicurante tornare a sentire la
musica molesta di Tony dopo il silenzio tombale che aveva regnato
alla villa nei mesi precedenti alla sua partenza. Non era neanche
colpa del caldo, che a dispetto delle sceneggiate del suo capo era
abbastanza sopportabile. Fissò la risma di scartoffie
accanto a lei
senza realmente vederle, mordicchiandosi sovrappensiero le labbra e
sapendo in cuor suo che per quel giorno non avrebbe più
concluso
nulla finché fosse rimasta alla villa. Avrebbe dovuto
radunare le
sue cose e spostarsi nel suo ufficio alle Industries: magari
là
avrebbe ritrovato la concentrazione, anche se a fatica. Rimase invece
sul divano, in una posizione leggermente più scomposta
rispetto ai
suoi standard di solito impeccabili. Si sentiva intorpidita per via
dell'afa e tuttavia inquieta, soprattutto quando il suo sguardo si
posava sulla cascata in cima alla rampa di scale che conduceva al
laboratorio.
Le
sue labbra si incresparono involontariamente e si costrinse ad
alzarsi per evitare di soffermarsi su ricordi ancora freschi e pronti
a riemergere. Salì sulla piattaforma rialzata un tempo
occupata dal
pianoforte, accostandosi al bancone al quale poco prima si era seduto
Tony, con l'intenzione di bere a sua volta qualcosa di fresco
–
doveva ammettere che anche lei iniziava ad accusare il caldo, e forse
avrebbe dovuto smorzare il suo astio per l'aria condizionata. L'enorme
bicchiere di aranciata aspra e gelida l'aiutò a scacciare la
calura,
ma non le sue riflessioni invadenti.
Come le era successo
regolarmente nel corso di quelle ultime settimane, nella sua testa
continuava a ripetersi in modo quasi ossessivo la discussione avuta
con Tony sull'Helicarrier. Lasciò che quel film si dipanasse
per la
centesima volta davanti ai suoi occhi e nelle sue orecchie, sapendo
ormai che era inutile tentare di ignorarlo o spegnerlo: sarebbe solo
tornato più tardi, più vivido e invadente, come a
ricordarle che
ignorare i problemi era sbagliato. Le
sue mani si contrassero appena attorno al bicchiere freddo e
appannato dalla condensa.
Era
sempre stata convinta di conoscere Tony meglio di chiunque altro,
inclusi i numerosi atteggiamenti indecifrabili a un occhio meno
allenato del suo, ma si era necessariamente dovuta ricredere. Quel
suo lato che aveva avuto modo di scoprire nei mesi precedenti la
destabilizzava più di quanto volesse e potesse ammettere.
Era come
se fosse infine riuscita a scorgere la ragnatela di crepe che solcava
la sua facciata apparentemente impenetrabile, rafforzata in passato
anche dalla corazza artificiale che si era costruito. Quando poi in
un sol colpo gli erano venute a mancare tutte le difese che aveva
eretto nel corso degli anni, era stato chiaro come lui non fosse
stato pronto ad abbandonarle, così come lei a vederle
crollare. Era
cosciente del fatto che Tony si fosse sempre fidato a tal punto di
lei da abbassare di tanto in tanto quelle protezioni, forse persino
in modo inconsapevole; ma era anche certa che non avrebbe mai voluto
che lei vedesse così apertamente quella
fragilità. Era altrettanto sicura che quel senso di profonda
umiliazione che si trascinava
dietro dal giorno dell'incidente fosse solo una delle tante cause che
gli avevano avvelenato la mente inducendolo a compiere un gesto
così
sconsiderato come il suicidio.
Avvertì
un fremito d'inquietudine al solo ricordo e strinse con
più
forza il bicchiere ora vuoto.
Eppure
era comunque riuscito a rialzarsi, e stavolta non aveva avuto bisogno
di lei. L'aveva cercata di sua spontanea iniziativa in modo quasi
improvvisato, non perché non avesse altra scelta. Tutto
ciò che le
aveva detto non sembrava far parte di un discorso preparato, anzi:
forse per una volta era stato davvero Tony a parlare, non la sua
maschera. Ciò la confortava, soprattutto nel sapere che
non la riteneva responsabile per l'incidente, anche se lo spettro del
senso di colpa continuava a pungolarla con disturbante insistenza e a
farle notare che, nonostante Tony fosse profondamente convinto di
ciò
che diceva, non poteva esserne del tutto certo finché non
avesse
ricordato i fatti di quel giorno ormai lontano.
La
sua sincerità era l'unico motivo che l'aveva spinta a non
rifiutare
la sua richiesta di chiarimenti e a non chiudere definitivamente una
porta che forse non avrebbe mai neanche dovuto aprire; era
anche
l'unica certezza a cui continuava ad aggrapparsi ogni volta che
veniva assalita da dubbi e immagini che minacciavano di farla
desistere dalle sue decisioni.
Ripensare
a ciò che le aveva detto nel corso della loro surreale
chiacchierata
e a come si erano rapportati era un altro modo per vincere quei
dubbi. O per dare il via libera ad altri, meno tetri ma altrettanto
confusi, che la riportavano inevitabilmente a quella notte di molti
mesi prima, a quel suo sguardo sofferente, a quel "sei
bellissima" inaspettato, del tutto fuori luogo, ma indubbiamente
sentito che le aveva rivolto. Soffermandosi sul modo in cui Tony
l'aveva guardata mentre parlavano sull'Helicarrier, quelle poche volte
in cui era
riuscito a farlo senza vacillare, le era parso di percepire l'eco di
quelle parole, assieme a quella di molte altre che erano rimaste
inespresse, ma che erano trapelate inevitabilmente dal suo sguardo.
Non sembrava più alla disperata ricerca di un appiglio a cui
ancorarsi mentre annaspava per non andare alla deriva; non era
neanche quello sguardo cupo che sembrava inghiottire ogni colore dai
suoi occhi. In quel momento aveva visto in lui solo una nuova
determinazione, come se adesso sapesse perfettamente cosa stesse
cercando e dove trovarlo, anche se si avvertiva quanto fosse
dispiaciuto per tutto ciò che aveva fatto a lei e a se
stesso.
Ma Tony
era di nuovo lì,
in quell'iride vivace di un caldo color
nocciola
che, pur priva della sua gemella, era tornata ad ammorbidire le ombre
aguzze che solcavano il suo volto provato. Solo nel ritrovare quella
tonalità così familiare Pepper si era resa conto
di quanto le fosse
mancata e di quanto avesse bisogno di continuare a vederla e di
vederlo stare bene. E anche se lui continuava a sfuggire il suo
sguardo, era finalmente riuscita a scorgere una discreta ma sincera
richiesta da parte sua, invece del deciso rifiuto che le aveva
riservato nei mesi precedenti. Era riuscito ad aprirsi un poco, nel
suo modo indiretto e in un certo senso impacciato, pieno di occhiate
significative e sottile ironia che lasciava intendere tutto
ciò che
non riusciva o non voleva dire esplicitamente.
I
suoi occhi si posarono sulle scale che conducevano al laboratorio.
A
volte avrebbe solo voluto scenderle, abbracciarlo e fargli capire che
non era l'unico a voler riallacciare quei legami spezzati, costruendone
forse di nuovi, ma si
trovava puntualmente paralizzata in cima alla rampa, col cuore che
prendeva a batterle più profondamente e con sforzo, quasi
volesse
implodere non appena avesse osato scendere il primo gradino.
Lì
sotto si annidava ancora una buona parte di tutte le sue paure, e Tony
ne incarnava suo malgrado il resto. Lui aveva captato quel suo blocco,
che forse aveva dovuto superare
prima di lei: quando voleva dirle qualcosa era lui a
salire, e le aveva detto con la sua solita nonchalance
di
chiamarlo quando aveva bisogno delle sue firme, spacciandolo per un
gesto da gentiluomo per risparmiarle le scale. Non aveva aggiunto
altro, ma Pepper aveva notato come avesse puntato lo sguardo appena
sotto i suoi occhi mentre parlava e di come si fosse trattenuto a
più
riprese dal posare una mano sul reattore. Quel
suo tic nervoso era sicuramente disturbante, ma era anche una chiara
esternazione di quanto lui stesso fosse tormentato dal pensiero di
essersi quasi ucciso, anche se per fortuna non aveva avuto altri
attacchi d'ansia. Non avevano più parlato esplicitamente di
quell'argomento,
ma sembrava che quel silenzio assenso fosse la cosa migliore per
entrambi, per ora.
Lei dubitava che sarebbe mai riuscita a
perdonargli del tutto quel gesto egoista e insensato, né a
comprenderlo appieno, ma sapeva che il suo rancore per lui derivava
soprattutto dall'immensa paura che aveva provato al pensiero di
perderlo. Si rendeva conto degli sforzi che Tony stava facendo per
rimettere in sesto la propria vita e per renderla di nuovo stabile. Il
fatto che avesse esternato di volerla di nuovo accanto a sé
a costo
di ammettere i propri errori e mostrarsi vulnerabile le aveva dato
un'idea di quanto lui ritenesse fondamentale includerla in quella
stabilità. E di quanto lei avesse ancora paura di farne
parte. Ma,
si rammentò ancora, era tornata per restare.
«Signorina
Potts, il signor Andrews è arrivato,»
annunciò JARVIS, facendola
trasalire appena.
Abbandonò
subito lo sgabello sentendosi più leggera, sia per quella
interruzione più che gradita, sia per non essersi sottratta
ai suoi
pensieri ed averli fronteggiati senza cedere di un passo nelle sue
convinzioni. S'inoltrò
nell'atrio per accogliere Kyle con passo deciso e la sua solita,
elegante compostezza, stemperata da un lieve sorriso nel momento in
cui vide l'avvocato fare il suo ingresso alla villa. Il
volto del ragazzo si aprì in un'espressione di pura sorpresa
nel
riconoscerla.
«Virginia!»
esclamò, sospingendosi con brio verso di lei.
Pepper
si chinò per stringerlo in un breve abbraccio, che fu
energicamente
ricambiato. Kyle era rimasto gioviale come lo ricordava, col volto
costantemente rallegrato da un accenno di sorriso un po' furbetto e
gli occhi verdi e vivaci incorniciati dalla montatura scura degli
occhiali.
«Non
pensavo di trovarti qui,» osservò lui, con la
consueta schiettezza.
Pepper
si accigliò appena, ma non si lasciò turbare
più di tanto:
«To–...»
esitò per poi correggersi, «Il signor Stark non ti
ha detto nulla?»
chiese candidamente, pensando poi tra sé che la cosa non era
poi
così strana.
«Non
una parola.» Kyle alzò appena le spalle, ignorando
con tatto il suo
tentennamento. «Insolito, da parte sua. È così
riservato...»
commentò, alleggerendo il discorso.
«Il
signor Stark sa essere molto riservato... a modo
suo e per le
questioni sbagliate,» ribatté Pepper con un lieve
sospiro,
facendogli nel frattempo strada in salone. «Ti offro
qualcosa?»
aggiunse, prima di scivolare in argomenti spiacevoli.
«No,
grazie Virginia. Vado direttamente dal disastro ambulante per capire
cosa vuole.»
«Ti
ha convocato lui?»
Pepper rimase di sasso, allarmata da
quell'insolita volontà da parte di Tony di tuffarsi in
discussioni
legali.
«Mi
sto preparando mentalmente da stamattina,» si
limitò a rispondere
lui, condividendo il suo fatalismo e scuotendo appena la testa.
«Ti
avverto in
caso di un codice rosso, ma non credo sia il caso di
preoccuparsi,»
aggiunse, rivolgendole un sorriso incoraggiante.
«Lo
spero,» quella considerazione le sfuggì.
Incrociò
poi le braccia con fare nervoso, contraendo involontariamente le dita
in una stretta più rigida del normale. Sapeva che la sua
improvvisa
tensione non era sfuggita allo sguardo acuto di Kyle, che infatti
ruppe di nuovo il silenzio:
«Tu
come stai?» chiese, in tono cordiale ma sinceramente
interessato,
oltre che colmo di molti sottintesi e domande secondarie che non
erano difficili da intuire.
Lei
esitò, prendendo in considerazione l'idea di mentire, ma si
rimproverò subito per quel pensiero, e si chiese
perché ultimamente
il suo primo istinto fosse sempre quello. Il fatto di non riuscire a
darsi una chiara risposta la rese solo più inquieta. Si
affrettò a
chiamare l'ascensore per mascherare la propria confusione.
«È
piacevole essere di nuovo qui,» cedette infine senza
incrociare il
suo sguardo, quasi precipitosamente.
Captò
di sottecchi il sorriso che si aprì sul volto del ragazzo,
come se
quell'affermazione gli avesse appena rallegrato in modo definitivo la
giornata.
«Ma
è... difficile. Più di quanto
lo fosse prima, in realtà,»
confessò poi a mezza voce, e si sentì un po' in
colpa nel
pronunciare quelle parole, sapendo che avrebbero demolito il suo
entusiasmo.
L'ascensore
arrivò con un trillo, segnando la fine della discussione.
Prima di
salire, Kyle le rivolse ancora un'occhiata, senza aver perso un
briciolo del suo buonumore:
«Te
lo dico da esperto del settore: le cose difficili alla fine ripagano
sempre più di quelle facili,» asserì
convinto, per poi alzare le
spalle con ovvietà ed entrare nell'ascensore. «Ma
questo lo sai già,
altrimenti non saresti qui. No?» aggiunse, facendole
l'occhiolino e
lasciandola di stucco.
Lei
non poté arginare il rossore che le imporporò le
guance, e portò
una mano alle labbra per celare il sorriso imbarazzato che avrebbe
confermato quelle parole.
***
Tony
stava studiando con aria decisamente insoddisfatta il progetto per
nuovi propulsori della Mark IV che fluttuava davanti a lui, battendo
la punta del piede a ritmo con Born To Be Wild,
quando la spia
dell'ascensore in arrivo si accese su un monitor, distogliendolo dai
suoi calcoli. Si gettò uno sguardo alle spalle e
adocchiò Kyle che
faceva il suo ingresso nel laboratorio, quindi afferrò la
schermata
olografica e la cestinò in toto senza troppi rimpianti,
abbassando
poi la musica a un tenue sottofondo.
«Ehi,
K!» lo salutò, alzandosi con pesantezza dalla
sedia e sventolando
l'orlo della canotta viola dei Lakers per farsi
aria.
Si
era rivestito quel tanto che bastava per celare il reticolo bluastro
sul suo petto e i punti di giunzione delle protesi, ma anche la
leggera e atipica tenuta da basket metteva a dura prova la sua
resistenza al calore. Kyle ricambiò con un rigido cenno
della mano e
un sorrisetto stentato, evidentemente sotto shock per la temperatura
glaciale della stanza. Tony decise di poter alzare il termostato di un
paio di
gradi per evitargli l'ipotermia, e si accostò nel frattempo
al banco
di lavoro iniziando a liberarlo dalla miriade di attrezzi, prototipi
e appunti che lo occupavano.
«Forse
devo installare un turbo a quel tuo trabiccolo. Non è da te
farsi
aspettare,» lo prese in giro, prima che potesse porre domande
scomode sul microclima artico che regnava nel laboratorio.
«Mi
stavo improvvisando consulente di coppia,» ribatté
con prontezza
lui.
Tony
lo fissò perplesso per un istante, poi capì
l'allusione e sbuffò
seccamente. Scansò da parte un cumulo di scarti metallici
con il
bastone in un gesto irritato, facendone cadere alcuni per terra.
«Tu
e il Doc dovete piantarla di complottare alle nostre... alle mie
spalle,» si corresse in fretta.
«Poi ci ringrazierai,» cinguettò Kyle.
«K,
oggi ero partito con le migliori intenzioni, ma ti giuro...»
sollevò
eloquentemente un paio di pinze dall'aria letale, facendo il gesto di
lanciargliele contro.
«Dài,
non agitarti: ti fa male al cuore,» lo interruppe lui con
vivacità,
avvicinandosi a lui del tutto incurante della sua minaccia.
Tony
abbassò l'arma improvvisata, preso in contropiede da
quell'estrema
leggerezza. Scosse appena la testa, cedendo a un sorrisetto; si
convinse infine ad accettare l'ironia dell'amico invece di prenderla
dal verso sbagliato.
«Non
rubare il lavoro al Doc, lo sai che è permaloso,»
commentò a mezza
voce, dandosi una leggera pacca sul reattore a rimarcare il fatto che
il suo cuore stava benissimo.
Si
appoggiò mollemente al tavolo e incrociò le
braccia, facendo per
cambiare discorso, ma Kyle lo anticipò:
«Non
credo che Ian abbia molto da fare, ultimamente. Ti trovo in
forma.»
Stavolta
Tony sfoggiò un sogghigno appagato. Ora che ci pensava,
quando si
erano incontrati per il processo era ancora debilitato dalla sua gita
in spiaggia e impossibilitato a camminare. Per lui doveva essere una
sorpresa vederlo muoversi così facilmente, anche se in
realtà si
sentiva ancora molto impacciato. Era memore delle parole che Kyle gli
aveva rivolto durante la riabilitazione, e sapeva che anche ora era
sicuramente felice per lui. Sentì una bolla d'orgoglio
gonfiarsi nel
proprio petto: era passato molto tempo dall'ultima volta in cui aveva
suscitato l'ammirazione di qualcuno. Voleva solo bearsi di quel
senso di pienezza che lo pervadeva nel realizzare di essere di nuovo
in grado di riuscirci.
«Diciamo
che sono in una fase per lo più positiva,» disse,
roteando il
bastone da passeggio con una mossa teatrale. «C'è
qualche
problemuccio qua e là, ma nulla di irrisolvibile,»
aggiunse, con una
noncuranza un po' forzata.
«Che
intendi?»
«Beh,
le protesi sono in stallo: al momento non posso migliorarle
più di
così.» Alzò le spalle, a
significare
che non se ne faceva un
cruccio, per poi aprirsi in un sorrisetto enigmatico. «Per
questo mi
sono dedicato a te.»
Lo indicò a sorpresa con il
bastone e vide i
suoi occhi sgranarsi appena, meravigliati. Ridacchiò
nel vedere la sua reazione e si staccò dal banco per sedersi
sulla
sua sedia e scivolare accanto a lui, aprendo a colpo sicuro un paio
di schermate a mezz'aria.
«Che
c'è? Pensavi che ti avessi chiamato per discutere di noiosi
tafferugli legali?» lo prese in giro, vedendolo ancora senza
parole
mentre seguiva rapito ogni suo gesto.
«Mi
aspettavo che non fosse per quello,» rispose dopo un po',
mascherando la sua palese euforia e riuscendo a malapena a non
agitarsi sulla sua sedia.
«Ma
non ti aspettavi che fosse per questo,»
lo rimbeccò lui,
gongolando compiaciuto; Kyle non trovò di che ribattere e
abbassò
lo sguardo, puntandolo sulle proprie mani.
Tony
allargò una schermata cripticamente denominata "Progetto
Ph.01
X-K", su cui campeggiavano tre cartelle del tutto anonime e
oscurate; giunse le dita davanti a sé, prendendosi un
momento per
costruire un po' di sana suspense.
«Dunque,
ti ricordi il nostro "piano A", giusto?» esordì
Tony,
aprendo con un tocco la prima cartella e ingrandendo un'immagine.
«Il
reattore spinale,» annuì Kyle, con prontezza,
sfregandosi il naso.
«Allora
c'è qualcuno che mi ascolta!» Tony alzò
con finto stupore le
sopracciglia, per poi tornare a concentrarsi sul progetto sospeso
davanti a loro. «Comunque, sarei un grande fan del piano
A...»
incrociò le braccia, assumendo un'espressione critica.
«Ma...?»
lo spronò Kyle.
Tony
scrollò le spalle, indeciso su come formulare la sua
spiegazione
senza scoprirsi troppo. Il suo sorriso si affievolì appena.
«Ma
comporta dei rischi non indifferenti.»
Tamburellò
sul reattore con
fare assorto, senza neanche cercare di impedirsi quel gesto
rassicurante.
«Pensavo
che il rischio più grosso fosse un flop.»
«Il
palladio è tossico,» disse d'un fiato Tony,
impegnandosi al massimo
per mantenere lo sguardo puntato sull'ologramma. «Il reattore
verrà
impiantato nel tuo midollo spinale e non so che conseguenze potrebbe
avere a lungo termine,» spiegò il più
concisamente possibile e
cercando di non fornire alcun appiglio per eventuali sospetti.
Kyle
rimase in silenzio per qualche secondo, assorbendo l'informazione.
«Hai
riscontrato effetti collaterali?» chiese poi, circospetto.
«No,»
ribatté seccamente lui, messo in allarme dalla sua
perspicacia.
Diede
una schicchera distratta al modellino virtuale, quasi a scacciare
anche quei pensieri molesti.
«Se
bevo la mia clorofilla ogni giorno da bravo bambino, camperò
cent'anni. Ma io non ho micro-reattori arc nella
mia spina
dorsale.»
Si girò verso di lui sfoggiando
sicurezza, senza sapere
se la sua espressione fosse davvero impenetrabile.
«Hai
un reattore nel petto,» osservò l'altro con
ovvietà.
«È
diverso,» tagliò corto lui schioccando la lingua
con improvvisa
irritazione. «K, sto cercando di dirti che il piano A non
è
un'opzione sicura a meno che non riesca a trovare un'alternativa al
palladio. E voglio che tu ne sia cosciente,»
rimarcò, continuando a
fissarlo con insolita serietà e notevole impazienza di
chiudere la
questione.
Kyle
si limitò a un piccolo cenno d'assenso, chiaramente
perplesso dal
suo scatto inatteso, ma evitò con sensibilità di
insistere
ancora su
quel punto.
«So
che ci sono dei rischi. Sono diposto a correrne qualcuno,»
disse
soltanto, in tono definitivo.
Tony
fu tentato dal fargli notare che non aveva la più pallida
idea di
che razza di rischio fosse un'intossicazione da metallo pesante, ma
serrò le labbra per imporsi il silenzio e tornò a
maneggiare
l'ologramma.
«Il
piano B non è auspicabile, anche se ha più
possibilità di
successo,» riprese aprendo la seconda cartella, deciso a non
soffermarsi ulteriormente su quell'argomento spinoso.
Trascinò
il modello delle due protesi inferiori tra loro, sostituendolo a
quello del reattore spinale.
«Con
queste non avrei problemi,» commentò Kyle, anche
se sembrava
comprensibilmente poco entusiasta dall'idea di doversi amputare le
gambe per impiantare delle protesi.
Tony
tossicchiò, improvvisamente a disagio:
«Ti
ho mai parlato delle interferenze che vengono a crearsi tra
più
reattori arc?»
L'altro
sospirò, scoccandogli un'occhiata abbattuta.
«Illuminami,»
lo incitò con un'alzata di spalle.
«Oh,
non c'è molto da dire, in realtà. I flussi
elettromagnetici entrano
in conflitto, gli impulsi nervosi vanno in tilt e muoversi diventa...
complicato, senza qualche aiutino,»
sollevò il bastone da passeggio
a riprova di ciò che diceva, «Magari
hai fortuna e le interferenze saranno minime, come nel mio caso. In
caso contrario,
avresti buttato via due gambe ipoteticamente funzionanti per un nulla
di fatto.»
«In
realtà le mie gambe non sono...» iniziò
a correggerlo Kyle,
confuso.
«E
qui arriva il bello,» annunciò
Tony, di nuovo sorridente e
aprendo l'ultima cartella con una mossa teatrale.
Kyle
assottigliò gli occhi, scrutando con evidente
perplessità il nuovo
ologramma che roteava davanti a lui, probabilmente senza riuscire a
identificare di cosa si trattasse.
«È
un work-in-progress,»
puntualizzò subito Tony, ingrandendo
il modello di quello che sembrava una sorta di telaio di stecche
metalliche.
«Sono...
sostegni?» tentò Kyle, inclinando qua e
là la testa per osservare
il congegno da diverse angolazioni.
«Tutori,»
lo corresse lui, accigliandosi nel vedere l'espressione poco convinta
del ragazzo. «Risponderebbero
direttamente ai tuoi impulsi cerebrali, quindi non ci sarebbe neanche
bisogno di impiantarti qualcosa che riattivi i nervi delle tue gambe;
tanto per cambiare sono alimentati da energia arc e...»
«Ho
già provato a usare apparecchi simili,»
lo fermò Kyle, corrucciato «ma...»
«...
ma erano solo squallidi prototipi o ferrivecchi
obsoleti e
decisamente ingombranti, non certo delle meraviglie all'avanguardia
firmate Stark,» lo interruppe a sua volta lui, con un
sorrisetto
immodesto.
Kyle
tacque, ma la sua dubbiosità era palpabile. Tony
sospirò seccato,
perdendo a sua volta il suo entusiasmo.
«Ehi,
non sarò stato un modello di comportamento corretto negli
ultimi
mesi, ma non sono ancora diventato un incompetente nel mio campo.»
L'avvocato
scrollò le spalle e fece per ribattere, ancora accigliato,
ma Tony
lo zittì con un gesto perentorio della mano meccanica,
aprendo poi
un'altra schermata e trascinando una proiezione della nuova Mark
accanto ai tutori. Lo scetticismo del mondo intero verso le sue
invenzioni iniziava a snervarlo. A quel punto avrebbe anche potuto
fare un falò delle sue lauree al MIT e di tutte le
onorificenze,
premi e attestati ad honorem che aveva collezionato
in ogni
ambito scientifico da quando suo padre gli aveva messo un cacciavite e
un saldatore in mano. Prese
un grosso respiro per riprendere la calma, poi additò
l'armatura:
«Visto
che hai bisogno di garanzie: la tecnologia di questo
gioiellino è la stessa che intendo usare per quelli,»
indicò
i tutori, non riuscendo a evitare di suonare indispettito.
«La
Mark
III era ad oggi il più avanzato esempio di robotica mai
realizzato,
e stiamo parlando di un modello ormai obsoleto. Questa è la
Mark IV,
e continuerà ad essere la più sofisticata
meraviglia tecnologica
esistente,» sottolineò con fierezza.
«Stark,
non stavo mettendo in dubbio...» cominciò Kyle,
parando le mani
avanti nel rendersi conto di essersi posto in modo un po' troppo
prevenuto.
«Farò
finta che non lo stessi facendo,»
ribatté Tony, scoccandogli
un'occhiata eloquente. «Ora, se
prima di bocciare a priori la proposta vuoi dare ascolto
all'esperto...» rivolse un gesto verso se stesso
calcando
quelle parole con ironia, ma con un chiaro sottotono irritato.
Kyle
gli fece infine un cenno con la testa e lo invitò a
continuare,
abbozzando un mezzo sorriso di scuse, e Tony si assicurò che
non
volesse interromperlo ancora.
«Per
te i tutori sarebbero la scelta più ovvia. Tu al contrario
di me hai
tutti gli arti che ti servono; avrei dovuto pensarci prima, ma ero un
po' impegnato a... a fare stronzate,» si portò una
mano alla nuca
con fare impacciato, «e il mio giudizio era troppo offuscato
dai miei
problemi per pensare fuori dal mio
schema.» Scrollò le spalle. «Il tuo
è semplicemente uno schema
diverso; è bastato inquadrarlo per arrivare a un paio di
idee
brillanti. Questo progetto è fatto su misura per
te,» concluse
incrociando le braccia.
«Per
fortuna sei rinsavito,» commentò Kyle, adesso
fissando con più
interesse e meno pregiudizi il progetto proiettato dinanzi a loro.
Tony
rispose con un vago mugugnio d'assenso, per poi riportare il discorso
su un terreno più solido:
«Insomma,
con un po' di tempo e impegno potremmo riuscire a rimetterti in piedi
senza alcuna spiacevole operazione. E con stile! Pensavo a
un'estetica in stile Tron,
magari
non rosa fluo, se
non ti dispiace, e... »
«Sembra
troppo bello per essere vero,» ridacchiò Kyle,
interrompendo le sue
digressioni su design futuristici e stringendo incosciamente la
stoffa dei pantaloni sulle sue gambe esili. «Ma tutto questo
costerebbe milioni di dollari ed è un progetto a parte che
ti
prenderebbe molto tempo, non posso chiederti di...»
cominciò Kyle,
aggrottando le sopracciglia con fare preoccupato.
«Avvocato
Andrews, deve migliorare le sue arringhe;
così mi mette
in pensiero per la prossima udienza,» declamò
pomposamente Tony,
mettendolo a tacere.
L'avvocato
era diventato paonazzo, come sempre quando si agitava.
«K,
eravamo d'accordo dall'inizio e non sono tipo da rimangiarmi le
promesse... di solito,» aggiunse,
spostando lo sguardo di
lato con fare giocoso.
«Vedrò
di impegnarmi al massimo per tirarti fuori dai guai, allora,»
assicurò l'altro, stavolta sorridendo raggiante.
«C'è
un solo problema.»
Tony
si schiarì appena la gola e alzò l'indice
meccanico, prendendo a
guardare ostentatamente l'altro capo della stanza.
«Appunto.»
Kyle alzò gli occhi al cielo, col sorriso che già
sfumava.
«La
tecnologia di cui ti parlo non esiste... per ora.»
Kyle lo fissò basito e Tony parò le mani avanti a
mo' di scudo.
«Te
l'ho detto che è un work-in-progress,»
si giustificò. «Ci sto lavorando per la nuova
armatura. Finora
rispondeva ai miei movimenti quando la indossavo, ora voglio che
reagisca anche ai miei impulsi nervosi a distanza e sto lavorando su
un dispositivo prensile che...» iniziò a spiegare,
entusiasmandosi
involontariamente nel parlare, ma notando l'espressione implorante di
Kyle si obbligò a risparmiargli ulteriori digressioni
tecniche.
«Insomma, per ora il tuo è un progetto collaterale
a Iron Man e ho
una tabella di marcia piuttosto serrata da rispettare... ma non
appena ci sarà qualche progresso tangibile te lo
dirò.»
Kyle
si fece meditabondo e chinò il mento sul petto, scrutando di
sottecchi il modello dei tutori, quasi fosse timoroso di riporvi
troppe speranze.
«E
pensi davvero che sia possibile?» chiese esitante.
«Per
me tutto è possibile,» si
vantò Tony con un sogghigno
tronfio. «Aspetta e vedrai.»
***
23
Agosto, 11:30, Villa Stark
Il
modellino 3D della Mark IV ruotava lentamente su se stesso sotto lo
sguardo attento di Tony, impegnato a capire cosa non lo convincesse
di quell'ennesimo prototipo.
"La
placca frontale è orribile," concluse infine, zoomando sul
componente in questione per poi rimuoverlo dall'armatura.
Tornò
al computer, riprendendo a lavorare sulla progettazione della
corazza; tra un collaudo fallito e l'altro si era concesso qualche
breve pausa per rinnovare il design di Iron Man, un ottimo modo per
svagare il suo cervello sovraccarico. Lo
sviluppo della nuova Mark lo stava facendo impazzire. Principalmente
perché non riusciva ad accettare l'idea di cedere l'armatura
a terzi
e stava rimandando costantemente la progettazione del sistema per
comandarla a distanza; secondariamente perché smaniava dalla
voglia
di indossarla di nuovo e si era trovato più volte a un passo
dal
riassemblare la Mark II per farsi un voletto; infine perché
l'essere
legato a doppio filo alla tecnologia arc iniziava a diventare un
problema insormontabile, snervante e sempre più
preoccupante. Non
importava quale approccio tentasse di intraprendere: si ritrovava
puntualmente a sbattere la testa contro i reattori, i loro limiti e i
loro difetti. Si
era reso conto già da tempo di essere incappato in un vicolo
cieco:
non poteva usare l'armatura sfruttando il reattore cardiaco per via
del consumo di palladio, ma non poteva neanche dotarla di un reattore
indipendente a causa delle interferenze elettromagnetiche. La sua
scelta era ancora quella tra una rapida intossicazione e un infarto
fulminante,
se voleva tornare ad essere Iron Man. Non
era molto dissimile da un altro suicidio.
Si
staccò con stizza dallo schermo, turbato da quel pensiero e
incapace
di lasciarsi distrarre ulteriormente da dettagli futili come la
cromatura della corazza. Sorseggiò un po' di clorofilla e si
forzò
a svuotare l'ennesima borraccia con una smorfia schifata, per poi
scoccare uno sguardo poco convinto al banco di lavoro, dove stava
armeggiando con un dispositivo di ricezione per la nuova armatura
teleguidata. Il suo sguardo divenne astioso e non si
avvicinò.
Sapeva di poter completare il lavoro con una giornata di impegno
costante, ma non riusciva ad obbligarsi a iniziare e continuava ad
accampare scuse con Fury riguardo a problemi e difficoltà
tecniche
inesistenti. Non voleva consegnargli un giocattolino che chiunque
sarebbe stato in grado di guidare: voleva farlo lui col suo stesso
corpo, anche se a distanza.
Ma
non sapeva come. Finora i suoi tentativi di controllo remoto erano
caduti nel vuoto come i pezzi della sua armatura durante i test. Si
era anche arrischiato a coinvolgere il reattore cardiaco in un
paio di collaudi, ma il livello di palladio era aumentato
così
vertiginosamente da spaventarlo, prima di stabilizzarsi a un meno
preoccupante 21% dopo una settimana di clorofilla triplicata ed
estenuante esercizio fisico. Forse
era semplicemente troppo presto per quel tipo di tecnologia. Magari
avrebbe dovuto rendersene conto prima di fare
promesse a K...
Si
abbandonò contro lo schienale, facendo ruotare lentamente la
sedia
su se stessa mentre fissava il soffitto del laboratorio in cerca di
calma, concentrazione, pazienza, lampi di genio e qualunque altra
cosa potesse farlo uscire da quello stato di impasse
soffocante. Si posò una mano sulla fronte, cercando di
alleviare il
cerchio alla testa e allo stesso tempo verificare di non avere di
nuovo la febbre per l'idea che continuava a rimbalzargli in testa da
giorni come una pallina da ping pong fuori controllo. Chiuse
l'occhio, concedendo un minuto a quel pensiero assurdo per sloggiare
dalla sua mente, ma quello rimase piantato dov'era, continuando a
rimbalzare sul posto in un ritmo martellante. Scostò
la mano dalla fronte, dandosi infine per vinto.
"Ma
certo, aggiungiamo anche il mio cervello alla lista di cose che non
funzionano," sbuffò tra sé, al limite
dell'esasperazione.
Si
alzò di malavoglia, zoppicò fino all'ascensore e
salì al
pianterreno, guardandosi quindi attorno con fare circospetto: per una
volta fu contento che Pepper non fosse nei paraggi e sperò
che per
quel giorno rimanesse alle Industries. Attraversò l'atrio,
accostandosi poi al piccolo pensile in cui erano appese le chiavi
delle sue auto. Nell'aprirlo notò con disappunto il velo di
polvere
che vi si era depositato nel corso di quei mesi. Si riscosse e prese
a colpo sicuro la chiave della Ford Flathead rivelandone dietro
un'altra, che afferrò impedendosi di esitare ancora. Ripose
la
chiave dell'auto e si rigirò l'altra nella mano sana,
osservandone
la fattura spartana e un po' antiquata, in netto contrasto con quella
villa sontuosa e all'avanguardia.
Richiuse
il mobiletto e si diresse con passo claudicante ma deciso verso il
piccolo disimpegno seminascosto che occupava il fondo del salone, su
cui si apriva
un'unica porta. A differenza delle altre non era mai stata intaccata
dalle numerose ristrutturazioni della villa: era in legno bianco un
po' tarlato, con una maniglia d'ottone ormai scurita dal tempo e
screziata di verderame. Infilò con qualche
difficoltà la chiave
nella toppa, incontrando resistenza da parte della serratura indurita
dagli anni. Riuscì infine a far scattare le mandate con due
schiocchi rugginosi; la porta si schiuse appena da sola, ruotando sui
cardini allentati.
La
spinse con cautela e mise infine piede nell'ex-studio di suo padre,
inspirando l'odore di chiuso, carta e mobili vecchi che permeava
l'aria ferma. Cercò a tentoni l'interruttore, e una
tremolante
lampadina proiettò una luce giallognola nello stanzino,
talmente
pieno da disorientarlo per qualche istante. Il piccolo spazio era
riempito da una mezza dozzina di portadocumenti ricolmi di cartelle e
raccoglitori straripanti di progetti; una libreria occupava la parete
di fondo, stipata di libri su ogni argomento scientifico
immaginabile; davanti ad essa, tra un baule e un plastico per la Expo
del '74 poggiato al muro, era incastrata la massiccia scrivania di
rovere ingombra di schizzi e bloc-notes ammassati alla rinfusa,
assieme a qualche cianfrusaglia elettronica ormai obsoleta.
Tony
sospirò nell'aria stantia e accostò la porta alle
sue spalle: se
davvero c'erano altre informazioni sulla tecnologia arc, le avrebbe
trovate lì.
***
23
Agosto, 16:00, Villa Stark
L'ennesimo
fascicolo in triplice copia riguardante il Progetto Rebirth
volò
attraverso la stanza, atterrando a faccia in giù sulla pila
già
accumulata in un angolo; accanto si ergeva una piramide di fogli
appallottolati prossima al collasso.
In
sottofondo gracchiava il vecchio giradischi che aveva ripescato tra
quelle anticaglie, e nello stanzino si diffondevano le note morbide e
un po' smielate di una raccolta di Ben E. King trovata tra i vinili
di sua madre, un vano tentativo di placare i suoi nervi logorati da
quelle impreviste pulizie di primavera. Neanche Stand By Me
stava riuscendo nell'intento.
Tony,
a gambe incrociate per terra, accartocciò l'ennesimo
progetto
incompleto e lo lanciò con precisione sugli altri. Si
concesse un
sospiro stremato che terminò in un forte starnuto,
probabilmente il
trentesimo da quando si era immerso in quelle scartoffie impolverate.
Tirò su col naso, con l'occhio che lacrimava.
Fissò con fare
sconsolato la montagna di carta straccia davanti a lui e i pochi,
miseri fogli che aveva recuperato e che parevano avere qualcosa a che
fare con i reattori arc. Iniziava
seriamente a pentirsi di non aver dato una parvenza d'ordine alla
mole di scartoffie accumulate da suo padre nel corso degli anni. Del
resto, nel '91 era stato un po' troppo impegnato a far finta che
tutto ciò non esistesse per pensarci.
Afferrò
l'ultimo dossier un
po' ammuffito, sfogliandolo con occhio ormai allenato a cogliere
qualsiasi formula o schema riguardanti fusione a freddo, palladio o
campi elettromagnetici; pochi secondi dopo il dossier in questione
decollò dalle sue mani andando a far compagnia al resto
della carta
destinata al macero. O più probabilmente allo SHIELD: era
certo che
avrebbero fatto i salti di gioia alla scoperta di avere altri
documenti da digitalizzare.
Lanciò
un verso d'esasperazione e si sollevò a fatica da terra,
facendo leva su uno scaffale e scrollandosi il fondo
dei pantaloni impolverato. Aprì l'ultimo cassetto
dell'ultimo
schedario, in cui si annidava il successivo e ultimo carico di
documentazione da esaminare. Se da una parte era lieto di aver
concluso parte della sua ricerca, dall'altro era consapevole di non
aver trovato assolutamente nulla
d'illuminante. Più si
riduceva
il materiale a disposizione, più si assottigliavano le
possibilità
che in esso si celasse la risposta che cercava. Non era neanche del
tutto certo di cosa
stesse
cercando, in effetti, ma doveva esserci qualcosa
che gli era
sfuggito. Suo padre aveva inventato il reattore da solo, in un'epoca
in cui un aiuto come JARVIS e le tecnologie di cui disponeva lui non
erano neanche lontanamente
immaginabili: per quanto lo infastidisse ammetterlo, doveva
saperne per forza più di lui, no?
Si
sedette di nuovo per terra, barcollando sotto la bracciata di
incartamenti che stringeva al petto e dandosi da fare con ansia
crescente per farne la cernita. A
metà della pila si entusiasmò nel captare la
forma conosciuta di un
reattore arc e sfilò il foglio dal suo fascicolo con
esultanza, per
poi adombrarsi nel notare che erano semplicemente degli schemi
riassuntivi del vecchio reattore originario ormai distrutto. Stava
per accartocciarlo in preda alla frustrazione, ma si costrinse poi a
riporlo sulla sottile risma accanto a lui, in un ostinato
attaccamento alla speranza che avrebbe comunque potuto cavarne
qualcosa di buono. Stava iniziando a sperare in qualche messaggio
cifrato nascosto nei progetti, ma finora l'unico "codice"
che aveva rilevato era la grafia incomprensibile di suo padre, che
aveva suo malgrado ereditato.
Terminò
di scandagliare senza successo e con molti starnuti anche l'ultimo
plico, per poi rimanere con lo sguardo fisso nel vuoto a chiedersi
perché avesse appena gettato al vento quattro ore della sua
giornata. Non era riuscito a trovare nessuno dei preziosi quaderni di
appunti di suo padre, di cui aveva una chiara immagine che non
riusciva a collocare all'interno di quel marasma di libri,
cianfrusaglie e ricordi. Ci sarebbero voluti giorni per
disseppellirli e non aveva neanche la certezza che fossero davvero
lì. Forse li aveva nascosti chissà dove,
paranoico com'era. Non poteva biasimarlo. Scoccò
un'occhiata sbieca al baule di sua madre: sperava che non fossero lì,
perché non aveva la minima intenzione di aprirlo, ne andasse
pure
della sua vita. Seguì poi indolentemente la successione di
copertine
colorate che ravvivava la libreria di legno scuro, riconoscendo a
colpo d'occhio i titoli che aveva letto nel corso della sua
adolescenza: manuali, trattati e saggi scientifici che conosceva
quasi a memoria, inutili in quel momento. Forse però poteva
valere
la pena esaminare i fogli spiegazzati che sporgevano qua e
là tra le
pagine.
Scorse
uno scaffale in alto, occupato da una mezza dozzina di volumi dalla
copertina simile, e sorrise appena nel riconoscere la "versione
commentata Stark" di alcuni libri di Jules Verne, in cui lui e suo
padre si erano impegnati a mettere in luce e correggere tutte le
assurdità scientifiche e ingegneristiche in essi contenuti.
Suo padre enunciava le teorie e formule corrette, appuntandole
tra le righe, e lui ascoltava rapito, disegnando modelli alternativi del Nautilus a bordo
pagina.
I libri
erano di sua madre: suo padre gli aveva fatto giurare di non dirle
nulla quando avevano iniziato a scarabocchiarli da cima a fondo senza
ritegno, in concorde complicità. Era
uno dei rarissimi ricordi piacevoli che serbava di lui, se non
l'unico. Affondò il mento nel palmo della mano, incupendosi.
Probabilmente nei suoi primi anni di vita la novità del suo
arrivo
era stata ancora abbastanza interessante da spingere suo padre a non
ignorarlo del tutto. Ricordava ancora il momento in cui, a poco meno
di quattro anni, era entrato speranzoso in quello stesso studio con
Dalla Terra alla Luna in mano, solo per sentirsi
rispondere
seccamente che "ormai era grande per quelle sciocchezze".
Un modo come un altro per dire che non aveva più tempo per
lui.
Si
guardò ancora attorno: dovunque posasse lo sguardo si
rievocavano mille
immagini conosciute, per lo più sgradevoli. Stava iniziando
a
sentirsi oppresso. Non era quello il momento per fare un nostalgico
tuffo nel
passato ed elaborare tutto ciò che si era rifiutato di
affrontare
nel corso di quei lunghi anni. Si
costrinse a rialzarsi aggrappandosi a uno schedario,
recuperò il
bastone e si cacciò nella tasca posteriore i pochi documenti
reperiti, imponendosi
un ultimo sopralluogo prima che l'aria là dentro diventasse
troppo
soffocante. Sollevò il braccio del giradischi che ormai
grattava a
vuoto e ripose con cura il vecchio vinile, per poi mettersi
all'opera.
I foglietti che reperì nella libreria non erano altro che
vecchi appunti del MIT e ritagli di articoli scientifici. Sulla
scrivania e nei suoi cassetti non trovò nulla di rilevante,
a parte
degli spartiti di sua madre ingialliti dal tempo e una solitaria foto
di famiglia formato portafoglio. E a parte a una fialetta appoggiata
quasi distrattamente sul fondo di un cassetto che, a occhio,
conteneva qualcosa come cinquantamila dollari in vibranio grezzo,
concentrati nei pochi grammi di una scheggia bluastra delle
dimensioni di un'unghia. Probabilmente era un souvenir non del tutto
autorizzato del Progetto Rebirth.
Il
resto era tutta carta straccia. Inserì la foto tra le pagine
degli
spartiti e li ripose dove li aveva trovati non prendendo neanche in
considerazione l'idea di portare qualcosa fuori di lì, ma
chiedendosi allo stesso tempo dove fosse finito l'unico album di
famiglia che avesse mai visto circolare per casa. Soppesò
la fialetta impolverata scrutandone brevemente in controluce il
contenuto, poi mise a posto anche quella: in un altro momento si
sarebbe probabilmente fiondato in laboratorio trattenendo a stento
l'euforia, ma sapeva già che il vibranio non era applicabile
alla
tecnologia arc. Poi, con quella misera quantità sarebbe
riuscito solo
a condurre qualche test e simulazione improduttivi; stava
già perdendo troppo tempo e sentiva l'urgenza di concludere
qualcosa
di effettivamente utile, prima che il problema del palladio
diventasse ingestibile. Richiuse
con fermezza il cassetto, sigillandone il contenuto almeno allo
sguardo.
Prima
di costringersi ad uscire si avvicinò con un passo sbilenco
al
plastico della Expo. Scostò il telo che lo copriva con un
unico
gesto del bastone da passeggio, rivelando l'ordinata disposizione di
edifici, strade e parchi al di sotto. Rimase
a fissarlo per lunghi secondi, riconoscendo l'estrema cura infusa in
ogni linea e dettaglio e la minuziosità con cui persino ogni
singolo
albero era stato collocato. Inclinò appena la testa di lato
con
lieve rammarico: suo padre si era dedicato alla Città del
Futuro con
tutto se stesso, venendone risucchiato soprattutto negli ultimi anni.
Da ragazzo aveva pensato a una sua fissa senile e utopistica che
sostituisse quella per lo scudo in vibranio e il suo attempato
proprietario ormai irrintracciabili. All'epoca non era riuscito a
concepire cosa ci fosse di così importante in un "contentino
per gli ambientalisti", come lo chiamava spesso Stane. Adesso capiva
che suo padre era stato alla disperata ricerca di
un'opera che potesse rivelarsi all'altezza di quell'unica "cosa
giusta" che sentiva di aver fatto. O forse era lui a volerla
vedere così, col senno di poi e col peso di qualche errore
di
troppo
sulle spalle. Si
scoprì accigliato: non si era reso conto della tensione in
cui si
era a poco a poco contratto il suo volto.
C'era qualcosa che potesse
essere all'altezza di Iron Man? Quel pensiero lo lasciò a
fissare
smarrito quel progetto mai realizzato.
Il
suo sguardo fu catturato dall'Unisfera al centro del plastico, dalla
quale si diramava a raggiera tutto il resto del complesso con
ordinata rigorosità. Arrivò a soffermarsi sulla
targhetta metallica
infissa in un angolo: Stark Expo, 1974.
Aveva
dei ricordi confusi ma molto vividi dell'anno della Expo: le
passeggiate con sua madre tra le bancarelle della fiera, le ore e ore
passate a gironzolare nel parco addobbato a festa, le migliaia di
invenzioni che lo avevano affascinato e che aveva puntualmente
tentato di emulare in proprio, tutte le volte in cui si era
intrufolato in aree riservate... certo, se fosse stato lui ad
organizzare il tutto, l'evento sarebbe stato molto più
scenografico. Si sarebbe impegnato un po' di più per le
cerimonie d'apertura e chiusura, per esempio. Più fuochi
d'artificio, tanto per
cominciare, e più pin-up e champagne. Iron Man sarebbe stato
sicuramente la mascotte della fiera; magari avrebbe piazzato ovunque
sponsor per l'energia pulita; forse ci sarebbe stato un padiglione
dedicato esclusivamente alla biomedica.
Coprì
con la punta del bastone la data incisa sulla targhetta, meditabondo.
"Stark
Expo, 2010," scandì mentalmente dopo qualche
istante.
Il
suo volto fu attraversato da un sorriso sghembo.
"Perché
no?"
***
Quando
accostò la porta dello studiolo dietro di sé, la
sua mente era
ancora in bilico tra la frustrazione per aver imboccato l'ennesimo
vicolo cieco e il quieto senso d'aspettativa al pensiero di una
futura Stark Expo. Al
momento, la frustrazione stava avendo la meglio assieme al mal di
testa latente che iniziava a sovrastare gli antidolorifici, causato
molto probabilmente dal palladio. Però aveva appena trovato
un nuovo
modo utile per tenersi occupato, e in cuor suo non vedeva l'ora di
lanciarsi in un nuovo progetto con dei solidi sbocchi che compensasse
quello frustrante di Iron Man e che lo distogliesse dal reticolo
violaceo che continuava ad allargarsi sul suo petto.
Era
talmente assorto che non si rese conto di Pepper finché non
se la
trovò a un passo di distanza, con occhi accesi di stupore
nel
vederlo uscire da quella porta.
«Signor
Stark!» la sua voce tradì una squillante nota di
sollievo.
«Ehi,
Pep,» la salutò sovrappensiero, per un istante
dimentico della loro
situazione ancora precaria, dei problemi irrisolti e delle loro
"esistenze complicate".
«Finalmente
l'ho trovata,» sospirò, e Tony colse un'ombra
d'imbarazzo sul suo
volto; si affrettò a ritornare presente a se stesso:
«Signorina
Potts, sono costretto a farle notare che oggi è meno
impeccabile del
solito...» accennò alle ciocche di capelli
sfuggite alla sua solita
coda alta, al fatto che fosse a piedi nudi e all'acceso rossore del
suo volto che quasi oscurava le sue lentiggini, come se avesse corso.
«L'ho
cercata ovunque, non ha idea di
quanto...»
«...
ma questo look spontaneo le dona,» continuò
imperterrito lui,
terminando la frase con un sorriso ammiccante, che ovviamente cadde
nel vuoto di fronte ad anni di consumato allenamento alle sue
galanterie da dongiovanni.
Mise
a fuoco solo allora il voluminoso plico di documenti che la donna
portava sottobraccio, con tutta l'aria di essere destinato a lui.
«Non ho pensato a cercarla lì,» ammise
Pepper, lanciando una rapida
occhiata alla porta appena socchiusa dietro di lui.
«Sono
disposto a tutto, pur di evitare il lavoro d'ufficio,»
scrollò le spalle lui, badando bene a tenersi fuori dalla
portata
delle scartoffie. «Si
è
preoccupata?»
aggiunse a bruciapelo,
e fu chiaro che quella domanda la mise in difficoltà.
«No,
è solo che... non sapevo dove fosse,» rispose
debolmente.
«Si
è preoccupata,»
concluse
lui, sospirando a metà tra il deluso e il colpevole.
«Un
po',» ammise lei, nel chiaro sforzo di mantenere ferma la
voce.
«Si
vede che non mi sono ancora impegnato abbastanza,»
commentò lui con un'alzata di spalle un po' sconsolata.
«Ammetto che
in altre circostanze ci sarebbe sicuramente stato un qualche intento
masochista nel voler rientrare là dentro, ma le assicuro in
questo
caso era una pura necessità tecnica, del tutto
innocua,» spiegò in
tono leggero.
Pepper
annuì appena, molto poco convinta e palesemente turbata dal
fatto
che fosse entrato nello studio di suo padre di sua sponte
uscendone persino di buonumore.
«Ora
che ci penso, lei non ha mai visto lo stanzino inutile,»
realizzò
Tony un po' a sproposito, schiudendo appena la porta alle sue spalle
col bastone
per rivelare il caos che regnava oltre la soglia.
«Può sbirciare,
non ci sono mostri nell'armadio, polvere a parte,» la prese
in giro
nel vedere la sua esitazione, facendole cenno di affacciarsi.
Lei
eseguì quasi con timore, non riuscendo a trattenere uno
sguardo
meravigliato nel trovarsi davanti quella babele. Nel farlo, si
portò
al suo fianco, e Tony si scoprì a trattenere appena il
respiro quando
captò il profumo dei suoi capelli appena lavati –
un sentore di giglio.
Scostò cautamente
lo sguardo dalla stanza alla donna, non riuscendo a impedirsi di
osservarla di sottecchi. Seguì i tratti delicati del suo
volto, il
profilo aggraziato del naso, la curva delle labbra appena schiuse, la
linea elegante del collo... ritornò bruscamente in alto e
stavolta
venne calamitato dall'iride ceruleo che intravedeva oltre le ciglia
chiare e arcuate. Da quanto non si trovavano così vicini?
«Prima
era messo meglio,» disse in fretta, distogliendosi dai suoi
pensieri
fuori controllo.
Il
fatto che indossasse quel suo tailleur scuro a pois che le lasciava
scoperte le spalle, rivelando le leggere efelidi che le
punteggiavano, non lo stava affatto aiutando.
«E
quello è opera mia,» accennò
rigidamente alle pile di fogliacci
accatastate per terra. «Dovrò spedirne una parte
allo SHIELD,»
aggiunse con la bocca secca.
Non
riusciva a staccare gli occhi dal suo volto e si frenò
appena in
tempo quando si accorse di essersi inclinato appena verso di lei.
"Datti
una calmata," si rimbrottò duramente, allo stesso tempo
confuso dall'improvvisa indisciplinatezza del proprio corpo.
Pepper
voltò la testa verso di lui, del tutto ignara del modo fin
troppo
intenso in cui l'aveva osservata e del brusco movimento con cui si
era ricomposto. Nell'incrociare il suo sguardo fu molto vicino a
ricadere nell'espressione inebetita di poco prima. Si
affrettò a
fissare lo studio fingendosi rilassato, invece di indugiare ancora
sulle lentiggini del suo décolleté.
«Da
quanto non ci entrava?» gli chiese lei, con cauta
curiosità.
Lui
si appoggiò allo stipite, riflettendo e approfittandone per
mettere
qualche centimetro di distanza in più tra loro.
«Come
minimo dieci anni,» stabilì infine. «Lo
sa che non sono un tipo
nostalgico,» aggiunse poi, con una smorfia ironica ma un po'
tirata.
Il
denso silenzio da parte di Pepper gli fece capire che forse stavano
entrando in un terreno un po' troppo delicato e fece per sviare il
discorso, ma lei lo anticipò:
«Non
c'è nulla di male ad essere un po' nostalgici. Anche se si
è Tony
Stark,» specificò, con un piccolo sorriso che lo
colse di sorpresa
facendogli mancare un battito.
Sfuggì
di nuovo il suo sguardo e lo puntò sulla piccola stanza
polverosa e
stipata di ricordi. Si trovò ad accostare la porta e
chiuderla a
chiave senza neanche rendersi conto di essersi mosso.
«Un
po' di nostalgia va bene, ma a piccole dosi,»
chiarì, adesso un po'
in soggezione di fronte a quegli occhi tersi che come sempre
sembravano leggergli dentro.
Sperò
che non riuscissero a intuire proprio tutto quello
che gli
passava per la testa, o avrebbe dovuto fornirle delle spiegazioni
molto imbarazzanti. Si rigirò la chiave in mano, prendendo a
passare
il pollice sulla dentallatura seguendone il profilo.
«Mi
farebbe un favore?» esalò dopo qualche secondo,
prima di perdere il
coraggio per parlare.
Pepper
arcuò le sopracciglia, lasciando spazio all'espressione
circospetta
e assolutamente irremovibile che assumeva nel fronteggiare le sue
richieste eccentriche.
«Signor
Stark, dieci anni con lei mi hanno insegnato a non rispondere mai
di sì a questa domanda prima di sapere di cosa si
tratti.»
«È
sempre così
sospettosa,» si
lamentò lui, inclinando appena la testa e fissandola con
fare
offeso.
«Ne
ho buon motivo.»
«L'ultima
volta che le ho chiesto esplicitamente un favore è stato per
spogliarmi, non mi dica che le è dispiaciuto così
tanto,» insinuò lui, per poi notare la sua
reazione decisamente
poco divertita e fare subito dietrofront. «Ha il diritto di
rimanere
in silenzio di fronte alla mia palese
mancanza di tatto,»
aggiunse
rapido, alzando le mani in segno di resa e con un'espressione quasi
implorante stampata in volto.
Pepper
rimase in attesa senza commentare, con una pazienza che ritenne
invidiabile ma probabilmente non inesauribile, così
evitò di
testarla più del necessario. Si schiarì un poco
la gola, segnando
la fine del suo umorismo fuori luogo, forse dettata dall'assenza di
sangue nel suo cervello.
«La
chiave va là dentro,» additò il
mobiletto dall'altra parte del
pianterreno e piazzò l'oggetto in questione a un palmo dai
suoi
occhi azzurri e sorpresi, «luogo che ritengo fin troppo
lontano per
qualcuno in condizioni precarie come le mie; perciò, magari
non
subito, ma quando ha tempo, possibilità e voglia, sarebbe
così
gentile da...»
Pepper
gli sfilò con gentilezza la chiave dalle dita, sfiorandole
appena e
tradendo una lieve titubanza. Tony frenò il flusso
incoerente di
parole che aveva portato un assurdo, tenue calore sulle sue guance.
«Le
farò questo favore,» gli accordò
semplicemente lei, stringendo poi
la chiave in mano con un gesto che gli sembrò quasi
premuroso.
Tony
si rilassò in un sorriso sincero, contento di averle
affidato quel
pezzo di sé che non aveva mai avuto modo di condividere,
sebbene in
modo un po' impacciato. Dubitava che lei sarebbe mai entrata nello
studio per conto suo, ma era il gesto che contava ed era convinto che
lei fosse abbastanza perspicace da interpretarlo nel giusto modo.
«Grazie,»
disse soltanto, in modo un po' goffo e sottintendendone molti altri.
«Prego,»
rispose lei con un'espressione improvvisamente scaltra, e gli
mollò
a sorpresa il plico di documenti che aveva tenuto in mano fino a quel
momento.
Tony
lo afferrò d'istinto, rendendosi conto con una frazione di
ritardo
del raggiro.
«Questo
è tradimento!» riuscì a protestare
mentre lei già si allontanava,
decisamente soddisfatta della sua mossa.
«Buon
lavoro, signor Stark,» si limitò ad augurargli, e
Tony colse il
sorriso nella sua voce.
«Anche
a lei, signorina Potts,» sorrise di rimando.
***
26
Novembre, Villa Stark
Un
giorno o l'altro avrebbe finito per sgozzarsi, vista la combinazione
tra la mano mancina malferma e la protesi incontrollabile che
decideva di dare il meglio di sé proprio mentre si radeva.
All'ennesima
scalfittura che si rimediò sul mento si decise a sciacquarsi
il
volto dalla schiuma da barba e a rimandare l'incombenza al giorno
dopo. Ripose stizzito il rasoio nell'armadietto... con un po' troppa
foga, visto che finì per far cadere a terra metà
del suo contenuto. Imprecò,
fissando sconsolato il disastro di boccette e accessori da bagno
disseminati sulle piastrelle e maledisse la protesi che si ostinava
ancora a muoversi come voleva lei. Meditò di lasciare tutto
così
com'era, ma poi pensò che avrebbe dovuto fornire delle
spiegazioni a
Pepper e accantonò l'idea.
Odiava
inginocchiarsi o chinarsi: erano movimenti che gli facevano ancora
vedere le stelle, ma si rassegnò a stringere i denti e ad
accucciarsi con una smorfia sofferente per rimediare a
quell'incidente. Almeno non si era rotto nulla. Stava
giusto per raccattare l'ultimo oggetto quando si bloccò a
metà del
gesto nel riconoscerlo. Rovesciò distrattamente nel
lavandino tutto
ciò che aveva appena raccolto e afferrò il
rilevatore di tossicità,
facendo poi leva sul bordo di ceramica per rimettersi in piedi.
Fissò
con malcelata apprensione quella scatoletta metallica, cosciente che
dalla sua incursione nello studio di suo padre non aveva più
controllato il livello di palladio. In realtà si era
volontariamente
dimenticato di farlo, forse illudendosi che, se avesse messo da parte
per un po' il diabolico congegno, questo gli avrebbe finalmente
annunciato buone notizie, quasi fosse un essere senziente e
suscettibile. Aveva addirittura riprogrammato JARVIS
affinché
smettesse di ricordargli di controllare regolarmente lo stato
dell'intossicazione.
Soppesò
lo strumento nella mano meccanica, tentato dal disintegrarlo con una
semplice stretta.
Erano
stati mesi sereni, addirittura riposanti: Pepper sembrava essere
tornata quella di molti anni prima, in quella fase iniziale in cui
non si conoscevano ancora così bene da poter passare intere
ore a
battibeccare, ma comunque abbastanza per poter scherzare e
chiacchierare con una disinvoltura che andava oltre il puro rapporto
lavorativo. L'ultimo processo si era risolto vittoriosamente sia sul
fronte Iron Man che su quello delle protesi e lasciava scoperta solo
l'annosa questione di Stane, ma l'influenza sotterranea dello SHIELD
gli aveva ritagliato un lungo periodo di pausa da quelle beghe legali
fino al nuovo anno. La Mark IV era ormai in fase di assemblaggio:
forse era venuto a capo di quei dispositivi di controllo remoto e il
progetto
per Kyle procedeva di conseguenza meglio di quanto avesse sperato.
Persino i
Vendicatori e Rhodey lo contattavano regolarmente per avere
novità su lui
e Iron Man, incluso Thor, che aveva ammorbidito un po' i toni nei
suoi confronti. E
lui fantasticava spesso, volentieri e per ora in segreto su una futura
Stark
Expo, riempendo taccuini su taccuini di appunti e progetti e
programmi forse irrealizzabili, ma che lo mettevano di buon umore.
L'unica
nota stonata era che le protesi avevano infine imposto i loro limiti
definitivi a causa delle interferenze tra i reattori, ma non era
qualcosa di cui potesse realmente lamentarsi: era autonomo e
camminava, seppur con un bastone da arzillo vecchietto. Magari non
avrebbe mai corso una maratona, ma poteva ancora sperare di rientrare
nell'armatura, prima o poi. A vedere il lato positivo, in
virtù di
quel fatto si era deciso a sottoporsi alla perizia tecnica per le
protesi, ovvero mezz'ora di estenuanti diatribe con quell'incompetente
di Hammer sotto la supervisione di Kyle e Knight. Un incubo coi
fiocchi, ma adesso era in impaziente attesa del responso e, sperava,
della licenza che l'avrebbe finalmente reso libero di lasciare sulle
sue gambe quelle
quattro mura che iniziavano ad andargli più che strette.
In fin dei conti, andava tutto bene.
Poi
c'erano quei lievi, subdoli sintomi in preoccupante aumento, al punto
che ormai si stupiva quando si rendeva conto di non avere mal di
testa, nausea, o riusciva a dormire una notte intera senza che i
moncherini o l'ansia lo svegliassero. Il
rilevatore di tossicità sembrava fissarlo e giudicarlo
attraverso il
display spento, come a ricordargli che tutto ciò che aveva
occupato
la sua mente e i suoi giorni fino ad allora non erano state altro che
distrazioni per coprire il problema più grave e pressante,
che aveva
ancora una volta scelto di ignorare per far finta che
andasse tutto
bene.
Premette
il pollice sull'ago con un'angoscia torbida, venata da una punta di
speranza che i suoi timori venissero smentiti.
Il
27% lampeggiò minaccioso, riportandolo bruscamente coi piedi
per
terra. Scrollò
la mano intorpidita con aria assente, osservando da dietro un velo
plumbeo la goccia di sangue che si allargava come un fiore vermiglio
sul suo polpastrello, in un tacito monito di quel che stava
accadendo. Ripose in tasca il rilevatore di
tossicità.
Non
aveva più tempo per le distrazioni.
_______________________________________________________________________________________________________
Note Dell'Autrice:
Sssalve!
Rieccoci sintonizzati su questi schermi! Queste note saranno lunghe anche per i miei standard, vista la quantità forse eccessiva di eventi nel capitolo. Lettori avvisati, mezzi salvati :P
-Innanzitutto: i sintomi che ho affibbiato a quel poveraccio di Tony sono davvero riscontrabili nelle intossicazioni da metallo pesante, incluse le vampe di calore improvvise. Sì, mi hanno praticamente servito su un piatto d'argento una scusa per fare un po' di fan-service :'D
-Parlando di fan-service: qui passiamo da Tony capellone stile Iron Man post-Afghanistan a un aspetto più simile a quello che ha in Iron Man 3. È un dettaglio forse irrilevante, ma visto che dal punto di vista psicologico è adesso più vicino a "quel Tony" ho pensato di farlo emergere anche nell'aspetto.
-Passando a Kyle <3 I tutori che cito sono ripresi da quelli di Rhodey in Civil War. Quando abbiamo iniziato la storia non avevamo idea degli sviluppi del MCU, ma visto che le vicissitudini di Rhodey cadono a pennello, perché non sfruttarle?
-Tutta la faccenda dell'armatura prensile/teleguidata rimanda alle migliorie che Tony apporta in Iron Man 3 e nei film successivi; qui è tutto anticipato di un paio d'anni, quindi le difficoltà che incontra nel progettarla sono accentuate rispetto a quelle di IM3. Per capirci, l'obiettivo è sviluppare un'armatura come quella che si vede in Homecoming quasi 10 anni dopo, ovvero controllata da lui ma a distanza.
-Le problematiche relative alle interferenze elettromagnetiche, già introdotte nei capitoli precedenti, sono un tentativo di spiegare perché in Iron Man 2 Tony non fornisca l'armatura di un reattore indipendente, invece di continuare a usare il proprio anche quando l'intossicazione è alle stelle. Spiegazione labile, ma credo sia meglio di rendere Tony ottuso per il 90% del film (sì, Favreau, sto guardando te).
E niente, alla fine arriva mamma la Expo <3 So che avete sperato nell'illuminazione divina mentre guardava il plastico (almeno, l'intento era quello), ma non sarà tutto così "facile" come in IM2 (quando mai lo è?)
Concludo col dire: godetevi lo pseudo-fluff, finché potete :P
Un ringraziamento enorme a _Atlas_, 50shadesofLOTS_Always, Emyclarinet e Sherlock_Watson che hanno recensito gli scorsi capitoli :D <3 E anche a tutti coloro che leggono e basta, seguono o hanno aggiunto la storia tra le preferite/ricordate :)
Ah, il capitolo successivo è stato il primissimo che ho scritto quando ho ripreso Phoenix e probabilmente quello che più mi è piaciuto scrivere e sviluppare assieme a Show&Tell, quindi ammetto che sto scalpitando da mesi per arrivarci :D
Un bacione e spero a presto,
-Light-
P.S. Smoke and mirrors è un modo di dire inglese che vuol dire all'incirca "mascherare la realtà", o comunque offuscarla per dirottare l'attenzione su altre cose, spesso irrilevanti o frivole. Capito, Tony?
P.P.S. Momento-stronzata: la menzione ai Lakers deriva dallo spot di Homecoming per la finale dell'NBA (qui), in cui Tony invita, tra gli altri, il presidente della squadra "Magic" Johnson a vederla a casa sua. Ho dedotto che potesse essere un tifoso dei Lakers e nessuno mi convincerà mai del contrario :P
© Marvel
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Capitolo 40 *** Kintsugi ***
39
Kintsugi
"Wash
the sorrow from off my skin
And
show me how to be whole again
'Cause
I'm only a crack in this castle of glass
Hardly
anything there for you to see"
[Castle Of Glass –
Linkin Park]
12
Dicembre, Villa Stark
Dicembre
portò con sé pensieri più cupi del
solito per Tony. Non aveva mai amato particolarmente il periodo
natalizio, che si limitava ad affrontare tappandosi il naso con il
rassegnato atteggiamento di chi mal sopporta Jingle Bells Rock
e non ha molta compagnia per pranzi e cene comandati. Quelle
settimane tendevano anche a richiamare con insistenza ricordi di
telefonate nel cuore della notte e di ore passate a intirizzirsi in
pigiama sul ciglio di una strada sconosciuta, fissando i resti di una
berlina schiantata contro un albero e illuminata dalle sirene blu
delle volanti.
No,
non amava particolarmente il Natale. Aveva
sempre preferito passarlo fuori porta, magari su qualche atollo
sperduto molto lontano da freddo e neve.
Quell'anno non era
però un'opzione contemplabile. Il
lato positivo era che non avrebbe neanche dovuto tener testa a tutti
gli eventi mondani che richiedevano solitamente la sua presenza.
Diede una pacca alla gamba meccanica, provando un incoerente senso di
gratitudine per il divieto di usare pubblicamente le protesi e per le
sue condizioni di salute precarie e non adatte a un gran
galà
festivo. Poi sospirò, fissando la placca corazzata della
futura Mark
IV posata sul banco di lavoro e ancora in fase di assemblaggio. Era
da un mese che lavorava alla ricostruzione dell'armatura ed era da un
mese che la sua voglia di spenderci tempo scemava lentamente fino a
rasentare lo zero. Dopotutto non aveva la certezza assoluta di
poterla usare, vista l'ottimale combo tra interferenze dei reattori e
intossicazione da palladio in via di peggioramento. Ormai non
riusciva a tenerla a bada neanche coi litri di clorofilla che
ingollava ogni giorno.
Scacciò quel pensiero opprimente, una mosca fastidiosa che
si ostinava a ronzargli incessantemente intorno. Stava
cercando di aggirare i problemi come al solito, ma non era arrivato a
delle soluzioni soddisfacenti e l'ansia iniziava a diventare una
compagna sempre più invadente che minava la sua
produttività. Inoltre
controllare l'armatura a distanza, o peggio, delegare a qualcun altro
il compito e l'onere di indossarla non rientrava nei suoi progetti
favoriti, ma ormai era troppo tardi per rimangiarsi la proposta
fatta allo SHIELD in un eccesso di ottimismo. Non poteva ancora
permettersi di
rinunciare alla loro protezione, non con un processo ancora in corso. E
doveva perlomeno
dare qualche contentino a Fury, che si
aspettava risultati entro l'inizio del nuovo anno sul fronte Iron
Man.
Posò
una mano sul reattore cardiaco, consapevole che attorno a quella luce
azzurra e brillante si dipanava un reticolo di venature plumbee
sempre più stringenti. Ripensò al suo discorso ai
Vendicatori:
certo, era pur sempre Iron Man... ma per quanto ancora?
Gonfiò
le guance ed espirò forte, poi afferrò il bastone
e si risolse ad
abbandonare il lavoro per quel giorno, visto che si stava rivelando
infruttuoso e fonte di pensieri sgraditi. Salì con estrema
lentezza
le scale, costringendosi a quel gesto che ancora lo stremava. Negli
ultimi tempi aveva trascurato la fisioterapia: voleva risolvere del
tutto il
problema delle interferenze prima di riprenderla seriamente. Il che
era una mezza verità alla quale avrebbe voluto credere, ma
il problema concreto era il costante senso
di affaticamento derivato dall'intossicazione, che lo lasciava
sfiancato dopo pochi minuti di esercizio fisico, coi moncherini in
preda a crampi e il cuore in fibrillazione.
"Se
Nat lo scopre, mi uccide prima lei," si trovò a pensare, con
una punta di
colpevolezza nei confronti della donna che si era prodigata per
rimetterlo in piedi.
Arrivò
in cima alla rampa sfiancato e dolorante, ma non si fermò e
si
diresse in salone, dove sperava stesse lavorando Pepper. Lo
trovò
vuoto e si lasciò sfuggire una smorfia delusa: doveva
essersi trattenuta alle Industries. Adesso
ringraziava la sua involontaria lungimiranza nell'averla
ufficiosamente nominata amministratore delegato, ma ciò la
teneva
lontana più di quanto volesse. Forse avrebbe dovuto
formalizzare la
cosa, prima che le proprie condizioni di salute diventassero
evidenti, ma temeva di insospettirla con mosse troppo plateali. Gli
venne quasi da ridere di sé. Da quando si preoccupava di
essere
plateale,
soprattutto con lei?
Non
poteva lamentarsi per la piega che aveva preso il loro rapporto, ma
il fatto che dalla fine dell'estate fosse ancor più
raramente a Villa Stark lo rattristava, anche se
in quei mesi si era fatta meno schiva e più propensa al
dialogo.
Spesso era stata lei stessa a mostrarsi disponibile nei suoi
confronti, permettendo a entrambi di vivere delle parentesi di
serenità in cui sembrava che nulla avesse mai turbato il
loro
equilibrio, non fosse stato per le occhiate inquiete che a volte la
sorprendeva a rivolgergli.
Si
accostò al bancone degli alcolici solo per prendere una
caraffa di
clorofilla, visto che aveva fatto voto d'astinenza da ogni tipo di
liquore in seguito a eventi non poi troppo remoti e decisamente
disastrosi. Scoccò un'occhiata sbieca alla parete ancora
mancante:
aveva stabilito che l'open-space completo non gli dispiaceva
così
tanto da prendersi la briga di ricostruirla. Completò
con la mano buona l'operazione di versarsi un bicchiere dell'orrido
liquido verdastro: ormai aveva rinunciato a usare la protesi per
compiere azioni delicate o che coinvolgessero oggetti fragili.
"Maledette
interferenze..."
«Brinda
a qualcosa?»
Quasi
si strozzò a metà di un sorso, ma
riuscì a deglutire senza
sbrodolarsi come un bimbo di tre anni. Si voltò un po'
bruscamente
verso Pepper, appena comparsa in salotto in un impeccabile vestito da
ufficio color tortora. Lo fissava con un sorriso sottile, divertita
dalla
sua reazione, e con il tablet e un plico di documenti stretti al
petto. Sembrava di ottimo umore.
«Con
questa?» lui sollevò scettico la
caraffa facendone sciabordare il contenuto torbido. «Sarebbe
un insulto al buon gusto,»
commentò, poggiandola con una teatrale smorfia di orrore.
Ringraziò il fatto che Pepper non avesse mai indagato troppo
a fondo sulla faccenda della clorofilla: si era limitata a credergli
quando le aveva detto che gli serviva come precauzione per
"stabilizzare il reattore" e che in realtà il sapore non gli
dispiaceva – nonostante avrebbe bevuto più
volentieri della candeggina. Mentire gli riusciva ancora
straordinariamente facile, nonostante tutte le sue promesse, ma che
alternative aveva?
Pepper
nel frattempo si era accomodata alla sua solita postazione di lavoro
sul divano, sedendosi in modo da non rivolgergli le spalle.
«D'altra
parte, a cosa dovrei brindare?»
aggiunse lui un po' sovrappensiero, scuotendo la testa.
«Alla
sua riammissione ufficiale nei Vendicatori?» lo
imbeccò lei, con vivacità.
A
quelle parole lui sbuffò, a metà tra un verso di
scherno e una
risata.
«Come
consulente. Di nuovo.»
«È
un inizio. E visti i precedenti...»
«Lo
so, lo so. Mi ricordo che è colpa mia; non ho bisogno del
promemoria,» bofonchiò lui
di rimando, prendendo un altro sorso di clorofilla.
Si
poggiò di schiena al bancone con aria meditabonda,
toccandosi
inconsciamente il reattore come ad accertarsi che fosse ancora
lì.
Captò l'occhiata significativa di Pepper e scostò
la mano nel modo
più discreto possibile, ma sapeva che si era accorta come
sempre di
quel riflesso condizionato. Lei non commentò e
iniziò a trafficare
con le scartoffie – le sue scartoffie
– con il solito
zelo. Si ritrovò ad osservare con sguardo quasi estasiato il
modo in
cui la donna aveva appena accavallato le gambe affusolate,
dimenticandosi di bere e rimanendo stolidamente col bicchiere a
mezz'aria. Gli sembrò che Pepper stesse per alzare la testa
dal suo
lavoro e si affrettò a rituffare il volto dietro al vetro,
per poi
costringersi a mantenere l'attenzione sulle venature del marmo sotto
ai suoi piedi mentre rimetteva in carreggiata i suoi pensieri
volubili.
«Sicuramente
da qui al nuovo anno ci sarà qualche altra occasione per
brindare,»
buttò lì dopo un minuto buono di silenzio, non
volendo abbandonare
così presto la conversazione. «Si
chiamano "feste" per un motivo, no?»
abbozzò un sorriso forzato.
«Ha
già dei piani per Natale?»
Il
tono di quella domanda gli fece capire che lei aveva già i
suoi,
anche se non riusciva ad immaginare con chi. La nozione che lei aveva
una famiglia con cui festeggiare riemerse in ritardo.
«Non
saprei. Alla fine è un giorno come tanti. Preferisco
Capodanno,»
rimuginò, rendendosi conto del suo tono fiacco ma non
facendo nulla
per ravvivarlo.
Pepper
distolse lo sguardo, a disagio, e Tony lo notò. Anche lei
sapeva
quanto non amasse quel periodo.
«Sono sicura che
troverà qualcosa da fare,» disse, un po'
debolmente, forse con una punta di colpevolezza.
Lui fece una mezza smorfia poco convinta.
«Potrei
passare a trovare i miei,» si
sentì dire, come da molto lontano.
A
quelle parole Pepper sollevò di nuovo la testa, allarmata.
«Tony?»
«Non
ci vado da molti anni,»
scrollò le spalle lui, a minimizzare la cosa. «E
non ho impegni particolari per il 16 dicembre.»
Pronunciare quella data gli fece più male di quanto avesse
pensato,
nonostante tutto il tempo trascorso da quel giorno.
"E
chissà se potrò ancora andarci l'anno prossimo..."
«Tony...»
«È solo
che ultimamente ci penso spesso. Mi chiedo cosa direbbe mio
padre, a vedermi con tre dei suoi reattori in corpo,»
continuò a dire in tono piatto, fissandosi involontariamente
la mano
meccanica. «E mia madre...»
esitò e la sua voce si affievolì.
«Tony.»
Stavolta
il tono più incalzante di Pepper lo riscosse, strappandolo
dalle sue
riflessioni cupe. Incrociò fugacemente il suo sguardo
preoccupato e
si sfiorò a disagio la benda sull'occhio, consapevole di
essersi esposto e di aver lasciato trapelare qualche filo della matassa
di pensieri che lo
teneva sveglio la notte. Lei era l'unica con cui potesse lasciarsi
sfuggire simili momenti di vulnerabilità, ma quello non era
il
frangente più adatto, non ora che era forse riuscito a
riconquistare
la sua fiducia.
"Fiducia immeritata," gli ricordò prontamente la sua
coscienza.
«Sto
bene,» affermò, nonostante
lei non gliel'avesse chiesto, e ciò suonò molto
come una
confessione del contrario.
«Come
sempre?» stavolta c'era una
punta provocatoria nel tono di Pepper.
Forse un tempo l'avrebbe
lasciato a crogiolarsi indisturbato nei suoi pensieri, o magari
sarebbe stata più delicata, ma adesso sembrava consapevole
di quanto chiudersi potesse essere dannoso per lui, e aveva assunto un
atteggiamento più diretto e intransigente nell'affrontare le
sue
continue reticenze. Lui
si portò una mano alla nuca, innervosito.
«Meglio
del solito,» si limitò a
rispondere infine. «Nulla di
preoccupante, sono solo... pensieri.»
Percepì
lo sguardo indagatore della donna ancora su di lui e seppe di non
essere in grado di ingannarla fino in fondo.
«Iron
Man, i Vendicatori, le protesi, le interferenze...»
elencò monocorde.
"Il
28% di intossicazione..."
«...
le solite cose. L'atmosfera del momento non aiuta, ma sono
sopravvissuto a diciotto Natali, prima di questo.»
Scrollò le spalle, lui stesso poco convinto e non troppo
stupito dal
fatto di non essersi neanche dovuto soffermare a contare gli anni
precisi.
«E ho le mie
distrazioni,» concluse,
accennando alle protesi e pensando tra sé anche all'armatura
e a quanto avrebbe voluto indossarla anche solo per qualche minuto.
Pepper
continuò a fissarlo assottigliando le labbra, come se fosse
contrariata e volesse aggiungere qualcosa, ma sembrò
frenarsi. Optò infine per il silenzio, e se da un lato Tony
fu grato
di lasciar cadere l'argomento, dall'altro non gli sarebbe dispiaciuto
continuare a parlarne con lei. Si ricordò solo allora della
chiave
dello studio che aveva ritrovato appesa al suo posto. Forse era
ancora troppo presto per aprirsi davvero. Dopotutto ci erano voluti
dieci anni per arrivare fin là – un là
ancora privo di una vera e propria connotazione – e le sue
sconsideratezze li avevano
quasi
riportati al punto di partenza. Che senso aveva aprirsi, quando si
era a un passo dalla fine?
Si
schiarì la gola, richiamando nuovamente la sua attenzione.
«Tra
circa un mese sarà un anno. Per quello sarebbe opportuno
brindare?»
Lo
sguardo di Pepper si fece confuso, tentando di raccapezzarsi nei suoi
discorsi sconclusionati.
«Per
il suo incidente?» realizzò
infine, e sollevò le sopracciglia come ad accertarsi di aver
capito
bene.
«Per
il fatto di essere ancora vivo e di riuscire a romperle le scatole
come prima e meglio di prima.»
Tony sfoggiò un ghigno tronfio che gli incorniciò
il volto di
piccole rughe del sorriso, un chiaro segnale a riportare il discorso
su temi più leggeri.
«Meglio
di prima? Ha degli standard molto alti da
superare,»
ribatté Pepper, stando al gioco, ma Tony colse una vena di
serietà
nel suo tono scherzoso.
Forse
quel "prima" aveva un significato più ristretto di quanto
intendesse lui e non si riferiva solo alle bravate goliardiche di cui
lei era stata spesso testimone. Si versò distrattamente un
altro po'
di clorofilla per prendere tempo.
«Per
esempio?» si arrischiò a
chiedere infine, sapendo di entrare in un terreno potenzialmente
pericoloso: stava a Pepper decidere se dargli corda continuando lo
scherzo o riportarlo bruscamente coi piedi per terra.
«Baltimora,»
e a quella semplice parola le labbra di Pepper si incurvarono un poco
verso l'alto, nonostante stesse provando in tutti i modi di impedire
al sorriso di far breccia sul suo volto forzatamente severo.
Tony
rimase fermo per un istante col bicchiere a mezz'aria per poi
lasciarsi scappare un risolino, stupito e in cuor suo sollevato.
«Se
lo ricorda ancora?»
Lo
sguardo eloquente e prossimo all'omicida di Pepper gli disse che,
sì,
ricordava ogni
dettaglio delle sue prodezze alla prima festa di fine
anno aziendale alla quale avevano partecipato insieme, ormai quasi
dieci
anni prima.
«Giusto,
sono indimenticabile,» si
corresse subito dopo, nascondendo il suo sogghigno dietro al secondo
bicchiere di clorofilla.
«Per
i motivi sbagliati,»
puntualizzò lei, e Tony non poté fare a meno di
soffermarsi sul suo
volto sorridente e su quanto sembrasse rilassato ora che era acceso
da una luce spensierata.
Gli
sembrava di rivivere un momento strappato a un giorno qualsiasi di
qualche anno prima, prima dell'incidente, dei Vendicatori,
dell'Afghanistan, prima ancora di Iron Man. Era cambiato tutto da
allora, ma sentiva che l'essenziale era sempre lì, a fare da
raccordo tra loro due. Voleva
credere che fosse così.
«Sono
contento che lei sia qui,» si
lasciò sfuggire, e, nonostante non avesse avuto intenzione
di
dirlo
ad alta voce, non si pentì di averlo fatto.
Vide
gli occhi chiari di Pepper sgranarsi appena in un moto di sorpresa.
La donna chinò brevemente la testa sui suoi documenti,
così che la
frangetta ricadesse a celare il suo sguardo.
«Sono
qui perché lei ha finalmente deciso di non
impedirmelo,»
disse infine, e una punta di rimprovero lo raggiunse, smorzata dal
tono caldo di quelle parole che non sapeva bene se interpretare
positivamente o meno.
Stavolta
fu lui a chinare il capo, fissando il suo bicchiere semivuoto senza
parlare. Di nuovo la sua mano corse al reattore in cerca di sicurezza
e si odiò per non riuscire a impedirselo. Sapeva che quel
gesto
turbava anche lei.
«È
ancora arrabbiata?» si decise
a chiedere quasi tra sé, dando voce a quella domanda
infantile che
gli premeva dentro da mesi.
«A
volte sì,» replicò
subito lei, di getto.
La vide mordersi il labbro inferiore, come
pentendosi di ciò che aveva appena detto, ma lui la
anticipò prima
che potesse aggiungere altro:
«Sarei
deluso se non lo fosse.»
Sollevò un angolo della bocca in un mezzo sorriso amaro e
colse il
suo sguardo incupito. Si
odiò per aver cancellato l'espressione serena di poco prima
dal suo
volto.
Fissò
di nuovo il bicchiere, scrutando il fondo appena ricoperto da uno
strato di clorofilla e percepì la ragnatela di palladio
chiudersi
sul suo petto, a ricordargli che non poteva fingere per sempre. Aveva
davvero il diritto di nasconderle di nuovo tutto? Sarebbe stato
così
facile non farlo.
"Pepper,
sto morendo."
«Deve
ammettere che mi sto impegnando, però,»
disse
invece,
reprimendo quelle parole pesanti come piombo mentre beveva
l'ultimo goccio di clorofilla.
«C'è margine di miglioramento, ma ammetto che ha
fatto molti
progressi,» puntualizzò lei, di nuovo spigliata.
Tony
poté giurare di scorgere un pizzico d'orgoglio nello sguardo
limpido
che gli rivolse, ma forse voleva solo illudersi per
compiacersi.
«Imparo in
fretta,» si vantò sornione, ignorando la fitta
molesta accanto al reattore che pareva voler commentare quelle parole.
Poggiò
il bicchiere al suo posto e si staccò dal minibar con
l'aiuto del
bastone per accostarsi al divano. Si sedette poi accanto a lei, come
sempre un po' goffamente, non così vicino da toccarla, ma
non
così
lontano da non percepire il suo calore. Pepper non si ritrasse, ma
tenne
lo sguardo fisso sul tablet, chiaramente impreparata a quella
situazione. Tony si posizionò col
capo reclinato in avanti come a fissarsi le punte dei piedi, mentre in realtà la osservava di
sfuggita da sotto le ciglia scure.
«Sono
bravo a riparare cose,»
affermò all'improvviso, voltandosi infine a guardarla con
un'ombra
giocosa sulle labbra. «Ma qua
mi serve il suo aiuto, signorina Potts,»
concluse, e si rallegrò nel vedere di aver di nuovo
incrinato la sua
maschera seria lasciando trapelare quel sorriso luminoso che amava.
Si rese conto solo in quel momento di quanto volesse davvero
quell'aiuto e di quanto sarebbe stato inutile chiederglielo.
«Sto
facendo del mio meglio, signor Stark.»
«Anch'io,»
mormorò lui, ma abbassò lo sguardo, incapace di
sostenere
il suo.
***
Le
feste trascorsero con una rapidità disarmante, tanto che
Tony si
stupì nel constatare che Natale fosse passato senza che se
ne fosse neanche
reso conto.
Alla
fine non era andato a trovare i suoi genitori. Sarebbe bastato
chiamare Happy e farsi portare fino al cimitero a Santa Monica, ma
aveva preferito rimanere chiuso in laboratorio per tutta la giornata
del 16 dicembre, accanendosi su un propulsore di volo della Mark IV
che probabilmente non avrebbe mai avuto occasione di testare dal
vivo.
Pepper
era partita dalla Vigilia fino al 28 in visita obbligata ai suoi, ma la
sua assenza gli era pesata meno di quanto avesse temuto, impegnato
com'era nei suoi vari progetti. Aveva accolto il suo ritorno con il
primo
regalo di Natale che le avesse fatto in quasi dieci anni, ovvero due
inviti esclusivi al Nightingale Plaza per l'evento
di
Capodanno: un chiaro incentivo a trascorrerlo fuori con chi avesse
voluto – reprimendo fitte di gelosia – piuttosto
che
farla sentire in dovere di rimanere con lui alla villa. La donna era
passata dall'incredulità totale alla pura gioia, per poi
cadere
in un deciso imbarazzo per essere invece a mani vuote, ma lui aveva
liquidato la questione con la sua consueta, spigliata fermezza e non
aveva ammesso repliche, pensando tra sé che anche solo il
fatto che
lei fosse ancora lì poteva considerarsi un regalo.
La
giornata di Capodanno era passato in volata e aveva preso una piega
decisamente imprevista quando Rhodey aveva fatto irruzione alla villa
appena pochi minuti prima di mezzanotte per brindare con lui,
trovandolo con suo grande stupore in laboratorio a trafficare coi
suoi congegni, come se fosse un giorno qualunque. Era
stato un gesto così inaspettato che per poco non avevano
perso il
countdown
alla frenetica
ricerca di una bottiglia di spumante. L'avevano
poi stappato in terrazza, sull'oceano, godendosi i fuochi d'artificio
sulla costiera californiana in compagnia di una videochiamata
inattesa da parte di Banner e Romanov, che per motivi non meglio
chiariti si erano ritrovati ad aspettare insieme il nuovo anno a
Times Square. Ciò aveva suscitato l'ilarità
irrefrenabile di Tony e
una raffica di battutine maliziose, interrotte solo dalla
provvidenziale chiamata d'auguri di Kyle, impegnato invece a
festeggiare con Ian e famiglia.
Pepper
li aveva raggiunti a sorpresa poco dopo, in combutta con Rhodey e
Happy, e Tony aveva rischiato di iniziare quel 2010 con un piacevole
infarto quando l'aveva vista fasciata nel vestito cobalto che le
aveva "regalato" per compleanno un paio d'anni prima; a malapena era
riuscita a salutarla e augurarle buon anno senza balbettare,
sentendosi insolitamente a disagio nella sua tenuta da casa
molto poco elegante. Per
fortuna Rhodey e Happy erano stati abbastanza alticci da ravvivare la
situazione per tutti fino al mattino, o avrebbe passato il tempo a
fissarla rapito senza riuscire a spiccicare parola. Si era invece
trovato a parlare in modo spensierato come non faceva da mesi,
ridacchiando un po' troppo e più disinibito del solito,
complice
quel goccio d'alcol che si era concesso e che gli aveva subito dato
alla testa dopo la lunga astinenza. Forse aveva detto un paio di cose
stupide – forse anche più
di un paio –,
ma Rhodey e Happy
ridevano, e Pepper rideva, e lui si sentiva bene e si era trovato a
desiderare che quella notte non finisse mai.
Non
ricordava il momento preciso in cui il sonno aveva avuto la meglio su
di lui, ma si era svegliato che il sole era già alto,
rannicchiato
sul divano con un plaid addosso e un thermos di caffè caldo
sul
tavolino che gli aveva fatto iniziare il nuovo anno con un sorriso. Nel
corso di quel primo gennaio si era spesso ritrovato a pensare che
forse quello era stato era stato uno dei migliori Capodanni che
ricordasse – anche meglio di Berna nel '99.
Poi,
il tempo aveva preso a rallentare fino a strisciare e trascinarsi per
terra a fatica, come intorpidito dal freddo e dalla quiete innaturale
del nuovo anno. L'unica
costante che aveva scandito quei brevi e uggiosi giorni invernali era
l'indice
di tossicità che si innalzava lento ma inesorabile, decimo
dopo
decimo, rendendolo sempre più fiacco. Non sapeva
perché continuasse a concentrarsi su Iron Man
quando
tutta la sua attenzione si sarebbe dovuta rivolgere al problema del
palladio, ma ogni volta che si sedeva alla scrivania con l'intenzione
di farlo si ritrovava puntualmente a scarabocchiare schizzi di
armature su armature. Si convinceva che fossero utili per migliorare
la sua grafia con la sinistra e per calibrare la protesi, mentre in
realtà voleva solo perdercisi e fingere di poter davvero
tornare a
indossarla, come se quel metallo potesse proteggerlo da ciò
che lo stava corrodendo dall'interno. Sognava
costantemente di volare e spesso si svegliava con l'impressione di
cadere, colto da forti vertigini alle quali non voleva trovare una
spiegazione medica.
La
mattina del 4 gennaio 2010, alla vigilia del suo incidente, si
ritrovò a fissare con sguardo vacuo i pixel verdognoli del
29% che
mutavano nel rosso acceso e definitivo del 30%.
Ripose
il rilevatore di tossicità e si poggiò al
lavandino con entrambe le
braccia, facendo leva sui bordi nel sentirsi improvvisamente debole. Si
guardò allo specchio,
riconoscendo sul suo volto i ben noti segni della stanchezza,
accentuati dall'intossicazione: il suo occhio arrossato e spento, le
occhiaie violacee, le rughe più numerose e profonde e le
guance così
smunte da ricordargli se stesso appena tornato dall'Afghanistan. Fino
all'anno prima avrebbe probabilmente intravisto nei propri lineamenti
anche i segni di una rabbia incontenibile. Magari si sarebbe trovato
a infrangere di nuovo quel maledetto specchio odiando il proprio
riflesso, avrebbe finito per farsi male e sarebbe precipitato di
nuovo nel flusso di autodistruzione che l'aveva portato a strapparsi
il reattore dal petto.
Adesso
provava solo un senso di sorda accettazione, un constatare pacato di
ciò che stava avvenendo, ma il desiderio di accelerare quel
processo
era svanito. Gli sembrava di osservarsi dall'esterno e avrebbe quasi
potuto convincersi che il tutto stesse accadendo a qualcun altro, non
fosse stato per i segnali inequivocabili che il suo corpo continuava
a inviargli. Avrebbe solo voluto sentirsi meglio e liberarsi della
nausea continua, dei crampi sempre più frequenti, dei mal di
testa
atroci che lo tormentavano per giorni interi annebbiandogli la mente,
di quel senso di fiacchezza costante contro il quale combatteva ogni
mattina, quando si forzava ad alzarsi per non passare la giornata a
letto lasciandosi vincere dalla propria debolezza.
Fissò
la luce azzurrina che gli scaturiva dal petto, tracciando esitante la
circonferenza metallica del reattore con il pollice. Insinuò
poi
la mano sotto la maglietta e strinse la presa sul congegno; lo
ruotò
appena fino a sentire un click e lo
sfilò delicatamente dal
supporto, sentendo all'istante un profondo vuoto al centro del petto,
così forte che avrebbe potuto risucchiarlo. Si
affrettò a
sostituire con mani tremanti il nucleo di palladio esaurito e a
inserire nuovamente la
propria fonte di vita al suo posto, con uno scatto rassicurante che
gli riempì i polmoni d'aria pura. Riprese a respirare.
Quell'operazione
lo nauseava. La
prima volta che era stato costretto a compierla subito dopo il
tentato suicidio si era trovato avvinghiato al gabinetto per arginare
i conati, al vivido ricordo del senso di soffocamento che l'aveva
assalito nel trovarsi sul ciglio della morte. Si era sentito di nuovo
come se stesse annegando coi polmoni pieni d'acqua salata e anche
adesso percepiva un tenue retrogusto salmastro sulla lingua.
Deglutì,
sentendosi invece la gola completamente secca e un velo di sudore
freddo che gli imperlava la fronte. Come sempre, ripensare a quei
momenti accelerava il suo battito e gli causava una stretta alla
bocca dello stomaco, come una mano pronta a rivoltarlo;
ringraziò la
sua inappetenza per non aver ancora toccato cibo.
Era
assurdo come a spaventarlo fosse più il ricordo del proprio
suicidio
fallito piuttosto che la consapevolezza di stare morendo a poco a
poco. Scosse
la testa confuso dai suoi stessi ragionamenti, e distolse lo sguardo
dallo specchio faticando a concentrarsi. Gli sembrava di avere del
piombo nel cervello, e forse non era un'impressione così
lontana
dalla realtà. Era
stanco, lo percepiva in ogni osso e fibra spossata del proprio corpo
e in ogni neurone e sinapsi che si attivavano frenetici alla ricerca
di una via d'uscita, ma non poteva
cedere di nuovo. Un senso di
impellenza lo rianimò e minacciò poi di
sopraffarlo quando la mole
di ciò a cui andava incontro gli si delineò
davanti.
Stava morendo, aveva vissuto
una vita incompleta e doveva ancora decidere quali porte chiudere
dietro di sé, quali lasciare aperte e quali avrebbe invece
dovuto
aprire prima che fosse troppo tardi.
Riportò
lo sguardo al suo riflesso e lo trovò determinato,
nonostante tutto
lo smarrimento e la paura che portavano disordine tra i i suoi
pensieri. Doveva
sfruttare al meglio quel tempo – chissà quanto,
poi – che ancora
gli rimaneva, pensare a cosa voleva lasciare dietro di
sé.
Il
retaggio, così lo chiamava suo padre.
Doveva pensare a quale
sarebbe stato il suo retaggio, a cosa poteva fare per non considerare
sprecata la sua vita, diventata adesso così breve.
Ma
prima doveva pensare a quelle porte che incombevano dietro di lui,
già pronte a serrarsi o spalancarsi in attesa di una sua
decisione.
***
10
Gennaio, 18:40, Villa Stark
Era
stata una giornata lenta e oziosa.
Tony
aveva lavorato svogliatamente in salotto per tutto il pomeriggio,
dopo aver spostato un tavolino di fronte alla vetrata così
da poter
spaziare con lo sguardo sul mare grigio e invernale. Passava
più
tempo a fissare le onde che i fogli di carta e le schermate attorno a
lui. Pepper lavorava sul divano alle sue spalle, seduta nel suo
angolo preferito con le ginocchia ripiegate come appoggio per il
tablet e il plaid gettato sulle spalle, nonostante il caminetto
scoppiettasse vivacemente. Di tanto in tanto, uno dei due si voltava a
guardare l'altro, trovandolo assorto nelle sue faccende a capo chino.
Pepper
si era stupita di fronte a quella situazione anomala, ma anche
inspiegabilmente intima. Tony non era solito lavorare al di fuori del
suo laboratorio: aveva sempre detto che altrove non riusciva a
concentrarsi al meglio e che quando pensava aveva bisogno di stare
solo, al riparo da qualunque distrazione che non fosse la sua musica
assordante. Ultimamente
era di nuovo taciturno, ma a quello aveva iniziato a fare
l'abitudine, anche se a volte si trovava a rimpiangere la sua
parlantina sfacciata e spiritosa che adesso tornava a fare capolino
solo quando era più rilassato – o un po' brillo,
come quel
Capodanno.
Pepper si scoprì a sorridere appena: aveva preso
a
custodire gelosamente il ricordo di quel breve sprazzo di spontanea
allegria e serenità che aveva riacceso per una serata il
volto
dell'uomo, altrimenti sempre ombroso e segnato da linee rigide che si
nascondevano anche nei suoi sorrisi. Non
riusciva a decifrare l'aura di tensione che Tony aveva preso a
irradiare nel corso dell'ultimo mese, ed era poco convinta dalle sue
spiegazioni vaghe ed evasive, comunque più rassicuranti
della
facciata di spavalda indifferenza che sembrava aver definitivamente
abbandonato. Lei
stessa era restia a far breccia in quel guscio fragile che riusciva
appena a intravedere: avrebbe voluto che fosse lui ad abbatterlo ed
era convinta che ci stesse lavorando come aveva promesso, sebbene coi
suoi tempi.
Pepper
voltò il capo a fissare la sua schiena, avvolta da una felpa
bordò
a collo alto che aveva sempre affermato di odiare e che stonava
decisamente coi suoi ormai abituali pantaloncini da basket, che
indossava a dispetto del freddo per agevolare i movimenti della
protesi. Dalla sua
postura, con la guancia appoggiata alla mano meccanica e la testa
appena reclinata di lato, sembrava di nuovo immerso nei suoi
pensieri, come se si stesse sforzando di trasporli sulla vetrata
assieme alle schermate olografiche così da potervi fare
ordine. Sul
vetro scorgeva appena il suo riflesso traslucido, che sembrava
sospeso sulla coltre di nubi da cui filtrava il riverbero livido del
tramonto.
Tony
incrociò il suo sguardo nel riflesso e si riscosse,
rivolgendole un
lieve sorriso che lei ricambiò titubante, imbarazzata per
essersi
fatta sorprendere ad osservarlo. L'uomo si voltò con
studiata
lentezza verso di lei, sedendosi di traverso sulla sedia in una posa
disinvolta, esibendo un sorrisetto sornione ed esageratamente
languido.
«A
quanto pare catturo la sua attenzione anche senza volerlo, signorina
Potts,» la stuzzicò con voce
vellutata e bassa, facendole subito assumere l'espressione
indifferente ma segretamente divertita che aveva sempre riservato
alle sue innumerevoli avances.
Poteva anche essere rimasto sfigurato, ma non aveva perso neanche un
briciolo del suo innato fascino.
«È
il suo ego a crederlo, come sempre,»
gli fece notare senza scomporsi.
«Il
mio ego raramente ha torto,»
ribatté lui, nel tentativo di conquistare l'ultima parola,
cosa che
Pepper non aveva alcuna intenzione di concedergli.
«Il
suo ego ha sempre avuto urgente bisogno di essere
ridimensionato.»
«Potrei
farci un pensierino, dopotutto non c'è nulla che debba compensare,»
sogghignò appena e Pepper alzò teatralmente gli
occhi al cielo,
decidendosi a tornare ad occuparsi dei suoi fascicoli, ma
continuò a
guardarlo di sottecchi.
Mentra
parlavano Tony l'aveva fissata con una strana intensità, e
si rese
conto che anche adesso il suo sguardo sembrava più assorto e
vivo
del solito, come se volesse riempirlo appieno di tutto ciò
che
vedeva. Sentì una stretta allo stomaco che non
riuscì a spiegarsi
se non dopo qualche istante, e fu come se qualcuno le avesse
rovesciato addosso un secchio d'acqua ghiacciata.
Era
quello sguardo.
Il
ricordo di un quadro rotto, di parole stanche e incomprensibili e di
una notte insonne si ripresentò con prepotenza davanti ai
suoi occhi
e nelle sue orecchie.
"Sei
bellissima."
E
poi, a un soffio, tutto ciò che era accaduto dopo.
Fu
costretta a respirare a fondo per riprendere la calma, e si rese
conto in ritardo che Tony le aveva parlato nel frattempo.
Sollevò un
po' bruscamente la testa, tornando a fissarlo, ma stavolta nella sua
iride nocciola scorse solo la consueta tinta giocosa.
«Come,
scusi?» quasi balbettò,
sentendosi immensamente sollevata dalla scomparsa di
quell'espressione troppo intensa dal suo volto.
Lui
liberò un risolino leggero nel vedere la sua aria assente.
«Ma
come, le faccio addirittura quest'effetto?»
la canzonò, facendo sì che le sue guance
virassero su una sfumatura
di rosso più accesa. «Ho
detto: mi lascia davvero vincere così?»
si decise a ripetere alla fine, con una nota di finto rimprovero
nella voce morbida.
Pepper
forzò un sorriso sul suo volto, capendo che si riferiva al
battibecco troncato su quello che lui considerava probabilmente il
più bello.
«Sono
fuori allenamento,» confessò
sbrigativa, e si pentì di quelle parole nel vedere il modo
in cui
lui si ritrasse appena, convinto di aver mosso un passo falso.
«Touché,»
ammise semplicemente, e un'ombra di quello sguardo
balenò per
un istante sul suo volto, prima di tornare alla sua solita
disinvoltura.
Rimase
immobile per un po', abbandonato mollemente sulla sedia come intento
a raccogliere i propri pensieri; portò la mano sulla benda,
a coprire del tutto lo
sfregio sul viso con fare assente. Pepper strinse nervosa le labbra,
sentendosi in colpa per aver guastato uno dei rari momenti in cui il
vero Tony sembrava trovare il coraggio di riemergere.
«Piuttosto,
stavo pensando...» esordì lui repentinamente,
afferrando il bastone e alzandosi per avvicinarsi.
Si
chinò in avanti poggiando gli avambracci sullo schienale del
divano, e
sbirciò i documenti che Pepper stava visionando. Nel farlo
portò la
testa all'altezza della sua, mentre si sporgeva per leggere e
scorrere i vari fogli sparsi qua e là. Lei quasi
sobbalzò a
quell'improvvisa vicinanza, che portava con sé il suo odore
misto a
una traccia di mentolo e dopobarba; non si ritrasse, ma prese a
respirare
appena.
«Ah,
ecco,» Tony puntò infine
l'indice meccanico sull'intestazione di un contratto e sfilò
con impaccio il
foglio dal dossier, «Il parco
eolico: credo sia una buona idea e un ottimo investimento, ho
già
dato direttive di stanziare i fondi. Devo solo firmare questo,
giusto?» si voltò verso di
lei interrogativo, e solo allora sembrò rendersi conto della
propria
posizione, perché si sollevò appena sui gomiti
per recuperare
distanza tra loro.
Pepper
lo fissò con l'aria di chi ha appena visto materializzarsi
una tigre
parlante in salotto, o qualcosa di egualmente assurdo e
inimmaginabile.
«Lei
ha controllato personalmente l'agenda delle Stark
Industries?»
riuscì a formulare dopo qualche secondo di attonito silenzio.
Tony
corrugò appena le sopracciglia, perplesso da quella reazione.
«Sì,
e allora?»
«Niente.
È solo... insolito.»
«Ero
curioso.»
«Curioso?»
A
quel punto alla sua espressione un po' accigliata si unì un
mezzo
sorriso forzato:
«Da
quando non posso interessarmi della mia
azienda?»
disse a metà tra il piccato e il divertito eludendo
rapidamente il
suo sguardo, cosa che non sfuggì a Pepper.
«Tony,
deve dirmi qualcosa?» si
decise a chiedere con cautela.
C'erano
solo due motivi che potevano spingere Tony Stark anche solo ad
avvicinarsi alla burocrazia e al lavoro aziendale: o era impazzito
del tutto, o voleva ingraziarsela per avanzare proposte o richieste
assolutamente fuori luogo e inappropriate.
«In
realtà sì, ma non c'entra con questo.
Cioè, non direttamente,»
rispose lui dopo una lieve esitazione, giungendo le mani davanti a
sé.
Portò
le dita davanti alle labbra in una posa riflessiva e si
schiarì un
poco la gola.
«Il fatto è...» cominciò
ancora.
Si bloccò come cercando le parole giuste, cosa
assolutamente inusuale per lui, che sembrava sempre sapere cosa dire
e come dirlo.
«Stavo pensando
di riorganizzare la Stark Expo,»
disse infine, quasi precipitosamente.
A
Pepper quasi cadde la mandibola per lo stupore, ma prima che potesse
formulare qualsiasi obiezione o commento in proposito fu bloccata
dalla voce decisa di Tony:
«È
solo un'idea. Ci sto ancora riflettendo, anche se in
teoria ho
già pianificato il tutto a grandi linee. I fondi ci sono, ma
ho
pensato che nel frattempo fosse saggio accettare tutto il supporto
che riusciamo a trovare. E ci serve uno sponsor per l'energia
pulita,» accennò rapido al
contratto.
Pepper
riuscì a ricomporsi a fatica, in uno sfoggio di
autocontrollo
notevole:
«È
un'idea... immensa. Non dico che sia una cattiva
idea, ma,
insomma, richiederà un'enormità di preparativi
e...»
«Per
questo sto chiedendo il suo aiuto,»
la interruppe Tony con vivacità quasi eccessiva, sorridendo
furbetto. «Il
progetto è a buon punto, ma non ho tem–...
cioè, mi serve ancora
un po' di tempo
per perfezionare il tutto. Volevo solo che lo
sapesse,» concluse con
leggerezza. «Anche se mi farebbe
piacere riuscire a completare i preparativi entro sei mesi.
Preferibilmente prima,» aggiunse, evitando di nuovo il suo
sguardo.
Pepper
lo scrutò intensamente, alla ricerca di qualsiasi traccia di
sarcasmo o scherzosità, ma non ne trovò. Sentiva
che le stava
sfuggendo qualcosa, ma non riusciva a focalizzare cosa e ciò
la
intimoriva e preoccupava. Non capire Tony voleva dire non poter
prevedere le sue azioni, e ciò poteva rivelarsi estremamente
rischioso. Decise di non sbilanciarsi finché non avesse
intuito dove
voleva andare a parare con quella mossa inattesa.
«Va
bene, quando vorrà ne discuteremo meglio,»
concordò imponendo fermezza alla sua voce, e le
sembrò che Tony si
illuminasse a quelle parole, come se si fosse aspettato di incontrare
molta più resistenza da parte sua.
«Perfetto,
allora domani le faccio vedere i progetti, e mi dirà se sono
fattibili dal punto di vista organizzativo,»
stabilì allegro.
Non
diede cenno di volersi allontanare, e Pepper ebbe l'impressione che
fosse sul punto di aggiungere qualcos'altro. Scoccò
un'occhiata
nervosa e improvvisamente consapevole all'orologio da polso,
rendendosi conto di quanto fosse tardi e convicendosi di stare
abusando dell'ospitalità di Tony, anche se a lui
probabilmente non
importava, anzi.
«Va
bene, però adesso sarà meglio che
vada,»
annunciò con tono di scuse, radunando i documenti e le
cartelle
sparsi un po' ovunque sui cuscini.
Lui
trasalì a quelle parole, come se l'avessero colto
sovrappensiero, e
la guardò stupito mentre finiva di riordinare.
«Di
già?» riuscì a chiedere, in modo un po'
infantile.
Pepper
gli rivolse un'occhiata paziente:
«Sono
quasi le sette, ed è stata una giornata pesante,»
spiegò concisa, alzandosi e imbracciando la borsa,
già diretta
all'uscita.
Voleva
allontanarsi da quello sguardo di nuovo torbido, da quelle parole
estranee che ne lasciavano intuire altre indecifrabili, dalla
consapevolezza che le stesse sfuggendo qualcosa e che quel qualcosa
fosse fondamentale. E non voleva soffermarsi a riflettere su
ciò che
era accaduto l'ultima volta che le era sfuggito qualcosa riguardante
Tony. In quel momento desiderava solo uscire dalla villa nell'aria
fredda e pulita, sperando che la aiutasse a dissipare il velo
d'insensata inquietudine che le era scivolato addosso.
«Domattina
discuteremo meglio del contratto e della Expo,»
aggiunse a mo' di saluto, con un sorriso cordiale.
Tony
annuì, ancora chino sul divano. Abbassò appena il
capo con aria
meditabonda, per poi rialzarlo di scatto come se avesse finalmente
preso una decisione:
«Posso
chiederle di rimanere a cena?»
***
Pepper
si bloccò tra l'atrio e il salotto, la mano a mezz'aria nel
gesto di
recuperare la sua giacca, evidentemente presa in contropiede dal suo
invito. Tony non distolse lo sguardo, ma si sentì il cuore
in gola e
si chiese cosa diavolo gli fosse passato per la testa.
"Bravo,
Tony. Alla faccia dell'approccio discreto."
«Signor
Stark...» cominciò
prevedibilmente lei, titubante e in vago tono di rimprovero, al che
Tony corse ai ripari sfoggiando un'espressione disinvolta che non
sentiva sua.
Si
staccò dal divano, passandosi il bastone da una mano
all'altra come
un prestigiatore intento a preparare il suo prossimo trucco –
o, in
quel caso, a porre rimedio a un trucco appena fallito.
«Non
si preoccupi, non sarà nulla di esagerato: pensavo a una
pizza a
portar via e...»
«Non
credo sia una buona idea.»
Tony
ammutolì per qualche istante, spiazzato dall'improvvisa
severità
nel tono della donna.
«Andiamo,
Pepper, le sto solo chiedendo di rimanere a cena, la mia proposta non
cela nient'altro... anche perché al momento non sarei fisicamente
in grado di fare altro,»
aggiunse in tono eccessivamente scherzoso, per nascondere la delusione
alla risposta fredda della donna.
«Signor
Stark,» calcò quelle
parole con particolare intensità, «la ringrazio
per
l'offerta, ma sento di doverla rifiutare.»
«Perché?»
proruppe lui frustrato, lasciando cadere la sua maschera gioviale.
Pepper
sembrò spaesata a quella semplice domanda e perse per un
attimo la
sua compostezza, lasciando trasparire tutta l'indecisione che
nascondeva. Durò un istante, ma non gli sfuggì,
ormai allenato da
anni a riconoscere ogni sfumatura emotiva della sua composta
assistente.
«Penso
che sia ancora troppo presto.»
«Troppo
presto per cosa? Per mangiare una pizza insieme e
discutere di
parchi eolici ed Expo?» e
allargò appena le braccia per dare enfasi a quella domanda
assurda,
sentendosi però torcere le viscere al pensiero che lei fosse
così
turbata da quell'invito.
Non
era abituato a vedersi rifiutare da una donna, ma in quel caso non si
trattava neanche di quel tipo di invito. Voleva
semplicemente
parlarle. Solo parlarle.
"Pepper,
sto morendo."
Quelle
parole quasi gli scapparono di bocca.
Non
aveva spazio per pensare ad altro. Il suo stomaco si
attorcigliò
ancora a contraddirlo, a fargli notare che avrebbe voluto con
tutto se stesso che ci fosse spazio per altro, oltre a quello. Forse
c'era stato, realizzò, ma ormai era tardi per pensarci.
«È
troppo...»
Pepper lo
riscosse, ma s'interruppe di colpo e si strinse la radice del naso
tra le dita come a voler ritrovare la calma, per poi fare un gesto
secco con la mano, a scacciare la sua reticenza.
«È
troppo presto per me. Non riesco ancora a fare
finta che non
sia successo niente. Sto cercando di perdonarla in ogni modo... e in
parte ci sto riuscendo e so
che anche lei ce la sta mettendo tutta
per migliorare. Sono contenta di essere di nuovo qui con lei. Ma ogni
volta che vedo quello...»
additò la fioca luce del reattore al centro del suo petto e
inspirò
bruscamente, interrompedosi. «Lo
sa a cosa penso. E non posso farci niente.»
Tony
lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi e si
poggiò di peso al
bastone, sentendosi come se una stoccata l'avesse colpito proprio in
pieno petto quando la donna l'aveva indicato.
«Bene.
Questo mi risparmia di introdurle l'argomento della serata,»
si trovò a dire piattamente, senza riuscire a frenarsi.
Vide
la confusione affiorare sul volto di Pepper e seppe che non sarebbe
riuscito a resistere ancora a lungo prima di cedere al flusso di
parole che sentiva premere dentro di sé. Ma voleva vivere
ancora una
parentesi di normalità prima che ciò avvenisse,
prima di permettere
al mondo di sbriciolarsi sotto ai suoi piedi appena riconquistati.
«Quale
argomento?» la voce di Pepper
tremò appena, realizzando l'improvvisa gravità di
Tony e il ritorno
di quello sguardo profondo e cupo che detestava.
«Volevo
parlarle. Seriamente. Non sono bravo in queste cose, quindi pensavo
che una situazione... informale mi avrebbe
facilitato.»
«Se
c'è qualcosa che deve dirmi perché non lo fa e
basta?»
Tony
colse l'urgenza del suo tono, inaspettata. L'urgenza di chi
è
disposto a mettere tutto il resto in secondo piano di fronte a un
problema più grande, ignorando qualsiasi futile questione in
sospeso. Seppe
in quel momento che, sotto tutta la sua delusione e il suo distacco,
Pepper non aveva mai, neanche per un istante, smesso di preoccuparsi
per lui, e forse anche di volergli bene, nonostante il modo orribile
in cui si era comportato con lei. Quella consapevolezza
affondò con
un peso spiacevole nel suo petto assieme a tutte le altre cose, reali
e non, che lo opprimevano.
«È
complicato. Probabilmente sarà difficile parlarne.
È il genere di
argomento che si affronta meglio a stomaco pieno,»
cercò di sdrammatizzare, ma lo sguardo di Pepper
raggelò il sorriso
che aveva tentato di formare.
«Quanto
devo preoccuparmi?»
"Pepper,
sto morendo."
Trasse
un lungo sospiro, capendo che tutti i suoi buoni propositi di passare
una serata serena e piacevole per prepararsi a dirle ciò che
doveva
erano appena saltati.
«Ho
detto che voglio riparare ciò che ho rotto. Forse
però dovrò prima
romperlo un po' di più, e non sono sicuro che dopo
potrò ancora
raccogliere e rimettere insieme i cocci e...»
«Tony,
la prego, non è così
che...»
«Non
mi importa, se non è così
che dovrei fare!»
proruppe lui a voce alta, sentendo improvvisamente il sangue che
prendeva a rombargli nelle orecchie.
Pepper
trasalì appena.
«Sto
cercando di migliorare a modo mio; se lei non me lo
permette e
vuole che lo faccia a modo suo, non ce la
farò mai!»
Si sarebbe strappato la lingua per la propria veemenza, ma si
trovò a
continuare ancora, tagliente e alterato:
«Tutto
ciò che le stavo chiedendo era un momento, un solo
momento di
tregua per parlare!»
Pepper
gli rivolse uno sguardo incredulo e colpevole, e fu come se fossero
tornati a un giorno di quasi un anno prima, in una cucina ancora
integra, per poco, con una brocca schiantata per terra e una domanda
lasciata in sospeso che aleggiava tra loro. Stavolta
però non diede voce agli altri pensieri crudeli che
lottavano per
emergere. Li ricacciò indietro e si limitò a
fissarla smarrito e
affannato, sentendosi semplicemente esausto e sul punto di soccombere
al dolore al petto.
Fu
colto da un improvviso giramento di testa e barcollò
all'indietro,
trovando l'appoggio del divano sul quale si lasciò cadere
di peso.
Portò la mano alla fronte trovandola bollente al tatto, e si
chinò
a nascondere il volto col gomito poggiato sul ginocchio, avvertendo
il cuore in preda alle palpitazioni. Portò una mano al
petto,
accanto al reattore, stringendo la stoffa della felpa come a domare
quel battito impazzito. Riconosceva quei sintomi, adesso erano
solo più accentuati a causa della sua agitazione, e
lottò per
riprendere controllo del proprio corpo imbizzarrito.
Sentì
montare una frustrazione mista a quella che identificò come
paura,
semplice e cruda, che iniziò subito a premere ferocemente
contro la
sua gola e il suo occhio chiedendo solo di strabordare. Gli si
appannò la vista e si immobilizzò per evitare che
le lacrime
traboccassero. Aveva
rovinato tutto, come sempre. Non era così che doveva andare.
Non
voleva rimanere di nuovo solo, non adesso.
Sentì
un ticchettio di tacchi avvicinarsi, poi percepì la
figura esile
di Pepper che si sedeva accanto a lui in silenzio, in attesa. Non
osò
alzare
la testa sconvolta dal sollievo di saperla ancora lì
finché la sua
visione non fu di nuovo ben asciutta e nitida. Schiacciò
il palmo sulla fronte, come a spremerne fuori i pensieri venefici che
la occludevano. Avrebbe dovuto dire qualcosa, scusarsi, ma non
riusceva nemmeno a schiudere le labbra tirate.
«Mi
dispiace.»
Pepper anticipò
le parole che avrebbe dovuto pronunciare lui e sentì il nodo
alla
gola sciogliersi appena.
«Ho
esagerato,» concluse
in un bisbiglio costernato.
Lui
riuscì a sollevare lo sguardo verso i suoi occhi chiari e se
ne
sentì trapassare.
«No,
hai ragione,» dichiarò,
lasciando cadere le formalità. «Così
non risolvo nulla.»
Deglutì
a vuoto: non avrebbe comunque risolto nulla mandando avanti quella
farsa patetica. Prese
a tormentare la zip della felpa, chiusa fin sotto il mento per
celare l'intrico plumbeo che da qualche giorno aveva iniziato a
risalire il collo.
«Vuoi
ancora dirmi cosa succede?»
gli chiese lei dopo molti, lunghi secondi.
Dal
suo tono gentile e venato di apprensione capì che avrebbe
anche
potuto ritrarsi e lei l'avrebbe accettato, come aveva provato ad
accettare tutto ciò che aveva commesso nel corso quell'anno.
Avrebbe cercato
di capirlo, avrebbe aspettato e aspettato ancora, mossa da una pazienza
e una perseveranza per lui
inconcepibili verso qualcuno che si rivelava puntualmente una
delusione. Trovò l'idea insopportabile e si trovò
ad annuire appena
in risposta, con la testa pesante, oppressa dal peso delle sue stesse
bugie. Percepiva
la tensione di Pepper al suo fianco e si sentì in colpa per
quello
che le stava facendo penare. Sarebbe stato così semplice
ignorare
tutto e fingere fino all'inevitabile. Ma aveva promesso a se stesso e
agli altri di essere migliore di così.
Il
silenzio si protrasse e sapeva che, prima o poi, avrebbe dovuto
romperlo lui. Sapeva già come. Che senso aveva girarci
intorno? Che
senso aveva addolcire la pillola? Quelle
parole gli ronzavano in testa come api insistenti da settimane,
fastidiose e sempre più pungenti e bizzose, col rischio di
sfuggirgli in ogni istante.
Trasse
un respiro profondo e con esso le liberò, vibranti e
spigolose:
«Pepper,
sto morendo.»
Fu
poco più di un sussurro, ma sembrò echeggiare nel
salone come un
rombo temporalesco. Chiuse brevemente l'occhio per poi costringersi a
riaprirlo e rivolgersi verso di lei. La trovò impietrita,
con lo
sguardo vacuo e sgomento che sembrava passargli attraverso.
«Cosa?»
riuscì infine ad articolare con voce sottile, nel chiaro
tentativo
di raccapezzarsi, con la flebile speranza di aver capito male.
«Non
volevo dirtelo così.»
Fu l'unica risposta che lasciò le sue labbra, colorata da
una punta
di risentimento che avrebbe voluto estirpare. La
vide sbiancare fino a diventare cerea, come se qualcuno avesse
risucchiato
ogni pigmento dal suo volto, ora chiazzato solo dal tenue arancio
delle sue efelidi.
«Come...»
non sembrò in grado di aggiungere altro, così
Tony raccolse
le sue forze per ricomporsi e rimanere lucido:
«Il
palladio mi sta intossicando,»
disse, stavolta con voce chiara, benché bassa.
Esitò,
per poi aprire la zip della felpa e scostare appena il colletto della
maglia sottostante, rivelandole una porzione del reticolo bluastro
che gli attraversava il torace, il tutto senza osare guardarla in
faccia. Colse i suoi occhi che si sgranavano a quella vista.
Sperò
che bastasse. Non avrebbe avuto senso aggiungere parole vuote ad
altre parole vuote.
Lasciò
il colletto e tirò nuovamente su la zip con un gesto secco;
la
stoffa tornò a celare il groviglio venefico. Si
chinò in avanti
incrociando le braccia sul petto, con le mani a stringersi le spalle in
un'ulteriore protezione. Sbirciò in direzione di Pepper e la
vide
scuotere appena la testa ad occhi sbarrati, sotto shock e sempre
più
pallida.
Non
aveva pensato a cosa avrebbe fatto dopo. Aveva pianificato il prima e
il come, che erano ovviamente andati a rotoli. Aveva pensato per
giorni a come liberarsi del macigno che gli premeva nel petto. Non si
era assolutamente preparato a fronteggiare la sua reazione e aveva
evitato in tutti i modi di immaginarla, spinto dal solo, egoistico
pensiero di volersi liberare di quel peso al più presto
prima che lo
schiacciasse.
«Da
quanto?» le parole di Pepper
ruppero il silenzio, inaspettatamente fredde.
«Da
quando mi hanno impiantato il...»
«Da
quanto lo sai?» scandì lei
in tono vibrante.
Si
voltò a guardarla e vide l'azzurro dei suoi occhi farsi duro
come
ghiaccio. Gli mancò l'aria nei polmoni.
«È
stato il motivo per cui ho tentato di...»
Strinse i denti nel sentire la sua voce che si incrinava,
rifiutandosi di formare quelle parole, ma sapeva che non ce n'era
bisogno: la mano che era corsa al reattore l'aveva tradito.
Il
volto di Pepper si fece livido.
«Non
il solo motivo,» si corresse lui,
rendendosi conto di suonare patetico. «Uno
dei tanti, ma... ma questo è inevitabile. Dopo che ho
tentato di...
dopo l'intossicazione è migliorata, e
credevo di poter trovare
una soluzione. Non ci sono riuscito.»
concluse in un mormorio appena udibile.
Pepper
giunse le mani davanti al volto e la sentì respirare
profondamente,
non seppe se per placare la rabbia o qualche altra emozione che non
le aveva mai visto provare. Non osò avvicinarsi,
né toccarla, né
parlarle, anche se non avrebbe voluto far altro che stringerla a
sé,
pur sapendo che l'avrebbe sicuramente respinto. Rimase immobile e
rigido, più simile a una statua di sale e sentendosi come se
il suo
corpo
fosse sul punto di spezzarsi di netto. Voleva
solo chiudersi di nuovo nel suo guscio, isolarsi da tutto e tutti,
anche se tutto se stesso gli gridava di non voler morire da solo.
«Tutte
quelle chiacchiere su sincerità e fiducia... e non me l'hai
detto.»
Tony
si sentì accartocciare il cuore nel sentire la delusione di
cui
erano intrise le sue parole.
«La
situazione sembrava sotto controllo,»
ribatté debolmente.
«Sotto
controllo?» il tono di Pepper
s'innalzò di un'ottava, divenendo stridula in quella che
sembrava
una morsa di panico e Tony poté finalmente vedere i suoi
occhi
tremolanti.
La
donna si alzò di scatto, come se non potesse sopportare di
stare accanto a lui
per un secondo di più.
«Hai
cercato di ucciderti per questo e hai il coraggio di dire che
era tutto sotto controllo?»
riprese il comando della propria voce, ma lo sforzo per mantenerla
bassa e ferma era tale da farla tornare rossa in volto. «Quanto
puoi essere egoista?»
A
quelle parole il volto di Tony si inasprì, solcato di
risentimento.
«Egoista?»
respirò a fondo dal naso per calmarsi, sentendo il cuore che
tornava a pompare in un ritmo irregolare e doloroso. «L'ho
fatto solo per non causare altri problemi,»
sibilò.
«Cosa,
esattamente? Tentare di ucciderti o non dirmi che stai
morendo?»
Pepper
piantò gli occhi nel suo e lui vacillò, spiazzato
da quella domanda,
ritrovandosi nella ben nota situazione di non sapere dove puntare il
suo sguardo, finché qualcosa non scattò in lui e
la sua unica iride
nocciola si fissò con decisione in una di quelle cerulee di
Pepper.
«Non
ho intenzione di giustificare il mio tentato suicidio; non posso
né
ho mai voluto farlo.» Sentiva la
sua voce fremere nel realizzare quanto la persona che
avrebbe dovuto capirlo più di tutte lo avesse frainteso e
ciò lo
colpì più duramente di qualsiasi condanna a
morte.
«Pensavo
che almeno questo l'avessi capito,»
concluse voltando la testa senza celare il suo sdegno, e la vide
trasalire appena.
Si umettò le labbra, senza sapere perché si
sentisse così insensatamente arrabbiato, né
perché quella rabbia si stesse convertendo in un dolore
acuto che sembrava permeare il suo intero corpo.
«Non
ti ho detto nulla del palladio perché non volevo darti altre
preoccupazioni. Te ne ho già date abbastanza e pensavo che
almeno stavolta
sarei riuscito a
cavarmela da solo, ma...» la sua voce si spense e
lasciò in sospeso
il resto di una frase inutile senza che potesse impedirselo.
Si
sentiva improvvisamente spossato. Non gli importava più
della
reazione di Pepper, né del palladio, né di Iron
Man. Avrebbe solo
voluto dormire, risvegliarsi e avere una soluzione in mano. Quasi gli
venne da ridere a quel desiderio così infantile.
Pepper
continuava a tacere, rigidamente in piedi, come se non si sentisse
realmente lì. Non osò guardarla. Era giusto che
lo accusasse, ed era anche giusto che non sapesse come reagire a
quell'ennesima mancanza da parte sua.
«Sono
stanco,» mormorò infine. «Da
mesi faccio progressi che non mi porteranno da nessuna
parte.»
Sollevò mollemente il braccio meccanico, soffermandosi a
contemplarne la placcatura rifinita. Ammirò
la cura che aveva instillato in ogni dettaglio della mano, la
precisione maniacale con cui aveva riprodotto le linee del palmo, le
sottili scanalature che aveva tracciato per adattarla un giorno
all'armatura. Riconobbe la stessa dedizione che suo padre aveva
riversato in quel plastico della Expo, nella speranza che diventasse
qualcosa di buono per tutti e non solo per se stesso. Qualcosa in cui
credere, una ragione di vita, un qualcosa all'altezza di quell'unica
cosa
giusta mai realizzata.
Pensò
alle ore trascorse in laboratorio, ai collaudi, alle notti insonni e
alle crisi di rabbia e frustrazione, ai suoi errori, a tutto
ciò che
aveva rifiutato e accettato di se stesso in quell'anno, alle cadute,
alle mani tese che aveva accolto, alla gioia di potersi ergere
nuovamente sulle sue gambe, alla stima che aveva riconquistato con
ogni goccia di sudore versata per migliorarsi.
«Se
non trovo un'alternativa al palladio la mia aspettativa di vita
è di
sei mesi, forse un anno.» Sentì la sua voce
spezzarsi di colpo e non la
frenò, si lasciò precipitare insieme ad essa.
«Che
me ne faccio di queste, adesso?»
Strinse convulsamente le protesi e si trovò a singhiozzare,
senza
capire come fosse accaduto.
Si
ripiegò su se stesso, nascondendosi con una mano il volto
rigato di lacrime
e
implorando che il suo guscio ormai incrinato tornasse ad avvolgerlo,
a proteggerlo, a contenere quell'ennesima debolezza. Sentì
invece le mani di Pepper che si adagiavano sulle sue spalle, per poi
indurlo a rialzare il viso per stringerlo a sé, con
fermezza. Lui non
oppose resistenza e si abbandonò inerte a quell'abbraccio,
tiepido e saldo attorno al proprio corpo freddo e tremante.
Premette il volto
sulla sua spalla, col respiro spezzato, sentendo il guscio che
avvizziva e scivolava via senza che potesse fare nulla per impedirlo.
Tentò ancora di soffocare un singhiozzo contro la stoffa
della sua giacca, ma si
ritrovò a cedere ancor di più, sussultando appena
nella
stretta della donna. A quel punto si arrese, e si trovò solo
a
desiderare di avere due occhi per piangere.
Si
liberò del tappo che sentiva dentro di sé, quello
che aveva soffocato il dolore finora, e
permise a tutto ciò
che aveva sublimato e trattenuto in quell'anno di riversarsi
finalmente fuori. Si trovò frastornato dalla mole di
sensazioni vertiginose che lo investì, tanto che non seppe
più per cosa,
esattamente,
stesse piangendo. Gli sembrò solo che quel costante senso di
oppressione al petto si allentasse un poco, tra un singulto e
l'altro.
Quel
senso di liberazione completa era esattamente quello che aveva bramato
nel
momento in cui si era tolto il reattore, solo per ritrovarsi con
sconcerto ancora più costretto dalle sue stesse catene nel
rendersi
conto del proprio errore. Aveva dovuto ricominciare da capo, e ci era
riuscito: infine aveva vinto, anche se per poco e in modo effimero.
Questa invece era una battaglia che non poteva vincere, ma solo
portare a termine cadendo sul campo sotto il peso dei suoi difetti.
Aveva creduto di aver accettato quel destino beffardo, e adesso si
trovava a rifiutarlo con ogni lacrima di angoscia, rabbia e
disperazione che gli solcava le guance.
Sentiva
le mani di Pepper che lo cingevano ferme, accarezzandogli la schiena,
e il profumo della sua pelle, e i suoi capelli ramati che gli
solleticavano il volto, e il suo calore morbido e rassicurante contro
di lui. Inspirò a fondo, stordito da tutti quegli impulsi
e
aggrappandosi a ognuno di essi con repentina lucidità, come
quando si era ancorato alla sua voce a un passo dal baratro.
Non
era pronto a morire.
Quel
pensiero cancellò ogni altro, naturale, semplice e
prepotente quanto
irrealizzabile, e solo allora la strinse a sé, quasi a
impedirle
di dissolversi. Lei accostò la guancia alla sua, continuando
a
sostenergli la testa e ad asciugargli di tanto in tanto una lacrima con
il pollice. La sentì poggiarsi a sua volta contro di lui, in
silenzio, le labbra premute contro la sua tempia. Tremava appena nel
suo abbraccio e forse
stava
piangendo anche lei, ma non volle saperlo con certezza. I suoi
singhiozzi si attenuarono appena, scivolando infine in un pianto
sommesso ed esausto al quale non era ancora in grado di
sottrarsi.
Tenne il
volto nascosto contro di lei e aspettò
con crescente sollievo che quella marea benefica finisse, lasciandosi
cullare dalle sue mani.
***
10
Gennaio, Villa Stark, 20:15
Tony
trasse un altro sospiro tremolante, avvertendo ancora un leggero
sussulto nel petto. Percepì Pepper sospirare di rimando e
passargli
distrattamente una mano tra i capelli. Socchiuse l'occhio a quel
contatto, sentendo la tensione residua scivolare via dai suoi
muscoli. Si adagiò meglio contro lo schienale del divano,
senza
sciogliere l'abbraccio che li univa. Anche quando il pianto era
scemato, lasciandolo inerme e prosciugato, era stato incapace di
separarsi da lei. Sentiva che se l'avesse fatto si sarebbe spezzato
definitivamente.
Lei
sembrava esserne cosciente e assecondò il suo movimento,
continuando
ad accarezzargli i capelli in modo forse inconsapevole. Non capiva se
cercasse quella vicinanza per pietà o perché ne
traeva anche lei un
qualche tipo di conforto, ma non era il momento di cercare un
risposta. Le sfiorò a sua volta il braccio in una carezza
istintiva,
con lo sguardo fisso sul salotto in penombra, interrotta fiocamente
dal riverbero delle braci morenti nel caminetto. La sentì
stringersi
di più a lui e incassare il volto nella sua spalla per
sfuggire il
suo sguardo, col respiro che gli scaldava la pelle.
Tony
si rilassò appena a quel gesto e si passò una
mano sulla guancia
ruvida di sale, per poi tornare a posarla sulla schiena della donna;
anche quel movimento gli sembrò estenuante.
«Come
ti senti?» la voce di
Pepper gli sfiorò il collo.
Lui
si schiarì un poco la gola, sentendola arida e gonfia.
«Meglio.»
La sua voce suonò cavernosa, come se provenisse da
sottoterra.
«Tu?»
chiese subito dopo, realizzando con un po' di ritardo quanto fossero
vuote, eppure necessarie quelle domande.
«Meglio,»
confermò lei, flebilmente.
Nessuno
dei due aveva la certezza che fosse la verità, ma era
ciò che
entrambi avevano bisogno di sentire. Rimasero in silenzio, intimoriti
da quella situazione anomala, ma senza
alcuna intenzione di turbarla, preferendo annidarsi in quel
momento di quiete.
«E
adesso?»
La domanda sfuggì
le labbra di Tony di sua volontà, sospesa e irreale.
Pepper
si scostò un poco da lui, così da guardarlo in
volto.
«Adesso,
raccogliamo i cocci,» rispose
con semplicità.
_____________________________________________________________________________________________
Note: *inserire musica di Super Quark* Kintsugi (letteralmente "riparare con l'oro"): pratica giapponese che consiste nella riparazione di oggetti in ceramica usando oro fuso per saldarne assieme i frammenti. La pratica nasce dall'idea che dall'imperfezione possa nascere una nuova forma di perfezione.
Note Dell'Autrice:
Ed eccoci finalmente qui, al capitolo da cui è partito tutto. Questo è stato il primo che ho scritto quando ho ripreso la storia, a gennaio, ed è rimasto pressoché immutato nel corso di questi mesi, salvo aggiunte e correzioni minori, per cui vi sono particolarmente affezionata, considerando che da qui si sono dipanati tutti gli eventi precedenti e successivi.
In realtà credo di non aver poi molto da dire al riguardo, essendo di per sé piuttosto esplicativo... quindi godetevi semplicemente il primo, vero e genuino crollo emotivo di Tony. Per quello di Pepper, si vedrà ;)
Ringrazio tantissimo _Atlas_ per aver commentato lo scorso capitolo (sono molto curiosa di sapere la tua opinione su 'sto benedetto crollo, visto che lo aspetti da 3 anni e 40 capitoli :'D) e tutti coloro che hanno commentato e/o letto i precedenti e/o aggiunto la storia tra le seguite, preferite o ricordate <3
Il prossimo capitolo arriverà probabilmente tra un mesetto buono, visto che è l'ultimo che ho pronto e gli altri sono ancora in fase di rodaggio. Pubblicare questo ora non è esattamente una mossa brillante, in effetti, ma mi serve un po' di "pepe" per mettermi a tavolino e terminarli senza procrastinare in eterno. A proposito, -7 :P
Sayonara e alla prossima,
-Light-
P.S. Il riferimento a Baltimora è un mio headcanon che fa la sua comparsa nella one-shot Baltimora, 2001 (ovvero, quando Tony Stark perse gli occhiali da sole)
© Marvel
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Capitolo 41 *** Dancing in the dark ***
40
Dancing
in the dark
"Oh, the
darkness got a hold on me
How long, baby, have I been away?
Oh, it feels like ages, though you say it's only days
There ain't language for the things I've seen
And the truth is stranger than my own worst dreams
The truth is stranger than all my dreams"
[Meet
Me In The Woods – Lord Huron]
10
Gennaio, Villa Stark, 22:30
Il
petto di Tony si alzava e abbassava lentamente, a ritmo coi suoi
respiri profondi e tranquilli. Di tanto in tanto fremeva nel sonno e
il suo volto si contraeva appena, per poi rilassarsi di nuovo in
un'espressione pacifica.
Pepper
aveva passato l'ultima ora cercando di addormentarsi a sua volta, ma
era come se una forza invisibile impedisse alle sue palpebre di
chiudersi, costringendola a fissare il buio quasi assoluto del
salone, rotto solo dal lieve riverbero dell'oceano alle loro
spalle.
"Raccogliere
i cocci" si era rivelato più stancante del previsto, e Tony
aveva finito per cedere al sonno sulla sua spalla, per poi ridestarsi
di colpo in agitato imbarazzo. Si era poi lasciato guidare docilmente,
accettando quel contatto e continuando a dormire con la testa posata
sulle sue
gambe, troppo esausto per articolare
qualunque parola di protesta.
Pepper
si chiese per l'ennesima volta cosa stessero facendo e si rispose per
l'ennesima volta che non le importava. Strinse appena la stoffa della
sua felpa all'altezza del petto, percependo una pulsazione ovattata
contro il palmo. L'unica cosa che le importasse era sentire il suo
cuore che continuava a battere. Sfiorò con la punta delle
dita le
sottili diramazioni plumbee che si arrampicavano sul suo collo,
percependo il blocco di marmo nel suo petto farsi più
pesante, e
chiedendosi se fosse la stessa sensazione che accompagnava Tony
dall'Afghanistan. Non riuscì a spostare la mano sul reattore
e tornò
a premerla sul suo petto, all'altezza del cuore.
A
quel punto Tony si mosse di nuovo, e stavolta restò in apnea
per
qualche secondo per poi riprendere a respirare regolarmente con un
leggero sibilo; Pepper lo imitò in modo inconscio
trattenendo a sua
volta il fiato, per poi rimproverarsi della propria apprensione. Non
c'era nulla di cui preoccuparsi nell'immediato, si ripeté
stancamente come aveva fatto poco prima Tony con lei. Tra qualche
mese avrebbe avuto senso lasciarsi prendere dall'angoscia e smettere
di pensare in modo razionale, ma per ora doveva solo aggrapparsi a
quel battito ancora forte ed energico che riusciva a rassicurarla un
poco, anche se temeva di sentirlo accelerare in modo incontrollato o
affievolirsi fino a tacere.
Reclinò
la testa sullo schienale, ma ancora non riusciva ad abbandonarsi al
sonno con serenità. Frammenti acuminati della loro
discussione
continuavano a punzecchiarla, ognuno simile alla scheggia di uno
specchio che rifletteva tutto ciò che avrebbe voluto dire e
che
invece aveva taciuto.
Lasciò la mano sul cuore di Tony e chiuse
gli occhi, ma rimase sveglia nel buio.
***
10
Gennaio, Villa Stark, due ore prima
«Raccogliere i cocci?»
ripeté stolidamente Tony, con voce così roca e
profonda da essere
irriconoscibile.
Sciolse l'abbraccio per
poterla guardare in volto, ma rimasero vicini, ancora appoggiati l'uno
all'altra.
«Era quello che volevi
fare, no?» replicò Pepper, con una sicurezza che
non rispecchiava
assolutamente il tumulto che stava avendo luogo nella sua testa e nel
suo corpo.
Ma era un tumulto ancora
lontano e soffuso: lo percepiva come un tenue sferragliare di
pensieri sgradevoli in sottofondo, che ancora non riusciva ad isolare
e mettere a fuoco uno per uno, se non i più importanti:
"Tony
ha pianto. Tony mi ha mentito. Tony sta morendo."
Tre concetti di per sé
semplici, eppure inafferrabili. Si fondevano e avvitavano tra loro
formando un'unica spirale confusa in cui si sentiva risucchiare,
rendendola incapace di puntare la bussola delle sue emozioni in una
direzione precisa. Cercò lo sguardo di
Tony, trovandolo altrettanto spaesato, e si chiese se non fosse un
bene per entrambi sentirsi così apatica e incapace di
reagire.
Scorse una lacrima
tardiva sfuggire alle sue ciglia e attraversare lentamente la sua
guancia, andando a impigliarsi nel pizzetto. La rassegnazione con cui
non provò neanche a trattenerla, asciugarla o nasconderla le
causò
una lieve stretta al petto, nel realizzare di stare finalmente
guardando Tony privo di qualsiasi difesa o barriera. Non stava
tentando di mettersi al riparo, né di fingere che andasse
tutto
bene: era completamente esposto a lei, in un campo aperto dove sapeva
di poter essere ferito. Era l'atto di fiducia più cieca che
avesse
mai visto da parte sua, e lo stava donando a lei.
Lui si distanziò un
poco e lo vide deglutire con evidente sforzo, sfregandosi poi la gola
provata dai singhiozzi.
«Sei sicura?» esalò
infine.
«Ci stai ripensando?»
Tony abbassò lo
sguardo, puntandolo sulla protesi della gamba che teneva ripiegata
sotto di sé. Iniziò a seguire metodicamente le
linee del metallo,
come se questo potesse aiutarlo a trovare una risposta.
«Pensavo fossi
arrabbiata,» affermò invece, arrestando l'indice
sullo snodo del
ginocchio e prendendo a stuzzicare un bullone con l'unghia in modo
assente.
«Sono...
preoccupata,» lo corresse lei, nonostante quello fosse
decisamente
un eufemismo.
Sconvolta
e sull'orlo del pianto, con un enorme vuoto che si allargava nel suo
petto e la sensazione di precipitare da ore... quello avrebbe reso
meglio l'idea, ma non poteva lasciarsi andare proprio in quel
momento. Avrebbe avuto tempo per piangere e disperarsi e urlare fino
a perdere anche lei la voce, ma dopo. Doveva prima
capire cosa stesse succedendo, e non era sicura di poterci riuscire.
«Come sempre,» osservò
lui dopo una breve pausa, alzando un poco le sopracciglia con fare
colpevole.
«E
sono anche arrabbiata, per molte
più cose di quante
immagini.»
«Credo di poter fare
uno sforzo di fantasia,» replicò lui con quieta
amarezza.
«Adesso non importa
più,» mormorò lei di rimando, quasi tra
sé.
Tacque a lungo,
soverchiata dai suoi stessi pensieri e dalle immagini che
continuavano a proporle. Cosa importava, adesso?
«Non sei costretta a
rimanere.»
Tony spezzò di nuovo
quel silenzio, parlando in modo stranamente pacato per la situazione
in cui si trovava. Non sapeva dire se, come lei, non avesse ancora
registrato la reale portata di ciò che stava accadendo o se,
al
contrario, ne fosse ormai perfettamente consapevole e sapesse che
agitarsi ancora non avrebbe cambiato le cose. Lo fissò con
aria
stralunata, faticando a comprendere ciò che le stava dicendo
oltre
il rombo che murava le sue orecchie, ma ancora abbastanza presente a
se stessa per rispondere con prontezza senza lasciar trapelare il suo
stato d'animo. Temeva che quest'ultimo fosse comunque fin troppo
evidente dai suoi occhi liquidi e dalla sua voce traballante.
«Non mi sento affatto
costretta,» disse, sforzandosi di non vacillare.
«Perché credi che
voglia rimanere?» chiese poi, a bruciapelo.
«Probabilmente perché
ti faccio pena.»
Tony riprese a
concentrarsi sulla protesi, stavolta accigliato e con una ruga
contrariata a solcargli la fronte.
«Non mi fai pena,»
ribatté lei, sforzandosi di ignorare la stoccata che le
avevano
inflitto quelle parole.
«Ritenta,» sbuffò
lui, serrando improvvisamente i pugni come si stesse preparando a
fronteggiare un nemico.
«Non ti ho mai
compatito, perché dovrei farlo adesso?»
«La formula
"ex-supereroe mutilato e orbo con problemi di deambulazione e
sei mesi di vita" mi sembra un ottimo incentivo,»
replicò con
stizza, palesando il disgusto che gli suscitava ciascuna di quelle
definizioni.
«Compatire
ed
empatizzare
sono due concetti diversi.»
«... per dire la stessa
cosa.»
«Tony, adesso ti stai
impuntando.»
«Non mi sto...»
s'interruppe di colpo.
Tornò finalmente a
guardarla, distogliendosi dai ghirigori che aveva preso a tracciare
sull'arto metallico e dalle sue riflessioni altrettanto convolute.
«Ok, mi sto
impuntando,» cedette a malincuore. «Cerco... cerco
solo di
capire. Fa parte
del processo di riparazione... credo,» borbottò
con uno scatto
irrequieto del capo.
Era evidente come quella
situazione "priva di barriere" lo mettesse a disagio, ma
apprezzò il fatto che si stesse sforzando di non costruirne
altre.
«Quindi, perché vuoi
rimanere?» riprese, affondandosi una mano tra i capelli e
puntando
il gomito contro lo schienale del divano a sostenere la testa
appesantita, in un gesto che tradì la sua enorme stanchezza.
Sembrava quasi che
dovesse cadere addormentato da un momento all'altro, ma la luce acuta
del suo sguardo lasciava intuire l'intensa attenzione per ogni parola
che pronunciavano.
Pepper prese a torcersi le mani, odiandosi per
quel gesto che non riusciva a controllare. Qualunque risposta a
quella domanda sarebbe stata inadeguata o incompleta.
Una parte di lei
insisteva nel ricordarle che quello stesso uomo aveva cercato di
togliersi la vita meno di un anno prima, incurante di chi aveva
intorno, ma la mise a tacere con sorprendente facilità,
quando non
era mai riuscita a ignorarla del tutto nel corso di quei mesi. Aveva
sempre avuto il ragionevole sospetto che l'atteggiamento rilassato e
ottimista in cui l'aveva ritrovato fosse solo un'altra facciata
abilmente costruita, e che in realtà fosse ancora sul punto
di
cadere: la paura di poter entrare un giorno alla villa e trovarlo di
nuovo esanime e in fin di vita era tangibile e insistente,
così come
quella di non essere in grado di salvarlo, stavolta. Adesso
però era
emerso quel pezzo mancante che faceva crollare il suo castello di
supposizioni scettiche, facendola in verità vergognare della
sua
sfiducia: se Tony aveva saputo sin dall'inizio dell'intossicazione e
della
sua gravità – sentì una secca puntura
al cuore al solo sfiorare
quel pensiero – avrebbe potuto lasciarsi andare in qualsiasi
momento. Eppure l'aveva visto lavorare con equilibrio e
costanza
e tentare di riprendere la vita di prima accettandone i cambiamenti,
piuttosto che farsi logorare dai suoi progetti e negare quello che
gli era accaduto come lo aveva visto fare in precedenza.
Nell'ultimo mese le era
sembrato più cupo e oppresso da mille pensieri che aveva
erroneamente
ricondotto all'astio generale che provava per il periodo natalizio,
ma non l'aveva mai visto scivolare nell'apatia o essere di cattivo
umore per più di mezza giornata. Soprattutto, le aveva fatto
capire
spesso, più a gesti che a parole, quanto fosse realmente
contento
della sua presenza lì e quanto fosse determinato a rimettere
a posto
le cose con lei, oltre che col resto del mondo. In quei mesi erano
riusciti a riavvicinarsi un passo alla volta. Si rendeva conto che
i suoi erano stati piccoli e titubanti, mentre quelli di Tony le
sembravano giganteschi nella loro delicatezza, che fossero sotto
forma delle sue battute scanzonate, dei suoi sguardi più che
significativi, di un regalo di Natale inatteso, del suo evitarle di
scendere in laboratorio o di una chiave che aveva deciso di
affidarle. Persino poco prima, anche se con immenso ritardo,
riluttanza e col peso di troppe bugie, aveva provato a farsi avanti
lui di sua volontà, senza aspettare di essere smascherato.
Pepper incontrò la sua
unica iride e non trovò lo sguardo di un uomo che vuole
morire, ma
un'eco lontana di quello che gli aveva visto al ritorno
dall'Afghanistan. Forse più colmo di mestizia e stanchezza,
provato
dal pianto, ma egualmente vivo. Era lo sguardo di
qualcuno che
non vuole tirarsi indietro, che sa quello che deve fare e sa, in cuor
suo, che è giusto. Lo stesso di quella volta, due anni
prima, quando
lei aveva acconsentito a rimanergli accanto per ciò in cui
credeva
perché, in fondo, voleva crederci anche lei.
«Perché penso ancora
che ne valga la pena,» rispose, con voce bassa ma ferma.
"E anch'io ho solo
te," questo riuscì solo a pensarlo, come quella volta
sull'Helicarrier; temeva che dirlo avrebbe spezzato quel fragile filo
che le stava ancora permettendo di non crollare.
Tony si limitò a
fissarla assorto, senza proferir parola. Il suo volto esausto non
lasciò emergere alcuna reazione se non un lieve fremito
delle sue
labbra, come se fosse stato sul punto di dire qualcosa per poi
ripensarci.
«Vuol dire che
adesso mi sono impegnato abbastanza?» chiese, con
un piccolo
sorriso a tradire quanto in realtà gli avessero fatto
piacere quelle
parole. «È ironico,» commentò
mestamente, prima che lei potesse
rispondere.
«È ingiusto,» ribatté
d'istinto lei, e stavolta la sua voce tremò in modo
innegabile.
«Potremmo passare tutta
la notte a discutere di quanto sia giusto o meno, e non cambierebbe
comunque nulla,» osservò lui quasi distratto,
portandosi una mano
al reattore senza neanche preoccuparsi di nasconderlo.
Pepper non poté fare
altro che tacere, sentendo ogni fibra di sé tendersi e
contrarsi
dolorosamente nel riconoscere la verità di
quell'affermazione.
«Davvero non c'è una
soluzione?» si trovò a chiedere flebilmente,
sentendosi una bambina
in cerca di rassicurazioni, e di nuovo il suo sguardo si
appannò.
«Non riesco a
trovarla.» Scosse piano la testa, come se non riuscisse
ancora
ad accettare pienamente la sconfitta del suo ingegno. «Ho
provato
tutto, ormai. Ho persino cercato nello studio di mio padre, ma
è
stato un altro buco nell'acqua. Non so più che
fare,» ammise con
sincerità, guardandola smarrito.
«Non puoi
arrenderti così,» proruppe lei, con improvvisa
veemenza.
Tony inclinò appena il
capo, scrutandola con lieve sorpresa. Lei non si ritrasse al suo
sguardo: non le importava di suonare implorante, ma vederlo
così
rassegnato la lacerava e voleva convincersi che spronarlo potesse
fare la differenza.
«Non ho il diritto
di
arrendermi,» asserì sibillino. «Ma non
posso neanche sprecare il
resto dei miei giorni a cercare una soluzione inesistente,»
continuò, con cauta lentezza. «Preferirei
impiegarli in qualcosa di
più utile,» finì, con un'alzata di
spalle.
«La Expo?» indovinò
subito Pepper, fissandolo in cerca di conferma.
"Ecco perché
voleva allestirla entro sei mesi..." realizzò poi,
sentendosi
raggelare.
«Anche,» annuì lui,
incerto. «Ho vari progetti in cantiere... e sto ancora
abbastanza
bene.
Ho all'incirca tre mesi prima che la mia... condizione
inizi a
diventare ingestibile. Vorrei sfruttarli al meglio. Non vuol dire
che smetterò di lavorare al problema del palladio,
ma...» si bloccò
con improvvisa reticenza, un attimo prima che la sua voce si
sfaldasse, e si passò una mano tra i capelli scomposti.
Inspirò a fondo,
recuperando il controllo senza smettere di guardarla negli occhi.
«Ho bisogno di
fare qualcosa di concreto.» Tagliò l'aria col
palmo a sottolineare
quel concetto e a scandire anche le sue successive parole.
«La Expo,
Iron
Man, le protesi, i lavori per K e lo SHIELD... qualunque
cosa. Altrimenti impazzisco,» concluse in un mormorio,
afferrando
poi con forza il polso della protesi fino a sbiancarsi le nocche.
La sua pupilla si era
dilatata, enorme e smarrita nel buio, e Pepper colse distintamente la
paura che vi si annidava. Posò una mano sulla sua,
avvertendone il
tremito contratto, e la insinuò poi tra il suo palmo e il
metallo per
allentare quella morsa. Sperò che quel semplice gesto
riportasse un
po' di serenità sul suo volto teso, cancellando i segni di
quell'angoscia sommersa che aveva lasciato trapelare fugacemente. Lui
oppose resistenza, per poi sciogliere la propria stretta serrata e
accettare quella più gentile della sua mano.
«Chi altro lo sa?» si
decise a chiedergli Pepper, con un pizzico di timore.
«Solo tu, è ovvio,»
fugò ogni suo dubbio Tony. «Il Doc sa
dell'intossicazione, ma non mi
visita da mesi e crede che sia sotto controllo. A quest'ora
avrà
fatto due più due, ma... non ne abbiamo mai parlato in modo
esplicito.
Forse K ha intuito più del dovuto, ma non credo ne immagini
la
gravità,» aggiunse, adesso con aria preoccupata.
«Non lo sa nessun
altro,» ribadì.
A quel punto rialzò di
scatto la testa, estremamente accigliato e con una viva nota di
apprensione nello sguardo.
«E deve
rimanere così,»
asserì con veemenza, aumentando di riflesso la stretta sulla
sua
mano.
Pepper sospirò appena:
se l'era aspettato, ma poteva immaginare che le sue motivazioni
andassero oltre il semplice orgoglio, e per una volta concordava con
le sue manie di segretezza, almeno per il momento. Tony mal
interpretò la sua reazione e prese ad agitarsi, sfuggendo di
scatto
la sua mano e riportandola alla protesi, in cerca di un altro
appiglio sicuro. Iniziò a parlare in modo concitato:
«Sono serio. È
importante. Se lo SHIELD lo scopre sarò di nuovo tagliato
fuori dal Progetto Vendicatori e io
ho lavorato troppo per...»
«Tony, calmati, io
non...»
«... a loro importa
solo di Iron Man, se lo scoprono vorranno solo sbarazzarsi di me
e...» continuò lui imperterrito, ora quasi senza
fiato.
«...pensi veramente
che andrei a dirlo allo SHIELD o a chiunque altro, se tu non
vuoi?» lo interruppe infine, alzando un poco la voce.
Lo trapassò con lo
sguardo, sentendosi un po' ferita da quella sua sfiducia, a dispetto
delle circostanze che avrebbero dovuto farla soprassedere su un
dettaglio del genere.
Lui rimase interdetto per qualche secondo,
boccheggiando in cerca d'aria e di una replica adeguata, per poi
ammutolire. Si mosse in cerca di una
posizione più comoda sul divano, in modo così
rigido che poteva vedere i
muscoli del suo collo in tensione, quasi fossero sul punto di
spezzarsi assieme alla mascella serrata. Era impallidito, tanto
che la cicatrice sul volto pareva risaltare più del solito;
un velo di
sudore era apparso sulla sua pelle cerea, nonostante la temperatura
tutt'altro che calda. Finì per risistemarsi nella posizione
di
partenza, fremendo appena.
«Non posso rendere
inutile tutto
ciò che ho fatto finora,»
confessò in fretta, quasi
mangiandosi le parole, e dal suo tono fu evidente che non parlasse
solo dello SHIELD. «Non posso vanificare tutto e... e sprecare
la mia vita e buttare al vento il mio retaggio e... e adesso ho
così
poco tempo da... non posso,»
farfugliò smarrito, guardandosi
intorno come se fosse in trappola.
«Non succederà. Cerca
di fidarti almeno di me, ti prego,» lo
tranquillizzò lei,
rendendosi conto solo ora che Tony pareva non sentirla più e
continuava a gettare occhiate spaurite attorno a sé, nel
buio del
salotto, come in cerca di una via di fuga o di una minaccia
incombente acquattata nell'ombra.
Ciò che aveva appena
detto l'aveva scosso più di quanto volesse mostrare:
improvvisamente
parve che il divano gli andasse troppo stretto e che volesse scattare
in piedi da un momento all'altro. Si aprì la zip della
felpa,
allargandosi il colletto come se si sentisse soffocare, e prese a
respirare rapidamente e in modo discontinuo, con la palpebra serrata.
Come quella volta sull'Helicarrier. Pepper si sentì mancare
quasi
quanto lui e gli posò con timore una mano sul braccio,
sentendo il bicipite contratto in modo quasi doloroso. Il suo pugno era
chiuso in una
morsa che non riuscì ad allentare in nessun modo.
«Tony?»
cercò di riscuoterlo, sentendo la paura che prendeva a
pulsarle
nello stomaco, risalendole come una scossa lungo gli arti.
«Sto bene, è solo...»
riuscì a balbettare lui con voce più acuta del
normale, tra un
respiro sempre più affannato e l'altro.
Serrò di scatto
entrambe le mani attorno al reattore, raggomitolandosi su se stesso e
sfuggendo alla sua presa.
«Tony! Tony, guardami.»
Cercò di intercettare il suo sguardo e gli sfiorò
appena una
guancia. A quel contatto lui si
ritrasse di colpo come se si fosse scottato; tentò di
alzarsi
precipitosamente in piedi, ma crollò di nuovo sul divano
tenendosi
la gamba meccanica con un singulto sofferente. Pepper
incrociò per
un istante il suo occhio e vi lesse puro terrore e smarrimento, tanto
che rimase paralizzata lei stessa sul posto, mentre Tony si chiudeva
di nuovo a riccio, adesso rantolando.
Cosa doveva fare? Non
sapeva dire per quale motivo si stesse sentendo male – era un
attacco di panico? Un infarto? Il palladio? – e saperlo non
l'avrebbe comunque aiutata a fare qualcosa. Per un attimo si
sentì
trascinare a nove mesi prima, nel laboratorio, e lo rivide davanti a
sé riverso a terra, pallido come adesso e immobile...
Si costrinse a
riscuotersi quasi con rabbia. Si impose di rimanere ancorata al
presente: era lì e ora
che Tony aveva bisogno di lei,
e se l'aveva salvato una volta poteva farlo una seconda, si
ripeté,
mettendo a tacere le acute voci di panico che continuavano ad
emergere come aghi nella sua testa. Si accostò di nuovo a
lui, stavolta con più lentezza, nonostante si sentisse
fremere per
l'angoscia. Adesso le voltava le spalle, col capo stretto tra le
braccia, la fronte sulle ginocchia e le mani
intrecciate sulla nuca a stringersi i capelli e coprirsi le orecchie,
accartocciato su se
stesso nel tentativo di vincere l'iperventilazione. Non era del tutto
certa che fosse cosciente di ciò che accadeva attorno a lui.
«Tony?» lo chiamò
ancora, non osando toccarlo di nuovo.
«Oddio... sto cadendo,»
gemette lui appena comprensibile, e il suo respiro spezzato si
arrestò con un singulto, come se qualcosa lo stesse
soffocando.
«Non stai cadendo, sei
qui. Va tutto bene,» sussurrò nel tono
più rassicurante che le
riuscì, ma allarmata dalla sua apnea.
«Respira.»
«Non
ci riesco!» rantolò lui, senza sollevare il volto.
«Sto
cadendo...» ripeté flebilmente, con voce rotta e
nauseata, e si
contrasse ancor di più come per frenare quella caduta
immaginaria,
espirando quasi in un colpo di tosse per la carenza d'aria.
«... Pepper?» la
chiamò strozzato, in un uggiolio impotente.
«Sono qui,» rispose
subito lei.
Solo a quel punto si
arrischiò a posargli una mano sulla schiena, trovandola
scossa da
violenti brividi e sussulti mentre tentava ancora, inutilmente, di
prendere fiato. Lo sentì sobbalzare a quel contatto, ma
stavolta non
si ritrasse. Esitò per un breve istante, senza la minima
idea di
cosa fare, poi si lasciò guidare dall'istinto, sperando solo
di non
peggiorare le cose: si appoggiò appena alla sua schiena,
percependo
chiaramente i tremiti che la squassavano e il suo cuore che batteva
come un tamburo fuori tempo contro le coste. Prese come un buon segno
il fatto che non si fosse sottratto.
«Tony, sono qui.
Respira con me,» lo rassicurò, e
inspirò profondamente,
cingendogli il torace e cercando di trasmettergli quel movimento.
Lui non rispose, ma lo
sentì cercare di inspirare con lei; fu troncato a
metà e ripiombò
nell'affanno, ma si sforzò di recuperare e dopo un paio di
tentativi
riuscì a prendere il primo respiro completo.
Stentò il secondo,
faticando a seguire il suo ritmo, così lei
rallentò appena
permettendogli di adeguarsi e ritrovare il controllo, parlandogli di
tanto in tanto all'orecchio con voce pacata per calmarlo.
«Va tutto bene. Sono
qui. Respira,» continuò a sussurrargli, in una
nenia che sembrava
riuscire a far breccia nella cortina di cieco panico che
l'aveva avvolto.
Perseverò, anche se
iniziava a sentirsi la testa leggera per il troppo ossigeno,
percependo che Tony respirava e si rilassava a poco a poco, pur
rimanendo
rannicchiato come a proteggersi da un pericolo imminente. Solo dopo
molti minuti
lo vide infine schiudere la debole difesa delle sue braccia e
sollevare la testa, col respiro flebile ma più regolare.
Rimase
poggiata alla sua schiena anche quando si raddrizzò senza
osare muoversi per paura di turbare quell'equilibrio appena
ritrovato.
Fu lui a rompere quel
contatto per primo, voltandosi verso di lei solo per cercarla di
nuovo e poggiare la fronte sulla sua spalla, celando il proprio
sguardo. Lo accolse tremando di sollievo e lo strinse a sé
con più
impeto di quanto intendesse. Lui rimase inerte, completamente
abbandonato contro di lei se non per la mano meccanica che era andata
di nuovo a stringere il reattore. L'altra si era posata sul suo
fianco stringendo appena la stoffa del tailleur, in una ricerca di
contatto quasi inconsapevole.
«Mi dispiace,» lo sentì
bisbigliare, con voce svuotata di qualunque energia.
«Non lo dire neanche
per scherzo,» lo rimbrottò lei con fermezza.
«Come stai adesso?»
continuò subito, prima che potesse replicare.
Tony tacque per molti
secondi, come se stesse riflettendo su quella domanda. Solo quando il
silenzio si fece eccessivamente lungo Pepper capì che si era
assopito senza neanche rendersene conto. Gli scostò i
capelli dalla
fronte bollente, e una parte della sua tensione si dissipò
nel
sentire il suo respiro di nuovo regolare che le intiepidiva la
spalla.
Si chiese se adesso si
fosse infine guadagnata il diritto di piangere, ma si
ritrovò con
gli occhi completamente asciutti.
***
11
Gennaio, Villa Stark, 01:00
Si
svegliò cadendo.
Aprì
con cautela l'occhio, incontrando la penombra del salone e
realizzando di essere sdraiato supino sul divano e non per terra come
aveva temuto. Cercò di scacciare le vertigini e i milioni di
puntini
che danzavano nella sua visuale come moscerini impazziti. La testa
non gli aveva mai fatto così male come in quel momento,
neanche dopo
la peggiore delle sbronze, e desiderò solo di potersi
riaddormentare, cosa che i mille chiodi conficcati nel suo cervello e
la nausea avrebbero sicuramente reso molto difficile.
Realizzò
dopo qualche istante di essere solo: aveva un cuscino sotto la testa
e un plaid rimboccato addosso, ma di Pepper non c'era traccia.
Maledisse il suo sonno insolitamente profondo per non essersene reso
conto. Probabilmente era tornata a casa. O forse dormiva nella stanza
degli ospiti. Volle credere a quell'ultima ipotesi, che
trovò
conferma quando scorse i suoi tacchi abbandonati per terra. D'altra
parte, dubitava che l'avrebbe mai lasciato da solo dopo quanto era
successo. Che cose fosse successo, di preciso, faticava a spiegarselo
lui stesso.
Si
portò una mano al petto, tracciando sovrappensiero la sagoma
del
reattore. Sentiva ancora un tangibile nodo d'ansia alla bocca dello
stomaco, pronto a stringersi e trasformarsi in qualcosa di peggiore.
Non avrebbe saputo dire cosa l'avesse fatto precipitare in quel
baratro di panico irrazionale e incontrollabile. Forse il terrore di
essere di nuovo messo da parte dopo tutti i suoi sforzi, forse la
semplice, umana paura di morire che era infine scattata dentro di
lui con potenza ancestrale, forse la debolezza causata dalle prime,
vere lacrime in quasi
vent'anni.
Si
era sentito come se si stesse dondolando su una sedia, immerso nei
propri pensieri cupi, ma tutto sommato rilassato. Poi si era spinto
audacemente un po' troppo indietro, quel tanto che bastava per
turbare il suo precario equilibrio, con un vuoto allo stomaco e la
sensazione di caduta imminente e inevitabile. Era rimasto bloccato in
quell'istante
di paura, prolungato all'infinito. E non c'era una sedia da rimettere
a posto per porvi fine, non c'era neanche un pavimento su cui
schiantarsi. Solo il vuoto, buio e profondo, un rombo nelle orecchie
e un'incudine bollente nel petto; poi una forza brutale l'aveva
cacciato fuori dal suo stesso corpo, sottraendogli il comando e
costringendolo a guardare dall'esterno mentre cadeva per minuti
interi, senza fiato, come se un'arma l'avesse arpionato alle viscere
trascinandolo senza preavviso verso il basso. Si
portò una mano all'addome, quasi aspettandosi di trovarvi
conficcato
qualcosa, ma avvertì solo uno spiacevole formicolio che
andava a
fomentare la sua nausea.
Non
riusciva a immaginare cosa sarebbe potuto accadere se non ci fosse
stata Pepper con lui. E non aveva intenzione di provare a farlo. Era
lì
con lui e non se ne sarebbe andata, almeno per ora.
Si
tirò su a sedere, mettendo a tacere le proteste del suo
corpo
indolenzito e recalcitrante. Si tastò cautamente i punti di
sutura
delle protesi, trovandoli innaturalmente caldi e dolenti come non lo
erano da mesi. Aveva urgente bisogno dei suoi antidolorifici, magari
anche di un bagno caldo, poi avrebbe dormito per un mese.
Recuperò a
tentoni il bastone caduto per terra e si issò in piedi con
un
mugolio, sentendosi più malfermo del solito sulle gambe, ma
abbastanza in forze per raggiungere il bagno.
Ne
uscì mezz'ora dopo, più rilassato, meno dolorante
e con un senso di torpore indotto dall'acqua calda e dagli
analgesici. Si
frizionò i
capelli ancora tiepidi e umidi, sentendosi rimesso al mondo. Si era
liberato della felpa a collo alto che aveva ormai esaurito la sua
funzione, optando per una semplice t-shirt nera che lasciava
intravedere qualche vena intossicata attorno alle clavicole. Persino
il fatto di poter indossare ciò che voleva senza
preoccupazioni lo
faceva sentire un po' meno teso.
Stava
per avviarsi in camera sua, già mezzo addormentato, quando
si bloccò
con un sospiro: doveva prima bere la sua inutile clorofilla. Al solo
pensiero sentì i primi scampoli di sonno ritrarsi di scatto,
e quella
che riuscì ad associare solo a una secca, inattesa puntura
sulla
nuca che mandò una scossa lungo la sua spina dorsale
risvegliando i suoi sensi intorpiditi. Fece
dietrofront, barcollando verso la cucina, e solo allora notò
che la
luce era accesa. Temporeggiò in corridoio, chiedendosi se
fosse il
caso di entrare, infine si spronò a non esitare: Pepper
l'aveva
sicuramente sentito avvicinarsi grazie all'inconfondibile rumore
della sua protesi combinato al ticchettio del bastone sul pavimento,
quindi tanto valeva non fare la figura del vigliacco. E poi non
poteva permettersi di rinunciare neanche a una goccia di clorofilla.
Varcò
la soglia con decisione, accompagnato dal secco clonk
del
piede metallico, e subito desiderò d'aver fatto
più piano: Pepper
era seduta al tavolino, profondamente addormentata con la testa sulle
braccia incrociate; accanto a lei giaceva un tazza di tè
mezza vuota
e ormai fredda. Si
avvicinò di un passo, in punta di piedi per quanto possibile
e cercando di poggiare delicatamente la protesi per non svegliarla,
diretto al piano cucina alle sue spalle dove aveva individuato una
borraccia di clorofilla. Arrivato accanto a lei non poté
fare a meno
di guardarla, suo malgrado incuriosito.
Di
rado gli era capitato di vederla dormire o anche solo riposarsi.
L'immagine costante che aveva di lei era quella di una donna
energica, sempre impeccabile e composta e apparentemente
instancabile. Sorrise appena quando notò che come pigiama
improvvisato gli aveva sottratto una vecchia maglietta dei Clash
che le stava tre volte più grande e un paio di pantaloncini
che le
arrivavano comunque sotto il ginocchio. I capelli ramati erano
sciolti e sparsi sulle spalle, con ancora una leggera piega ondulata
per via della solita coda alta.
Era
strano coglierla al di fuori del suo ruolo professionale e la cosa
suscitava in lui un insolito sollievo. Era una sensazione che non
riusciva del tutto a collocare; sapeva solo che vederla per un
momento non preoccupata per lui o impegnata in qualcosa che lo
riguardava lo faceva sentire meglio. In
quel sollievo s'insinuò anche una bruciante colpevolezza nel
notare
i suoi occhi gonfi e le guance rigate di sale, ancora leggermente
umide. Represse la tentazione di avvicinarsi a lei per timore di
svegliarla, e anche di ciò che avrebbe potuto fare lui
stesso, oltre
che della reazione di lei. Si guardò istintivamente la mano
metallica,
fissando poi il suo braccio poco sopra il gomito, come aspettandosi
di trovarvi ancora impressa un'orma rossa e rovente. Non riusciva ancora a capacitarsi di come avesse
potuto stringerlo a sé con così tanta
naturalezza. Distolse lo
sguardo con un rinnovato senso di vertigine e nausea che stavolta non
aveva nulla a che fare col palladio.
Raggiunse infine la sua mèta e
si attaccò di malavoglia alla borraccia, accogliendo con
disgusto
quel sapore che detestava, ma si forzò a ingollare senza
pause
l'intero litro di clorofilla.
"Come
se servisse a qualcosa..." pensò tetramente mentre posava la
borraccia sul bancone, reprimendo un moto di stizza per non far
rumore.
Pepper
continuava a dormire beatamente e ne udiva il respiro rallentato e
profondo: doveva essere esausta, la capiva fin troppo bene. Sarebbe
dovuto uscire, spegnere la luce e lasciarla riposare, ma
esitò e
rimase poggiato al bancone della cucina, fissando intentamente la sua
schiena snella incurvata sul tavolo. Il collo era piegato di lato in
un'angolazione rigida e aveva una guancia poggiata per metà
sulle
mani e per metà sul piano di vetro leggermente appannato. Si
era
addormentato in quella posizione abbastanza spesso per sapere che si
sarebbe svegliata con un torcicollo devastante e tremendi crampi alle
spalle; lui almeno ci aveva ormai fatto l'abitudine. Si
sfregò il
pizzetto colto dall'indecisione, che durò ben poco, visto
che i suoi
piedi zoppicanti lo avevano già portato al fianco della
donna di
loro volontà.
Si
chinò appena su di lei, ancora molto restio
a toccarla, a maggior ragione se lei ne era inconsapevole.
«Pepper?»
la chiamò a bassa voce. «Pepper?»
tentò di nuovo, più
forte ma senza risultati evidenti.
Sospirò: dimenticava
che, quelle poche volte che dormiva, era come se cadesse in letargo.
«Pep?» stavolta si
accostò al suo orecchio e ottenne un mugolio di risposta
quando si
forzò infine a posarle la mano sana sulla spalla,
riscuotendola
gentilmente dal suo torpore.
Lei sollevò appena la
testa, schiudendo a fatica le palpebre e mettendo a fuoco il suo
volto con lieve sorpresa.
«Signorina Potts, sono
io quello
che si addormenta in posti improbabili: le sue sono solo
squallide imitazioni,» la prese in giro con dolcezza,
rivolgendole
un tenue sorriso.
«Tony?» articolò lei,
raddrizzandosi del tutto con sguardo più vigile.
«Va tutto bene?»
chiese poi, allarmata, sebbene ancora intontita dal sonno.
«Sto bene. Davvero,»
si affrettò a rassicurarla, evitando i sottintesi di quella
domanda. «Lei, piuttosto, stava rischiando di
svegliarsi con la schiena e il collo a pezzi, ma l'ho salvata in
tempo, da bravo super-eroe,» proseguì, mantenendo
la conversazione su un tono leggero.
Si era scostato un poco,
ma rimase accanto a lei, con la mano ancora posata sulla sua spalla
in un contatto appena accennato che era incerto se rompere o meno.
Rimase
attento a captare il minimo segno di fastidio o disagio da parte sua.
«Grazie,» mormorò
Pepper, inclinando con una smorfia il collo indolenzito e
stropicciandosi gli occhi
arrossati
senza curarsi di nasconderli. «Non mi ero neanche accorta di
essermi
addormentata,» aggiunse, a giustificarsi.
«Sì, di solito il
sonno funziona così,» la canzonò lui,
strappandole a sua volta un
lieve sorriso. «Mi creda, sono un esperto del
settore.»
Nel parlare
si accigliò appena notando che gli occhi di Pepper si erano
fatti
liquidi, probabilmente in modo inconsapevole e slegato da
ciò che
le stava dicendo. Fece finta di niente e
rilassò di nuovo il volto.
«Non dovrebbe dormire
anche lei?» gli fece notare Pepper, in un richiamo bonario.
«La mia insonnia è
giustificata e inevitabile,» rispose lui, scivolando senza
volerlo
in un tono più cupo.
Pepper esitò, e lui ebbe
l'impressione che la sua aria composta potesse sfaldarsi al primo
soffio di vento.
«Anche la mia,»
ribatté infine, fissando le vene più scure che
sbucavano dal suo
colletto.
«Ha anche lei del
palladio nel sangue?» gli sfuggì, in modo troppo
ambiguo per far
capire se fosse una battuta o un rimprovero, e non sapendo lui stesso
come volesse intendere quelle parole.
Pepper cercò il suo
sguardo con occhi improvvisamente addolorati e lui sospirò,
staccando la mano dalla sua spalla per portarsela alla nuca in un
gesto stanco.
«Questa era pessima,»
ammise, contrito.
«Vorrei riuscire a
scherzarci su anch'io,» alzò le spalle lei, senza
risentirsi, ma
distolse lo sguardo.
Tony indugiò sul posto,
poi si sedette sul bordo del tavolo di fronte a lei per alleviare la
pressione sul moncherino.
«Andrà tutto bene,»
si trovò a mormorarle, forse rivolto più a se
stesso che a lei.
Soppresse l'impulso di
accarezzarle il volto e tenne le mani raccolte in grembo, strette
l'una all'altra a frenarsi da gesti che non era neanche certo di
volere o poter compiere. Pepper alzò lo sguardo
a incontrare il suo, ovviamente non persuasa da quelle parole banali
e artefatte. Tony si chiese da quando le sue iridi fossero diventate
di un azzurro più profondo e se avessero sempre avuto tutte
quelle
sfaccettature. Forse era per via dei suoi occhi ancora lucidi.
«Non ci crede neanche
lei,» replicò stancamente, cercando
però di riflesso la sua mano.
Tony la avvolse
d'istinto tra le sue, per poi realizzare ciò che aveva fatto
e
rimanere paralizzato, lottando contro l'impulso di sottrarre quella
artificiale. Rimase sorpreso quando lei non si ritrasse al contatto col
metallo e, anzi, gli strinse il pollice
meccanico con una naturalezza che lo lasciò confuso.
«Per ora no, ma ci sto
lavorando,» affermò schietto, con una debole
alzata di spalle. «C'è
sempre una via d'uscita. Devo solo trovarla o inventarla,
no?»
aggiunse poi, con più convinzione di quanta ne provasse.
A quello Pepper non
rispose, ma avvertì la stretta della sua mano farsi
più salda tra
le sue e sperò di essere riuscito a rassicurarla almeno un
po'. Rimasero in silenzio per
qualche minuto senza avvertirne il peso, accogliendolo come un
balsamo dopo così tante ore colme di apprensione e
negatività,
rinfrancati l'uno dalla presenza dell'altro.
Dopo un po', Tony si
accorse che Pepper iniziava a faticare nel tenere gli occhi aperti,
così si scostò dal tavolino e le
strizzò appena la mano per
riscuoterla.
«Signorina
Potts, va a letto da sola o devo portarcela io?»
la stuzzicò con un sorrisino malizioso ripescato
chissà
dove.
«Credo
di potermela cavare da sola,»
ribatté pronta lei, accogliendo quel tono spensierato come
una
boccata d'ossigeno.
«Peccato,»
commentò lui, mettendo su il suo impeccabile broncio unito
alla
collaudata espressione da cane bastonato.
Pepper
scosse la testa in un finto gesto di esasperazione e si alzò
dal
tavolo, coi movimenti rallentati e cauti che tradivano la sua
stanchezza, ma gli rivolse un piccolo sorriso mentre s'impegnava meno
del solito a ignorare le sue moine. Tony la sorresse d'istinto nel
vederla un po' instabile e quasi gli venne da ridere per la
situazione surreale in cui lui, quello con evidenti problemi motori,
aiutava lei. Pepper
uscì dalla cucina, coi piedi nudi che si posavano silenziosi
sul
marmo e i lembi di quei vestiti troppo larghi per lei che
ondeggiavano appena attorno alla sua figura esile e aggraziata. La
fissò quasi ipnotizzato. Avrebbe potuto avere addosso uno
straccio
di ultima mano e saperlo calzare con la stessa eleganza di un vestito
di Chanel. Si
trovò a seguire i suoi passi senza rendersene conto, spinto
da un
impulso che non era sicuro di dover assecondare. Lei non
obiettò, se
non quando furono ai piedi delle scale.
«Mi
sta facendo da scorta?»
osservò, in una domanda scherzosa che però ne
tradiva una più
seria, unita a un tenue rimprovero.
«Devo
tenerla d'occhio, in caso decida di sgattaiolare in ufficio per
lavorare,»
alzò le spalle lui, salendo al suo fianco i gradini
e tentando di
sfoggiare disinvoltura mentre si impegnava a non terminare la serata
ruzzolando giù e perdendo la poca dignità
superstite.
Pepper gli scoccò
un'occhiata divertita da sopra una spalla, rallentando appena per
permettergli di arrivarle accanto.
«Da
che pulpito...»
«...
il migliore,»
terminò lui, con un mezzo ghigno.
Arrivò
infine in cima alla rampa affaticato e con una fitta intercostale, ma
integro. La accompagnò fino
alla porta della sua camera, iniziando a farsi un po' più
cupo ad
ogni passo, e si fermò a una distanza superiore al
necessario,
esitando.
«Allora
io andrei a...»
Pepper
s'interruppe, notando lo sguardo grave che le stava rivolgendo e il
modo nervoso in cui spostava il peso da un piede all'altro,
ticchettando a terra col bastone. Si limitò a fissarlo
interrogativa, con un lieve imbarazzo che si palesò nel
rossore
affiorato al suo volto.
«Senti, lasciamo per un
attimo da parte le formalità, anche se in effetti sono molto
comode...» iniziò incerto lui.
Deglutì a vuoto,
trovandosi sotto il tiro dei suoi occhi chiari, fattisi di nuovo
penetranti e inquisitori.
«Forse è il caso di
parlare di nuovo delle nostre "esistenze
complicate".»
Scrutò la sua reazione, che fu un misto di sorpresa e
riluttanza: tamburellò brevemente
sullo stipite con le dita sottili, meditando sul da farsi.
«Pensavo volessi
dormire.»
«Non sai quanto, ma
stasera ho già dato il meglio di me. Ho pensato di chiudere
in
bellezza,» sospirò lui con debole ironia,
rivolgendole un sorriso
altrettanto fiacco. «Seriamente, è una faccenda
che
mi peserebbe
molto lasciare... in sospeso,» aggiunse a mo' di spiegazione,
per poi
abbassare di colpo lo sguardo, schiacciato dal reale significato di
ciò che aveva detto.
Si costrinse a prendere
un respiro profondo, sperando di non cadere di nuovo nell'affanno, ma
avvertì solo la costante costrizione al petto farsi un po'
più
marcata, come se anche la sua ansia fosse troppo stanca per provare
davvero ad assalirlo.
«Forse è meglio se ci
sediamo,» lo invitò lei, con un'occhiata alle sue
gambe sempre più
instabili, e in un solo movimento schiuse la porta varcando la soglia
per
prima.
Tony esitò una frazione
di secondo per poi entrare a sua volta, avvertendo le palpitazioni
del tutto illogiche del suo cuore mentre cercava di ignorare il fatto
di essere in camera di Pepper, con
Pepper e che
stavano per sedersi insieme sullo stesso
letto mentre
parlavano di... loro? Maledisse i propri
pensieri incontrollati. Non avevano altro su cui orientarsi? Per
esempio il palladio che lo stava uccidendo? A quel punto si
lasciò
sfuggire un involontario sospiro esausto, concludendo che le agitate
elucubrazioni riguardo al loro rapporto ambiguo erano comunque
più
piacevoli di quello.
Pepper accese
l'abat-jour mentre lui si lasciava cadere con ben poca leggerezza
sulla sponda del letto, soffocando un lamento: fare le scale non era
stata un'idea così saggia, nelle sue condizioni
già provate. Non
appena la donna si sedette accanto a lui captò un deciso
tuffo al
cuore e seppe che non aveva speranza di intavolare alcuna discussione
logica, con lei così vicino.
«Ti
dispiace se mi sdraio?» chiese
quindi, scostandosi un poco. «Non sono proprio in forma,
stasera,» si giustificò a
disagio, dandosi una pacca sulla gamba meccanica e sperando che la
vera causa della sua tensione non fosse così evidente.
Lei
alzò le spalle a significare che non era un problema e Tony
si
distese con sollievo, affondando la testa nel cuscino.
Realizzò
di aver commesso un errore quando riconobbe il profumo di Pepper
rimasto impresso sulla federa. Non poté fare a meno di
inspirarlo a
fondo, dandosi mentalmente dell'idiota mentre indulgeva in quel gesto
del tutto inappropriato. Lei si sistemò
seduta sull'altro posto,
poggiata contro la testiera e abbastanza vicina da poterla sfiorare
allungando una mano, se mai avesse voluto. La osservò di
sottecchi
mentre si raccoglieva i capelli in uno chignon morbido, e si costrinse
a distogliere lo sguardo da quei riflessi ramati, prima che
diventasse troppo vacuo.
«Quindi...»
esordì Pepper, schiarendosi un poco la voce e spostando
dietro
l'orecchio una ciocca ribelle sfuggita all'elastico.
«Sì...»
ribatté Tony, altrettanto a corto di inventiva su come
affrontare
l'ennesimo discorso complicato e per di più distratto da
quel gesto
e dall'orma del suo profumo.
Si
passò una mano sul volto e dissimulò un colpetto
di tosse,
esitando.
«Forse
conviene partire dalle basi,» ragionò infine
Pepper, traendolo
d'impaccio.
«Qualunque
cosa significhi, per me va bene,» concordò lui con
vigore,
accogliendo sollevato il fatto che fosse lei a parlare per prima.
«Ci
conosciamo da quasi dieci anni,» esordì lei a
mezza voce, come se
avesse timore di ciò che stava dicendo.
«Mi
sopporti da dieci anni.»
«Soprattutto.»
«Fa
parte del mestiere, no?»
«Di
solito ti sopporto volentieri.» Si bloccò,
diventando poi paonazza. «Di
solito.»
«Ormai
l'ha detto, signorina Potts. Verrà messo agli atti e usato
contro di
lei,» sogghignò Tony, sentendosi lusingato da
quell'ammissione,
sebbene un po' colpevole per quello che le aveva fatto "sopportare"
ultimamente.
Lei
gli rivolse un'occhiata storta, ma sembrava apprezzare il fatto che
stesse cercando di stemperare un po' l'imbarazzo con le sue solite
battutine sfacciate.
«In
dieci anni hai mai pensato di fare questo... tipo di
discorso?»
«Che
intendi?»
Ma
aveva già capito benissimo dove volesse andare a parare e,
se da un
lato la cosa lo feriva, dall'altro capiva come quello fosse un dubbio
ragionevole dal suo punto di vista.
«Se
non fossi in... in questa situazione, ne
parleresti?» confermò i
suoi sospetti lei, ancora a sguardo basso e torturando l'orlo del
lenzuolo.
Tony
sbuffò appena, pentendosi con tutto se stesso di essersi
andato a
cacciare in quella situazione senza uscita. E, per di più,
con
l'auto-imposta promessa di essere sincero.
«Diciamo
che fino a qualche tempo fa non ne avrei mai parlato in questi
termini. Ma non è un
capriccio dell'ultimo
minuto,» chiarì con fermezza.
«Ci sei... ci sei sempre
stata. Già in Afghanistan ho avuto modo di
riflettere su quali fossero le mie priorità, e ho capito...
hai
capito,» tergiversò, deglutendo con la gola secca.
«L'ho
capito anch'io mentre non c'eri,» lo sorprese
Pepper, in
un tono dolce che raramente le aveva sentito usare e che
accelerò i
suoi battiti. «Il punto è...»
«Il
punto è che sto morendo,» completò lui
con durezza, provando
l'improvviso e inspiegabile bisogno di dirottare il discorso su un
piano più crudo e realistico. «E questa
è una variabile che di
solito non si considera in nessuna... in nessun rapporto di qualsiasi
tipo,» si corresse in fretta esitando a classificare il loro
in termini netti, anche quello lavorativo era andato a farsi benedire
da tempo.
Pepper
giunse i palmi davanti al volto e poggiò i gomiti sulle
gambe
incrociate, come nel tentativo di assorbire quello che le aveva
detto.
«Che
casino,» riuscì a dire soltanto, in
tono così stanco da non sembrare quasi più lei.
«Non
mi sono mai piaciute le cose semplici,»
la rimbeccò lui, e Pepper sobbalzò a quelle
parole.
Tony
sprimacciò con un brusco gesto il cuscino, rifugiandosi poi
nel suo
odore rassicurante: iniziava a sentirsi frustrato e in gabbia,
mentre avrebbe solo voluto abbracciarla e stringerla a sé,
fregandosene di tutto il resto e di ciò che sarebbe arrivato
dopo.
Ma sarebbe stato solo l'ennesimo gesto egoista e impulsivo che
avrebbe poi rimpianto. Non poteva imporle tutto ciò. Non si
meritava qualcuno di così rotto, che
aveva rischiato di
rompere anche lei e che poi l'avrebbe lasciata sola.
«Senti,
vorrei solo capire cosa vuoi fare tu,»
sbottò infine, rendendosi conto con rassegnazione di come la
sua
voce fosse di nuovo instabile. «Ho
bisogno di avere almeno una certezza nella mia vita, oltre
a...» la
frase sfumò a metà, nel rendersi conto di quanto
sarebbe suonata
crudele. «Quello,» concluse con un nodo in gola,
pentendosi per
essersi lasciato andare.
«Possiamo
non decidere queste cose a tavolino?»
proruppe lei, innervosendosi a sua volta ed evidentemente
turbata dalle sue parole.
«Stiamo
solo analizzando i fatti.»
«Appunto.
Qui non stiamo parlando dei tuoi progetti o di un teorema.»
«In
realtà ci sarebbe l'equazione di Dirac che...»
«Ti
prego, non cominciare. Stiamo cercando di fare il punto della
situazione.»
«Beh,
siamo al punto in cui mi rubi i vestiti e...»
«È
un'emergenza, sai benissimo che...»
«...
credo rappresenti un traguardo importante, no? Insomma...»
«Tony,
non provare a sviare il discorso.»
«Beccato.»
Lui alzò appena le mani, chiedendosi come facesse a parlare
in modo
così leggero con quel peso sul petto che avrebbe dovuto
schiacciarlo, e trovando risposta nel sorriso appena intuibile che si
era disegnato sul volto di Pepper. Scosse
la testa, in un rimprovero a se stesso per quelle reazioni che
sfuggivano totalmente al suo controllo. Tornò serio e si
sforzò
davvero di non divagare ancora:
«Senti,
se anche vorrai andartene...»
«Ti
ho già detto che la mia risposta è no.»
Lui
tacque, di nuovo incredulo di fronte alla sua volontà di
rimanere.
«Trovare
altri lavori dev'essere veramente difficile al
giorno d'oggi,
signorina Potts,» commentò infine,
evitando il contatto visivo con lei.
«E
lei, signor Stark, è veramente
inopportuno.»
«Concordo,
ma potrei comportarmi molto peggio, vista la situazione,»
concluse, guardandola con un accenno della sua solita espressione da
discolo impertinente che inclinò verso l'alto le labbra
della donna.
La
vide accigliarsi subito dopo, scuotendo appena il capo.
«Tony,
so cosa vorrei fare... ma non è
così semplice.»
«Prova
a spiegarmelo. Anche non a parole, tanto abbiamo ancora tutta
la notte,» insinuò, tirando
di nuovo un sorrisetto e sperando di suscitarne un altro sul suo volto
per
allontanare di nuovo quella cappa opprimente che incombeva sui suoi
pensieri.
Lei
invece gli scoccò un'occhiata di blando rimprovero, per poi
farsi
seria. Così seria che il sorriso sul volto di Tony si
oscurò
all'istante, riconoscendo la durezza inequivocabile nei suoi occhi
limpidi.
«Mi
hai mentito,» dichiarò
infine lei. «E questo è
qualcosa che non posso ignorare, al contrario di
tutto il
resto. Posso perdonare le cucine distrutte, le sbronze, le risse, le
scappatelle disastrose, la tua arroganza e le tue risposte ingrate,
perché capisco
che almeno avevi dei motivi per comportarti
così,
per quanto discutibili,» disse tutto
d'un fiato, lasciandolo per un momento frastornato di fronte
all'enormità e al numero di errori che aveva commesso.
Tenne
lo sguardo fisso sul braccio che le aveva ferito, chiedendosi se non
avesse menzionato quell'episodio per una semplice dimenticanza o
consapevolmente e non riuscì a darsi risposta. Colse
però
l'occhiata fugace che rivolse al reattore. Forse avrebbe voluto
aggiungere anche quello alla lista di errori perdonabili. O forse era
lui a voler essere troppo ottimista.
«Mentirmi non ha giustificazioni,»
concluse lei, con durezza.
«So
di aver sbagliato,» replicò
quasi automaticamente lui: era così stanco di ripeterlo.
«Non
volevi dirmi di Iron Man, non mi hai detto di quanto stessi davvero
soffrendo dopo l'incidente, non mi hai detto dell'intossicazione fino
ad ora...»
Pepper si coprì la bocca con una mano,
fissandolo
corrucciata e con lo sguardo più addolorato che le avesse
mai visto,
e non ebbe bisogno di sentire il resto per rispondere, più
bruscamente di quanto intendesse:
«Non
ho più nulla da nasconderti.»
«Come
faccio ad esserne sicura?»
«Cosa
potrebbe esserci di più grave di questo?»
Si ritrovò ad alzare la voce e si allentò il
colletto in un gesto
quasi irato, scoprendo le vene intossicate, uniche vere colpevoli di
tutta quella
situazione. Vide
Pepper sobbalzare e ritrarsi a quella vista. Si pentì della
sua
reazione avventata e lasciò che la maglietta tornasse a
coprire quel
reticolo venefico, mantenendo però la mano posata sul
reattore.
«Sono
al capolinea, non avrebbe senso mentire ancora, soprattutto a
te,»
riprese, di nuovo pacato e in quel tono meccanico che non gli
apparteneva.
«E
io voglio crederti. Ma non posso ignorare il fatto che tu abbia mentito
a
tutti per un anno intero, su più questioni,
costantemente.»
«Non
sempre,» replicò lui
sottovoce, ma gli mancò il coraggio di continuare.
«Non
sto dicendo di non aver commesso errori io stessa,»
continuò lei, senza sentirlo. «Ho
sbagliato anch'io. Avrei dovuto ascoltarti davvero, capire che non
potevi stare bene e dirti che mi sentivo... che mi
sento
in colpa per quello che ti è successo, ma...»
«Ci
pensi ancora?» la interruppe lui, incupendosi.
Lei
si limitò a fissarlo senza parlare: il suo sguardo di nuovo
afflitto
rispose per lei e Tony avvertì una dolorosa stretta allo
stomaco.
Rimase a sua volta in silenzio, non sapendo come dissipare dai suoi
occhi quell'angoscia e quel rimorso ingiustificati, e finì
per
sfiorarle quasi inconsciamente il ginocchio, rompendo le barriere che
si era imposto in un tenue gesto di conforto a cui lei non si
sottrasse.
«Quando
abbiamo litigato, in laboratorio...»
esordì di colpo, inciampando però nelle sue
stesse parole.
Pepper
smise di torturare l'orlo del lenzuolo e lo guardò di
sottecchi.
Tony si arrischiò a continuare, esitante, rompendo il
contatto con
la sua pelle:
«È
stato mesi e mesi fa, magari neanche ti...»
«Mi
ricordo,» lo contraddisse
lei, stringendo di nuovo la stoffa tra le dita.
«Ok,
lasciamo da parte il "pre-doccia di caffè" e passiamo al
dopo,» disse in
fretta, sentendo di nuovo divampare la vergogna per il modo in ci
l'aveva trattata in quell'occasione. «Dopo
sono stato sincero.»
«E
poi hai ripreso a comportarti esattamente come
prima.»
«Non
intendevo quello. Insomma, hai ragione, ma non mi riferivo solo a
ciò che
ho detto,»
si interruppe, premendo le labbra e concludendo che quella era
davvero una pessima
idea, ma si costrinse a continuare: «Ero
sincero anche quando... anche in quello che stavo per...»
incespicò ancora, portandosi una mano al volto in un moto
di
frustrazione.
Rinunciò
a quella pantomima e sprofondò di nuovo nel silenzio,
mandando al
diavolo i chiarimenti. Che pensasse ciò che voleva: ormai
non aveva
comunque importanza, con un piede già nella fossa.
«Cosa
avresti voluto fare?» insistette lei
con sua sorpresa, dando perfettamente a intendere come conoscesse
già
la risposta a quella domanda, ma volesse sentirla con le sue
orecchie.
«Secondo
te cosa avrei voluto fare?» la
rimbeccò puntando lo sguardo altrove, all'altro capo della
stanza.
"Secondo
te cosa vorrei fare adesso?" pensò
invece, affondando la
testa nel cuscino e chiudendo l'occhio per impedirsi di vederla,
annegando però in quel profumo che
gli stava dando alla testa suggerendogli azioni sconsiderate.
Sapeva
che se in quel momento avesse incrociato i suoi occhi o guardato le
sue labbra o sfiorato la sua pelle avrebbe ceduto. Per l'ennesima
volta, si rammentò di dover essere migliore di
così.
Lei non era
una Everhart qualunque, non era una delle sue modelle o belle donne
in cui si era concesso di perdersi per anni senza rimpianti, non era
un desiderio passeggero che gli scaldava il basso ventre lasciandogli
freddi il cervello e gli occhi schermati da lenti scure, non era una
singola notte passata a cercare qualcosa in cui forse non aveva mai
creduto e che neanche si era mai aspettato di trovare. Qualcosa che
aveva trovato lontano dalle sue feste sfrenate e dal suo mondo dorato
di piaceri ed eccessi: era emerso in una grotta buia quando la
sua vita era attaccata a una batteria, riecheggiava nel richiamo
lontano che lo aveva spinto ad aggrapparsi alla vita anche quando
questa avrebbe voluto sbarazzarsi di lui, o lui di essa.
Non
poteva cedere di nuovo solo perché si
sentiva debole e
spaventato.
«Probabilmente
quello che vorresti fare anche ora,» constatò
infine lei con
un'acutezza che lo fece quasi boccheggiare.
Tony
si voltò infine a incrociare i suoi occhi, più
penetranti che mai,
e stavolta non riuscì a sottrarvisi. Poteva
mentire. Poteva ancora dirle che stavano ingigantendo una questione
banale, che non era del tutto lucido e stava farneticando, che era
umano e naturale che si sentisse attratto da lei, o che era
semplicemente terrorizzato dalla paura di morire da solo. C'era un
fondo di verità in ognuna di quelle risposte.
Quella
che gli sfuggì era l'unica che non avesse bisogno di alcun
filtro, e
lasciò le sue labbra intonsa nella sua semplicità:
«Non
è un segreto che io ti voglia nella mia vita.»
Deglutì a vuoto, senza osare muovere un muscolo.
«Ma
non con
del palladio che mi avvelena, un corpo da buttare, attacchi di panico
e sei mesi davanti. Non ho spazio per pensare a... ad altro,
anche se vorrei. Anche se vorrei,» ripeté a
fatica, chiudendo infine la palpebra per nasconderle quanto gli
stesse pesando fare quell'ultima confessione.
Udì
un suo respiro più profondo. Non un sospiro, né
uno sbuffo: un
semplice moto istintivo, quasi a scacciare la pesantezza di quelle
parole.
«Su
questo siamo d'accordo,» commentò infine,
sibillina e forse
sovrappensiero.
Tony
avvertì un'improvvisa morsa di gelo nelle viscere e
riaprì di
scatto l'occhio.
«Non
fraintendermi...»
Pepper continuò a parlare senza
alzare la testa,
concentrata sugli arabeschi del lenzuolo.
«Ho
capito benissimo. È comprensibile che tu non voglia qualcuno
di così problematico o rotto nella tua
vita, soprattutto dopo quello che ti ho fatto passare,» lo
disse in modo deciso ma senza rancore, col medesimo senso
di distaccata accettazione che aveva provato quando aveva realizzato
di star morendo.
«Sei
un idiota.»
A
quelle parole Tony rialzò lo sguardo, allarmato dal tremito
che le
aveva scosse. Pepper lo fissava con occhi lucidi, forse più
ferita
di quanto l'avesse mai vista.
«Pensi
che sarei ancora qui, se pensassi una cosa del genere? O che sarei
rimasta accanto a te per tutto questo tempo, se ti considerassi solo
un qualcosa di "rotto"?» gli chiese tagliente, alzando a
poco a poco la voce. «Non è più quello
il problema più importante,» continuò
alterata, indicando infine
il reattore al centro del suo petto, che lui coprì d'istinto
con
fare protettivo.
«Non
è ciò che hai detto qualche ora fa,»
ribatté disorientato, in
cerca di un appiglio e senza sapere come sottrarsi a quella furia
inspiegabile.
«Fino
a qualche ora fa non sapevo che stessi morendo!» proruppe
lei, a
voce più alta. «Non
so dirti che cosa vorrei fare adesso, perché non so neanche
che cosa
stia succedendo e non voglio capirlo,»
concluse, concedendosi
infine un sospiro tremolante.
A
quel punto le sue lacrime traboccarono, ma in silenzio, con una
compostezza così innaturale che gli ci volle più
di qualche secondo
per registrarle.
«E questo
perché
mi hai mentito, come
sempre,» ripeté, con voce rotta.
Tony
a quel punto si sollevò con sforzo sui gomiti, lacerato tra
l'istinto di abbracciarla e quello di scappare di lì prima
di
infliggerle altre ferite. Ma prima che potesse prendere una
decisione, Pepper tirò appena su col naso, si
asciugò con forza le
lacrime e tornò a guardarlo, con una sorta di fierezza negli
occhi
ancora umidi che lo persuase a rimanere al suo posto.
«Neanch'io
ho spazio per pensare ad altro. Anche se vorrei.»
Tony
riuscì solo ad annuire appena in risposta, ancora
paralizzato, con
lo sguardo vacuo e la lingua intorpidita. Ricadde sdraiato,
sentendosi privo di forze e spezzato da quell'ultima, schietta
affermazione. Si
portò una mano al volto, iniziando a capire cosa
intendesse
Pepper nel dire che non sapeva cosa stesse succedendo.
Quando
le aveva chiesto di parlare non aveva avuto una chiara idea di come
sarebbe finita la discussione, né di cosa volesse ottenere
lui
stesso. In realtà, una parte di lui aveva sempre saputo che
la
conclusione sarebbe stata quella, e non trovava la forza di
ribellarvisi. Non ancora, almeno, non quando si sentiva così
debole
e a un passo dal baratro.
«Ok,»
riuscì a dire con voce stentata «Allora siamo davvero
d'accordo, anche se per motivi diversi,» mormorò
frastornato.
«Tony, non sto parlando in modo definitivo. Ti sto solo
chiedendo di darmi... di darci
tempo,»
capitolò infine Pepper, fissandolo intensamente a rafforzare
la sua richiesta.
Quell'affermazione inaspettata portò con sé una
ventata di sollievo e un velo di serenità che sciolse il
nodo di tensione in cui si
erano avviluppate le sue membra. Sfruttò
quella calma momentanea per parlare, finché ne era in grado.
Non
poteva permettersi di rimandare nulla, e i dubbi e le esitazioni
erano un lusso che non poteva più concedersi:
«Ho
un paio di milioni di cose a cui pensare, il doppio da risolvere e la
metà del tempo che mi servirebbe per farlo,»
esordì in tono stanco, ma determinato. «A
questo punto sarebbe stupido correre.» Alzò un
sopracciglio con aria ovvia. «Ho
fatto un errore dietro l'altro, ma almeno ho imparato che le cose
riescono meglio quando si fanno un passo alla volta.»
Tornò
a guardarla, incatenando i loro occhi per essere sicuro che nessuna
sfumatura di ciò che voleva dirle passasse inosservata.
«E
appunto per questo neanch'io credo che sia il momento giusto
per...»
esitò brevemente, per poi rinunciare a trovare una metafora
calzante e fissarla
interrogativo, sentendosi allo stesso tempo pervadere da un calore
improvviso. «Per qualunque cosa volessimo provare a far...
funzionare.»
Pepper
annuì in risposta, indecifrabile, e sperò che
avesse capito ciò
che intendeva: sarebbe stato fin troppo facile tuffarsi a capofitto
in qualcosa di piacevole fingendo che tutto il resto non esistesse.
Avrebbe potuto baciarla lì, in quel momento, avrebbero
potuto
passare tutta la notte a cercarsi e trovarsi, finalmente,
dimenticandosi del resto – del palladio, delle bugie, del
futuro incerto
– e continuare a dimenticarsene per i giorni
e le notti successivi.
E
dopo? Cosa sarebbe successo quando avrebbe iniziato a stare davvero
male, quando avrebbe inevitabilmente cominciato a mentirle di nuovo e
ad allontanarla da sé
per schermarla dalla propria sofferenza? Si sarebbero solo ritrovati
con qualcosa di affrettato e incompleto, fragile e troppo doloroso da
sostenere. Sarebbero stati legati con un nodo malfatto, impossibile da
sciogliere se non recidendolo di netto, condannandola così a
convivere col groviglio doloroso che si sarebbe lasciato dietro. Non
era abbastanza coraggioso per affrontare una
situazione simile, né abbastanza vigliacco per trascinarvi
lei.
Soprattutto,
in fondo, sentiva di non meritarsi quel tipo di felicità
dopo aver
sbagliato così clamorosamente, più e
più volte, ferendola a più
riprese.
Prima
ancora di guarire nel fisico doveva combattere tutto ciò che
lo
teneva sveglio la notte e venire a patti con l'ombra dei suoi errori
che continuava a perseguitarlo. Poi avrebbe dovuto aprirsi davvero,
con tutti i suoi difetti e debolezze, e aspettare che anche lei fosse
pronta a fare lo stesso. Si rendeva conto di non essere l'unico ad
avere qualcosa da riparare, e mentre lei poteva intuire con discreta
chiarezza dove fossero le sue fratture, lui riusciva a malapena a
intravedere quelle che segnavano lei. Si era aspettato di chiudere una di quelle porte che continuavano a
occhieggiare dietro di lui, ma
alla fine l'aveva socchiusa per entrambi.
Forse un giorno avrebbero potuto
decidere di varcarla senza esitazioni, se avessero ancora
avuto tempo per farlo.
«È
strano sentirti parlare di calma, ragionevolezza e
prudenza.»
Pepper
inclinò appena le labbra in un qualcosa che poteva essere un
sorriso, così come una smorfia amara, e si sfregò
le guance ancora
bagnate.
«Chissà,
magari in dieci anni sei riuscita a contagiarmi con un po' del tuo
buonsenso,» commentò, con un mezzo sbuffo
soffocato dal cuscino.
«Anch'io
ho solo te,» proruppe lei a sproposito, e Tony ebbe
l'impressione
che avesse voluto dirlo già da molto tempo.
Ebbe
anche l'intuizione di non replicare, prima di scoraggiarla dal dire
altro.
«E
voglio solo starti accanto,»
affermò infatti subito dopo, con il tono di chi si
è tolto un
enorme peso dal cuore tornando finalmente a respirare.
«Allora
ti chiedo di starmi accanto nel modo che ritieni più giusto.
Non ho
bisogno d'altro. So che anche questo è strano, detto da
me,»
aggiunse, con un sorriso furbetto che suscitò una lieve
esasperazione
sul volto ora un po' più disteso di Pepper.
Tony
a quel punto s'incupì un poco, cercando la forza di
pronunciare le
parole che lo avevano oppresso sin da quando riusciva a ricordare:
«E
non merito di più.»
Finì per dirlo
molto più piano di quanto
avesse voluto. Era
stato poco più di un respiro, ma era certo che Pepper avesse
sentito
benissimo. Fissò le proprie mani asimmetriche e imperfette,
una
segnata da scalfitture nel metallo, l'altra da ustioni e cicatrici.
Percepiva lo sguardo della donna che lo osservava in modo insistente,
senza parlare. Dopo qualche secondo di quieto silenzio,
sentì le sue
dita che si insinuavano tra le ciocche disordinate dei suoi capelli,
scostandoli dalla sua fronte
in una breve carezza che gli strappò un sospiro involontario.
«Questo
non sei tu a deciderlo,» gli disse. «E neanche
io,» concluse con un
filo di voce, ritraendo la mano.
Con
un istante d'esitazione finì per posarla sulla sua guancia
sana,
in un tocco così leggero che avrebbe potuto essere
impalpabile, se
lui non fosse stato intento a percepire e accogliere ogni suo gesto.
Osservandola, invece dei mille pensieri intelligenti che avrebbe
potuto avere, provò solo l'improvvisa urgenza di riportarle
dietro
l'orecchio quella ciocca fulva e ribelle che continuava a scivolarle
davanti al volto.
«Dovremmo
cercare insieme la soluzione,» affermò lei con
improvvisa fermezza,
mentre lo derubava inconsapevolmente del gesto che avrebbe voluto
compiere lui e si sistemava sovrappensiero i capelli.
Tony
ci mise qualche istante a realizzare cosa avesse detto e rimase un
poco spiazzato, mentre risaliva al giorno in cui lui stesso le aveva
rivolto quella richiesta. Nel parlare rivolse di nuovo in basso lo
sguardo.
«Alle
nostre esistenze complicate?»
«A
tutto quanto.»
Tony
si decise a girare la testa per guardarla, seduta a gambe incrociate
con lo chignon sfatto, gli occhi ancora arrossati, le guance rigate e
quella maglietta troppo grande per lei che la faceva sembrare ancor
più esile di quanto non fosse. Nelle sue spalle appena
incurvate,
nelle dita della mano libera attorcigliate strettamente attorno al
lenzuolo, nei piccoli segni di tensione sul suo volto fine, riusciva a
leggere la sua paura. Paura di perderlo, di poter sbagliare, di
affrontare una realtà dalla quale lui avrebbe voluto e
dovuto
proteggerla. E allo stesso tempo percepiva distintamente la sua
risolutezza: emergeva dalla piega decisa delle labbra, dalla mano
posata sul suo viso, come a voler ancorare se stessa e lui nello
stesso punto, dai suoi occhi rossi, sì, ma limpidi e
determinati,
che sostenevano il suo senza vacillare.
Sentì
le proprie labbra incurvarsi spontaneamente verso l'alto, in un sorriso
che
scaturì da quel punto imprecisato tra il reattore e il cuore
che
aveva ormai imparato a riconoscere. In quell'istante capì
che gli
bastava quello: vederla accanto a sé e sentirla
così vicina
da potersi dimenticare per un attimo di se stesso.
Era
sempre Pepper, e quello non sarebbe mai
cambiato.
«È
un'ottima idea. Non per niente in principio era mia,»
puntualizzò,
sollevandosi in modo un po' goffo per portarsi seduto accanto a lei e
fissarla con tenue impertinenza.
«Sei
sempre il solito,» lo riprese prontamente lei nonostante la
voce un
po' rotta, scostandogli appena il volto con una spinta giocosa.
«Questa
sì che è una buona notizia,» la
canzonò lui.
Pepper
continuò a fissarlo, ruotando leggermente il capo, e lui si
rese
conto solo in quel momento di quanto i loro volti fossero vicini e di
come la mano di Pepper fosse ancora posata sulla sua guancia.
Sentì
un nodo d'apprensione tornare a strozzargli lo stomaco e
rimase immobile,
non osando quasi respirare, mentre la loro discussione gli scorreva
insistentemente in testa intimandogli di...
"...
non fare stronzate," si ripeté, in modo incredibilmente poco
convincente.
Guardò
Pepper negli occhi, ancora troppo vicini.
Prima
di poter realizzare cosa stesse facendo, si sporse appena verso di
lei e le sfiorò la guancia in un bacio leggero, senza
trovare il
coraggio di indugiare troppo a lungo sulla sua pelle tiepida, sulla
quale percepì il sentore del sale. Rimase a un soffio da
lei,
accarezzando con lo sguardo le sue guance punteggiate di efelidi e
chiedendosi se iniziare a contarle una ad una potesse essere un modo
efficace per distogliersi dalle sue labbra ora appena schiuse in un
moto di sorpresa.
«Forse
dovremmo...»
«...
dormire,» concluse con decisione lei,
sostenendo il suo
sguardo con fare eloquente senza però spostarsi di un
centimetro, guardando di rimando la sua bocca.
Tony
si riscosse nell'udire quelle parole già sentite e si
ritrasse,
rimanendo vicino a lei ma a una distanza più ragionevole,
con
sollievo e rammarico allo stesso tempo. La mano di Pepper era
scivolata sul suo braccio, come se niente fosse accaduto.
«Ho
ancora qualche ora di autonomia,» ribatté lui,
tentando di
riportare la situazione in campo neutrale.
Il
suo tono più basso di mezza ottava tradì quanto
gli eventi di
quella giornata interminabile l'avessero provato, così come
lo
sbadiglio trattenuto a stento che seguì, e che
strappò
un'espressione da "te-l'avevo-detto" a Pepper. Si sentiva
avvolgere sempre più da una piacevole, rilassata cappa di
stanchezza
che non aveva nulla a che vedere col senso di crescente esaurimento
delle ultime settimane. Forse, almeno per quella notte, sarebbe
riuscito a dormire sonni tranquilli.
Scivolò
oltre il bordo del letto, recuperò il bastone e si
alzò con
cautela, controvoglia e sentendo la gamba meccanica che protestava
vivacemente per lo sforzo.
«In
realtà mi piacerebbe rimanere qui, ma credo che sarebbe
inopportuno,» confessò, senza pensarci e
pentendosene all'istante.
Si
scambiarono un'occhiata e fu chiaro a entrambi che in realtà
nessuno
dei due lo avrebbe ritenuto così
inopportuno.
«Sarebbe
strano,» commentò solamente Pepper, con lo sguardo
puntato sul
materasso.
Tony
si limitò ad annuire, ammettendo che non era il caso di
confondere
ulteriormente le cose, soprattutto dopo ciò che si erano
detti e ciò
che aveva appena deciso contro ogni presunto buonsenso, così
si avviò
zoppicando verso la porta.
«Cominciamo
da domani? A cercare soluzioni, intendo,» le propose poi con
spossato entusiasmo, bloccandosi sulla soglia e appoggiandosi allo
stipite.
«È
la prima volta che la vedo ansioso di lavorare. Potrei davvero
iniziare a preoccuparmi, signor Stark,» lo prese in giro lei,
a sua
volta assonnata.
«L'ho
detto che sta iniziando ad avere una cattiva influenza su di me,
signorina Potts,» rispose a tono lui, rivolgendole uno
sguardo di
finto rimprovero.
Prima
di uscire, temporeggiò ancora qualche istante per
contemplare il suo
volto affaticato, ora ravvivato da un sorriso pieno e deciso che
le faceva brillare gli occhi.
Sorrise anche lui: era sempre la sua
Pepper.
Forse
non si meritava di più, ma non aveva davvero bisogno d'altro.
____________________________________________________________________________________________
Note Dell'Autrice:
Salve, prodi lettori giunti fin qua, e bentornati alla sagra dell'angst! <3
Scherzi a parte, mi rendo conto che questo capitolo è più pesante del solito, per usare un eufemismo. So che vi aspettavate altri sviluppi, ma nonostante la situazione tra quelle due zucchine sia finalmente "chiarita" dovrete aspettare ancora. Ammetto che in questo capitolo è stato particolarmente delicato e mi sono trovata ad affrontare temi per me molto sensibili. Perciò non mi sono sentita di "affrettare" le cose (per quanto sia paradossale un'espressione simile dopo 40+ capitoli...) Non mi dilungo ancora su questo punto: credo che i ragionamenti di Tony sulla "questione dell'attesa" esprimano già tutto, condivisibili o meno che siano :)
Per il resto: tirate un sospiro di sollievo, perché la carrellata d'angst più intenso è finita è appena cominciata! No, dai, non scappate...
Seriamente, i prossimi capitoli si manterranno su un sano miscuglio di fluff-angst con la battuta pronta di Tony a stemperare la situazione, quindi dovrebbero risultare molto più leggeri di questo. E avrete un sacco di PoV Pepper in cui riuscirò a mandare OOC pure lei :D (sto realmente meditando se inserire l'avvertimento OOC proprio in seguito a questo capitolo, fatemi sapere se la ritenete un'idea sensata).
Ringrazio _Atlas_ e Emyclarinet per aver recensito lo scorso capitolo e tutti coloro che leggono, seguono e aggiungono alle ricordate/preferite/seguite <3 Un grazie speciale a T612 che si è recuperata tutta la storia in tempo record, commentandone i capitoli salienti <3
Il prossimo capitolo in teoria è pronto. In pratica non mi soddisfa per niente, quindi preannuncio un aggiornamento attorno al 15-20 del mese prossimo per aver modo di lasciarlo "a riposo" per poi sistemarlo.
Bye bye, motherfuckers [Fury, esci dal mio PC]
-Light-
P.S. Nota tecnica: il metodo che usa Pepper per tranquillizzare Tony è funzionale alla storia, ma a onor del vero non è affatto consigliato durante un attacco di panico come primo approccio. La reazione al contatto fisico in questi casi è estremamente soggettiva e, mentre con alcune persone funziona (per la scena mi sono blandamente rifatta a delle esperienze con u* mi* amic* che reagiva bene agli abbracci), con altre scatena la reazione opposta e rischia anche di peggiorare l'attacco. Tutto ciò per evitare fraintendimenti o di urtare la sensibilità di chi, magari, soffre di questo disturbo e non si riconosce nella scena descritta.
P.P.S. Si è creato di sua sponte un altro capitolo, quindi il countdown si resetta a -8 ;)
© Marvel
|
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Capitolo 42 *** Showbiz ***
41
Showbiz
"When
the world is ours
But
the world is not your kind of thing
Full of shooting stars
Brighter
as they're vanishing"
[You're The Best
Thing About Me – U2]
11
Gennaio, Villa Stark
Capì
che c'era qualcosa di strano nel momento stesso in cui si
svegliò.
Non era necessariamente un'impressione spiacevole, ma non
riuscì a
metterla del tutto a fuoco, avvolto com'era dagli ultimi strascichi
di sonno e sogni fumosi ma graditi che tentavano inutilmente di
riprendere vita nella sua testa. Si girò sul ventre,
stiracchiandosi
piacevolmente mentre lasciava che i suoi sensi intorpiditi si
riattivassero a poco a poco. Tornò ad affondare la faccia
nel
cuscino e schiuse appena l'occhio incontrando la penombra della sua
stanza, nella quale filtrava un tenue chiarore dalla porta accostata.
Ci mise ancora qualche
secondo per dare un nome a quella sensazione: solo allora
realizzò
con stupore che si sentiva riposato. Erano almeno
sei mesi che
non dormiva così bene. Si sentiva anche meglio del previsto,
considerando gli scossoni del giorno prima. Percepiva solo un po' di
costrizione al petto e il solito formicolio ai moncherini, ma erano
entrambi sopportabili e si sentiva in grado di escluderli dalla
propria mente per godersi quel ritrovato senso di rilassatezza.
Dovette vincere la sua
rediviva pigrizia prima di alzarsi, e anche così
passò una mezz'ora
buona a bearsi nel dormiveglia e nel gradevole tepore delle coperte,
riuscendo anche a riallacciarsi a qualche immagine della notte appena
trascorsa. Constatò con blanda lucidità che la
maggior parte di
quei frammenti onirici coinvolgeva Pepper, in un modo che era meglio
rimanesse ben sigillato nella sua testa. Non si sottrasse a quelle
fantasie ideate dal suo inconscio, e si ritrovò anzi a
volervi
indulgere come mai si era permesso di fare in precedenza. Si costrinse
a
riscuotersi del tutto solo quando il proprio corpo iniziò a
reagire
con un po' troppa veemenza a quelle immagini allettanti ma
inconcludenti e si alzò barcollando, ancora un po'
intontito. Passò
dal bagno per darsi una rinfrescata e uscì poi in salone,
continuando a stiracchiarsi con quieto buonumore.
Fu subito
investito
dal chiarore improvviso, che lo lasciò abbacinato per
qualche
istante: il cielo grigio e invernale riverberava di luce, illuminando
il salone vuoto. Doveva essere mattino inoltrato. Si guardò
intorno in
cerca di Pepper, ma non vedendola concluse che stesse ancora
dormendo, o a sbrigare qualche incombenza alle Industries, o magari a
casa propria per darsi una sistemata. Non si diede pensiero per la
sua assenza: dopo l'estenuante chiacchierata della notte appena
trascorsa era più che certo che sarebbe tornata. Si sentiva
così
leggero che non avrebbe permesso ad alcuna ulteriore preoccupazione
irrazionale di rovinare quel breve momento di quiete. Sapeva
che era una
tranquillità temporanea, ma perché turbarla prima
del tempo? Certo,
non poteva definirla una situazione spensierata ed era senz'ombra di
dubbio la più complicata e delicata in cui si fosse mai
invischiato,
ma aveva la consapevolezza di aver dipanato una parte della matassa
di preoccupazioni che si portava appresso dall'incidente –
forse
anche da prima.
Poteva anche dire di vedere finalmente i fatti con
chiarezza, come tante piccole componenti di un progetto più
grande
che andavano assemblate con estrema cura e pazienza. Palladio, Expo,
Iron
Man, Pepper, imbarazzi inevitabili e sensi di colpa reciproci ardui
da dissipare: si trattava solo di far funzionare il tutto nel modo
migliore. Forse non era abituato a lavorare con "diavolerie"
di quel tipo, ma era pur sempre un genio: ne sarebbe venuto a capo,
in un modo o nell'altro. E poi, aveva ancora al suo fianco la persona
più qualificata che avesse mai incontrato in vita sua
– anche se
al momento gli sovveniva almeno un altro centinaio di aggettivi molto
meno neutrali per descriverla.
Fu così con passo un
po' zoppicante ma vivace che si avviò a fare colazione,
approfittando della tregua concessagli dalla nausea.
La porta d'ingresso
scattò proprio mentre era intento a sbucciare una mela senza
mettere
a repentaglio le dita superstiti. Voltò la testa
verso
l'atrio, sentendo subito un sorriso che gli tirava le labbra. Pepper
entrò rapida, destreggiando un carico di documenti notevole;
non si
accorse subito di lui mentre gli voltava brevemente le spalle per
chiudere la porta e liberarsi del cappotto. Tony osservò
che,
nonostante sembrasse piuttosto di fretta, il suo volto e la sua
postura erano rilassati. Teneva i capelli raccolti nel solito chignon
ordinato e indossava quel tailleur color castagno con cui l'aveva
accolto al suo ritorno dall'Afghanistan, dettaglio che gli
rievocò
quella sensazione di calore che l'aveva avvolto appena sceso
dall'aereo.
«Buongiorno,» la
salutò allegro, e nonostante avesse usato un tono di voce
pacato la
vide comunque sobbalzare appena per la sorpresa.
Si bloccò nell'atrio,
stringendo al petto le sue cartelle.
«Oh, buongiorno,»
ricambiò con garbo e un cenno del capo.
«Finalmente
si è
svegliato,» aggiunse, dopo una breve esitazione mascherata da
un
fugace sorriso.
Tony captò una sorta di
imbarazzo in quelle parole, come se non sapesse scegliere il modo in
cui porsi nei suoi confronti dopo tutto quello che era successo. Era
chiaro come lo stesse invitando a mantenersi su un terreno sicuro e
conosciuto a entrambi.
Si adeguò quindi al suo registro con naturalezza,
rivolgendole un'occhiata
d'intesa.
«Finalmente? È lei ad
essere mattiniera,» la prese in giro bonario.
«Sono quasi le quattro
del pomeriggio,» gli rivelò lei in tono
decisamente divertito.
«Cosa?!»
Il coltello
gli sfuggì e la lama stridette spiacevolmente contro la mano
meccanica, facendo socchiudere gli occhi a entrambi.
«Davvero?»
«Già,» confermò lei,
rivolgedo uno sguardo vagamente preoccupato ai suoi armeggi.
Superò poi la predella
del piano bar a cui era seduto per posare i documenti sul
mobiletto accanto al divano. Tony continuò a fissarla un po'
inebetito, facendosi due conti e concludendo di aver dormito la
bellezza di dodici o tredici ore filate. Quasi più della sua
media
settimanale complessiva, in effetti.
«Oh,» riuscì a
formulare infine, in un opinabile sfoggio di eloquenza.
Posò il coltello sul
bancone e si rassegnò a mangiare la mela con la buccia a
scanso di
ulteriori danni alla sua mano ancora funzionante. E per prendersi del
tempo, così da elaborare qualcosa di più
intelligente da dire oltre
a versi inconsulti.
«Volevo svegliarla, poi
ho pensato che sarebbe stato meglio lasciarla dormire,»
chiarì lei dopo
qualche secondo, e un'ombra trapelò sul suo volto a tradire
pensieri
più cupi, subito dissipata.
Tony realizzò in quel
momento perché aveva trovato la porta della sua stanza
socchiusa e
non serrata come al solito. Si sentì curiosamente
rassicurato dal
fatto che si fosse premurata di controllarlo, anche se era comunque
dispiaciuto per averla fatta preoccupare ancora.
«Ha pensato bene, ne
avevo bisogno,» bofonchiò tra un morso e l'altro.
«Adesso potrò
fare concorrenza a Capitan Ghiacciolo per il "sonno più
lungo
del secolo",» commentò leggero, con un'alzata di
spalle.
Finì di mangiare con
calma, sorseggiando poi il suo caffè mentre Pepper
approntava con
gesti precisi la sua solita postazione di lavoro sul divano e si
allontanava per recuperare altri incartamenti
dall'ufficio. Tony
iniziò a chiedersi il perché di tutto quel
daffare, e non appena la
vide ricomparire in salone si alzò per andarle incontro,
senza
nascondere la propria curiosità. Meditò per un
istante se farle un
complimento per come era vestita, ma decise infine di astenersi,
temendo di risultare fuori luogo. Non poté però
evitare che il suo
sguardo si illuminasse nel guardarla e al ricordo dell'ultima volta
che l'aveva vista in quel completo. A un paio di passi da lei
cacciò
una mano nella tasca della felpa e si puntellò sul bastone
con
improvviso nervosismo, decidendosi poi a mettersi semiseduto sullo
schienale del divano. Cercò di non pensare a cosa fosse
successo
proprio lì la sera prima, ancora titubante nel definire il
suo sfogo
come qualcosa di piacevole o meno. Lei rimase diritta al suo posto,
senza scostarsi; non sembrava tesa, solo indecisa.
«Uh, lei come ha
dormito?» esordì lui tanto per dire, cercando di
ritardare il
momento in cui avrebbero dovuto probabilmente parlare,
di
nuovo.
«Poco, ma bene,» lo
rassicurò lei, altrettanto impacciata.
«Non doveva alzarsi
così presto, non c'era nulla di così urgente di
cui occuparsi alle
Industries,» continuò poi, accigliandosi un poco.
«In realtà qualcosa di
urgente c'era...» Pepper si chinò rapida per
afferrare una
cartellina dalla pila che aveva appena portato. «Mi sono
presa
la
libertà di stilare questo,» spiegò,
porgendogliela con un gesto
fluido.
Lui la prese con una
lieve esitazione. Guardò brevemente lei da
sotto le ciglia e prese nota del lieve nervosismo che emanava,
stemperato però da una sorta di tenue aspettativa, come
fosse
impaziente di vedere la sua reazione. Aprì con malcelato
interesse il fascicolo e gli
bastò leggerne le
prime righe per capire il motivo di quel comportamento.
Sentì la
propria bocca schiudersi involontariamente e riportò lo
sguardo
stupefatto su di lei, senza riuscire a emettere alcun suono.
Tornò
poi a scorrere rapidamente il documento, lungo una decina di pagine.
Arrivato all'ultima si rese conto che la parlantina sagace che era
sempre stato il suo marchio distintivo era ancora fuori servizio e
l'aveva lasciato molto banalmente senza parole. Si riscosse solo
quando una nota di preoccupazione si palesò sul volto di
Pepper,
come se temesse di averlo in qualche modo turbato.
«Lei ha... ha fatto
tutto questo in una mattina?» riuscì ad articolare
vincendo lo
stupore, con lo sguardo fisso sul primo foglio mentre ne rileggeva
più volte l'intestazione quasi a imprimersela a fuoco nella
mente.
«Una lunga
mattina,» puntualizzò lei, ora con un sorriso che
lottava per
nascere agli angoli delle labbra.
Lui scosse appena la
testa, ancora incredulo e incapace di focalizzarsi su un'unica
emozione tra quelle che si stavano rimescolando piacevolmente dentro
di sé.
«È così facile?
Spediamo questo ed è fatta?» la
incalzò, sentendo infine le sue
labbra che si inclinavano sempre più verso l'alto, e il
principio di
una risata che prendeva a solleticargli la gola, rendendo
più sonora
la sua voce.
«C'è un altro migliaio
di autorizzazioni da redigere e far approvare, ma... sì, da
questo
parte tutto,» puntò un dito affusolato sul plico,
senza nascondere
la sua soddisfazione per l'effetto che aveva ottenuto, «Lo
consideri
un regalo di Natale un po' in ritardo.»
«Non so cosa dire,»
confessò a mezza voce lui, senza nascondere la sua
ammirazione.
«Farò finta che
l'abbia detto, come sempre,» replicò lei, senza
traccia di
risentimento nella voce.
Tony a quel punto si
riscosse e si agitò sul suo sedile improvvisato, scoccandole
un'occhiata fugace.
«Oh. Giusto. Grazie,» proferì infine,
dandosi dell'idiota e provando la forte tentazione di
darle un altro bacio sulla guancia per rimediare alla gaffe.
Tentazione che fu pronto
a soffocare e che si tramutò in un semplice sguardo colmo di
calore.
Si intimò di riportare la sua attenzione su ciò
che stringeva tra
le mani e non alla sera prima, rischiando di tornare a sentire la
pelle liscia della sua guancia sulle proprie labbra, né ai
sogni che
ancora aleggiavano tra i propri pensieri in modo decisamente
sconveniente e che non favorivano il suo autocontrollo già
abbastanza labile.
Si impegnò a leggere di
nuovo con scrupolosità la richiesta di autorizzazione per la
Stark
Expo 2010, per assicurarsi che non fosse anche quella un
frutto della
sua immaginazione. Non ricordava di aver mai letto alcun documento
con tanto interesse e non riusciva a togliersi quel sorriso enorme
dalla faccia. Stava praticamente scalpitando sul posto, sentendo
l'impellente bisogno di muoversi, camminare, dimenarsi per scaricare
quella trepidazione positiva che gli vibrava nel petto; se avesse
potuto, si sarebbe messo a fare i salti di gioia.
«Si è informata sulla
Expo del '74?» chiese d'un tratto, accennando al luogo
prescelto,
ovvero il parco di Flushing Meadows a New York.
«Diciamo che ho avuto
accesso a informazioni di prima mano,» replicò lei
facendo
spallucce, e fece sporgere dalla tasca la chiave dello studio di suo
padre.
Di nuovo, Tony rimase di
sasso, a chiedersi per la milionesima volta cosa avesse fatto per
meritarsi quella donna nella sua vita.
«È solo una bozza;
possiamo sempre modificare la sede, se...»
cominciò lei,
impensierita dal suo silenzio.
«Va benissimo così,»
la rassicurò lui, con fermezza. «New York
è perfetta: non avrebbe
avuto senso organizzarla altrove,» aggiunse, con una punta di
malinconia.
I contorni di immagini
sfocate stavano emergendo dai meandri della sua memoria: l'Unisfera
scintillante di luminarie, gli alti zampilli delle fontane colorati
da proiettori, la folla in fervente attività che passeggiava
tra i
viali alberati, i padiglioni di vetro che punteggiavano il parco,
ognuno con le proprie meraviglie tecnologiche da mostrare ai suoi
occhi di bambino, sua madre che lo accompagnava per mano attraverso
il parco illuminato a festa...
Sapeva che Pepper aveva
notato la sua espressione distante, ma la cosa non gli diede
fastidio: non trovava più motivo per nasconderle quel che
provava,
non dopo la sera appena trascorsa. Anzi, si arrischiò a
scivolarle accanto, pur senza ricercare attivamente un contatto
diretto. Voleva solo sentirla più vicina in quel momento
sereno,
cercare di trasmetterle tutto ciò che quel semplice foglio
che
stringeva tra le mani aveva suscitato in lui: quei ricordi lontani e
spensierati, il desiderio di mettersi all'opera e realizzare
ciò che
per ora aveva forma solo nella sua testa, la consapevolezza di poter
ancora fare qualcosa di buono e la gioia di poterlo fare assieme a
lei. E anche, racchiusa in quell'involucro di sensazioni come una
minuscola ma preziosa perla nel suo guscio, la speranza di poter
riparare tutto quanto, incluso se stesso.
Pepper si accostò a sua
volta a lui, ma riprese a parlare in modo leggermente più
concitato
e gesticolando appena, nel tentativo di riportare la loro attenzione
sull'argomento attuale e non sul fatto che i loro corpi adesso si
sfiorassero o che entrambi riuscissero a percepire il calore
dell'altro.
«Ho visionato il suo
progetto per la Expo con l'aiuto di JARVIS,»
esordì con vivacità,
riuscendo in parte nell'intento. «Se iniziamo a lavorare da
adesso,
col supporto delle Industries e delle società controllate
dovremmo
riuscire a completare i preparativi entro fine aprile,»
disse, con
certezza dettata da anni di esperienza lavorativa.
Tony si lasciò sfuggire
un moto di sorpresa a quella notizia decisamente positiva.
«Pensa che il consiglio
farà storie?» chiese poi, restio ad accettare
tutto quell'ottimismo
e con una linea di preoccupazione a solcargli la fronte.
«Ci può scommettere,
ma abbiamo la maggioranza del pacchetto azionario, quindi non
potrà
far altro che sottostare alle nostre decisioni,»
annunciò
compiaciuta, scacciando però solo in parte quelle ombre dal
suo
volto.
«Lo faremo e basta, consiglio o meno,»
asserì perentorio, stringendo saldamente i fogli.
«Non ho intenzione
di farmi ostacolare da loro dopo che hanno cercato di tagliarmi fuori
e aver scondinzolato per Stane per chissà quanto
tempo.»
Si
costrinse a rilassare le mani, o avrebbe finito per piegare la
cartellina.
«Sarebbe meglio agire
diplomaticamente,» lo ammansì lei. «Con
il loro consenso sarebbe tutto
più facile. E rapido,» aggiunse in fretta, senza
guardarlo.
«Ignorarlo sarebbe
ancora più rapido. Potrei finanziare tutto di tasca mia
senza star
dietro a quegli sciacalli e...»
«... e finire sul
lastrico,» completò lei, con un cipiglio di pura
apprensione che
andava accentuandosi.
«Per quanto mi riguarda, posso anche mandare le
Industries in bancarotta. Che me ne faccio dell'azienda
se...» si
bloccò e tartagliò per un istante,
«Se... M-ma così lascerei lei
nei guai e vanificherei tutto il progetto del retaggio, quindi
sarà
meglio fare le cose per bene,» si corresse precipitosamente,
piantando di nuovo l'occhio sul documento e non osando verificare la
reazione di Pepper.
Non voleva parlare di
quello,
né spingere lo sguardo troppo in là nel futuro
quando non
era certo di quanto lontano potesse guardare. Ma i suoi pensieri
ripiombavano sempre lì, in quel vortice continuo che li
attirava
inesorabilmente.
«Mi occupo io del
consiglio,» disse Pepper, senza commentare. «Lasci
fare a me: ho
affrontato di peggio,» concluse, riservandogli un'occhiata
eloquente
stemperata dalla sua espressione bonaria.
Lui sollevò appena un
angolo della bocca, ma tenne lo sguardo fisso sulla carta tra le sue
dita, mentre rifletteva su quelle parole, di nuovo catturato nel gorgo
dei
suoi pensieri.
«Dovrei formalizzare in
modo definitivo la sua posizione di amministratore delegato.
Così
non sarà costretta a rincorrermi qua e là per
ogni firma,»
commentò infine, sforzandosi di suonare indifferente alle
implicazioni di quel proposito.
Pepper si mosse a
disagio e si frenò visibilmente dal torcersi le mani, ma
anche lei riuscì a mantenere un contegno impassibile e
una voce ferma:
«Non è necessario
farlo adesso. E credevo che dovessimo cercare una soluzione insieme,»
gli ricordò con naturalezza, accostandosi quasi
impercettibilmente a
lui.
Bastò quello a trarlo
in salvo, lontano dalla spirale che minacciava di risucchiarlo verso
il fondo. Espirò
in silenzio, allentando la pressione al petto: non poteva
cadere di nuovo.
«Ok, ci ho provato. Lo
sa che sono un lavativo,» replicò, sforzandosi di
suonare divertito. «Quindi? Da dove iniziamo?»
aggiunse, sfoderando un sorriso
furbetto e allusorio che le fece abbassare gli occhi chiari in un
riflesso imbarazzato.
«Ho con me tutta la
documentazione da visionare e le autorizzazioni preliminari da
firmare, da allegare alla richiesta formale al Congresso –
quella,»
sciorinò poi senza scomporsi ulteriormente, accennando alla
cartellina che Tony ancora teneva in mano.
Lui la chiuse e si
inclinò poi all'indietro per adocchiare la pila instabile di
documenti
che troneggiava sul mobiletto, liberando un lieve fischio
impressionato.
«Beh, allora sarà
meglio metterci al lavoro,» decise con repentina allegria.
Si staccò dal divano e
la precedette all'ampio tavolo di vetro mentre già iniziava
ad
aprire schermate a mezz'aria.
«Forza, non dovevamo
collaborare?» la incitò poi con
un gran sorriso, rischiando
allo stesso tempo di farsi da solo lo sgambetto col bastone nella
foga di sedersi.
La vide esitare per un singolo istante, prima di
afferrare a colpo sicuro una manciata di documenti e seguirlo a ruota,
contagiata
dal suo entusiasmo.
«Penso che sia la prima
volta in dieci anni che mi aiuta volontariamente con la
burocrazia.»
«Mi piace questo modo
di "cercare soluzioni",» replicò lui con un
sorrisino
impertinente quando gli arrivò accanto, per poi fissarla con
più
intensità.
Lei ricambiò in
silenzio, con gli occhi che le brillavano di una luce serena;
Tony si trovò ancora una volta a fissare le sue labbra e
distolse lo
sguardo.
«Insomma,
credo sia un buon inizio per... come dire... oh, ha capito,»
rinunciò infine, mentre il suo sorriso virava nell'imbarazzo.
«Ho
capito,» confermò lei con dolcezza, sedendosi poi
al suo fianco.
***
11
Gennaio, 21:30, Villa Stark
«È
l'ultimo?» esalò
Tony, visibilmente stremato e adocchiando l'ennesimo plico di
documenti da visionare che Pepper stava inesorabilmente spingendo
nella sua direzione.
«No,» lo deluse lei a
sua volta spossata, mentre leggeva per la settima volta la stessa
riga senza riuscire a evitare che le parole si fondessero tra loro.
Tony prese un grosso
respiro e abbandonò teatralmente la testa all'indietro, per
poi
rimettersi al lavoro senza ulteriori lamentele.
Pepper si portò una
mano alla fronte, a sorreggerla mentre si imponeva di concentrarsi
almeno il tempo necessario per terminare quel foglio, prima di
concedersi la prima pausa nell'arco di due ore e passa. Tony era
altrettanto preso, cosa del tutto sbalorditiva, considerando la sua
viscerale repulsione per il lavoro d'ufficio e la sua
incapacità di
stare seduto per venti minuti di fila al di fuori del suo
laboratorio. Era evidente quanto fosse in fibrillazione per quella
faccenda, e nonostante adesso iniziasse a ciondolare un po', accusando
la stanchezza, aveva l'espressione più rilassata che gli
avesse
visto da un paio di mesi a quella parte. Non sapeva dire se il merito
fosse da attribuire più alla prospettiva della Expo o alla
loro
chiacchierata della sera prima, ma era contenta di vederlo
più
sereno. Quel giorno si era sentita prima rassicurata nel vederlo
dormire profondamente e a lungo come non faceva da tempo, e poi
piacevolmente travolta dalla sua felicità così
manifesta nel
ricevere la notizia sulla Expo. Era valsa la pena alzarsi dopo appena
tre ore di sonno anche solo per vederlo sorridere così
spontaneamente. Quel fatto aveva rievocato una vivida traccia di quella
gioia che
l'aveva scossa nel vederlo scendere da un aereo dopo tre mesi di
assenza. Era sempre più lieta di aver prestato ascolto alla
sua
insolita vena scaramantica quella mattina, quando aveva scelto
proprio quel completo ormai legato unicamente a momenti positivi.
Anche ora si sentiva
più leggera, nonostante un peso difficilmente ignorabile
continuasse a tenerla
inchiodata a terra, ricordandole che tutta quella
tranquillità era
solo un mare piatto che nascondeva correnti infide appena sotto la
superficie. Si era imposta di non turbare quella calma, sentendosi
allo stesso tempo pervadere da un senso d'inadeguatezza nel farlo: le
ricordava l'atteggiamento ipocrita che avevano adottato subito dopo
l'incidente, quando si erano ostinati a fingere che andasse tutto
bene. Adesso però erano
entrambi consapevoli di tutto ciò che
stava accadendo.
Forse
anche troppo, realizzò, quando si trovò di nuovo
a fissare i
lineamenti di Tony come se li vedesse per la prima volta. Non avrebbe
mai dimenticato le lacrime che li avevano solcati la sera prima,
né
il modo in cui lei li aveva accarezzati mentre lo stringeva a
sé, in
un gesto che avrebbe dovuto compiere molto tempo prima e che lui,
adesso ne era certa, aveva sempre inconsciamente aspettato. L'aveva
capito nel momento in cui anche Tony l'aveva cercata istintivamente,
aggrappandosi a lei e valicando quelle barriere fisiche che aveva
costruito lui stesso. Poteva ancora percepire il suo petto scosso dai
singhiozzi mentre la stringeva con forza a sé, o il suo
respiro che
le sfiorava il collo mentre si rifugiava esausto nel suo abbraccio, o
la propria mano avvolta nella stretta salda ma gentile dei suoi palmi
– uno ruvido e segnato dal lavoro, l'altro freddo, ma vivo
e frutto di quel lavoro – o le sue labbra che le sfioravano
la
guancia, solleticandola appena col pizzetto.
Dovette trattenersi per
non portare le dita al volto a lambire quello stesso punto, come se
ciò potesse rievocare la sensazione. Si trovò a
pensare a tutto il
resto che si frapponeva tra loro due quasi in un meccanismo di
autodifesa, nonostante ciò le portò subito un
velo liquido davanti
agli occhi.
Riuscì a riscuotersi da quei pensieri al momento
inutili
e dolorosi, indirizzandoli verso ragionamenti più sensati
che
coinvolgessero più il cervello che il cuore, ma non
riuscì a
dirottarli più di tanto. Si
era trovata a riflettere molto, sia quella notte che nel corso
dell'intera giornata.
A conoscerlo
bene, Tony non era mai stato un tipo davvero espansivo – se
non in
contesti sui quali non si era mai voluta soffermare più di
quanto
fosse lecito per un'assistente – e lo era più a
parole che coi
fatti, soprattutto per quanto la riguardava. Non ricordava una
singola volta in dieci anni in cui si fosse azzardato ad assumere
comportamenti sconvenienti con lei, al di là delle sue
battutine
licenziose che mantenevano comunque un certo livello di decoro. Non
aveva
mai fatto mistero di quanto la ritenesse attraente, ma l'aveva sempre
trattata come fosse incorporea, se non per qualche sporadico gesto
d'affetto spesso coperto da un velo d'ironia o giocosità. Aveva
sempre interpretato quella distanza come semplice cavalleria, ma
forse, visto ciò che le aveva rivelato ieri, era anche volta
a
nascondere quanto davvero tenesse a lei, soprattutto dopo
l'Afghanistan.
Quella condotta si era
però drasticamente acuita da quando era tornata, lo scorso
giugno.
Tony aveva pressoché azzerato qualunque contatto diretto,
come
seguendo una nuova regola non scritta e inviolabile. All'inizio non
era riuscita a decifrare del tutto quella novità, che a
pensarci
bene non era tale: già dall'incidente e ancor più
dopo le operazioni aveva notato un irrigidimento
in quel suo modo di fare, come se non fosse più solo una
questione
di rispetto e professionalità nei suoi confronti. Avvertiva
una sorta di
timore nel venire in contatto con lei, ma anche una felicità
palpabile quando era lei a colmare per prima le distanze –
cosa che, doveva ammetterlo, non le era mai dispiaciuto fare.
Adesso
riusciva a intravedere le radici di quel comportamento, un po'
ripensando alle sue confessioni e agli eventi appena trascorsi, un
po' affidandosi all'intuito che le permetteva ancora di leggerlo e
capirlo più di quanto volesse lui stesso. Era andata a
ricostruire
un mosaico composto da tasselli dolorosi: dal rifiuto per un corpo
che ormai non sentiva più come davvero suo, a performance
sbattute
sulla prima pagina di riviste di gossip per ridicolizzarlo; da quella
sensazione di incompletezza latente che gli impediva di cercare e
accettare ciò che avrebbe voluto con tutto se stesso, al
senso di
colpa per averle inavvertitamente fatto male ormai quasi un anno
prima.
Quell'ultimo fatto era forse il più esplicativo per come si
impegnava in modo quasi maniacale nel tenere le protesi il
più
lontano possibile da lei, rimanendo stupito o in tensione quando lei,
dopo il primo momento di esitazione, non si era mai fatta alcun
problema a trattarle come parti
integranti e naturali di lui, nella speranza che scacciasse prima o
poi quella sua idiosincrasia, seppur comprensibile.
Anche adesso, a poche
ore dalle esternazioni che sembravano aver attenuato quella sua
reticenza di fondo, si muoveva attorno a lei con un'accortezza e un
impaccio evidenti, sebbene s'impegnasse molto meno a nascondere quanto
realmente volesse starle vicino, e quanto ciò lo facesse
stare bene.
Le sembrava di vederlo costretto in un impacciato limbo autoimposto,
nel quale rimaneva immobile nel timore di turbare equilibri
già
abbastanza fragili.
«Sono forse nei suoi
pensieri?»
La voce di Tony la fece
sobbalzare e si rese conto che lo aveva fissato in tralice fino a
quel momento. Non sapeva da quanto lo stesse guardando, né
da quanto
se ne fosse accorto, ma a giudicare dalla sua posa studiata, col
mento appoggiato alla mano e le sopracciglia alzate con fare
sornione, stava trovando la cosa molto divertente. Pepper
cercò di
riprendere un contegno, per quanto le fosse possibile considerando lo
scarso contributo dei suoi vasi sanguigni ipersensibili, che
ovviamente avevano già indirizzato il loro intero contenuto
alle
guance, rendendole scarlatte. Ignorò anche i sottintesi di
quella
domanda che, alla faccia dell'impaccio
e degli equilibri,
era
accompagnata da un sorrisetto obliquo e indiscutibilmente malizioso.
A parole era sempre il solito, incorreggibile, spudorato Tony
Stark. Ma lo adorava anche per quello. Ecco, questo
non
avrebbe dovuto pensarlo.
«Sono un po' stanca; mi
ero incantata,» replicò con
tranquillità fittizia, suscitando un
guizzo furbo nell'iride di Tony.
«Non è una novità,
con me le succede spesso,» commentò con
immodestia, nel palese
tentativo di trattenere una risatina compiaciuta.
Pepper lo fulminò con
lo sguardo, ma non si prese la briga di negare il fatto; d'altra
parte, i suoi zigomi adesso color porpora avrebbero reso ridicola
ogni giustificazione. Invece, prese una risma di documenti dalla
propria pila per piazzarla con dispetto su quella di Tony, che in tutta
risposta
le rivolse una smorfia esageratamente offesa prima di riportare
l'attenzione ai propri compiti. Era evidentemente troppo impaziente
di porre fine a quella sequela interminabile di pratiche per avviare
un battibecco.
Pepper si ritenne
soddisfatta e si allungò sul tavolo per prendere la sua
ultima fetta
di pizza dal cartone posto in mezzo a loro – Tony, alla fine,
l'aveva avuta vinta sul cenare insieme –
decidendo di essersi
meritata quella pausa. Notò in quel momento che lui aveva a
malapena toccato la sua metà. Lo osservò di
sottecchi, adesso
accasciato sul tavolo a braccia conserte e con la guancia spalmata
sulla mano meccanica, mentre compilava fiaccamente il modulo che gli
aveva appena rifilato – che dubitava riuscisse davvero a
leggere da
quella posizione.
«Non ha fame?» gli
chiese, con leggera titubanza.
Tony sollevò appena la
testa e scoccò una rapida occhiata al cartone; Pepper vide
il suo
volto tendersi.
«Non molta.»
Sforzò
un sorrisetto poco convincente per poi tornare a compilare e firmare
scartoffie con insolito zelo.
Pepper evitò di fargli
presente che dal giorno prima a pranzo aveva mangiato appena una
mela. Trangugiò senza gusto la pizza e riprese a lavorare,
nonostante il suo sguardo fosse ora istintivamente calamitato dal
colletto della felpa di Tony, sotto il quale faceva capolino qualche
sottile venatura scura. Una, particolarmente pervicace, si era
inerpicata fino a lambire il pomo d'Adamo, motivo per cui nell'ultima
settimana l'aveva visto solo con indumenti a collo alto. Si chiese
sconfortata come avesse potuto non trovarlo sospetto, ed
evitò di
darsi una risposta, consapevole che avrebbe solo riacceso la rabbia
irrazionale nei confronti dell'uomo per la fiducia che aveva tradito
così deliberatamente e così a lungo.
Si accorse di stringere
la penna con forza eccessiva e che le sue ultime firme sembravano
incise sulla carta con uno scalpello, così si
affrettò a posarla
con un gesto un po' troppo secco che richiamò l'attenzione
di Tony.
Lanciò un'occhiata a lei, poi alla penna, infine
tornò a
scarabocchiare il suo nome sulle scartoffie, prima di fermarsi a sua
volta. Poggiò il mento sulle mani, che andarono poi a
coprire
proprio il collo, intrecciando le dita sulla nuca con fare stanco.
«La clorofilla mi
toglie l'appetito,» esordì senza preavviso, quasi
distrattamente,
con lo sguardo puntato sui fogli dinanzi a sé. «E
il palladio mi fa
venire la nausea. Non è una combinazione
ottimale.»
Tentò un mezzo
sorriso, che si tramutò subito in una smorfia mesta.
Pepper non riuscì a
voltarsi subito verso di lui, intenta ad assorbire la conferma di
quello che in fondo aveva già intuito. Quando ci
riuscì, le
saltò
subito agli occhi la sua magrezza, così evidente da farla
quasi
sprofondare. Era sempre stato di corporatura robusta, ma negli ultimi
due anni aveva perso gradualmente peso; prima in Afghanistan, poi per
la dieta più rigorosa che aveva dovuto osservare a causa del
suo
cuore
malmesso e per l'attività di Iron Man. Aveva ovviamente
notato come
il processo si fosse accentuato dopo l'incidente, ma l'aveva ritenuto
normale, considerate le circostanze. Poi grazie a Nataša
aveva
recuperato almeno un po' di tono muscolare, e lei aveva finito con
l'abituarsi al suo aspetto un po' più asciutto. Adesso prese
nota
con inquietudine delle sue guance smunte, con gli zigomi appena
sporgenti, e di quanto fossero diventate visibili le sue clavicole.
Era quasi sicura che, senza felpa, avrebbe
potuto contargli senza problemi le costole.
«Dovrebbe almeno
provare a mangiare qualcosa,» lo spronò cautamente.
Lo vide scuotere appena
la testa e sembrò improvvisamente a disagio.
«No, non...» si
schiarì la gola. «Uh, diciamo che di solito il
cibo
non rimane nello
stomaco abbastanza a lungo da essere digerito,» concluse
svelto,
parafrasando con insolita delicatezza.
Pepper tacque, fissando
prima la sua pizza intatta, se non per una singola fetta
sbocconcellata a metà, poi la borraccia di clorofilla
accanto
a lui, la seconda che aveva vuotato nell'arco della serata.
«Come si sente?»
chiese infine, sforzandosi di porre quella domanda che aveva evitato
per tutta la giornata, ma che ormai sentiva inevitabile.
Tony picchiettò con la
punta della penna sul tavolo, e Pepper capì che qualunque
risposta
avrebbe ricevuto sarebbe stata sincera, sì, ma anche
estremamente
edulcorata.
«Potrei stare peggio,»
disse infatti, evasivo. «Certo, potrei anche stare
meglio,» ammise
poi, sfuggendo il suo sguardo. «Ma tutto sommato è
stata una buona
giornata.».
«Tony...»
«Non vuoi veramente
saperlo,» la anticipò lui, con voce più
bassa e quasi implorante.
«È sopportabile...» s'interruppe, ma non
continuò, fingendo poi
di non aver mai voluto aggiungere altro.
«... per ora?»
completò al posto suo Pepper, e lui abbassò lo
sguardo in una muta
conferma che le strizzò l'aria dai polmoni.
Vide Tony inspirare
profondamente, chiudere l'occhio e chinare il capo sul tavolo, ancora
nella stessa posizione quasi difensiva. Quando però si
risollevò, fu
per sfoggiare un sorrisetto spavaldo.
«Lo immagini come un
raffreddore costante e particolarmente rompiscatole. Ma
tornerò a
funzionare meglio di prima, Pep. L'ho già fatto una
volta,» le
ricordò, sollevando il braccio prostetico a riprova delle
sue parole. «E adesso ho più di un
valido motivo per voler trovare una "soluzione",»
aggiunse, volutamente ambiguo.
«Ci sta lavorando?»
gli resse il gioco lei, continuando a rimanere sul vago.
«Questo dovrebbe
dirmelo lei,» insinuò, inclinando appena la testa
e scrutandola con
impertinenza.
Pepper si limitò a
rivolgergli un piccolo sorriso esitante.
«Da domani mi dedicherò al reattore,»
annunciò poi, mentre tamburellava di riflesso le dita
sulla superficie azzurrina. «Mi serviva un po' di...
stacco,» disse
poi, accennando alle scartoffie dinanzi a sé e scoccandole
al contempo un'occhiata fugace.
«Abbiamo ancora molta
burocrazia da sbrigare,» gli assicurò lei,
guardandolo a sua volta
di sottecchi.
«Crede che sei mesi
basteranno per tutto?» chiese lui a bruciapelo, e Pepper
capì che
si stava trattenendo dal chiederlo già da ore.
Tentennò: aveva
studiato in mattinata i programmi e le scalette preparate da Tony,
già piuttosto completi a dir la verità, per poi
ricercare qualche
informazione in più nei registri nello studiolo di Howard.
Si era
fatta un'idea piuttosto chiara della portata dell'evento e dei tempi
organizzativi, e per quello aveva sperato di non affrontare subito la
questione. La verità è che non c'era abbastanza
tempo per fare
tutto: la sua previsione di concludere i preparativi entro fine aprile
era
ottimistica e implicava molte rinunce. Ma aveva esitato a dare
quell'ennesimo dispiacere a Tony, considerando quanto era su di giri
per l'evento.
«Non credo che la Expo
potrà essere esattamente come se l'è
immaginata,» disse infine,
con il massimo tatto di cui fu capace.
Tony prese a
mordicchiarsi il labbro inferiore, meditabondo, ma non
sembrò
particolarmente turbato da quella rivelazione; almeno, non lo diede a
vedere.
«Lo
avevo messo in conto. Mi aspettavo di aver pensato troppo in grande,»
ammise infine, tirando un mezzo sorriso tetro.
«Sfoltirò
il programma e ridimensionerò il tutto. Facciamo
quel
che possiamo. Mi basta riuscire a inaugurarla di persona, quanto al
resto...» vacillò appena. «Beh, sembra
che dovrò lasciarle in
eredità altro lavoro da svolgere al posto mio,»
concluse con
noncurante ironia, ma la sua voce suonò forzata.
«Non è detto che debba
finire così,» gli fece notare Pepper, turbata
dalla tranquillità
con cui ne stava parlando.
«Lavorerò a pieno
ritmo sul reattore, ma c'è la possibilità che
fallisca.» Notò la
sua espressione affranta. «Pep, non mi diverto a fare
l'uccellaccio
del malaugurio, ma dovremmo rimanere realisti.»
«Lo so. È per questo
che sono andata oggi stesso ad avviare le pratiche,»
confessò lei,
con un filo di voce.
Tony chinò il capo,
prendendo atto delle sue parole con aria corrucciata.
«A quanto pare, finisco
sempre per voler realizzare cose impossibili,»
commentò, con
sarcasmo quasi rassegnato.
«Tony, non è
impossibile. Ma abbiamo poco tempo e c'è troppo da fare per
due
persone, quindi dobbiamo muoverci in fretta. Domani
richiederò le
firme del consiglio, coinvolgerò formalmente i nostri
associati e
invierò la richiesta preliminare al Congresso. Entro fine
mese
potremo metterci davvero all'opera,» espose Pepper, nel
tentativo di
risollevarlo. «Kyle potrebbe darci una mano per la parte
legale, non
dovrebbe distoglierlo troppo dal processo,» aggiunse,
illuminandosi
un poco.
«Domani lo chiamo,»
rispose lapidario Tony, sempre accigliato e probabilmente dimentico
come sempre dei suoi problemi legali.
«E?»
«E non gli dirò nulla
del resto,» la anticipò con
fermezza, puntandosi l'indice
sul reattore. «Ho anche il suo progetto da finire e non
voglio
che si
preoccupi. Anche se dovrei prima concentrarmi su Iron Man... ma non
posso sottrarre tempo al reattore con...» si interruppe
bruscamente,
sprofondando nei suoi pensieri e lasciando che le ombre cupe della
sera prima riaffiorassero sul suo volto.
Pepper lo osservò,
prendendo nota del suo improvviso smarrimento e della tensione delle
sue spalle. Di nuovo, riconobbe la paura che faceva capolino sul suo
volto pallido; un ospite sgradito che, nonostante i tentativi di
chiuderlo
fuori, riusciva sempre a intrufolarsi nella casa sicura che erano
riusciti ad approntare. La sua pupilla era dilatata, immensa, una
finestra spalancata su quei timori che lo consumavano e rischiavano
di traboccare. Il suo respiro accelerò appena e lo vide
serrare la
palpebra.
Si alzò per accostarsi
a lui e gli avvolse la testa in un abbraccio delicato, stringendolo a
sé. Lui trasalì impercettibilmente, ma non si
sottrasse e premette
la guancia contro di lei, accettando quel gesto inatteso.
«Forse ho davvero
troppo poco tempo,» mormorò contro le sue braccia
in un lieve sospiro, senza muoversi per
ricambiare la stretta, di nuovo immobile nel suo limbo.
«Forse dobbiamo solo
organizzarlo meglio,» replicò lei, passandogli una
mano tra i
capelli e poi sulla schiena in una carezza rassicurante. «Che
ne dici
di stilare un piano di lavoro?» propose poi, impedendo alla
propria
voce di cedere al tremolio che minacciava di incrinarla.
Lo percepì annuire
contro di sé e inspirare a fondo più volte,
rilassandosi a poco a
poco. Quando sollevò il viso per guardarla, le rivolse un
sorriso
sottile e grato che ricacciò la paura in fondo al suo
sguardo,
ridotta di nuovo a un riflesso appena distinguibile.
«Va
bene,»
concordò con sollievo. «Ha
sempre delle ottime idee, signorina Potts.»
***
23
Gennaio, Villa Stark
«Non
ha ancora approvato la planimetria della
Expo?» esordì
Pepper, non appena mise piede a Villa Stark quella mattina, con un
diavolo per capello dopo aver discusso per tre ore filate con un
membro del consiglio d'amministrazione particolarmente tenace,
snervante e scettico riguardo all'evento.
Tony
la ignorò platealmente, continuando a giocherellare a
mezz'aria con
un modellino virtuale della nuova armatura, perso nel suo mondo di
circuiti e tecnologia e del tutto dimentico delle colonne di
documenti che lo attorniavano minacciose, e dell'enorme piantina di
Flushing Meadows spiegata sul tavolino.
«Signor
Stark.»
«Suvvia,
mi lasci tregua almeno nel week-end!» rispose infine lui con
uno
sbuffo, accantonando di malavoglia la proiezione.
«Siamo
nel bel mezzo della settimana.»
«Il week-end a casa mia
finisce il mercoledì. Ormai dovrebbe saperlo, signorina
Potts,» le
rivolse un sorrisetto esasperante, prima di voltarsi del tutto verso di
lei,
«Piuttosto, com'è andata col matusa?»
«È ancora vivo,»
replicò lapidaria e con malcelato dispiacere, sfoderando poi
il
documento da lui firmato con fare trionfante.
Tony le rivolse un
sorriso ammirato e un cenno d'OK con la mano meccanica, dai quali non
si lasciò minimamente intenerire:
«Lei, piuttosto:
a che punto è?»
«In uhm... dirittura
d'arrivo,» sviò lui, aprendo un ampio progetto
olografico a
mezz'aria come a schermarsi da lei.
Pepper notò l'occhiata
colpevole che rivolse alla cartina, che da quanto vedeva era ancora
largamente incompleta. Sospirò, s'impose la calma e si
rammentò di
non poterlo pressare più di tanto, visto che stava gestendo
simultaneamente qualcosa come sei progetti in una condizione fisica
che lo avrebbe dovuto indurre a riposarsi ed evitare lo stress.
Così
si piazzò accanto a lui, registri alla mano, e
cominciò a stilare
con rapidità il programma e l'assetto dell'evento,
pungolando di
tanto in tanto per delle delucidazioni la mente dietro il tutto, al
momento concentrata altrove e intenta a scribacchiare sul suo
bloc-notes.
«E quest'area?» gli
chiese a un certo punto, accennando al primo dei padiglioni vacanti.
«Avevo giusto pensato
di darla alla AccuTech,» rispose lui, alzando appena lo
sguardo e
dando chiaramente a intendere di averci pensato in quel preciso
istante.
«Non è troppo, per una
semplice società sussidiaria?»
«Potrebbero presentare
l'Esoscheletro Haz-Tek,» bofonchiò lui, poco
interessato.
Pepper gli rivolse uno
sguardo interrogativo, al che lui si affrettò ad elaborare:
«Una specie di Mark
versione pacifista. Magari il governo smetterà di giocare al
Grande
Fratello con me, se metto sul mercato una brutta copia
dell'armatura,» spiegò, sempre senza sforzarsi di
articolare
chiaramente le parole.
Era ancora assorbito da
tutt'altro rispetto all'argomento corrente, stavolta una serie di
complessi calcoli che stava svolgendo su carta con rapidità
quasi
frenetica, controllando di tanto in tanto gli schermi che gli
fluttuavano attorno.
«Magari potrebbe
davvero rabbonirli e accelerare l'iter per la messa
in regola
delle protesi,» commentò lei, con ottimismo un po'
gonfiato.
«Ne dubito,» la smontò
lui senza rammarico. «La settimana scorsa Stern ha detto che
le
pratiche
sarebbero terminate "tra due mesi", quindi mi aspetto che
la faccenda non vada in porto prima di quattro. Nel frattempo
dovrò
ancora starmene chiuso qui dentro,» concluse seccato.
«E non sono
nella posizione adatta per tirare ancora la corda,»
borbottò poi a voce
più bassa.
«Che intende?» si
interessò subito Pepper, guardinga.
Tony esitò brevemente
prima di rispondere, cosa che la mise ancor più sulle spine.
«Non ho una vera e
propria autorizzazione per trafficare con la nuova Mark,»
rispose
poi, con fermezza. «Stanno chiudendo un occhio solo
perché Fury deve
aver tirato qualche filo in mio favore, visto che sono di nuovo un
consulente dello SHIELD. Ma tra una settimana mi ritroverò
comunque seduto
per l'ennesima volta al banco degli imputati a garantire che non
rappresento un pericolo per la sicurezza nazionale e che mi dispiace
tanto che quel bastardo di Stane sia morto.»
Inspirò di scatto dal
naso e scansò da parte un ologramma con un gesto brusco.
«Non ne posso più di
queste stronzate. Mi rallentano e basta,» sbottò
frustrato,
portandosi una mano alla fronte senza scollare lo sguardo dal foglio.
Pepper trattenne un
sospiro: quelle ultime due settimane erano state frenetiche, ed
entrambi avevano a malapena avuto il tempo di respirare, tantomento
concentrarsi su qualcosa che non fosse la Expo. Tony poteva almeno
variare
gli impegni immergendosi nei suoi progetti, ma considerando la loro
natura dubitava che riuscisse a rilassarsi lavorando. Di quel passo,
sarebbero sicuramente riusciti a inaugurarla entro la scadenza
massima che si erano posti – il 29 maggio, data scelta da
Tony
stesso e riguardo alla quale Pepper si era prudentemente astenuta dal
commentare – ma sarebbero stati troppo esauriti per godersi i
frutti dei loro sforzi. Avevano bisogno di
supporto. Kyle e Coulson erano all'oscuro della situazione di Tony e
non coglievano l'urgenza di quel progetto, visto solo come l'ennesima
stranezza dell'eccentrico miliardario.
«Tony, forse se
informasse il direttore Fury della sua...» iniziò
esitante Pepper,
sapendo cosa avrebbe potuto scatenare quel suggerimento e
preparandosi a fronteggiare una reazione inaspettata.
«Lo farò,» replicò
lui, sorprendendola in senso opposto. «Ma dopo la
Expo,» concluse
laconico.
Pepper rimase in
silenzio, attonita, ma non osando chiedere di più. Fu Tony a
girarsi
appena verso di lei, con sguardo venato di tristezza:
«Il motivo personale è
che non voglio il suo aiuto dopo che mi ha trattato come un rottame
da scartare. Quello razionale è che mi sto dando tempo. Non
voglio
allarmarlo con l'intossicazione e precludermi un posto nel suo circo
prima di essere certo di aver battuto ogni strada. E al momento credo
di aver fatto almeno qualche
progresso.»
Picchiettò sul
reattore e le rivolse un tenue sorriso che le alleggerì il
cuore. Non parlava quasi mai di
quello che aveva evasivamente ribattezzato "progetto
collaterale", ovvero l'ideazione del nuovo reattore arc, ma
vederlo così tranquillo la rassicurò enormemente.
«Ora, se lei vuole
tornare a questo...» Tony si schiarì la voce e
accennò alla mappa
di Flushing Meadows spiegata sul tavolino, in una discreta richiesta
a cambiare argomento, «... io torno a questo,»
finì, riprendendo ad
occuparsi dei suoi calcoli e schemi.
Pepper fu ben lieta di
assecondarlo e riprese a scrutare il registro che aveva in mano,
compilandolo man mano che osservava la piantina.
«Qui che cosa dovrebbe
esserci?» indicò un padiglione ridotto a uno
scarabocchio nero per
tutte le volte che Tony vi aveva scritto, cancellato e riscritto
sopra.
L'uomo sembrava troppo
immerso nel suo turbine di calcoli per darle pieno ascolto.
«Uh, devo decidere,»
svicolò la domanda. «Come vede, non ho le idee
molto chiare in
proposito,» accennò al groviglio d'inchiostro
impresso
sull'edificio.
«Tony, avremmo dovuto
presentare il programma completo già una settimana fa, non
possiamo
ritardare ancora la...»
«È una sorpresa,»
proruppe lui, senza alzare lo sguardo dalle sue formule.
«Una... sorpresa?»
ripeté lei, titubante e poco incline a mostrarsi entusiasta
per
l'ennesima cosa che l'avrebbe colta impreparata.
Tony dovette captare la
sua apprensione, perché si distolse di nuovo dai suoi
traffici.
«Una bella
sorpresa.» puntualizzò «Non deve
preoccuparsi, anzi, sono sicuro
che le piacerà. Mi dia solo un po' di tempo per
perfezionarla...»
concluse con un guizzo di sorriso rassicurante, prima di tornare
chino sui fogli.
Pepper si rilassò un
poco, convinta dallo sguardo limpido di Tony, più che dalle
sue
parole. La sua apprensione fu sostituita da una sana, semplice
curiosità che rese più vivace la successiva
mezz'ora di lavoro,
impiegata nel digitalizzare la disposizione della Expo con l'aiuto di
JARVIS.
Tony continuò a
rimaneggiare il suo progetto con frustrazione crescente, a giudicare
dalle sopracciglia strettamente corrugate, dalla frequenza cui
si passava una mano tra i capelli come a rimescolare le idee e dalla
bocca inclinata in una piega sempre più insoddisfatta.
Pepper non
intervenne: erano giorni che lavorava nervosamente, come se non
riuscisse a venire a capo di qualcosa. Aveva ripreso a passare tempo
in laboratorio anche quando lei era lì, cosa che le aveva
rammentato
quanto la mettesse a disagio quella stanza, nella quale non era
ancora mai entrata da quel giorno di quasi un anno
prima.
Tony emise
improvvisamente un sospiro sconfortato.
«E anche le
permutazioni del litio sono da scartare,» annunciò
con fare
forzatamente pimpante, sbarrando al contempo ciò che stava
scrivendo
con un gesto secco della penna.
Lasciò ricadere il blocco sul
tavolo in un gesto brusco. Pepper si accigliò,
indecisa su come commentare, ma prese nota del suo pallore
improvviso mentre strappava la pagina dal blocco e la accartocciava.
«Ero sicuro che
potessero...» cominciò a farfugliare distratto,
gettando il foglio
a terra con stizza.
Si interruppe e si
sfregò con fare nervoso i corti capelli sulla tempia.
«Come non detto. Fa
niente.»
Tornò a guardarla con un mezzo sorriso un
po' incrinato,
ma Pepper vedeva con chiarezza lo sforzo che stava facendo per
controllare il respiro, che adesso udiva distintamente costretto. Tony
colse la sua
espressione allarmata e si schiarì la voce, facendo per
riprendere a
parlare, ma si bloccò quando la donna si portò
dietro di lui e gli
poggiò le mani sulle spalle. Lui cercò subito la
sua mano, che Pepper trovò ghiacciata quasi quanto quella
meccanica e scossa da un
lieve tremito. Cercò di controllarlo intrecciando le dita
alle
sue, in uno di quei gesti istintivi a cui si abbandonava quando il
panico iniziava a farsi strada in lui.
«Pep?» esalò, in un
respiro sforzato.
«Sono qui,» lo
rassicurò come sempre, stringendogli più forte la
mano e percependo
con l'altra i battiti concitati del suo cuore. «Stai
bene?» chiese poi, fallendo nel non far trapelare la sua
apprensione.
«Più o meno,» deglutì
lui, annuendo rapido. «Per ora è sotto
controllo,» aggiunse più
stridulo, aumentando la stretta nel tentativo di non lasciarsi
sopraffare.
Pepper credeva di
percepire chiaramente le ondate di panico che si stava sforzando di
reprimere, con molto più successo delle ultime volte, quando
si era invece trovato aggrappato a lei nel tentativo di respirare.
Avevano entrambi sperato
che quello di qualche settimana prima fosse un episodio isolato; si
era invece ripetuto più volte, facendo vivere Tony in uno
stato di
tensione costante. Dopo un attacco particolarmente violento, Pepper gli
aveva suggerito di contattare Ian per
farsi prescrivere degli ansiolitici e lui si era mostrato
sorprendentemente poco ostile all'idea, nonostante avesse detto di
voler aspettare ancora prima di parlare col medico. Ian aveva
comunque già preso a contattarlo con più
insistenza nell'ultimo mese,
spingendo per una visita di controllo che Tony continuava a
procrastinare adducendo impegni inesistenti.
«Stavamo parlando di...
dei padiglioni, giusto?» esalò all'improvviso
l'uomo, accennando
alla piantina con la mano artificiale.
«Tony? Ora non dobbiamo
per forza...»
«Se tengo il cervello
occupato migliora,» chiarì concitato, rivolgendole
un fugace
sguardo spaurito e quasi implorante mentre ancora lottava col panico
alle porte.
Pepper titubò un
singolo istante prima di assecondarlo e riattaccare a parlare della
Expo, pur mantenendo il contatto con lui. Tony si riagganciò
stentatamente al discorso, un po' ascoltandola, un po' calmando il
respiro, un po' gesticolando a scatti con la protesi mentre parlava. Si
sentì infine
abbastanza sicuro per lasciare la sua mano e impegnarla di nuovo con
la penna. Pepper mantenne le proprie posate delicatamente sulle sue
spalle, percependo la vibrazione della sua voce che le attraversava.
Le abbandonò solo quando le sentì rilassarsi del
tutto,
soffermandosi a sfiorargli i capelli sulla nuca prima di scostarsi da
lui e riprendere a lavorare come se nulla fosse accaduto.
Intercettò
il suo sguardo, che come sempre valeva più di mille parole
ed
esprimeva pura, sincera gratitudine mista a sollievo. Dopo una decina
di minuti, raccolse il foglio accartocciato, lo spiegò con
cura
e
riprese a lavorare parallelamente ai suoi progetti, recuperando la
sua parlantina ironica nel discutere della Expo.
«Le Hammer Industries?
Dobbiamo seriamente invitare quel pagliaccio?» prese infatti
a
lamentarsi con la consueta vivacità, puntando il gomito
prostetico
sul tavolo e poggiando la guancia al pugno chiuso con fare scocciato.
«Sarebbe una mossa del
tutto imparziale che...»
«Infatti Hammer è
stato così imparziale al
processo.»
«... potrebbe
accattivarci le simpatie del governo,» terminò
inflessibile lei,
sfidandolo a controbattere.
«Ma certo, diamo uno
stand anche a Knight, visto che ci siamo!» agitò
la mano meccanica
a mezz'aria in un moto d'esasperazione, abbandonando la penna e
facendo per alzarsi in preda al nervoso.
Pepper lo inchiodò al
suo posto con un unico, penetrante sguardo, anche se le stava
segretamente venendo da sorridere nel veder riemergere l'indole
ribelle e capricciosa di Tony, sebbene mettesse a dura prova i suoi
nervi.
«Hammer è il nuovo
beniamino del Dipartimento della Difesa,» gli
ricordò serafica,
rimediandosi solo un'occhiata sbieca da parte sua. «Stern
è un
Senatore del Congresso particolarmente legato a quel settore. E deve
ancora approvare la sua licenza per le protesi...» concluse,
lasciando che fosse lui a trarre le relative conclusioni.
Per il momento, sembrava più
incline a far ruotare incessantemente su se stesso un modellino
dell'armatura con pigre spinte della mano sana. Infine mandò
un
teatrale sospiro, roteò gli occhi più di quanto
fosse necessario,
incrociò strettamente le braccia e incassò la
testa tra le spalle,
immusonendosi.
«Hammer concesso,»
masticò tra i denti.
Poi si rallegrò di
colpo, sollevando in alto l'indice come se gli fosse appena sovvenuta
l'idea del secolo, mettendola immediatamente sul chi vive.
«In cambio voglio che
l'inaugurazione si tenga qui, nello State Pavilion,» se ne
approfittò subito, piantando il dito sulla struttura
più centrale.
Detto ciò, si fiondò
con improvvisa energia nei suoi "progetti collaterali", senza aspettare
replica e considerando evidentemente chiusa la
questione. Pepper squadrò con occhio clinico la scelta di
Tony, che
nel frattempo si stava impegnando ad evitare qualsiasi contatto
visivo tenendo la testa china sui suoi fogli e ologrammi.
«Non sarebbe meglio il
Palazzo dei Congressi, in caso piovesse?» lo
dirottò con
nonchalance verso un secondo edificio, leggermente
discosto
dall'Unisfera.
«Lo State Pavilion ha
un tetto.»
«Con un buco al centro,
Tony.»
«Perfetto,» commentò
tranquillamente lui, concentrato a scrivere con la sinistra.
Gli occhi di Pepper
s'illuminarono di una luce sospettosa e saettarono nuovamente alla
piantina
di Flushing Meadows. Individuò il padiglione in esame e
ticchettò
brevemente un'unghia sulla carta, mentre il suo sospetto prendeva
mano mano forma.
«Tony?»
«Pepper?»
«Non
ha intenzione di fare quello che penso, vero?»
«Non saprei, ma
probabilmente sì. Di solito ha un intuito
formidabile.»
«Allora le consiglio
vivamente di toglierselo dalla testa, perché è la
cosa più stupida
che potesse venirle in mente,» sentenziò,
scoccandogli un'occhiata
torva.
«Uh, ok. Terrò conto
della sua opinione, quando lo farò lo stesso.»
L'uomo non alzò neanche
la testa dal foglio, come se stessero discorrendo dell'argomento
più
banale del mondo.
«È completamente
impazzito?»
«I sintomi
dell'intossicazione includono sbalzi d'umore e depressione, ma non
follia nel senso stretto del...»
«Tony, ti degni di
guardarmi?» sbottò lei, alterata.
Lui sospirò ed eseguì
rassegnato, lasciando con un gesto brusco la penna e abbandonando per
l'ennesima volta ciò che stava scrivendo.
«Ti sto guardando,» le
fece notare piattamente, invitandola a parlare.
«Hai intenzione di
presentarti come Iron Man» affermò lei, senza
sforzarsi di farla
suonare come una domanda.
«La mia immagine
pubblica è legata ad Iron Man, che
sarà la mascotte della Expo.
È inevitabile che compaia nelle sue vesti.»
«Indossare l'armatura
nelle tue condizioni equivale...» si bloccò,
frenandosi appena in
tempo nel rendersi conto di ciò che stava per dire
sovrappensiero.
«... a un suicidio?»
completò lui, con assoluta calma e un'alzata di sopracciglia.
Pepper si morse le
labbra, senza capire se fosse serio o ironico. In entrambi i casi non
era certo rassicurante e si chiese quanto fosse effettivamente a suo
agio in quel momento, considerando che aveva sfiorato un attacco di
panico neanche mezz'ora prima. L'unico segno di tensione visibile era
la mano sana serrata in un pugno. La rilassò di colpo con un
profondo sospiro, come se il solo pensiero di affrontare
quell'argomento lo sfinisse e stesse comunque cercando la forza per
farlo.
«Pepper...» cominciò
a bassa voce, in quello che sarebbe probabilmente stato un tentativo
di persuaderla che quell'idea folle fosse del tutto
sensata.
«No. Non provarci
nemmeno,» lo troncò di netto, senza
però riuscire a imporre la
ferrea decisione che avrebbe voluto alla sua voce.
L'unica cosa a cui
riusciva a pensare era l'immagine di Tony nell'armatura mentre questa
gli risucchiava ogni energia, il reticolo sul suo petto che si
allargava e tutto ciò che poteva andare storto –
un guasto, un
malore, un errore, Tony che precipitava, Tony che soffriva, Tony che
moriva davanti a lei, di nuovo.
«Pepper,» riprese lui,
come se non l'avesse mai interrotto, ma esitò, portandosi la
mano al
volto a coprire brevemente l'occhio, per poi continuare monocorde,
senza guardarla: «Non ti chiedo di
fidarti di me perché sarebbe ipocrita, ma cerca almeno di
non
considerarmi un idiota completo,» non si sforzò
neanche di
risultare convincente.
Sembrava semplicemente
esausto, sfibrato dall'ennesima discussione senza uscita che si
trovavano ad affrontare.
«Sei solo incosciente e
sconsiderato, oltre che egoista, ma questa non è una
novità,» le
uscì detto, prima di potersi trattenere.
«In questo caso credo
di potermi permettere di essere egoista,» replicò
seccamente lui, e
rialzò di scatto lo sguardo ora velato da una traccia di
risentimento.
Pepper incassò in
silenzio la replica. Non aveva davvero avuto intenzione di lasciarsi
sfuggire quelle esatte parole, nonostante le ritenesse vere. Se per
un momento si sentì in colpa, il ricordo di tutte le
risposte
caustiche e prive di tatto che aveva ricevuto dall'uomo davanti a lei
bastò a mettere a tacere la sua coscienza. Non poteva farle
quello, non dopo tutto ciò di cui avevano parlato;
non quando la
possibilità di perderlo era così vicina, reale e
ancora
inevitabile.
Ora Tony sembrava
innervosito e prese a stringersi il polso meccanico con la mano sana,
in quello che ormai Pepper riconosceva come un tentativo di
mantenersi ancorato al qui e adesso e di non soccombere a tutto
ciò
che minacciava di sopraffarlo. Stavolta non si portò vicino
a lui e
si limitò a rimanere in piedi al suo fianco, con le braccia
rigidamente incrociate a impedirsi qualsiasi gesto.
«Ho fatto i miei
calcoli,» esordì Tony, con voce appena tremante,
non seppe dire per
frustrazione, paura o incertezza. «Per eccesso,
l'intossicazione
salirà circa al 65% dopo l'utilizzo dell'armatura. Per eccesso,»
sottolineò, quando Pepper non riuscì a nascondere
la sua
contrarietà nell'udire una cifra così alta e
minacciosa.
Si costrinse a non
intervenire e lo lasciò continuare, nonostante si
accigliasse sempre
più e le sue labbra divenissero sempre più
sottili ad ogni parola
che pronunciava.
«Ho pianificato tutto e
non volerò fin lì: userò il jet per
farmi portare
esattamente sopra la
Expo e andrò in caduta libera fino all'ultimo secondo, senza
dispendio di energia dai propulsori. Atterro, fuochi d'artificio,
champagne per tutti, mi godo il mio momento di gloria e la tolgo.
Fine. La userò per neanche cinque minuti totali,
Pep.»
L'unica reazione che si
concesse lei fu di serrare ulteriormente le braccia, mentre cercava
di analizzare quell'idea da ogni angolazione possibile in cerca di
una falla, di una svista di così eclatante e insormontabile
da
convincere Tony a rinunciare – nonostante la natura stessa di
quella proposta fosse di per sé irrazionale. Ma il suo
sguardo era
determinato come sempre, ed era sicura che avesse perso più
di
qualche ora di sonno per architettare quella follia, sicuramente
conscio dell'opposizione che avrebbe incontrato da parte sua. Almeno
aveva avuto la decenza di non nasconderle nulla, e per quello non
poté che sentirsi sollevata.
«Avrò anche un asso
nella manica,» continuò Tony spronato dal suo
silenzio, con
l'ombra di un sorriso teso. «Ma devo parlare con Ian prima di
esprimermi in merito. Riguarda quei "progressi" di cui
parlavo,» spiegò conciso, sfregandosi il pizzetto.
«Non hai comunque il
permesso di usare le protesi fuori casa,» gli fece notare,
sperando
contro ogni aspettativa che magari a quelle non avesse pensato.
«E tecnicamente l'armatura è ancora
un'arma.»
«Potrei aver convinto
un certo Senatore a bendarsi gli occhi e girarsi dall'altra parte in
cambio di qualche esclusiva sull'Haz-Tek. E visto che inviteremo
anche le Hammer Industries su tua
insistenza...» alzò i
palmi con un sorriso sbieco, a significare che ormai ciò che
era fatto era fatto.
Pepper scosse la testa,
maledicandosi per la proposta, ma non indietreggiò d'un
passo.
«Le protesi e
l'armatura non sono compatibili. L'hai detto tu stesso,» le
sovvenne, sforzandosi senza troppo successo di non suonare trionfante.
Tony fece una lieve
smorfia insoddisfatta, ma non si scompose ulteriormente.
«Non sarò certo
aggraziato come una farfalla, ma dai test non dovrebbero...»
«... hai fatto dei
test?» boccheggiò lei, allibita.
Il suo cuore mancò un
colpo al pensiero delle ore che aveva ripreso a trascorrere in
laboratorio e di ciò che poteva aver fatto proprio sotto al
suo
naso, di nascosto, tacendole di nuovo il tutto.
«Pepper, puoi smettere di
essere paranoica per dieci secondi?»
sbottò a quel punto
Tony. «Sarò pure malmesso fisicamente, ma ho
ancora
un quoziente
intellettivo di duecento e passa: credi che non sappia calibrare un
paio di test in modo da non uccidermi? E comunque, risalgono a mesi
fa e mi servivano per tutt'altro,» spiegò con
irritazione
crescente, continuando ad artigliare il polso della protesi.
Lei rimase in
silenzio, immersa in una nube di pensieri fosca e indefinita, se non
per quell'unica certezza che continuava a strizzarle il petto sempre
più ad ogni battito, e che espresse infine ad alta voce:
«Tony, è troppo
rischioso.»
«Non più rischioso di
starsene a casa ad aspettare che l'intossicazione faccia comunque
il suo corso,» mormorò cupamente lui di rimando.
Pepper trasalì.
«Hai detto che
stavi...»
«Sto facendo
progressi,» la anticipò, con fermezza.
«Vorrei solo...» mosse la
mano a mezz'aria in un moto frustrato, come se volesse afferrare
qualcosa fuori dalla sua portata, «... concedermi delle
distrazioni,»
concluse con voce più grave, cercando infine i suoi occhi.
Pepper vacillò, come
sempre quando incontrava quell'iride calda e profonda in cui avrebbe
potuto immergersi, ormai segnata da troppo dolore. Non sapeva se
interpretare qualche sottinteso riferito a loro in quella frase,
solcata da una nota
di rimpianto per tutto ciò a cui aveva dovuto rinunciare in
quell'ultimo anno. Una parte di lei in
realtà capì ciò che intendeva dire, ma
fu subito soffocata dalla
paura, dalle immagini che le erano sfrecciate in testa poco
prima, e si obbligò a rompere il contatto visivo con lui,
sapendo
che altrimenti non sarebbe stata in grado di mantenere la sua
posizione.
«Così finirà per
uccidersi,» asserì, scacciando ogni residuo di
incertezza e
riprendendo un tono formale, come se ciò potesse conferire
più
autorità alle sue parole. «E le ho già
detto una volta che non voglio farne
parte.»
La sua voce rimase ferma, ma i suoi pensieri
sfrecciarono al
giorno dell'incidente e a quando l'aveva trovato in laboratorio,
facendole tremare le ginocchia nella consapevolezza che ne aveva già
fatto parte. A quel punto,
contrariamente ad ogni sua aspettativa, Tony sorrise.
«Questo mi rassicura,»
disse soltanto, in modo criptico.
Pepper non replicò
subito, confusa e dubitando di essersi espressa chiaramente. Lo vide
rilassarsi e poggiare i gomiti sul tavolo, continuando a sorridere
sotto i baffi:
«Quando me l'ha detto
la prima volta, voleva licenziarsi,» le rammentò
tranquillo,
richiamando un momento che sembrava avvenuto secoli prima. «E
sono
riuscito a convincerla sia a rimanere, sia a cambiare idea riguardo a
Iron Man. Sono sicuro di poterci riuscire anche adesso,»
concluse,
con un occhiolino impertinente.
«Non sarà così
semplice,» lo rimbeccò lei, lasciando
però andare un sospiro di
sollievo quando vide che Tony aveva appena rimaneggiato l'ologramma
della Expo, spostando l'inaugurazione nel luogo che gli aveva
proposto lei inizialmente.
«Ho tutto il tempo che
mi serve per convincerla.»
«Non credo che la mia
approvazione farebbe molta differenza,» osservò
lei, senza
nascondere il disappunto.
«Se non riuscirò ad
averla, pazienza.»
«Ovvio, lo farà lo
stesso,» dedusse lei, con un secco sospiro.
«Rinuncerò,» la
contraddisse, facendosi serio. «Niente Iron Man senza il suo
consenso. Promesso,» ribadì, cercando di nuovo i
suoi occhi adesso
basiti e sostenendoli senza esitazioni.
«Non è molto bravo a
mantenere le promesse,» gli fece notare debolmente, ancor
più
dubbiosa.
«Mi impegnerò.
Soprattutto a convincerla, ma anche a mantenere la
promessa,»
concluse con un fugace sogghigno.
Nessuna ombra calò sul
suo sguardo limpido e Pepper, contro ogni buonsenso, volle credere a
quelle parole.
***
2
Febbraio, 20:30, Villa Stark
«E
lei è sicuro che questa roba...»
«Dilitio.»
«Qualunque
cosa sia...»
«Doc,
non mi faccia dubitare della sua preparazione in chimica.»
«Insomma,
è sicuro che quell'intruglio
funzionerà?»
Tony
sospirò appena e roteò l'occhio con fare esausto
anche se il
medico non poteva vederlo, cercando al contempo di non farsi sfuggire
il cellulare incastrato tra spalla e orecchio mentre scriveva al
computer.
«Sono
sicuro che contrasterà il palladio?
Sì,» prese fiato prima di
continuare. «Sono sicuro che non mi ridurrà in
poltiglia? No. Per
quello mi serve il suo parere di segaossa,» concluse, senza
perdere
un battito sulla tastiera.
Ci
fu una breve pausa dall'altro capo, interrotta in sottofondo dal bip
di qualche macchinario ospedaliero.
«Ho
l'impressione che questo sia più il campo del Dottor
Banner,» sparò
infine Ian, senza nascondere il proprio nervosismo.
«Può
darsi,» Tony quasi imprecò all'acutezza del
medico,
«ma come può
immaginare, quella con la ciurma di Fury è una situazione
delicata e
qualsiasi mossa avventata potrebbe far affondare la nave. Nello
specifico, la mia bagnarola. E so che lei saprà essere molto
discreto,» lo blandì.
«Se
me l'avesse detto prima...»
«L'avrebbe
semplicemente saputo prima e saremmo nella stessa
situazione,»
tagliò corto lui
con ovvietà, troncando sul nascere un'altra sfuriata di
un'ora. «Quindi, può passare alla
villa in settimana?»
«Sarò
alla sua porta domattina,» replicò seccamente Ian.
«Mh,
allora dovrò darmi da fare. Non mi sgridi per le occhiaie
quando mi
vedrà,» concluse a mo' di saluto, già
pronto a riagganciare, ma la
voce del medico risuonò ancora una volta:
«Non
la sgriderò certo per quello,»
il suo tono prese una piega decisamente minacciosa. «Nel
frattempo,
non...»
«Non
faccio stronzate. Ricevuto,» concluse lui, chiudendo la
chiamata con
un sospiro stremato e un sorrisetto decisamente disubbidiente a
solcargli le labbra.
Tornò
alle sue schermate sparse senza apparente ordine logico attorno a
lui, lanciò un'occhiata all'ora e concluse che poteva
concedersi
mezz'ora di progetti "ricreativi" prima di tornare a
concentrarsi sul dilitio. Si sarebbe forse meritato una pausa, dopo
otto ore di lavoro ininterrotte, ma sapeva che, anche non essendo
fisicamente in laboratorio, la sua mente avrebbe continuato ad
arrovellarsi su schemi, calcoli e formule. Tanto valeva sfruttare
quell'energia latente.
Riprese
a ticchettare sulla tastiera olografica dinanzi a lui, con un breve
sospiro di stanchezza.
Era
passato molto tempo dall'ultima volta che aveva lavorato davvero
sotto pressione. Non
quella innocua di un contratto sul punto di scadere o di una
conferenza imminente che non aveva preparato, e neanche quella
più
incalzante di un processo alle porte con una protesi ancora da
completare. Piuttosto, il tipo di malsana urgenza che può
suscitare
la canna di un mitra premuta sulla nuca o il lento avanzare di
viticci plumbei e tossici sul proprio petto. Almeno,
in quel secondo caso poteva lavorare con tutti i comfort a
disposizione e non arrangiandosi in una grotta buia, umida e gelida.
Quel fatto avrebbe dovuto consolarlo: il laboratorio era familiare,
era casa, era il suo mondo che lo accoglieva anche
quando
tutti gli altri lo respingevano o lui li allontanava da sé.
E
adesso non gli apparteneva più, perché tutto
ciò che stava facendo
era progettare e costruire cose che avrebbero continuato a vivere
quando lui non ci sarebbe più stato. Un retaggio freddo,
autosufficiente. Lavorava a pieno ritmo,
circondato dal suo solito caos e dalla sua musica spaccatimpani, ma
gli mancava quella scintilla di vitalità che lo spingeva a
traversare la stanza da una parte all'altra sulla sedia girevole
derapando come un bambino, che lo faceva battibeccare per minuti
interi con Dum-E e U sorridendo sotto i baffi e che lo portava a
ficcare la testa nel motore di una delle sue auto quando aveva
bisogno di schiarirsi le idee, incurante di indossare un completo
firmato o la tuta da lavoro. Adesso
lavorava per lo più in silenzio, con una calma dettata dalle
sue
eterne difficoltà a controllare la protesi, e non riusciva a
scacciare la sensazione che qualcuno o qualcosa sbirciasse
regolarmente da sopra la sua spalla, come giudicando il suo operato
in attesa di un errore che l'avrebbe rallentato.
Si
sentiva derubato dell'unica costante positiva della sua intera vita,
che fosse
il suo sfogo quando da ragazzino litigava con suo padre, il suo
personale parco giochi quando era dell'umore giusto, o il suo rifugio
nei molti, troppi momenti di debolezza. Quel
luogo l'aveva visto partire e tornare, cadere e rialzarsi, morire e
rinascere. Sapeva
che, qualunque cosa lo avrebbe salvato anche
stavolta, sarebbe
accaduta lì. Lo sentiva nelle ossa, nelle mani che, pur
rallentate,
armeggiavano a colpo sicuro tra i macchinari, nel battito del suo
cuore che riverberava appena contro il cilindro metallico nel suo
petto a ricordargli che non aveva alcuna intenzione di fermarsi.
Ma
aveva così poco tempo... e aveva paura. Aveva
pensato di non dover
mai più convivere con quel costante crampo allo stomaco che
pareva
ramificarsi in tutto il suo corpo come una pianta infestante,
congiunta a quella venefica sul suo petto, Gli occludeva la
mente, restringeva a tunnel la sua visuale, sabotava i suoi sforzi
fisici e mentali. Almeno nella grotta aveva avuto la consolazione di
poter
decidere come morire. Adesso poteva solo scegliere
come
impiegare il tempo che gli restava, sperando con tutto se stesso che
non andasse sprecato.
Non
sarebbe mai stato abbastanza, questo lo sapeva. La
schiena di suo padre era sempre molti passi avanti a lui e gli occhi
di Yinsen lo guardavano dall'alto velati di delusione. Avrebbe potuto
fare molto di più, con la sua vita.
Inspirò
profondamente, avvertendo la lieve occlusione al petto che cominciava
a rubargli il respiro nel farsi più insistente e serrata.
Doveva
smetterla di immergersi in riflessioni così contorte che
finivano
sempre per concludersi con la consapevolezza della sua imminente
dipartita, soprattutto
quando era da solo.
Piuttosto,
doveva pensare ai progressi, a ciò che aveva concluso di
positivo,
anche se ogni volta sembrava un misero granello di polvere messo a
confronto con una montagna di errori e problemi pronta a franare e
sotterrarlo. Doveva pensare alla Mark IV quasi pronta, alle
potenzialità del dilitio, ai tutori per Kyle, alle chiamate
dello
SHIELD per le consulenze, alle protesi che funzionavano, alla Expo, a
Pepper,
al fatto che avrebbe forse indossato di nuovo l'armatura e a quanto
fosse
così vicino a capire come curare il suo
cuore. E doveva
pensare a tutti i progetti che doveva portare a termine.
Il
progetto.
Un
lieve sorriso stemperò le linee di tensione sul suo volto:
non
vedeva l'ora di rivelare quella sorpresa a Pepper.
Quel
semplice pensiero bastò a risollevarlo e a farlo virare
verso
l'umore allegro e frizzante che aveva sempre accompagnato i suoi
traffici in laboratorio. Si trovò a canticchiare
distrattamente a
bocca chiusa sulle note di Runnin' with the Devil,
mentre si
ripeteva mentalmente tutto ciò di positivo che si sforzava
di
trovare, nonostante quella maledizione che si allargava sul suo petto.
Non sarebbe stata quella a fermarlo: ovunque guardasse trovava motivi
per non arrendersi e non aveva intenzione di deludere di nuovo tutti,
soprattutto quando aveva così tanto da perdere.
Aveva
toccato più volte il fondo ed era sprofondato nel fango, ma
adesso
poteva dire di essere davvero nel suo punto più basso: nonostante
tutti gli sforzi fatti per riguadagnare l'uscita era caduto di nuovo,
schiantandosi nello stesso punto dal quale aveva cercato di scappare
per tutta la sua vita.
Ma da qualche settimana si era reso conto di
aver ingiustamente rinnegato quel fondo.
Non
si era mai accorto che là sotto, assieme agli scarti, agli
errori e
ai frammenti imperfetti di sé, c'erano anche dei diamanti
sepolti
nel fango.
_________________________________________________________________________________________
Note Dell'Autrice:
Buonasera/Buongiorno! (dipende dai punti di vista, immagino...)
Ecco a voi un bel... niente. Ovvero, un capitolo di transizione.
Scusate, è che dovevo mettere qualche punto fermo riguardo all'organizzazione dell'Expo e a tutto il contorno psicologico/fisiologico e burocratico in questo particolare frangente della storia. Però un po' di fluff ce l'ho messo, su <3
Precisazioni varie ed eventuali: 1) la AccuTech è una società realmente esistente nell'universo Marvel e l'Haz-Tek è una sorta di esoscheletro ispirato all'armatura di Iron Man inteso per uso civile; 2) Il discorso sulle fisime di Tony riguardo al proprio corpo è fondamentale per tutto ciò che seguirà; 3) La frase finale è vagamente ispirata a Via del Campo di De André ("dai diamanti non nasce niente/dal letame nascono i fior"), con le dovute rielaborazioni.
Qualunque fatto lasciato "in sospeso" verrà chiarito nel prossimo capitolo :)
Ringrazio tantissimo Emyclarinet, T612 e _Atlas_ (che si becca pure una medaglia per aver inserito la duecentesima recensione <3) per aver commentato lo scorso capitolo. E un grazie anche a 50shadesofLOTS_Always, che continua a seguire da dietro le quinte, per aver citato Phoenix nella sua long Rescue Heart <3
Mi rendo conto che il capitolo è meno "carico" rispetto agli ultimi standard, ma il prossimo dovrebbe uscire a breve e compenserà :)
A presto,
-Light-
P.S. Una precisazione che volevo fare da tempo: quando scrivo "(la) mano" o "(la) gamba" senza ulteriori specificazioni mi riferisco sempre agli arti sani di Tony; in caso contrario è sempre esplicitato che si tratta delle protesi. Idem per quando cammina: se lo fa senza bastone è sempre specificato. Ho ritenuto opportuno rendere chiaro questo fatto, in quanto avrà rilevanza crescente col passare dei capitoli.
EDIT: piccolo extra grafico qui sotto, fatto a tempo perso senza troppe pretese, perché ho bisogno di vedere un Tony felice <3 (e sì, ho sbagliato lato delle protesi perché ero distratta mentre disegnavo *sigh*)
© Marvel
|
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Capitolo 43 *** Legacy ***
42
Legacy
"What
am I leaving when I'm done here?
So if you're asking me I want you
to know
When my time comes
Forget
the wrong that I've done
Help me leave behind some reasons to be
missed"
[Leave
Out All The Rest – Linkin Park]
"For
you, I've waited all these years
For you I'd wait 'til kingdom come
Until my day, my day is done
And say you'll come and set me free
Just say you'll wait, you'll wait for me"
['Til Kingdom
Come – Coldplay]
4
Febbraio, Villa Stark
All'ennesima
scottatura che lo fece sobbalzare, Tony iniziò seriamente a
mettere
in dubbio la validità delle leggi della robotica di Asimov,
in
particolare della prima. Scoccò un occhiata diffidente a
Dum-E, che
quel giorno era più maldestro del solito e particolarmente
propenso
a volerlo privare del braccio sano con la fiamma ossidrica, e lo
allontanò dal banco di lavoro con un comando deciso. Si
rassegnò a
completare la saldatura della Mark IV senza aiuti esterni, dopo aver
esaminato con fastidio le nuove ustioni sul braccio già
martoriato.
Così
impiegò quasi mezz'ora in più, tra tremiti
imprevisti della mancina
e le solite ribellioni e tentennamenti della protesi, ma a lavoro
finito si tolse con accaldata liberazione la maschera protettiva.
Studiò con occhio clinico quel primo abbozzo
dell'esoscheletro
dell'armatura, già perfettamente funzionante, ma ancora
anonima e
incolore, e si concesse comunque un cenno d'assenso soddisfatto;
all'estetica avrebbe pensato in seguito. Aveva tutto il tempo per
forgiare la placcatura esterna e per deciderne forma e cromatura, ma
prima doveva portare avanti la sua miriade di progetti paralleli
più
urgenti.
Degnò
di uno sguardo vagamente astioso il prototipo telecomandato che si
era infine deciso ad assemblare, poco più di uno scarno
androide
bianco sporco dall'espressione ottusa, ora sorretto mollemente da
bracci meccanici. Era abbastanza sicuro che il suo inconscio avesse
giocato un ruolo fondamentale nel renderlo esteticamente orripilante,
considerando che sarebbe finito nelle mani dello SHIELD. Aveva
rinunciato all'armatura prensile dopo aver concluso che per renderla
funzionale si sarebbe dovuto impiantare una cinquantina di
neurotrasmettitori, e non aveva davvero voglia di aggiungere altro
metallo e circuiti nel proprio corpo. Che Fury si tenesse pure quel
giocattolo mal riuscito e i progetti per farne il suo squadrone
personale: o non sarebbe vissuto abbastanza a lungo per vedere l'Iron
Legion in azione, oppure, a voler essere ottimisti, non avrebbero mai
avuto bisogno di sostituire Iron Man con essa.
Ad
ogni modo, sarebbero stati tutti felici e contenti,
considerò
con
amaro sarcasmo, mentre sorseggiava la sua solita borraccia di
clorofilla senza neanche più la forza di storcere il naso
per il suo
sapore. Era lieto che almeno per quella giornata la sua emicrania
costante fosse meno aggressiva del solito, limitandosi a un dolore
sordo e latente alla nuca, comunque abbastanza marcato da disturbare
la sua concentrazione. Almeno non si sentiva perennemente sul punto
di vomitare. Doveva riconoscere che era un miglioramento. Si
lasciò
cadere con pesantezza sulla sua sedia girevole, ignorando anche le
fitte sempre più acute e persistenti al moncherino inferiore.
Ian
gli aveva dato una strigliata coi controfiocchi per non avergli detto
subito del peggioramento dell'intossicazione, ma era riuscito a
rassicurarlo in parte su alcuni sintomi: le fitte erano normali, e non
avevano nulla a che vedere con le protesi, che funzionavano ancora
perfettamente; era la concentrazione di
palladio anomala a causargli quei crampi. Ciò non le rendeva
più
sopportabili, e ormai evitava il più possibile di camminare
o
stare
in piedi.
Strinse
i denti e cercò di ignorare quegli impedimenti mentre si
immergeva
nelle sue schermate. Ne aprì una a mezz'aria, controllando
il piano
di lavoro che aveva stilato con Pepper e al quale aveva poi aggiunto
qualche "extra" di cui lei non doveva necessariamente
essere a conoscenza. Non subito, almeno. Scorse la lista, spuntando
un altro step per la realizzazione della Mark IV, per poi trasferirsi
alla consolle informatica e intraprendere il compito successivo.
Schioccò
compiaciuto le dita della mano meccanica per richiamare JARVIS,
godendosi il suono chiaro e secco che provocarono: si era deciso ad
aggiungere un palmo e dei polpastrelli antiscivolo e si stava beando
da giorni del semplice appagamento di poter di nuovo schioccare le
dita, battere le mani o usare un touch-screen senza
difficoltà.
«Signore,
ho effettuato i calcoli per l'utilizzo dell'armatura alla Stark
EXPO,» si rianimò subito il suo maggiordomo
virtuale.
«Non
deludermi, ho urgente bisogno di buone notizie,»
invocò, mentre si
ripuliva le mani dall'olio per motori con uno straccio, prestando
particolare attenzione a non lasciare residui tra le giunture di
quella meccanica.
«Posso
offrirle un 72,4% di compatibilità tra i reattori e
l'armatura,
signore,» annunciò l'intelligenza artificiale,
quasi giovialmente.
Tony
inclinò di lato la testa, ponderando quella cifra con
attenzione.
«Mh,»
lanciò lo straccio sul banco di lavoro e incrociò
le braccia con
aria meditabonda, «C'è margine di
miglioramento?» s'informò, senza
sperarci troppo.
«Aumentare
ancora la potenza del reattore centrale supererebbe la soglia di
rischio da lei stesso stabilita, anche se la totalità di
questo suo
progetto supera già largamente ogni norma di sicurezza
esistente,»
replicò con prontezza lui, e Tony poté giurare di
cogliere una
traccia di rimprovero nella sua voce elettronica, un tratto
probabilmente acquisito da Pepper.
«Pensavo
di averti programmato per non fare commenti superflui.»
«Sono
stato programmato per tutelare la sua incolumità,
specialmente
quando lei non è intenzionato a farlo,» rispose
piattamente il
maggiordomo virtuale.
«La
tua devozione mi commuove,» cinguettò lui
scuotendo appena la
testa.
Almeno
lui aveva ancora ben chiare le leggi della robotica,
ed era in
un certo senso rincuorante che persino un ammasso di codici binari si
prodigasse per distogliere il suo ideatore da progetti avventati.
«Mi
accontenterò del 72,4%. Per un volo di a malapena un minuto
dovrebbe
essere sufficiente,» stabilì, lieto di poter
mettere da parte anche
quel progetto almeno per il momento.
JARVIS
si era opposto con ogni fibra ottica e circuito in suo possesso
all'idea di aumentare la potenza del reattore centrale per prevalere
sulle interferenze coi micro-reattori delle protesi, ma alla fine
aveva dovuto dargliela vinta. A conti e simulazioni fatte, utilizzare
un'armatura alimentata da un reattore separato era risultato essere
molto più pericoloso, e avrebbe rischiato di causare un
effetto-defibrillatore decisamente spiacevole, con due reattori
così
potenti e così vicini al suo cuore già abbastanza
sensibile. Certo,
rinunciare del tutto all'inaugurazione in armatura sarebbe stata
sicuramente l'opzione più salutare, ma il pensiero di poter
volare
per quel singolo minuto dopo più di un anno di
immobilità aveva ben
presto messo a tacere il suo noioso buonsenso.
Ora
doveva solo convincere Pepper dell'assoluta sicurezza del suo piano.
Aveva l'impressione che sarebbe stato più semplice
convincerla che
la Terra fosse piatta, ma sperava che quelle due settimane in cui si
era imposto di lasciar cadere l'argomento le avessero dato modo di
rivedere le sue posizioni. Ne dubitava, visto il totale
fallimento del suo primo approccio noncurante, ma forse era il
momento di un secondo round persuasivo. Era
tuttavia consapevole che, di fronte a un suo ulteriore rifiuto, non
sarebbe mai stato in grado di agire alle sue spalle. Quando il
pensiero l'aveva attraversato, aveva provato solo un profondo
ribrezzo per se stesso, molto simile a quello che l'aveva colpito
subito dopo aver cercato di uccidersi.
Il
reticolo di palladio sul suo petto parve contorcersi a quel pensiero
fuggevole e si trovò a tastare distrattamente la
raccapricciante
vena color piombo che aveva preso ad abbarbicarsi al suo collo. Bevve
un altro paio di sorsi di clorofilla quasi a scongiurare il suo
avanzare, e sperò con tutto se stesso che Ian gli fornisse
presto
buone nuove riguardo al dilitio. Senza quello, poteva scordarsi di
inaugurare l'EXPO come Iron Man, che Pepper fosse favorevole o meno. Un
minuto di volo non valeva quanto tre mesi in più di vita.
Si
riscosse da quelle elucubrazioni e diede un'altra occhiata ai compiti
del giorno, trovandosi subito a sorridere, sebbene con un pizzico di
nervosismo: ora mancava solo una cosa all'appello. Digitò
un paio di stringhe di comandi sulla tastiera olografica e tenne da
parte una schermata in modo da averla a portata di mano più
tardi.
Infine
afferrò il bastone, si alzò con un po' di
difficoltà e si diresse
con passo rallentato ma deciso verso l'ascensore, preparandosi
mentalmente all'imminente discussione con Pepper.
***
Pepper
era giusto in procinto di richiamare Tony all'ordine dopo che questi
si era defilato da più di quattro ore, lasciandola ad
annegare tra le
scartoffie, quando lo vide riemergere provvidenzialmente dal
laboratorio, entrando in salone con un'aria più che
compiaciuta. La
cosa era una gradevole novità, visto il suo umore
altalenante degli
ultimi giorni, in cui era stato afflitto da una nausea costante che
aveva tentato inutilmente di nasconderle. Ora sembrava avere un
colorito più roseo e sano. Notò comunque il fatto
che avesse usato
l'ascensore invece delle scale e non poté fare a meno di
appuntarlo
ai margini della lunga lista di dettagli di cui aveva cominciato ad
accorgersi negli ultimi tempi.
Le
venne però da sorridere nel vedere che indossava quasi
impettito la
nuova polo blu della EXPO che aveva eletto a sua nuova divisa da
lavoro, ormai bruciacchiata e macchiata in più punti, ma col
logo
arancione ancora ben visibile sul davanti.
Prima
che potesse aprir bocca, lui sfoderò un sogghigno tronfio e
si fermò
un po' trafelato dinanzi a lei, anticipandola:
«Signorina
Potts, qualunque cosa voglia dirmi o obbligarmi a fare, può
attendere,» annunciò con malcelata soddisfazione.
Pepper
si concesse una smorfia dubbiosa, ma sorrise appena.
«Ha
atteso per ben quattro ore, signor Stark, e i moduli per autorizzare
lo spettacolo pirotecnico che lei
ha richiesto non si firmeranno certo da soli,» gli fece
notare
pacatamente, puntandogli contro la penna con fare intimidatorio.
«Ha
un minuto?» la ignorò del tutto lui, senza
abbandonare la sua
vivacità.
La
raggiunse al tavolo e si poggiò allo schienale della sedia
libera con
entrambe le mani, inclinandosi verso di lei come un bambino
impaziente di spifferare un segreto a qualcuno. Pepper
era molto tentata dal gettare al vento la sua compostezza anche solo
per il fatto di vederlo di quell'umore così positivo... ma
che gusto
c'era a dargliela vinta così facilmente? Così
soppresse un
sorrisetto un po' dispettoso e incrociò le braccia con fare
severo.
«Cinquantanove...
cinquantotto... cinquantaset–»
Tony
ridacchiò di cuore e oscillò appena sul posto,
interrompendo il
countdown sul nascere:
«Ok,
ok, sarò conciso,» la rassicurò,
scostandosi quindi dalla sedia e
facendo perno sul bastone da passeggio nella sua ormai consueta posa
studiata.
Si
dipinse in faccia un'espressione misteriosa col chiaro intento di
tenerla sulle spine, riuscendosi benissimo. Pepper lo lasciò
fare,
beandosi semplicemente della spensieratezza che Tony sembrava
irradiare in quel momento.
«Si
ricorda quella "sorpresa" di cui le avevo parlato?»
sparò
infine, evidentemente incapace lui stesso di prolungare ancora la
suspense.
«Quella
per la EXPO?» s'illuminò subito lei.
«Mh-hm.»
confermò solo lui, gongolando, e Pepper era sicura che, se
avesse
potuto, avrebbe preso a saltellare impaziente sul posto.
«Quindi?
Ha novità?» lo incalzò incuriosita,
sapendo che Tony non aspettava
altro che un input da parte sua.
«È
quasi finita,» annunciò infatti, alzando
trionfante il mento.
«Quasi?»
«Mancano
ancora un paio di dettagli...»
Pepper
ridusse gli occhi a due fessure di fronte al suo sorriso sornione.
«E ha bisogno del mio aiuto?» indagò,
ora guardinga.
«No,
ma ho bisogno di lei.»
Pepper
alzò appena le sopracciglia e Tony boccheggiò per
un istante,
rendendosi conto di quanto quella frase fosse fraintendibile, quindi
continuò precipitosamente:
«Intendo,
uh, come dire, fisicamente
e... no!» s'interruppe di nuovo, portandosi esasperato la
mano alla
fronte e schermandosi quindi l'occhio.
Pepper
dovette concentrare tutte le sue forze nel non sbottargli a ridere in
faccia. E a domare il puntuale rossore che le era salito al volto.
«Reset?»
tentò Tony, sbirciando oltre le proprie dita e trovando il
suo
sguardo.
«Farò
finta che non abbia mai parlato,» gli concesse lei, non
riuscendo
del tutto a trattenere la sua ilarità e godendosi
l'espressione
impacciata di Tony.
Questi
la guardò storto per un istante, mascherando però
a sua volta un
sorriso complice. Fece un grosso sospiro prima di ricominciare,
stavolta in modo più controllato e più schematico:
«Dunque.
La sorpresa. Devo perfezionare qualche dettaglio e potrei farlo per
conto mio in un paio di minuti, ma vorrei che lei fosse presente
quando la finirò... la prenda come una cosa simbolica. Non
le
ruberò
troppo tempo,» aggiunse, sfoggiando un sorrisino esitante
come se
non fosse del tutto certo di ottenere una risposta affermativa.
«Allora
sarà meglio sbrigarsi,» lo incitò
invece lei, mettendo a tecere i
suoi dubbi e inclinando appena il capo senza più riuscire
più a
mascherare la sua curiosità.
«Bene!»
esultò lui. «Andiamo?» disse subito
dopo,
cominciando ad avviarsi.
«Certo,»
rispose troppo in fretta lei, sentendo il cuore che mancava almeno
tre battiti nel realizzare che Tony era diretto verso le scale del
laboratorio.
L'uomo
si bloccò sul primo gradino e le scoccò
un'occhiata fugace da sopra
la spalla, chiaramente conscio di quali corde avesse toccato la sua
richiesta. Pepper si alzò con un lieve giramento di testa;
si
costrinse a seguirlo senza esternare alcun segno di cedimento,
nonostante il suo stomaco si fosse aggrovigliato dolorosamente e le
sue gambe si fossero tramutate in tubi acciaio rigido e gelido nel
giro di quei pochi secondi. Era sicura di avere anche un principio di
febbre e si chiese se quel coacervo di sensazioni spiacevoli
assomigliasse a quel che provava Tony durante i suoi attacchi
d'ansia. Perché era abbastanza convinta di essere sul punto
di
averne uno.
Rimase
comunque perfettamente stabile sui suoi tacchi, con la schiena
diritta e lo sguardo proiettato dinanzi a sé. Solo le labbra
tirate
in una linea sottile tradivano il suo disagio. Nel breve lasso di
tempo che impiegò per raggiungere Tony, questi parve
rilassarsi
rincuorato dalla sua apparente compostezza.
Pepper
quasi credette di poterla davvero mantenere e di riuscire ad
estraniarsi da se stessa e da ciò che stava per affrontare
quel
tanto che bastava per continuare a dargli quell'impressione, ma, non
appena raggiunse l'estremità del primo gradino, il suo
intero
corpo
si paralizzò e lei inchiodò sul posto, tesa come
una corda di
violino. Fu assalita da una forte vertigine, come se qualcosa dentro
di lei stesse tentando di risucchiarla per poi spingerla oltre il
bordo, e si tirò indietro d'istinto, vacillando appena. La
sua
schiena incontrò la mano salda di Tony, che vi si
adagiò appena il
tempo necessario per farle recuperare l'equilibrio, per poi ritrarsi
di scatto.
«Pepper?» la chiamò
allarmato, ma lei non riusciva a distogliere gli occhi dal marmo
levigato delle scale che si avvitavano sotto di lei, uno specchio del
vortice che la avviluppava.
Si
portò una mano al volto accaldato, schermandosi dal suo
sguardo e
sentendosi di nuovo sul punto di cadere. Se lo avesse guardato
adesso, l'avrebbe rivisto come quel giorno, pallido, rantolante e in
punto di morte, senza il reattore e sordo ai suoi richiami. Intravide
Tony frapporsi tra lei e le scale, senza però avvicinarsi.
Desiderò
solo di poter scomparire, perché non era assolutamente quello
il modo in cui avrebbe voluto comportarsi, soprattutto non in un
momento in cui Tony le era sembrato così spensierato. Ma il
suo
corpo aveva deciso di agire di propria volontà e le stava
impedendo
ogni movimento, persino il semplice, istintivo atto di indietreggiare
di fronte a qualcosa che, nel profondo, ancora la terrorizzava.
«Pep,
non fa niente; possiamo anche rimanere in salone, non volevo
che...»
iniziò Tony, agitandosi e inclinandosi appena verso di lei
per
sospingerla lontano da lì, ma Pepper scostò di
scatto la mano dal
volto e lui si ritrasse altrettanto bruscamente.
«No,
sto bene,» mentì spudorata, traendo un respiro
profondo che non le
fornì comunque abbastanza aria. «Va tutto bene, ho
avuto un... un
momento, è stupido, lo so, ma...»
«Non
è "stupido",» la bloccò lui in tono
fermo, facendosi improvvisamente
serio e rivolgendole uno sguardo al contempo triste e colpevole.
Si
appoggiò al corrimano con la mano meccanica e
puntò il bastone
dall'altro lato, quasi a fare da barriera tra lei e il laboratorio,
storcendo appena la bocca quando mosse un poco le gambe per
distribuirvi meglio il peso. Rimase in silenzio e Pepper ne
approfittò per cercare di riprendere il controllo. Fu grata
che lui
le stesse bloccando la vista delle scale; aveva l'impressione che
solo guardarle le avrebbe scatenato un altro attacco di vertigini.
«Anch'io
ho avuto paura di scenderci,» esalò infine Tony,
senza fissarla
direttamente e lasciando piuttosto vagare lo sguardo alle sue spalle.
«È... normale. E non deve forzarsi,»
aggiunse, con chiaro
impaccio.
Pepper
aveva l'impressione di non riuscire a comprendere appieno le parole
che le arrivavano. Le suonavano distanti e confuse, come oltre un
muro d'acqua. Preferì concentrarsi sul tono morbido in cui
le stava
parlando, più basso e modulato del solito; la sua voce era
solida,
piena, ma con un tremito di fondo che sembrava vibrare in unisono con
la propria paura.
«Mi
dispiace,» le uscì detto per riempire quel
silenzio, senza ben
sapere per cosa si stesse scusando.
Forse
per aver richiamato alla loro memoria ricordi dolorosi, forse per
aver spazzato via la positività di Tony, forse per non
essere
riuscita a impedirsi quella debolezza in un momento in cui entrambi
avevano bisogno di essere forti l'uno per l'altro. Lui tirò
impercettibilmente la bocca, in quella che poteva essere una smorfia,
così come un sorriso mesto.
«Non
hai nulla di cui scusarti,» affermò, irremovibile,
per poi
sospirare appena. «È ironico: anch'io ti ho
chiesto
scusa proprio
qui,» mormorò tra sé, e il suo sguardo
guizzò verso il quadro
appeso al muro, quello che aveva rotto molto tempo prima.
Era
ancora danneggiato, ma nessuno dei due aveva ritenuto necessario
sostituirlo. Quelle imperfezioni ne erano ormai parti integranti, sia
il fragile vetro con un sottile reticolo di crepe a sfaccettarne un
angolo, sia la cornice che lo teneva ancora insieme, pur scheggiata e
leggermente sbilenca.
«Mi
ricordo,» confermò semplicemente lei, tornando a
quella notte di
quasi un anno prima.
Ricordava
anche il resto: ciò che le aveva detto, il modo disperato in
cui
l'aveva guardata, quel che era successo poco dopo. Il fatto di
avergli detto che era troppo tardi per le scuse. Avrebbe voluto
ritrattare, spiegargli che, pur non potendo dimenticare quello che
era accaduto anche in seguito, non aveva più senso
rinfacciarglielo
o serbare rancore. Lui però parlò per primo, e
quelle parole
rimasero ancora una volta bloccate tra cuore e bocca, destinate a
rimanere inespresse.
«Sapevo
che chiederti di scendere in laboratorio sarebbe stato indelicato, e
probabilmente mi stai odiando per questo almeno quanto mi odio io
per...» lasciò la frase in sospeso e il suo
sguardo addolorato
parlò per lui. «Ma ho pensato che... che era
passato del tempo e
fosse il momento giusto per parlarne, e che facesse parte del... del
trovare soluzioni insieme,» concluse a raffica, quasi
balbettando.
«È
una parte fondamentale della soluzione,» annuì in
automatico lei,
parlando in fretta, d'istinto e sviando il suo sguardo, per poi
sospirare. «Vorrei
solo scendere là
sotto e non dover mai più pensare a quello,»
accennò al reattore
nel suo petto e la mano di Tony scattò a coprirlo, colpevole.
«Mi
dispiace. Anche se adesso è davvero
troppo tardi,»
considerò, quasi in un sussurro. «Non è
questo il ricordo che
vorrei lasciarti di me,» aggiunse, ora portando la mano a
coprirsi
la benda sul volto, come sempre quando era a disagio.
«Non
è troppo tardi,» ribatté lei con
veemenza, senza poter evitare che
i suoi occhi si posassero sulle vene plumbee che sporgevano dal suo
colletto. «E ci sono mille altri momenti che potrei
ricordare,
oltre
a questo, e altri nove anni da ricordare, oltre a questo,»
continuò
con impeto. «Non
è solo questo
a definirti, e non potrà mai
esserlo, non dopo tutto quello che hai fatto prima e dopo,»
concluse, indicando di nuovo il reattore.
Tony
la fissò confuso, come se non riuscisse a credere a
ciò che stava
sentendo, poi si aprì in un fievole, esitante sorrisetto.
«Sarei
curioso di sapere quali sono questi “mille
momenti”. Anche se
dubito arriveresti alla decina,» la prese in giro, con la
consueta
spigliatezza. «Per ora mi accontenterei di aggiungere questo
alla mia
lista,» concluse furbetto, ma con una nota di
serietà ben
palpabile.
Aveva
ragione, Pepper lo sapeva, e sapeva anche di dover in qualche modo
provare di non aver parlato con leggerezza. Ma si
sentì d'un tratto debole al solo pensiero di dover
dimostrare
qualcosa in cui voleva credere con tutta se stessa, ma che non
riusciva ancora a imporsi di accettare. Si
sentì come se ogni suo osso avesse perso vigore e il suo
corpo
potesse collassare su se stesso da un momento all'altro. Tony era
stato fin troppo indulgente col suo rifiuto di affrontare quella
paura irrazionale, che si era solo consolidata col tempo. E nonostante
ciò rimase ferma, congelata al suo posto, una mano a
schermarle la
bocca. Scosse appena testa.
«Non
sono sicura di riuscirci,» confessò piano.
Tony
si accostò appena a lei, sempre cautamente, con
quell'impaccio
timoroso che strideva col suo atteggiamento sempre vivace ed
estroverso.
«Pep,
ce l'ho fatta io,» mormorò,
cercando il suo sguardo. «E tu
non hai mai avuto bisogno di un'armatura per essere forte,»
aggiunse
con fermezza.
«Neanche
tu,» replicò lei, di getto.
Lui
si limitò a fare uno lieve sbuffo scettico, ma il suo volto
rimase
disteso, attraversato da un lieve sorriso obliquo.
«Forse.
Gliel'ho detto che ho fatto qualche progresso, no?»
lanciò
un'occhiata alle scale. «E non è da lei rimanere
indietro,»
aggiunse piano, tornando a guardarla con sicurezza.
Pepper
si fissò nella sua iride nocciola, quasi liquida e animata
da un
fondo di ammirazione e premura, tanto intensa da abbracciarla con lo
sguardo. Era convinto di ciò che diceva, e sembrava
altrettanto
deciso a trovare quelle soluzioni e dopo aver affrontato e scontato i
propri errori. Voleva solo che lei facesse lo stesso.
Pepper
respirò a fondo, e stavolta l'ossigeno sembrò
schiarire i pensieri
nebulosi che aleggiavano nella sua testa. La tentazione di fuggire
era ancora decisamente più forte della sua
volontà di affrontare la
propria paura, ma si sentiva più salda sulle gambe. Rivolse
lo
sguardo alle scale, verso gli abissi del laboratorio, e
annuì
impercettibilmente. Tony colse il suo gesto e si arrischiò a
indietreggiare e scendere il primo gradino a tentoni, in precario
equilibrio sulle gambe instabili. Pepper
strinse in modo inconsapevole i pugni e sentì una vampata
bollente
alle guance quando l'ansia si agitò di nuovo, prendendo il
controllo
delle sue ginocchia ora cedevoli. Si costrinse a domarla.
Non
c'era Tony, là sotto, non c'era il suo reattore sul tavolo,
non
c'era la sua vita appesa a un filo. Tony era lì accanto a
lei,
incrollabile nonostante la paura che provava lei fosse stata anche la
sua paura, sorridente a dispetto delle vene scure che risalivano il
suo collo, pronto a starle vicino e a sostenerla mettendo da parte
tutto ciò che lo frenava costantemente. Lo
osservò, saldo sulle sue
gambe riconquistate e fermo in paziente attesa di farle strada, e di
nuovo trovò un punto fermo nel suo sguardo. Si meritava
molto più
di quanto credesse, e molto più di quanto avesse ricevuto
finora.
Sperava che un giorno sarebbe stato in grado di accettarlo, ed era
decisa ad accompagnarlo lei stessa in quel percorso. Per ora, poteva
fare un'unica cosa, così trasse un altro respiro profondo e
si portò
sul bordo del primo gradino.
«Di
che hai paura? C'è
Iron Man con te,» la spronò Tony, con
la giusta combinazione
di leggerezza, serietà e scherzo, la stessa con cui aveva
sempre
saputo convincere chiunque a fidarsi di lui e fare ciò che
voleva.
Solo
che stavolta non era per raggiungere qualche fine personale o per
semplice diletto. Lei si
fidò e scese il primo gradino con le gambe molli. Lui
accolse quel
movimento con uno sguardo
colmo di
calore, lo stesso che le aveva donato a quella serata di beneficenza
due anni prima, e che non aveva voluto riconoscere nei molti sguardi
simili che aveva intravisto in seguito.
«Questo
è un piccolo passo per una don–...»
cominciò lui nel tentativo
di distrarla e indietreggiando ancora, ma s'interruppe subito nel
mancare
l'appoggio col bastone sul gradino successivo, rischiando di
ruzzolare giù.
Afferrò
il corrimano appena in tempo, ostentando poi una falsissima
disinvoltura; a Pepper ricordò molto un gatto che, in
seguito a
qualche buffo capitombolo, prenda a lisciarsi altezzosamente il pelo
quasi fosse stata una mossa studiata e del tutto calcolata.
«Aspettiamo
di arrivare in fondo, prima di parlare,» lo
rimbrottò lei con
quieto divertimento misto ad apprensione, evitando con gli occhi la
porta del laboratorio che si avvicinava sempre più.
Tony
sbuffò, ma si rassegnò a voltarle la schiena per
scendere in
sicurezza, rimanendo immediatamente davanti a lei come a lasciarle
libera una via di fuga facendole allo stesso tempo da scudo. Arrivarono
infine sul pianerottolo dinanzi alla porta di vetro del laboratorio.
Lì Pepper si bloccò di nuovo sull'ultimo gradino.
Sospirò,
frustrata, e indirizzò con decisione lo sguardo all'interno
dell'ampia stanza, distinguendo la parete delle armature ora visibile
e il riverbero di qualche schermo e ologramma acceso. I suoi occhi
sfrecciarono su Tony prima di potersi soffermare sulla sedia o sul
tavolo impressi ancora vividamente nella sua memoria.
Lui
la fissava, di nuovo con un tenue sorrisetto sulle labbra, senza
metterle fretta; lei trovò finalmente il coraggio di
affiancarlo,
abbandonando la sicurezza del gradino. Poi non pensò a
ciò che
stava facendo: seguì semplicemente il moto che la
guidò a sporgersi
leggermente e posargli un bacio sulla guancia. Lo sentì
trattenere
bruscamente il respiro, per poi premere appena contro le sue labbra,
abbandonandosi al quel breve contatto. Non incontrò subito i
suoi
occhi quando si staccò; invece, li puntò sulle
proprie mani,
intente a rincorrersi nervose sull'orlo della maglietta. Pepper si
scostò, percependo la sua tensione e lasciando
così che ognuno
tornasse padrone del proprio spazio, adesso forse un po' più
piccolo
e dai confini più labili.
Tony
prese fiato, come se l'avesse davvero trattenuto fino a quel momento,
per poi riprendere a parlare mascherando il suo imbarazzo sotto il
consueto velo d'ironia:
«Uh...
un grande passo per entrambi?» concluse maldestramente la
citazione
di poco prima, in palese difficoltà e con una lieve
titubanza,
affiancandovi però un sorriso spontaneo.
«Grazie,»
replicò lei a voce bassa, cercando di instillare in quella
semplice
parola tutto ciò che aveva sempre taciuto; Tony si
limitò a un
sorrisetto sfuggente, evitando ancora i suoi occhi.
Pepper
recuperò rapidamente distanza tra loro, per poi accostarsi
alla
porta e digitare a colpo sicuro il codice d'accesso.
***
«C'è
più casino del solito, oggi Dum-E non è molto
collaborativo,»
esordì Tony, di nuovo padrone di sé mentre faceva
un gesto seccato
verso il robot; questo replicò con un ronzio affranto.
Pepper
avanzò a piccoli passi titubanti nell'enorme stanza, invasa
da
ologrammi vaganti e illuminata a giorno dai neon, al contrario
dell'ultima volta in cui era stata lì, quando l'unica luce
nella
penombra era stata la lampada sul banco di lavoro. Non
riuscì a
identificare quest'ultimo tra i vari sparsi qua e là, a cui
Tony
aveva cambiato disposizione durante i suoi vari traffici con protesi
e armature. La sedia in consunta pelle nera era invece piazzata
davanti alla consolle centrale. Per un momento, fu convinta di
intravedere la sagoma di Tony esanime su di essa, ma fu solo un
lampo: la valanga di ricordi che si era aspettata la travolgesse una
volta là dentro fu troncata sul nascere. Percepiva solo un
disagio
di fondo che dubitava di riuscire a sopprimere del tutto, oltre alla
peculiare sensazione di essere spiacevolmente sospesa a qualche
centimetro da terra, quasi stesse galleggiando senza alcun appiglio
sicuro.
«Bentornata,
signorina Potts,» JARVIS la accolse quasi con calore,
distogliendola
dalle sue riflessioni.
«Grazie,
JARVIS,» replicò lei, grata per l'intervento.
Tony,
pur tenendola d'occhio, si era intanto portato avanti a lei con la
sua andatura zoppicante e si era seduto sensibilmente sul bordo di un
banco di lavoro, piuttosto che sulla sedia a pochi metri da lui. Si
lasciò sfuggire un lamento nel togliere il peso dalla gamba
meccanica, catturando l'attenzione di Pepper.
«Sono
fuori allenamento,» produsse a mo' di spiegazione, sfuggendo
il suo
sguardo inquieto.
Portò
poi la mano al punto di giunzione tra il moncherino e la protesi e
trattenne una smorfia nel constatare quanto fosse dolente.
«Tutto
bene?» s'informò lei, momentaneamente dimentica di
dove si trovasse
e concentrandosi sulla sua espressione provata.
Lui
fece un cenno noncurante con la mano.
«Sto
tutto il giorno seduto, non fa bene neanche a chi ha due gambe
funzionanti,» minimizzò, per poi sospirare appena.
«Nat si
infurierebbe,» considerò con un mezzo sorrisetto,
come se trovasse
divertente il pensiero di un'assassina russa infuriata.
Considerando
liquidata la questione, avvicinò a sé un paio di
schermate
olografiche con rinnovato brio, per poi accigliarsi. Pepper fece per
avvicinarsi, ma la mano di Tony scattò pronta ad intimarle
l'alt.
«No,
ferma lì! Così si rovina la sorpresa,»
affermò, scacciando le
schermate. «Mi dia solo un minuto per sistemare quei dettagli
e per
ricontrollare tutto,» spiegò, già
assorto nei suoi calcoli.
Fece
leva sul bastone per alzarsi e si diresse con un movimento automatico
verso la sedia, dove si lasciò cadere di peso. Pepper
sobbalzò
appena e Tony si voltò di scatto verso di lei, realizzando
solo
allora l'indelicatezza del suo gesto. Per un attimo, rimasero
congelati nelle rispettive posizioni; Pepper aspettò che la
valanga
trattenuta poco prima si abbattesse su di lei, seppellendola e
soffocandola, ma tutto ciò che percepì fu quel
senso di
straniamento che si accentuava leggermente.
«Va...
va bene?» esalò esitante Tony con un gesto vago
verso se stesso,
scrutandola preoccupato e apparentemente pronto a scattare di nuovo
in piedi.
«Va
bene,» confermò lei senza esitazioni.
Il
laboratorio le sembrava per ora uno spazio neutrale. Non era ancora
accogliente come un tempo, ma si sentiva tranquillizzata dal fatto
che i suoi timori per quel luogo, che aveva immaginato denso di ombre
e dolore, si stessero rivelando per lo più infondati. Quei
ricordi
esistevano solo nella sua testa, per quanto sia lei che Tony ne
portassero ancora i segni. Non poteva permettere che li ferissero
ancora, aggiungendo cicatrici a cicatrici. Ma per quanto questi
pensieri si ripetessero nella sua testa, una parte di lei continuava
a voler evitare il brillio azzurrino del reattore nel petto di Tony,
spingendola ad allontanarsi dalla sedia su cui sedeva, e quel senso
di distaccato stordimento non accennava a diminuire. Smise di
combattere ciascuna di quelle sensazioni: sarebbero passate, prima o
poi. Per ora, sentiva di aver fatto abbastanza.
«Non
ci metterò molto, non si preoccupi,»
riattaccò Tony, ora con cauta
disinvoltura. «Lei intanto può fare un tour
guidato
per vedere
quello che si è persa ultimamente. JARVIS?»
chiamò, prima di
tuffarsi nei suoi ologrammi azzurrini.
Pepper
accettò di buon grado l'offerta, sia per distrarsi dai suoi
pensieri
non propriamente sereni, sia per tenersi impegnata mentre Tony era a
sua volta occupato a completare chissà cosa tenendola
ulteriormente
sulle spine.
JARVIS
le mostrò i progressi che Tony aveva fatto negli ultimi
mesi, dai
progetti dei tutori per Kyle, a quelli per i droni che aveva
intenzione di fornire allo SHIELD e ai Vendicatori. Si
accigliò
appena nel vederne il prototipo, e ancor di più quando le fu
presentata la Mark IV, per ora in fase di assemblaggio. Le sue labbra
si tirarono, ma l'armatura non sembrava ancora operativa e giaceva
inerte su un bancone, grigia, anonima e non molto dissimile dal drone
poco distante. Su un tavolo più piccolo, che però
JARVIS non le
illustrò, scorse svariati modelli di reattori arc
disassemblati o in
fase di costruzione, circondati da fogli ingialliti e pile di scarti
metallici. Distolse lo sguardo con un vuoto allo stomaco, dirigendosi
d'istinto dalla parte opposta, ovvero verso una delle scrivanie
straripanti di scartoffie e apparentemente arenate in mezzo al nulla
a poca distanza dalle macchine d'epoca di Howard.
«Ci
sono quasi!» le annunciò in quel momento Tony,
notando le sue
peregrinazioni per il laboratorio. «Sto renderizzando un
modello e
aggiustando un altro centinaio di cose che mi erano
sfuggite,
ma ci sono!» continuò concitato e senza voltarsi,
accompagnato dal
ticchettio incessante della tastiera.
Pepper
si ritrovò a sorridere appena nel sentirlo di nuovo
così entusiasta
e concentrato, e prese a sfogliare distratta qualche fascicolo
rimasto abbandonato sulla scrivania, per lo più progetti
approvati e
già consegnati allo SHIELD come l'Helicarrier, ma anche
qualche
nuova bozza in via di completamento. Fu infine attratta da una
voluminosa risma di fogli un po' sgualciti e spillati insieme, sul
primo dei quali campeggiava uno schizzo estremamente dettagliato
della Mark I. Girò pagina, trovando subito le Mark
successive e
qualche bozzetto di prova per la Mark IV in assemblaggio. Il
fascicolo non finiva però lì: c'era almeno
un'altra cinquantina di
bozzetti di armature dal design completamente diverso, alcune
numerate, altre attorniate di punti interrogativi, altre ancora
cancellate con segni decisi di penna o matita.
«Questi
cosa sono?» chiese interessata, avvicinandosi un poco a Tony
da
un'angolazione tale da non vedere gli schermi su cui stava lavorando.
«Cosa?»
bofonchiò lui, alzando appena la testa e inclinandosi
lateralmente
per scorgere quello che gli stava mostrando.
S'illuminò
appena nel riconoscerlo.
«Ah,
quelli? Sono esercizi, per calibrare la protesi. Mi sono fatto
prendere un po' la mano,» sogghignò con fare
innocente, scrollando
giocosamente le dita meccaniche prima di tornare a dedicarsi al suo
progetto corrente.
«Solo
armature?» osservò Pepper, vagamente ironica ma
suo malgrado
interessata.
«Non
sono esattamente un artista. Ho pensato che se proprio dovevo
disegnare qualcosa, tanto valeva fare qualcosa di semplice e che
potesse tornare utile,» replicò lui con un'ovvia
alzata di spalle.
«Se
questo lo chiama semplice...» mormorò lei,
fissando l'intrico di
linee che formava il rivestimento e i componenti di ogni Mark.
Lui
le indirizzò un sorrisetto che nascondeva un certo orgoglio,
come
sempre quando si trattava delle sue creazioni. Pepper
sbirciò appena
nella sua direzione, distinguendo su una delle schermate quello che
sembrava un lungo documento straripante di dati tecnici, grafici e
formule. S'impose
di non guardare nient'altro e tornò ad esaminare i progetti
che
aveva in mano. La maggior parte degli schizzi erano repliche
più o
meno fedeli della sua Mark IV, altre invece se ne distaccavano molto,
acquisendo uno stile tutto loro. Il senso estetico di Tony era molto
opinabile, ma alcune non le dispiacevano.
Notò
che qua e là su quei fogli c'erano anche altri scarabocchi e
ghirigori, probabilmente disegnati in momenti di noia: il logo della
Stark Industries e degli Avengers, macchine da corsa un po'ovunque e
delle caricature pessime ma decisamente riconoscibili, soprattutto di
Rogers e Fury. A margine di un foglio era abbozzato un piccolo Hulk
in inchiostro verde con Mjolnir in una mano e lo scudo di Rogers
nell'altra. Le faceva un'insolita tenerezza vedere quel lato
bambinesco dell'estro di Tony, e non poté fare a meno di
lasciarsi
sfuggire un sorriso.
La
sua espressione si intristì un poco nel vedere uno degli
ultimi
fogli. Un sobrio progetto di un'armatura riempiva la pagina,
così
come tutte le precedenti, con i soliti appunti e note indecifrabili
tutt'intorno. In un angolo faceva però capolino un piccolo
Iron Man
stilizzato nell'atto di volare e sparare un raggio dalla mano.
S'intuiva un po' troppa cura per i dettagli per essere stato fatto
sovrappensiero. Aveva la sensazione che non avesse semplicemente
disegnato un'altra armatura, ma se stesso, nell'atto di fare
ciò che
avrebbe voluto.
Lo
guardò di sottecchi, trovandolo profondamente immerso nei
suoi
calcoli, con una ruga di concentrazione a solcargli la fronte. Il suo
sguardo, benché acceso, era serio e quasi solenne,
incorniciato da
occhiaie profonde; il riverbero degli schermi accentuava le
estremità
della ferita che gli attraversava il viso sporgendo dalla benda.
Ticchettava rapidamente
sulla tastiera con la mano sana, seguendo intento ogni parola e
numero che appariva sullo schermo. Di tanto in tanto scorreva delle
colonne di dati virtuali attorno a lui con la destra, senza smettere
di scrivere.
Pepper
lo osservò ancora per qualche istante, per poi spostare lo
sguardo
alla parete delle armature: i resti danneggiati e deformati della
Mark I, il posto vuoto della II e l'ammasso di metallo fuso e
contorto della III. Non si soffermò troppo a lungo su
questo,
temendo che la valanga scampata poco prima potesse ripresentarsi
sotto altre spoglie altrettanto dolorose, e spaziò sul drone
anonimo
e inerte e sulla Mark IV incompleta. Finì per tornare a
fissare quel
disegnino di un'armatura scintillante rosso-oro librata in volo e
slanciata con impeto vero il margine del foglio come contro una
barriera da infrangere. Vi passò sopra le dita, seguendone i
contorni decisi. Era quello, tutto ciò che era rimasto di
Iron Man?
Sollevò
gli occhi verso Tony e non le riuscì così
difficile immaginarlo di
nuovo con l'armatura. Non ne aveva bisogno per essere forte o eroico,
di questo era stata sempre profondamente convinta, ma non poteva
negare che facesse parte di lui e di ciò che aveva scelto
di
essere. Ripensò alla loro discussione di qualche settimana
prima,
quando le aveva detto di volersi presentare alla EXPO come Iron Man, e
diede finalmente forma alla realizzazione che aveva tentato di farsi
strada in lei allora: per Tony quella non era una semplice
“distrazione”.
Sentì
il proprio petto tremare quando inspirò a fondo, quasi a
voler
ostacolare le sue intenzioni:
«Tony?»
«Mh?»
Pepper
sentì gli occhi che le si appannavano di loro spontanea
volontà nel
realizzare quello che stava per dire, ma si costrinse a continuare:
«Ha
ancora intenzione di presentarsi alla EXPO con l'armatura?»
Tony
quasi capitolò a terra per la fretta con cui si
voltò e la fissò
attonito per qualche istante, spostando l'occhio tra lei, il
fascicolo e l'armatura in un frenetico circolo vizioso.
«L'idea
è in stand-by,» affermò rapido,
muovendo nervosamente su e giù la
gamba quasi fosse d'un tratto sui carboni ardenti. «E quelli
non
hanno nulla a che vedere con... li avrò
fatti più di tre
mesi fa a tempo perso, le giuro che non ho intenzione di...»
tentò
di giustificarsi, mangiandosi le parole.
«Lo
so, mi fido di ciò che mi ha detto,» lo
fermò subito lei.
Poté
vedere l'espressione di Tony virare dall'apprensivo al basito nel
giro di mezzo secondo, per poi fossilizzarsi in un cipiglio
guardingo, quasi stesse osservando un fenomeno sconosciuto e dagli
esiti imprevedibili. Poi riattaccò a parlare a macchinetta:
«Ok,
sta cercando di irretirmi per chiedermi qualcosa; nello specifico, di
non fare qualcosa che ho già
promesso di non fare...
oppure è possibile, direi molto probabile, che mi stia
depistando
per poi rimproverarmi di voler fare di nascosto quel qualcosa;
in tal caso si tratterebbe di una tattica assolutamente
scorretta e infida da parte...»
«Tony,»
lo bloccò lei, trattenendo un sospiro e un sorriso paziente
allo
stesso tempo.
Lui
si zittì all'istante, approntando una facciata neutrale che
recava
però qualche riconoscibile traccia di quella da cane
bastonato che
aveva passato anni ad affinare appositamente per lei. Pepper
tentennò, combattuta. Pensò a quella fiducia che
gli aveva negato
anche quando non aveva ancora avuto alcun vero motivo per farlo.
Pensò a
quella discussione di una vita prima, con cocci di vetro e parole
avventate a separarli, quando Tony aveva gridato con disperazione
ciò
che avrebbe voluto riavere: l'armatura e la sua vita. Pensò
a quei
vaghi “sei mesi, forse un anno”, a quella vita in
parte
riconquistata che gli stava sfuggendo via e a tutto ciò che
si
sarebbe meritato di riavere e ricevere, finché poteva.
«Le
sto dicendo che, se vuole, sono d'accordo,» disse d'un fiato.
Lui
rimase stolidamente a bocca aperta, in modo quasi comico.
«È
seria?» si accertò, forse sospettando di essere
vittima di
un'allucinazione.
«Sì.
Voglio fidarmi,» rispose lei, rialzando lo sguardo da quei
fogli e
vedendo il suo farsi un po' lucido.
Ci
mise una buona decina di secondi per recuperare la voce. Pepper aveva
ormai capito con un certo compiacimento di essere forse l'unica
persona in grado scatenare in lui quell'insolito mutismo.
«È
una delle cose più belle che possa fare per me,»
mormorò infine,
incredulo. «E anche lei ha degli standard molto
alti da
superare,» aggiunse, con grata sincerità.
Pepper
ricambiò con altrettanto calore, per poi cedere appena alla
vena
d'apprensione che si stava ingigantendo in lei:
«Mi
deve solo garantire che sta davvero vagliando tutti
i rischi
in modo razionale. E che non sia una specie di... non so, canto del
cigno o ultima follia volontaria, perché...»
«Non
potrei mai farlo. Non di nuovo,»
ribatté duramente lui. «Se
non per me stesso, almeno per lei,» aggiunse con
più dolcezza.
Pepper
annuì soltanto, sentendosi di nuovo spiazzata e rincuorata
da quegli
spiragli che Tony continuava ad aprirle per sbirciare dentro di lui.
L'uomo
tacque ancora per qualche secondo, prima di rianimarsi e appoggiarsi
coi gomiti sulle ginocchia, con un sorrisetto scaltro a inclinargli
le labbra.
«Stavo
pensando di rinnovare il design della Mark,»
esordì con vivacità,
indicando i fogli che lei ancora teneva in mano. «Non posso
presentarmi alla Expo in una lattina di coca-cola,»
accennò alla
Mark IV ancora in costruzione. «Sa, vorrei un ritorno col
botto,»
s'interruppe, rendendosi conto della pessima scelta di parole.
«Metaforico.»
Pepper
sorvolò sulla metafora malriuscita e spostò
perplessa lo sguardo
dai progetti a Tony, scuotendo la testa.
«Vorrebbe
una mano a scegliere la nuova Mark?» interpretò
infine, ancor più
dubbiosa e sorpresa per quella proposta imprevista.
«Perché
no?» confermò lui, fissandola con aspettativa.
«Tony,
non ci capisco nulla di robotica, non credo di poter...»
«Intendevo
dal punto di vista estetico.»
«Non
sono la persona più adatta a giudicare armature.»
«Ha
dei gusti indiscutibilmente più raffinati dei
miei,» la blandì
lui, sfoderando il suo storico sorriso ammaliante.
Pepper
realizzò solo allora quanto le fosse mancato.
«Quindi
dovrò farle da stilista?» concluse, fingendosi
riluttante ad
accettare.
«Quello
lo faccio già io, lei al massimo potrebbe essere la mia
personal
dresser,» chiosò Tony, poggiando sornione il mento
sulle dita
intrecciate, già sapendo di aver vinto.
«Va
bene, vedrò di trovarle qualcosa da mettere per il grande
giorno,»
concesse Pepper, lieta che le fosse stato offerto un modo per vedere
quell'evento in una luce diversa e più spensierata.
Tony
ammiccò,
prima di tornare ai suoi schermi con un volteggio della sedia.
In
cuor suo, Pepper si sentiva anche lusingata per quel gesto: Tony era
sempre stato estremamente geloso dei suoi appunti e progetti,
nonostante si fidasse ciecamente di lei, ed era piuttosto riservato
al riguardo. Recuperò una cartellina rigida da una delle
scrivanie e
vi inserì con cura i fogli, stringendola poi al petto con
fare quasi
protettivo.
In
quel mentre, Tony lanciò un'esclamazione esultante che quasi
la fece
sobbalzare, per poi voltarsi verso di lei con un sorriso a trentadue
denti.
«Finito,»
annunciò trepidante. «Ora
può avvicinarsi,» aggiunse,
invitandola con un cenno della mano esageratamente galante.
Pepper eseguì rapida, affiancandolo ed escludendo dalla
mente
il luogo
in cui si trovava per concentrarsi solo su ciò che Tony le
stava
mostrando. Scrutò
lo schermo davanti a loro, su cui distinse quella che sembrava la
prima pagina di una presentazione 3D, al centro della quale
campeggiava una riproduzione del braccio meccanico di Tony; in basso
erano discretamente impressi i loghi della Stark EXPO, delle Stark
Industries e della
September Foundation. In alto, con l'ultima parte posta tra parentesi
come se fosse provvisoria, vi era l'intestazione “Progetto
(Ph.01 X)”.
«Premessa
forse un po' tardiva,» esordì Tony, prima che lei
potesse porre
qualsiasi domanda. «Non è esattamente una sorpresa
per
lei,
ma più che altro per la EXPO e per chi vi
parteciperà. Anche se
speravo di sorprendere anche lei e che le facesse
piacere,»
sciorinò con accortezza, con le dita giunte davanti al volto
e gli
indici a toccarsi il naso mentre la scrutava di sottecchi.
«La
ascolto,» lo incoraggiò lei, intuendo la sua
titubanza.
Tony
in tutta risposta premette il tasto invio e il documento digitale si
traslò su un ologramma un po' compresso, evidentemente
pensato per
essere proiettato su un maxi-schermo. Mandò avanti la
presentazione
e Pepper non poté fare a meno di rimanere meravigliata nel
vedere la
schermata successiva: da un lato si vedeva un progetto completo della
protesi del braccio, corredata da uno spaccato e un esploso curati e
definiti; dall'altro, vi era la scansione del foglio stropicciato su
cui Tony aveva abbozzato la primissima versione di quella stessa
protesi, con tratti incerti, confusionari e annegati nelle varie
formule, vettori e appunti che la circondavano. Il primo passo, la
prima idea, il primo mattone su cui aveva iniziato a ricostruire la
propria vita. Nel riportare lo sguardo su Tony, si accorse che stava
sorridendo con malinconia, quasi fosse a sua volta perso in quei
ricordi.
«Questo
è il mio retaggio,» disse, quasi con
solennità. «Ed è uno dei
ricordi che vorrei lasciarmi dietro,» aggiunse a voce
più bassa, ma
senza il minimo tremito a scuoterla.
Le
mani di Pepper si contrassero leggermente, cogliendo tutti i
sottintesi di quella frase, ma sentì crescere allo stesso
tempo un
moto d'orgoglio e ammirazione assolutamente genuini nei confronti di
Tony, come non ne provava dal momento in cui l'aveva visto di nuovo
in piedi.
«Vuole
renderle pubbliche,» constatò con
semplicità, stentando a credere
che avesse davvero intenzione di esporre al mondo quelle che in fin
dei conti erano ormai parti di sé.
«Il
piano è quello, anche se ho strappato a Stern solo il
permesso per
presentarne i progetti e qualche prototipo incompleto,»
commentò
con lieve contrarietà. «In compenso,
potrò girare per la EXPO senza
licenza per le protesi, visto che non arriverà probabilmente
in
tempo; le Industries devono solo prendersi ogni
responsabilità per
eventuali “incidenti”,» e volse l'occhio
al
cielo con evidente
insofferenza.
S'interruppe
e tamburellò sul bracciolo della sedia, prendendo tempo e
fiato.
«Quindi,
in pratica, presenterò me stesso,»
asserì, passando alla pagina
successiva, a questo punto Pepper trasalì.
Sulla
diapositiva vi erano due foto in bianco e nero che mostravano con
chiarezza lo stato dei suoi moncherini nelle settimane immediatamente
successive all'amputazione, assieme alla trascrizione della sua
cartella clinica che ne illustrava le condizioni in termini
più
specifici; Ian era creditato a piè di pagina.
«Sono
l'unica cavia esistente,» spiegò lui con
tranquillità, notando il
suo stupore e cambiando però rapidamente pagina.
«E
devo fornire
tutti i dati disponibili per permettere ad altri team di ricerca di
emulare o modificare quel che ho già fatto io. Non mi
aspetto che le
mie protesi vadano bene per tutti.»
Alzò appena le
spalle, ma le
rughe che solcavano la sua fronte erano un evidente segno di come non
si sentisse realmente a proprio agio nel discutere quel punto. Pepper
tacque per qualche lungo istante, cercando di ogliere la portata di
quella scelta e, soprattutto, le ripercussioni che avrebbe avuto su
Tony. Perché se nel mettere a punto quella sua idea poteva
essere
rimasto impassibile, non sapeva se sarebbe riuscito a rimanere tale
anche su un palco, dinanzi a migliaia di spettatori e sotto l'occhio
impietoso delle telecamere, mentre alle sue spalle scorrevano i mesi
di sofferenza, fallimenti e depressione che anche lei ricordava
così
bene. Soprattutto, si chiedeva come potesse reggere il peso di
così
tanti sguardi quando era spesso intento a schivare persino il suo.
Il
fulcro del progetto poteva anche essere sulla parte tecnica, e le
poche foto presenti finora erano accuratamente selezionate in modo da
essere il quanto più possibile anonime, ma riusciva
già a
immaginare la reazione della stampa e delle Everhart di turno messe
davanti all'occasione di poter gettare una manciata di fango in
più
sulla dignità di Tony. Ricordava fin troppo bene lo scoop di
Vanity
Fair e il modo impietoso in cui aveva descritto il suo corpo
mutilato; era stata a un passo dall'andare in prima persona alla
porta della Everhart per farle rimangiare ogni singola parola di
quell'articolo.
Ammirava
la dedizione con cui Tony si stava mettendo in prima linea per
quell'iniziativa, ma l'idea di vederlo soffrire più di
quanto non
stesse già facendo per colpa di qualche pettegolezzo molesto
la
impensieriva e faceva infuriare allo stesso tempo.
«Capisco
la necessità di rendere disponibili tutte le informazioni...
ma è
davvero necessario fornire dati così sensibili ?»
accennò alla
presentazione, che ora mostrava un innocuo spaccato di un
micro-reattore arc. «Insomma, sa meglio di me che l'opinione
pubblica
sa essere inclemente.»
«Sì,»
replicò lui un po' bruscamente, intuendo a cosa si
riferisse.
«Non
sono entusiasta di... mostrarmi in
quello stato, ma non vedo alternative.»
Si agitò
nervoso sulla
sedia. Era
chiaramente a disagio al pensiero di doversi esporre in quel modo, ma
anche deciso a non tirarsi indietro; in quel momento sembrò
comunque
perdere un po' della sua determinazione e si reclinò
fiaccamente
sullo schienale.
«Mi
metteranno alla gogna mediatica per settimane,»
bofonchiò
rassegnato. «È la cosa più stupida che
potessi pensare di fare,»
sbottò poi con improvvisa frustrazione, additando quasi con
sdegno
il progetto e facendo per metterlo da parte.
«Invece
lo trovo molto coraggioso,» commentò soltanto
Pepper, posandogli
con gentilezza una mano sul braccio meccanico, a fermare i suoi gesti
inconsulti; lui si bloccò, come folgorato, e la
presentazione si
arenò su un'anonima pagina riguardante la fusione
dell'unobtanium.
Tony
scosse appena la testa, senza sottrarsi a quel contatto e con un
sorriso che sembrava indeciso se emergere sul suo volto o meno, come
se apprezzasse il complimento ma non fosse pronto ad accettarlo o
dubitasse della sua veridicità.
«No,
non... faccio quello che faccio sempre, no? Mi metto in mostra e in
ridicolo, non c'è nulla di coraggioso,» si
schermì, azzardando un
sogghigno autoironico.
«Sa
che non è così,» lo
rimbrottò lei, e lasciò scorrere la mano
lungo il suo braccio meccanico seguendone delicatamente i contorni
affusolati, quasi sperando che potesse percepire quella carezza; lo
sentì inspirare più a fondo e socchiudere la
palpebra, come se si
stesse concentrando al massimo per riuscire in quell'intento.
«Se
fossi davvero coraggioso, non ti avrei chiesto di starmi
accanto,»
mormorò
infine a capo chino, girando un poco la sedia per sfuggire al suo
tocco.
Lei
non lo trattenne, ma non poté evitare che il suo sguardo si
intristisse un poco a quel suo ennesimo ritrarsi.
«Penso
che tu lo sia anche per questo,» lo contraddisse con
fermezza,
riprendendo poi a mandare avanti la presentazione al posto suo senza
aggiungere altro.
Non
si girò verso di lui, ma intravedeva con la coda dell'occhio
il modo
in cui la stava fissando, con quello sguardo che scaturiva
direttamente da due anni prima. Si sentì arrossire
leggermente, ma
con un calore discreto e piacevole che andò a tirare delle
precise e
sensibili corde nel suo stomaco, risvegliando una sensazione che era
certa di non provare dalla sua prima cotta del liceo. O forse da una
serata di beneficenza non poi così lontana.
Arrivò
alla fine della presentazione, che Tony aveva continuato a
illustrarle per sommi capi; l'ultima pagina mostrava quella foto
inviata mesi prima allo SHIELD, che lo immortalava con un
ghigno vittorioso dopo essersi rimesso in piedi. Pepper sorrise
apertamente, rivolgendosi verso di lui e trovando un riflesso dalla
sua espressione in quella altrettanto distesa e sorridente di Tony.
«Quindi?
Che ne pensa?» la incalzò, di nuovo allegro.
«È
stata decisamente un bella
sorpresa,» disse lei, trovando il
suo
sguardo e indugiandovi per qualche secondo di troppo. «Ed
è giusto
che il mondo sappia e riconosca cosa è riuscito a
fare.»
«Per
una volta, non lo faccio per gli applausi,» disse lui a
sguardo
basso, inclinando appena il capo come a minimizzare la cosa.
«Si
merita anche quelli,» ribatté lei, non
lasciandogliela vinta.
Tony
sollevò appena un sopracciglio, un'espressione furbetta a
mascherare
la gioia serena e sottile che irradiava in quel momento.
«Signorina
Potts, oggi si è proprio messa in testa di conquistarmi a
suon di
paroline dolci,» la canzonò, girando con fare
irritante sulla
sedia.
Pepper
si limitò ad alzare gli occhi al cielo, tornando a
concentrarsi
sulla presentazione ormai terminata e borbottando tra sé un
ben
udibile “come se ce ne fosse bisogno”. Tony
sbuffò in un mezzo
risolino forse imbarazzato, forse solo divertito, per poi riprendere
a parlare con vivacità:
«Tra
l'altro, non ha ancora sentito la parte migliore di tutta la cosa,
ovvero quella che la riguarda,» sillabò con tono
suadente.
Pepper
si voltò appena, interessata e pronta a gestire qualunque
assurda
appendice che Tony era in procinto di aggiungere al progetto. L'uomo
si alzò in piedi, come se ritenesse di dover fare
quell'annuncio in
modo più composto, nonostante fosse evidente che quella
posizione
gli costasse fatica. Rimase per un istante a capo e sguardo chino,
per poi raddrizzarsi con la schiena diritta, quasi impettito. Quando
parlò, fu con voce chiara e solcata da un'emozione appena
tenuta a
bada che la rese più vibrante e piena.
«Vorrei
che lei mi aiutasse a presentare il progetto, dal vivo, con me, alla
EXPO,» disse d'un fiato.
Pepper
pensò fugacemente che, se non le era preso un infarto quel
giorno
per la raffica di emozioni contrastanti e incessante che l'aveva
colpita, poteva dichiararsi al sicuro per il resto della vita.
«Io?»
riuscì solo a dire, esterrefatta, e vide subito
l'espressione di
Tony mutare da una sicurezza quasi spavalda a uno sguardo
estremamente simile a quello di un cane abbandonato senza preavviso
sul ciglio della strada.
«Sì,
uh, lei. È l'unica che... insomma,» si
schiarì la gola per
ritagliarsi un attimo di respiro, «È la persona
più adatta e
l'unica che... che può capirne la portata e tutto quello che
c'è
dietro, nel bene e nel male. Ed è l'unica mi è
stata sempre
accanto. Sì,» la fermò prima che lei
potesse contraddirlo, «sempre.
E non ho intenzione di ritrattare questo punto,» la
avvisò
perentorio.
Pepper
si sentì più spiazzata per quell'affermazione che
per la richiesta
di affiancarlo alla EXPO, e ciò le impedì di
approfittare della
breve pausa di Tony per inserirsi nel discorso, permettendogli
così
di continuare a parlare a raffica:
«Sarà...
impegnativo. Insomma, saremo io e lei su un palco sotto ai riflettori
e so che non è esattamente una
“sorpresa” convenzionale...
sicuramente avrebbe preferito un mazzo di fiori o dei cioccolatini,
ma lo sa che mi piace esagerare...» prese quasi a tartagliare
e
Pepper si portò di fronte a lui, senza riuscire a trovare
subito le
parole giuste, così lui continuò ancora, sempre
più nervoso: «Non
sono neanche sicuro che lei voglia prendersi l'impegno, ma non mi
offenderò se non lo farà e...»
Pepper
lo interruppe prendendogli con delicatezza le mani e fermando ancora
una volta il suo gesticolare agitato.
«Sono
qui, Tony. E ci sarò anche alla EXPO, e per qualunque cosa
deciderai
di fare dopo.»
Stava
per ritrarsi, rimproverandosi tra sé per aver invaso ancora
una
volta i suoi spazi, ma lui la trattenne con una presa così
leggera
che la percepì appena mentre le sfiorava i polsi con le
dita. Lasciò
inerte la mano meccanica, come sempre, e sembrò
profondamente
combattuto tra lasciar sfumare di nuovo quel contatto fugace o
approfondirlo. Infine si risolse a stringerla a sé in un
breve
quanto inaspettato abbraccio che le fece quasi mancare il respiro.
Ebbe appena il tempo di percepire il calore del suo corpo, il lieve
sentore di olio per motori, ferro e dopobarba impresso sulla sua
pelle e di serrare per un istante le proprie braccia attorno alle sue
spalle, che lui si era già staccato. Mise tra loro un
incerto passo
di distanza, sfuggendo il suo sguardo nel rivolgerle un sorriso
appena accennato che sembrava quasi di scuse.
«Non
so neanche più come ringraziarti,» disse appena
udibile, mentre si
poggiava coi palmi sul bancone, impegnando poi mani e occhio con
qualche schermata superstite rimasta aperta.
«Questa
mi sembra un'ottima alternativa a un
“grazie”,» replicò lei, in
tono ostentatamente ironico che poteva ben poco nel celare lo sguardo
colmo d'affetto che gli stava rivolgendo.
«Sono
una persona che tende a perdere tempo,» proferì
lui, senza
preavviso, fermando i suoi traffici e fissando un punto inesistente
davanti a sé. «Magari tutto... tutto questo
è un incentivo a
non farlo,» rifletté ad alta voce in tono
colpevole, sempre senza
osare guardarla e portando una mano a coprirsi lo sfregio, quasi
volesse schermarsi da lei.
«Nessuno
ci vieta di seguire i nostri tempi,» gli
fece notare lei, con
la consueta, semplice schiettezza che sembrava sempre riportarlo
prontamente coi piedi per terra, ancorando i suoi pensieri nel mondo
reale.
Lui
non rispose, ma intercettò di sfuggita i suoi occhi in un
muto
assenso, prima di tornare a sfoggiare la solita espressione
disincantata. Si
raddrizzò e cliccò deciso sulla presentazione
ancora sospesa a
mezz'aria. Questa si ripristinò, tornando alla pagina
iniziale.
«E
anche questa è fatta,» commentò, per
poi lasciare che una singola
linea contrariata si formasse tra le sue sopracciglia. «O
quasi...»
si corresse, portando una mano al mento mentre ingrandiva
l'intestazione.
Questa
recitava ancora “Progetto (Ph.01 X)”.
Tony prese a
tormentarsi dubbioso il pizzetto, per poi incrociare le braccia con
aria adesso insoddisfatta. Si girò di scatto verso la
tastiera e con
un gesto risoluto cancellò il titolo, digitandone uno nuovo
a colpo
sicuro. Premette nuovamente invio con un mezzo svolazzo della mano,
stavolta sorridendo compiaciuto. Pepper strizzò appena gli
occhi nel
leggere il nuovo titolo:
«“Progetto
Phoenix”?»
Il
sorriso di Tony si allargò.
«Mi
sembra appropriato.»
FINE
PARTE SECONDA
________________________________________________________________________________________
Note Dell'Autrice:
Sssalve!
Avevo promesso un capitolo in tempi più brevi, sebbene più corto, e mi ritrovo a pubblicarne uno quasi in ritardo e lungo come al solito... i misteri della stesura e dei cambiamenti in corso d'opera :P
Non riesco quasi a credere di aver messo la parola fine a questa travagliata seconda parte: Ashes si chiude qui, dal prossimo capitolo si inizia Rebirth, terza ed ultima parte.
Quest'idea del "Progetto Phoenix" era stata discussa tra me e MoonRay nelle prime fasi della storia, per poi essere archiviata. Non mi è dispiaciuto recuperare il concetto, per quanto cliché.
Ora sto crollando sulla tastiera, ma per qualsiasi chiarimento/domanda sono a disposizione, visto che come al solito è finito per uscir fuori un capitolo piuttosto denso :) Mi limito a dire che assumere più spesso il PoV di Pepper è una scelta ben consapevole, e di tenere sempre a mente che, essendo lei umana come tutti, può fraintendere comportamenti e reazioni di Tony, così come intuirne più lucidamente la causa rispetto a lui. Insomma, cari lettori: andateci coi piedi di piombo (soprattutto per la faccenda del contatto fisico).
E ricordate che "what's done, cannot be undone" *posa amletica pureseèMacbeth*
Ringrazio tantissimo T612 (il capitolo avrei voluto pubblicarlo venerdì, tusaiperché, ma sono ritardataria come sempre <3 :'), Emyclarinet e _Atlas_ per aver recensito lo scorso capitolo e Ghillyam per aver aggiunto la storia alle ricordate: mi rendete come sempre felicissima <3 E grazie a tutti coloro che seguono da dietro le quinte e che hanno aggiunto Phoenix tra le seguite/preferite/ricordate :)
Non so dare una data precisa d'aggiornamento: mi hanno scombinato le date della sessione d'esame e sarà un'impresa far quadrare tutto. In più, visto che Phoenix è ormai prossima alla conclusione, vorrei dedicare ad ogni capitolo la massima cura, quindi seguirò la politica del quality over quantity. Posso solo annunciare, finalmente in modo 100% definitivo, che i capitoli saranno 50 tondi tondi, prologo ed epilogo esclusi :D
Dopo 'sta sfilza di comunicazioni di servizio, mi eclisso (e magari dormo pure),
Au revoir,
-Light-
P.S. Pensavate che avessi seppellito la Everhart e certi trascorsi imbarazzanti, eh? Giammai!
P.P.S. Come sempre per le citazioni "doppie", il blu arc è per Tony, il rosso ramato è per Pepper (@Atlas, so già quale delle due apprezzerai :P).
© Marvel
|
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Capitolo 44 *** Supernova ***
Parte
Terza
"E cosa vuoi che mi
facciano, le
sofferenze? [...]
Vedo il sole, e se il sole non lo
vedo, so che c'è.
E sapere che c'è il sole, è già
tutta la vita."
Fëdor Dostoevskij, I Fratelli
Karamazov
43
Supernova
"You
got it tough, I've
seen the toughest around
And I know, baby, just how you feel
You got to roll with the
punches and get to what's real
Ah,
might as well jump"
[Jump
– Van Halen]
"If
I'm to fall would you be there to applaud?
Or would you hide
behind them all?
'Cause if I have to go
In my heart you'll
grow
And that's where you belong
Guess
I'm outta time"
[Outta Time – Oasis]
24
Aprile, Flushing Meadows, New York, 19:45
Lo
sfavillante tappeto notturno di New York si srotolava sotto la pancia
dell'aereo, in un caotico snodarsi di strade brulicanti e grattacieli
slanciati nel buio. Il puntino luminoso dell'Unisfera si avvicinava,
un faro pulsante che emergeva dall'oceano di alberi scuri,
inframezzati dagli atolli luminosi dei futuristici padiglioni.
Tony
si sentiva completamente ebbro. Non aveva toccato un goccio d'alcol,
eppure gli sembrava di poter bere con lo sguardo ogni singola luce
notturna e di sentire la frizzante brezza d'alta quota dargli alla
testa come il più pregiato dei whiskey. Si stava ubriacando
di New
York, della sua skyline
inconfondibile, dei suoi colori caldi e
chiassosi, dell'aria fredda sulla propria pelle e della prospettiva
di potersi presto tuffare a capofitto in quel turbinio di sensazioni
a lungo agognate.
Rivolse
un'ultima occhiata a quel caleidoscopio di luci ammiccanti prima di
scostarsi dalla zona di lancio per affrettarsi verso quella di
carico. Sentì il proprio cuore accelerare i battiti e
scacciare il
velo d'intorpidimento che gli occludeva il petto non appena vide la
Mark IV, tirata a lucido e appesa a due bracci meccanici pronti a
saldarla su di lui. Si scoprì ancora una volta soddisfatto
del nuovo
design scelto da Pepper: era più affilato e snello della
vecchia
Mark, con linee più nette che ne accentuavano il taglio
dinamico.
Anche gli arti erano meno massicci e facilmente manovrabili anche con
l'ingombro aggiuntivo delle protesi. Tony diede una pacca affettuosa
alla piastra frontale, con la cavità circolare pronta ad
ospitare il
suo reattore. Sentì
un calore improvviso sbocciargli nel petto e irradiarsi nelle sue
vene.
Stava per indossare di nuovo l'armatura. Quel pensiero non
aveva ancora avuto modo di prendere forma nella sua mente, in tutti
quei mesi di frenetici preparativi; ma ora, con la Mark pronta
all'uso di fronte a lui, la pancia dell'aereo spalancata e la Expo
–
la sua Expo – che si avvicinava, si
sentì invadere da una
scarica di adrenalina, paura e aspettativa che andò a
confluire in
quella distinta ebbrezza che lo faceva fluttuare a un palmo da terra,
pronto al decollo.
«Signor
Stark, la torre di controllo ha dato l'OK per il lancio nei prossimi
dieci minuti.»
La
voce di Pepper lo raggiunse a malapena sopra il rombo dei motori, ma
bastò ad aumentare esponenzialmente quella sensazione. Si
voltò
verso di lei, senza attenuare il sorriso smagliante che gli
illuminava il volto. Lei gli si fece incontro, muovendosi in
scioltezza sui tacchi alti attraverso l'aereo in movimento come fosse
nella tranquillità del proprio ufficio, con le curve
eleganti
fasciate da un essenziale tubino nero e i capelli raccolti in uno
chignon leggermente scomposto dal vento. Sulle spalle aveva su sua
insistenza una sua felpa, a proteggersi dalle raffiche gelide che si
insinuavano nel
velivolo. Tony s'impegnò il più possibile a non
assumere
un'espressione eccessivamente ebete, ma la sua presenza, unita al
misto di ansia, eccitazione e felicità che lo pervadeva, lo
stava
rendendo un compito molto difficile.
Recepì
in ritardo l'informazione appena riferitagli, che implicava il dover
affrettare i preparativi per essere pronto al decollo quando
avrebbero sorvolato di nuovo la zona di lancio. Doveva e voleva
indossare l'armatura non un minuto di più, né uno
di meno. Percepì
l'aereo virare, invertendo la rotta e dirigendosi di nuovo verso la
Expo. Indirizzò un rapido cenno d'assenso a Pepper, per poi
comprimere il
bastone da passeggio telescopico e assicurarlo a un apposito aggancio
sulla coscia dell'armatura, pronto ad essere recuperato una volta sul
palco. Voltò le spalle a Pepper per misurare la percentuale
di
palladio, riscontrandola ancora fissa a un non troppo positivo
45%. Ripose il congegno e tamponò il pollice con un
fazzoletto, rivolgendo poi un sorriso rassicurante a Pepper, che pur
non avendo aperto bocca si era accigliata nell'osservare
quell'operazione. Tony
si raddrizzò il papillon, lisciò le pieghe del
doppiopetto gessato
e si assicurò che la benda adesiva sull'occhio fosse ben
fissata.
Prese
un respiro profondo che gli punse i polmoni: era pronto.
Esitò
ancora un breve istante prima di posizionarsi sulla piccola pedana
circolare e inserire le punte delle scarpe laccate negli stivali
metallici. Oscillò appena nel compiere quel movimento un
tempo così
familiare, e recuperò l'equilibrio aggrappandosi alle
maniglie
sospese, cosa che spronò i bracci meccanici ad attivarsi,
cominciando a saldare e incastrare le placche metalliche sul suo
corpo.
Pepper
si fermò a qualche passo da lui, le braccia incrociate sotto
il seno
e un velo di malcelata preoccupazione calato sul volto mentre seguiva
le sue manovre. Tony le scoccò un'occhiata sicura di
sé, percependo
sempre meno l'aria gelida dell'hangar man mano che veniva ricoperto
dalla corazza e, di contro, registrando un chiaro e crescente
cardiopalma ad ogni pezzo dell'armatura che trovava la propria
collocazione. La placca frontale fu l'ultima ad aderire al suo corpo,
e trattenne bruscamente il fiato nel sentire la lieve vibrazione del
reattore propagarsi attraverso il rivestimento metallico, dando vita
alla sua seconda pelle in un coro di giunture e cuscinetti sibilanti.
Tentò
un cauto passetto, prendendo atto della pesantezza dei suoi movimenti
e del leggero ritardo di risposta delle protesi, ma quel piccolo
inconveniente fu scacciato dalla pura, immensa gioia che
provò
nell'indossare di nuovo quel pezzo di sé, avvolto
nell'abbraccio
metallico che gli era mancato come l'aria per più di un
anno. Solo
allora si ricordò di respirare, e si voltò verso
Pepper con lo
stesso, immutato sorriso che non aveva abbandonato il suo volto da
quella mattina. E nonostante la chiara inquietudine, una timida
risposta si
fece comunque strada sul volto della donna, che si avvicinò
a lui
con gli angoli delle labbra rivolti in modo esitante verso l'alto.
«Come
sta?» s'informò, in un tono neutrale e chiaramente
frutto di un
notevole sforzo di autocontrollo.
Tony
in tutta risposta scese dalla pedana, azzardando un paio di passi
rigidi, ma stabili, e trattenendo la tentazione di attivare i
propulsori e prendere a saltare e svolazzare qua e là come
un
bambino. Percepiva una pressione al centro del petto, ma non ritenne
opportuno renderglielo noto, e neanche soffermarvisi troppo lui
stesso. Adesso non poteva comunque tirarsi indietro.
«Quello
dovrebbe dirmelo lei,» rispose infine con un sogghigno,
allargando
con fare vanitoso le braccia e ruotando goffamente su se stesso per
darle una visione completa della nuova armatura.
Pepper
tentennò per un istante, un chiaro rimbecco pronto a uscire
dalla
sua bocca, ma finì per sorridergli apertamente.
«Sta
bene,» concluse, avvicinandosi a lui e chinando appena il
capo così
che la frangetta andasse a celare il suo sguardo.
«Lo
so. Anche se il suo non è un parere oggettivo,»
aggiunse con fare
malizioso, e lei si limitò ad alzare giocosamente gli occhi
al
cielo.
Tony
trattenne un risolino e recuperò il casco dell'armatura; lo
indossò,
lasciando però la piastra frontale sollevata e aggiustandosi
per
l'ennesima
volta la benda, reso impacciato dagli spessi guanti metallici. Vide
Pepper frenare un gesto, come per aiutarlo, e non seppe se esserle
grato o meno. Si sentiva molto più incline nel venire in
contatto
con lei, e poteva ritenere un miglioramento il fatto di non provare
più un forte disagio ogni volta che si sfioravano
volutamente o
meno, ma il viso era ancora una zona decisamente tabù. Era
terribilmente consapevole di quanto la cicatrice lo deturpasse, e si
sentiva contrarre le viscere al solo pensiero che lei la vedesse o
toccasse, quindi fu ben lieto di sistemare da solo quella misera
pezzetta nera che celava il suo sfregio.
«Un
minuto al lancio!» gracchiò in quel momento il
pilota
dall'altoparlante, facendo sobbalzare entrambi.
Tony
dovette sforzarsi di non precipitarsi di corsa al portellone, cosa
che anche senza l'impaccio dell'armatura sarebbe stata decisamente
rischiosa, e riuscì a portarsi con calma all'uscita senza
inciampare
nei suoi stessi piedi. Pepper lo tallonò prontamente e si
ritrovarono entrambi a fissare la metropoli sfavillante sotto di loro.
«Ci
siamo,» constatò lui con la bocca secca, per
rompere quel silenzio
fattosi d'un tratto insostenibile.
Intravide
Pepper annuire rigidamente accanto a lui, altrettanto tesa. Tony
avanzò di un passo lungo la pedana; il vento lo
investì in piena
faccia e, di nuovo, gli girò la testa. Il suo stomaco, il
suo cuore,
i suoi polmoni: sembrava che ogni singolo organo avesse fatto una
capriola di gioia al solo pensiero dell'imminente decollo,
anticipando le elettrizzanti vertigini che l'avrebbero avvolto da
lì
a poco.
«Trenta
secondi!»
Si
voltò verso Pepper, la cui espressione sembrava incapace di
stabilizzarsi e continuava a oscillare da un sorriso stentato a un
cipiglio corrucciato, e da un'aria determinata a una assolutamente
spaesata, mentre spostava incessantemente il peso da un tacco
all'altro e si rifugiava infreddolita nella sua felpa, stringendola
con troppa forza tra le dita. Tony percepiva la sua paura e allo
stesso tempo la volontà di non esternarla, e se da una parte
ciò lo
fece sentire in colpa, dall'altra non poté che ammirarla per
la sua
risolutezza.
«Ehi, cos'è quel muso lungo? È
uno dei giorni più belli della mia vita anche grazie a
lei,» riuscì a dire,
sfoggiando un sorriso spavaldo. «Andrà bene,
Pep,» aggiunse subito,
con con più serietà.
«Lo
so,» replicò lei, con un sospiro frettoloso e
agitato e un sorriso
sottile che le illuminò gli occhi, senza però
scacciarne del tutto le ombre
di paura.
Il
suo colorito già solitamente pallido era diventato quasi
spettrale: le lentiggini risaltavano più che mai sulle sue
guance
diafane.
«Venti
secondi!»
Tony
si accostò a lei, senza più idee su come
rassicurarla, se non
ostentare un atteggiamento impavido e del tutto sicuro di sé
–
cosa vera solo per metà, perché alla sua
esaltazione si mischiava
un ben percepibile e contorto filo di angoscia che sembrava annodato
direttamente al suo reattore, pronto a tendersi e ad estrarlo dal suo
corpo come il tappo di un lavandino. Era
del tutto cosciente che qualcosa poteva andare storto. Quel volo
poteva trasformarsi in uno schianto per colpa delle interferenze.
Poteva aver commesso un errore di calcolo e trovarsi a fronteggiare
un 80% di intossicazione irreversibile. Poteva arrivare sul palco ed
avere un infarto o semplicemente sfigurare di fronte a migliaia di
persone.
«Dieci
secondi!»
No,
le preoccupazioni di Pepper non erano affatto infondate, ma per quanto
avrebbe voluto essere rassicurato da lei, si sentì in dovere
di non
fomentarle. Così si stampò in faccia un
sorrisetto impertinente e
alzò appena un sopracciglio con fare malizioso, con
l'intento di
usare l'ultima tattica che gli era rimasta, ovvero la sua solita,
spudorata ironia:
«Su,
mi dia un bacetto d'incoraggiamento, o di questo passo
toccherà a
lei presentare l'Expo,» sparò con un ghigno
sfacciato, già pronto a lasciarsi cadere lestamente nel
vuoto per sfuggire alla sua reazione indignata.
Prevedibilmente, le guance della donna si incendiarono, virando sul
colore dei suoi capelli e
preannunciando il suo rimprovero scandalizzato.
Anche
se...
«Cinque!»
Il
sorriso di Tony scemò e lasciò il posto alla
confusione nel
rendersi conto che l'espressione di Pepper si era fatta fin troppo
seria, per una battuta intesa con leggerezza. Prima che potesse
rettificare, e prima ancora che avesse modo di capire ciò
che stava
accadendo, Pepper si sporse verso di lui, gli poggiò le mani
sulle
spalle e premette le labbra sulle sue, troncandogli le successive
parole in bocca.
Il
suo cervello si inceppò. Si sentì piombare in uno
stato di paralisi che gli
impedì di convertire quel sovraccarico di sensazioni in
stimoli di
senso compiuto; registrò appieno il calore delle sue labbra
solo quando
svanì, sostituito dalla brezza gelida. Si trovò a
sprofondare nei
suoi occhi chiari e ancora troppo vicini. Lo fissavano in modo
indecifrabile, mentre lui era ancora intento a ristabilire la
connessione tra pensieri e parole, soffocati entrambi dall'impellente
tentazione di cercare di nuovo quel contatto, di cui era rimasta solo
un'ombra tiepida.
«Tre!»
Si
riscosse appena nel realizzare di non avere tempo per fare nulla di
ciò che avrebbe voluto, se non slanciarsi fuori dall'aereo
secondo i
piani, verso un qualcosa di incerto e imprevedibile.
«Due!»
Non
aveva tempo, e magari anche lei aveva pensato di non averne,
perché
qualcosa poteva andare storto. Glielo lesse negli
occhi, nel
fuggevole guizzo di colpevolezza che attraversò le sue iridi
cerulee: quello poteva essere un addio.
Sentì
un vuoto gelido allargarsi nel suo petto, in contrasto con il magma
ribollente che gli scaldava lo stomaco in subbuglio e già in
preda
alle vertigini.
«Uno!»
Le
lanciò un'ultima occhiata combattuta prima di chiudere
l'elmo con un
secondo di ritardo, lasciando che la patina dorata celasse il suo
sguardo.
Poi si lasciò cadere nel cielo buio di New York.
***
Caduta
libera.
La
sua testa diventò una centrifuga di luci, New York una
cartina
notturna sotto di lui, sempre più grande e dettagliata man
mano che
piombava a propulsori spenti verso la Expo.
Il
suo corpo era rimasto da qualche parte sull'aereo, e gli sembrava che
un cordone invisibile si tendesse tra esso e la sua armatura, pronto
a farlo scattare di nuovo verso l'alto a un passo da terra. Stava
precipitando, e non sapeva dire se l'atterraggio sarebbe stato dolce
quanto quell'istante ormai cristallizzato nella sua memoria, ma dotato
di più di uno spigolo acuminato che si incuneava nel suo
cervello.
Boccheggiò
sorpreso quando si rese conto di aver deviato troppo dal percorso
stabilito, complice il secondo di ritardo nel decollo.
Impattò con uno dei razzi pirotecnici sparati dalla
Expo, che si aprì in un ventaglio di accecanti scintille
dorate
attorno a lui. Fu poco più doloroso di una leggera testata e
percepì
a malapena l'esplosione oltre la solida corazza in oro e titanio, ma
fu abbastanza per far sobbalzare il reattore, inviargli una
stilettata ai moncherini e riportarlo di schianto alla
realtà.
Aveva
una Expo da presentare. Avrebbe pensato dopo al resto, alle labbra
morbide di Pepper e al brivido che l'aveva scosso da capo a piedi
mozzandogli il fiato...
Spiegò
bruscamente i flap posteriori, seguendo l'avviso sull'interfaccia
azzurrina; frenò la propria discesa e corresse la
rotta, per poi attivare i propulsori con dieci secondi d'anticipo
rispetto ai suoi calcoli. Imprecò tra sé, ma si
godette la
sensazione di velocità che soppiantò la marea di
confusione ed
emozioni che si era impossessata in lui. Diede ancora potenza,
lanciando un'esclamazione esilarata nel sentirsi leggero come una
corrente d'aria, di nuovo in possesso del proprio corpo e totalmente
inebriato da ciò che più amava fare al mondo.
Avrebbe voluto
prolungare quell'attimo, puntare verso l'orizzonte e volare per ore
sfiorando le onde dell'Atlantico, ma nel vedere la Expo illuminata
sotto di lui e la folla accalcata nel padiglione, sentì
comunque un
largo sorriso aprirsi sul suo volto. Si diresse a testa bassa verso
l'arena scoperta sempre più vicina, assaporando quegli
ultimi
istanti
di libertà. Oltre il rombo e il fischio del vento distinse
le note
inconfondibili di Shoot To Thrill, e si concesse una
virata
leggermente più ampia del dovuto, che lasciò una
spettacolare
scia di fiamme dietro di sé, dando l'impressione che una
freccia
infuocata attraversasse il cielo.
Il
propulsore posteriore destro singhiozzò proprio mentre
iniziava a
modificare la parabola per l'atterraggio, facendolo sbandare e
interrompendo la manovra; anche senza il supporto delle schermate di
JARVIS, capì che non sarebbe mai riuscito ad atterrare
elegantemente
in piedi come aveva pianificato. A volte odiava dover
improvvisare.
Il
palco si avvicinava, con l'area circolare designata per l'atterraggio
evidenziata da neon lampeggianti, contro i quali stava per
schiantarsi di testa. Improvvisò: s'impennò
bruscamente a pochi metri
dal palco
e spense di colpo i propulsori, lasciandosi cadere di peso nel cerchio
luminoso. Atterrò
su un ginocchio in un clangore di metallo e attenuò
l'impatto col
pugno, camuffando il gesto come una posa ostentatamente plastica.
Espirò
un'unica volta, rapidamente, con la palpebra socchiusa nell'ombra
azzurrina del casco. Il mondo festante e pronto ad accoglierlo era un
ronzio ovattato oltre la calotta metallica, e solo l'eco del proprio
respiro gli assordò le orecchie.
Un
istante, un respiro secco, un singolo attimo di silenzio in cui tutto
ciò che percepì furono il suo cuore che
martellava contro la
corazza e il peso rassicurante dell'armatura sulle spalle, con lui
congelato in quel momento di stasi.
Una parte di lui stava
continuando a cadere. Ma lui era lì, su quel palco, sotto
gli occhi
di chi l'aveva aspettato per un anno.
Inspirò
nel buio.
Poi
si rialzò con sicurezza in un unico, fluido movimento, e
sollevò le
braccia, mentre dietro di sé sprizzavano dozzine di fontane
dorate, con
la musica irruente degli AC/DC che riprendeva a dettare il ritmo del
suo
cuore. Il suo sguardo abbracciò tutto ciò che
aveva davanti, dalla
marea di gente in visibilio accalcata sotto al palco ai fuochi
d'artificio multicolore che esplodevano nel cielo stellato, dalle
sfarzose
luminarie che addobbavano gli alberi del parco ai neon pulsanti del
padiglione inondato di lustrini e coriandoli rosso-oro. Il suo petto
si gonfiò d'orgoglio, scacciando il senso d'occlusione e
l'immagine
del reticolo plumbeo.
In
quel momento esisteva solo lui: Tony Stark, Iron Man, in piedi per la
sua Expo.
Non
ebbe alcun bisogno di imbastire il ghigno compiaciuto ed esaltato che
rivelò al pubblico non appena i bracci meccanici emersi
dalla pedana rimossero l'armatura. Libero
dal metallo, recuperò il bastone da passeggio e lo
aprì con
naturalezza, facendo qualche passo svogliato per portarsi al bordo
del palco. Per un solo momento fu drasticamente cosciente di ogni
singolo sguardo appuntato su di lui, o meglio, sulla sua mano
meccanica, sul bastone e sulla benda che celava il suo sfregio, ma
gli applausi e il clamore non cessarono e, anzi, aumentarono
d'intensità fin quasi a coprire la musica. Alzò
in bella vista la
protesi in un cenno di saluto al pubblico mentre l'assolo di chitarra
elettrica cresceva d'intensità, e abbassò di
scatto
la mano proprio
quando l'ultimo accordo segnò la fine della canzone, in un
gesto
frivolo e puramente scenografico che ampliò il suo sorriso.
Accennò
un mezzo inchino, accompagnandolo con uno svolazzo del bastone, e
attivò il microfono appuntato sul bavero, sentendosi di
nuovo saldo
sulle sue gambe e perfettamente a suo agio nel suo ambiente naturale,
ovvero al centro di un palco e al centro dell'attenzione, con le
vertigini dello spericolato volo appena concluso che gli facevano
tremare piacevolmente le gambe.
«Ah,
è bello essere di nuovo qui!» esordì
con rara sincerità, e il
pubblicò si quietò appena nell'udire la sua voce
stentorea, che
rimbombò nell'arena illuminata dallo sfarfallio dei flash e
dai
proiettori. «Vi sono mancato,» affermò
poi in tono ovvio, e una
sostenuta ovazione di risposta corroborò le sue parole.
Ciò
suscitò un ampio sogghigno sul suo volto, impostatosi di
nuovo sulla
sua classica faccia da schiaffi degna del genio, miliardario e
playboy che tutti ricordavano. Si ricompose un poco, unendo a
quell'espressione così conosciuta il gesto di picchiettare
svagatamente per terra col bastone, per lui ormai abituale, ma
estraneo al resto del mondo. Colse più di uno spettatore
indicarlo
apertamente, e concentrò ogni fibra di sé nel non
allungare la mano
a toccarsi la benda, che percepiva essersi scollata appena dalla sua
pelle.
«Anche
voi mi siete mancati,» continuò poi, con una
disinvoltura che
celava una vena di serietà. «Mi sono mancate un
sacco di cose,
incluso poter passeggiare su un palco, indossare l'armatura ed essere
acclamato. Siete assolutamente autorizzati a compensare quest'ultima
mancanza,» li invitò con un gesto rivolto a
sé, scatenando un clamore assordante che coprì
le sue ultime parole.
Sogghignò,
appagato di quella reazione: la maggior parte delle volte, amava
improvvisare. Ristabilì poi
l'ordine con un pacato gesto delle mani, prendendo di nuovo la
parola.
«Le
voci sulla mia presunta morte sono state enormemente
esagerate,»
asserì con
un'alzata di spalle. «Come vedete, non sono morto, non sono
infermo
e non sono impazzito, come molti dei miei detrattori hanno
simpaticamente sostenuto in questo mio periodo di assenza,»
continuò
con una punta di durezza, che sperò andasse a trafiggere
quella
schiera di giornalisti che aveva fatto del diffamarlo il suo nuovo
hobby.
«Ma
non sono qui per parlare di chi non ha creduto che potessi tornare.
Se proprio dovessi parlare di qualcuno, sarebbe di chi invece ha
creduto in me, ha sostenuto le mie idee e mi ha permesso di essere
qui oggi,» continuò, con voce ferma.
Se
non l'avesse piantata d'improvvisare, quel groppo in gola avrebbe
finito per strozzarlo, si rimproverò mentalmente; ma il
pensiero che
Pepper, Ian e Kyle potessero sentire quelle parole era stato
più
forte del suo buonsenso. Quello era rimasto sull'aereo ad annegare in
una pozza di endorfine, e dubitava di
poterlo recuperare in tempi brevi.
«Non
sono qui neanche per raccontarvi come dalle ceneri di una barbara
prigionia e di un tradimento non si sia mai personificata metafora
più grande della Fenice nella storia dell'uomo!»
A
quel punto fece un altro mezzo inchino, godendosi ancora una volta
l'applauso scrosciante che gli si riversò addosso, facendo
aumentare
i suoi battiti.
«Non
sono qui per dire di aver ideato, sviluppato e testato completamente
da solo una tecnologia ritenuta impensabile per almeno altri dieci
anni, nonostante tutti gli ostacoli che mi si sono parati davanti, e
che ho intenzione di renderla accessibile e fruibile a
tutti!» nel
pronunciare tutto ciò, tirò leggermente su la
manica del completo,
scoprendo una porzione della protesi e agitando le dita per mostrarne
il perfetto funzionamento, almeno ai loro occhi, e fu accolto da
un'altra ovazione che stemperò il suo timore per quel gesto
ardito.
«E
non sono qui per dirvi che Iron Man è tornato, e il mondo
potrà
quindi riprendere a vivere il suo più lungo periodo di pace
ininterrotta!» continuò ancora, sperando che il
sottotono di amaro
rammarico di quella frase fosse percepibile solo a lui.
Inspirò
a fondo e sentì il reattore premere al centro della sua
gabbia
toracica, onnipresente. Ignorò la sensazione, riprendendo a
parlare
con nuovo vigore, spronato dalle acclamazioni che stava ricevendo e
che soffocò schermendosi di nuovo con le mani e
incrociandole poi dietro la
schiena:
«Vi
prego, non si tratta di me,» annunciò.
«Non si tratta di voi, e
nemmeno di noi.»
Il
pubblico si fece d'un tratto più silenzioso, colpito dalla
sua
improvvisa serietà e compostezza.
«Si
tratta del retaggio.»
Quella parola pesò sulla sua
lingua e sembrò
sprofondare nell'aria tiepida di fine aprile come una corrente
gelida.
«Si tratta di quel che vogliamo lasciare alle
generazioni
future,» affermò, e dovette domare l'istinto di
portare una mano al
reattore, le protesi fattesi improvvisamente più pesanti.
Il
suo sguardo sorvolò il pubblico, andando ad appuntarsi
sull'Unisfera
illuminata di una luce azzurrina. Un'ombra della Città del
Futuro di
suo padre gli offuscò la vista. Quello che stava per
lasciarsi
dietro sarebbe stato abbastanza? Oppure si stava lasciando dietro
troppo? Si
umettò le labbra, ancora lambite da un calore che non
accennava a
dissiparsi, e riprese a parlare prima che quella pausa prolungata
destasse sospetti.
«Ed
è per questo che per il prossimo anno, per la prima volta
dal 1974,
gli uomini e le donne più in gamba di società e
nazioni di tutto il
mondo metteranno insieme le loro risorse, e condivideranno la loro
visione per gettare le basi di un futuro più
roseo,» spiegò con
ritrovata sicurezza, scandendo le proprie parole con ampi gesti.
«Perciò, non si tratta di noi,» concluse
con ovvietà.
Si
fermò esattamente al centro del palco, poggiandosi al
bastone e
scrutando con intensità il suo pubblico.
«Se
c'è una cosa che voglio dire, se proprio devo dire
qualcosa...»
allargò le braccia, includendo con quel gesto tutti i suoi
spettatori e l'intera fiera, «È
“bentornati alla Stark Expo!”»
esclamò a piena voce, con un sorriso caloroso e trionfante.
Una
cascata di lustrini eruttò dalle fontane pirotecniche alle
sue
spalle, e una nuova serie di fuochi d'artificio rosso-oro
illuminò a
giorno il cielo di New York.
Tony
allargò le braccia e lasciò che quella pioggia
dorata lo
investisse, calando il sipario su di lui.
***
24
Aprile, Manhattan, 22:00
L'ago
affondò con facilità nel suo deltoide,
strappandogli una smorfia
infastidita quando una sensazione di gelo gli avvolse il muscolo.
Distolse
lo sguardo dallo stantuffo della siringa per puntarlo sul volto
corrucciato di Ian, impegnato a manovrarla con accortezza. Dopo pochi
secondi, sfilò l'ago con un gesto delicato ma fermo,
premendogli
subito una garza sul foro d'ingresso e facendogli cenno di mantenere
la pressione. Tony eseguì con cautela, sforzandosi di dosare
la
forza delle dita metalliche sul quadratino di stoffa e fissando con
sguardo vacuo il puntino rosso che lo aveva macchiato.
Erano
in silenzio da interi minuti, entrambi presi dalla tensione per
motivi diversi, ma congrui ai loro opposti ruoli di medico e paziente.
Oltre la porta della sua camera anche Pepper era in tensione, ne era
certo, ma non si pentiva della scelta di averle risparmiato le sue
procedure mediche ignorando le sue proteste. Non
erano ancora rimasti faccia a faccia da quando l'aveva lasciata
sull'aereo, e non era certo quello il momento giusto.
Non che dopo
l'inaugurazione avesse avuto alcuna intenzione di affrontare
l'argomento in sospeso – se poteva definirsi tale –
ma il 67% di
palladio nel sangue era stato un altro ottimo motivo per ritardare
quel confronto. Già
nel lasciare il palco aveva avuto un forte capogiro; nel leggere la
cifra sul rilevatore aveva sentito il sangue defluire a cascata dal
suo volto, lasciandolo ghiacciato e pallido. I sintomi sino ad allora
tenuti a bada dall'adrenalina e dall'esaltazione del momento appena
trascorso gli si
erano rovesciati addosso in un colpo solo, minacciando di farlo
svenire dietro le quinte della Expo che aveva appena presentato.
Happy
l'aveva prontamente riacciuffato per la collottola e accompagnato per
vie traverse all'auto, schivando la maggior parte delle forche
caudine di giornalisti e fan in delirio appena oltre la porta
principale. Tony non gli era mai stato così grato come
mentre veniva
passivamente sballottato qua e là per corridoi secondari e
vialetti
non illuminati, nonostante le serie difficoltà a mettere a
fuoco
cosa stesse accadendo attorno a lui oltre il rombo tonante che aveva
preso
a scuotergli i timpani.
Oltre il velo d'intontimento, aveva accolto i
morbidi sedili in pelle della Rolls Royce come un paradiso terrestre.
L'impressione
di beatitudine si era prima accentuata e poi incrinata nel realizzare
che Pepper era seduta accanto a lui su quegli stessi sedili, e che la
situazione poteva quindi molto rapidamente tramutarsi nel suo inferno
privato. Fortunatamente – oppure no – si sentiva
troppo male
anche solo per pensare di intavolare una discussione coerente,
così
aveva passato la mezz'ora di macchina che separava Flushing Meadows
dal suo attico a Manhattan in silenzio, con il volto spalmato sul
finestrino e
consapevole, tra un sobbalzo dell'auto e l'altro, degli occhi
angosciati della donna che gli trafiggevano la schiena.
Era
stato intercettato da Ian non appena aveva messo piede sul
pianerottolo dell' appartamento a Park Avenue. Si era lasciato
trascinare in camera sua quasi di peso da lui
e Happy prima di crollare seduto sul letto, a malapena
consapevole del medico che si affaccendava attorno a lui borbottando
tra i denti qualcosa riguardo alla sua incoscienza e sconsideratezza
– il solito
disco rotto che conosceva a memoria, indegno di alcuna attenzione da
parte sua. Era
stato piuttosto occupato a rimanere vigile e a non farsi sopraffare
dal magma di sensazioni, fisiche e non, che aveva preso a sconquassare
la sua mente. Il
senso d'occlusione che gli stritolava i polmoni gli aveva ricordato
il momento terrorizzante in cui si era tolto il reattore– e
l'incubo in cui affondava e annegava– e il barile in cui gli
ficcavano la testa nella grotta...
Gli era mancato il fiato quasi fosse
davvero sott'acqua.
Aveva
presagito in tempo l'approssimarsi di un attacco di panico ed era
riuscito a gestirlo abbastanza bene da non collassare ai piedi di
Ian. Non era sicuro che quello stato di calma indotta a forza avrebbe
retto sino alla fine della sua visita, ma concentrarsi sul mantenere
stabile il proprio respiro affaticato e contare all'indietro
erano ottimi modi per ignorare
i pensieri imbizzarriti che crepitavano in sottofondo. Al
momento si sentiva decisamente più padrone di sé,
ed era intento a
captare qualsiasi segnale anomalo proveniente dal suo corpo stremato.
Strizzò il pugno sano un paio di volte, avvertendo un
leggero
intorpidimento al braccio, come se dell'acqua gelata avesse preso a
scorrergli nelle vene.
Ian
si era seduto a gambe accavallate sulla poltroncina nell'angolo,
tenendolo sotto stretta osservazione mentre annotava dati e valori
sulla sua voluminosa cartella clinica.
«Novità?»
chiese dopo una buona decina di minuti in tono inusualmente sommesso,
posandosi infine penna e scartoffie in grembo.
Tony
si inumidì le labbra, senza distogliere lo sguardo dalla
garza che
teneva premuta contro il braccio. Riusciva a respirare, ma si sentiva
ancora un macigno sul petto e si stava sforzando di reprimere i lievi
brividi che gli scuotevano le spalle; la nausea subì
un'impennata
tale che ebbe timore di parlare e si prese qualche secondo per
assicurarsi che dalla sua bocca uscissero unicamente le proprie
parole.
«Non
mi sono ancora liquefatto,» asserì, con un'ombra
d'ironia un po'
incerta che non si manifestò sul suo volto contratto.
«Riscontra
effetti spiacevoli?»
«Sì,
ma non so se è il palladio o l'anti-palladio... la mia
solita
fortuna,» sospirò appena, con un sorrisetto
più simile a una
smorfia, procedendo poi a recuperare il rilevatore dalla tasca.
Lanciò
uno sguardo a Ian, che annuì in risposta, in evidente
tensione. Tony
premette il pollice sull'ago con più forza del necessario,
impedendosi di esitare ancora e strizzando l'occhio per la puntura.
«64%»
esalò in un respiro, senza nascondere il sollievo che gli
stava
sciogliendo i muscoli; adocchiò Ian che si abbandonava allo
schienale, rilassandosi a sua volta.
«È
in diminuzione. Bene,» commentò il medico, per poi
alzarsi e
farglisi incontro corrucciato. «Cioè, non
è esattamente “bene”,
ma...»
«Potrebbe
essere peggio,» completò Tony, senza risentirsi e
col pollice
ancora posato sul rilevatore, che tremava leggermente tra le sue mani
malferme.
Ian
prese un breve respiro nel fermarsi davanti a lui, tirando con fare
indeciso i lembi della giacca e sistemandosi gli occhiali sulla punta
del naso.
«So
che non cambierà nulla, Doc,» lo
anticipò piattamente, vedendolo
aprir bocca per parlare.
L'altro
non rispose, ma si adombrò ulteriormente. Gli tolse con
gentilezza
il rilevatore dalle mani, ripulendogli poi la piccola ferita sul
polpastrello con una garza e applicandovi un cerotto. Tony lo
lasciò fare, di nuovo
assente e sempre più intorpidito. Guardò il
piccolo congegno
poggiato sul materasso, con le cifre rosse e luminose che sembravano
imprimersi sulla sua retina.
Non
sarebbe cambiato nulla, si ripeté meccanicamente.
L'intossicazione
sarebbe scesa ancora di qualche tacca, magari anche sotto al 60%, con
un
po' di fortuna e un'indigestione di clorofilla. Poi avrebbe ripreso a
salire inesorabile, fino a far fermare il suo cuore.
Le
parole che aveva pronunciato Ian qualche tempo prima risuonarono
nelle sue orecchie, inconfutabili: il dilitio non era una
soluzione.
Avvertì
delle lievi vertigini, di fatto solo l'ennesimo capogiro, ma si
sentì
catapultato ancora una volta in caduta libera e poi su quell'aereo.
Per un singolo istante si trovò a desiderare che quello con
Pepper
fosse stato davvero un addio. Lle vertigini si
trasformarono
in una stretta ferrea che quasi gli mozzò il fiato. Era
stato uno
sprazzo fugace, più un tentativo di pensiero destinato a
spegnersi
prima di essere completato che una considerazione fatta e finita, ma
bastò a risvegliare quella vergogna rimasta sopita per quasi
un
anno. Non poteva concedersi quelle debolezze meschine, neanche nella
propria testa.
Strinse
il quadratino di garza nel pugno metallico, facendo stridere appena
le giunture.
«Doc?»
chiamò piano, in un tono molto meno vivace di quanto avrebbe
voluto.
Sentiva
di non avere neanche più la forza di mostrarsi sicuro di
sé e
indifferente a quel che stava accadendo; almeno, non costantemente. E
adesso che l'inaugurazione era passata e l'aura dorata che gli aveva
lasciato addosso iniziava a sbiadire, sentiva la sua facciata
sgretolarsi ad ogni battito.
«Qual
è la sua prognosi?» chiese, incapace di esprimere
quella domanda in
termini più diretti, quasi che farlo la potesse rendere
ancor più
reale.
«Quattro
o cinque mesi,» rispose il medico in modo altrettanto
sommesso,
continuando a riordinare i suoi strumenti nella ventiquattr'ore.
Tony
alzò la testa verso di lui, un po' sorpreso, e il medico
intercettò il suo sguardo.
«È
una previsione ottimistica,» confessò, di nuovo a
occhi bassi.
«Non
è da lei essere ottimista, mi sento quasi
onorato,» commentò con
un sorrisetto obliquo, ben presto soppiantato da una linea tesa.
«E
se le chiedessi di essere realista?»
Ian
scosse la testa un paio di volte, chiaramente riluttante, per poi
liberare un sospiro e rispondere col consueto distacco:
«Tre
mesi.»
Tony
incassò il colpo in silenzio, rivolgendo al medico un unico
cenno
d'assenso, quasi a suggellare il modo definitivo quel fatto.
Tre
mesi. Lo sapeva, non era una novità. Quelle due parole si
depositarono alla base della sua nuca, appesantendogli la testa con
un monito funesto che parve imprimersi a fondo nel suo cervello.
«Ne
vuole parlare?» la voce di Ian arrivò inaspettata,
riscuotendolo.
«Di
cosa?» replicò, sinceramente confuso.
«Di
ciò che vuole,» Ian fece un gesto vago con la mano
che esplicitò
anche il suo insolito disagio. «Non necessariamente con
me,»
puntualizzò poi, prendendo a pulirsi gli occhiali in modo
così
forzatamente disinvolto da risultare quasi caricaturale.
Tony
capì l'antifona e lo scrutò assorto per qualche
istante, assurdamente convinto che il
medico lo stesse prendendo in giro in qualche modo che non riusciva a
comprendere, complice il proprio stato non del tutto lucido. Come unica
linea di difesa trovò quella di arroccarsi sui consumati
bastioni
del proprio sarcasmo, sperando che il medico desistesse o scoprisse
le sue carte:
«Ammetto
che è estremamente gradito sentirsi chiedere
se si vuole
uno strizzacervelli invece di ritrovarsene uno in salotto senza
preavviso, ma mi sembra un tantino...» esitò, poi
allargò le mani
con fare spaesato. «Fuori tempo?»
abbandonò i gomiti sulle
ginocchia, con le mani ora strette tra loro a cercare un appiglio
solido.
Aveva
l'impressione che quell'intera giornata fosse un inno al pessimo
tempismo.
«Signor
Stark, non voglio forzarla,» si ritrasse quindi Ian,
inforcando di
nuovo gli occhiali. «Era un'offerta amichevole, ma se non
vuole
accettarla me ne farò una ragione,» concluse,
modulando le sue
parole con insolito tatto.
Tony
si strofinò con aria assente il pizzetto, chiedendosi se
stesse
davvero rifiutando. Aveva ancora molte difficoltà a
riconoscere una
mano amica quando la vedeva, eppure non era difficile capire che Ian
fosse preoccupato per lui al di là del suo ruolo
professionale.
«Semplicemente, non credo avrebbe molto senso a questo
punto,» alzò le
spalle, senza turbarsi più di tanto. «Ho modi
più costruttivi per
passare il tempo che mi rimane, piuttosto che starmene in panciolle
su un lettino a parlare di cose a cui non voglio nemmeno
pensare,»
concluse, tradendosi suo malgrado con quell'ultima esternazione.
Sperò
che Ian non gliela ritorcesse contro, ma per fortuna accolse in
silenzio il suo rifiuto. Si chiese involontariamente se fosse
già troppo
tardi per tornare sui propri passi, ma mise a tacere
quell'interrogativo.
«Non posso obbligarla. Però
mi deve promettere una cosa,» esordì di nuovo il
medico, e Tony si
mise d'istinto sulla difensiva:
«Uh,
non so se gliel'hanno mai detto, ma il campo delle promesse non
è
mai stato il mio forte e ho svariati testimoni a
confermarlo,»
replicò con fare disincantato.
«Vorrei
che provasse lo stesso a mantenere questa,» insistette Ian,
con più
fermezza del solito.
«Spari,
Doc,» sospirò, incrociando rassegnato le braccia
ma anche
incuriosito da tutta quella serietà.
E preoccupato, e
intimorito,
perché ormai aveva la sensazione che ovunque si voltasse
spuntassero
nuove minacce e problemi nonostante tutti i suoi sforzi per evitarli e
condurre pacificamente la propria vita.
«Quando
starà bene...» Ian alzò una mano a
frenare quel “se” che gli
era salito in automatico alle labbra, quella particella di dubbio che
metteva tutto in discussione e poteva ribaltare la sua stessa sorte.
«Non voglio parlare per ipotesi, ma per certezze. Me lo
concede?»
Tony
rimase interdetto per qualche istante, poi annuì, decidendo
di
lasciar correre e di accettare quell'incredibile dose di ottimismo da
parte del medico più scettico, cinico e realista della Terra.
«Quando
starà bene, mi promette che si rivolgerà a un
professionista?»
Tony
non trattenne un sonoro sbuffo, irritandosi lievemente.
«Ci
tiene così tanto a farmi psicanalizzare?»
«Vorrei
semplicemente che andasse in terapia, prima o poi,»
riformulò lui.
«Pensavo
che titoli del tipo “Tony Stark il Futurista Folle”
fossero
passati di moda da un pezzo, e non pensavo lei fosse un loro
fan,»
scandì caustico, sentendo la propria fronte aggrottarsi al
pensiero.
«Non
sto dicendo questo, e lo sa perfettamente,»
replicò rigido Ian, perdendo
un poco del suo aplomb.
Tony
si stropicciò l'occhio stanco, trattenendo un'altra risposta
impulsiva e indelicata.
«Doc, andare in terapia non è in cima
alla “lista di cose che farò
quando starò bene”,» sospirò
comunque, sperando che la questione
finisse lì. «E mi creda, il mio problema
principale è qui,»
batté le nocche sul reattore, «Non qui,»
concluse, portando
l'indice alla tempia con fare esplicativo.
«Tony.»
Lui
quasi boccheggiò nel sentirsi chiamare per nome, e
squadrò Ian come
se gli fosse improvvisamente spuntata una seconda testa.
«Lo
sto dicendo nel suo interesse. Se non vuole farlo per lei stesso, lo
faccia almeno per chi le sta intorno,» continuò il
medico, una
volta accertatosi di avere la sua completa attenzione.
«Non
credo che cambierebbe...»
«Cambia
tutto,» lo interruppe Ian, con fare perentorio.
«È più
intelligente di così. Si è sicuramente meritato
il titolo di "Iron
Man" per dei motivi che esulano da quanto metallo abbia
addosso,» continuò con voce ferma e priva di
qualunque esitazione.
Tony
abbassò lo sguardo, preso alla sprovvista da quel
riconoscimento
inaspettato, che gli fece dimenticare per un istante il fatto che
fosse in procinto di perdere per sempre quel titolo.
«...
ma per quanto possa sempre farcela da solo, non credo che voglia
anche rimanerlo,» terminò, lanciandogli un'unica
occhiata eloquente
per poi distogliere lo sguardo, quasi a lasciargli il suo spazio
mentre rifletteva su quell'affermazione.
Tony
tacque brevemente, prendendo atto delle rughe profonde che si erano
accentuate attorno agli occhi del medico, e di quanto questi
sembrassero
inquieti, nonostante si mantenessero cristallini come sempre.
«Parla
per sentito dire, per luoghi comuni o per esperienza
personale?»
indagò infine, scrutandolo di sottecchi.
Il
medico affondò le mani nelle tasche della giacca e
ricambiò
distaccato il suo sguardo, lasciandosi però sfuggire un
sospiro
appena percettibile.
«Ha
importanza?» borbottò, riprendendo il suo consueto
atteggiamento
burbero.
«Suppongo
di no e suppongo che la sua sia in un certo senso una risposta
esaustiva,» considerò Tony, frenando a stento la
sua curiosità.
«Quindi pensa che... parlarne, qualunque
cosa voglia dire,
possa farmi bene anche ora?» cambiò argomento, con
evidente
sollievo del medico.
Avrebbe
voluto porla come una domanda sincera e interessata, ma finì
per
suonare involontariamente sarcastico.
«Penso
che possa aiutarla ad affrontare il tutto,» non si
sbilanciò lui,
ma una scintilla illuminò il suo volto a quella domanda.
«Non
mi ritiene in grado? Che novità.»
Il fastidio che aveva represso fino ad allora trapelò
inequivocabile
dalla sua voce.
«Conosce
qualcuno che lo è?» rimpallò Ian, senza
scomporsi.
Tony
raddrizzò la schiena con un movimento brusco, quasi a
sfuggire
dall'angolo in cui si sentiva spinto ad ogni parola, di nuovo senza
via d'uscita.
«Doc,
so quello che sto facendo...»
ripeté per la centesima volta
nella sua vita, ma s'interruppe, quasi sussultando.
Il
suo sguardo si fece distante, perso sul panorama notturno di New York
oltre la vetrata della sua stanza.
«E
non lo so,» aggiunse, volgendo entrambi i
palmi verso l'alto
in un gesto confuso.
La
sua mente tornò all'inaugurazione, all'aereo, a Pepper, e si
sentì
spalancare il petto. Si prese la mano meccanica, seguendo la
scanalatura del palmo col pollice sensibile. Continuò a
ripetere
quel gesto, quasi si aspettasse di trovare una risposta nel metallo.
«Non
lo so,» ripeté, sentendosi sconfitto e vulnerabile
di fronte agli
occhi penetranti di Ian.
La
percezione del proprio corpo si acuì, come tutte le volte in
cui si
soffermava sugli sguardi altrui che vi si posavano; volse verso il
medico la parte intatta del volto e coprì la mano meccanica
con
quella sana, prendendo un respiro profondo che non attenuò
la sua
vergogna.
«Non
c'è nulla di male ad accettare un aiuto, ormai dovrebbe
averlo capito,» buttò lì Ian, in tono
perfettamente neutrale ma con un'ombra di rassegnazione annidata nel
suo volto.
Tony
si mordicchiò nervosamente le labbra, provando un insensato
bisogno
di dire tutto ciò che gli passava per la testa. Le sue
parole si
arrestarono a un passo dalle sue corde vocali, rimanendo mute.
Continuò
a sfregarsi il palmo metallico, concentrandosi su quella sensazione
concreta che faceva da àncora nella realtà.
Sarebbe
stato così semplice parlare, liberarsi da quei pesi che
aveva scelto
di tenere per sé e per sé soltanto. Aveva giurato
di non mentire
mai più a Pepper, ma non riusciva comunque a spingere i suoi
pensieri più cupi oltre quel freno che si imponeva. Non
riusciva a
dirle che erano mesi che evitava di guardarsi allo specchio,
né che
le uniche volte in cui ci riusciva era nei suoi sogni, che si
tramutavano ben presto in incubi. Non riusciva a dirle che a volte,
nella solitudine del suo laboratorio, si toglieva entrambe le protesi
per ricordarsi quale fosse il suo vero corpo e scacciare la
sensazione di essere stato fagocitato dalle sue stesse macchine
– e
allora lo sguardo gli cadeva inevitabilmente sul reattore, l'unico
vincolo artificiale che lo ancorava alla vita e che era ormai sul punto
di recidersi.
Non
riusciva neanche a rispondere in modo del tutto veritiero alla banale
domanda "come stai?"
"Come
sempre", "meglio del solito", "peggio del
solito”. Ma mai "male".
Si
svegliava la mattina con la sensazione che qualcosa gli stritolasse
il petto e i polmoni, coi moncherini in fiamme e la testa che
sembrava essere passata per un frullatore tanto gli doleva e girava,
ma nessuno di quei sintomi raggiungeva la consapevolezza di Pepper
tramite la sua voce. Lei forse – sicuramente – li
intuiva dal suo
respiro sempre più affaticato, dai suoi movimenti un po'
instabili e
traballanti, dai momenti in cui serrava brevemente l'occhio a una
fitta più acuta, dal suo sforzarsi di mangiare
più di qualche
boccone dal suo piatto quando la nausea gli chiudeva lo stomaco o dal
numero di volte in cui si chiudeva in bagno subito dopo, assalito dai
conati.
Fermò
il pollice al centro del palmo metallico, rievocando il calore
illusorio di
quando Pepper lo aveva stretto molto tempo prima, conscio che non
avrebbe mai potuto sentirlo davvero. Sentì il suo abbraccio
cingerlo
come in quella stessa sera di gennaio, e allora era stato
così
facile ricambiarlo e lasciarsi cadere a pezzi, nella sicurezza che
lei li avrebbe raccolti. E poi era stato facile pronunciare parole
vuote che strattonavano inutilmente le catene che lo inchiodavano a
terra, a ricordargli che poteva decollare tutte le volte che voleva,
ma il suo corpo sarebbe sempre rimasto laggiù, stritolato
dal
metallo e
troppo pesante per spiccare il volo.
Di
nuovo l'inaugurazione, l'aereo, Pepper.
Avrebbe
voluto strapparsi quel brandello di memoria che mandava in tilt ogni
suo senso, con lo stomaco che galleggiava in una piacevole bolla
d'estasi mentre il reticolo sul suo petto si stringeva e stringeva
ancora, acuendo ogni stilettata di dolore. E allo stesso tempo
avrebbe voluto perdercisi, fingere che quel singolo istante potesse
annullare tutto il resto, dimenticandosi che quella non era una
fiaba, ma la vita reale – e nella vita reale stava morendo in
un
corpo non suo.
Sollevò
lo sguardo verso Ian.
«Pepper
si starà preoccupando,» replicò, con
voce fioca.
Il
medico trattenne un lieve sospiro, ma annuì senza
commentare. Non
sembrava risentito, forse solo un po' deluso.
«Allora
sarà meglio rassicurarla,» concluse con un'alzata
di spalle.
L'inaugurazione,
l'aereo, Pepper. Le sue labbra, il calore delle sue mani bloccato dal
metallo.
Un
flipper impazzito che rimbalzava nella sua testa.
Tilt.
Game over.
«In
settimana ha un paio d'ore libere?» proruppe, prima che Ian
potesse
raggiungere la porta.
Il
medico si voltò a guardarlo, sorpreso e momentaneamente
senza
parole.
«Insomma,
certo che potrebbe avere un paio d'ore libere; mi
chiedevo
solo se volesse averle per...»
rettificò Tony, già
pentendosi di aver parlato, ma si interruppe nel vedere il sorriso
rassicurante che si dipinse sul volto di Ian.
«Sono
sicuro che saprò convincere il mio datore di lavoro a
concedermele.»
Tony
sfoderò un debole ghigno in risposta.
«Credo
proprio di sì. Ultimamente, ha imparato a non fare troppe
stronzate.»
***
24
Aprile, Manhattan, 23:00
«Ma
chi ha inventato questi aggeggi infernali?»
«Vuole
una forchetta?»
«Neanche
per sogno,» ribatté Tony, continuando ad
armeggiare vivacemente con
le bacchette e i noodles cinesi, neanche fosse nel pieno di una
partita di shangai.
Pepper
si limitò a lanciargli un'occhiata a metà tra
l'esasperato e il
rassegnato, con un pizzico di divertimento un po' colpevole nel
vedere la sua biotecnologia sconfitta da un paio di bastoncini di
legno.
«Può
ridere, sa? Non mi offendo,» mentì platealmente
lui intercettando
il suo sguardo, con la faccia di chi è già pronto
a immusonirsi al
primo commento fuori luogo.
«La
prossima volta scelgo io il menù,»
replicò lei, evitando la
trappola in scioltezza.
«Così
mi fa sperare in una prossima volta,» ammiccò lui,
riuscendo infine
ad acciuffare un boccone di noodles e a mangiarlo senza troppi danni,
per poi rinunciare ad usare la protesi e passare alla mancina.
Lei
non commentò, fingendosi intenta a spiluccare le sue verdure
come se ciò richiedesse la sua
più totale
concentrazione. Tony sembrava a sua volta piuttosto preso dalla cena,
e non riusciva a ricordare l'ultima volta che l'aveva visto mangiare
con così tanto gusto. Il dilitio sembrava aver fatto
miracoli sul
suo appetito e sul suo umore; a colpo d'occhio era ancora provato, ma
aveva un colorito decisamente più sano. Le vene scure a cui
aveva
ormai fatto l'abitudine si erano ritirate appena sotto il colletto,
nascondendole il costante memento dell'intossicazione.
Non
volle soffermarsi su quando l'aveva visto subito dopo la Expo, e su
come avesse pensato di averlo perso davvero per una bravata a cui lei
stessa aveva acconsentito. Di rimando, si soffermò su
ciò che era
successo prima.
Non che fosse davvero in grado di ignorarlo
completamente, quando si sentiva avvitare e contrarre lo stomaco ogni
volta che gli posava gli occhi addosso, con un misto di senso di
colpa, confusione e paura che non riusciva a soffocare, neanche
rifugiandosi discretamente nella stoffa della sua felpa che ancora
– stupidamente –
indossava e che conservava il suo profumo. L'impressione
delle sue labbra era ancora vivida sulle proprie, così come
il suo
sguardo smarrito subito dopo.
Aveva
l'impressione di muoversi in una bolla di tempo distorto, in cui ogni
secondo che passava sembrava prolungarsi all'infinito, moltiplicando
il suo disagio e i suoi pensieri alla deriva.
«Vogliamo
ignorarlo ancora per molto?» proruppe infine, posando la sua
scatoletta di take-away quasi intatta.
«Cosa?»
bofonchiò lui, senza alzare lo sguardo dal cibo, ma con una
nota
d'allarme nella voce.
«L'elefante
nella stanza.»
«È
una metafora riferita alla mia mancanza di grazia?»
Tony le
rivolse
un sorrisetto sghembo che non raggiunse il suo sguardo. Pepper
si mise a braccia conserte, prendendo tempo. Arrivò
rapidamente alla
conclusione che quella fosse l'ultima occasione per lasciar cadere
l'argomento, ma si trovò a ignorare le direttive del suo
cervello,
esattamente come poche ore prima sull'aereo.
«Mi
riferivo all'inaugurazione.»
Lo
sguardo di Tony stavolta scattò in alto, verso di lei, poi
fu
dirottato all'istante verso la parete di vetro affacciata sulla
città
in un movimento affatto naturale. Si pulì con calma la bocca
col
tovagliolo, e Pepper notò distintamente le sue mani fremere
appena,
inquiete. Tamburellò brevemente con le dita sul tavolo con
un
ticchettio, prima di scuotere quasi tra sé la testa.
«Mi
sembra che non sia successo nulla.»
Quella
constatazione parve impattare tra di loro come un blocco di
granito.
Pepper impietrì. Non poté che fissarlo per lunghi
secondi, la bocca
semiaperta, gli occhi sgranati e increduli che non riuscivano a
distogliersi dal suo viso apparentemente tranquillo. Si
rese conto che avrebbe forse dovuto provare qualcosa. Magari rabbia,
o delusione, o dolore, o un misto variopinto delle loro diverse
sfumature, ma il collegamento tra cuore, bocca e cervello sembrava
essere stato reciso di netto, lasciandola muta e inerte.
Tony
continuò a guardare da tutt'altra parte, con aria distante.
«E
questo cosa dovrebbe significare?» riuscì ad
articolare infine lei,
suscitando un brillio colpevole nell'iride sfuggente dell'uomo.
«Che
non è la sola a poter decidere quando
è
successo qualcosa o
meno,»
replicò serafico, rievocando
l'eco di parole che avevano voluto dimenticare entrambi.
«Peccato
che stavolta sia successo qualcosa,»
insistette lei, mentre la rabbia prendeva a poco a poco il
sopravvento sul suo raziocinio, inframmezzata da punture di spillo
dolorose che s'impegnò ad ignorare.
Tony
non rispose e prese a rigirarsi una delle bacchette tra le dita,
seguendone i movimenti con la massima concentrazione pur di non
alzare lo sguardo verso di lei.
«Ti
stavo offrendo una via d'uscita,» borbottò infine,
e un lieve,
inaspettato sorriso sfiorò le sue labbra. «Ma
tu non ti tiri mai indietro,» completò con quella
che sembrava tristezza, lasciandosi sfuggire la bacchetta con un toc
sordo.
Pepper
si passò una mano sul volto teso e affondò le
dita sulle palpebre,
rifugiandosi per un attimo dietro quella cortina. La voce di Tony era
rimasta piatta, apatica, come se tutta la vitalità che
l'aveva
pervaso fino a poco prima dell'inaugurazione fosse stata risucchiata
da un gorgo invisibile.
«Mi
spieghi che ti prende?» chiese, in un tono parzialmente
aggressivo
che non riuscì a stemperare e che doveva servire a
mascherare la sua paura per quelle parole così gelide.
Era
sempre schermata dalla propria mano e temeva di soffermare troppo lo
sguardo sull'uomo che le stava di fronte per timore di annebbiare la
poca lucidità che le era rimasta. Perché doveva
sempre ritorcersi
tutto contro uno dei due?
Sapeva
di aver compiuto un gesto impulsivo, forse affrettato, ma la reazione
di Tony le sembrava completamente sconclusionata, e le faceva temere
di aver ferito delle corde più sensibili di quanto avesse
creduto.
Sentiva
il proprio cuore arrancare a singhiozzo, mentre l'attesa per una
risposta si prolungava, con lui ancora determinato a non offrire
alcun appiglio su cosa stesse realmente provando o pensando. L'unico
segno che non fosse così imperturbabile come voleva dare a
vedere
era il fatto che continuasse a tenere la mano meccanica celata sotto
al tavolo, e che quella sana si assicurasse con insistenza che la
benda sul volto fosse ben aderente alla cicatrice.
«Ti
sembra così strano che voglia fare finta di
nulla?» proferì
infine, e non riuscì a cogliere alcun intento sarcastico in
quella
domanda.
A
spiazzarla fu ancora la volta la sua voce, ancora spenta e
più bassa
del solito, come se parlare gli costasse più fatica di
quanto
potesse permettersi.
«Non
riesco a capirne il perché.»
Pepper
riuscì a far calare la propria
voce di qualche decibel, ma sentiva l'inderogabile urgenza di
lasciarla esplodere, così da liberarsi almeno parte di
quella
insostenibile pressione interna che le stava rendendo il corpo di
gelatina.
«Neanch'io
riesco a capire perché tu l'abbia fatto
proprio
in quel momento,»
ribatté pronto lui, ancora con quella pacatezza fuori luogo.
«Cos'è,
volevi farmi un regalo d'addio?» stavolta una traccia di
pungente
risentimento adombrò le sue parole taglienti e il suo
sopracciglio
scattò appena vero l'alto.
Una
scintilla di comprensione scaturì nei pensieri di Pepper,
riuscendo
finalmente a illuminarli in modo coerente.
«Non
l'ho fatto per pietà,»
scandì, adesso tenendo a malapena sotto controllo
l'indignazione per
quell'accusa indiretta. «Se avessi davvero provato solo
pietà e compassione per te, saresti rimasto da solo un mese
dopo
l'incidente,» aggiunse, senza frenarsi.
Tony
scosse la testa, come a scacciare quelle parole, per poi arricciare
le dita che stringevano con troppa forza i bicipiti e reclinare il
capo all'indietro, incontrando il muro di mattoni a vista. Lo vede
deglutire con difficoltà prima di aprire di nuovo bocca:
«Non
volevo mettere in dubbio niente di... di quanto ci siamo
detti,»
proferì infine, facendo un notevole sforzo nel selezionare
le parole
giuste e appaiandole poi con uno sguardo diretto ed eloquente.
«Quello che hai fatto tu è quello
che vorrei fare anch'io, se non avessi uno
stramaledetto
reattore che mi sta uccidendo ficcato nel petto,»
sbottò poi tra i denti, serrando improvvisamente il pugno e
perdendo
la patina di compostezza che era riuscito a mantenere fino ad allora.
«O
se non fossi un robot per
metà o se non fossi sfigurato,»
aggiunse più piano, con quello che assomigliava molto a
disgusto e
che causò una rapida, pungente stretta al cuore a Pepper.
Stava
cercando di seguire i suoi ragionamenti, più intricati e
contraddittori che mai, ma riusciva a malapena a tenere il passo coi
propri e non faceva che ritrovarsi in apparenti vicoli ciechi. Tony
nel parlare si era scostato dal tavolo ed era evidente che si stesse
sforzando di respirare normalmente, ma non sembrava sul punto
di un attacco di panico. La guardava a scatti, senza riuscire a
sostenere il suo sguardo e continuando a rivolgerle la parte sana del
viso e a nascondere la protesi sotto il tavolo. Sembrava che tutto il
suo corpo fosse sul punto di accartocciarsi su se stesso per
scomparire alla sua vista mentre cercava di mantenere la sua solita
posa spavalda.
«Tony,»
fece il gesto di alzarsi, ma a quel movimento inaspettato lui si
ritrasse ancor di più, stavolta con un lampo di
riconoscibile panico
nello
sguardo, al che lei si fermò spiazzata, rimanendo seduta. «Pensi
davvero che il tuo aspetto o il tuo corpo siano un problema per me?»
si arrischiò a chiedere con più calma, scegliendo
di ignorare quel
che le aveva detto subito prima.
Non
voleva pensare al reattore, né a quello che stava
infliggendo a
Tony, né all'orologio invisibile che continuava a
ticchettare in
sottofondo. E allo stesso tempo, temeva di affacciarsi su quella nuova
porta che Tony aveva appena schiuso.
Lui
la fissò per la prima volta direttamente e
tentennò, le
sopracciglia corrugate in un'espressione combattuta. Era ancora seduto
in modo da offrire la minor superficie possibile ai suoi occhi, quasi
si trovasse in un duello in cui poteva essere ferito da un momento
all'altro.
«Tu
mi guardi e vedi questo,» asserì poi, puntando il
pollice sul
reattore. «L'hai detto tu,» aggiunse, con un'alzata
di spalle
noncurante, ma rigida.
«Non
c'entra nulla, adesso,» lo rimbeccò, accigliandosi
a sua volta
spaesata, ma sentendosi mancare nel sentirsi ritorcere contro le sue
stesse parole.
«Ma
non l'hai negato,» osservò lui, con mesto trionfo
e un sorriso
amaro, evitando ancora una volta l'argomento.
«Tony,
è così difficile accettare che io tenga a te,
così come sei?»
sospirò Pepper, poggiando i gomiti sul tavolo che li
separava e
inspirando poi di nuovo a fondo.
Lui
le fece eco, flebilmente, e abbassò ancora lo sguardo.
Pepper non
riuscì a leggere la sua espressione apatica: era come
tentare
di decifrare
un astratto senza conoscere l'intenzione dell'artista.
«Sì,»
mormorò soltanto, dopo un lungo silenzio.
A quel punto
sembrò
sgonfiarsi come un palloncino e il suo sguardo assunse una sfumatura
vacua. Pepper
sentì quella risposta sprofondare nel suo petto come un
ferro
rovente e si trovò a socchiudere gli occhi, come se
ciò potesse
attutire il colpo.
«Non
è quello che vorrei dire, ma è
così,» continuò Tony, ora
più
concitato. «E non so come...» fece un gesto di
scoramento con la
mano e a Pepper non sfuggì il tremito che scosse la sua voce
in quel
singolo istante. «Non so cosa fare,»
confessò, passandosi la mano
sul volto e confondendo le proprie parole.
Quella
semplice affermazione risuonò molto più densa di
quanto avrebbe
dovuto, carica di tutto ciò che Tony aveva sempre taciuto e
continuava a tacerle, simile a un minuscolo e innocuo atomo pronto a
scindersi e a liberare la sua energia.
«E
immagino che anche tu...»
«Tony.»
Pepper lo interruppe con fermezza prima che potesse completare la
frase. «Io so quello che vorrei fare dal momento in cui sei
tornato
dall'Afghanistan.»
Lo
vide trasecolare e chiudere di scatto la bocca già pronta a
ribattere.
«Capisco
che per te possa essere difficile da credere, ma è la
verità, e non
so più come dirtelo,» concluse, senza
più nascondere la tristezza
che aveva continuato ad accumularsi durante tutta la discussione.
Tony
sembrava aver dimenticato come si parlasse, perché se ne
stava
semplicemente seduto davanti a lei, fissando la mano meccanica ancora
celata oltre il bordo del tavolo mentre il suo volto continuava ad
essere una lastra piatta e inespressiva. Portò una mano al
reattore
nel suo solito gesto inquietantemente abituale.
Pepper avrebbe voluto
alzarsi e stringerlo a sé, come già aveva fatto
altre volte, ma
sapeva che in quel momento non sarebbe stata la scelta giusta, non
dopo che si era ritratto così inequivocabilmente da lei e
averle
mostrato delle ferite fino ad allora nascoste. Soppresse l'impulso,
nonostante potesse percepire i suoi piedi che scalpitavano per
seguirlo e l'orma del suo profumo che le sfiorava il naso, impressa
sulla felpa. Stava
giusto per aggiungere qualcosa e dare sfogo a uno qualsiasi dei
pensieri che si affollavano nella sua testa, ma Tony ruppe di colpo
il silenzio, con una voce roca e sforzata che le ricordò
spiacevolmente quella che aveva avuto dopo un'ora di pianto
ininterrotto:
«Non
posso chiederti di raccogliere anche i miei
pezzi,» nel dirlo
rialzò appena lo sguardo, ora fattosi di nuovo liquido e
profondo,
anche se ancora distante.
«Dovevamo
raccoglierli insieme.
Pensavo che fossimo d'accordo,» gli
fece
notare lei, sollevata per aver infine intravisto un'apertura nello
strato di apatia e scoraggiamento di Tony, ma lui scosse la testa in
risposta.
«Non
risolverebbe nulla di tutto questo,»
replicò
lapidario, con un gesto quasi stizzito verso di sé, e Pepper
riuscì
a percepire in quella breve, semplice frase tutta la rabbia e
frustrazione che Tony stava reprimendo.
In
quel mentre lui si alzò di scatto, facendo leva sullo
schienale
della sedia quando un'evidente fitta lo colpì,
costringendolo a
fermarsi sul posto con una mano a coprirsi la bocca.
«Tony?
Stai...»
«No,
non sto “bene”,» sbottò lui a
denti stretti, facendola
ammutolire.
Le
rivolse un'occhiata colpevole.
«Sono...
sono solo sfinito e non mi sembra che stiamo risolvendo
nulla,»
continuò, con voce sforzata.
«E
chiudermi la porta in faccia come hai fatto con Rhodes ti sembra una
soluzione?» osservò lei, con freddezza.
Lui sobbalzò a quell'attacco, ma non si scompose:
«Rhodey è un caso a parte... Questa è
una decisione ponderata. E soprattutto momentanea,»
replicò lui,
senza che una sola traccia di turbamento scuotesse la sua voce.
«Non
sei tu il problema, e credo solo che sia meglio
indire un
time-out, prima che io finisca per rovinare tutto come al
solito,»
finì perentorio, avviandosi già verso la propria
camera con passi
cauti e pesanti.
Pepper
non provò a fermarlo né a contraddirlo, ma si
portò entrambe le
mani al volto accaldato, con la testa sul punto di scoppiare. Si
chiese se dovesse dire ancora qualcosa, e se avrebbe avuto alcun
senso. Si trovò solo a concordare con lui per quella
brusca
interruzione. Lo vide bloccarsi sul primo gradino della rampa che
conduceva al piano rialzato, stringendo il corrimano e con fare
esitante.
«Pepper?»
Lei
rivolse stancamente la testa verso di lui, sentendo però un
sobbalzo
al cuore nel notare il modo in cui la stava guardando – quel
modo – e l'accenno di sorriso che si era fatto
largo sul suo
volto.
«Per
quel che vale, oggi è stato davvero uno
dei giorni più belli
della mia vita,» s'interruppe brevemente. «Inclusi
i “fuori
programma”,» aggiunse in fretta e in quello che
assomigliava molto
a una via di mezzo tra uno “scusa” e un
“grazie”, prima di salire più
rapido che poteva le scale senza guardarsi indietro.
Pepper
rimase seduta compostamente finché non sentì lo
scatto della sua
porta che si chiudeva, poi si lasciò scivolare a braccia
conserte
sul tavolo, il mento sulle mani e gli occhi che vagavano irrequieti
per il loft ora vuoto e fin troppo silenzioso. Iniziava
ad essere stanca di permettere agli eventi di seguire il proprio
corso e lasciare che fosse il tempo a “risolvere”
ogni cosa,
quando era quello stesso tempo ad inghiottire ogni sguardo al futuro
e a soffocare ogni sentimento che tentava di scaturire tra
loro.
Rimase a lungo lì, sola con le sue riflessioni e con gli
occhi che
cercavano inconsciamente una porta chiusa, con quella tenue fiammella a
scaldarla appena, ostinandosi a danzarle nel petto.
***
25
Aprile, Manhattan
Erano
le tre di notte
passate, quando l'insofferenza superò la stanchezza e Tony
si alzò
di colpo dal letto, sul quale era crollato senza neanche infilarsi
sotto le coperte.
Uscì silenziosamente dalla sua camera, sostando
poi sulla soglia nel buio del ballatoio per qualche minuto.
Assorbì
la quiete che regnava nel loft sottostante e lasciò che
placasse a
poco a poco i suoi pensieri mentre fissava il salone affacciato sui
grattacieli illuminati. Sembravano semplici addobbi appesi alla
vetrata, da lì, o delle sagome fittizie e intangibili
fissate sullo
sfondo di un teatrino. Più fissava quelle luci,
più desiderava
raggiungerle e immergervisi come qualche ora prima, inebriandosi del
vento sferzante e delle vertigini.
Scese le scale e
raggiunse la vetrata senza neanche accorgersi che i suoi piedi
zoppicanti l'avessero portato fin là. Oltre il vetro, in
basso,
scorgeva la strada deserta, delimitata dalle luci calde dei lampioni
e striata dai fanalini di qualche sporadico taxi di passaggio.
Poggiò la fronte sul
vetro freddo, cogliendo un fugace riflesso del suo volto, ma spinse
lo sguardo oltre la superficie lucida, verso l'orizzonte rischiarato
dal riverbero arancio della città. Rimase lì per
un tempo che non
seppe quantificare, respirando appena e fissando i contorni dei palazzi
che venivano offuscati ritmicamente dalla nebbia di condensa sul
vetro.
Quasi sperò che quella parete trasparente si dissolvesse di
colpo, spinto da un anelito che non avrebbe saputo definire, ma che
aveva lo stesso sapore della frizzante aria notturna di New York.
__________________________________________________________________________________________________________________
Supernova: *inserire nuovamente musica di Super Quark* Evento che si verifica alla morte di determinati tipi di stelle, che liberano un'enorme quantità di luce ed energia prima di spegnersi, collassare completamente e, in alcuni casi, formare un buco nero.
Note Dell'Autrice:
Salve a tutti!
Spero che abbasserete torce e forconi il tempo necessario per la filippica in mia difesa, perché mi rendo conto che ptorei aver risvegliato più di un istinto omicida in voi poveri lettori con questo capitolo... *para le mani avanti; quelle sue, quelle spaiate di Tony e quelle dei malcapitati di turno*
Vi ricordate la mia insistenza sulle fisime fisiche di Tony? Ecco, puntava tutto a questo, e mi auguro di aver costruito bene le premesse, visto che ho preferito concentrarmi sulle reazioni "a caldo" dei due sciagurati piuttosto che su elucubrazioni mentali troppo elaborate. Ah, il modo "sospeso" in cui discutono è voluto, proprio per contrastare coi vari altri faccia-a-faccia che hanno avuto nel corso della storia. Spero che la scelta di gestire così la scena risulti chiara :)
Un qualcosa che mi premeva molto affrontare ormai da un po' è la questione della salute mentale di Tony, di qui la discussione con Ian. Tony, in modo più o meno esplicito, in Phoenix soffre di depressione, oltre che di disturbo d'ansia. Non sono problemi che solitamente si risolvono con la semplice forza di volontà o con metodi fai-da-te: pur volendo mantenermi IC non mi sono sentita di propagandare un "se ne esce anche da soli" incarnato da un Tony perfettamente equilibrato dopo quello che ha subito (e che si è inflitto). Non potevo farlo andare spontaneamente in terapia, né fargli accettare un aiuto esterno vista la sua sfiducia, ma Ian mi è sembrato un buon compromesso, soprattutto legato alla richiesta di cercare poi aiuto in una figura più specializzata di lui in quel campo.
Termino qui il mio papiro di chiarimenti e rovesciatemi pure addosso insulti dubbi e perplessità, sto qui apposta :) Posso solo dirvi che il prossimo capitolo è risolutivo in molti aspetti finora lasciati in sospeso e che potrete finalmente tirare un sospiro di sollievo. Forse.
Ringrazio infinitamente _Atlas_, che dopo avermi sopportato per anni su EFP ha avuto l'onore di farlo di persona ed è riuscita a non uccidermi per quanto l'ho fatta penare; T612, con la quale è sempre un piacere scambiarsi aggiornamenti e informazioni nerd; Emyclarinet, che con le sue recensioni mi istiga ad essere ancor più cattiva con Tony e spero quindi apprezzerà il capitolo. Un grazie speciale va ad Enigmista96, che ha ripreso a seguire Phoenix dopo anni di assenza e mi ha resa felicissima nel leggere la sua inaspettata e graditissima recensione <3
Grazie di cuore, sapere che seguite sempre e vedere vecchi e nuovi lettori avvicinarsi alla storia mi spinge a dare del mio meglio per concluderla :') <3
E dopo 'sta parentesi melensa, au revoir e a presto! (stavolta davvero)
-Light-
P.S. In tutto ciò, sono ovviamente ancora in shock per Stan Lee :'( Avrei potuto dedicargli il capitolo, ma poi ho avuto un'idea migliore... 'Nuff said!
P.P.S. Il design per la nuova Mark coincide con quello della Mark 33 (Silver Centurion), ovviamente in versione rosso-oro.
© Marvel
|
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Capitolo 45 *** Neutron star ***
44
Neutron
star
"Spend my days cursing my soul Wishing I could paint my scars to make me whole Oh, I know I could be better But my love, I won't give up"
[West Coast – Imagine Dragons]
28
Aprile, Triskelion, Washington D.C., 16:30
Chissà
quante volte suo
padre si era seduto in quello stesso punto.
Non era un quesito
rilevante, né razionale, né in qualche modo
fondato: in realtà era
molto probabile che quell'ala del Triskelion non fosse neanche
esistita, ai suoi tempi. Il pensiero era
semplicemente emerso di sua sponte nella sua testa ed era rimasto
lì,
percepibile ma non invadente, come un discreto invito a prendere in
considerazione quella possibilità. Era lo stesso pensiero
che lo spingeva a tenere la schiena un po' più dritta e lo
sguardo
un po' più saldo anche di fronte alla consueta espressione
temporalesca di Fury, seduto dall'altro lato della scrivania.
Tony rimase ancora in pacata
attesa che fosse lui a parlare per primo, mentre questi sembrava
più
incline a stilare un catalogo mentale di ogni oggetto presente nel
suo vasto ufficio, almeno a giudicare dal modo in cui il suo sguardo
saettava qua e là senza fissarsi in un punto in particolare.
Tony gettò un'occhiata
annoiata verso Washington, sopra la quale svettava la sagoma
appuntita dell'obelisco; non sembrava così maestoso, visto
dall'altezza considerevole del quartier generale dello SHIELD che
dominava l'intera città dalla sua roccaforte sul Potomac.
Aveva un
vago ricordo della mastodontica struttura ancora in costruzione,
quando da ragazzino suo padre l'aveva trascinato di peso nella
capitale in uno dei suoi viaggi d'affari per “insegnargli il
mestiere”. Di quel viaggio ricordava solo un paio di riunioni
noiose, un breve
incontro con Peggy, una visita alla Casa Bianca dalla quale si era
defilato e un'infinità di paternali di cui aveva rimosso le
parole
precise, trattenendone solo il tono burbero e di rimprovero per la
sua scarsa attenzione e rispetto verso l'eredità di famiglia.
Allora non aveva neanche
lontanamente immaginato che quell'eredità gli sarebbe poi
piombata
tra capo e collo un paio d'anni dopo, né quali legami
intercorressero tra lo SHIELD e le Industries né, tanto
meno, che a
distanza di quasi vent'anni si sarebbe ritrovato lui stesso coinvolto
negli “affari” su cui suo padre aveva mantenuto un
religioso
riserbo. Non era certo che sarebbe stato fiero di come stava gestendo
quel retaggio.
Tamburellò con le dita
sulla scrivania, in un gesto di lieve impazienza che sperava
riuscisse a rompere l'apparente mutismo di Fury, sprofondato nelle
sue elucubrazioni mentali da quando gli aveva annunciato, senza
troppi giri di parole, della sua intossicazione e di ciò che
avrebbe comportato di lì a tre mesi.
Non aveva esattamente
pianificato o annunciato quella visita. Era più corretto
dire che,
dopo un'estenuante udienza in tribunale e uno sgradito colloquio con
Stern al Pentagono, si fosse presentato di punto in bianco al
Triskelion. Si era rallegrato del fatto che il suo livello
d'autorizzazione fosse rimasto immutato, sufficiente a garantirgli
l'accesso all'hub centrale e al piano degli uffici prima di essere
intercettato da Coulson. Ci erano volute un po' di moine e qualche
sguardo implorante per convincerlo a scortarlo da Fury, ma Agente non
aveva poi opposto molta resistenza e, dopo il primo momento di
sconcerto probabilmente dovuto al suo aspetto provato, l'aveva
accolto con insolita vivacità.
Fury non era sembrato
dello stesso umore, e Tony era certo che avesse subodorato
all'istante come quella non fosse una semplice visita di piacere. Lui
stesso, d'altro canto, non si era più preoccupato di rendere
credibile la propria maschera gioviale non appena Coulson aveva
lasciato l'ufficio. Aveva saltato in toto i convenevoli e, in altre
circostanze, si sarebbe anche compiaciuto della reazione spiazzata di
Fury al suo lugubre annuncio.
A giudicare dalla pausa riflessiva del
direttore, questo non l'aveva previsto.
«Ti devo delle scuse,»
proruppe infine questi, rivolgendogli uno sguardo penetrante che Tony
sostenne senza esitazioni.
«Risparmiatele,»
replicò lapidario, e quelle parole accentuarono le pieghe
sulla
fronte del direttore. «Non ho bisogno di sentirmi dire che
“ti
dispiace” solo perché adesso
sto morendo. Se davvero avessi
voluto scusarti per come mi hai trattato, lo avresti fatto tempo
fa,»
continuò piattamente, senza però nascondere il
proprio risentimento
al ricordo dei primi, atroci mesi subito dopo l'incidente.
L'unica risposta di Fury
fu un lungo sospiro e un'aggrottata di sopracciglia, ma, invece di
alterarsi come avrebbe solitamente fatto per una risposta
così
impudente, si limitò a scrollare il capo.
«Non insisterò di
certo,» stabilì infine. «Quindi? Sei
venuto fin qui solo per dirmi
questo?» chiese poi, di nuovo burbero e dritto al punto.
Tony incrociò le
braccia tirando le labbra in una smorfia obliqua, riluttante a
rispondere.
«Avevo alcune faccende
legali da sbrogliare qui a Washington, ma sono sicuro che tu ne sia
già al corrente.»
Il lieve cenno d'assenso
di Fury confermò le sue parole.
«Sembra che sia stata
una vittoria su tutti i fronti,» commentò poi, e
Tony captò un
sottofondo compiaciuto in quell'affermazione, a cui rispose con un
sogghigno tetro.
«Magra consolazione,»
disse con amarezza. «E comunque, sono ancora colpevole di
essere
stato Iron Man, almeno secondo Stern,»
aggiunse con uno
sbuffo seccato.
«Sempre meglio di
essere condannato per omicidio,» gli fece notare Fury, dando
peso ad
ogni parola.
«Probabilmente l'ho
ucciso davvero io,» ribatté Tony, serrando appena
la mascella in
modo involontario, quasi a frantumare l'immagine di Iron Monger che
aveva fatto capolino nella sua testa. «Ma penso che
riuscirò
comunque a dormire la notte,» aggiunse con spavalderia
forzata,
visto che non riusciva a ricordare l'ultima volta che avesse dormito
indisturbato per più di tre ore di fila. «Spero
che lo SHIELD
riesca a fare lo stesso,» lo provocò poi,
ammiccando con complicità.
Fury scelse di non
confermare né negare quell'insinuazione, ma il suo unico
occhio
s'incupì, e Tony si accontentò di quel silenzio
carico di
sottintesi. D'altronde, non serviva un genio come lui per capire che
il suo processo fosse andato a buon fine non solo grazie alla
competenza di Kyle, ma anche e soprattutto per le ingerenze
dell'Agenzia; senso di colpa, forse, o forse solo molti interessi a
garantirsi le sue simpatie a lungo termine – oltre ai suoi
finanziamenti. In fondo, gli stava bene così: non aveva mai
preteso
di giocare ai migliori amici con Fury, né si aspettava che
le
manovre di quest'ultimo esulassero dai tornaconti personali dello
SHIELD. Se il tutto andava a suo beneficio, tanto meglio.
Anche adesso, era sicuro
che le rotelle del direttore stessero ruotando a velocità
frenetica
alla ricerca di un modo per “tappare il buco”,
stavolta
definitivo, che Iron Man avrebbe inevitabilmente lasciato di
lì a
poco. E, probabilmente, a uno per mettere le mani sulla sua tecnologia.
Per sua sfortuna, Tony aveva già provveduto
a salvaguardare con largo anticipo il proprio retaggio nel modo che
gli era più congeniale. Sì, suo padre sarebbe
davvero stato fiero di lui...
«Hai intenzione di
dirlo alla squadra?» gli chiese a quel punto Fury, dirottando
sveltamente l'argomento.
«Mi stai chiedendo cosa
voglio? A me?
Questa sì che è una novità,»
Tony finse
stupore, portandosi leziosamente una mano al petto a sottolineare il
suo sarcasmo.
Fury si mantenne
imperturbabile, in pacata attesa di una risposta; Tony
respirò a
fondo, reclinandosi sullo schienale e girando appena sulla sedia da
ufficio.
«Sì,» sospirò dopo
un po', più conciliante. «Non vorrei, ma
devo,»
puntualizzò, poco entusiasta.
«Non sei obbligato,»
lo sorprese Fury, con apparente ovvietà.
Quell'offerta di coprirlo si
discostava dalla linea d'azione che Tony aveva previsto: nascondere
la sua imminente dipartita sarebbe andato a netto svantaggio di una
riorganizzazione logistica della squadra in tempi brevi. E forse,
anche di un possibile recupero emotivo dei suoi componenti. Non amava
soffermarsi su quell'aspetto, che finiva sempre per dividerlo tra la
parte di sé che si aspettava un sospiro di sollievo
collettivo per
la scomparsa del loro membro più inutile, e quella che
temeva
invece... non sapeva esattamente cosa. Quando ci
pensava,
riemergevano sempre gli stessi fotogrammi: Bruce che lo sorreggeva e
lo incoraggiava, rimproverandolo duramente per essersi lasciato
andare; il biglietto che gli aveva scritto Clint una vita fa, ancora
custodito in un cassetto; Nataša che lo abbracciava con
calore,
contenta di vederlo di nuovo in piedi; la delusione di
Thor,
perché dall' “uomo di ferro” si era
aspettato molto di più;
Coulson che si metteva in prima linea per lui, offrendogli una
seconda opportunità; Rogers che gli stringeva con
naturalezza la
mano inerte che lui odiava invece con tutto se stesso.
«Preferisco che lo
sappiano da me, piuttosto che lo scoprano da un titolo di
giornale probabilmente poco lusinghiero,» rispose infine, con
la
gola improvvisamente secca che gli arrochì la voce.
“Non si meritano il
mio silenzio,” concluse, ma tenne quella considerazione per
sé.
«Potts lo sa?»
Nonostante l'andamento
schematico e formale della conversazione, o interrogatorio, vi fu
un'insolita
delicatezza nel tono in cui Fury pose quella domanda.
«Da mesi,» confessò
quindi, sfuggendo per la prima volta il suo sguardo.
Strinse il cellulare
nella tasca con la mano meccanica, terribilmente conscio che Pepper
non aveva ancora risposto al messaggio in cui le annunciava di aver fatto progressi per il rilascio della licenza e di essere
stato prosciolto dalla maggior parte delle accuse, sebbene fosse
ancora lontano da un'assoluzione completa. Forse avrebbe dovuto
chiamarla direttamente, ma percepiva un cardiopalma al solo pensiero,
considerando gli eventi di qualche giorno prima. Non lo aveva neanche
accompagnato al processo, accampando vaghi impegni organizzativi alla
Expo. E la presentazione del Progetto Phoenix era ormai dietro
l'angolo. Si costrinse ad allentare la presa, o avrebbe finito per
frantumare il telefono.
«E il colonnello
Rhodes?» lo riscosse ancora Fury, nel chiaro intento di
recuperare tutti i vari tasselli di cui era rimasto all'oscuro finora
per comporre una panoramica della situazione.
Tony tacque per qualche
istante.
«Abbiamo litigato giusto l'altro giorno,»
rivelò infine, decidendo di non girarci
troppo intorno. «Non sapeva del mio tentato suicidio e non
l'ha
presa bene quando ho deciso di dirglielo. Né il suicidio,
né il
fatto di non averlo saputo prima.»
Lo sguardo di Fury si
intensificò e lui molleggiò con fare nervoso
sulla sedia, la testa
incassata nelle spalle.
«Poi l'ho informato
dell'intossicazione e l'ha presa anche peggio.» A quel punto
alzò
appena lo sguardo. «Ha detto che avrebbe preferito saperlo
direttamente al mio funerale, piuttosto che scoprire che gli avevo
mentito così a lungo. Non so quanto senso abbia, ma immagino
che sia
quello che mi merito,» concluse, con un sorriso ironico ma
tirato.
Fury inspirò
rumorosamente dalle narici, quasi stesse per soffiare fuoco e fiamme,
fissandolo in modo indecifrabile ma
indubbiamente rabbuiato. Probabilmente stava ponderando cosa diavolo
dovesse fare di lui, adesso che si era rivelato inservibile.
«Anch'io avrei gradito
aggiornamenti più tempestivi,» masticò
infine, e in cuor suo Tony
gli fu grato per non aver edulcorato il suo fastidio.
Non avrebbe sopportato
di sentirsi trattare con i guanti solo in luce delle sue condizioni.
«Tre mesi non sono
molti per trovare un rimpiazzo, ma...» cominciò
Tony, con consumata
disinvoltura, ma fu interrotto sul nascere:
«Un “rimpiazzo”?»
sbottò, seccamente. «Cos'è, pensi che
possa prendere il primo agente
che passa, ficcarlo nell'armatura e sperare per il meglio?»
Tony emise un verso
snervato, alzando l'occhio al cielo.
«Buon Dio, no, così mi
faresti rivoltare nella tomba,» scosse la testa, sfoggiando
un'espressione orripilata. «Stavo per dire che potrei ovviare
io
stesso all'inconveniente da me creato,» disse poi, poggiando
con
nonchalance il braccio metallico sulla scrivania.
Colse una scintilla
d'interesse nello sguardo di Fury, un chiaro invito a continuare.
«Tanto per cominciare,
avrai comunque l'Iron Legion,» esordì, ricevendo
un prudente cenno
d'assenso in risposta. «Il progetto è ultimato, ho
il primo
prototipo pronto e sono sicuro che ne farai buon uso. Poi, ho qualche
altro progettino in cantiere...» sfoderò il
cellulare e lo poggiò
sul tavolo in mezzo a loro, attivando un ologramma con dei tocchi
veloci e precisi.
Il modello 3D di
un'armatura si materializzò nel cono azzurrino, e Fury si
fece
corrucciato.
«Questa sarebbe la
soluzione?» interpretò poco convinto.
«Un restyiling completo
dell'armatura con qualche cannone in più?» lo
incalzò, ruotando
qua e là il modello con un dito mentre esaminava con
scetticismo le
aggiunte ed evidenti modifiche.
«Progetto War Machine,»
enunciò lui, stringato. «L'idea di un'armatura
guidata a
distanza si è arenata,» confessò con
lieve disappunto. «Ci serve
ancora un elemento umano, quindi ho pensato che, se cambia la persona
all'interno, sarebbe stato meglio distanziare l'armatura dalla vecchia
immagine associata a me,» spiegò pragmaticamente.
«E poi, Rhodey odia
il rosso-oro,» aggiunse con un sorrisetto furbo,
compiacendosi dello
smarrimento di Fury a quelle parole.
«Credevo aveste
litigato,» tentò poi di raccapezzarsi, facendo uno
sforzo
invidiabile per mantenere la sua aria compassata.
«Non sono nella
posizione di poter fare lo schizzinoso ed è l'unica persona
a cui
passerei il testimone. Il fatto che in questo momento mi detesti
è
secondario,» replicò lui, senza battere ciglio.
«E lui è al corrente
di questa tua decisione?»
«Sì...» Tony guardò
ostentatamente il suo orologio da polso e alzò un
sopracciglio. «...
da circa un paio d'ore, ad essere precisi,» concluse
soddisfatto,
esibendo un sorriso disarmante.
Fury scosse la testa con
fare rassegnato, guardandolo con l'aria di un vecchio preside che
scruti con rimprovero un discolo finito per l'ennesima volta nel suo
ufficio.
«Dovrò vagliare la
proposta, possibilmente discutendone di persona anche con
Rhodes,»
dichiarò poi. «Nel frattempo, gradirei che non ne
facessi parola
con la squadra,» si raccomandò, con uno sguardo
intimidatorio.
«Sissignore,» gli fece
il verso lui. «Quindi ho il permesso di
incontrarli?» chiese, con un velo d'ironia.
«Barton e Romanov sono
già qui per fare rapporto. Posso
convocare gli altri per una riunione straordinaria entro la prossima
settimana,» stimò infine, intrecciando le mani
sulla scrivania.
«Fallo entro domani,»
gli intimò asciutto Tony, facendo leva sul bastone per
alzarsi in
piedi. «Come avrai intuito, non ho tempo da
perdere.»
***
29
Aprile, Triskelion, 15:30
La mano nel petto gli
stava comprimendo i polmoni, lentamente, un centimetro alla volta.
Non lo diede a vedere e continuò a prendere piccoli respiri
superficiali, schiudendo appena la bocca per permettere all'aria di
filtrarvi quel tanto che bastava per non andare in ipossia.
Tentò di
traslare quel flusso al naso, sperando di liberarsi di quella morsa,
ma tutto ciò che ottenne fu una contrazione spastica del
diaframma e
un singulto che riuscì a soffocare quasi del tutto.
Catturò comunque
l'attenzione di Coulson, che gli rivolse uno sguardo da sopra la
spalla mentre frenava appena i suoi passi elastici.
«Tutto bene?»
Si concentrò per
costringere l'aria a muoversi e far vibrare le corde vocali, dove si
era impigliata in un bolo soffocante. Tirò un sorrisetto
disinvolto.
«Sì,» spezzò infine
quel lucchetto immaginario e si trattenne dall'inalare troppo
apertamente una boccata d'ossigeno. «Solo panico da
palcoscenico,»
sdrammatizzò, pungolandolo dispettosamente col bastone tra
le
scapole per sospingerlo.
Coulson emise un mezzo
sospiro indecifrabile e coprì gli ultimi metri che li
separavano
dalla sala riunioni. Gli fece cenno di entrare, già pronto a
tornare
alle sue occupazioni, ma Tony esitò. L'agente si
accigliò,
sospettoso come sempre, e prese a scrutarlo da capo a piedi quasi
fosse in cerca di un segno rivelatore per giustificare
quell'improvvisa titubanza
«Se vuole assistere...»
esordì Tony, quasi distrattamente, e l'Agente
scrollò le spalle.
«Non ne ho bisogno,»
declinò concisamente, inclinando le labbra in un sorriso
gentile ma
venato di tristezza.
«Fury e la sua
“discrezione”... dovevo aspettarmelo,»
commentò Tony, scuotendo
appena la testa, senza rancore.
«Buona fortuna, Stark,»
si congedò Coulson con un lieve cenno del capo, per poi
superarlo e
allontanarsi senza fretta.
«Grazie, Agente,»
replicò lui a mezza voce, senza girarsi e con lo sguardo
appuntato
sulla maniglia.
Sperò che l'avesse
sentito.
Si assicurò di aver
riconquistato il controllo dei propri polmoni prima di aprire la
porta, trovando un tenue conforto nel fatto che almeno il panico
poteva provare a gestirlo, al contrario dei sintomi
dell'intossicazione. Si trovò a ringraziare per l'ennesima
volta il
dilitio e i suoi effetti benefici e lenitivi.
Una sfilza di saluti
decisamente più calorosi di quanto si fosse aspettato
accolse il
suo ingresso, e percepì un sorriso spontaneo disegnarsi sul
suo
volto, mentre il peso nel petto si alleggeriva.
«Quanto entusiasmo,»
commentò con fare compiaciuto, cercando di mantenersi
impassibile
senza troppo successo. «Per gli autografi dovete mettervi in
fila,»
aggiunse poi, sfoderando un mezzo ghigno tronfio.
«L'avevo detto che
avrebbe ritrovato il suo ego,» lo punzecchiò
Nataša, rivolta ai
suoi compagni mentre gli scoccava al contempo un'occhiatina ironica.
«E su quali dati
avresti basato questa tua supposizione?» Tony
s'imbronciò
platealmente, fermandosi di fronte a lei con un mezzo sorrisetto
trattenuto. «Dopotutto, non mi sembra di averti
più vista dalle mie
parti... sono quasi offeso, Romanov,» recitò,
incrociando le
braccia sul petto.
«Non volevo
interrompere la “luna di miele”,»
replicò lei, con un sorrisino
eloquente che gli fece alzare l'occhio al cielo, causandogli anche un
lieve vuoto allo stomaco mentre coglieva quegli idioti di Clint e
Bruce sogghignare sotto i baffi.
«E tu che mi dici di un
certo Capodanno a Times Square?» contrattaccò
prontamente,
accendendo un lampo omicida nei suoi occhi e facendo trasalire Bruce.
«Stark, così come ti ho
rimesso in piedi, ti stendo,» ribatté glaciale, ma
con un tocco
divertito nella voce.
«Un Capodanno a Times
Square?» cadde dalle nuvole Steve, e spostò gli
occhi tra lei e
Bruce, ora paonazzo, per poi alzare confuso le sopracciglia.
«Rogers, se hai
perplessità sulla storia della cicogna, sono certo che
potrai
trovare
qualcun altro a cui chiedere,» si
tirò fuori Tony,
rivolgendogli uno sguardo inorridito che provocò un sonoro
sospiro
da parte sua.
«Possiamo tornare al
motivo della riunione?» sbottò acuto Bruce, il cui
volto sembrava
lampeggiare ora di rosso, ora di verde, come se fosse indeciso se
sprofondare nell'imbarazzo o ridurli in poltiglia.
«Permesso accordato,»
ridacchiò Tony, accomodandosi al tavolo delle riunioni, di
fronte a
lui e tra Nataša e Clint.
Steve era seduto a
capotavola; mancava solo Thor, che era stato
trattenuto ad Asgard per qualche bega causata dal fratello alla corte
di Odino.
Tony
volle godersi quel singolo istante di tranquillità, fingendo
di
essere anche lui all'oscuro del motivo che li aveva fatti riunire, e
lasciando che quel senso di leggerezza che non provava da tempo si
dilatasse per ancora qualche secondo.
«L'unico “motivo” di cui mi
sento di discutere adesso è quell'orrore,»
esordì poi
puntando il bastone verso Steve, che si indicò a sua volta
sbarrando
gli occhi come un qualche animaletto abbagliato dai fari di un'auto.
«Questo?» chiese
conferma, pizzicando appena il tessuto sintetico della nuova,
discutibile tuta
tricolore che indossava, probabilmente un surrogato di quella ormai
usurata che lui gli aveva fabbricato tempo addietro. «Cos'ha
che non
va?» si accigliò.
«Più o meno tutto...
ma ho visto di peggio,» gli concesse poi, fingendo
magnanimità.
«Non spesso, però,»
tossicchiò poi, schiarendosi la gola e
suscitando un risolino strozzato da parte di Clint.
«E quella, allora?»
ribatté Rogers, additandolo a sua volta.
«Io sono
giustificato, sono qui in campagna promozionale,»
annunciò,
mettendo in bella vista il logo sulla maglietta della Expo che
indossava sotto la giacca informale. «Biglietti gratis per
tutti!» esclamò
gioviale, allargando teatralmente le braccia e ritardando ancora le
domande, e le discussioni, e tutto ciò che stava per
piombargli
addosso.
Per ora, tutto ciò che
lo raggiunse fu un lieve scappellotto di giocoso rimbrotto da parte di
Nataša.
«Abbiamo visto
l'inaugurazione in diretta,» intervenne a quel punto Clint.
«Sembra
che il Futurista sia tornato sul serio,» continuò
poi, in
un'osservazione quasi casuale che allargò però il
sorriso sul volto
di Tony.
C'era qualcosa di
terribilmente doloroso e allo stesso tempo toccante, nell'immagine
della sua squadra al completo che assisteva a quell'evento, al punto
che non seppe come rispondere e si limitò ad annuire non
fidandosi
della propria voce, pronta a rompere quell'illusione di calma.
Percepì lo
sguardo di Nataša su di sé, come se avesse
percepito in qualche
modo il suo turbamento, e si strinse nelle spalle quasi a
ripararsene.
«Hai usato l'armatura,»
proseguì a quel punto Bruce, più allegro di
quanto l'avesse visto
ultimamente. «Anche Iron Man è pronto a
tornare?»
Dal modo in cui pose la
domanda, si intuiva come la ritenesse quasi superflua, come se un
diniego non fosse neanche contemplato tra le opzioni. Tony
avvertì la sua
bocca farsi improvvisamente secca, mentre la risposta spiritosa che
era stato sul punto di dare gli si incastrava in gola.
«In verità, sono qui
per formalizzare il mio ritiro dal Progetto Vendicatori,»
disse d'un
fiato, senza soffermarsi a pensare e lasciando scorrere via le parole
in una sequenza monocorde.
Un silenzio attonito e quattro paia d'occhi sgranati ricambiarono
quella rivelazione. Se
avesse potuto, Tony sarebbe tornato indietro di dieci secondi esatti
e avrebbe dato tutt'altra risposta per passare un'altra mezz'ora in
chiacchiere inutili e piacevoli. A pensarci bene, se avesse potuto,
sarebbe tornato ben più indietro di soli dieci secondi.
“Ormai il danno è
fatto,” si rassegnò, senza degnarsi di focalizzare
quella considerazione sul
momento corrente.
«Ma che stai dicendo?»
Steve fu il primo a riprendersi, e sembrò pronto a balzare
in piedi, come sempre quando si agitava o non capiva al volo qualcosa.
«Mi hai sentito,»
rispose Tony, più duramente di quanto intendesse.
«È per questo
che Fury vi ha convocati d'urgenza.»
«Tony, quello che vuoi
fare non ha senso,» scosse la testa Bruce, faticando ad
articolare
le parole. «Dopo tutto quello che...»
«Credi che dipenda da
me?» ribatté lui, senza trattenere un moto di
stizza quando si
inclinò all'indietro sulla sedia, raccogliendo le energie
per quel
confronto che, lo sapeva, l'avrebbe sfiancato.
«E da cosa, allora?» lo incalzò
Nataša, ancora pacata, ma con gli occhi che guizzavano
nervosi qua e là.
«Ho qualche problema
di salute,» riuscì a confessare infine, e si
chiese perché ci
stesse girando così tanto intorno.
Con Pepper era stato più
facile. O forse, con Pepper poteva concedersi di mostrarsi come Tony
e non solo come Iron Man.
«Pensavo che avessi
risolto con...» iniziò Clint, perplesso.
«Non mi riferisco a
queste,» Tony picchiettò appena il bastone contro
la protesi della
gamba, producendo un tintinnio che risuonò nella sala.
«Diciamo che
la mia batteria non funziona più tanto bene e mi sto...
scaricando.»
Diede una pacca sbrigativa al reattore, nascondendosi dietro alle sue
solite metafore, e lesse l'improvvisa confusione sui volti dei suoi
interlocutori, insieme a un'ombra di consapevolezza, un tenue sospetto
che nessuno sembrava però voler esternare. Si fece forza, e
scostò
il colletto della t-shirt, rivelando il reticolo scuro sottostante
col medesimo gesto che aveva compiuto mesi prima; quella fumosa
consapevolezza si cristallizzò, tramutandosi in un doloroso
sconcerto.
«Intossicazione da
palladio,» spiegò quindi. «Uno degli
svantaggi di avere una
lampadina nel petto come super potere,» sospirò e
lasciò andare la
stoffa. «Finora la ricerca di soluzioni non ha dato
esattamente i
suoi frutti, ma...»
«Tony?»
Nataša lo interruppe
chiamandolo per la prima volta in vita sua per nome – quella
nuova
tendenza da parte di chi lo circondava iniziava seriamente a
spiazzarlo – in modo sorprendentemente allarmato e fissandolo
con
occhi più grandi, verdi e inquisitori del solito.
«Cosa stai cercando di
dirci?»
Quella sua improvvisa
titubanza gli suonava estranea, quasi forzata, per una spia del suo
calibro; il fatto che cercasse
comunque una qualche ritrattazione da parte sua lo dissuase dal
provare a mentire riguardo alle sue reali condizioni.
«Che sono qui per...
per salutarvi, o qualcosa del genere,»
rispose piano lui, con
un mezzo sorriso mesto che andava a celare la pressione di quelle
parole che sembravano pesargli sul volto, irrigidendone i
tratti.
«Ci tenevo a dirvelo di persona,» concluse,
abbassando lo sguardo e
aspettando una reazione alla quale non si era veramente preparato.
Come sempre, non metteva
mai in conto le conseguenze delle sue parole: si limitava a liberarle
e ad accendere la miccia, sperando che il tutto non gli esplodesse in
faccia. Non era sicuro che il Doc intendesse esattamente questo,
quando gli aveva suggerito di “mettere qualche punto
fermo”.
Dapprima aveva trovato ridicolo quel proposito, emerso durante una
delle loro chiacchierate. Poi si era reso
conto di averne un bisogno quasi spasmodico. Il primo tentativo con
Rhodey era
stato fallimentare, e non riusciva ancora a credere di aver mandato
in pezzi un'amicizia durata più di vent'anni. Erano serviti
quei
giorni in trasferta a Washington, lontano da Pepper, da Rhodey, dalla
Expo e da una città traboccante di ricordi, per fargli
apprezzare
davvero i benefici del rimanere da solo coi propri pensieri. Faticava
comunque a
ritrovare l'ottimismo che si era ripromesso di mantenere fino alla
fine ma, d'altra parte, non poteva neanche mentire alla squadra
dicendo con sicurezza che sarebbe andato tutto bene. Quella era una
bugia che prima o poi avrebbe dovuto smettere di raccontarsi, ma non
era quello il momento giusto per farlo.
“Va ancora
tutto bene,” si rammentò, impedendo al proprio
respiro di tradirlo
proprio adesso. “Ho ancora tempo,”
continuò, in quel mantra
insensato che aveva però il potere di calmarlo.
Rialzò lo sguardo,
trovando davanti a sé un solido muro
d'incredulità che mise a dura
prova la sua compostezza, ma che si impegnò a infrangere:
«Ehi, non pensavo
bastasse così poco a commuovervi,»
scherzò, con un gesto della
mano come a scacciare quell'aria negativa che sembrava comprimerli.
«Per ora sto bene, non c'è bisogno di fare quei
musi lunghi,»
riprese il discorso, con brio in parte forzato, in parte reale.
Si sentiva veramente molto
meglio dopo quell'iniezione di dilitio e abbastanza in forze da poter
fare tutto ciò che voleva, incluso scherzare sulle proprie
condizioni di salute, almeno in pubblico.
«Stark...» la voce di
Steve recava in sé una traccia di commiserazione
così palese che a
Tony quasi non saltarono i nervi, ma si spalmò una cortina
ironica
in faccia e si costrinse a non reagire in malo modo.
«Capitan Ghiacciolo,
non dirmi che stai per scioglierti in lacrime, quello potrebbe
veramente uccidermi,» si lagnò,
cercando con lo sguardo il
supporto dei suoi compagni, che però sembravano occupati a
trovare
una reazione consona al suo annuncio.
Si fece un po' più
serio, rendendosi conto che l'espressione addolorata del Capitano si
rifletteva anche sul volto degli altri, con vari gradi
d'intensità.
Si mosse a disagio al proprio posto, rimproverandosi mentalmente: che
si era aspettato?
In cuor suo, forse aveva
sperato che gli eroi più forti della Terra fossero in
qualche modo
anche meno toccati da eventi simili – meno umani –
o che ignorassero la cosa, o la
svalutassero come un problema minore che non li riguardava. Forse
così avrebbe avuto modo anche lui di ridimensionare tutto
ciò che
sentiva incombere su di lui.
«A cosa devo tutta
questa empatia?» commentò con forzata
impassibilità, sentendosi
invadere da un senso di calore per quell'evidente preoccupazione nei
suoi confronti, ma anche percependo una profonda frustrazione.
La reazione giusta sarebbe stata accettare il suo ritiro come un
qualcosa di sensato e tanti saluti ad Iron Man. Porte chiuse, punti
fermi: non sarebbe dovuto essere così difficile ottenerli.
«Sei un membro della
squadra,» intervenne Clint, nel suo solito tono piatto che
lasciava
però trapelare un'ombra di turbamento.
«Sei un amico,» lo
corresse Bruce, che aveva continuato a fissare il pavimento fino ad
allora, rigidamente a braccia conserte come se stesse cercando di
trattenere il proprio corpo pronto ad esplodere.
«E tu sei arrabbiato,»
ribatté Tony con più serietà,
accennando al suo orologio da polso
che segnava dei battiti cardiaci fuori norma.
«Lo sono sempre,»
alzò le spalle lui, per poi sospirare con irritazione.
«Capisco
perché tu non ce l'abbia detto prima, ma avremmo potuto
aiutarti,»
«Ne dubito,» lo
rimbeccò lui, bruscamente. «Cerco una soluzione e
un'alternativa al
palladio da quasi un anno e...»
«Non intendevo quello,
Tony,» Bruce scosse la testa, infastidito.
«Lo so,» scandì lui,
con un tremito nella voce. «Non sono un idiota, nonostante
tutti
continuino a pensarlo,» sbottò, irritandosi
repentinamente. «Ma
non volevo coinvolgervi per evitare di scatenare ciò che sta
succedendo adesso, ovvero l'avvicinarsi di una compassionevole
festicciola di piagnistei perché, oh, che dispiacere, Tony
Stark si
è finalmente deciso a morire davvero.»
Il gelo calò nella
stanza, nonostante l'aria attorno a loro sembrasse sfrigolare per la
tensione improvvisa. Tony si prese la radice del naso tra le dita,
immettendo più aria nei polmoni contratti e brucianti e
sentendosi
comunque pronto a esplodere di nuovo.
«Tony, nessuno
vuole che tu muoia.»
Steve pronunciò quelle
parole con una naturalezza e una traccia di infantile sconcerto tali
da indurlo a trarre un altro respiro profondo per non lasciarsi
sfuggire una replica sferzante. Era sull'orlo del vortice e
non capiva neanche come ci fosse arrivato; eppure era diventato abile
a sottrarsi al panico, e ancor più a impedire che
quell'ombra densa
e costante che si portava appresso lo ghermisse a tradimento,
spremendo fuori dalla sua mente ogni sprazzo di positività.
Lanciò uno sguardo ai
suoi compagni e percepì il loro disagio e la loro
confusione, ma
anche, gli sembrò, disprezzo e delusione: era sempre lui
l'anello
debole che rischiava di far sfaldare tutta la catena. Represse quei
ragionamenti, perché sapeva che provenivano dal vortice, ma
una
particella di dubbio continuò ad aleggiare nella sua testa,
e lui ad
oscillare sul bordo, incapace di tirarsi in salvo.
Gli si era inceppato il
meccanismo interno, quello inserito in qualche parte recondita nel
suo corpo che gli permetteva di andare avanti, di essere se stesso.
Era come se non fosse più lui a parlare, o muoversi, o
pensare.
Rimaneva solo un riflesso evanescente, sbiadito e apatico. Non erano
suoi quei pensieri, quella rassegnazione; sembrava semplicemente che
li captasse da qualcun altro nell'etere, ritrovandoseli in testa
senza sapere cosa farsene, o se fossero davvero suoi. E quel
meccanismo rimaneva bloccato, stridendo inutilmente nel tentativo di
riprendere a girare. Voleva sbloccarlo con tutte le sue forze. Voleva
tornare a respirare aria pura, a muoversi liberamente, a volare, a
combattere, a stringere Pepper a sé senza sentirsi
incompleto. Mai
come in quel momento aveva il bisogno di “mettere dei punti
fermi”.
Fece per
rispondere, ma si rese conto di non riuscire a formulare alcuna
parola arguta per farlo.
«Neanch'io voglio,»
gracchiò infine, lasciando svanire il suo primo,
superficiale strato
d'indifferenza e sfuggendo i loro sguardi. «Per questo mi
sto fidando di voi,» continuò, deglutendo
a fatica. «Ho solo
bisogno di qualcuno che mi copra le spalle mentre sistemo questo
casino,» concluse in fretta.
«Finché non tornerai,»
completò Bruce, fissandolo con un fare a metà tra
lo speranzoso e
l'intimidatorio.
Tony guardò ciascuno di
loro negli occhi, soppesando quella possibilità che gli era
sempre
sembrata uno spiraglio lontano e pronto a richiudersi, per poi
realizzare che voleva crederci con tutto se stesso.
«Finché non tornerò,»
concordò, tenendo aperto quello spiraglio.
***
29
Aprile, Manhattan, 22:30
Lo squillo del
campanello lo colse impreparato. Era sicuro che Pepper si sarebbe
fermata a dormire fuori, e il fatto che fosse invece di ritorno gli
causò un lieve picco d'ansia, considerando che non si
vedevano dall'inaugurazione. D'altronde, che bisogno aveva di suonare,
se aveva libero
accesso all'appartamento?
Lo squillo si ripeté,
fugando il dubbio che fosse stato solo un parto della sua mente
esausta. Distolse l'attenzione dalla tv e si forzò in piedi,
zoppicando poi verso la porta e rinunciando a recuperare il bastone
rotolato sotto il tavolino. Ignorò ogni norma di
sicurezza e buonsenso, preoccupandosi solo che il pigiama andasse a
coprire totalmente i segni dell'intossicazione, e aprì la
porta
senza controllare chi fosse l'inatteso visitatore notturno.
Quasi
perse l'appoggio della gamba sana nel ritrovarsi di fronte a Rhodey,
serio e compito sulla soglia, con le mani giunte in grembo quasi
fosse sull'attenti. Tony trasecolò ancora
qualche istante, mentre il suo sarcasmo di solito estremamente
reattivo arrancava per tenere il passo con la situazione.
«Non ho ordinato nulla
a domicilio,» sparò, fingendo rammarico.
«Quindi, se vuole
lasciarmi alle mie occupazioni notturne le sarei più
che...»
Rhodey sospirò così
sonoramente da farlo interrompere.
«Sei uno stronzo,»
dichiarò, e prima che potesse rispondere a tono, fu attratto
da lui
in un abbraccio tanto impacciato quanto energico.
S'irrigidì per un
singolo istante, percependo mille sensori d'allarme che scattavano
all'unisono per quel contatto inaspettato, ma li mise a tacere con
foga, e ricambiò con qualche istante di ritardo, altrettanto
goffamente.
«E te ne accorgi ora?»
bofonchiò divertito, tremando appena per il sollievo di
rivedere il
suo migliore amico. «E poi, non sono io quello che ha
detto...»
«Lo so quello che ho
detto,» si affrettò a troncarlo l'altro, dandogli
una pacca sulla
schiena per poi lasciarlo andare con sguardo contrito, una mano
ancora sulla sua spalla. «Mi dispiace. Non ero
lucido,» ammise, e
Tony notò come i suoi occhi scattarono fugaci verso il
reattore.
Fu grato che non fosse
visibile, sebbene la luce azzurrina trapelasse fiocamente sotto la
stoffa scura. Rimase in silenzio per qualche istante, con le parole
della loro precedente discussione che gli rimbombavano in testa.
Avrebbe potuto rinfacciargliele e spintonarlo via, ma il timore di non
poter avere un'altra occasione per rivederlo mise a tacere quel
proposito.
«Adesso che abbiamo
concluso i saluti strappalacrime, vorrei evitare che mi si congeli il
piede che mi rimane,» osservò, accennando alle
piante nude sul
pavimento di marmo gelido. «Quindi, se vuoi
accomodarti...» si fece
da parte, invitandolo con un gesto del capo.
Rhodey sembrò sorpreso
da quella sua reazione, forse aspettandosi più freddezza, o
più
sarcasmo, o semplicemente distacco come aveva fatto in precedenza e
in più occasioni, poi lo superò con poche, ampie
falcate. Tony chiuse la porta
alle sue spalle e optò per sedersi su uno dei vicini
sgabelli
della
penisola, piuttosto che sul divano, visto che la protesi inferiore
gli stava ricordando di non essere proprio in piena forma. Rhodey
notò quella
deviazione e sembrò sul punto di commentarla, ma si
trattenne
visibilmente. Tony gli scoccò un'occhiata penetrante, prima
di
lasciar andare un sospiro esasperato.
«Rhodey, sto bene,»
puntualizzò, lasciando ondeggiare appena il piede meccanico
nel
vuoto. «Penso di averlo ripetuto più volte in una
settimana che in
tutta la mia vita,» aggiunse poi, poggiando il gomito sul
tavolo in
una posa svogliata.
Rhodey in tutta risposta
scosse la testa e si sedette sullo sgabello accanto al suo,
voltandolo poi verso di lui.
«Ti rendi conto di non
essere credibile, vero?»
Tony tirò le labbra e
si limitò ad allungarsi sul piano per afferrare una
borraccia di
clorofilla, prendendo poi a sorseggiarla con la massima disinvoltura.
«Potrei stare peggio,»
borbottò poi, in automatico e senza troppa convinzione.
Si premurò di
sistemarsi la maglietta che era scivolata troppo in avanti, scoprendo
una porzione dell'intreccio violaceo sottostante; sapeva che Rhodey
l'aveva comunque adocchiato, così come aveva sicuramente
notato il
suo deperimento.
«Vuoi spiegarmi?» lo
incalzò a quel punto l'amico, e il suo tono insolitamente
pacato gli
fece chiedere se l'avesse mai visto così teso in vita sua,
lui che di solito non ci pensava due volte a mandarlo a quel paese
quando gli faceva perdere le staffe.
«È una storia lunga,» svagò
Tony, pur consapevole che esigere delle spiegazioni riguardo a tutto
ciò che gli aveva rivelato fosse lecito.
«Mi
accontento anche di un riassunto,» ritrattò
Rhodey, quasi ad attenuare la
sua richiesta.
«Hai così tanta fretta
di andar via?» evitò di rispondere lui.
«Sapevo che avrei dovuto cavarti fuori ogni parola con la
forza,» si scoraggiò l'altro.
«Non vedo il motivo di
tenermi altri segreti.» Tony bevve un altro sorso di
clorofilla, a prendersi
una breve pausa, poi ripose la borraccia ormai vuota per sostituirla
con un bicchier d'acqua. «A
quale puntata delle “Mirabolanti Avventure di
Tony Stark” sei rimasto?»
«Al “sono un idiota
che mente al mio migliore amico”,»
replicò secco Rhodey, e Tony
si lasciò sfuggire un mezzo sorrisetto amaro nel veder
riemergere
l'indole intransigente di Rhodey.
«Ti beccherai quel
riassunto a breve,» temporeggiò lui,
suscitando un lieve fastidio sul volto dell'amico. «Tu,
piuttosto,
cosa ti spinge a bussare alla mia porta a quest'ora indecente? A parte
la sete di conoscenza, intendo,»
rivoltò poi il discorso, indicandolo con un guizzo furbo
della mano.
Rhodey si accomodò sul
suo sedile e intrecciò le mani sul tavolo, come faceva
sempre quando
si trovava in una posizione che riteneva difficile. Tony attese
pazientemente la risposta, anche se aveva un tangibile presentimento
sui motivi che potevano aver fatto cambiare idea a una testa dura
come Rhodey in modo così repentino.
«Fury mi ha convocato
per discutere del progetto War machine,» disse infatti, e
Tony
abbassò lo sguardo al bicchiere che teneva in mano,
improvvisamente
concentrato a seguirne i rilievi coi polpastrelli.
“Non ha davvero perso
tempo,” osservò tra sé, indeciso se
ritenersi compiaciuto o meno
per quella solerzia nei suoi confronti.
«E?»
«E ho rifiutato.»
«Rhodey...»
Tony si abbandonò sullo
schienale, con l'impressione di potersi liquefare e scivolare a terra
in una pozzetta di scoramento da un momento all'altro, mentre il
sollievo che si era aspettato di provare si convertiva in uno
stringente nodo d'ansia.
«Non se ne parla,
Tones. Non ho alcuna intenzione di prendere il tuo posto; al massimo
potrò affiancarti in futuro, se ancora vorrai,»
continuò
serratamente.
“In futuro,”
pensò
lui tra sé con disfattismo, scoccandogli uno sguardo
incredulo, e
Rhodey lo sostenne senza alcuna esitazione.
«Non so se essere
commosso o arrabbiato,» sbottò poi, poggiando la
fronte al palmo
della mano. «Mi farete diventare pazzo. Tu, Fury, la banda di
stramboidi e Pepper,» sbottò con incontenibile
frustrazione.
«Perché ci
preoccupiamo per te?»
«Cos- No! Cioè,
sì,
anche per quello!» s'infervorò lui, agitando le
mani. «Fury si
scusa con me, i Vendicatori non vogliono che me ne vada, tu mandi
all'aria i miei buoni propositi per non rendere inutile tutto
ciò che ho
fatto e Pepper non...» incespicò, costretto a
riprendere fiato e
incapace di formulare qualsiasi pensiero coerente riguardo a lei.
Rhodey gli rivolse uno
sguardo inquisitore.
«Non mi dire che avete
litigato di nuovo.»
«Non esattamente. In
realtà siamo... come dire...» roteò la
mano in un gesto vago, come
se bastasse a spiegare tutto.
«Ti prego, dammi la
notizia che aspetto da dieci anni,» quasi lo
implorò Rhodes,
mettendo per un attimo da parte tutto il resto.
Tony si rifugiò dietro
un sorrisetto poco convincente.
«È successo quel che è
successo,» lo sviò, senza soddisfare la sua
curiosità. «Ma il...
tempismo è pessimo, come puoi
intuire,»
articolò evasivo.
Rhodey incrociò le
braccia e lo fissò severamente, come se stesse cercando di
risolvere
un puzzle particolarmente complesso da cui mancavano però un
paio di pezzi. Poteva quasi vedere le sue rotelle girare cigolando
dentro la sua testa.
«E quindi?» proferì
dopo qualche secondo di attento ragionamento. «Lasci che vada
tutto
a monte?»
«L'alternativa qual è?
Morirle tra le braccia?» scattò Tony, facendosi
caustico, e si pentì delle
sue parole nel vedere l'espressione sempre immutabile dell'amico
rattristarsi appena.
«L'alternativa è fare
quello che volete fare da una vita,» ribatté
calmo, pur con la
mascella contratta che sembrava dover tenere a bada i suoi occhi ora
lucidi. «E spero davvero che lei non ti senta mai dire
qualcosa
del
genere, considerando quello che le hai fatto passare l'anno
scorso,»
aggiunse più duramente.
«Quello è esattamente
il motivo per cui voglio tenerla lontana,»
s'intestardì lui,
puntando un indice contro il tavolo a sottolineare il concetto.
«Pensi che altrimenti esiterei?» si
lasciò sfuggire poi, con
un'incertezza fin troppo marcata.
“Esiterei?” si
chiese in risposta quella vocina che gli strisciava in testa,
ricordandogli del ferro, e delle cicatrici, e delle ferite che
potevano riaprirsi al minimo tocco.
«Tony, vuoi darti una
svegliata?» sbottò Rhodes, improvvisamente
accalorato. «Piantala di trovare scuse: ci siete
entrambi dentro fino al collo, a prescindere da come stai o cosa hai
fatto! Ti sta
accanto da mesi, le hai affidato l'azienda... vivete
insieme,
maledizione, per quanto vuoi fare finta che...»
«Ci sono dei limiti,
Rhodey,» replicò piano lui, in un tono molto
più calmo di quanto
non si sentisse lui stesso; si strinse d'istinto il ginocchio della
protesi.
«Sei tu a importeli,»
lo rimbeccò l'amico, senza cedere di un passo.
«Non penso proprio,»
ribatté lui, con veemenza. «Non me li sono scelti
io, questi
“limiti”,» proseguì, alzando
il braccio meccanico con fare
esplicativo, per poi interrompersi di colpo nel realizzare cosa
avesse appena rivelato.
Rhodey sembrò
momentaneamente spiazzato dal modo in cui la discussione era
scivolata dall'ambito metaforico a quello fisico, a riconfermargli
che nessuno era mai stato sfiorato dal pensiero che lui,
Tony
Stark, potesse avere un problema col proprio corpo.
«No, ma hai scelto di
vederli come tali,» si riprese l'amico, con considerevole
prontezza. «Quelle
dovrebbero ricordarti che li hai superati,
piuttosto. E pensi davvero che a Pepper interessi come sei
fatto?»
Tony poté percepire
chiaramente una vampata di calore risalirgli al volto, subito
interrotta da un velo di sudore gelido e dalla sensazione che il suo
intero corpo fosse stato prosciugato di ogni goccia di sangue.
Perché
stavano parlando di quello? Rhodey non era venuto a
rimproverarlo per avergli mentito? Iniziava a desiderare di non aver
mai aperto la porta.
«Ha detto di no, ma...»
iniziò in tono stanco, quasi distratto, volendo solo
disconnettersi dalla realtà.
A quel punto fu convinto
che Rhodey fosse sul punto di mettergli le mani addosso e porre
fisicamente fine alla loro amicizia, visto che quasi scattò
in piedi
all'istante.
«Te l'ha detto?
Esplicitamente?» lo incalzò, pressante.
Tony fece solo un breve
cenno d'assenso, percependo di nuovo quel pesante senso di
spossatezza a cui iniziava a fare l'abitudine che si adagiava sulle
sue spalle.
«E... e non ci credi?» cercò di
raccapezzarsi
Rhodey, sempre più sconcertato.
«Sì, ma non è così
semplice,» mormorò lui, sentendosi distante,
ancora una volta
costretto a specchiarsi nel vortice e a trovare un'immagine che non
gli corrispondeva a ricambiare il suo sguardo. «Ci sto
provando,»
continuò, con voce spenta. «Ci sto provando e non
so se ci riuscirò
in tempo,» confessò poi, sentendo i muscoli
contrarsi e le parole
trapelare appena dalla sua mascella serrata.
Rhodey sembrò
finalmente a corto di parole e Tony lesse nei suoi occhi la paura che
aveva cercato di tenere a bada fino a quel momento, emersa senza
preavviso. Cercò di cavarsi fuori di bocca qualche parola
rassicurante, ma Rhodey lo anticipò e si alzò
piazzandosi di fronte
a lui, improvvisamente rianimato:
«Lo sai che ti dico?»
esordì con fare perentorio, nonostante la sua voce tremasse
sensibilmente. «Che avevi ragione: la depresso-mobile
è una rottura
di palle,» sbottò, puntandosi le mani sui fianchi
e facendogli
alzare un sopracciglio perplesso in risposta.
«Ecco, quando dico che
non hai un briciolo di sensibilità è a questo
che...»
«... quindi adesso sali
sulla mia spasso-mobile senza fare storie
e...»
«Piantala, non fai
ridere,» protestò lui, scivolando poi
giù dallo sgabello e
trattenendo al contempo una risatina traditrice.
«... e ti ricordi chi
cavolo sei,» concluse, calandogli una mano sulla spalla sana.
«Un idiota?» sparò
lui, con un sospiro esagerato.
«Un grandissimo
idiota,» specificò Rhodey, sempre serissimo.
«E un bugiardo, e un
cataclisma, e colui che mi ha fatto rischiare l'espulsione un centinaio
di volte e che mi farà prendere un esaurimento nervoso. Ma
sei anche Tony Stark. E deve ancora arrivare il problema che tu
non sai risolvere,» continuò, adesso
stritolandogli la spalla,
quasi volendosi aggrappare con tutte le sue forze a
quell'affermazione.
Tony sbuffò, restio ad
abbandonare il proprio scetticismo, ma sentì un sorriso
sincero
tendergli le labbra. Gli strinse esitando il polso, aggrappandosi a
sua volta a quell'isola di certezza e supporto che aveva scelto di
ignorare fino ad allora, quel punto fermo che aveva deciso di
cancellare per timore di vederlo svanire e allontanarsi da lui. Avrebbe
dovuto dire
molte cose, scusarsi, ringraziarlo o rassicurarlo, ma si rese conto
che, con Rhodey, non ce n'era mai stato bisogno.
«Lo vuoi ancora, quel
riassunto?» disse invece, senza più esitare.
Rhodey lo fissò
sorpreso, per poi rivolgergli un sorriso incoraggiante.
«Certo. Ma la
spasso-mobile ha bisogno di un paio di birre per carburare,
quindi...»
«Sei un deficiente,» sentenziò Tony
ridendo, dandogli uno spintone mentre si avviava verso il frigo.
***
30
Aprile, Manhattan, 11:00
«Com'è
andata?»
«Come vuole che sia
andata, Doc... esattamente come avevo previsto. Sono emotivamente
compromesso.»
«Il che non è per
forza un male... come si sente in generale?»
«È lei lo
strizzacervelli, quindi mi aiuti a decidere tra
“depresso” o
“disperato”.»
«Altre opzioni?»
«“Sorprendentemente
sollevato” si guadagna il terzo posto.»
«Non vorrei suonare
ridondante, ma gliel'avevo detto.»
«Qual è il prossimo
passo? Farmi scrivere letterine di scuse ai compagni delle elementari
che ho offeso?»
«Le giuro che se
continua a fare un uso improprio del sarcasmo la spedisco davvero
a Kathmandu a ritrovare la pace interiore.»
«Mi sembrava di aver
già declinato l'esilarante offerta del suo amico
schizoide.»
«Sono più scettico di
lei, lo sa, ma potrebbe almeno prenderla in considerazione
se...»
«Doc, per me è già un
grande sforzo accettare di essere sdraiato su un lettino a parlare
con il soffitto, non mi ci vedo proprio a gambe incrociate con un
turbante in testa, mh?»
«Ci ho provato. Adesso
che si è tolto un po' di preoccupazioni, ha deciso di cosa
vuole
parlare?»
«Uh, bella domanda...
ho un repertorio quasi infinito da cui scegliere.»
«Il mio datore di
lavoro mi ha concesso due ore, se ben ricorda...»
«Dunque, potrei
cominciare da... non so, dal fatto che avevo ancora una balia a
quattordici anni? Non so se c'entri molto, ma...»
«Senta, perché non comincia
dall'inizio?»
«E quale sarebbe?»
«Non devo dirglielo
io.»
«Facciamo Gennaio 2009? Quello
mi sembra un buon
inizio...»
***
30
Aprile, Stark Expo, 20:15
La concentrazione di
ossigeno nell'aria si era decisamente rarefatta. Non riusciva a
capire se fosse il buio interrotto qua e là dai faretti ad
accentuare quell'impressione, o l'afa soffocante che regnava dietro
le quinte. Un altro colpevole piuttosto probabile poteva essere il
suo papillon troppo stretto, che sciolse per l'ennesima volta con un
gesto brusco, ponderando se non fosse il caso di abbandonarlo del
tutto.
Si sfregò il viso, per
poi imprecare quando rischiò di far staccare
inavvertitamente la
benda adesiva, che si affrettò a far aderire di nuovo alla
cicatrice. Controllò per l'ennesima volta l'orologio, che
ticchettava inesorabile, e indirizzò un cenno di OK a uno
degli
addetti, a intendere che era pronto a entrare sul palco – una
palese menzogna. Sperò che
la sua facciata sicura di sé non stesse vacillando come le
sue gambe
e strinse più volte i pugni, scrollando le spalle per
sciogliere la
tensione, poi si cacciò il bastone sotto il braccio e
provò di
nuovo ad annodarsi il papillon. Le dita gli tremavano così
tanto
che riusciva a malapena a mantenere la presa, e per un attimo non vi
fu differenza tra quelle vere e quelle metalliche. Rinunciò
con un lento
sospiro, lasciando i due lembi a ricadere sulla camicia immacolata.
Si accasciò lateralmente contro il muro, traendo ancora
molti,
inutili respiri profondi, sentendosi la gola costretta in una
tenaglia.
Forse poteva fingere uno
svenimento. Sarebbe stato meglio o peggio di farsi prendere un
attacco d'ansia in diretta? Il suo intero corpo era in tumulto: per
quanto ne sapeva, poteva essere sull'orlo di un infarto. Si
portò
una mano al petto, dove erano raggruppate le schegge, e gli parve di
avvertire un dolore sordo. Si inumidì le labbra, spostando
la mano
sul reattore e lasciando che il suo basso ronzio fungesse da
calmante, scacciando quelle sensazioni fasulle. Era tutto
sotto controllo. Avrebbe sempre potuto tagliare
la presentazione e anticipare la sua uscita di scena.
Il suo ennesimo sospiro
nervoso fu interrotto da un rumore improvviso.
Tacchi. Si
avvicinavano, cadenzati, e il suo cuore prese a palpitare a
singhiozzo quasi cercasse di seguirne il ritmo. Tenne lo sguardo
fisso sulle punte lucide delle sue scarpe, e osò alzarlo
solo quando
il rumore si interruppe. Si sentì sciogliere dal sollievo,
tanto che
non si arrischiò a lasciare il proprio appoggio.
«Scusi il ritardo,»
esordì Pepper, a bassa voce per non turbare la quiete
soffusa. «Sono
stata intercettata dalla stampa,» spiegò, e
controllò rapidamente
che il suo elaborato chignon fosse ancora intatto; la sua solita
ciocca ribelle era comunque sfuggita al laccetto a sua insaputa,
arricciandosi a incorniciarle il viso.
Tony notò solo allora
quanto sembrasse accaldata, come se avesse corso. O forse si era solo
infuriata con qualcuno dei giornalisti – e in quel caso
poteva
farsi anche un'idea di chi potesse essere.
«Pensavo che non
sarebbe venuta,» si lasciò sfuggire, e Pepper
quasi sbarrò gli
occhi per la sorpresa, per poi addolcirli appena.
«Gliel'avevo promesso,»
dichiarò con semplicità.
Tony preferì non
soffermarsi troppo su quelle parole, che avevano uno spiacevole
retrogusto d'obbligo a cui non volle dar peso: conosceva Pepper quel
tanto che bastava per sapere che, se era lì, era
perché voleva
esserci.
Si distolse dai suoi
pensieri quando udì in sottofondo la voce decisa e un po'
gracchiante di suo padre: il filmato d'introduzione doveva essere
partito, concedendogli gli ultimi minuti di
preparativi.
Fu allora che la donna
adocchiò fugacemente il suo papillon sfatto, in una domanda
silenziosa.
«Le... le dispiace?» mormorò
lui, appena udibile e senza incrociare il suo sguardo, sollevando
un'estremità del nastro tra le dita ed esitando ad
aggiungere altro
per giustificare quella richiesta.
«Ancora non ha
imparato?» lo trasse d'impaccio lei con un sorriso leggero.
«Perché devo imparare,
se c'è lei?» rispose furbamente, in un guizzo
d'impertinenza che
suscitò un lieve sbuffo da parte sua che poté
percepire sulla propria pelle.
Non sapeva perché si
fosse cacciato in quel vicolo cieco, quando la soluzione più
semplice sarebbe stata togliersi quell'affare dal collo; si maledisse
ancora quando Pepper si accostò a lui, riducendolo a un
unico, teso
fascio di nervi pronti ad andare in cortocircuito. Tenne
lo sguardo puntato dietro di lei nei pochi secondi che le servirono
ad annodare impeccabilmente il papillon, lasciandolo abbastanza lento
per permettergli di respirare quel cocktail di anidride carbonica che
era diventata l'aria attorno a lui – la stessa che stava
respirando
lei, ora così vicina da poterle contare le ciglia.
«Perfetto,» annunciò
con soddisfazione, raddrizzando il fiocco e riguadagnando le
distanze.
Prima
che completasse il movimento, Tony protese appena la mano sfiorandole
le
dita, ignorando il suo buonsenso – che non era davvero
il suo buonsenso, lo sapeva, ma piuttosto la vocina maligna che
risaliva il vortice e
voleva devastarlo camuffata come tale. Lei lo guardò
meravigliata,
ma non si ritrasse a quel contatto appena accennato che Tony stava
cercando in tutti i modi di mantenere, nonostante la paura folle che
gli pulsava nello stomaco.
«Sei bellissima,»
mormorò sincero, contrastandola e intrecciando al contempo
le dita alle sue,
bollenti tra le proprie nonostante si sentisse lui stesso sul punto
di squagliarsi.
Pepper ricambiò
delicatamente la stretta, abbassando gli occhi chiari come sempre
quando la metteva in imbarazzo.
«Grazie,» replicò
piano. «E anche tu non hai niente da invidiarmi,»
aggiunse, con un
lieve, genuino impaccio che accentuò le fossette sulle sue
guance.
Tony mancò un paio di
battiti, non riuscendo a ricordare l'ultima volta che qualcuno gli
aveva detto qualcosa del genere, soprattutto ultimamente e soprattutto
in modo così
spontaneo. Riuscì a sciogliersi in un sorriso esitante.
Vi fu un breve momento
di silenzio, interrotto solo dal discorso ovattato che risuonava
dagli altoparlanti e dal mormorio del pubblico poche decine di metri
più in là.
«Sto
letteralmente per mettermi a nudo di fronte al mondo,»
riprese Tony
sempre a bassa voce; nel parlare strinse con più forza la
sua mano, non poté
farne a meno. «Questo
dovrebbe essere più semplice,» accennò
col capo alle loro dita
intrecciate, sperando che capisse quello che neanche lui era in grado
di esternare a parole.
«E perché non lo è?»
gli chiese, senza alcuna malizia ed evitando di guardarlo, forse per
non farlo sentire pressato.
Una bolla di silenzio
assoluto li avvolse, per poi scoppiare al vigoroso applauso del
pubblico: il filmato era giunto al termine. Le ovazioni della folla
invisibile a pochi passi da loro mandarono fuori tempo il suo cuore,
dandogli l'impressione che si stesse affrettando nella sua corsa per
recuperare il ritmo.
Deglutì a fatica.
«Non lo so, ma
forse...»
«Forse non è questo il
momento più adatto,» concluse lei, con dolcezza, e
Tony annuì
grato in risposta, rilassandosi un poco.
«Più tardi?»
arrischiò subito dopo, fissando il palco illuminato e in
loro
attesa.
Pepper esitò, forse
presa alla sprovvista da quella richiesta.
«Più tardi,» confermò
poi, regalandogli un sorriso attraversato da una vena di nervosismo.
Tony mosse un passo
titubante verso il palco, e non poté frenare il lieve
tremito che
gli invase la mano, subito bloccato dalla presa salda di Pepper. Si
arrestò sulla linea d'ombra che lo divideva dalla luce dei
riflettori. Cercò il suo sguardo e lo trovò, come
sempre: due soli
azzurri in una costellazione di efelidi.
Strinse un'ultima volta la
sua mano, per poi lasciare la sua sicurezza e fare per primo il suo
ingresso sul
palco, lasciandosi inghiottire dalle acclamazioni.
***
1°
Maggio, Manhattan, 02:30
«È andata
bene,»
commentò infine Tony, dopo un silenzio che come pochi giorni
prima
si era prolungato per tutta la lunga, tesa mezz'ora di tragitto da
Flushing Meadows a Manhattan.
Passò la tessera
magnetica nel lettore di fianco alla porta, offrì l'impronta
del suo
pollice sul touch-screen e la serratura si sbloccò,
consentendo loro
l'accesso all'appartamento.
«Direi di sì,»
replicò Pepper con qualche secondo di ritardo, varcando la
soglia
prima di Tony, che le tenne aperta la porta con spontanea galanteria.
«Mi hanno applaudito,»
rincarò lui, quasi apprensivo, gettando la giacca dello
smoking
sullo schienale del divano e liberandosi del papillon, come un
condannato graziato all'ultimo che si libera del nodo scorsoio.
«E la cosa la
stupisce?»
Pepper stava
accuratamente evitando di guardarlo in volto, ma almeno sembrava aver
ritrovato la parola; lui si impegnò a sua volta a
distogliere educatamente lo
sguardo quando lei si chinò accanto a lui per togliersi i
tacchi.
«Un po'. Mi aspettavo
fischi e gente che prendeva torce e forconi per la caccia al
mostro,»
sbuffò, attraversando il salone e lasciandosi cadere sulla
poltrona con malcelata insofferenza, dopo aver abbandonato il bastone
per terra senza troppe cerimonie.
Stese la gamba meccanica sul poggiapiedi e si beò del netto
sollievo che si propagò dal moncherino in su non appena la
pressione
su di esso diminuì. Probabilmente sarebbe stato meglio
rimuoverla
per la notte, ma piuttosto che compiere l'operazione davanti a Pepper
avrebbe preferito tornare sul palco con migliaia di occhi appuntati
addosso.
«In tal caso, non
saresti stato tu a dover scappare,»
osservò lei, con una
luce vagamente omicida negli occhi che la diceva lunga sulla linea di
difesa che stava progettando in previsione dell'imminente boom di
gossip.
«Ricordami di non
prestarti mai l'armatura,» sorrise Tony,
ricevendo uno sbuffo
divertito in risposta, in verità non molto rassicurante.
La osservò affascinato
mentre si liberava con sollievo i capelli dalla complessa
acconciatura in cui erano costretti, togliendo una ad una le forcine e
lasciandoli ricadere in onde
ramate sulle spalle, per poi raccoglierli di nuovo in una crocchia
morbida. Lei intercettò il suo sguardo e Tony lo
abbassò con un istante
di ritardo; colse un sorrisino esitante da parte sua, ma poteva anche
essere stato solo un'ombra fugace.
La donna si sedette
nell'angolo del divano a un passo dalla sua poltrona, con le gambe
ripiegate sotto di sé, e Tony torse appena il busto per
rivolgersi
verso di lei, nonostante nessuno dei due sembrasse avere intenzione
di guardare in faccia l'altro.
«Vuoi ancora parlarne?»
cominciò esitante Pepper dopo quelli che parvero interi
minuti,
riprendendo il discorso lasciato in sospeso dietro le quinte.
Tony sfuggì il suo
sguardo e lo puntò sulla skyline di New York, fingendo
interesse per
un elicottero di passaggio e fingendo anche che le sue budella non
avessero preso ad annodarsi tra loro in modi fantasiosi e
inestricabili.
«Ne ho già parlato col
Doc,» esordì, sviando solo momentaneamente il
discorso, e poté
cogliere il moto di sgomento della donna anche senza guardarla.
«E
con Rhodey. E anche la presentazione di oggi ha aiutato a vedere il
tutto in modo più... razionale.» Esitò,
umettandosi le labbra.
«Sono riuscito a mettere qualche dettaglio in prospettiva.
Vorrei
fare lo stesso adesso, con te,» enunciò d'un fiato.
Le scoccò un'occhiata
di sottecchi e mantenne il capo chino, accavallando le gambe
nonostante la fitta lancinante che ciò gli
provocò.
«Hai risolto con
Rhodes?» s'informò lei, con chiara aspettativa, e
Tony non si stupì del fatto che avesse frenato la sua
curiosità per altre questioni concentrandosi su quella che
sapeva essere importante per lui.
«Se ieri fossi tornata, ci avresti trovati mezzi brilli a
rivangare tutte le cazzate
che abbiamo combinato al MIT,» offrì lui in
risposta, con un
sorriso sghembo che lei ricambiò appena.
«Sono contenta che
abbiate chiarito. Rhodey ci tiene, a te,» aggiunse, con
ovvietà.
«Lo so. Forse anche più
di quanto mi merito,» ribatté, con un pizzico di
amarezza, e non
riuscì a frenare uno sguardo verso di lei, a sottintendere
tutte le
altre cose che non si sarebbe meritato.
«E in base a cosa decidi
cosa ti meriti?» gli chiese a tradimento Pepper, con una
calma
assoluta che non gli riusciva di decifrare come positiva o negativa.
«Diciamo che essere un
C-3PO mancato non aiuta la mia causa,» ribatté
spigliato, col suo
solito fare sicuro minato in verità da mille dubbi, e nel
dirlo
sollevò la protesi.
«Hai parlato anche di
questo, con Ian e Rhodey?» indagò Pepper, e Tony
fu grato per
quella sua pacatezza, e per il modo in cui stava cercando di non
farlo sentire giudicato mentre si addentravano nell'argomento.
«Più o meno,»
bofonchiò, sprofondando più comodamente nella
poltrona. «Non di
tutto. Ho pensato che fosse meglio chiarire un paio di fatti solo con
te,» spiegò, con crescente nervosismo.
«Ti ascolto,» rispose
lei, senza esitare.
A quel punto sollevò lo sguardo verso
di lui,
in attesa. Lui tentennò. Di nuovo,
sapeva cosa stava facendo... e non lo sapeva, brancolava nel buio dei
suoi stessi pensieri, che ormai vedevano solo un solido muro a tre
mesi di distanza. E non sapeva parlare alle persone; soprattutto, non
sapeva parlare di se stesso ad altri, e farlo con Pepper era quanto
di più terrificante riuscisse a immaginare. Ma doveva
riuscirci.
«Che non straveda per
il mio corpo credo sia evidente,» proferì infine,
frettolosamente,
come se il minimo istante di esitazione avesse potuto far svanire
quelle parole. «D'altronde, non pensavo che la clausola del
contratto per diventare Iron Man implicasse diventarlo di nome e di
fatto.»
Nel momento stesso in
cui finì di parlare, ebbe la netta impressione di essere
completamente nudo di fronte ai suoi occhi, con anche un paio di
riflettori a mettere in risalto ogni suo difetto. Strinse i denti e
incrociò le braccia facendosi più piccolo che
poté sul suo sedile, colto
dalla frustrazione e da quel bisogno improvviso e vitale di ritrarsi,
coprirsi e nascondere le sue brutture, le sue ferite, le sue protesi,
tutto ciò che percepiva come sbagliato ed estraneo e che
pesava ogni
giorno di più. Desiderò di avere di nuovo
l'armatura addosso per
potersi almeno librare in aria nonostante quel fardello.
«E da quando è
diventato un problema?»
La voce gentile di
Pepper fu un balsamo. Tony masticò a vuoto, cercando il
coraggio che
gli era mancato per più di un anno.
«Non so dire con
esattezza quando,
ma... la mia immagine pubblica non ha
aiutato,»
confessò infine, con lo sguardo puntato con decisione su una
giuntura della protesi inferiore, escludendo tutto ciò che
lo
circondava e cercando di ignorare la sensazione che qualcuno stesse
sghignazzando alle sue spalle. «Insomma, per mesi non si
è parlato
d'altro che... lo sai. Avrai letto lo scoop della Everhart,»
s'impappinò,
odiandosi per quelle incertezze e per non essere più in
grado di
calare una rassicurante maschera sul proprio volto.
«L'ho letto,» rispose
Pepper, gli parve con freddezza. «E non sei certo tu
a
doverti vergognare,» concluse, e una occhiata fugace nella
sua
direzione bastò a focalizzare il suo cipiglio
improvvisamente fosco.
«Forse è davvero un bene non saper usare la tua
armatura,»
aggiunse, in un blando tentativo di calmarsi che non soffocò
comunque la sua voce vibrante d'indignazione.
Tony le sorrise, e
percepì un sordo indolenzimento al centro delle spalle non
appena i
suoi muscoli contratti si rilassarono appena, per poi contrarsi alle
successive parole della donna:
«Non fraintendermi:
penso ancora che tu abbia agito in modo sconsiderato, ma non per i
motivi che pensi tu,» puntualizzò, adesso
lievemente irritata. «Se
non fosse stato per quelle foto, avremmo concluso il processo molto
prima,» spiegò poi, con voce priva d'inflessione.
«Quindi è solo
per quello?»
Tony non poté nascondere un pizzico
di delusione che
si rendeva conto essere totalmente fuori luogo, e che
suscitò infatti lo
sguardo severo di Pepper.
«Ho visto donne uscire
dal tuo letto per dieci anni, Tony. Non sono così
impressionabile,»
replicò, con secca schiettezza e un alone rosso che iniziava
a
propagarsi sulle sue guance.
«Il contratto di
sincerità vincola entrambi,» le ricordò
senza scomporsi,
indirizzandole un occhiolino d'incoraggiamento.
Lei esalò un sospiro,
in cui a Tony parve di sentire un sorriso. Nella penombra, non poteva
esserne certo.
«Mi ha... infastidita,»
ammise, laconica e vagamente scocciata.
«Vede? Ormai la conosco,
signorina Potts,» esultò lui, rivolgendole
però uno sguardo privo
di malizia e colmo invece di colpevolezza, ora certo di quanto quel
fatto l'avesse turbata all'epoca.
«Ti ricordo che
all'inizio tu eri geloso di Kyle,»
contrattaccò Pepper, inoppugnabile.
«Touché,»
sospirò a sua volta Tony, colto in fallo e senza argomenti a
suo
favore.
Un breve silenzio seguì
quella parentesi scherzosa, lasciando loro modo di riprendere il filo
dei propri pensieri.
«Quando sei tornato
dall'Afghanistan ho apprezzato il tuo “cambio
d'abitudini”,»
riprese poi Pepper, attirando di nuovo la sua attenzione.
«Quello
che hai fatto con la Everhart mi ha... spiazzato. Credevo di aver
frainteso tutto.»
Tony inspirò a fondo, e
a lungo, prima di decidersi a rispondere.
«Ero talmente
arrabbiato, Pep. Avevo bisogno di... distrarmi, di sentirmi normale,
magari di tornare per un attimo ai “vecchi tempi”.
Ho ceduto. E
dopo ero solo più arrabbiato con me stesso, con lei, col
mondo che
mi avrebbe riso in faccia come in effetti ha fatto...»
risucchiò un
respiro tremolante. «È andato tutto a catafascio
da lì in poi, per
una scopata finita male,» sbottò, in un tentativo
d'ironia che si ridusse a uno sbocco di fiele.
Il solo ricordo gli
causò una vampata di vergogna che gli risalì al
volto, e fu lieto di non essere in piena luce.
«È per quello che ti
sei ubriacato e... e tutto il resto?»
«Anche,» Tony soppesò
la domanda, faticando a trovare dei nessi logici nelle sue azioni.
«Avevo rovinato tutto con le mie mani, ti avevo messa in
mezzo al
processo e avevo allontanato te e chi cercava di aiutarmi,»
disse
d'un fiato, gettando fuori tutto, di nuovo, come aveva fatto con Ian
e con Rhodey.
E stavolta fu più
facile, come se si fosse allenato a dovere per una corsa invece di
presentarsi il giorno della gara pretendendo di vincere senza aver
fatto sforzi.
«Poi ti ho ferita, e
quello è qualcosa che non potevo e non posso
perdonarmi,»
concluse, stentando a trovare la voce.
«Tony, è stato un
incidente,» replicò lei, senza rancore, ma
notò il modo in cui
portò la mano al braccio, proprio dove le aveva fatto male.
«Essere stato ubriaco
non è una scusa, anzi,» la contraddisse, senza
vacillare e
rifiutando giustificazioni inesistenti.
«Infatti non lo è,»
ribadì lei, con durezza e senza scontare le sue
responsabilità. «Ma
so che non lo faresti mai di proposito. Se avessi
avuto anche
un solo
dubbio al riguardo, non sarei qui.»
Tony tacque, rendendosi
conto di aver serrato il pugno metallico fino a farlo tremare.
«Mi dispiace,» riuscì
a dire, incapace di guardarla.
«Lo so,» rispose lei,
in tono così delicato da sembrare una carezza. «Ma
questo non è un buon motivo per tenermi a
distanza,» aggiunse, ancora
più piano.
Tony si girò finalmente
verso di lei, come mosso dalla sua voce, e incontrò i suoi
occhi,
che invece sembravano non essersi mai distolti da lui per tutto quel
tempo. Si sentì di nuovo messo a nudo, ma non nel modo
derisorio che
aveva imparato a odiare, ma in quello con cui Pepper era sempre
riuscita a superare tutte le sue barriere.
«Cosa vuoi fare,
adesso?» gli chiese a sorpresa.
«Trovare una soluzione,
come sempre,» replicò piattamente lui, d'istinto.
«Cosa vuoi fare
davvero?»
«La lista dei miei
hobby si è drasticamente ridotta,»
svicolò di nuovo lui.
«Tony, non ti ho visto
lavorare al reattore da almeno un mese,» lo
assecondò infine,
rinunciando a ottenere una risposta alla sua vera domanda.
Lui non replicò e prese
a tormentarsi intentamente una giuntura della mano meccanica.
«Perché non ho fatto alcun progresso.»
Vide Pepper impallidire.
«Il dilitio serve solo ad
alleviare i sintomi e a rallentare un po' l'intossicazione. Sto meglio,
ma non sto davvero guarendo,»
fece una pausa, lasciando che Pepper assorbisse quella notizia,
nonostante non fosse una novità per nessuno dei due.
«Quanto...»
«Tre mesi,» la
anticipò lui, a mezza voce.
«Non puoi arrenderti così, Tony,»
esalò lei, con un'acuta nota di paura nella voce.
«Ho fatto il
possibile,» replicò lui, in tono stanco.
«Ora voglio solo...» si
bloccò, mentre un
fiume di immagini si riversava nella sua testa.
Il fischio del vento quando volava; la sabbia calda sotto i piedi a
Malibu e le onde fresche e salmastre dell'oceano; i battibecchi con Cap
e le zuffe con Nat e i dibattiti con Bruce; gli incontri di boxe e le
gare sulla Pacific con Happy; le feste noiose animate da Rhodey e da
qualche drink di troppo; il suo laboratorio e le diatribe senza fine
con Dum-E e U, i traffici notturni per costruire quel che voleva
esattamente come lo immaginava; Pepper e i suoi capelli setosi, il suo
profumo di casa, il suo tocco gentile, le sue labbra morbide e le
braccia che avrebbe voluto accettare per sentirla con tutto se stesso.
«Non voglio più
perdere tempo,» si trovò a mormorare quasi tra
sé, in quella che
era più una preghiera che una risoluzione.
Di nuovo, si
appellò a
lei e ai suoi occhi, che lo ricambiarono con quieta
aspettativa.
«Ma
non so come dovrei...» s'interruppe ed inspirò
bruscamente,
alzandosi poi a fatica e approcciandola senza la minima idea di cosa
stesse facendo, col cuore che tambureggiava nel petto. «Non
so
neanche da dove cominciare, e non...» s'interruppe quando
Pepper si
alzò davanti a lui, con elegante cautela.
Gli prese lentamente la
mano, come aveva fatto lui prima della presentazione. Tony si
contrasse d'istinto, ancora consapevole del peso delle protesi e
con l'unico desiderio di coprire il proprio volto e di riempire quel
silenzio, ma riuscì a
perdersi in quel semplice contatto, estraniandosi da tutto il resto.
«È davvero così
difficile?» lo canzonò dolcemente Pepper, posando
anche l'altra
mano a racchiudere la sua, e Tony inclinò appena le labbra
nel suo
solito sorrisetto obliquo.
«È che non sono
abituato a...»
"... ad essere
amato," pensò, in un lampo fuggevole.
«... a un interesse
disinteressato,» parafrasò invece, annodandosi la
lingua e
facendola sorridere appena. «Mi confonde, non... non rientra
nei
miei parametri e finisco per fare stronzate. Come dopo
l'inaugurazione,» terminò d'un fiato, e si rese
conto di essersi
inconsapevolmente accostato a lei, col corpo che riusciva finalmente
a ignorare almeno in parte le catene che lo trattenevano.
La sua mano si mosse
d'istinto, liberandosi dalla presa di Pepper, e per una volta non la
trattenne, nonostante la rigida titubanza con cui si mosse:
catturò
quella ciocca di capelli sfuggente che le cadeva sempre davanti al
volto e gliela sistemò dietro l'orecchio, portando a termine
un
gesto rimasto troppo a lungo in sospeso. Pepper non gli diede il
tempo di fare o dire nient'altro e lo cinse in vita con un abbraccio,
stringendo con forza la stoffa della camicia sulla sua schiena. Tony
sobbalzò, ma
si mosse impacciato a ricambiare, e si accorse subito di quanto
Pepper fosse rimasta rigida nella sua stretta; per un attimo temette di
aver commesso un qualche errore irreparabile e si chiese se non dovesse
ritrarre il braccio meccanico, ma quando accennò a farlo, fu
Pepper stessa a trattenerlo.
«Promettimi che non ti
arrenderai,» la sentì sussurrare contro di lui,
con una voce contratta che gli
ferì le orecchie.
Lui annuì appena,
stordito, evitando di ricordarle che non era bravo a mantenere le
promesse.
«Pep, te l'ho appena
detto, io...»
«Ho
bisogno di sentirtelo dire,» lo
incalzò, con una sofferta urgenza che non aveva mai sentito.
La vocina invadente
continuava a gridargli di staccarsi da lei, che stava sbagliando, che
avrebbe dovuto annullarsi in quell'istante e rifuggire quel contatto
che sembrava bruciargli addosso, scaldandolo al contempo.
Invece si ritrasse da quel vortice minaccioso e invitante e la strinse
di più a sé
col respiro corto, lasciando che nascondesse il viso nell'incavo
della sua spalla. La sentì sussultare appena e non ebbe
bisogno di
guardarla in volto per capire che stava piangendo, né aveva
intenzione di farlo. Si sentiva come se stesse custodendo qualcosa di
estremamente raro, fragile e prezioso che non aveva però
diritto a
guardare. La cullò in silenzio, accompagnando il suo pianto
con
lievi, impalpabili carezze lungo la schiena, lasciando che liberasse il
suo dolore e fornendole al contempo gli argini per contenerlo,
impedendole di rimanerne sopraffatta.
Solo dopo lunghi minuti,
quando la sentì tirare un lungo sospiro tremolate,
trovò il
coraggio di inclinarle appena il viso con un indice e lasciarle un
bacio sulle labbra, senza osare di più. Il suo cuore
sfarfallò in uno
sprazzo di viva euforia quando
le sentì inclinarsi appena
verso l'alto, per poi tornare
a lambire le sue,
altrettanto delicate. Si sentì lontano da lì e
dal proprio corpo, avvolto completamente in quel contatto, che
andò ad espandere quel piccolo punto tra il reattore e il
cuore finché non gli invase del tutto il petto, in una
vertigine che sciolse i nodi che lo ancoravano a terra,
«Te lo prometto,»
mormorò a un soffio da lei, ancorandosi ora alle sue iridi
lucide
per non far tremare la voce.
Lei annuì
impercettibilmente, e la sorresse quando la sentì rilassarsi
del
tutto nelle sue braccia. Premette le labbra sui suoi capelli, ne
aspirò
a fondo il profumo e lo sentì farsi strada nei polmoni, nel
petto,
nello stomaco, fino a permeare il suo intero corpo di un calore
sottile che raggiungeva anche i suoi pezzi freddi e inerti.
I punti fermi, in fondo, erano sempre stati accanto a lui.
___________________________________________________________________________________________________
Note Dell'Autrice:
E fu così che dopo sei anni, 44 gatti capitoli e infinityi fiumi d'angst, habemus Pepperony! *squillo di trombe angeliche*
Vi avevo ingannato con quel "Supernova" accoppiato ai buchi neri, eh? (sperodisì) Invece, strano a dirsi, Tony ha scampato il buco nero :')
Questo l'ho soprannominato il "capitolo delle chiacchiere", per ovvi motivi. E spero che il tutto, seppur abbastanza denso di eventi, sia risultato gradevole e coerente con tutto ciò che è accaduto in precedenza.
Ringrazio enormemente _Atlas_, T612, Enigmista96, 50shadesOfLOTS_Always ed Emyclarinet che hanno recensito lo scorso capitolo mandandomi al settimo cielo. Ringrazio in particolare T612, che mi ha ispirato il dialogo sui limiti tra Rhodey e Tony grazie alla sua one-shot Limitless, che vi invito caldamente a leggere, perché merita veramente tanto <3
Infine, dedico il capitolo alla mia carissima Atlas, che 'sta scena l'ha aspettata per sei anni interi :') E so che mi hai maledetta ad ogni stretta di mano tra Tony e Pepper... ma spero di essermi fatta perdonare ;)
I prossimi aggiornamenti saranno uno attorno a Natale (tra il 24 e il 27) e uno nell'anno nuovo (tra il 6 e il 10). Non so dare una data precisa perché dalla settimana prossima sarò dispersa in terra tedesca e intenta ad abbuffarmi di dolcetti&birra&vin brulé, quindi il tempo per scrivere sarà ridotto. Almeno uno dei due è però assicurato :)
Nel dubbio, vi saluto augurandovi tante Buone Feste <3
Un abbraccio a tutti voi,
-Light-
P.S. Gli Imagine Dragons hanno fatto uscire il loro nuovo album in fase di stesura di questo capitolo: grazie a loro e alla canzone d'intro (di cui avrei anche potuto mettere tutto il testo, che tanto pareva fatto apposta per quello che volevo scrivere), vi siete scampati il triplo dell'angst previsto <3
*COMUNICAZIONE DI SERVIZIO*
A partire dal prossimo capitolo, Phoenix verrà trasferita sul fandom di The Avengers!
© Marvel
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Capitolo 46 *** Highway to Hell ***
45
Highway
to Hell
"And I will no longer do as I am
told
And I
am no longer afraid to walk alone
Let me go, let me be
I'm
escaping from your grip
You will never own me again"
[The Handler – Muse]
Due
fessure azzurrine nel buio e un circoletto di luce poco più
sotto.
Attorno si intuivano dei riflessi metallici, rilucenti
nell'oscurità.
Tony
aggrottò la fronte con fare un po' seccato: di nuovo
l'armatura?
"Il
mio laboratorio di sogni sta esaurendo l'inventiva."
Si
guardò intorno, realizzando di essere nella solita,
sterminata
stanza nera. Tanto per cambiare era nudo, ma per lo meno aveva tutti
i pezzi al posto giusto, incluso il reattore, a cui diede una pacca
sollevata. Era strano non sentire il peso del braccio meccanico, non
avvertire la rigidezza della gamba e avere un preciso senso della
profondità con entrambi gli occhi. Erano delle sensazioni
alle quali
si era ormai disabituato, e che gli sembravano quasi estranee.
Scrollò
le spalle e si incamminò verso quelle tre luci. Non che ci
fosse
molto altro da fare.
"Dovrò
scrivere una lettera di protesta a Morfeo," sbuffò tra
sé.
Camminò
per un po'. L'armatura era più lontana di quanto gli fosse
sembrato.
Una
corrente d'aria lo sfiorò e rabbrividì,
ritrovandosi con la pelle
d'oca. Ruotò capo e occhi, cercandone inutilmente la fonte.
Ora che
ci faceva caso il suo corpo era stranamente sensibile, al contrario
di quasi tutti i sogni precedenti.
Sotto
le piante dei piedi avvertiva una superficie regolare, piana e
leggermente ruvida.
"Cemento?"
Si
arrestò e portò una mano alla nuca, come sempre
quando rifletteva
su qualcosa, e le sue dita incontrarono delle ciocche lunghe e
ribelli, invece del taglio corto che portava da qualche tempo.
Ritrasse la mano, tirandosi appena le punte dei capelli con fare
perplesso.
Riprese
la marcia e accelerò il passo. L'armatura si avvicinava.
C'era
vento, adesso. Distingueva un mormorio di automobili in sottofondo,
assieme a un sentore di fumo acre, come di gomma bruciata e benzina.
I suoi sensi stavano ricostruendo una scena che gli sembrava
familiare e che accendeva un pizzicore spiacevole nel suo stomaco,
impossibile da focalizzare.
Era
l'Afghanistan? No, si rassicurò subito: lì
c'erano solo il lezzo di
sangue rappreso, il crepitio costante di braci morenti e il sapore di
acqua torbida in bocca, nelle narici, nei polmoni...
Aumentò
ancora il passo, sfociando in una corsetta nervosa e impaziente.
Arrivò
davanti all'armatura col fiato leggermente corto. Solo allora si rese
conto che qualcosa non andava: dovette alzare la testa per guardare
il reattore; le fessure azzurre incombevano minacciose su di lui.
"Da
quando è così grande...?"
Fu
allora che quel pizzicore inquieto si tramutò in un blocco
solido di
terrore, proprio quando Iron Monger si rianimò con un
ruggito
metallico scagliandosi contro di lui.
***
5
Gennaio 2009, Settore 16, Stark Industries
L'atterraggio
sul tetto fu più duro di quanto avesse previsto e
batté la tempia
contro la calotta interna dell'elmo, mentre cercava inutilmente di
frenare la caduta coi propulsori ormai agonizzanti. Il colpo lo
stordì, ma riuscì a liberarsi in tempo del guanto
sinistro, ormai
in cortocircuito e sul punto di ustionargli una mano. Tentò
di
rialzarsi a fatica, rintronato e con la testa leggera, ma la gamba
destra non reagiva come avrebbe dovuto e crollò di nuovo su
un
ginocchio. All'inizio non capì se ciò dipendesse
dall'armatura o
dal suo corpo, poi percepì con chiarezza il metallo che gli
penetrava nella carne, mozzandogli il fiato ad ogni minima
contrazione dei muscoli e delle ossa che si muovevano in modo anomalo
e agghiacciante. Abbassò lo sguardo e una stoccata nauseante
lo
colpì allo stomaco. Mise a fuoco oltre un velo di lacrime il
gambale accartocciato che gli stritolava il polpaccio, ormai una
massa contorta di metallo cremisi e sangue così scuro da
sembrare
nero.
Quando
era successo? Forse quando l'aveva scaraventato contro
quell'autobus...
Provò
a muovere il piede, ma quello non rispose, come fosse sconnesso dal
resto del suo corpo.
«Tony!»
la voce squillante di Pepper risuonò nell'auricolare.
Provò
a parlare, ci provò con tutto se stesso, ma gli
uscì solo un
respiro spezzato.
«Oddio,
sta... sta bene?»
Stavolta
colse una crescente nota di panico nelle sue parole e si
obbligò a
rispondere, deglutendo a stento sangue e saliva:
«Più
o meno. Ho perso potenza e –...» una fitta
lancinante al ginocchio
lo fece interrompere con un sibilo. «Credo... di avere una
gamba
rotta,» annaspò infine, schiudendo l'elmo.
Accolse
con sollievo la ventata d'aria fresca che lo investì sul
volto
madido e fu scosso al contempo da un conato. Adesso avrebbe vomitato,
ne era certo. La sensazione delle ossa scomposte nella gamba gli
stava rivoltando le budella, ma riuscì solo a sputare un po'
di
sangue che gli lasciò la bocca più impastata di
prima. Per un
istante gli parve di percepire la consistenza ruvida della sabbia in
gola, ma s'impedì di focalizzarla, concentrandosi invece
sulla voce
di Pepper:
«I
soccorsi stanno arrivando. Rimanga dov'è, e...»
Un
boato fece tremare il tetto oscurando la sua voce e lui si
voltò di
scatto, verso la colossale armatura che era appena atterrata dinanzi
a lui. Richiuse di scatto la visiera e si appiattì a terra
appena in
tempo per schivare il gancio che stava per disintegrargli la testa.
Si
rialzò sul ginocchio integro e d'istinto fece per lanciare
un raggio
dal guanto, prima di realizzare di aver usato la mano disarmata. Il
secondo pugno lo colpì in pieno volto, cozzando contro la
maschera e
sbalzandolo via di qualche metro. Una scarica di adrenalina residua
gli permise di ignorare il dolore quel tanto che bastava per attivare
i propulsori posteriori e scagliarsi a testa bassa contro Stane, per
ricambiare la cortesia con tutta la forza che gli rimaneva.
Provò un
moto di feroce soddisfazione nel sentire il proprio pugno metallico
impattare col suo casco con un rintocco di gong, strappandogli un
lamento soffocato.
"Questo
è per la gamba, bastardo."
Si
pentì della propria avventatezza quando si trovò
avviluppato nella
sua stretta ferrea, che ora minacciava di frantumargli le vertebre.
Si dibatté debolmente sentendosi un pesce preso all'amo, e
la furia
di poco prima si tramutò in paura quando sentì le
placche
posteriori dell'armatura che iniziavano a cedere con un cigolio.
Avvertì
un'acuta fitta al costato e il suo cervello andò
momentaneamente in
stand-by, impedendogli di processare ciò che sentiva per
reagire di
conseguenza. Il corpo smise di rispondere ai comandi, scivolando in
una gelida paralisi. Gli mancava l'aria: vide rosso, poi bianco,
infine la sua vista si oscurò, animata solo da migliaia di
minuscole
stelle intermittenti man mano che sentiva la pressione aumentare fino
a strizzargli i polmoni. Le fessure azzurrine di Iron Monger
sembravano deriderlo nel buio.
La
sua paura si tramutò in qualcos'altro, un terrore
cieco e
ancestrale
che gli rianimò membra e cervello, in un fiotto prepotente
di calore
che gli scosse la spina dorsale e gli artigliò la nuca.
Riprese a
pensare e le sinapsi si riavviarono come saette concitate che presero
a rimbalzare nel suo cranio. Respirare diventava sempre più
laborioso.
"Gamba
rotta, repulsori fuori uso, missili offline..." elencò
frenetico. "Stai per schiattare, fai
qualcosa!"
«Razzi!»
riuscì ad articolare infine, e l'armatura eseguì,
accecando
momentaneamente Stane con delle piccole esplosioni, poco più
di
qualche petardo, ma abbastanza per fargli allentare la presa e
mandargli in tilt i sensori ottici.
Puntò
la gamba sana contro la massiccia corazza e fece leva, per poi
attivare i propulsori riuscendo infine a rompere quella morsa.
Rovinò
a terra inerte e solo allora si rese conto di aver semplicemente
ritardato l'inevitabile.
Non riusciva a muoversi. Non
riusciva a muoversi.
La sua testa si fece leggera, quasi si fosse separata dal corpo. Fece
leva sugli avambracci e riuscì solo a trascinarsi di un
passo per
poi ricadere a terra, ancora protetto dal denso e basso fumo dei
razzi. I passi di Stane si abbattevano sul tetto, riverberando nelle
sue ossa mentre si agitava alla sua ricerca in quella nebbia per ora
impenetrabile, ma destinata a disperdersi per lasciarlo di nuovo
indifeso.
Abbatté
un pugno a terra, sopraffatto dalla frustrazione e dal dolore, ma si
rifiutò di abbandonarsi lì. Si sollevò
sul
fianco sano e
strisciò sui gomiti dietro a un bocchettone d'areazione, un
precario
riparo che però lo proteggeva alla vista.
"Sono
spacciato," gli rimbombò nella mente, ottenebrata dalla
consapevolezza che, qualunque morte lo attendesse, non sarebbe stata
eroica né indolore.
Il
suo respiro accelerò e iniziò ad iperventilare,
in cerca d'aria, di
una via di fuga, ma sotto di sé c'era solo solido cemento, e
il
cielo velato sopra di lui gli era precluso.
"Non
posso morire così. Ho fatto ancora troppo poco."
Piegò
la gamba devastata e soffocò un grido: poteva ancora
muoverla, anche
se a caro prezzo.
"E
poi che penserà il resto della boy-band? Non sono solo un
'uomo-scatoletta', non posso darla vinta a Capitan Ghiacciolo!"
Fece
leva sulla gamba integra, poggiandosi alla parete metallica per
mantenersi in piedi.
"E
se finisco all'aldilà che racconto a Yinsen? Che sono morto
spiaccicato da una brutta copia della mia stessa armatura? Sai che
ridere."
Chiuse
per un momento gli occhi e fu sul punto di perdere i sensi, a un
passo da un piacevole e allettante oblio che avrebbe annullato tutte
le sensazioni spiacevoli e dolorose che...–
"No!
No, resta sveglio! Là sotto c'è Pepper.
C'è Pepper e non puoi
farle questo, non puoi
farle questo, svegliati!"
Si
morse con forza l'interno della guancia, costringendosi a riaprire di
scatto gli occhi e tornare presente a se stesso, col sapore del
sangue a impregnargli la lingua. Era un genio, era Tony Stark:
avrebbe trovato una soluzione, anche adesso.
Riuscì a
trascinarsi
dietro al gabbiotto d'accesso al tetto, ponendo una difesa
più
solida tra lui e le morse mortali della gigantesca armatura.
Sbirciò
appena oltre l'angolo, mettendo a fuoco il suo nemico che setacciava
l'area, facendo tremare il tetto ancora avvolto da una sottile
nebbiolina. La consapevolezza che là dentro ci fosse Stane
riemerse
prepotente. Aveva appena tentato di ucciderlo senza alcuna
esitazione.
Una
strana morsa gli afferrò il petto, un misto di delusione,
rabbia e
profondo sgomento a cui non seppe dare un nome se non dopo qualche
istante: tradimento. Affondò come una lama proprio nel punto
in cui
si raggruppavano le schegge che minacciavano il suo cuore.
"Cazzo,
papà, ti sei scelto proprio degli amici di merda,"
riuscì a
pensare quasi rassegnato, e gli sembrò che la lama si
torcesse nel
suo petto, allargando una ferita già aperta.
Poi
fu distante da lì, avvolto da una calma assoluta e gelida.
Era
di nuovo nella grotta. Davanti a lui c'era il bastardo dagli occhi di
vipera che lo guardava dimenarsi sull'orlo di un barile implorando
per una boccata d'aria, o accartocciarsi sotto le percosse con la
testa e il volto protetti solo dalle sue stesse, deboli braccia. E
stavolta dietro di lui intravide un'ombra più cupa, quella
di un
burattinaio che tirava le fila di tutto quel macabro teatrino,
guidando da dietro le quinte ogni colpo che si era abbattuto sul suo
corpo e ogni mano che gli aveva strappato i capelli per costringerlo
sott'acqua. Durò
un istante, un attimo di puro gelo che fece poi largo a una marea
bruciante. I suoi occhi si appuntarono su quell'armatura mastodontica
desiderando solo di poterla fondere con lo sguardo, catturando tra
quei flutti roventi la bestia che aveva ordinato di squarciargli il
petto per infiggervi un cuore di metallo.
Quando
parlò la sua voce era trasfigurata, tremante e gutturale
come se
scaturisse da una caverna.
«Potts.
È lì?»
Vedeva
la foto associata al suo contatto sullo schermo rotto, sfigurata
dalle crepe che lo attraversavano, e fu solo aggrappandosi al suo
volto che riuscì a rimanere lucido e a non slanciarsi verso
Obadiah
per cavargli gli occhi, o fracassargli la gabbia toracica come
avevano fatto con lui, o massacrarlo di pugni fino a...
«Tony!»
la voce di Pepper arrivò come un toccasana, interrompendo
quel
flusso di immagini che non avrebbe mai creduto di poter evocare,
pronto a montare di nuovo non appena avesse lasciato il freno al suo
raziocinio traballante.
Doveva
essere terrorizzata, forse più di lui, e forse
più per il tono in
cui l'aveva involontariamente appena chiamata che per tutto il resto.
Pensò alla serata di beneficenza, al contrasto tra l'onda
calda dei
suoi capelli e la stoffa blu cobalto che andava a esaltare la
sfumatura più chiara delle sue iridi. Il velo d'acqua che
sembrava
ovattargli le orecchie si assottigliò, permettendogli di
parlare con
più lucidità:
«Ho
un piano,» ansimò, cercando inutilmente di
mascherare le sue reali
condizioni che trasparivano comunque dalla voce sforzata.
«Dobbiamo
sovraccaricare il reattore,» cominciò, cercando di
continuare a
pensare.
Ci
fu un breve silenzio dall'altro capo e si sentì raggelare,
nonostante Obadiah fosse ancora nel suo campo visivo – e
pericolosamente diretto verso di lui, che si appiattì ancor
di più
contro il muro.
«E
come pensa di fare?» gli arrivò infine, con un
misto di sollievo
nel sentirla rispondere e di angoscia per ciò che prevedeva
il suo
piano.
«Lo
farà lei,» si obbligò a dire,
maledicendosi con tutto se stesso,
ma troppo nel pallone per riuscire a formulare una valida
alternativa.
Iniziava
a sentirsi la testa leggera, e la gamba era un inferno bruciante di
dolore che catalizzava tutta la sua attenzione, stritolandogli il
cervello. Sentì i passi metallici dell'armatura di Stane in
avvicinamento e si trascinò all'altra estremità
del muro,
riprendendo a parlare più piano che poté:
«Vada
alla console centrale e accenda tutti i circuiti,»
esalò,
percependo una vibrazione più forte che scosse la terra
sotto i suoi
piedi. «Quando mi sarò allontanato, prema il
pulsante del bypass
principale. Farà un bel botto,» cercò
di assumere un tono più
leggero nel tentativo di rassicurarla, e fu grato che non potesse
vederlo in quel momento.
«Ok,
sto entrando adesso,» rispose lei, tesa, ma senza esitazioni,
e
riuscì ad immaginare nitidamente la linea sottile e tirata
delle sue
labbra e le sopracciglia appena corrugate per la concentrazione.
Assieme
alla paura cieca che lo afferrò alla gola provò
anche un netto moto
d'orgoglio verso di lei, che scacciò almeno in parte il
tremito che
lo scuoteva da capo a piedi.
«Aspetti
che io sia sceso dal terrazzo,» si raccomandò,
stringendo più volte i
pugni e preparandosi a scattare. «Io le guadagno un po' di
tempo,»
concluse, ricalcando con tardiva consapevolezza l'eco di parole fin
troppo fresche nella sua memoria.
La
mano di Iron Monger sbucò oltre l'angolo, poggiata al muro
poche decine di
centimetri
sopra la sua testa, e l'intonaco sbriciolato picchiettò sul
suo
casco metallico. Inspirò a fondo, incamerando tutta l'aria
che poté
e si concentrò unicamente su quello, scacciando l'impronta
rovente
del dolore dalla propria percezione.
Fece
leva sulla gamba integra e lasciò il riparo del muro,
scagliandosi
contro Stane. Questi ebbe un fugace tentennamento nel vederselo
arrivare addosso senza preavviso e lui ne approfittò per
issarsi
sulle sue spalle, andando ad afferrare a colpo sicuro un fascio di
fibre ottiche tra le placche metalliche, sradicandolo poi con tutte
le sue forze dall'armatura. Stane mosse il capo qua e là,
prevedibilmente accecato, e iniziò a dimenarsi come un
ossesso nel
tentativo di scrollarselo di dosso; prima che Tony potesse mirare al
cavo d'alimentazione degli arti superiori, si sentì
afferrare e
tirare per il casco; fu costretto a sganciarlo dal suo supporto e a
mollare la presa per non venire decapitato, e Stane riuscì
finalmente a disarcionarlo e scagliarlo via come fosse incorporeo,
privandolo di quella difesa.
Impattò a peso morto sulla vetrata sovrastante il reattore,
boccheggiando in cerca d'aria. Il suo tentativo di rimettersi in
piedi fallì: ormai la gamba devastata era completamente
inerte.
Rimase
carponi, con l'impressione di respirare dei chiodi incandescenti.
Sentiva
Obadiah blaterare in sottofondo, preso da un delirio di onnipotenza,
e registrò a malapena il proprio elmo accartocciato che
rimbalzava
accanto a lui sulla vetrata, gettato via con disprezzo dal suo ex-
socio. Il suo sguardo era puntato in basso, verso il puntino
rossiccio che si aggirava rapido nell'azzurro abbagliante,
armeggiando attorno alle centraline di comando del reattore. Si
sentiva prosciugato di ogni energia, e la volontà che si
dibatteva
nel suo petto era appena sufficiente a impedirgli di rannicchiarsi a
terra, chiudere gli occhi e lasciare che ciò che non era
successo
sei mesi prima accadesse ora, ironicamente di nuovo per mano di
qualcosa creato da lui. Sentiva il buio che lambiva i suoi sensi,
allettante e carezzevole, come una buonanotte promessa di un sonno
dolce e lieve.
"È questa, l'ultima sfida del grande Tony Stark?"
Si
forzò a sollevare gli occhi, e incontrò quelli
spenti del suo casco
rosso-oro sfigurato; subito dietro, si ergeva la figura minacciosa e
torreggiante di Stane. Si trovò a digrignare i denti: quella
era la
sua
armatura, la sua
promessa di libertà in una grotta oscura; quei pezzi
metallici erano
stati forgiati dalle sue
mani e da quelle di Yinsen. Portò una mano al proprio
reattore, solo
un pallido riflesso di quello davanti a lui, eppure egualmente
brillante, custode di tutta la fiducia che gli altri vi avevano
riposto.
Si
issò su un ginocchio, contrastando con furia il buio, deciso
a non
abbandonarsi docilmente a quel sonno ingannevole.
Non
cedette di un solo centimetro, piantandosi al suo posto con le forze
che gli rimanevano e sostenendo lo sguardo di Obadiah, ora a viso
scoperto, con un misto di sufficienza e rabbia. Il suo padrino, con
gli occhi accesi da una lucida follia, gli puntò addosso una
delle
mitragliatrici senza alcuna esitazione, e Tony ebbe appena il tempo
di pararsi il volto scoperto con un braccio, usando uno dei flap
anteriori come scudo improvvisato. Socchiuse le palpebre nella
pioggia di scintille, rintronato dal fracasso del metallo contro
metallo, cercando di mantenere l'equilibrio mentre sentiva la vetrata
iniziare a cedere sotto di lui, colpita dai proiettili.
Poi
accaddero troppe cose insieme, e fu come essere sballottato qua e
là
da una mano invisibile, senza riuscire a ricollegare le sue
sensazioni al mondo reale. La voce di Pepper lo raggiunse, appena
udibile oltre la spessa vetrata, ma il suo istinto di attivare i
propulsori per abbandonare il tetto fu stroncato da una fitta
straziante al volto e dalla sensazione di precipitare.
Annaspò nel
vuoto e la trave metallica a cui si avvinghiò gli
mozzò il respiro,
mentre il peso dell'armatura lo trascinava in basso, ad oscillare
inerme sopra il nucleo ribollente del reattore. Scalciò
debolmente
nel vuoto, con la vista oscurata dal sangue e la sensazione di avere
un ferro rovente conficcato nell'occhio, mentre sentiva il resto
della vetrata disintegrarsi sotto i colpi alla cieca di Stane.
I
suoi pensieri sfarfallanti andarono a Pepper e alla pioggia acuminata
che l'aveva appena investita. E se lui fosse morto, Obadiah sarebbe
passato a lei.
«Premi
il bottone!» si sgolò, con la voce deformata dal
dolore.
«Così
morirai!» la sentì protestare, sensatamente,
nonostante il panico
che riconobbe in quelle parole.
Un
missile sparato da Stane esplose a qualche metro da lui; il
contraccolpo gli fece perdere la presa, e riuscì a
recuperarla solo
con la flebile forza che gli rimaneva nelle dita.
«Premilo!»
ripeté, preparandosi ad attivare i propulsori posteriori.
Sentì
la propria mano cedere e seppe che stava per morire, scomparendo
proprio nella creazione di suo padre.
L'improvvisa
scarica di energia lo sbalzò invece in alto, e
riuscì a deviare la
traiettoria il tanto che bastava per non esserne completamente
risucchiato. Atterrò sul telaio del lucernario e rimase
lì, con la
vista offuscata e il respiro spezzato, cercando di muoversi il meno
possibile. L'armatura era leggermente più reattiva e
sentì il
blocco al petto alleviarsi un poco: la scarica doveva aver fornito un
pizzico d'energia al reattore morente. Attraverso il velo di lacrime
e sangue, distinse Stane che veniva investito in pieno dal raggio, le
sue grida perse nella cacofonia di elettricità e lamiere
divelte. Il
cielo si illuminò a giorno, come acceso da un lampo
mostruoso, per
poi spegnersi con un brontolio profondo.
Il
silenzio premette sulle sue orecchie, interrotto solo dallo schianto
dell'enorme armatura che collassava a pochi metri da lui, ponendo
entrambi in precario equilibrio sui resti del telaio della vetrata.
Obadiah, ancora all'interno della corazza, sembrava morto, o forse
solo svenuto.
Tony
concentrò tutte le sue forze nel mantenersi vigile,
contrastando la
sua coscienza sempre più fluttuante, resa labile
dall'emorragia e tormentata dalle fitte
al
volto e alla gamba. Portò la mano nuda a detergersi il
sangue che
gli oscurava la vista, e non trattenne un grido non appena le sue
dita sfiorarono lo squarcio. Non ebbe tempo per soffermarsi a
valutare il danno: le travi metalliche mandarono un lamento
preoccupante e le sentì inclinarsi, facendo scivolare di
qualche
centimetro lui e Stane. Intravide quest'ultimo muoversi debolmente,
incastrato nell'armatura, e sganciare le cinghie di sicurezza che lo
imbracavano all'interno. Il telaio cedette ancora, sollecitato dal
suo dimenarsi, ed entrambi trattennero involontariamente il respiro.
Tony
sentì il nugolo di violente emozioni che l'aveva invaso poco
prima
scemare, e lasciar posto a un senso di disgusto e pena per l'uomo
accanto a lui, intento a districarsi tra i resti contorti del suo
stesso operato. Lo vide protendere una mano nella sua direzione, con
l'altra ancora intrappolata nell'arto metallico di Iron Monger.
Mirava a una trave sporgente poco più in alto di lui per
trarsi in
salvo, e Tony percepì il telaio affossarsi pericolosamente,
sul
punto di spezzarsi di netto e trascinarli entrambi verso morte certa.
Si scansò a fatica, il tanto che bastava per porsi sul
solido
cornicione di cemento, mentre Obadiah tentava inutilmente di
sporgersi ancor di più, riuscendo però solo a
sfiorare la trave con
la punta delle dita.
Era
a portata di mano, realizzò Tony. Gli sarebbe bastato
allungare il
braccio per offrirgli l'appiglio che cercava. Serrò i denti,
pensando alla grotta, pensando a Yinsen, e al reattore incastonato
nel suo petto, e a come quella serpe avesse tradito sia la sua
fiducia che quella di suo padre e avesse tentato di uccidere Pepper.
Fissò
la mano tesa verso di lui, continuando a rimestare incessantemente
quel calderone colmo d'odio. Un singolo fotogramma emerse nella
catena di ricordi convulsi e colmi di sofferenza che si stava
sforzando di evocare, sovrapponendosi al presente: un Obadiah
più
giovane e con solo una spruzzata di grigio nella barba biondiccia,
stretto in uno sgargiante completo anni '70 e con un panama a
coprirgli i capelli folti. Anche allora tendeva una mano verso di
lui, nascondendo solo in parte la sagoma squadrata di un robottino
rosso sgargiante. Suo padre era sullo sfondo, già affrettato
verso
il suo ufficio e a mani vuote, e sentiva quelle gentili di sua madre
posate sulla spalla in un gesto al contempo affettuoso e protettivo.
Per
un istante, rivide quel robottino rosso nella mano protesa di Stane,
e il suo braccio scattò d'istinto in avanti proprio quando
il telaio
cedette ancora con un assordante cigolio.
Stane
si aggrappò a lui, scampando la caduta con un grido
sorpreso. Tony
sentì il suo peso tendere ogni muscolo del proprio braccio,
e si
puntellò contro il bordo con ogni residuo di forza e
volontà che
gli rimaneva. Stane gli rivolse uno sguardo stralunato, nel
quale tentò di riconoscere il proprio padrino, trovando solo
due
fredde lastre inespressive, ma non mollò la presa. Si
accorse solo
allora che Stane non stava tirando per issarsi in alto, ma per
trascinare lui verso il basso.
«Abbiamo
fatto la nostra parte,» proferì, in un tono
agghiacciante che fece
defluire da lui ogni stilla di benevolenza. «Adesso
è il momento di uscire di scena.»
Con
un gesto repentino, allungò l'altra mano ancora avvolta
dall'enorme
guanto metallico e la serrò appena sopra il suo gomito,
trasformando
quella presa in una morsa ferrea dolorosa. Tony non riuscì a
contrastare la sua forza e si sentì sbalzare in avanti,
verso il
vuoto e il magma elettrico del reattore. Riuscì ad
artigliarsi ai
resti del telaio, dove rimase incastrato tra le sue travi divelte,
che funsero da rete di sicurezza. Fu allora che la porzione su cui
poggiava Stane cedette definitivamente: lui precipitò ancora
aggrappato al suo braccio, e Tony lo sentì allungarsi
più di quanto
fosse naturale, mentre ogni singolo tendine e muscolo bruciava e ogni
singolo osso tremava con agonizzante nitidezza, sul punto di
frantumarsi. Si sentì gridare come da molto lontano mentre
tentava
di sganciare alla cieca il rivestimento dell'armatura, inutilmente.
L'ultima
cosa che percepì fu un secco schiocco di legno spezzato e
uno
strappo di stoffa lacerata, poi la disturbante realizzazione che il
suo corpo fosse diventato più leggero del dovuto.
Il
buio arrivò pietoso ad offuscare i suoi sensi.
***
Fu
risvegliato dalla vertigine che lo prendeva allo stomaco, e per un
momento fu convinto di star decollando come al solito con la propria
armatura. L'illusione s'infranse quando si sentì cadere per
quelle
che parvero miglia, finché l'impatto sulla schiena non gli
spezzò
il respiro.
Il mondo era dolore e sangue e metallo.
Socchiuse
l'occhio pesto e tutto ciò che mise a fuoco fu un riflesso
azzurro e
indefinito sopra di lui. Lo riportò al cielo terso in
Afghanistan, e
agli occhi benevoli di Yinsen, e al nucleo vivo del reattore nella
grotta, e alle onde del Pacifico che lo accoglievano a casa.
L'aria
gli sfuggì dalle labbra spaccate in un refolo stentato e
lasciò che
palpebra ricadesse a privarlo di quel colore familiare. Era certo che
l'avrebbe ritrovato al suo risveglio, negli occhi di chi l'aveva
aspettato per tre mesi – o forse per dieci anni – e
lo chiamava,
anche adesso, indicandogli una via d'uscita che non riusciva a
vedere.
Si
abbandonò di nuovo quietamente all'incoscienza,
distaccandosi dal
suo corpo sofferente, ed entrò in un inquietante mondo
sospeso fatto
di specchi, abissi e riflessi estranei.
***
"Dove
sono?"
Acqua,
e delle luci in lontananza. Lo sciabordio delle onde contro la
chiglia di un battello. Altre luci fluttuano tutt'intorno. Il vento
porta con sé un odore salmastro e le note di un organetto.
Una città
galleggia sulla laguna, illuminata dall'ultimo chiarore azzurrino del
crepuscolo estivo.
«Tony?
Si sbrighi, è tardi.»
Si
gira verso di lei e rimane incantato ad ammirarla. Si è
dimenticato
di quel vestito verde smeraldo e di quanto le stia bene. Spesso
dimentica semplicemente quanto sia bella lei.
Le rivolge un sorriso
senza neanche pensarci; gli affiora spontaneo alle labbra, sospinto
da quella bolla leggera che a volte gli invade il petto quando la
guarda.
«Arrivo.
Solo un momento.»
Esita
e rivolge di nuovo lo sguardo alla placida distesa d'acqua. Ha la
sensazione di aver dimenticato qualcosa. Lo cerca speranzoso nelle
luci lontane, ma quelle occhieggiano indifferenti in risposta.
È
in ritardo. Lo sa, lo sente, ma indugia ancora.
«Anthony.»
Una
voce permea l'aria calda. È cupa, profonda e fin troppo
conosciuta,
carica però di una preoccupazione estranea.
"Ignoralo.
Lui ti ha sempre ignorato."
Quando
muove il primo passo, la laguna è già sparita.
È
rimasto il buio, ora punteggiato da mille, fredde luci azzurrine che
sembrano trafiggerlo.
«Anthony!
Che cosa stai facendo?»
____________________________________________________________________________
Note Dell'Autrice:
Ah, la magia del Natale <3
Non potevo davvero scegliere capitolo più allegro e festivo per questo periodo, in effetti... ma ho compensato altrove con dosi di miele illegale, quindi penso di essere giustificata, su.
Parto col dire che questo capitolo esiste da sei anni. La primissima bozza è stata scritta a quattro mani, poi ho ovviamente colmato i vari buchi emersi con la revisione, ma il succo della questione rimane lo stesso: Stane è uno stronzo <3 E le varie elucubrazioni su di lui verranno approfondite in seguito, ma sono un misto tra i fumetti e il mio headcanon che lo riguarda. La scena in cui Stane si aggrappa al suo braccio è una versione rielaborata di una scena eliminata del film Iron Man, di cui ho ripreso alcune battute.
Sono felicissima di vedere che nuovi lettori si siano avvicinati alla storia, per cui ringrazio tantissimo Flavia_14 e Sissi Malfoy Black che hanno recuperato tutto i capitoli e hanno commentato l'ultimo, facendomi uno stupendo regalo di Natale <3 Grazie anche a _Atlas_, T612, Enigmista96, Emyclarinet e 50ShadesOfLOTS_Always che hanno commentato lo scorso capitolo e/o i precedenti. Non avete idea di quanto mi rendiate felice con ogni parola che mi lasciate <3
Qui chiudo, prima che diventi un manoscritto. Spero vivamente di aggiornare entro il 10 gennaio :)
Buone feste e un caro saluto a tutti voi,
-Light-
P.S. La parte in cui Tony si rialza "contrastando con furia il buio" e quella immediatamente precedente sono rielaborazioni della poesia Do not go gentle into that goodnight di Dylan Thomas, che è una delle mie preferite in assoluto e vi consiglio di leggere se non la conoscete già <3
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Capitolo 47 *** Knockin' on Heaven's door ***
46
Knockin'
on Heaven's door
"Confusion will be my epitaph
As I crawl a
cracked and broken path
If we make it, we can all sit back and
laugh
But I fear tomorrow I'll be crying"
[Epitaph – King Crimson]
12
Maggio, Villa Stark
Tic
toc.
Tic
toc.
Si
ripromise di contare di nuovo fino a trenta.
Inspirò.
Espirò.
Tic
Toc.
Tic
Toc.
Arrivò
a centoventi. Perse il controllo del suo respiro, adesso fuori tempo
rispetto al ticchettio snervante dell'orologio. Perché si
ostinava
ad avere un'anticaglia ticchettante sul comodino?
Tic
toc.
Tic
toc.
Forse
per scandire meglio le sue notti insonni, per dare loro una
dimensione e dei contorni misurabili senza dover per forza aprire gli
occhi nel buio e rischiare di incontrare il nulla.
Tic
toc. Tic toc.
Il
fioco riverbero azzurrino proveniente dal suo petto
rischiarò il
quadrante.
Le
2:17.
La
voce di suo padre continuava a rimbombargli in testa.
"Cosa
stai facendo?"
Si
era rigirato quella domanda in testa per ore, analizzandola da ogni
angolazione, scandendola con mille sfumature differenti, e ancora non
riusciva a trovare una risposta che lo soddisfacesse e che lo
lasciasse in pace col dolore lancinante ai moncherini che gli
impediva di riscivolare nel sonno.
Cosa
stava facendo?
Stava
lavorando al suo retaggio, affinché non andasse perduto. No,
si
corresse, era il suo retaggio che stava divorando lui, una vena
intossicata alla volta.
Stava
aspettando troppe cose e ne stava rimandando altrettante.
Tic
Toc. Tic Toc.
Le
2:20.
Stava
perdendo tempo in ogni modo possibile.
Si
rivoltò nel letto in un moto di frustrazione e
ciò gli strappò un
lamento per le ferite insolitamente sensibili. Si era abituato ad
avere qualche crisi notturna, ma adesso si sentiva come se avesse due
rozzi chiodi infissi nei moncherini al posto delle protesi. E
più
rimaneva sdraiato, più aveva l'impressione che un peso gli
schiacciasse il petto rubandogli il respiro, mentre il materasso
sembrava cosparso di vetri acuminati.
Trasse
un profondo respiro prima di sollevarsi a sedere in un sol movimento,
stringendo i denti per il coro di protesta che sembrò
levarsi da
ogni cellula del suo corpo. Piantò saldamente i piedi a
terra e si
alzò chiedendosi se le gambe avrebbero retto, in quelle
condizioni e
rinunciando al bastone. Protestarono vivacemente, ma ressero,
così
uscì zoppicando dalla sua camera in cerca d’aria
fresca, sollievo
e distrazioni.
Vagò
per un po’ a vuoto per l'enorme villa, irrequieto e
accompagnato
solo dal rumore metallico della protesi che impattava col marmo
freddo. Più camminava, più si sentiva sul punto
di rovinare a
terra, ma allo stesso tempo era incapace di stare fermo: gli sembrava
di avere costantemente un'ombra che si aggirava ai margini della sua
visuale, incalzandolo a muoversi. Ad ogni passo il moncherino
gridava, risvegliando ricordi ora fin troppo chiari, ma non si
arrestò, volendo scacciarli e riuscendo solo ad evocarli in
modo
sempre più vivido.
Le
sue gambe volevano guidarlo verso la camera di Pepper, ma
contrastò
pervicacemente quella tentazione. Non voleva che lo vedesse in quello
stato, e non sapeva spiegarsi se fosse per amor proprio o per evitare
di causarle altro dolore o, ancora, per timore di ciò che
sarebbe
potuto accadere una volta lì. Ad ogni modo, si tenne a
distanza
dalla sua porta.
Finì
per recuperare la chiave nell’armadietto
dell’atrio, imboccando
poi la porta dello studio di suo padre. La chiuse dietro di
sé,
poggiandosi al legno vecchio per non farla riaprire ed esitando ad
accendere la luce. Mosse un passo incerto, allungando a tentoni una
mano davanti a sé mentre si abituava pian piano al buio,
interrotto
solo dalla lama di luce che filtrava dallo stipite difettoso. Si
lasciò avvolgere dal tenue sentore della carta ingiallita e
del
legno vecchio che permeava l’aria, quasi tangibile
nell’oscurità.
Premette infine l’interruttore e la lampadina
sfrigolò, gettando
una luce traballante che si stabilizzò dopo qualche secondo,
rivelando le ben note sagome che popolavano lo studio ancora
sottosopra dopo la sua ultima incursione. In un angolo erano impilati
i documenti che, prima o poi, avrebbe dovuto consegnare allo SHIELD;
nell’altro erano ammucchiati quelli che invece si era
ripromesso di
distruggere e che erano invece rimasti lì a impolverarsi.
Alcuni
fascicoli sulla Stark Expo del ’74 erano poggiati su uno
sgabello
in una risma ordinata, probabilmente riportati lì da Pepper
dopo il
suo lavoro di documentazione.
Si
avvicinò lentamente alla scrivania e vi poggiò
distrattamente la
mano, seguendo le venature del legno con le dita. Il suo
sguardò
vagò sul muro di rilegature che colorava la libreria, senza
soffermarsi su nessuna in particolare. Iniziava ad accusare delle
fitte più insistenti, così si inclinò
contro la scrivania,
alleviando il peso dalla gamba e stringendo il bordo con le dita
sane, le labbra tirate involontariamente in una smorfia.
Trovò
finalmente la forza di indirizzare lo sguardo al baule lì
accanto, e
la sua mano meccanica corse al reattore, picchiettando leggermente
sulla sua superficie liscia. Prima di poterci ripensare si
scostò
dal suo sostengo, s’inginocchio con un gemito a malapena
soffocato
e fece scattare le chiusure metalliche, che opposero una flebile
resistenza prima di cedere, permettendogli di aprire il coperchio con
un cigolio sommesso di cardini a lungo non oliati.
Rimase
per un attimo disorientato dalla mole di colori, forme e figure
familiari che intravvide a colpo d’occhio sulla superficie
ben
stipata del contenitore: un vestito lì, la cornice di un
quadro là,
una scatola di scarpe qua. Si chiese se non avrebbe fatto meglio a
richiuderlo e lasciar riposare il passato e i ricordi.
Sollevò
delicatamente un vestito estivo a motivi floreali, ben riposto in
cima a una pila di indumenti, e passò il pollice sui piccoli
rilievi
dei fiordalisi ricamati finemente sulla stoffa chiara. Gli parve di
sentire una scia appena accennata di acqua di colonia, assieme alle
note ovattate di una melodia conosciuta. Si lasciò sfuggire
un tenue
sospiro mentre ripiegava con accortezza il vestito per riporlo
accanto a lui, lisciando poi con una carezza le pieghe del lino
leggero. Passò a svuotare il baule con obbligata lentezza,
soffermandosi di tanto in tanto a rigirarsi in mano un oggetto
conosciuto, lasciando che evocasse qualche stralcio di ricordo. Dopo
una buona ventina di minuti portò alla luce la sua vecchia
cesta di
giocattoli sul fondo, con sopra un pezzo di cartone rigido a
mo’ di
coperchio. La tirò fuori con qualche scossone, cercando di
trattenere uno starnuto per la polvere che gli stava già
facendo
lacrimare l’occhio, ma finì comunque per
lasciarselo sfuggire
assieme alla cesta, che rovinò a terra e si
rovesciò con un
disordinato fracasso di plastica.
Osservò
con disappunto la selezione di quei pochi giocattoli sparpagliati
che, quando suo padre aveva deciso di punto in bianco che non era
più
un bambino, era riuscito a mettere in salvo con l’aiuto di
sua
madre. Prese tra due dita il modellino elettrico di una Shelby da
corsa che all’epoca aveva passato giornate intere a
modificare e
gli venne da sorridere appena nel pensare alle sue auto in garage:
non era poi cambiato molto, sotto quel punto di vista. Il suo sorriso
si affievolì nel passare in rassegna il resto dei giocattoli
sparpagliati di fronte a lui, individuando quasi all’istante
il
motivo per cui se ne stava inginocchiato per terra nello studio di
suo padre alle tre di notte, cercando di ignorare il dolore al volto
e ai moncherini fattosi man mano sempre più insopportabile.
Il
robottino rosso era rivolto a faccia in su, con la testa ovoidale e
coperta dalla maschera argentata che faceva capolino da sotto
un’astronave, le corte tenaglie ancora piegate in un qualche
gesto
ora privo di significato. Nel soffermarsi su quel dettaglio, una
spiacevole tensione gli attraversò il braccio artificiale,
qualcosa che teoricamente non avrebbe dovuto percepire. Si
sfregò il
rivestimento metallico, come a scacciare la pressione che sentiva
appena sopra il gomito, e si costrinse a prendere il robot. Gli
sembrò più pesante di quanto fosse ragionevole
pensare e più
piccolo di quanto ricordasse, tra le sue mani adulte, segnate e ora
asimmetriche. Lasciò la presa con quella meccanica, che
aveva
cominciato a stringerlo con troppa forza rischiando di deformarlo.
Liberò il respiro che non si era accorto di aver trattenuto
e
rilassò il volto inconsciamente corrucciato, sciogliendo la
tensione
delle sopracciglia aggrottate. Tenne lo sguardo fisso sul rosso vivo
del robot, quasi ipnotizzato.
Emise
un altro sospiro, più secco, quasi violento. Poi
posò il robottino,
risistemò con rapidità il contenuto del baule al
proprio posto e si
rialzò a fatica, recuperando il giocattolo. Chiuse coperchio
e
chiavistello, spense la luce e si sbatté la porta alle
spalle senza
curarsi di chiuderla a chiave, col robottino ancora stretto in mano.
***
Trovò
rifugio in terrazza e si accontentò di scrutare il cielo dal
basso,
piuttosto che attraversarlo in volo come avrebbe voluto. Cercava
qualche stella, ma era nuvoloso, e la luna dimezzata sbucava solo di
tanto in tanto da un’apertura tra le nubi, lanciando qualche
raggio
perlaceo sulla superficie appena agitata dell’oceano.
Tony
se ne stava poggiato al parapetto, con gli avambracci puntati contro
il cemento e il robottino in piedi lì accanto, come se
stesse
ammirando anche lui il panorama. L’aveva posizionato vicino
al
bordo, ad appena pochi millimetri dal vuoto, ed era lì da
almeno
venti minuti. Si
sfregò il volto in un gesto esausto: stava esitando, ancora
una
volta, come nel sogno. Provava una fitta di rabbia feroce ogni volta
che fissava quell’oggetto, eppure ogni volta che faceva per
spingerlo oltre il bordo lo colpiva un’altra fitta,
più dolorosa,
pericolosamente vicina al punto in cui erano incastrati i frammenti
della bomba.
Non riusciva a capacitarsi di trovarsi lì a
causa
dell’uomo che gli aveva regalato quel giocattolo. Era una
concatenazione di eventi di cui era stato cosciente sin dal momento
in cui si era risvegliato su quel letto d’ospedale, ma
paradossalmente, proprio ora che riusciva a ricordare nel dettaglio
ciò che era accaduto, il tutto aveva assunto contorni
onirici e
ineffabili. L’unica cosa vivida e reale era il dolore ai
moncherini; sapeva che a breve si sarebbe pentito amaramente della
sua passeggiata notturna, ma si ostinava a resistere, concentrandosi
su quella sensazione spiacevole per scacciare il dubbio di non
essersi mai svegliato dopo l’incidente. Ma era lì,
in piedi, e
stava morendo per colpa di Stane.
Sfruttò
quel getto di rabbia e prese un respiro profondo, e con esso anche il
robot, soppesandolo poi nel palmo metallico. Serrò la mano,
e udì
un lieve stridio di plastica in risposta. Un attimo prima di perdere
il controllo e disintegrarlo, lasciò la presa oltre il bordo.
Nel
guardarlo cadere, provò un senso di vertigine che non
scomparve
neanche quando il puntino rosso fu inghiottito dai flutti scuri. Non
era la sensazione piacevole che lo coglieva al decollo, ma piuttosto
quella di precipitare all’infinito, quasi si fosse buttato
lui
stesso dalla scogliera. Per un attimo si chiese se non
l’avesse
fatto davvero, e gli parve di sentire l’abbraccio freddo e
salmastro delle onde sulla pelle. Avvertì un gorgo
spalancarsi al
centro del petto.
Si
scostò bruscamente dal parapetto, reprimendo un conato e
rendendosi
conto solo allora dei brividi che lo scuotevano già da
chissà
quanto. Era zuppo di sudore freddo e gli sembrava che la pressione
nella sua gabbia toracica fosse aumentata, rendendolo dolorosamente
consapevole del reattore che la trapassava e di ogni singola costola.
Si
lasciò cadere seduto sulla cornice dell’aiuola,
accanto alla
ginestra che dondolava tranquilla nella brezza serale. Gli tremavano
le gambe, ma le ignorò e portò il palmo metallico
a coprirsi la
bocca, soffocando un lamento e un respiro strozzato assieme. Non
voleva avere un altro attacco di panico dopo quello che
l’aveva
colto nel sonno, ma il suo corpo sembrava aver deciso altrimenti e
stava cercando di cacciarlo fuori di sé per
l’ennesima volta.
Strizzò l’occhio, imponendosi di controllare il
respiro contando all'indietro, come gli
aveva insegnato a fare Ian, e riuscì a incamerare una
boccata d’aria
appena sufficiente a non fargli oscurare la vista. Di nuovo,
sfruttò
le fitte come appigli, riuscendo ad allontanarsi pian piano dal
vortice, nonostante la corrente che cercava di attirarlo a
sé fosse
ancora ben percepibile e le immagini dell’incubo gli
scorressero in
testa a ripetizione.
Stane
che cadeva, il suo braccio che si allungava seguendo un puro istinto,
il robottino che cadeva a sua volta. Contrasse i pugni, col fiato
corto.
Un
rumore secco che spiccò contro quello soffuso della risacca
lo fece
voltare verso la porta-finestra che si apriva sul terrazzo. Un misto
di piacevole sorpresa e apprensione gli strinse lo stomaco nel vedere
Pepper che chiudeva il vetro dietro di sé, con i capelli
sciolti
scarmigliati dal sonno e dalla brezza leggera e la solita accoppiata
di maglietta e pantaloncini trafugati a lui che usava come pigiama.
«Anche
lei qui, signorina Potts?» la accolse, rivolgendole un
sorriso
appena accennato e cercando di non suonare affannato per non dare a
vedere il suo turbamento.
Il
sollievo di averla lì accanto superava di gran lunga il
senso di
colpa per essere probabilmente la causa della sua insonnia.
«Ho
sentito un rumore e ho pensato che fossi sveglio,» rispose
lei
avvicinandosi e rimanendo in piedi accanto a lui.
Tony
pensò alla scatola che gli era caduta prima
nell’ufficio e alla
ben poca grazia che aveva avuto nel riordinare il baule e nel lasciare
la
stanza. Si accigliò appena, sia per quello, che per il fatto
che
fosse passata almeno mezz’ora. Non si spiegava
perché Pepper
avesse aspettato così tanto prima di raggiungerlo, e
soprattutto se
si fosse dovuta convincere a farlo. Trattenne l’urgenza di
sospirare per le insensate congetture che lo assillavano
puntualmente. Tenerle a bada era estenuante e a volte avrebbe solo
voluto accettarle come vere per avere un momento di pace mentale.
Soffocò quel senso di inadeguatezza che cercava di
sopraffarlo ogni
volta che si trovava vicino a lei e raccolse la voce per parlare di
nuovo:
«Ti
ho svegliata?»
Pepper
esitò nel rispondere e lui percepì
l’ansia impennarsi per un
istante, chiudendogli lo stomaco.
«No,»
disse lei, senza incrociare il suo sguardo.
Si
sedette accanto a lui, con la ginestra che protendeva appena i suoi
rami tra loro in una lieve barriera facilmente travalicabile.
«Quindi
eri già sveglia?» indagò Tony, intuendo
la sua reticenza.
Di
nuovo, non ottenne subito risposta. La osservò sfiorare i
minuti
boccioli gialli con la punta delle dita, in un gesto assente.
«Non
riuscivo a dormire,» confessò poi, in fretta.
«Tu?»
«Sono
rimasto sveglio in laboratorio,» mentì lui.
Sentì
gli occhi di Pepper che lo scrutavano a fondo, cercando di
smascherarlo, ma s’impedì di far trapelare un
qualsiasi cenno di
cedimento. Un conto era essere sinceri, un altro era farla
preoccupare per qualcosa che sfuggiva al controllo di entrambi; non
aveva alcun bisogno di sapere quanto lo stessero tormentando le
ferite in quel momento, né perché il dolore fosse
così accentuato.
Né che l’intossicazione sfiorava ormai il 65%.
Erano rimasti
d’accordo di non parlarne più esplicitamente e in
termini numerici
e percentuali, ma ormai sentiva il palladio che iniziava a chiudergli
i polmoni come una pianta infestante ed era inutile cercare di
camuffare il malessere: Pepper ne era sempre perfettamente cosciente
e aveva solo scelto di rispettare i suoi silenzi al riguardo,
rimanendogli accanto.
Anche
adesso aveva sicuramente captato la sua bugia, ma non insistette, e
gliene fu grato. Si limitò a fargli una carezza sul braccio,
suscitandogli il consueto miscuglio di emozioni che avrebbe potuto
farlo uscire di testa; quel tira e molla inconcludente tra il volersi
ridurre a un atomo invisibile e il voler invece fondersi con la sua
pelle ad ogni minimo contatto.
In
quel breve lasso di tempo si era imposto di superare quella fisima,
ripetendosi che anche quello – soprattutto
quello – faceva parte dell’essere amati, e aveva
raccolto più
vittorie che sconfitte. Il fatto che neanche Pepper si fosse
dimostrata incline ad accelerare i tempi era stato un ulteriore
sprone. Ma adesso non si sentiva assolutamente nelle condizioni di
essere indulgente col proprio corpo, non con i pensieri che si
scontravano con violenza nella sua testa rintronandolo e riportandolo
al momento in cui era stato mutilato e sfigurato.
Si
ritrasse quindi al contatto senza riuscire a frenarsi, e Pepper
lasciò subito scivolare via la mano. Tony notò
come tirò
impercettibilmente le labbra nel farlo, con una singola piega che
andò a intaccarle la fronte. Gli sfuggì un lungo
sospiro che
s’impegnò a rendere il più silenzioso
possibile, per poi
accostarsi di più a lei fino a sfiorarla, sperando che
capisse e che
sopportasse quel suo lato che spesso sfuggiva al suo controllo. Lei
non si mosse e, anzi, si adagiò nel suo calore.
Cercò la sua mano
artificiale, stavolta, e stavolta Tony si sforzò di
accettare quel
gesto, come sempre disorientato dal conflitto tra l’assenza
di
tatto e il vedere ciò che avrebbe dovuto sentire,
risvegliando
un’ombra di percezione nel suo arto inanimato. Non
osò muoversi,
come sempre paralizzato dal timore di farle involontariamente male,
ma quel contatto mediato era più gestibile di uno diretto.
«Giuro
che ci sto provando,» mormorò frustrato, come
unica spiegazione, e
sentì il sospiro di Pepper solleticargli la pelle in tutta
risposta.
«Va
bene così, Tony. Ne abbiamo parlato,» lo
rassicurò, inclinando il
volto verso di lui.
Lui
non rispose, ma tirò appena lo bocca in
un’espressione poco
convinta. Pepper era sembrata in un certo senso più esitante
a
venire in contatto fisico con lui; non che non lo ricercasse, anzi,
non gli era mai stata così vicina, ma vi era una sorta di
reticenza
di fondo da parte sua che non riusciva a collocare. E non riusciva a
capire se ciò nascesse dalla volontà di
rispettare i suoi spazi, o
da un ripensamento sulle sue scelte. Quasi a voler fugare quel
dubbio, inghiotti la sua ansia e allentò per un istante il
freno che
si era imposto: si chinò verso di lei, per poi esitare
volutamente a
pochi millimetri dalle sue labbra – non che sarebbe mai
riuscito a
incontrarle davvero. Fu lei a colmare la distanza causandogli un
sussulto interiore, con tanta naturalezza da farlo vergognare di aver
dubitato di lei. Non appena sentì le sue labbra allontanarsi
le
seguì d’istinto, prolungando un poco quel breve
contatto che gli
rimescolava i pensieri spingendo sotto la superficie quelli
più
cupi. Avrebbe voluto raggomitolarsi in quei singoli istanti per ore,
mettendo in sospeso tutto ciò che gli impediva di ricercarli
più
spesso.
Quando
interruppe il bacio, fu solo perché sentì il
cuore sul punto di
entrare in fibrillazione, e rimase comunque vicino a lei, chiedendosi
in sottofondo se fosse tutto così facile perché
in quel momento non
era nel pieno controllo di se stesso, o se si trattasse invece del
caso il contrario. Quei pensieri avrebbero finito per farlo impazzire
davvero, anche se aveva il sospetto che gli incubi ci sarebbero
riusciti prima.
Il
ricordo di Pepper fasciata da quel lungo vestito verde di tanti anni
prima fece di nuovo capolino nella sua mente, quasi a rassicurarlo.
Le sorrise appena, suscitando un’espressione confusa sul suo
volto,
impegnata com’era a cercare di decifrare i suoi comportamenti
contraddittori, e spostò lo sguardo sull’oceano
increspato e
delimitato dal serpente di luci che rincorreva la Pacific Highway
sulla costa.
«Ti
ricordi Venezia?» si decise a chiedere, incurante di quanto
suonasse
strana quella domanda.
Poté
quasi percepire nell’aria la perplessità di
Pepper, ma quando
parlò il suo tono rimase neutro, con solo una punta di
curiosità a
ravvivarlo:
«Certo.
Perché?»
Tony
scrollò le spalle, confuso a sua volta, e sfuggì
il suo sguardo
coprendosi poi con la mano il lato sinistro del volto in una tenue
difesa, accusando l'assenza della benda.
«Niente.
Ci sarei voluto tornare,» disse evasivo.
Non
riuscì ad aggiungere altro, né a nascondere il
rimpianto che
trapelò dalla sua voce e che espresse molto più
di quanto avrebbe
voluto. Sentì Pepper irrigidirsi appena e ad accostarsi a
lui come
di riflesso, cogliendo all’istante i sottintesi di
quell’affermazione e le possibilità che escludeva.
«Magari
quest’estate,» la sentì dire poi, a voce
bassa ma ferma, con
quella tenacia che non la abbandonava mai.
Tony
si trovò a stringerla delicatamente a sé,
ignorando ancora le
proteste insensate della sua mente e accogliendo con silenziosa
gratitudine quelle parole, forse banali, forse illusorie, ma dolci
per le sue orecchie. La morsa al petto non si allentò, ma
divenne
sopportabile. Pepper era sempre in grado di riaprire la porta sul
futuro ogni volta che lui la chiudeva.
«Vuoi
rientrare?» le chiese dopo un po’.
Lei
si riscosse dal torpore, sollevando la testa fino ad allora poggiata
sulla sua spalla.
«Tu
vuoi rientrare?»
Tony
considerò per qualche secondo la domanda. Si
trovò a non voler
interrompere quel momento, per quanto una parte di sé
avrebbe
accolto volentieri il rifugio del proprio letto. Dopo
quell’incubo
si sentiva più vulnerabile che mai, come se qualcuno gli
avesse di
nuovo aperto il petto per mettere a nudo non solo il suo cuore, ma
anche tutto ciò di invisibile in cui galleggiava. Ma
c’era solo
Pepper a guardarlo, e non aveva motivo di nascondersi ai suoi occhi,
anche se non era in grado o non voleva esprimersi a parole; non ora,
almeno.
“Forse
domani. Forse quest’estate.”
«Sto
bene qui,» rispose infine, rivolgendole un sorriso mesto e
appena
accennato.
«Anch’io,»
concluse Pepper, tornando a guardare l’oceano buio e
poggiandosi di
nuovo a lui.
Tony
fece lo stesso, seguendo distratto il moto lontano delle onde,
punteggiate da riflessi che gli rievocava ricordi altrettanto
distanti.
"Non
sarebbe un brutto posto per morire," quel pensiero repentino
sfuggì al suo controllo assieme alla lacrima che gli
rigò il volto,
muta e invisibile nella penombra della terrazza.
***
13
Maggio, 4:15, Villa Stark
Forse
non avrebbe dovuto lasciarlo solo.
Pepper
si rigirò ancora nel letto, attorcigliandosi sempre
più nelle
pieghe del lenzuolo esattamente come stava facendo la sua mente coi
pensieri. Non riusciva a togliersi dalla testa lo sguardo confuso e
sofferente di Tony e le sembrava di non essere riuscita a decifrarlo
del tutto, o forse di non averci provato affatto.
Sapeva
che, quando la cercava in modo così diretto ed esplicito,
seppur
esitante, nascondeva sempre un turbamento più profondo che
metteva
momentaneamente in secondo piano tutto ciò che lo avrebbe
spinto a
ritrarsi in un’altra situazione. Era una presa di coscienza
dolorosa, accompagnata dalla consapevolezza che in ogni gesto che
Tony le rivolgeva, per quanto piccolo, vi fossero una premura e
un’intensità ben percepibile, come se tentasse
sempre di
racchiudervi tutto ciò che poteva nel timore di non poterlo
ripetere. E lei faceva lo stesso, attanagliata da un timore simile
che si diramava però in direzioni più variegate.
Si
chiedeva se, o meglio quanto,
le sarebbe mancato seguire con la punta delle dita il filo diritto
della sua mandibola, o sentire il suo pizzetto pizzicarle la guancia,
o passargli una mano tra le ciocche morbide, o accogliere le sue
labbra calde e ferme con le proprie. Era l’unica stilla di
paura
che la faceva esitare e che a volte bloccava sul nascere un gesto
troppo audace o ne interrompeva uno che avrebbe potuto imprimersi
troppo a fondo nella sua memoria.
Ritornava
comunque troppo spesso col pensiero a quegli attimi
sull’aereo,
quando aveva ceduto a quel bacio trattenuto per mesi; e a quello di
qualche giorno dopo, quando Tony l’aveva infine accettato,
dando
ufficialmente il via a un qualcosa che nessuno dei due sapeva o
voleva definire o etichettare. Da quel momento avevano preso a
orbitare l'uno attorno all'altro in modo quasi inconsapevole, come
due magneti, ma coi poli rivolti troppo spesso dal lato sbagliato che
creavano un'invisibile e tangibile forza repulsiva tra loro.
Riuscivano a contrastarla quel tanto che bastava per ritagliarsi dei
momenti di quieta normalità, ma aveva sempre
l’impressione che
fossero solo pagliuzze rubate a ciò che sarebbe potuto
essere e che
non sarebbe mai stato.
Quella
realizzazione la colpì in profondità, rubandole
il fiato per un
istante. Sapeva che Tony aveva ripreso a lavorare notte e giorno al
nuovo
reattore, esattamente come le aveva promesso, così come
sapeva che
non aveva ottenuto risultati. Gliela leggeva nello sguardo, quella
frustrazione mista ad amarezza che lo coglieva ogni volta che usciva
con passo falsamente baldanzoso dal laboratorio, che pesava in modo
indelebile nelle parole che gli sfuggivano di tanto in tanto, andando
a scoprire le corde sanguinanti che tentava in tutti i modi di
nasconderle; come quella sera. E più ripensava alla
malcelata
sofferenza nel suo sguardo smarrito, alle sue parole malinconiche e a
quel bacio che, piuttosto che un'altra conferma, le era sembrato una
domanda,
più si convinceva che non avrebbe assolutamente
dovuto lasciarlo solo.
Il
singolo fotogramma che tormentava ancora le sue notti, quello della
luce
azzurrina del reattore scissa dal petto del suo proprietario, le
balenò davanti agli occhi in un monito cupo.
Si
era già tirata su di scatto nel letto, quando lo squillo del
suo
cellulare ruppe il silenzio notturno.
***
13
Maggio, 4:15, Villa Stark
Tony
maledisse per l’ennesima volta la propria avventatezza mentre
soffocava un gemito nel cuscino, sforzandosi di controllare gli
spasmi che avevano preso a scuoterlo da capo a piedi. Aveva la netta
percezione di ogni singolo osso e muscolo nel suo corpo, tutti
decisamente doloranti o pervasi da una spiacevole sensazione
gelatinosa. Le protesi erano diventate due tizzoni ardenti premute
sui moncherini.
Sapeva
che porle sotto sforzo in una situazione di stress non era mai una
grande idea, ma non aveva pensato di subire delle ripercussioni
così
violente, probabilmente anche amplificate
dall’intossicazione. Non
si spiegava altrimenti l’emicrania che si era aggiunta al
vasto
assortimento di fitte che gli impediva di chiudere occhio,
né il
respiro fattosi più superficiale e accelerato.
“Respira,
ora ti passa. È normale,” tentò di
convincersi ancora.
Ma
sapeva che non era normale: era il palladio che lo stava uccidendo e
che ci teneva a farglielo presente.
Artigliò
il lenzuolo e affondò le unghie nel materasso sottostante
quando
l’ennesimo crampo gli stritolò le ferite,
spezzandogli il respiro
e facendogli desiderare di poter semplicemente svenire. O di avere i
suoi antidolorifici a portata di mano, ma era quasi con disperazione
che aveva constatato che il tubetto sul comodino era vuoto, e di non
essere assolutamente in grado di alzarsi per recuperarne uno dei
tanti sparsi per tutta la casa.
Gettò
uno sguardo all’orologio e quasi desistette dai suoi intenti,
prima
che i suoi pensieri venissero annebbiati da una nuova ondata di
dolore, convincendolo a mettere da parte orgoglio e sensi di colpa.
Attivò il microfono di JARVIS con uno schiocco di dita e
mormorò
rapido un comando. Pochi istanti dopo sentì il cellulare di
Pepper
squillare ovattato nell'altra camera; gli venne da sorridere appena
contro il cuscino nel riconoscere le prime note di Born
To Run,
troncata dopo soli pochi secondi.
La voce di Pepper
risuonò nell'interfono, stranamente vigile nonostante gli
evidenti
strascichi del sonno appena interrotto. Forse, di nuovo, non era
l’unico a non chiudere occhio.
«Tony?
Che succede?»
«Ho
finito gli antidolorifici,» esordì lui, con voce
sforzata e
saltando i convenevoli. «Ne avrei un discreto
bisogno,» si obbligò
a dire poi, con mal riuscita leggerezza, per poi affondare di nuovo
la faccia nel cuscino per smorzare un respiro traballante.
Ci
fu un breve silenzio dall’altro capo, sinonimo di una
preoccupazione che non avrebbe voluto suscitare.
«Dove
sono?» gli arrivò poi, e captò un
fruscio di lenzuola in
sottofondo mentre già si alzava senza esitazioni.
«In
laboratorio. Non ricordo dove,» troncò un lamento
contro i denti e
sperò che la chiamata fosse finita in tempo per non captarlo.
Sentì
dei passi felpati lungo il corridoio, affrettati; arrivarono di
fronte alla sua porta, s'interruppero brevemente e poi proseguirono,
diretti al piano inferiore.
Tony
cacciò la testa sotto al cuscino, in attesa. Non era certo
la prima
volta che gli capitava di aver bisogno del suo aiuto a orari
improbabili, ma era stato ormai molto tempo fa, prima delle protesi e
soprattutto prima che il loro rapporto scivolasse in territori non
ancora del tutto esplorati. Sentì un persistente velo
d’ansia
posarsi sulle sue spalle, assieme al desiderio soppresso di averla
accanto.
Poco
più di un minuto dopo udì la maniglia che
scattava, e il materasso
si abbassò appena quando Pepper si sedette sulla sponda del
letto.
Non trovò la forza di smuovere il cuscino dalla faccia,
nell'irrazionale convinzione che potesse servire ad attutire almeno
il mal di testa. Riconobbe, ovattato, il rumore del tubetto di
plastica degli antidolorifici che veniva posato sul comodino, seguito
da quello del vetro di un bicchiere. Lui non reagì, timoroso
di
turbare la relativa quiete che si era creata nella sua scatola
cranica. Sentì la sua mano che gli sfiorava la spalla,
delicata,
come a verificare che fosse sveglio.
«Grazie,»
articolò, sempre senza muoversi, con la voce appena udibile
contro
la stoffa.
Un
refolo d'aria più fresca gli sfiorò il volto
quando Pepper scostò
il cuscino; non si ribellò, non ne aveva comunque la forza.
Inquadrò
i suoi occhi stanchi, ma illuminati di apprensione, e pensò
che
avrebbe anche potuto resistere fino al mattino, invece di farla
svegliare di nuovo nel cuore della notte, per altro facendola
spaventare a morte. Cercò di rivolgerle un sorriso
rassicurante, ma
sapeva che non l'avrebbe convinta, soprattutto perché quello
che gli
attraversò il voltò dovette assomigliare
più a uno spasmo.
Apprezzò il fatto che Pepper non avesse iniziato a
tempestarlo di
domande su come si sentisse, facendolo sentire ancora più
sotto
pressione di quanto non fosse.
Si
fece forza e si tirò su sul gomito sano, il volto contratto
in una
maschera sofferente che non riuscì a stemperare. Pepper lo
sorresse,
prendendo atto di quanto fosse provato, e lo aiutò a
poggiarsi
contro la testiera. Gli offrì il bicchiere con la pasticca e
lui la
ingollò a fatica, con la nausea fino ad allora sopita che
tornava a
farsi sentire. Si affrettò a distendersi prima che
peggiorasse, di
nuovo prono e mezzo abbracciato al cuscino, con il volto premuto
contro la federa dal lato cieco in modo da continuare a guardarla.
Pepper
aveva seguito attentamente ogni suo movimento, stavolta senza
intervenire: avevano raggiunto un'intesa piuttosto buona sui momenti
in cui aveva bisogno di aiuto. Colse un istante di esitazione da
parte sua, prima che si mettesse seduta accanto a lui con la schiena
rivolta verso il suo fianco, le ginocchia ripiegate sotto il mento.
Lui
accolse in silenzio quella vicinanza, troppo intento a immaginare che
il medicinale appena assunto prendesse a sciogliere i dolorosi nodi
di tensione che costellavano il suo corpo, ma sapeva che era troppo
presto perché facesse effetto. In compenso, i suoi pensieri
si
stavano facendo sempre più ingarbugliati e poco razionali,
aprendo
la strada a un ventaglio di azioni possibili che di norma non gli
sarebbero mai passate per la testa. Si chiese cosa sarebbe successo
se avesse allungato un braccio a cingere la vita di Pepper,
stringendola e attirandola a sé; si chiese cosa sarebbe
successo se,
invece, avesse chiesto a lei di fare lo stesso; si chiese, ancora,
cosa sarebbe successe se l’avesse cacciata via,
risparmiandole
quello spettacolo pietoso a cui si sentiva obbligata ad assistere. Si
sentiva di nuovo sotto una pressa che lo stritolava, impedendogli di
respirare e acuendo ogni sensazione spiacevole. Percepì in
gola il
retrogusto salino delle lacrime e si sforzò di inghiottirle.
«Pep,
vai a dormire,» mormorò a fatica, senza troppe
speranze di venire
ascoltato.
«Gli
antidolorifici ci metteranno un po' a fare effetto. Aspetto che ti
riaddormenti,» replicò infatti lei, con ferma
naturalezza.
«Non
ce n’è bisogno. Sono abituato,»
s’impuntò lui, lasciandosi
sfuggire suo malgrado un sibilo quando mosse inavvertitamente i
moncherini.
«Io
no,» tagliò corto lei a voce più bassa,
facendolo accigliare.
Non
aveva intenzione di demordere, ma ogni sua protesta fu zittita quando
sentì la mano di Pepper che gli affondava tra i capelli,
prendendo
ad accarezzarli.
«Questo
è un colpo basso,» gli sfuggì in un
mugolio arrendevole,
inclinando involontariamente la testa a seguire quel movimento.
Poté
percepirla sorridere appena anche senza guardarla, e soppresse quella
maledetta vocina che gli urlava senza sosta di sottrarsi, riuscendo a
ridurla a un semplice ronzio di sottofondo, non del tutto ignorabile
ma comunque indistinto. Pepper aveva intuito abbastanza rapidamente
che quella era una sorta di zona franca, per lui molto più
gestibile
dal punto di vista fisico, forse perché per dieci anni era
stato
abituato a farsi sistemare puntualmente i capelli da lei prima di
conferenze o meeting, quando si presentava dopo una notte brava con
un’acconciatura ben poco consona a un incontro formale. Fatto
sta
che quel gesto lo sprofondava in uno stato di beatitudine completa. In
quei momenti Pepper avrebbe potuto chiedergli di dipingere
l’armatura di rosa shocking e avrebbe acconsentito senza
battere
ciglio.
Nessuna
donna gli aveva mai riservato delle carezze così delicate,
che
superavano la sua pelle per arrivare lì, tra il reattore il
cuore,
dove si condensavano in una stretta piacevole e rassicurante che
sembrava guidare i suoi battiti. Si concentrò quindi su
quella
sensazione piacevole, sulle sue dita che gli districavano le ciocche
più lunghe sulla fronte e che sembravano fare lo stesso coi
suoi
pensieri, trovando il capo di ognuno ed evitando che si annodassero
di nuovo tra loro.
Era
comunque raro che Pepper ricercasse quel contatto con lui in modo
così esplicito e prolungato. La solita vocina gli suggeriva
che
fosse per il senso di repulsione istintiva che provava per lui, ma
sapeva, lo sapeva,
che non era altro che un'accortezza nei suoi confronti, proprio per
rispettare quegli spazi che faticava così tanto a
concederle.
Riusciva a superare quei limiti autoimposti solo nei momenti in cui
le sue difese erano troppo fiacche per essere efficienti; e in quei
casi, Pepper si insinuava con la consueta discrezione tra le
falle, cercando di aiutarlo a sanarle dall’interno.
Sospirò
appena, gettando fuori una minima parte della marea di pensieri che
minacciava di affogarlo e lasciando che fosse il tocco di Pepper ad
avvolgerlo al loro posto. Oltre a quella sottile protezione sentiva
ancora l'ombra della paura premere su di lui, nonostante l'incubo
fosse finito da un pezzo e il suo ultimo ricordo materiale giacesse
sul fondo del mare. Sentì comunque il suo corpo rilassarsi a
poco a
poco a quelle carezze, inibito dall’antidolorifico che stava
lentamente agendo, e senza accorgersene si trovò a fluttuare
verso
un piacevole dormiveglia. Fece appena in tempo a chiudere la
palpebra, che due feroci occhi azzurrini si spalancarono davanti a
lui. Si destò con un lieve sussulto, contraendo i muscoli in
uno
spasmo e trattenendo bruscamente il respiro.
«Tony?»
la voce allarmata ma limpida di Pepper lo raggiunse, strappandolo del
tutto all’incubo.
«Sto
bene,» annaspò, di nuovo con l’orrenda
sensazione di avere
dell’acqua salmastra nei polmoni.
Percepì
Pepper chinarsi appena su di lui e continuò a tenere il
volto
affondato nel cuscino, sia per nascondere lo sfregio, sia per evitare
i suoi occhi.
«Davvero?»
gli chiese, con un evidente sottotono retorico.
Tony
rimase in silenzio, frenando l’istinto di mentirle di nuovo
mentre
la propria attenzione era orientata da tutt’altra parte:
avrebbe
solo voluto che lei riprendesse ad accarezzargli i capelli, ma la sua
mano si era invece spostata al centro delle sue spalle, leggera, ma
fin troppo vicina al punto in cui la protesi del braccio si ancorava
alla pelle. Sentì il cuore schizzargli nel petto al solo
pensiero
che sfiorasse per sbaglio le ferite, e si irrigidì
dolorosamente.
Pepper sembrò intuire il problema, perché
interruppe il contatto,
lasciando solo l’orma del suo calore a lambire il metallo.
«No,»
rispose infine lui, con un filo di voce che si sforzò di
mantenere
stabile.
Pepper
incassò in silenzio quella risposta, forse sorpresa dalla
sua
schiettezza.
«È
per questo che prima sei uscito?» indovinò senza
troppo sforzo.
«Mi
serviva una boccata d’aria,» replicò
lui, di nuovo evasivo, di
nuovo assediato dalle immagini che non riusciva più ad
arginare, di
nuovo incapace di muoversi e paralizzato dal dolore come lo era stato
su quel tetto. «Tu perché eri sveglia?»
si affrettò a chiedere
prima di venire sopraffatto, sentendosi comunque meschino nel
rivoltare a quel modo la discussione.
«Avevo
troppi pensieri,» rispose lei, senza ritrarsi, e Tony
assorbì
quella che in effetti non era una novità, sebbene non fosse
mai
stata espressa ad alta voce.
«Ne
vuoi parlare?» le propose di getto, e quasi si
stupì di quanto
quelle parole gli fossero venute naturali, nonostante tutto il
coacervo di pensieri e sensazioni che lo assillava in quel momento.
«Non
c’è molto da dire,» svicolò
lei, con un lieve tremito che la
tradì nell’alzare appena le spalle esili, in un
gesto al contempo
rassegnato e noncurante.
«Guarda
che sono un ottimo ascoltatore, quando non sono occupato a parlare di
me stesso,» insistette, usando un tono lievemente scherzoso
per
farle capire che non aveva intenzione di pressarla.
Inclinò
appena il volto per guardarla, seduta lì accanto col profilo
delicato appena visibile nella penombra della camera, le mani strette
sotto le ginocchia a tenerle piegate. Sembrava ancora più
esile di
quanto non fosse, così rannicchiata. Tony passò
in rassegna almeno
una dozzina di approcci tinti da sfumature d’ironia
più o meno
intense per invogliarla a parlare, solo per lasciarsi sfuggire un
profondo, inutile sospiro che prolungò il silenzio.
«Ho
paura. Ma lo sai già,» affermò infine
lei, come se fosse incapace
di trattenersi oltre e allo stesso tempo di aggiungere altro.
Tony
non rispose. Non credeva di poter scacciare delle paure che lui
stesso non riusciva a controllare. Si limitò a girarsi
cautamente su
un fianco per stringersi a lei, quel tanto che bastava per permettere
a entrambi di percepire il calore dell’altro; la
sentì poggiare
cautamente la schiena contro il suo addome, in una silenziosa
ricerca di vicinanza e conforto, la stessa che lui non riusciva quasi
mai ad esternare. Riusciva a sentirla respirare, un movimento lieve a
cui si adeguò d’istinto, sentendolo quasi come
proprio.
«Ho
avuto un incubo,» le confessò infine, a voce
bassa. «Anche se
forse era un dramma in tre atti, o qualcosa del genere,»
minimizzò,
con incerta leggerezza.
Ci
fu una pausa che sembrò addensarsi tra loro.
«E
cosa hai sognato?» dal suo tono intuì che aveva
avuto timore di
chiederlo.
«Molte
repliche, un Transformer mal riuscito e una rivisitazione del Re
Leone,»
sciorinò lui, più spigliato.
Udì
Pepper sbuffare, forse il principio di una risatina.
«Se
non ne vuoi parlare, non devi,» lo rassicurò,
senza alcuna traccia
di rimprovero.
Tony
sbuffò di rimando contro il cuscino, in cerca di un modo in
cui
poterle raccontare ciò che aveva sognato. O meglio, vissuto
di
nuovo. Avrebbe potuto parlarle dello scontro in modo pragmatico,
senza sprecarsi in sentimentalismi inutili, o avrebbe potuto dirle
quanto fosse stato sollevato di saperla al sicuro nonostante la sua
situazione disperata, o avrebbe potuto confessarle
quell’istante di
stolta compassione che l’aveva condannato per sempre. Un
punto
valeva l’altro, ma si trovò a scegliere
l’unico che contasse
veramente:
«Non
è colpa tua,» esordì, cercando il suo
sguardo.
Lei
lo incontrò, gli occhi chiari appena visibili nella
penombra. Riuscì
comunque a leggervi la sorpresa, assieme a un velo
d’apprensione
nel modo in cui tirò impercettibilmente le labbra.
«Cosa?»
tentennò lei, senza nascondere la tensione del riuscire
già ad
immaginare la risposta.
«Quello
che mi è successo,» chiarì Tony,
parlando con lenta cautela,
consapevole di stare toccando un tema molto sensibile e in sospeso da
più di un anno.
Lei
infatti sviò subito il suo sguardo, puntandolo in basso; si
passò
nervosamente le mani lungo le gambe, per poi prendere a torcersi le
dita nella sua consueta esternazione ansiosa.
«Non
che prima avessi alcun dubbio,» si affrettò ad
aggiungere Tony,
sempre con voce pacata. «Ma adesso ho le prove
incontestabili,
sempre che ti fidi del mio inconscio e della mia memoria
rediviva,»
concluse senza mai distogliere lo sguardo, come se ciò
potesse dare
più spessore alle sue parole.
Pepper
non sembrò affatto tranquillizzata e non smise di
tormentarsi le
mani.
«Cosa
hai ricordato?» gli chiese, a metà tra lo
speranzoso e
l’angosciato.
«Ho
sognato l'incidente,» disse lui, vacillando appena nel
parlare. «Non
è la prima volta, ma sono sempre stati sogni confusi o
assurdi…»
s’interruppe, cercando di distogliersi dal dolore ai
moncherini che
era tornato a farsi sentire con più insistenza, quasi in
reazione
all’argomento. «Stavolta c’erano troppi
dettagli, e li ricordo
ancora tutti. Non era solo un sogno,» concluse, con decisione.
Sentì
Pepper agitarsi sul posto, con le mani ora strette attorno alle
caviglie sottili e il mento incuneato tra le ginocchia; i capelli
lisci e appena arricciati sulle punte le schermavano il volto in una
cortina ramata, impedendogli di vedere la sua espressione.
«Anch’io
ricordo cosa è successo quel giorno,»
mormorò infine, atona. «E
lo so che vuoi rassicurarmi, ma io ho
concretamente avuto un ruolo in quello che ti–»
«No,
Pep, stammi a sentire,» la interruppe lui, con improvvisa
veemenza,
e fece perno sui gomiti per sollevarsi, ignorando le fitte lancinanti
che lo colpirono senza però farlo desistere dal suo intento.
«Tony,
non sforzarti,» si allarmò lei, girandosi rapida
verso di lui e
provando a farlo distendere di nuovo.
Premette
d’istinto una mano contro il suo petto e lui
sobbalzò appena, ma
non si lasciò arrestare e contrastò senza fatica
quella leggera
pressione, mettendosi così seduto a fronteggiarla, col cuore
a mille
e un affanno malcelato. Pepper
lo fissava con occhi resi enormi dalla preoccupazione, le mani ora
serrate tra loro in grembo come se non sapesse cosa farsene; Tony vi
insinuò la sua, rompendo quella morsa e che si
trasferì subito alle
sue dita. Convogliò tutta la sua forza di volontà
nel mettere di
nuovo a tacere quell’insidiosa vocina che gli suggeriva
quanto
potesse essere sgradita per lei quell’improvvisa vicinanza.
Il
fatto che la flebile luminescenza azzurrina del reattore fosse adesso
l’unica fonte di luce non lo aiutava a gestire meglio la
situazione.
«Tutto
ciò che ho… che ho perso...»
Si obbligò a deglutire il blocco d’ansia che gli
aveva ostruito la
gola, cercando di non fargli pronunciare ad alta voce quei dettagli
che sembravano ancora straziarlo fisicamente.
«Questa,» ricominciò,
e batté piano le nocche metalliche sul rivestimento della
protesi
inferiore, «non so esattamente come sia successo…
il mio database
ha ancora qualche lacuna.»
Offrì
un lieve, stentato sorrisetto di scuse, puntando lo sguardo sulle
giunture della protesi, e captò quello di Pepper farsi
attento e
addolorato assieme, realizzando ciò che si stava apprestando
a
raccontarle.
«Comunque,
è successo molto prima che tu intervenissi,»
esitò per una
frazione di secondo. «L’ho detto anche a te, che mi
ero rotto la
gamba… ti ricordi?» tentò, non volendo
in realtà risvegliare
quelle immagini anche nella sua testa, ma pensando allo stesso tempo
che fosse l’unico modo per farle credere che quei fatti
fossero
reali, non solo un parto onirico del suo inconscio.
Lei
annuì rapida ad occhi bassi, stringendo di più la
sua mano,
passando le dita sulle linee del suo palmo e seguendo i calletti che
gli segnavano i polpastrelli, quasi a distrarsi da ciò che
stava
sentendo.
«Avevo
già chiamato i soccorsi. Pensavo che fosse
finita,» disse poi,
appena udibile.
Tony
tacque per un po’, con lo scontro che si svolgeva di nuovo
davanti
ai suoi occhi, incluso tutto ciò che avrebbe potuto fare per
evitare
di finire su quel letto d’ospedale. In un modo, o
nell’altro. Il
pensiero gli ghiacciò le vene, come sempre quando si trovava
a
considerare anche solo lontanamente l’idea di una morte
volontaria.
Riprese a parlare, concentrandosi unicamente su quello che stava
dicendo.
«Anche
questo,» accennò in modo impercettibile al proprio
viso, esponendo
comunque il lato intatto, «è successo prima che tu
sovraccaricassi
il reattore. Un proiettile vagante,» fornì come
unica, laconica
spiegazione.
Non
riuscì a entrare più nel dettaglio, né
Pepper sembrò incline a
insistere. La sua unica reazione fu quella di accostarsi un poco a
lui, portandosi sensibilmente dal lato sano del suo volto per
evitargli di tenere la testa girata. Le fu grato per
quell'accortezza. Poteva fare i conti con un paio di arti di metallo,
facilmente nascondibili e comunque non così ripugnanti
finché i
punti di giunzione rimanevano coperti, ma quello che portava in
faccia era un manifesto della sua sconfitta, e non sarebbe mai
riuscito ad accettarlo come parte di sé. Aveva davvero
provato a
rinunciare alla benda, ma era come essere costantemente nudo per
metà. Anche
adesso apprezzava la premura di Pepper, nonostante non fosse del
tutto certo che fosse per puro riguardo verso di lui o se dietro vi
fosse una sua reticenza nel vedere lo sfregio che lo deturpava.
Sbuffò
piano dal naso, iniziando ad accusare la stanchezza causata dal suo
corpo ormai in fiamme e da pensieri altrettanto brucianti.
«E
il braccio…» ricominciò infine, solo
per interrompersi,
rendendosi conto che gli era mancata l’aria nel parlare.
Poté
quasi sentire Pepper trattenere a sua volta il respiro, forse
pensando che l’avesse colpito una qualche illuminazione, un
ricordo
nascosto in un vicolo cieco della sua coscienza che smentisse tutto
ciò che aveva detto finora, rendendola responsabile
dell’accaduto.
La rassicurò stringendole le mani, mentre cercava di
recuperare la
voce, inutilmente.
«Tu
non c’entri,» riuscì a dire,
energicamente. «Neanche con questo,
è solo… accaduto troppo in fretta. Un momento era
lì, quello
dopo…» inceppò sulla sua stessa lingua,
mangiandosi le parole.
«Non me ne sono neanche accorto,» mentì,
chiudendo
involontariamente il pugno metallico in una morsa e sentendosi
furioso con se stesso. «Te l’ho già
detto, è merito
tuo se sono qui, anche se non mi vuoi credere.»
Lei
scosse la testa, scoraggiata, facendo fremere i capelli che le
incorniciavano il volto.
«Non
è così semplice,» replicò,
per poi bloccarsi prima di poter
continuare e rivolgergli uno sguardo smarrito, ma anche
improvvisamente consapevole.
«No,
non lo è,» mormorò lui, con un quieto
misto di sorpresa e sollievo
nel sentire l’eco involontario delle proprie stesse parole.
«Non
riesco a cambiare idea da un momento all’altro solo
perché lo dici
tu, anche se vorrei,» continuò poi lei con
più impeto, quasi a
volersi giustificare o difendere, e Tony le impedì di
iniziare a
gesticolare affannata, trattenendole gentilmente le mani nella
propria.
«Pepper
lo so.
So quanto è difficile
accettare
quello che ti dicono gli altri e credere che sia vero e che lo
pensino davvero. Fidati dell’esperto,»
continuò, sorridendole
appena con un velo di mestizia.
Trattenne
momentaneamente quello che stava per dirle solo per lasciare che
anche le sue labbra si incurvassero in poco più di
un’intenzione
di sorriso, che distese comunque i suoi lineamenti fino ad allora
corrucciati. Annuì, a prendere atto delle sue parole, per
poi
guardarlo, intuendo chissà come che non le aveva ancora
detto tutto.
Lui sospirò appena prima di parlare:
«Non
voglio
che tu viva col peso della mia morte sulla coscienza,»
riuscì a
dire, e la vide sussultare nonostante lo strato di dolcezza in cui
aveva cercato di incartare quelle parole, comunque troppo spigolose
per non lacerarlo.
«Non
accadrà,» ribatté subito lei,
ribattendo però a un’altra
affermazione e guardandolo con la fiera ostinazione di chi si pone a
strenua difesa di un ultimo baluardo.
Tony
non rispose, ma districò la mano dalle sue e la
usò per guidarla
verso di lui, cingendola in un mezzo abbraccio spontaneo e quasi
impalpabile in cui lei si adagiò con esitante sorpresa.
«Non
è colpa tua,» le ripeté ancora, con la
voce che le sfiorava
l’orecchio.
Si rifugiò a sua volta in quella parentesi di
quiete,
nonostante la tensione latente di sentir rispuntare d’un
tratto
quella vocina maligna che gli avrebbe intimato di sottrarsi.
«E sono
qui apposta per ripetertelo e romperti le scatole finché non
ci
crederai, come fai tu con me. Il minimo che possa fare è
ricambiare
il favore, no?» aggiunse, in un guizzo d'autoironia.
La
sentì sorridere appena, per poi quasi sciogliersi contro di
lui,
aspirando a fondo. Non disse una sola parola, ma Tony poteva
percepire fisicamente il sollievo che si irradiava da lei, come se
avesse infine lasciato cadere un peso a cui si era ormai abituata e i
suoi muscoli si fossero rilassati di colpo, tremanti e finalmente
consci di tutta la stanchezza accumulata. Anche lui si
rilassò,
abbandonando la tensione che gli aveva stretto i muscoli fino ad
allora e smorzando così i crampi che non gli davano tregua.
Si
concesse di perdersi ancora per qualche secondo nel profumo di Pepper
prima di scostare leggermente il volto da lei, ma continuò a
tenerla
stretta a sé nel rendersi conto che la sua ansia sembra
essersi
sopita, almeno in parte. Forse era la spossatezza, forse il semplice
fatto di essersi avvicinati gradualmente, lasciandogli tempo di
prendere coscienza del suo corpo così com’era,
senza quelle
zavorre che lo trascinavano costantemente sul fondo; forse quello di
stare davvero
migliorando in quel senso, e di aver compiuto qualche passo avanti.
Non spese troppo tempo a rimuginarci, preferendo godere appieno di
quegli attimi preziosi che doveva sempre conquistarsi.
«Ha
sonno, signorina Potts?» la prese in giro dopo un
po’, notando che
il suo respiro si era fatto più profondo e cadenzato mentre
si abbandonava pian piano tra le sue braccia.
«No,» si riscosse lei, con voce un po’
impastata.
«Mente
in modo pessimo, per essere stata la mia assistente,» le fece
notare, con un mezzo sorriso furbetto.
«Penso
di poter perdere qualche ora di sonno per lei.»
A
quelle parole Tony cercò di soffocare un verso strozzato, ma
ogni
tentativo di contenersi fallì miseramente e
sfociò in una risatina
asfittica che scosse entrambi, suscitando l’estrema
perplessità
della donna.
«Che
c'è di divertente?» chiese spaesata, scostandosi
da lui e
corrugando le sopracciglia.
«Se
te lo dico, mi ammazzi,» sogghignò ancora lui, ora
senza fiato, con
qualche stilettata qua e là che tentava di ricordargli
quanto fosse
malmesso in quel momento.
Pepper
alzò gli occhi al cielo, ma sorrise, contagiata dal suo
inatteso
scoppio d’ilarità.
«Tieniti
pure i tuoi segreti, allora,» lo punzecchiò senza
rancore, per poi
accigliarsi quando Tony fece suo malgrado una smorfia sofferente,
piegandosi in avanti. «Tony? Stavo scher–»
«Il
mio senso dell’umorismo funziona ancora,» la
rassicurò lui. «Il
resto non tanto. Ho bisogno di una pausa,» si costrinse a
dire,
sciogliendo l’abbraccio e sdraiandosi con cautela,
lasciandosi
accompagnare nel movimento da Pepper.
«Meglio?»
gli chiese, dopo che si fu accomodato prono, con la faccia di nuovo
affondata nel cuscino.
Tony
bofonchiò una risposta affermativa, tirando un respiro
tremolante
nella consapevolezza che quella notte non sarebbe mai riuscito a
dormire e che, per quanto si sentisse egoista, non voleva comunque
passarla da solo, né in silenzio.
«Pep?»
chiamò piano, con voce ovattata, e la sentì
girarsi verso di lui,
in ascolto. «Ho ricordato anche altre cose,» disse,
in tono spento.
«Di
che tipo?» chiese lei, chiaramente presa in contropiede dalla
sua
loquacità notturna.
«Del
tipo di cui avrei fatto a meno,» temporeggiò,
senza però alcuna
intenzione di sottrarsi all’argomento.
Il
profondo stato di confusione in cui si era svegliato tornò a
farsi
sentire, spingendolo alla deriva. Esitò ancora, prima
di
riprendere a parlare.
«È
colpa mia, se ho perso il braccio,» buttò fuori in
un sol fiato, e
dirlo gli causò un tale spaesamento da fargli credere di
essere da
tutt’altra parte; forse su un tetto distrutto, o in una
grotta
buia, o in un obitorio gelido.
«Tony?
Che stai dicendo?» lo sbigottimento di Pepper era quasi
tangibile.
Probabilmente
credeva che stesse delirando, e forse non aveva torto.
«Ho
cercato di aiutare Stane,» cercò di spiegare,
senza alcun controllo
sui suoi pensieri e sul modo in cui si tramutavano in parole.
Vide
Pepper fare tanto d’occhi, sgomenta di fronte a quella
confessione.
«Stava
cadendo, l’ho afferrato e lui ha cercato di trascinarmi con
sé,»
s’interruppe, col respiro ora irregolare. «Non ci
è riuscito solo
perché mi sono incastrato, ma lui non mi ha mollato,
non…» il
rumore rivoltante del suo braccio che cedeva di schianto gli
riempì
la testa, e premette la bocca contro la federa, impedendosi di
continuare e tramutare quei suoni in immagini.
La
mano di Pepper tornò a sfiorargli i capelli, silenziosa ma
rassicurante. Tesa, anche, turbata da quei ricordi che le aveva
appena trasferito.
«Non
so perché l’ho fatto,» riprese poi,
frastornato. «Ma non l’ho
ucciso io,» commentò poi, senza capire neanche lui
se con rammarico
o sollievo.
«Ti
dispiace che sia morto?» chiese Pepper, con quello che
assomigliava
a incredula disapprovazione.
«No,»
replicò subito lui, senza neanche doverci riflettere, con la
rabbia
che gli pungeva le viscere, lasciandogli però un sapore
amaro in
bocca. «Mi ha rovinato la vita. Se fosse sopravvissuto, avrei
probabilmente finito per ucciderlo davvero,»
continuò, a fugare
ogni possibile dubbio, mentre i pensieri che aveva avuto durante lo
scontro gli si ripresentavano davanti, violenti e brutali.
«Però?»
Pepper gli offrì la deviazione di cui aveva bisogno, e la
imboccò
con sollievo anche se a tentoni, senza alcuna idea di dove
l’avrebbe
portato.
«Non
lo so. Non ci capisco più niente, non so neanche
perché me ne
freghi così tanto o perché debba rimanere sveglio
a pensarci,»
sbottò con improvvisa frustrazione, stringendo i denti per
la
protesta dei moncherini a quel lieve sussulto.
Mentì
solo in parte: non aveva davvero idea di come esternare a parole quel
conflitto che si era scatenato dentro di sé e che si
ostinava a
sovrapporre il robottino rosso con la morsa crudele di Iron Monger.
«Era
qualcuno di cui ti fidavi,» intervenne Pepper, cautamente,
senza
rompere il contatto con lui e accompagnando le proprie parole alle
carezze che aveva ripreso a fargli. «Un socio, un amico tuo e
di tuo
padre… è normale sentirsi traditi, ed
è normale che ti chieda
perché sia successo,» concluse, usando la sua
consueta logica
ferrea e suonando allo stesso tempo impotente.
Aveva
ragione, su tutto, ma ciò non quietava il maremoto in corso
dentro
di lui, impegnato com'era ad arrovellarsi su quei decenni di fiducia
evidentemente fasulla, e poi su quei tre mesi in una grotta che li
faceva sgretolare come sabbia al vento, e ancora su quella
mezz’ora
di scontro che li spazzava via del tutto. Cercava una connessione, un
filo rosso, un qualcosa che giustificasse il tutto. Ma quando
guardava indietro, incontrava solo lo sguardo severo di suo padre che
gli diceva di non perdere tempo.
«C'è
stato un periodo in cui chiamavo Stane "zio Obie",»
esordì
stancamente, col solo desiderio di poter gettar fuori i pezzi di quel
puzzle destinato a rimanere irrisolto per poter finalmente chiudere
gli occhi e dormire.
Sentì
le dita di Pepper stringergli i capelli, sorpresa dalla piega che
aveva preso la discussione.
«All’epoca
ne capivo più di robotica che di parentele. Fu mia madre a
spiegarmi
che non era davvero mio zio... anche se non era facile farmi cambiare
idea,» aggiunse, divertito.
«Ah,
davvero?» commentò ironica Pepper, ma piano, come
se temesse di
dire qualcosa di sbagliato.
Tony
accennò un sorrisino che parve rassicurarla.
«Sono
migliorato, credimi. La facevo impazzire,» disse, prima di
farsi di
nuovo serio. «Stane non le è mai
piaciuto,» rifletté, riprendendo
il discorso e arricciando il lenzuolo tra le dita metalliche.
«Ho
fatto un errore stupido e ne ho pagato il prezzo,» concluse
poi con
durezza.
Gli
tornò davanti il ricordo di quel piccolo regalo adesso
affondato nel
Pacifico, di Stane che glielo porgeva e di come sua madre avesse
tenuto le mani sulle sue spalle come a proteggerlo discretamente,
forse seguendo un qualche istinto innato. Lui allora aveva percepito
solo affetto da entrambe le parti, racchiuso in un robottino rosso e
nell’abbraccio materno, troppo piccolo per comprendere le
dinamiche
degli adulti, ma abbastanza grande da accorgersi dell’enorme
vuoto
che lo separava da suo padre, una sagoma fissa sullo sfondo della sua
vita. Quando pensava a lui, la prima immagine che emergeva era quella
della sua schiena, delle spalle diritte e contornate dalla linea
austera di un completo scuro.
Stane
era stato un rimpiazzo, così come Jarvis: assolutamente
insufficiente a colmare il vuoto, ma comunque abbastanza per riuscire
a ignorarlo o per gettare un ponte pericolante che a volte lo
superasse.
Rimase
in silenzio per un po', abbandonandosi alle carezze delicate e
incoraggianti di Pepper. Normalmente
non si sarebbe mai sognato di parlare in modo così aperto di
certe
cose. Aveva preferito rinchiuderle in uno stanzino della sua mente,
così come aveva sigillato molti dei suoi ricordi materiali
dietro la
vecchia porta al piano terra. Anche se, più che uno
stanzino, quella
nella sua mente era una camera blindata a tenuta stagna, di cui aveva
rafforzato sempre più le difese. Ultimamente,
però,
si era sentito
sempre più incline a rimuovere un lucchetto e una serratura
dietro
l'altra, arrivando a mettere di nuovo piede in quel caveau
e scoprendo di avere molte, troppe cose da mettere in ordine prima
che fosse troppo tardi. E Pepper era l’unica che riuscisse ad
aiutarlo in quel compito gravoso. Poteva quasi sentire la voce
burberamente soddisfatta di Ian bofonchiare l’ennesimo
"gliel'avevo
detto".
«Tony,»
lo riscosse Pepper dopo un po' e in modo più acceso, come se
avesse
cercato di trattenere ciò che stava per dire senza
però riuscirci.
«Capisco che tu ti penta di aver provato
a salvare Stane, viste le conseguenze.»
Prese un breve
respiro prima di continuare, tenendolo in sospeso.
«Ma non dovresti
pentirti di aver voluto
salvarlo,» concluse, altrettanto rapidamente.
Tony
provò a riflettere su quelle parole, ma rinunciò
dopo appena
qualche istante, logorato dal mal di testa e dalla rabbia repressa
che aveva ripreso a scuoterlo.
«È
la stessa cosa,» replicò asciutto. «Il
risultato non cambia.»
«Non
sto dicendo...» Pepper si interruppe, con un sospiro
frustrato.
«Tony, se potessi tornare indietro ti impedirei a tutti i
costi di
farlo... ma probabilmente ti impedirei anche di continuare ad essere
Iron Man,» sbottò, e Tony sentì la sua
mano contrarsi, tirandogli
appena le ciocche come se volesse trattenerlo anche adesso.
«Il
punto è che sei fatto così. Non riesci
semplicemente a tirarti
indietro o a lasciare che gli eventi facciano il loro corso se puoi
scegliere
di fare la cosa giusta,» continuò, con
una tale,
cristallina convinzione che Tony non poté fare altro che
guardarla
vacuamente, muto e allo stesso tempo sentendosi riempito da quelle
parole.
«Non
sono sempre
stato così,» replicò infine, con voce
debole. «Non ero poi tanto
diverso da Stane,» aggiunse, con la consapevolezza latente
che,
considerato tutto il dolore che aveva provocato, quel contrappasso
che aveva subìto era meritato e fin troppo clemente.
«Tony.»
Pepper si chinò su di lui, accostandosi al suo volto e
catturando il
suo sguardo.
«Non osare
paragonarti a lui. Sei un uomo migliore di quanto lui sia mai stato e
sicuramente migliore di quanto credi.»
Lui
incrociò con sorpresa i suoi occhi azzurri, trovandoli
incolleriti
di fronte alla sua affermazione detta a cuor leggero.
«Non
appena hai scoperto cosa stessero facendo davvero con le tue armi hai
cercato di rimediare, ignorando chiunque ti dicesse che era una
follia, inclusa me e Rhodey. Era quella
la cosa la cosa giusta da fare, anche se noi non riuscivamo a
capirlo.»
Lui
scosse la testa, rintanandosi più a fondo col viso nel
cuscino.
«L’ho
fatto solo grazie ad Iron Man… se non fossi–»
«L’hai
fatto perché volevi
farlo,» ribadì lei, senza cedere.
«Ciò non cambia che tu prima abbia
sbagliato, e noi con te,» aggiunse con palpabile rimorso.
«Ma hai
anche deciso di offrire al mondo molto di più di cose che
esplodono.
Non è per questo che hai creato Iron Man?» lo
incalzò poi,
rimanendo ancora a un soffio dal suo volto.
«L'ho
creato per scappare e sopravvivere,» la smentì
lui, pragmatico.
«Non ti conviene farmi così eroico,»
aggiunse, stemperando le sue
parole con un mezzo sorriso non così sicuro di sé
come avrebbe
voluto.
«L'avrai
anche creato per quello, ma nessuno ti ha costretto ad esserlo per
tutta la vita,» lo rimbeccò lei, prontamente e con
un guizzo di
vittoria negli occhi.
Stavolta
Tony ammutolì, sfuggendoli.
«Ho
fatto una promessa,» esalò dopo un po',
socchiudendo la palpebra
per schermarsi dal suo sguardo vicino e penetrante, che per un attimo
si era sovrapposto a uno altrettanto acuto e azzurro. «Non
solo a
te... ho il brutto vizio di parlare a vanvera, a quanto
pare,»
specificò, stringendo appena la federa del cuscino tra le
dita
mentre si lasciava sfuggire un sorriso amaro.
«Cosa
hai promesso?» gli chiese lei, evitando col consueto, innato
tatto
di chiedere a chi l'avesse fatta.
«Di
non sprecare la mia vita,» mormorò, senza curarsi
di nascondere il
tremito che scosse quella frase. «E probabilmente non
riuscirò a
mantenere né questa, né quella che ho fatto a te.
Ma te l’ho
detto: ci sto provando,» concluse, obbligandosi a guardarla
di nuovo
con tutta la fermezza che gli riuscì di recuperare.
«Lo
so,» rispose semplicemente lei, prima di posargli un leggero
e
inaspettato bacio sulle labbra facendogli distintamente mancare un
battito.
Pepper
recuperò subito distanza, tornando seduta nella posizione di
poco
prima e riprendendo a giocherellare coi suoi capelli con la massima
naturalezza; Tony sospirò appena, con l'impressione di
respirare più
liberamente e di avere almeno la metà dei pensieri a
vorticare nella
sua testa. La
sagoma del robottino rosso sprofondò lentamente sul fondo
dei suoi
ricordi, così come l'oggetto materiale tra le onde
dell'oceano.
Sarebbe riemerso, era inevitabile, ma almeno avrebbe cessato di
essere l'estremità di un filo ingarbugliato che forse non
era così
importante districare.
Finalmente,
riuscì a chiudere l'occhio e riuscì a lambire il
margine del sonno,
cullato dal tocco di Pepper.
«Vuoi
che rimanga?» gli arrivò da lontano, da oltre la
soglia che aveva
appena oltrepassato.
Il
suo cuore mancò un altro battito, ma non si mosse,
né parlò. Quel
filo, quello teso tra loro, era molto più importante di
qualunque altro.
Di nuovo,
gli
sembrò che fosse la voce scontrosa di suo padre a riempire
il
silenzio.
“Che
cosa stai facendo?”
Stava
aspettando. Aspettare era stato un modo per credere che ci sarebbe
stato un momento migliore di quello. Per tutto, per un
“loro”.
Adesso rischiavano di non avere più alcun momento.
Si
stava spegnendo a poco a poco divorato dal palladio, dai rimpianti e
dai rimorsi che cercava di attenuare sempre più giorno dopo
giorno.
Sapeva di aver imboccato la strada giusta, e di aver compiuto
progressi non trascurabili. Ma non era abbastanza, nonostante si
sentisse più vivo e completo che mai e nonostante sapesse di
aver
portato a termine molto più di quanto chiunque avrebbe
potuto
immaginare. Non era mai
abbastanza. E forse
avrebbe dovuto smettere di voler fare di più di
così e
accettare che ci fossero anche dei limiti non imposti da lui stesso.
Continuò
a fingere di dormire e lei ad accarezzargli i capelli come una brezza
leggera, trascinandolo sempre più vicino al dormiveglia.
«Stai
mantenendo entrambe le promesse,» credette di sentirla dire
sottovoce, prima che gli arricciasse un'ultima volta le ciocche sulla
fronte tra le dita e ritraesse senza fretta la mano, indugiando poi
sulla
nuca e sulla base del collo, a voler prolungare quella carezza.
Gli
sfuggì un respiro più profondo, che non seppe
ricondurre con
sicurezza alle parole o al gesto, ma che gli svuotò ancora
un po' i
polmoni, allentando la rete plumbea che li stringeva.
“Forse
domani.”
Quel
pensiero navigò sulla superficie della sua mente,
lasciando una
scia d’aspettativa dietro di sé.
Percepì Pepper che si alzava
alzarsi ai margini della sua coscienza, e quando la serratura della
porta scattò galleggiava già nel dormiveglia. Il
calore delle sue
labbra aleggiò ancora a lungo sulle proprie.
"Domani,"
stabilì tranquillo, scostando appena il velo del sonno per
poi
richiuderlo con delicatezza.
Aveva
molte cose da fare, ed era l'ultima volta che rimandava.
____________________________________________________________________________________________
Note Dell'Autrice:
Buonsalve a tutti e Buon Anno Nuovo! :D
Miracolosamente, arrivo quasi in orario, cosa che in realtà non mi sarei mai aspettata, vista l'osticità del capitolo. E sì, Knockin' on Heaven's door, perché Stairway to Heaven era troppo scontata, dopo lo scorso capitolo :P
Voilà, l'ennesimo notturno condito con Pepperony tutto per voi <3 Ammetto che questo è stato un capitolo un po' "cercato", per soddisfare sia la mia vena angst che quella fluff, e spero che vi riterrete soddisfatti di entrambe anche voi :)
Vi sono delle ambiguità studiate, molti richiami a capitoli precedenti non sempre esplicitati e una precisa volontà di rendere contraddittori e vaganti i pensieri di Tony, soprattutto sul "tema-Stane". Sono curiosa di sentire i vostri commenti, opinioni e interpretazioni in merito :) (e riguardo al tutto, il testo della canzone dell'intro gioca un ruolo di discreto rilievo).
Detto ciò, sono veramente al settimo cielo per aver "raccolto" così tanti nuovi lettori e persone che hanno aggiunto la storia alle seguite, ricordate o preferite <3 Un grazie va quindi a St4rk_y, Emyclarinet (grazie per la "doppietta!"), _Atlas_, e T612 per aver recensito lo scorso capitolo e a Flavia_14 e Sissi Malfoy Black per aver recensito quello precedente :) Un grazie speciale a shilyss per aver iniziato a leggere e recensire addirittura dal primo capitolo, facendomi una bellissima sorpresa <3
Spero di aggiornare in tempi umani, ma non penso di riuscire a pubblicare prima di febbraio causa sessione, quindi purtroppo la pacchia è finita :')
Hasta la vista e vi auguro un buon ingresso nel 2019 :D
-Light-
P.S. Il vestito coi fiordalisi di Maria è un blando rimando alla mia one-shot Sonata n°5 «Primavera» (o anche: I Love Rock 'n' Roll).
P.P.S. Il "robottino rosso" è, nello specifico, Robby The Robot, ovvero codesto orrore. Tanto per ribadire il cattivo gusto di Obie.
EDIT: Ringrazio infinitamente la mia carissima Matilde per questo disegno meraviglioso ispirato al capitolo <3
|
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Capitolo 48 *** The show must go on ***
47
The
show must go on
"Tired
of lying in the sunshine
Staying home to watch the rain
You are young and life is long
And there is time to kill today"
[Time – Pink
Floyd]
13
Maggio, Pacific Highway, 10:45
Gigli
o calle? Non ricordava quali preferisse, ma era sicuro che le
piacessero entrambi.
Esitò
ancora qualche istante davanti al chiosco sul ciglio della strada,
sporgendosi fuori dall’Audi decappottabile e tendendo il
collo per
osservare meglio la schiera di mazzi, vasi e bouquet
che facevano bella mostra sul banchetto. Il fioraio continuava
guardarlo fisso con ben poco tatto, neanche gli fosse atterrato
davanti Thor, e Tony preferì pensare che fosse per la sua
fama,
piuttosto che per la mano meccanica che sporgeva dal polsino.
Inclinò un poco gli occhiali da sole per mettere meglio a
fuoco la
scelta floreale, prima di sbuffare insoddisfatto.
«Senta,
me li dia entrambi,» concluse, con un gesto verso i due mazzi
di fiori
bianchi.
Nel dirlo allungò un centone
all’inserviente ancora
sotto shock, che afferrò la banconota come una reliquia e
gli tese in trance i due acquisti.
«Ecco,
grazie… no, no, li poggi sul sedile, non mi piace che mi si
porgano
le cose,» si raccomandò concitato, schivando
quell’approccio
sgradito. «Tenga il resto e rinnovi la baracca,»
disse poi
riavviando l’auto, che inserì subito il pilota
automatico al primo
tocco dell’acceleratore.
«Ma
lei è Iron Man?» gli gridò dietro il
fioraio, adesso con un
sorriso confuso.
«Ogni
tanto!» rispose sogghignando Tony, ammiccando da dietro gli
occhiali
scuri, prima di ruotare il volante con la sinistra e imboccare di
nuovo con un rombo la Pacific a picco sul mare.
***
13
Maggio, Villa Stark, tre ore prima…
Il
getto della doccia si abbatté piacevolmente sulla sua
schiena, rilassando a poco a poco i suoi muscoli contratti. Tony
reclinò
all’indietro la testa e lasciò che
l’acqua calda gli bagnasse
anche il volto e i capelli, chiudendolo in una bolla di tepore
liquido e accogliente. Stimò di poter resistere in piedi
senza appoggi per una ventina
di minuti, visto che la protesi si stava dimostrando abbastanza
collaborativa dopo l’iniezione di dilitio di quella mattina,
che gli aveva anche
allargato i polmoni e attenuato le fitte ai moncherini. Il reticolo
sul suo petto era ancora visibile sottopelle, ma era impallidito,
restringendosi e ritirando i suoi viluppi dalla zona circostante il
collo. Poteva quasi fingere che non esistesse, se indossava una
maglietta, o se, come adesso, teneva chiuso l’occhio senza
abbassare lo sguardo, escludendo anche la luminescenza azzurrina del
reattore.
Rimase
in catalessi per ancora una decina di secondi, prima di cercare a
tentoni lo shampoo per iniziare pigramente a lavarsi, godendosi quel
rituale mattutino che lo rimetteva al mondo. Stare
sotto la doccia era una delle azioni quotidiane che più gli
era
mancata durante il suo periodo di quasi-immobilità, e aveva
sopportato molto male il fatto di farsi aiutare, di dover stare seduto
per lavarsi, o
peggio, di usare la vasca da bagno, salvo scoprire che quella era uno
dei pochi metodi per alleviare le fitte ai moncherini.
Dall’Afghanistan aveva sviluppato un astio represso per
l’acqua
ferma in generale, fomentato dai suoi incubi in fin di vita non
esattamente
rassicuranti, e se in passato poteva passare ore a crogiolarsi nella
vasca tra schiuma, bolle e sali profumati, magari anche in dolce
compagnia, adesso se ne teneva molto lontano e aveva ripreso a
starsene il più possibile sotto la doccia non appena era
stato in
grado di reggersi sulle proprie gambe per più di cinque
minuti.
In
quel momento, dopo la nottata d’inferno appena passata e le
tre ore
scarse di sonno, aveva davvero bisogno di bearsi il più
possibile
sotto il getto d’acqua calda. Anche se, a pensarci bene,
virare su
una temperatura polare sarebbe stata più appropriato ed
efficace,
visto lo stato fisico che poco prima l’aveva spinto a
dileguarsi dalla vista
di Pepper accampando una scusa non molto credibile. Incrociarla a
sorpresa in corridoio, appena uscita lei stessa dalla doccia e con
addosso nient’altro che un accappatoio, apparentemente in
ritardo
catastrofico per i suoi appuntamenti alle Industries e
perciò
incurante del suo stato, non aveva
esattamente mitigato la sua tipica “situazione
mattutina”. Era
svicolato in bagno in fretta e furia cercando di darle il
più
possibile la schiena, straparlando nel tentativo di mascherare
l’inconveniente, e sperava segretamente che lei fosse stata
troppo
presa a celare a sua volta il proprio viso paonazzo e a tenersi
stretto l’accappatoio per dare peso alle sue farneticazioni.
Si
trovò a sospirare, sfregandosi le mani sul volto bagnato.
Non sapeva
bene come definire il loro rapporto, ma tra il suo corpo sfigurato e
la decisa ansia che lo coglieva ogni volta che era nel raggio da un
metro da lei, vestita o meno che fosse, era più che convinto
che
fosse troppo presto per qualunque cosa esulasse dal semplice starle
vicino. In quei momenti si sentiva un bimbetto delle elementari, non un
playboy navigato – e non era nemmeno colpa sua. Si
strofinò
con irritazione i capelli insaponati, come a
scrollarsi di testa quei pensieri su cui non avrebbe dovuto
soffermarsi:
l’ultima cosa che desiderava era forzare una situazione
già
abbastanza forzata, almeno dal suo punto di vista. E se il suo corpo
decideva di reagire per conto proprio a impulsi naturali, che
lo facesse pure: sarebbe sopravvissuto all’imbarazzo, e
poteva
considerarlo un segno che forse almeno qualcosa di lui funzionasse
ancora a dovere. Non aveva tempo, ma era sicuro – sperava
– di averne abbastanza per affrontare anche
quell'argomento con Pepper. Possibilmente non a parole, e in modi che
non aveva intenzione di
immaginare nel dettaglio adesso.
Fu
provvidenzialmente distratto dalle sue elucubrazioni quando lo squillo
del telefono
trapassò la cappa di vapore in cui era avvolto, e se da una
parte si sentì sollevato, dall’altra
lanciò una maledizione
contro chiunque lo stesse disturbando con così poco tempismo
rompendo la sua parentesi di relax.
«JARVIS,
chi è il rompiscatole?»
«Il
signor Andrews. Lo metto in attesa?» propose gioviale il
maggiordomo.
Tony
sbuffò, prendendo seriamente in considerazione
l’offerta per poi
declinarla, vinto dalla curiosità:
«Passalo
sull’interfono,» ordinò, senza chiudere
l’acqua né uscire dalla doccia.
«Ehi,
buongiorno, Stark!» esordì il ragazzo con
inaspettata allegria.
«Sì,
sì, buongiorno anche a te, K,» mugugnò
lui, impegnandosi a suonare
indifferente. «Fa’ in fretta, sono sotto la
doccia,» lo incalzò
poi, anche se lo scroscio in sottofondo era già abbastanza
esplicativo.
«Stai
tentando di sedurmi?» indagò malizioso Kyle.
«Ovviamente,»
rispose lui serafico mentre si sciacquava i capelli, chiedendosi se
quella mattina vi fosse un qualche complotto contro di lui, vista
l'insistenza sulla sua vita sessuale.
«Non
credo che Virginia sarebbe molto d’accordo,» lo
stuzzicò prevedibilmente l’altro, e
già pregustando la sua reazione indignata.
«No,
credo proprio di no,» lo assecondò invece lui,
lasciandosi sfuggire
un sorrisetto al silenzio basito dell’altro. «Che
c’è? Geloso?»
ridacchiò poi, riscuotendo Kyle dal suo stand-by verbale.
«Se
tu non fossi tu,
Stark, direi che mi stai prendendo per il culo,»
ribatté serissimo
l’avvocato, e Tony si trattenne dallo sbottare apertamente a
ridere per la
pessima scelta di parole.
«Devo
intenderlo in senso lettera–»
«Intendilo
come
ti pare,
ma adesso ascoltami,» lo interruppe l’altro, adesso
probabilmente
paonazzo dall’altro capo del telefono.
Tony si ritenne
soddisfatto per la sua piccola rivincita dopo mesi di allusioni e
battutine su lui e Pepper da parte dell’amico, in combutta
con Ian.
«Ho delle novità,» annunciò
Kyle, dopo essersi assicurato che fosse in ascolto.
Tony si fece attento, per
quanto potesse essere attento nello stato di intontimento causatogli
dalla doccia calda.
«Spara,»
lo incitò, incerto se quel silenzio dovesse essere
interpretato come
un semplice stratagemma per aumentare la suspence,
o come una reticenza da parte dell’avvocato nel riferire una
brutta
notizia.
«Stern
ha appena approvato la tua licenza!» annunciò poi,
squillante.
«Cosa?!»
sputacchiò lui, scansandosi dal getto d’acqua che
aveva inalato
per la sorpresa e finendo quasi per scivolare sul pavimento viscido.
«Mi
hai sentito,» replicò l’altro, che dal
tono stava sicuramente
sogghignando a tutto spiano. «A quanto pare la vostra
chiacchierata
a Washington è servita… non so cosa gli hai
promesso, e non voglio
saperlo, ma l’ha convinto a firmare e la licenza è
valida ad
effetto immediato,» spiegò a macchinetta,
lasciando Tony in un
soffuso stupore e con un sorriso sempre più ampio stampato
in
faccia.
«Immediato?»
ripeté un po’ stolidamente.
«Cioè… insomma… posso uscire
adesso?»
si sincerò, temendo di aver capito male sotto lo scroscio
dell’acqua, e per prevenire fraintendimenti la chiuse,
rimanendo in
attesa di una risposta con lo sgocciolio residuo a fare da sottofondo.
«Intanto
esci dalla doccia, e firma il documento elettronico che ti ho
inviato,» lo incitò il ragazzo. «Poi,
sarai un uomo libero,»
concluse con innegabile soddisfazione.
Tony
non se lo fece ripetere, e due minuti dopo era seduto sul piano del
bagno con le gambe penzoloni e l’accappatoio addosso, intento
a
scorrere un ologramma del documento in questione. Non era sua
abitudine leggere qualcosa prima di firmarlo, ma in questo caso si
impegnò addirittura a visionare clausole e note a
piè di pagina per
fugare ogni dubbio, mentre Kyle attendeva pazientemente in linea.
«Siamo
sicuri che
non sia un bluff,
vero?» insistette per la quinta volta, e il quinto sospiro di
Kyle fece
eco alla sua domanda, stavolta seguito da una risposta.
«Stark,
ho visionato quel documento
almeno una ventina di volte, ho
controllato ogni postilla,
appendice e comma esistente e mi sono
sorbito un’ora
e mezza al telefono con Knight per
assicurarmi che
lascerà cadere l’accusa riguardante le
protesi,» sciorinò
l’altro, palesemente seccato per quell’ultimo,
ingrato compito.
«Ti
sei decisamente meritato quella statua, K,»
commentò Tony a mezza
voce, continuando a rigirarsi in mano l’agglomerato di pixel
olografici. «E anche un altro paio di diavolerie che spero di
completare presto,» aggiunse, e poté quasi sentire
l’aspettativa
di Kyle crescere attraverso la linea telefonica.
Si
sentiva un po’ meschino a far finta che tutto procedesse al
meglio,
ma si stava davvero
impegnando a progettare i tutori per Kyle, tentando di aggirare tutte
le problematiche poste dai reattori, e sperava di realizzarne almeno
un prototipo prima di…
Sbuffò
tra sé, passandosi la mano tra i capelli a districarne le
ciocche
umide. Kyle non si era sorpreso più di tanto quando gli
aveva
rivelato le sue condizioni di salute, confermando semplicemente un
sospetto che aveva da tempo, e Tony aveva apprezzato il fatto che si
fosse sprecato molto poco in commiserazione e molto di più
nel
cercare di rendergli quell’ultimo periodo un po’
più sereno dal
punto di vista legale. Aveva fatto miracoli all’ultima
udienza,
annichilendo Knight e rendendolo quasi del tutto libero dalle grinfie
del governo, non fosse per la questione del controllo di Iron Man, a
cui spettava allo SHIELD porre un freno. In quell’anno e
mezzo
l’aveva salvato innumerevoli volte, scampandogli
probabilmente una
condanna severa che avrebbe anche potuto spedirlo a marcire per un
decennio a Seagate, e tanti saluti all’uomo di ferro. Non
riuscire a
ripagarlo a dovere come gli aveva promesso lo crucciava molto
più di
quanto volesse ammettere, ma Kyle, sebbene riponesse innegabilmente
molte speranze nel suo lavoro, non sembrava intenzionato a
colpevolizzarlo, e si era anzi raccomandato di concentrarsi sul nuovo
reattore. Tony, dal canto suo, non era mai stato così
contento di
aver avviato ufficialmente il Progetto Phoenix, garantendo
all’amico
almeno una chance futura di riprendere a camminare.
«Stark,
sei ancora lì?»
Tony
si rese conto di essere rimasto troppo a lungo in silenzio, e si
riscosse in fretta dai suoi pensieri.
«Sì,
anche se credo di essere sotto shock,» buttò
lì con leggerezza,
pur non riuscendo del tutto a mascherare il suo tono un po’
più
cupo.
«Allora
sbrigati a firmare, così puoi dare una bella notizia alla
tua
rossa,» suggerì smaliziato l’altro,
facendogli scuotere appena la
testa mentre ingrandiva il documento.
Alzò
la sinistra a mezz’aria, ormai per abitudine, poi ci
ripensò con
un mezzo sorrisetto e tracciò la firma
nell’apposita casella con
l’indice della destra. Dubitava di aver mai scritto il
proprio nome
in modo più storto, illeggibile e poco elegante, ma non si
era
neanche mai sentito più soddisfatto di aver firmato un
documento
legale in vita sua: Pepper sarebbe davvero stata fiera di lui. E
a quel proposito, Kyle aveva ragione: era un bel po’ che non
le
dava una bella notizia.
Così ringraziò
l’avvocato, si affrettò
ad asciugarsi e rivestirsi, e uscì rapido dal bagno per
porre
rimedio
al più presto.
***
Ovviamente,
Tony contò sul fatto che l’imbarazzante incontro
di
un’ora
prima fosse magicamente evaporato dalla memoria di Pepper, quando
scese al piano di sotto per cercarla. Si fermò ai piedi
delle scale,
picchiettando a terra il bastone da passeggio mentre si guardava
attorno perplesso, senza scorgere traccia della sua… i suoi
pensieri si arrestarono bruscamente quando gli mancò il
termine
esatto per definirla. S’impegnò a smettere di
cercarlo per
evitare di farsi venire un mal di testa proprio oggi che si sentiva
così bene.
«Pep?»
chiamò infine a voce alta, senza ottenere risposta.
«La
signorina Potts è uscita poco fa per recarsi alle
Industries,» gli
ricordò JARVIS, strappandogli un sospiro insoddisfatto.
Avrebbe
voluto annunciarle la novità di persona, soprattutto dopo
tutti i buoni
propositi che si era imposto la notte prima, ma avrebbe dovuto
aspettare il suo ritorno, sperando che la mole di lavoro non la
trattenesse alle Industries fino a sera – cosa che in
realtà
accadeva spesso da quando avevano inaugurato la Expo.
Sbuffò
di nuovo, e il picchiettio del legno sul pavimento in marmo si
ripeté più
veloce, a rispecchiare la sua insofferenza. Continuava a lanciare
occhiate fuori dalla vetrata realizzando con chiarezza crescente che,
in quel momento, avrebbe semplicemente potuto imboccare la porta di
casa da solo e recarsi ovunque avesse voluto senza timore di
infrangere la legge. Magari si sarebbe attirato molti, troppi sguardi
curiosi, ma i raggi caldi del sole che filtravano in salone
iniziavano ad esercitare su di lui un’attrazione difficile da
contrastare. Gli fu chiaro che non sarebbe mai riuscito ad aspettare
fino al giorno dopo per uscire, così come gli fu chiaro che
non era
più il miliardario playboy che faceva mostra di
sé ovunque andasse,
beandosi dell’ammirazione altrui. Al contrario, avrebbe
volentieri
fatto a meno della sua notorietà… ma tenere un
basso profilo non
gli sarebbe comunque stato possibile, con una benda in faccia e la
vistosa mano meccanica che sbucava a tradimento dal polsino.
Tentennò
sul posto, combattuto, mentre lasciava vagare lo sguardo qua e
là
con fare innervosito. Si sentiva sempre più soffocare dalle
ampie
mura della villa che adesso gli sembravano comunque troppo strette,
dopo averci passato l’ultimo anno e passa. Si
soffermò
automaticamente sulla porta dello studio sulla parete di fondo, in
parte perché l’incubo della notte precedente lo
teneva ancora
sulle spine, in parte perché pensare all’archivio
di suo padre gli
richiamava inevitabilmente quello nella sua testa in cui aveva
stipato tutti i ricordi che nell’ultimo periodo avevano
iniziato a
trapelare contro la sua volontà. Il robottino rosso era
ormai
destinato a sedimentarsi sul fondo del mare, ma rimanevano ancora
molte istantanee ad affollargli la mente. Nel
suo passato c’erano ancora delle porte da chiudere, o forse
da
aprire, e altrettanti punti fermi da mettere.
Meditò
ancora per cinque minuti buoni, avvicinandosi di mezzo passo alla
volta a quella porta che aveva varcato più spesso in un anno
che in
una vita intera; a metà strada si arrestò,
gettò fuori un sonoro
sospirò e cavò fuori di tasca il cellulare,
scorrendo rapido la
lista dei contatti per poi avviare la chiamata.
Il
secondo squillo s’interruppe a metà:
«Stark?
Che ha combinato?» lo interpellò una voce
oscillante tra il
perplesso e l’allarmato che gli suscitò un
sorrisetto.
«Io?
Nulla, Agente,» replicò, esagerando
l’intonazione da bimbo
innocente. «Ma credo di avere un bel po’ di
scartoffie da
smaltire, e pensavo che lo SHIELD sarebbe stato felice di ampliare i
suoi archivi con materiale inedito,» sciorinò a
colpo sicuro,
recuperando nel frattempo la chiave dello studio e varcandone poi la
soglia polverosa.
«Materiale?»
il cigolio inconfondibile di una sedia da ufficio riempì il
breve
silenzio mentre Coulson tentava di raccapezzarsi. «Che tipo
di
materiale?»
«Il
tipo che starebbe meglio rinchiuso al sicuro in un caveau
dello SHIELD, piuttosto che nell’ex-ufficio fatiscente di mio
padre.» Fece
una pausa a effetto, tamburellando le dita meccaniche sullo stipite
mentre la lampadina appesa al soffitto sfrigolava, stentando ad
accendersi. «Con qualche chicca extra sul suo eroe a stelle e
strisce preferito. Le interessa?» continuò con
fare saputo, certo
di essersi già conquistato l’attenzione
dell’Agente.
«Di
quanto materiale stiamo parlando?» indagò infatti
Coulson, celando
abbastanza malamente la propria curiosità.
Lo
sguardo di Tony si spostò sulle instabili pile di fascicoli,
dossier
e raccoglitori accatastati sul pavimento, prendendo infine atto della
loro mole complessiva non indifferente.
«Abbastanza
per riempire, diciamo… il bagagliaio della mia R8 senza
comprometterne la tenuta di strada,» stimò infine,
con vivacità.
Udì
un sospiro dall’altro capo.
«Stark,
che diavolo ha intenzione di–»
«Agente,
è libero oggi pomeriggio?»
***
13
Maggio, Santa Monica, 11:30
I
cimiteri si assomigliavano un po’ tutti.
Non
che Tony avesse molta esperienza in materia, ma quella gli sembrava
una nozione abbastanza scontata, considerando che i parametri
rispettati dovevano essere necessariamente sempre gli stessi: lapidi
ordinatamente schierate, alberi e arbusti a stemperare i riflessi
freddi del marmo, prati ben curati che attutivano i passi, e una sorta
di contratto non scritto che imponeva una maggioranza di belle
giornate di sole per le visite ai propri cari – in contrasto
con
quello per una pioggerellina fitta e insistente per i funerali.
Il
Woodlawn Memorial non faceva eccezione, se non per la
particolarità
di essere punteggiato da alte palme dal fusto oscillante, oltre che
dai classici abeti, pioppi e cipressi.
Tony
stava temporeggiando da due minuti buoni nella sottile fascia
d’ombra
del muro di cinta, ad appena qualche passo dal cancello principale.
Si risistemò gli occhiali da sole che continuavano a
scivolargli sul
naso, complice il sole impietoso del mezzogiorno californiano, per
poi lanciare un’occhiata circospetta alle sue spalle, come se
ci
fosse qualcuno ad osservare la sua indecisione. Tutto ciò
che vide
fu la sua Audi bianca parcheggiata dall’altro lato della
strada, in quel
momento fin troppo invitante. Scacciò la tensione dal suo
petto dopo molti minuti di respiri controllati, finché non
si sentì del tutto padrone di se stesso.
Mosse
il primo passo quasi in trance, ripercorrendo le orme invisibili che
aveva lasciato diciotto anni prima. Non era mai tornato lì
dopo il
funerale. Dieci anni prima, con Rhodey, era riuscito ad arrivare fino
a Santa Monica, per poi evitare il cimitero e rifugiarsi nel primo
bar a portata di mano. Un’altra volta, più
recente, era arrivato
fino al cancello ed era rimasto lì, con una mano poggiata
sulla
presenza estranea del reattore infisso di fresco nel proprio petto.
Aveva
rimandato, sempre, prima per rabbia, poi per paura, ultimamente per
una consapevolezza che aveva ormai interiorizzato, ma che non voleva
concretizzare nella forma di una lapide fredda e definitiva. Accelerò
il passo, il mazzo di fiori stretto in una mano e il bastone
nell’altra, anche se avrebbe voluto dirigersi nella direzione
opposta.
Il percorso tracciato quell’unica volta era
cristallino
nella sua memoria troppo minuziosa. Si fermò a colpo sicuro
all’ombra di un pioppo, e lasciò ricadere i fiori
a sfiorare i
fili d’erba un po’ troppo alti. La lapide era
sobria, elegante
nella sua semplicità; solo la fattura del marmo chiaro e
pregiato
lasciava intuire la ricchezza dei proprietari. Una pianta
d’edera
ben curata la incorniciava, seguendone le linee ondulate, col verde
vivace in contrasto con lo sfondo bianco ormai un po’
scurito. In
un cartiglio, sopra ai nomi dei suoi genitori, campeggiava quello di
famiglia: Stark,
nero su bianco. Quasi un ammonimento, così come lo spazio
lasciato
vuoto alla base della lapide. Sotto il cartiglio, in caratteri
sottili e delicati, una citazione: il
domani appartiene a chi si prepara ad affrontarlo oggi. A leggerla, gli sembrava di sentirla recitare
dalla voce bassa e
un po’ roca di suo padre, sovrapposta ai suoi mille detti per
ogni
occasione. Nessuna foto: stupidamente, da ragazzo non aveva voluto
scegliere
neanche quelle per il funerale. Si trovò a cercare gli occhi
castani
e caldi di sua madre, ma incontrò solo la pietra fredda e
venata di
un grigio perlaceo.
Strinse il mazzo di fiori nella mano, rimanendo
immobile, muto.
Si
chiese se dovesse dire qualcosa, se avesse senso salutarli, o se
magari bastasse lasciar scorrere i pensieri per trovare una
connessione, o qualunque cosa cercasse la gente quando si piazzava
davanti a una tomba. Non era ben certo di cosa stesse cercando lui,
ma era abbastanza sicuro di dover posare quei fiori là
davanti, e di
doversi togliere gli occhiali da sole. Adagiò le calle e i
gigli
candidi ai piedi del marmo, sul basamento di marmo più
scuro, per poi
sfilarsi i Ray-Ban e appuntarli
sul taschino della camicia. Rimase accovacciato sul ginocchio
meccanico con lo sguardo all’altezza dei loro nomi.
Maria
Carbonell Stark.
Howard
A. Stark.
Li
lesse più volte, come se non li conoscesse, come se ripetere
quelle
lettere incise su una lapide potesse donare loro un qualche significato
aggiuntivo rispetto a leggerle in un giornale o su un documento. A
posteriori, era lieto di non aver fatto scrivere per esteso il nome
che condivideva con suo padre. All’epoca era stata una
questione di
principio, un ultimo atto di rifiuto verso di lui. Adesso la cosa
aveva sottintesi più tetri. Toccò coi
polpastrelli sensibili lo
spazio vuoto sotto i suoi genitori, percependo la superficie levigata
e fresca nonostante il sole a picco che trapelava oltre le fronde del
pioppo, creando tenui giochi di luce liquida sul bianco.
Tirò le labbra,
passando a sfiorare i solchi delle lettere già incise, della
stella
e della croce accanto ai numeri di ciascuno, tutti più
dolorosi e
allo stesso rassicuranti di quella porzione intonsa che sembrava in sua
attesa.
Si
arrischiò a portare la mano metallica a contatto col marmo,
come se
quel gesto potesse rivelare un’informazione in più
su di sé e
metterli a conoscenza di ciò che gli era successo, per
quanto
considerasse assurda e irrazionale quell’idea. Era uno
scienziato,
un fisico: non credeva nell’aldilà e non aveva
alcuna ragione per
farlo. Eppure, mantenne la protesi a contatto con i loro nomi
– con
loro
– e si impegnò a formulare un pensiero
più definito degli stralci
intermittenti che gli stavano attraversando la testa. Tutti
inesprimibili a parole, né semplici da condensare in
concetti di
senso compiuto.
I
colori sembravano frammentarsi in mille immagini, in ciascuna delle
quali i suoni si accavallavano con gli odori e i sapori si
mescolavano con il tatto. Così pensava alle estati a Malibu
e
non vedeva solo l’oceano immutato, ma sentiva la carezza del
vento
fresco in faccia, che gli faceva assaggiare il mare nella bocca e
aspirare il sale nei polmoni mentre correva tra gli schizzi sul
bagnasciuga, trascinando per mano sua madre sorridente. Pensava al
laboratorio e subito percepiva il saldatore tiepido tra le dita, la
pressione degli occhiali protettivi sul volto e l’odore di
stagno
liquefatto, assieme alla mano forte di suo padre che racchiudeva la
sua, correggendola burberamente e in tono brusco, ma senza mai
stringere troppo nonostante la presa salda e callosa. Pensava alle
note lontane di un pianoforte e subito vedeva i ricami di fiordalisi
sul vestito di sua madre, percepiva quella lieve essenza di rosa che
portava sempre con sé e che non aveva mai capito se fosse
acqua di
colonia o il suo profumo naturale, sentiva le sue labbra che gli
lasciavano un bacio sulla guancia a tre anni, a dieci, a sedici, a
ventuno, e non aveva mai pensato che sarebbe arrivato un ultimo, anche
se l'ultimo era proprio quello che ricordava più
chiaramente. Da
suo padre, non c’era stato nemmeno un primo.
Passò
le dita su quel numero fatidico, 1991, quasi a volerlo cancellare,
per poi rendersi conto della futilità del gesto.
Inspirò a fondo,
coi polmoni più ampi che accettarono grati quel ricambio
d’ossigeno,
pur consapevoli della gabbia che ancora li imprigionava. Si
portò
d’istinto la mano libera al reattore. Per un momento
sperò che,
dovunque fossero, non potessero vederlo e al contempo, intensamente,
sperò anche l’opposto. Sua madre si sarebbe
addolorata, a saperlo in quelle condizioni, ma si sarebbe anche
rallegrata nel vedere tutto ciò che aveva
realizzato, il modo in cui era cambiato in tutti quegli anni; sarebbe
stata lusingata della September Foundation, sarebbe stata orgogliosa di
lui, avrebbe acclamato i suoi
successi come aveva sempre fatto.
Probabilmente l’avrebbe anche redarguito per aver
temporeggiato
così a lungo con Pepper. E per averle distrutto il
pianoforte.
Suo
padre… non riusciva a mettere a fuoco la sua reazione.
Sgomento?
Rifiuto? Forse una punta di dispiacere, ben camuffata sotto rigidi
strati di rughe severe – era suo figlio, doveva
essere
così, era una legge naturale. Magari anche senso di colpa
–
ingiustificato, ma da qualcuno doveva pur aver preso –
perché non
aveva inventato il reattore per salvare e
uccidere suo figlio. Forse sarebbe anche stato fiero
di lui, per una
volta.
Mille domande gli si intrecciarono in testa:
cosa ne avrebbe pensato di Iron Man? Avrebbe apprezzato
l’idea
della Expo e avrebbe approvato il suo retaggio? E le protesi
– le
avrebbe considerate un’aberrazione o un passo verso il
futuro? Le
avrebbe odiate perché sfiguravano suo figlio o ne avrebbe
visto
l’utilità? Lo avrebbe accettato così
com’era, quando non era
riuscito a farlo per ventun anni?
Il cuore iniziò a martellargli nel
petto, accelerando appena, finché non intervenne la voce
ovattata di
sua madre a placare quelle congetture, ad abbracciarlo a prescindere
dalla sua altezza, o età, o aspetto. Lo aveva sempre fatto,
dicendogli che Howard lo rimproverava ad alta voce per poi lodarlo
in disparte; che lo ignorava in sua presenza ma parlava di lui in sua
assenza; che pareva quasi evitarlo quando era a casa, ma chiedeva a
lei con finta indifferenza quando sarebbe tornato dal collegio o dal
MIT per le vacanze. Lui non ci aveva mai creduto, bollando il tutto
come una menzogna per salvarlo ai suoi occhi, per illuderlo di un
affetto che non aveva mai ricevuto sulla propria pelle. E sua madre non
aveva mai davvero provato a colmare il vuoto tra loro, o a rimproverare
suo
padre. La ricordava come il centro del proprio mondo, il sole attorno
al quale ruotava la propria esistenza; ma ogni volta che c'era suo
padre quel sole si oscurava, eclissato, e lui stesso sprofondava nella
sua ombra.
Adesso vedeva una logica nelle azioni dei suoi genitori, per quanto non
sempre giustificabile; e per quanto la
distanza tra lui e suo padre rimanesse incolmabile, la sentiva un
po’
meno dolorosa e insondabile. Forse anche sopportabile.
Fissò di nuovo i nomi di sua madre e di suo padre,
chiedendosi se fosse giusto accettare i loro difetti solo quando aveva
scoperto i propri, e se fosse una beffa del caso accettarne la morte
proprio adesso che lui riusciva a scorgerla sul suo cammino. Non
ritenne sensato darsi risposta. Aveva
pensato di venire lì per aprire
una porta o per chiuderla, un qualcosa che in quel periodo si stava
impegnando a fare con dedizione. Si rendeva conto solo ora che non
c’era alcuna porta: quella che aveva davanti era una semplice
soglia. Ciò la rendeva solo più spaventosa, e il
pensiero gli causò
un vuoto allo stomaco. Si affrettò a
scacciare quell’immagine
troppo evocativa, stemperata dal fatto che forse, contro tutta la sua
logica ferrea e leggi scientifiche, dall'altra parte ci sarebbe stato
qualcuno ad aspettarlo.
Sfiorò di nuovo i nomi, schiudendo
la bocca senza produrne alcun suono. Quelle
parole semplici e fondamentali gli rimasero ancora una volta incastrate
in gola,
trattenute dalla rete dei suoi stessi pensieri. Gliene
sfuggì
un’altra, anch’essa silenziosa, un
“grazie” che aveva pensato per la maggior parte
della sua infanzia, mentre suonava un pianoforte sotto gli
occhi di
sua madre o ammirava gli armeggi di suo padre in laboratorio, e che
forse aveva poi formulato altre volte due anni prima,
quando l’unica luce a
rischiarare la grotta era stata quella azzurrina che gli aveva
regalato suo padre.
Fissò
la lapide, sentendosi smarrito ma anche insolitamente calmo, con
altri ricordi dolceamari che lo lambivano ritmicamente, come una
risacca continua e pacifica a cui non avrebbe voluto sottrarsi.
Inforcò
di nuovo gli occhiali da sole, adocchiando un’ultima volta lo
spazio vuoto che sembrava fissarlo di rimando dal marmo lucido della
tomba, e sollevò il mento quasi con sfida verso quella
soglia ormai
terribilmente vicina, a cui però si rifiutava di consegnarsi
già
da adesso.
Si
rialzò in piedi, con una lieve fitta al moncherino per la
posizione
scomoda tenuta troppo a lungo. Non sapeva quantificare quanto tempo
fosse rimasto lì, ma per essere la prima volta in
diciott’anni gli
sembrava abbastanza.
Allungò
un’ultima volta la mano sensibile verso la lapide,
accarezzandone
il profilo ricoperto d’edera, per poi staccarsene riluttante,
e al
contempo sollevato.
Si avviò fuori dal cimitero con passo più
lieve, come se una parte di lui fosse rimasta inginocchiata
là
davanti, a continuare un discorso rimasto a lungo in sospeso.
***
13
Maggio, Santa Monica, 13:30
Essendo
un infrasettimanale, a quell’ora non c’era molto
viavai sul
lungomare, occupato solo da un gruppetto di adolescenti che aveva
preferito la spiaggia alla scuola, qualche coppietta a braccetto, e
sporadici
atleti intenti a fare jogging a dispetto della temperatura
già
infernale nonostante fosse solo maggio. Anche il bancone e i tavoli
all’aperto di Perry’s contavano pochi avventori,
per lo più
pensionati in cerca di un po’ di refrigerio e di una partita
a
poker a due passi dall’oceano.
Tony
si attirò non pochi sguardi nell’attraversare il
piazzale
antistante il locale, ma nessuno lo importunò, anche se
intravide un
passante sfoderare spudoratamente il proprio telefono per
immortalarlo. Lo ignorò, calcandosi per bene gli occhiali da
sole in
faccia e ignorando la scossa di disagio che sembrava tirarlo per la
giacca, indirizzandolo verso la sua auto per tornare a casa, al
riparo da sguardi estranei. Trattenne quell’impulso, e anche
quello
di slacciare un altro bottone della camicia, per non rischiare di
scoprire accidentalmente le venature plumbee sottostanti. La sua
insofferenza al caldo non era scemata, ma si rassegnò a
tollerarlo
in silenzio: preferiva cuocere a fuoco lento nel suo completo di lino a
maniche lunghe, piuttosto che scoprire un centimetro di troppo del
braccio meccanico.
Si
accostò al bancone, preannunciato dal ticchettio che
accompagnava i
suoi passi, e richiamò l’attenzione del barman
voltato di spalle
battendo sul piano di legno con le nocche metalliche. L’uomo
si girò, rimase per un secondo
bloccato dallo stupore con uno shaker a mezz’aria, e si
aprì poi in
un sorriso incredulo.
«Signor
Stark!» lo accolse, facendoglisi incontro. «Non mi
aspettavo di
rivederla,» confessò, non potendo fare a meno di
adocchiare
fugacemente la mano artificiale posata sul bancone, ma Tony non se ne
ebbe a male.
«Tendo
sempre a sovvertire le aspettative,» replicò
invece con un mezzo
sorrisetto compiaciuto, sedendosi sullo sgabello.
Nei
mesi estivi, quando gli capitava di essere a Santa Monica, era una
sorta di habitué
di quel bar un po’ sgangherato. Non era il tipo
di posto dove ci si sarebbe aspettati di trovare Tony Stark, e Perry,
un omone hawaiano tatuato, baffuto, con un bandana perennemente
legata in testa e una Harley parcheggiata lì accanto a
confermare
gli stereotipi, si era sempre impegnato a non diffondere troppo la
voce.
«Cosa
beve? Offre la casa,» arrivò subito al dunque,
senza perdersi in
chiacchiere come suo solito, ma evidentemente contento di aver
recuperato un cliente del suo calibro.
«Un
Tequila Sunrise,» accettò un po’
colpevole Tony, conscio
che non avrebbe dovuto bere, ma ignorando in blocco il suo buonsenso e
i
moniti di Ian. «E un cheeseburger,» aggiunse,
concludendo che non
potesse esserci cibo migliore per celebrare una riacquistata
libertà.
Un
quarto d’ora dopo, era intento a testare i propri nervi nel
riuscire
a mangiare senza dare spettacolo, ovvero limitando al minimo
l’uso
della protesi per evitare disastri e sguardi indiscreti. Non se la
stava cavando così male, ed era lieto che, tra un ordine e
l’altro,
Perry fulminasse con lo sguardo chiunque lo fissasse troppo a lungo.
Così si sarebbe almeno risparmiato di attivare il suo
sarcasmo
devastante e molto poco politicamente corretto per scrollarsi di
dosso i curiosi.
A
metà del suo cheeseburger si vide comparire a sorpresa un
Mojito
sotto al naso, al che fu costretto a richiamare il barman con un
sospiro.
«Perry,
grazie, ma non
l’ho ordinato,»
disse controvoglia.
«Glielo
offre quel signore laggiù,»
replicò l'altro, accennando dietro di lui.
Tony
si voltò, inquadrando un vecchietto dai capelli bianchi
tirati
indietro con la brillantina e la bocca sormontata paio di baffetti
curati.
L’impressione
di serietà era stemperata dagli ampi Ray-Ban dalle lenti
arancioni
che spiccavano sul suo largo naso, e dalla maglietta con la stampa a
colori
vivaci “Legends
Never Die”. Vedendosi indicato,
sfoggiò un ampio
sogghigno e sollevò il proprio bicchiere nella sua
direzione, in un
brindisi che Tony ricambiò un po’ incerto a
mo’ di
ringraziamento, col volto incrinato a sua volta da un mezzo
sorrisetto.
Si
voltò di nuovo ed esitò prima di bere, per poi
pensare che non
sarebbe certo stato quello strappo alla regola ad ucciderlo. Stava
giusto per prendere il primo sorso, quando si vide sfilare il
bicchiere da sotto il naso con la stessa rapidità con cui
era
comparso. Sollevò
la testa, già pronto a infuriarsi per un qualche scherzo di
cattivo
gusto, e si trovò a fissare due occhi molto verdi e molto
divertiti,
incorniciati da folti capelli rossi.
«Buon
Dio!» sbottò, ritraendosi e sobbalzando per la
sorpresa, e Nataša
accolse quella reazione con un sorrisino un po’ perfido.
«Ciao,
Stark,» lo salutò, sorseggiando tranquilla il suo
drink. «Tutto
bene?»
«Non
se mi fai prendere un infarto,» soffiò lui,
portandosi una mano al
petto con fare teatrale.
Scrutò
la donna, in borghese con una semplice camicetta color sabbia e un
paio di jeans, e con i capelli più corti rispetto
all’ultima volta
che l’aveva vista. Il suo volto era illeggibile come sempre,
se non
per l’espressione furbetta che faceva capolino nella piega
delle
sue labbra. A parte la sua comparsa decisamente poco delicata, era
contento di vederla.
«Cos’è,
Coulson ha dato buca?» si riprese infine Tony, scrollando la
testa
prima di addentare ciò che rimaneva del panino.
«Le
sembro il tipo che dà buca?»
A
Tony quasi andò di traverso il boccone nel vedersi comparire
l’Agente dall’altro lato, ma riuscì a
non soffocarsi e a non
terminare la propria carriera riverso sul bancone di un bar come gli
era sempre stato pronosticato. Deglutì, un po’
rosso in volto.
«La mia salute è già precaria, vedete
di non accelerare il
processo,» sbottò, con umorismo un po’
nero, sfoggiando un
sorrisetto nel vedere il cambio d’espressione sui loro volti
a far loro capire che li stava prendendo in giro.
Coulson
era come sempre impeccabile nel suo sobrio completo nero, che passava
però molto poco inosservato in quella località
balneare. Si lanciò
un’occhiata attorno, constatando che a quel punto avevano
decisamente attirato l’attenzione degli avventori –
e dire che
quei due dovevano essere spie d’alto livello.
«Cambiamo
aria,» bofonchiò, per poi scivolare giù
dallo
sgabello e lasciare di
nascosto una generosa mancia a Perry, che altrimenti non
l’avrebbe
mai accettata.
Si
avviarono senza parlare verso la sua auto, che aveva lasciato nei
pressi del pontile per farsi una passeggiata. La brezza era tesa, ma
non fastidiosa, e gli spazzava indietro i capelli in modo piacevole,
quasi a ricordargli cosa si provasse a stare all’aria aperta.
Dopo
un centinaio di metri, notò che Nataša aveva
un’espressione
innegabilmente soddisfatta stampata in volto, e la sorprese ad
occhieggiare i suoi passi zoppicanti con occhio attento, al che si
lasciò sfuggire un sogghigno.
«Sono
migliorato?» la stuzzicò, azzardando un volteggio
col bastone
mentre camminava più impettito.
«Discretamente,»
gli concesse, senza sbilanciarsi. «Hai fatto
esercizio?»
«Non
molto, in realtà,» confessò Tony, un
po’ reticente a spiegarne
il motivo.
Nataša
sembrò intuirlo lo stesso, perché
adocchiò il reattore e non
insistette, per poi dargli un leggero spintone.
«Lavativo,»
lo rimbrottò.
Tony si limitò ad alzare le
spalle, accettando
quell’accusa giocosa, che allontanava discorsi troppo cupi da
fare
sotto quel sole incastonato in un cielo sgombro da nubi. Coulson
li osservava, pacato ed enigmatico come sempre, e Tony si
trovò
ancora una volta a sorprendersi per il fatto che si fosse presentato
lì nonostante lo scarso anticipo.
«Era
a Portland anche oggi, Agente?» chiese sfacciato, quando fu
costretto a rallentare un po’ il passo per una fitta molesta.
«Crede
che sarei qui, se fossi stato a Portland?» sollevò
le sopracciglia
lui.
«Non
so se posso fare concorrenza a Audrey,» ammise, storcendo la
bocca
insoddisfatto.
«Tu,
invece? Come mai da solo?» indagò
Nataša, con altrettanta poca
discrezione e cogliendo la palla al balzo.
Tony
esitò, ringraziando gli occhiali che celavano il suo
sguardo,
per poi rinunciare a svicolare alla domanda.
«Pepper
è impegnata alle Industries. In realtà non sa
neanche della
licenza, e di conseguenza…»
«…
non sa che sei qui,» concluse Nataša, quasi
rassegnata.
«Povera
donna,» chiosò l’altro. «Spero
che tu sia raggiungibile,» aggiunse
in tono inquisitore.
Tony
annuì, evitando di rivelare di aver dimenticato
più o meno
volontariamente il telefono a casa. Non volle pensare al centinaio
di chiamate perse che doveva aver ricevuto da lei. Aveva voluto
quella mattinata solo per sé, senza interferenze esterne di
alcun
tipo. E dopotutto le aveva lasciato un biglietto: non era certo
così
scriteriato.
Arrivati
alla sua auto Tony aprì il portabagagli, nel quale erano
stipati gli
scatoloni con le scartoffie di suo padre e della SSR. Coulson
annuì,
interessato, scorrendo i titoli di qualche dossier –
casualmente proprio quelli sul Progetto: Rebirth.
«Allora,
accettate l’offerta o devo portare tutto al
macero?» li incalzò Tony.
«Certo...» borbottò Coulson, perso nella
lettura di un dossier del '45.
«Altro materiale da digitalizzare. Hill sarà
contenta,» commentò
poi, in un misto indecifrabile di rassegnazione e soddisfazione.
«Tu
no?» lo rimbeccò Nataša, a sua volta
non propriamente entusiasta
di fronte al nuovo carico di lavoro.
«Fury
di sicuro,» concluse l'agente, accigliato.
«“Grazie
per il pensiero, Tony, te ne saremo eternamente
grati”,» cinguettò
il suddetto alle loro spalle, incrociando le braccia con fare
risentito.
«Ci
saranno davvero
utili,» lo rassicurò
Nataša, alzando gli occhi al
cielo. «Per te lo sono stati?» chiese poi, in tono
eloquente.
«Marginalmente,»
sviò lui, ticchettando a terra col bastone e fissandosi la
punta
delle scarpe, prima di superare la donna e salire al posto di guida per
troncare la questione. «Siete venuti da comuni mortali o
c’è un
Quinjet nascosto da qualche parte?» cambiò
discorso poi, avviando
il motore e facendo loro cenno di salire.
«Lola
è parcheggiata in città,» lo
indirizzò Coulson, sporgendosi da
dietro con uno sguardo preoccupato alla sua mano
meccanica sul volante.
Tony
sospirò, staccò platealmente entrambe le mani e
lasciò che la
macchina partisse in modalità automatica, riservandogli uno
sguardo
seccato dallo specchietto retrovisore; colse Nataša
sogghignare tra
sé per quello scambio silenzioso, e cercò di
stemperare un po’ il
suo cipiglio.
Venti
minuti dopo, avevano finito di trasferire gli scatoloni nel cofano di
Lola, e
Tony si apprestò a salutarli sbrigativamente per fare
ritorno alla villa, prima che
Pepper si preoccupasse troppo. Si era incupito, non sapeva dire
neanche lui perché; forse il ripensare alle ore perse a
scartabellare inutilmente l’archivio di suo padre
l’aveva irritato, o forse
era solo il palladio che influiva sul suo umore. Prima che potesse
congedarsi, Coulson gli fece cenno di aspettare.
«Ho
anch’io qualcosa per lei,» annunciò,
chinandosi oltre la portiera
per prelevare una scatola dal sedile del passeggero.
Lo
sguardo di Tony fu subito attratto dal simbolo dello SHIELD impresso
sul coperchio.
«Cos’ha
per me, Agente? Prove scomode per macchiarmi la reputazione?»
buttò
lì, celando la propria curiosità e incrociando le
mani dietro la
schiena per evitare di prendere direttamente la scatola.
Coulson
intuì la sua riluttanza e si limitò a poggiarle
nella sua macchina
con un sospiro, mentre Nataša aspettava poggiata sul muso di
Lola.
«Materiale
saltato fuori durante la digitalizzazione. Ho pensato che le avrebbe
fatto piacere riaverlo.»
Tony
aggrottò le sopracciglia e adocchiò meglio la
scatola. Mascherò
con successo il secondo o terzo quasi-infarto della giornata quando
mise a
fuoco la scritta sul lato finora celato: “Proprietà
di H. Stark”.
Dovette frenare le proprie mani dall’aprirla qui e ora, e le
strinse invece sul bastone, simulando indifferenza.
«Che
genere di materiale?» chiese svogliato, fissando le lettere
del nome
di suo padre con un lieve effetto déjà-vu.
«Privato,»
fu tutto ciò che offrì Coulson. «Niente
che possa interessare allo
SHIELD. Credo che spetti a lei decidere cosa farne,»
esplicò
infine, vedendolo ancora scettico.
Tony
percepì la propria trepidazione scemare un poco, ma
scrollò le
spalle, senza esternare nulla di ciò che stava provando. Se
loro non
avevano trovato nulla d’interessante, non voleva dire che non
ci
fosse davvero
nulla. Avrebbe dovuto indagare più a fondo di persona. E
smettere di farsi così tante aspettative.
«Grazie,
suppongo… avevo bisogno di qualche altro memento di mio
padre in
giro,» minimizzò, stringendo poi la mano a Coulson
con la sinistra e stemperando il proprio commento un po' ingrato con un
tono ironico.
«Si
riguardi, Stark. Contiamo ancora su di lei,» si
congedò altrettanto
in fretta lui.
«Non
su Iron Man?» lo rimbeccò pronto, memore delle sue
parole.
«C’è
differenza?» sorrise l’altro sibillino,
già salendo in macchina,
e Tony si lasciò scappare di rimando un sorrisetto un
po’ stupito.
Nataša
gli si fece incontro con un istante d’esitazione, lo sguardo
basso e le braccia
incrociate sotto il seno, esattamente come quando l’aveva
salutato
alla fine della fisioterapia. Tony la scrutò sospettoso.
«Romanov,
se hai intenzione di mettermi KO con una delle tua mosse ninja,
non–»
Si
lasciò abbracciare, anche se aveva riconosciuto
l’intento e
avrebbe potuto scostarsi facilmente, ma ricevere un abbraccio da
Nataša era un evento epocale e non aveva intenzione di
rifiutarlo. A quel contatto percepì un lieve
picco di disagio che si sforzò di camuffare, anche se era
difficile
nascondere qualcosa alla spia.
«Noi
siamo sempre all’Helicarrier,» proferì
la donna, staccandosi dopo averlo
stretto un'ultima volta po’ più forte.
«Lo sai, no?»
«Lo
so,» confermò lui, con un piccolo sbuffo.
«Anch’io sono sempre
alla Villa,» aggiunse poi, alzando le spalle e stando al
gioco.
«Spero
che ora non ci sarai proprio sempre,»
gli ricordò lei, inclinando
le labbra in un raro sorriso, e Tony si limitò ad annuire in
risposta.
«Tra
un paio di settimane potrebbe venirmi voglia di organizzare una festa
coi fiocchi, in onore dei vecchi tempi,» si lasciò
sfuggire poi,
con vaghezza e un velo di mestizia nel pensare al suo compleanno ormai
così vicino. «Di’ al resto
della banda di
tenersi libero, o potrei davvero offendermi,»
scherzò poi,
alleggerendo le proprie parole.
Nataša annuì senza commentare, e Tony
poté giurare di aver visto i suoi
occhi farsi un po’ lucidi un attimo prima che si girasse
di scatto per risalire in macchina.
«Vedremo,
Stark,» gli disse soltanto, senza guardarlo, e lui lo
interpretò come un deciso sì.
«E
non combini disastri... se vuole festeggiare, la villa le serve
intera,» gli ricordò Coulson, prima di partire e
svoltare ben presto dietro il primo angolo.
Tony
si sedette a sua volta in macchina, senza mettere in moto e guardando
di sottecchi la scatola accanto a lui. Si costrinse a non aprirla, o
avrebbe finito per perdersi documenti di vitale importanza in giro
per Santa Monica.
Guardò
l’orologio, realizzando che erano quasi le quattro e che non
sarebbe arrivato a casa prima di un’altra mezz’ora.
Si lasciò
scorrere addosso la giornata e, a parte un velo di stanchezza e
qualche doloretto sopportabile, realizzò di sentirsi bene, a
dispetto della nottataccia trascorsa. Inspirò a fondo
l’aria
marina che s’inoltrava fino alle strade interne, e
tamburellò una
marcetta vivace sul volante, con un sorrisetto a tirargli le labbra
nel pensare a Pepper che probabilmente lo aspettava a casa. Si
sentì
stringere lo stomaco, ma non con la solita ansia: fu uno strattone
piacevole che gli trasmesse solo un quieto senso di aspettativa e
impazienza di rivederla, come quelle rare volte in cui era stato in un
viaggio d'affari in capo al mondo senza di lei.
Il
suo sorriso s’inclinò in una smorfia,
rammentandosi che forse lei
non l’avrebbe accolto proprio a braccia aperte, dopo un
giorno
d’assenza improvvisa e assolutamente ingiustificata passato
chissà
dove, lasciandola in apprensione per lui. Si grattò la nuca,
meditabondo e molto poco propenso a rovinare la giornata a entrambi per
una sua leggerezza,
ma un piano in verità molto semplice gli si formò
subito in testa,
convincendolo a girare la chiave per mettersi in marcia, con
un’espressione furbetta stampata in faccia.
Sapeva
esattamente come farsi perdonare.
_______________________________________________________________________________________________________________
Note Dell'Autrice:
Salve!
Sono in ritardo? Direi assolutamente di sì, ma tra esami vari, disguidi accademici e compagnia bella questo periodo è stato un disastro.
A parte i miei casini... la scena di Tony che visita i suoi è preventivata da circa sei mesi ed è una grande soddisfazione riuscire a portarla "sullo schermo". Spero che il modo in cui l'ho rappresentata vi sia piaciuto (ci tengo a specificare che non vi è un perdono totale nei confronti di Howard, piuttosto un abbandono del rancore).
Il capitolo, sebbene con molto ritardo, è dedicato a Stan Lee <3 Inserire un suo cameo nella storia subito dopo la sua morte sarebbe stato forzato, e ho preferito concedergli uno spazio più dignitoso, sperando anche di avervi sorpreso, come fa lui in ogni film Marvel :)
Ah, maliziosetti, se a inizio capitolo avete pensato male, avete pensato benissimo u.u
Per tutto il resto c'è Mastercard, sono più che disponibile a fornire chiarimenti su trama, dettagli&co, che questo capitolo è una miniera d'informazioni :P
Ringrazio T612, Emyclarinet, _Atlas_ ed Enigmista96 per aver recensito lo scorso capitolo, e tutti coloro che hanno recentemente aggiunto la storia tra le seguite, preferite e ricordate <3 Non sapete quanto mi fate felice <3
Spero di riuscire ad aggiornare presto, e sicuramente non con così tanto ritardo come a questo giro :)
Un bacione e hasta la vista,
-Light-
P.S. La citazione sulla tomba degli Stark è da attribuire a Malcom X.
P.P.S. Il capitolo ha cambiato titolo un qualcosa come dieci volte, poi è arrivato il film Bohemian Rhapsody a ricordarmi che amo i Queen <3
|
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Capitolo 49 *** Sometimes you can't make it on your own ***
48
Sometimes
you can't make it on your own
"When something's broke
I wanna put a bit of fixin' on it
When something's bored
I wanna put a little exciting on it
If something's low
I wanna put a little high on it
When something's lost
I wanna fight to get it back again"
[The Fixer – Pearl Jam]
13
Maggio, Villa Stark, 16:30
"Sono
uscito. Non preoccuparti: tornerò presto e non
farò stupidaggini.
Tony.”
Pepper,
dopo averlo letto per la quarta volta, accartocciò ancora il
biglietto nel palmo della mano, nello stesso modo in cui il suo
stomaco aveva continuato ad accartocciarsi in una stretta ansiosa da
quando era tornata alla villa. Ansiosa, e decisamente arrabbiata,
anche se cercava di convincersi del contrario e di placare le ondate
furiose che di tanto in tanto prendevano il sopravvento sul suo
raziocinio.
“Non
preoccuparti”,
diceva. Certo, perché preoccuparsi? Dopotutto aveva solo una
gamba e
un braccio meccanico che rendevano un azzardo ogni suo movimento, un
reattore che lo stava uccidendo nel petto, e la sera prima era solo
stato a un passo dal piangere per il dolore ai moncherini.
Perché
mai si
sarebbe dovuta preoccupare nel saperlo a zonzo chissà dove?
Bevve
con rabbia un sorso di tè bollente, incurante di scottarsi,
con la
mano che tremò nonostante gli sforzi di placarla. Aveva
perso il
conto delle chiamate a vuoto che gli aveva fatto, prima di realizzare
che il suo telefono giaceva su un bancone del laboratorio, dove
era scesa in un atto di forza per assicurarsi che le armature
fossero ancora tutte – si era quasi sciolta dal sollievo nel
constatare che fossero al loro posto. Aveva quindi chiamato in
successione Rhodey,
Ian e Kyle, ma nessuno dei tre aveva idea di dove si fosse cacciato
il loro amico, paziente o assistito. Un biglietto sulla porta,
nessuna coordinata precisa e un contorno di vaghezza era tutto
ciò
che Tony si era lasciato alle spalle.
Sapeva
che probabilmente
non stava davvero facendo nulla di pericoloso, almeno per i suoi
standard, e, dopo che Kyle gli aveva detto della licenza, capiva
perfettamente il suo desiderio di uscire
dopo un anno e più
di
reclusione… era il fatto di averla lasciata di punto in
bianco in
una pozza d’angoscia a far uscire di testa lei.
Prese
un grosso respiro per calmarsi, riuscendo solo ad aumentare il
proprio nervosismo, manifesto nel modo in cui picchiettava sul bordo
della tazza. Tentare di fornire una spiegazione per i comportamenti
strampalati di Tony era sempre stato vano, ma aveva sperato che,
visto il contratto di assoluta trasparenza che ormai vigeva tra loro,
si sarebbe sempre degnato di metterla al corrente di ciò che
faceva.
Le riusciva abbastanza complesso definire il loro
rapporto in
quel momento, ma era più che determinata a non lasciare che
omissioni del genere diventassero – di
nuovo
– la norma.
Si
lasciò sprofondare nello schienale morbido del divano,
sentendosi
più esausta che mai: quella situazione iniziava a logorarla.
Gli
impegni alle Industries la tenevano occupata quel tanto che bastava
per non farla impazzire, ma le sembrava di sentir fisicamente
scorrere il tempo in sottofondo, ricordandole di quel limite fissato
ormai a meno di due mesi davanti a sé – a loro.
Non
riusciva a immaginarsi la propria vita senza Tony, e non era una
constatazione legata a ciò che era successo negli ultimi
mesi, ma
piuttosto un qualcosa di cui era diventata intrinsecamente sempre
più
consapevole col passare del tempo. Era stato una costante nella sua
quotidianità per dieci anni, e il solo pensare di perderlo
le
costringeva il respiro. Sarebbe stato come veder svanire
l’orizzonte
da un giorno all’altro: un qualcosa di non vitale ma sempre
presente, costante, tanto interiorizzato da non farci più
caso e
tanto essenziale da non poterne ignorare la scomparsa.
Sentì
le lacrime pizzicarle gli occhi, le ennesime di una lunga serie che
sembrava iniziata quella sera dopo la Expo e che non accennava a
finire, ma le trattenne, asciugandosele accortamente col dorso
dell’indice prima che traboccassero. Non era davvero
così triste
da sentire il bisogno di piangere, e attribuì quel cedimento
alla
stanchezza e alle pochissime ore di sonno. Era stata una nottata
estenuante per entrambi, e in realtà si chiedeva da dove
Tony avesse
preso la forza per uscire. D’altra parte, riusciva sempre a
sorprenderla in quel senso. Si rifiutava di lasciarsi vincere dalla
spossatezza, anche quando era chiaramente insostenibile, e
l’aveva
visto costantemente indaffarato, concedendosi solo poche parentesi
d’inerzia.
Era un fatto positivo e rassicurante, ma volte
avrebbe
voluto dirgli di rallentare e prendersi del tempo per sé,
nonostante
fosse del tutto consapevole che ciò andasse contro ogni
buonsenso, e
che quel desiderio inespresso celasse anche una punta
d’egoismo da
parte propria. Non sarebbe mai tornata indietro sulla sua decisione
di stargli vicino, ma all'atto pratico ciò
accadeva più raramente
di quanto avrebbe voluto – e di quanto di certo avrebbe
voluto lui.
La notte precedente ne aveva avuto una conferma, e ciò non
faceva
che farla sentire più ingabbiata dagli stessi limiti che
percepiva
Tony.
Sapeva che stavano facendo entrambi del loro meglio, ma
sembrava non essere mai abbastanza, per quanto si ripetessero che
fosse così. Stavano
entrando nella paradossale situazione in cui si rendevano pian piano
conto che anche i limiti avevano dei limiti: una soglia di tempo
oltre la quale diventavano impossibili da sopportare e rispettare,
che li spingeva a ignorarli per evitare di implodere. E ciò
diventava sempre più evidente nel modo in cui avevano
iniziato a
cercarsi più spesso e a lungo, nel fatto che Tony riuscisse
a
imbrigliare sempre meglio la sua ansia uscendo dai propri confini e
nel modo in cui lei si trovava a valicare i suoi, con quieta cautela,
e nessuno dei due si sottraeva a quei contatti ormai necessari, ma
spesso rimandati – come la notte prima, con quel “resta”
che non era arrivato da parte di Tony, ma che era sembrato aleggiare
tra loro.
Prima
che potesse addentrarsi in quei pensieri e scivolare nel confuso
subbuglio interiore che iniziava a intrecciarle stomaco e pensieri,
udì
lo scatto della porta, che spezzò di netto quel filo
ingarbugliato.
Balzò in piedi, sentendosi travolgere da un'ondata di
sollievo nel
veder comparire Tony nell'atrio, vivo e tutto intero.
Stava
per rimproverarlo per essere uscito senza dirle nulla e per essere
stato totalmente irreperibile per tutto il giorno, quando si
arrestò
nell’atto di andargli incontro, convinta di star subendo
l’effetto
di un déjà-vu
e che a quell’immagine di Tony si fosse sovrapposta una di
qualche
anno prima. Indossava un completo estivo grigio chiaro, e gli occhiali
scuri gli schermavano il volto senza celare del tutto la sua
espressione scanzonata, né le guance leggermente arrossate
dal sole;
aveva i capelli scarmigliati, come se avesse guidato con la capote
abbassata. Sottobraccio portava una scatola di cartone e con la mano
meccanica impugnava il bastone e i manici di una busta di plastica di
cui non riusciva a intuire il contenuto.
Sembrava... raggiante,
letteralmente, e un ampio sorriso gli attraversò il volto
quando la
vide. Si tolse in modo un po’ goffo gli occhiali,
destreggiandosi
tra i suoi ingombri, e rivelò lo sguardo acceso e le linee
sul suo
volto più distese; persino la sua postura sembrava
più diritta.
Irradiava un'aura di pura felicità, e in quel momento ogni
parola di
rimprovero le morì sulle labbra, perché dopo
così tanto tempo si
trovava finalmente a guardare il Tony che ricordava, ilare e
spensierato. Si trovò semplicemente a sorridere di rimando,
trovandosi a corto di parole e godendosi il sollievo di vederlo
lì
davanti a lei.
«Ehi,
Potts, così mi fa preoccupare,» esordì
Tony, senza smettere di
sorridere, nonostante si intuisse una traccia di colpevolezza tra le
righe.
A
quel punto Pepper si impegnò almeno a tentare di assumere
un’espressione severa. Era abbastanza convinta di star
fallendo
miseramente, a giudicare dall’aria affatto impressionata e
quasi un
po’ da discolo di Tony, che le stava venendo incontro con le
mani
ancora impegnate.
«Niente ramanzina?» proferì, alzando un
sopracciglio. «Neanche un piccolo rimprovero? Niente di
niente?»
insistette, sempre più sorpreso e col sorriso che non
abbandonava le
sue labbra.
«Sembra quasi che ci sperasse,» osservò
lei,
prendendo nota di come Tony avesse accorciato le distanze, rispetto
al solito.
La cosa non poteva che farle piacere. Lui
sfoggiò una smorfia impertinente, inclinandosi ancora verso
di
lei.
«Uno dei miei sport preferiti è farla arrabbiare,
che gusto
c'è se non ci riesco?» sogghignò con
fare esasperante.
«Oh, ci
sei riuscito benissimo,» cambiò tono lei,
accigliandosi.
Tony
imbastì dal nulla la sua solita espressione da cane
bastonato,
appaiandovi però un mezzo sorrisetto speranzoso.
«Ma…?»
la incitò, un po’ impaziente.
«Ma
sono anche contenta.»
«Del fatto che per una volta ho sbrigato
da solo i miei impegni?» accennò allo scatolone
che, notava adesso,
recava impresso il simbolo dello SHIELD.
«Di vederti così,»
replicò lei trattenendo l’impulso di
accostarglisi, sia per non
compromettere il suo equilibrio precario, sia per non turbare
inavvertitamente la bolla di serenità in cui sembrava
immerso.
«Ho
finalmente fatto colpo?» si meravigliò lui.
«È un record, ci sono
voluti solo nove anni,» osservò poi, canzonandola
con quel tono
leggero che l’aveva sempre caratterizzato e che rievocava
ricordi
graditi.
«Dieci.
E smetti di pensare che io abbia occhi solo per te,» lo
rimbeccò
bonaria, stando a quella farsa che ormai risultava un po' obsoleta,
ma che entrambi continuavano ad imbastire per puro diletto.
«Vuoi
forse negarlo?» insinuò lui, improvvisamente
malizioso.
Pepper
finse un sospiro snervato, arrossendo di riflesso e senza alcuna
intenzione di negare quel fatto. Per recuperare un briciolo di
compostezza, visto che essere così vicini non era affatto
d’aiuto,
fece per prendergli lo scatolone da sotto il braccio per alleviargli
il peso.
«Se
vuoi aiutarmi c’è questo; tanto è tutto
per te,» disse lui in
fretta e con sottile impaccio, interponendo la busta tra loro.
Pepper
ne afferrò di riflesso i manici, per poi sbirciare
incuriosita
all’interno e identificare, con un enorme sorriso, una
voluminosa
vaschetta di gelato.
«Solo
per me, dici?» chiese conferma, stimando che là
dentro ci fossero
almeno un chilo di calorie e zuccheri.
Tony
fece un sorriso un po’ storto, di un bambino sorpreso con le
mani
nella marmellata.
«Principalmente
per te,» specificò, con un indiscutibile sguardo
goloso alla
vaschetta. «Me l'ero preparato per farmi perdonare, ma se non
c'è
bisogno lo tengo per me…» suggerì,
facendo per riprendersi il
pensiero, che Pepper tenne prontamente fuori dalla sua portata, per
poi muovere un paio di passi verso la cucina.
«Ce
n’è decisamente bisogno,» lo prese in
giro, voltandogli poi le
spalle.
Sentì
il cuore leggero mentre camminava, e si chiese quando fosse stata
l’ultima volta che aveva provato una sensazione
così spensierata e
genuina. C’erano state troppe ombre a oscurarli, ultimamente,
e la
semplice possibilità di ritagliarsi un siparietto scherzoso
e privo
di fardelli le dava l’impressione di poter escludere dalla
mente
tutto il resto, se anche per pochi minuti.
«Nocciola
per te, caffè per me,» elencò nel
frattempo Tony, tenendole dietro
con passo claudicante ma vivace, dopo aver poggiato la scatola sul
divano. «Ero tentato dalla fragola, ma qualcosa mi ha detto
che era
meglio di no,» aggiunse, furbetto.
«Meno
male,» commentò lei, con un’occhiata
eloquente.
«Ero
molto
tentato.»
«Allora
apprezzo il tuo insolito autocontrollo.»
«Vorrà
dire che dovrò trovare altri modi per irritarti,»
concluse, con un
sorrisetto dispettoso.
A
quel punto la superò, le sottrasse la vaschetta con
inaspettata
agilità e le schioccò con assoluta naturalezza un
improvviso bacio
sulla guancia, per poi squagliarsela in cucina, lasciandola ad
avvampare nel salone piacevolmente sorpresa. Quasi inchiodò
sul
posto, chiedendosi se quel giorno non stesse avendo delle
allucinazioni dettate dallo stress. Appena la notte scorsa aveva
visto Tony dover fare appello a tutto il suo autocontrollo anche solo
per avvicinarsi a lei senza essere colto dall’ansia
ingiustificata
che lo divorava, e qualche ora prima aveva temuto che andasse in
autocombustione per la vergogna per quell’innocuo incidente
mattutino. E adesso le sembrava di aver a che fare col solito Tony
scherzosamente impudente e disinvolto, con l’aggiunta di
tutto ciò
che si erano detti – e non detti – in quei mesi e
che trapelava
dagli sguardi e dai gesti che si scambiavano.
Si
chiese fugacemente se dovesse preoccuparsi, per poi realizzare che la
risposta a quella domanda, nella loro situazione, rimaneva per forza
di cose immutata. Scacciò quei pensieri dalla testa: almeno
per quel
giorno voleva fingere anche lei che andasse tutto bene, visto che
Tony sembrava più incline del solito a fare lo stesso.
Quando
entrò in cucina, lo sorprese a cacciarsi una
gran cucchiaiata di
gelato in bocca direttamente dalla vaschetta, e non poté
trattenere
un sorriso nel vedere la buffa espressione colpevole che fece nel
vederla, affrettandosi a deglutire di colpo.
«Non
ti ho aspettata, si stava sciogliendo,» bofonchiò
a mo' di scusa,
sopprimendo un sobbalzo per l’evidente fitta da gelo che
l’aveva
attraversato.
Le
porse la coppetta in cui aveva già versato la sua porzione,
per poi
riempire la sua e abbandonare l’assalto barbaro alla
vaschetta. Pepper
ringraziò con un cenno del capo, per poi esitare sul posto,
indecisa
se rimanere in piedi o sedersi al tavolo, e Tony sembrò alle
prese
con lo stesso dubbio; e anche abbastanza nervosamente, a giudicare
dal modo in cui portò una mano a controllare la benda, un
tic che lo
tradiva puntualmente. Decise di rompere lei gli indugi: prese posto
su una delle sedie e lo tirò dolcemente per la manica,
badando a
scegliere il lato sano e invitandolo a sedersi accanto a lei. Tony
non si sottrasse e la assecondò subito con evidente
sollievo,
inclinando appena un angolo delle labbra verso l’alto.
Sfuggì
comunque il suo sguardo, abbassando le ciglia scure a schermare il
proprio.
Rimasero
in silenzio per un minuto buono, gomito a gomito mentre gustavano il
gelato, quasi in attesa del passo successivo da parte di uno dei due.
Pepper stava tenacemente cercando di ignorare il suo cuore che aveva
preso a battere in modo più rapido e sonoro da quando era
entrata
nella stanza, e aveva l’impressione che anche Tony fosse alle
prese
con le stesse difficoltà, neanche fossero stati due
ragazzini al
primo appuntamento. Anche se a dirla tutta avevano avuto ben pochi
momenti che potessero essere definiti “normali”, o
anche solo
quotidiani: quella era una novità, e al contempo non
lo era,
perché riusciva a ricordare infinite altre occasioni in cui
avevano
mangiato allo stesso tavolo negli ultimi dieci anni. Adesso
però era
diverso, e lo sapevano entrambi.
Pepper
ripulì la propria coppetta, adocchiando di riflesso il resto
del
gelato, e Tony intercettò il gesto con aria divertita,
servendo
subito un’altra generosa cucchiaiata di dolce a entrambi.
«Piace?»
chiese, già certo della risposta.
«Molto.
Grazie,» sorrise lei, contenta di sentire la tensione che di
solito
si instaurava tra loro allentarsi a poco a poco. «Dove
l’hai
preso?» indagò poi, cercando di porre la domanda
nel modo più
casuale possibile, attenta a non turbare la quiete.
«Uh,
in giro…» replicò prevedibilmente lui,
altrettanto disinvolto e
poco convincente.
Pepper
non insistette, sapendo che, prima o poi, Tony le avrebbe comunque
rivelato dove fosse andato quella mattina. Aveva imparato a
lasciargli spazio e tempo, sotto quel punto di vista: da quando aveva
fatto voto di sincerità assoluta con lei, non
l’aveva ancora mai
infranto, dimostrandole di essere degno di fiducia a dispetto di
tutto – nonostante quel giorno ci fosse andato molto, molto
vicino. Forse teneva per sé più di un dettaglio
spiacevole riguardo
alle sue condizioni, ma non le servivano parole per intuirlo, e
capiva perfettamente quella sua reticenza. Per ora era contenta anche
solo di vederlo mangiare con gusto dopo settimane di inappetenza
quasi totale, oltre che nel notare il suo colorito un po’
più
roseo e acceso dal sole; anche le venature scure che di solito
facevano capolino dal suo colletto si erano ritratte, e
intuì che
avesse assunto il dilitio, che forse contribuiva al suo umore
positivo.
Si
accorse di essersi distratta, e che un po’ del suo gelato si
era
sciolto mentre giocherellava senza mangiarlo; camuffò quella
deriva
ostentando naturalezza, ma era certo che Tony l’avesse
comunque
notata, a conferma che anche a lui spesso bastavano quei non detti
per comprenderla.
«Ho
fatto buon uso della mia ora di libertà,»
scherzò in quel mentre,
riprendendo il discorso e illuminandosi al contempo.
«Kyle
mi ha detto della licenza,» replicò lei, senza
trattenere un ampio
sorriso e trasmettendogli tutta la gioia che era stata
soffocata dalla preoccupazione fino al suo ritorno.
Il
volto di Tony si atteggiò in un’espressione
scaltra,
assottigliando lo sguardo e sollevando un angolo delle labbra in un
sorrisetto obliquo.
«Alla
fine ho vinto io, ovviamente,»
affermò, facendo poi cozzare la propria coppetta contro la
sua in un
brindisi improvvisato. «Alla faccia di Stern,»
sogghignò
compiaciuto.
«E
di Knight,» lo assecondò Pepper, rivolgendo
però mentalmente il
brindisi a Tony e a quella sua ennesima vittoria.
Lui
sembrò soddisfatto e suggellò il rito finendo in
un sol boccone il
gelato restante.
«Comunque,
ti saluta Agente,» proferì, senza preavviso.
«Intendi
Phil?» chiese conferma lei, perplessa da
quell’informazione
inaspettata.
«Intendo
Agente,»
replicò testardo, facendola sorridere appena.
«L’hai
incontrato?» la prese alla larga, permettendogli di arrivare
con
calma al punto.
«Mh-hm.
Avevo del materiale per lui, e lui per me. Tutta roba di mio
padre,»
specificò, accennando al salotto in cui aveva lasciato lo
scatolone.
Pepper
trovò strano quell’insolita disinvoltura nel
parlare di Howard,
quando solitamente il solo menzionarlo portava un cipiglio
inconfondibile sul suo volto, un qualcosa a metà strada tra
il
risentimento, la colpevolezza e una peculiare forma d'orgoglio.
«Dallo
studio?» chiese semplicemente.
«Dallo
stanzino inutile,» la corresse lui, ancora privo
d’inflessione. «E
dagli archivi dello SHIELD che hai contribuito a
digitalizzare,»
concluse, con un lieve sbuffo divertito.
«Almeno
è servito a qualcosa,» alzò le spalle
lei, accigliandosi appena
senza volerlo.
«Adesso
hanno altro lavoro da sbrigare grazie a me; per fortuna che si
è
licenziata, signorina Potts,» la punzecchiò, senza
malizia e con un
sottotono di sollievo per quella parentesi relegata in un passato che
sembrava ormai molto remoto.
Pepper
si limitò a sorridergli, concordando silenziosamente sul
fatto di
aver preso una delle decisioni più giuste degli ultimi anni,
nel
tornare lì con lui.
«Ci siamo visti a Santa Monica. C’era
anche Nat,»
continuò quindi Tony, in
modo sconnesso e un po’ frettoloso, come a far passare in
sordina
quell’ultima informazione senza volerla davvero nascondere.
Era
fatto così: non si sarebbe esposto direttamente per niente
al mondo,
ma forniva sempre appigli agli altri per invitarlo ad aprirsi, come
se temesse di farlo in modo spontaneo. Pepper
attese ancora qualche istante prima di rispondere, osservando Tony
che rigirava il cucchiaino nella coppetta ormai vuota, senza
aggiungere altro, ma anche senza cambiare argomento.
«Come
mai a Santa Monica?» si decise a chiedere, osservando attenta
la sua
reazione.
«Avevo
voglia di un po’ d’aria di mare,» rispose
subito lui,
apparentemente leggero.
A
Pepper bastò rivolgere un’eloquente occhiata al
Pacifico che si
stagliava all’orizzonte oltre la penisola della cucina per
confutare
quella bugia che, ne era certa, aveva intenzionalmente reso
così
fragile per innescare in lei proprio quella reazione: una bugia
trasparente per essere smascherato e messo nella condizione di non
poterle dire altro che la verità. I processi mentali di Tony
erano
di certo convoluti, ma ormai aveva abbastanza dimestichezza da
riuscire a seguirli e comprendere quasi a colpo sicuro.
Sotto
il peso del suo sguardo, Tony s’incurvò sul tavolo
con la testa
chinata in avanti, prendendo a ticchettare col manico del cucchiaino
sul fondo della coppetta.
«Sono
passato al Woodlawn Memorial,» mormorò, senza
articolare
chiaramente le parole, e Pepper trovò così
conferma delle sue prime
supposizioni. «Ho
fatto un saluto ai miei,» scrollò le spalle poi,
continuando a
tenere lo sguardo puntato sulla posata.
Pepper
esitò, incerta su come reagire. Tony detestava la
compassione
gratuita, questo le era ormai molto chiaro: confortarlo non sarebbe
stato appropriato, soprattutto perché non le sembrava
affatto
triste, solo comprensibilmente pensoso nel menzionare la visita ai
genitori. Non aveva neanche bisogno di chiedergli perché ci
fosse
andato proprio adesso: le confessioni di quella notte le avevano
lasciato intendere che ultimamente spendesse molto tempo a rimuginare
sul suo passato, soprattutto familiare. E adesso che di tempo ne
aveva poco – si impose di respirare – capiva quel
desiderio di
volerlo sfruttare al meglio per sanare vecchie ferite.
Così
non disse nulla, e gli posò invece una mano leggera sul
braccio, in
una carezza appena accennata. Tony si irrigidì, in un
riflesso
condizionato, ma non si scostò e sembrò
interpretarla come uno
sprone, perché proseguì a voce un po’
più piena e ferma:
«Non
ci ero mai andato e…» strinse le labbra,
scegliendo le parole
successive. «Ho… colto
l’attimo,» concluse, con un mezzo
sorriso tinto di mestizia.
«E
adesso come stai?» indagò lei, distogliendolo da
quella linea di
pensieri che, come la sua, si infrangeva contro un muro invisibile e
sempre più vicino.
«Bene,»
rispose lui di getto, annuendo appena a rafforzare
quell’affermazione. «Davvero, non stavo
così bene da… da
molto,» concluse, abbassando lo sguardo, e con quella
semplice frase
esternò molto più di quanto avesse effettivamente
detto.
«Allora
direi che è stata un’ora di libertà
molto produttiva,» concluse
lei, riportandoli su toni più leggeri e strappandogli uno
sbuffo
divertito.
«Già…
e ho anche vinto un regalo da Monocolo,» si
rianimò con un
sogghigno, deviando definitivamente dal discorso, o forse rimanendovi
solo in parallelo, considerando che anche quella scatola era legata
ad Howard.
«Cosa
c’è dentro?»
s’incuriosì lei
«Non
lo so, non l’ho ancora aperta,» replicò
lui, corrugando le
sopracciglia con fare incerto. «Magari potremmo…
uh…»
s’interruppe mordendosi il labbro, un gesto di estremo
nervosismo
che raramente lo intaccava.
Pepper
intuì quello che voleva chiederle e gli sfiorò le
nocche,
catturando la sua attenzione e il suo sguardo.
«Sei
sicuro?» gli chiese, un po’ titubante per quella
richiesta
gradita, ma forse poco pensata da parte sua.
Si
trattava pur sempre di una parte estremamente delicata della sua
vita, e voleva dargli la possibilità di ritrattare la
proposta.
«Quella
chiave è ancora valida,» replicò invece
lui, senza esitare, e
Pepper decise che la migliore risposta a quell’affermazione
fosse un rapido bacio sulla guancia.
Tony
sembrò concordare.
***
Pepper
era sicura che Tony avesse rimpianto amaramente la
propria
decisione nel momento stesso in cui sollevò il coperchio
dello scatolone, rivelando come prima cosa la copertina di un album
fotografico col suo nome sopra. Le scoccò
un’occhiata
che
rasentava il panico, per poi borbottare con indifferenza molto mal
riuscita un “oh, ecco dov’era finito”,
senza per questo
manifestare la minima intenzione di aprirlo. Pepper, invece, represse a
fatica la propria curiosità: a dispetto del suo
ego
notevole, le foto di Tony in contesti non pubblici si contavano sulle
dita di una mano, e anche la Villa ne era completamente spoglia,
preferendovi dei quadri impersonali scelti da lei. L’unica
superstite
–
un’istantanea sua e del padre per commemorare la costruzione
di
Dum-E – giaceva in laboratorio, e l’aveva vista
più spesso nel
cestino della spazzatura che sulla scrivania, nonostante non
l’avesse
mai gettata via in modo definitivo. Si era comunque trattenuta dal
commentare o lasciar trapelare il proprio interesse per evitare di
irritare un tasto già abbastanza sensibile; ma, con sua
sorpresa,
Tony afferrò infine l’album, per poi porgerlo a
lei
senza
esitazioni e continuare l’ispezione della scatola.
«Divertiti,» disse, con leggerezza un po’
forzata. «Non ho
idea di cosa
potresti trovare là dentro: fammi solo sapere se posso
guardarlo
senza avere un infarto per l’imbarazzo,»
continuò in
fretta, prendendo a sfogliare con interesse ben più vivo un
bloc-notes malridotto.
Sotto
quella patina d’indifferenza, poteva quasi vedere il suo
cuore
battere in modo irregolare sotto la maglietta, e la presa
particolarmente salda delle sue dita sulla carta ingiallita
confermava la tensione dell’uomo di fronte a quella scoperta
inaspettata. Considerò comunque positivo il fatto che le
avesse dato
ancora una volta fiducia in quell’aspetto, e gli si sedette
accanto
sul divano, sfogliando quietamente l’album mentre lui si
barcamenava tra scartoffie, altre foto sparse e ammennicoli vari
stipati in quello spazio ridotto. La sua espressione si era fatta
adesso indecifrabile, assorta nei molti quaderni d’appunti
che
sembrava quasi riluttante ad esaminare, nonostante la cura con cui li
maneggiava tradisse il suo interesse.
Pepper,
dal canto suo, si trovò a sorridere intenerita di fronte
alle
foto
d’infanzia di Tony, comunque un numero molto ridotto.
Già da
bambino sfoggiava un’aria impertinente, appaiata a quel suo
sorrisetto da scavezzacollo rimasto pressoché immutato e
che, come
ebbe modo di scoprire, coincideva con quello di Howard in una delle
loro rare foto insieme. Anche con Maria ne aveva a malapena un paio:
nella maggior parte degli scatti era da solo, impegnato a trafficare
in laboratorio o in attività decisamente scapestrate. Quasi
tutte
arrivavano fino ai cinque o sei anni: dopodiché ce
n’erano
pochissime, scattate apparentemente a distanza di parecchio tempo
l’una dall’altra, segnando in modo netto il
passaggio da bambino
a ragazzo a giovane adulto. Il perché le sovvenne in ritardo
e con
una punta di tristezza, ricordandosi di qualche accenno di Tony al
collegio in cui Howard l’aveva spedito fino
all’università, che
per lui era arrivata comunque troppo presto. Si soffermò su
una
delle foto relativamente più recenti: un Tony appena
diciottenne,
vestito di tutto punto in un completo scuro, che guardava
l’obbiettivo
con lo sguardo schivo di chi è stato colto di sorpresa.
C’era un
qualcosa, in quella foto, che non collimava con l’uomo che
aveva
imparato a conoscere, e che si distaccava dal bambino che aveva appena
visto crescere in quelle pagine. Dai suoi occhi scuri traspariva una
sorta di ritrosia che prima non esisteva e che poi non era
sopravvissuta: era immortalata unicamente in quella fase di passaggio
in cui Tony sembrava ancora indeciso su chi dovesse diventare; solo
un ragazzo stretto in abiti adulti.
Si
girò a guardarlo e lo colse con un’ombra di quella
stessa
espressione a offuscargli i tratti mentre osservava un’altra
foto:
dalla superficie lucida sorrideva dolcemente Maria, col volto
incorniciato dal velo nuziale e roselline bianche intrecciate ai
capelli; accanto intravedeva Howard in smoking, coi capelli ancora
corvini e il volto disteso e
solare nell’ammirare la sua sposa. Tony si accorse di essere
osservato e infilò di scatto la diapositiva nella piccola
risma del
matrimonio dei suoi, per poi riporle sul fondo della scatola evitando
il suo sguardo.
«Non
sapevo esistessero,» proferì a mezza voce, quasi a
scusarsi, per
poi aggrottare le sopracciglia. «E non capisco
perché fossero allo
SHIELD tra documenti criptati e file top secret,» aggiunse,
con una
punta di confuso fastidio.
«Magari
neanche a lui piaceva passare per nostalgico,»
ipotizzò Pepper,
quasi senza pensare, e quel commento spontaneo portò un
piccolo
sorriso sul volto di Tony.
«Touché,»
ammise senza risentirsi.
Passò
a sfogliare un altro mazzetto di foto in bianco e nero, stavolta
accostandosi un poco a lei, in un discreto invito a guardarle insieme
che Pepper accettò di buon grado, sia per il gesto che per
la
vicinanza. Erano scatti alla rinfusa del dopoguerra e del periodo
immediatamente precedente, raccolti senza ordine o logica; Tony ne
mise da parte uno in cui si vedevano Howard, Rogers e Peggy in una
caserma durante una pausa dai combattimenti, ma per il resto non si
soffermò su nessuno di essi, finché Pepper non lo
fermò d’istinto
prima che potesse passare a quello successivo.
«Questo
è...» Pepper prese con delicatezza la foto e la
avvicinò agli
occhi, «Un fenicottero?» concluse incredula.
Tony
inclinò la testa per vedere meglio e ridacchiò,
altrettanto stupito
nel riconoscere la sagoma dell’animale sporgere dalla berlina
di
suo padre.
«Puoi
rinfacciarmi tutto, ma almeno io
non ti ho mai portato animali molesti a casa,»
sottolineò,
sogghignando sotto i baffi.
«Ti
ricordo che a quel meeting a Bombay sei stato a un passo
dall'acquistare un elefante,» commentò Pepper,
facendo uno sforzo
per non sbottare a ridere anche lei.
«Perché
sapevo di poter contare sul tuo buonsenso nel dissuadermi,»
replicò
pronto lui, salvando come sempre la faccia e sfoggiando un sorrisetto
storto e soddisfatto.
Pepper
lo paragonò a quello di Howard in foto, evidentemente
altrettanto
compiaciuto per quell’acquisto esotico, che strideva con le
descrizioni che Tony faceva di quell’uomo austero e
intransigente.
«Gli
somigli molto,» commentò sovrappensiero,
rendendosi conto in
ritardo della propria indelicatezza.
«A
chi? Al fenicottero?» sbuffò invece lui, con
un’espressione
talmente torva da risultare comica ma senz’ombra di
risentimento.
Pepper
scosse la testa, ma lasciò accortamente cadere
l’argomento. Tony
riprese a frugare a tentoni nello scatolone ormai vuoto, e quasi la
fece sobbalzare quando emise un fischio prolungato
nell’estrarre
gli ultimi oggetti: due “pizze” di pellicola con la
custodia
metallica un po’ ammaccata, sulla quale Tony stava
picchiettando
con l’indice metallico.
«1958…
1974?» lesse poi sulla targhetta ingiallita delle rispettive
bobine,
alzando un sopracciglio scettico. «Speriamo che non ci sia
nulla di
troppo scandaloso,» borbottò tra sé,
storcendo la bocca.
«In
che senso?» s’interessò Pepper,
inclinando il capo per vederle
meglio.
«Beh,
i miei si sono conosciuti nel '61 e prima di lei mio padre era...
come dire?» S'interruppe, pensoso. «Diciamo solo
che ho ereditato
da lui l'estrema debolezza per il gentil sesso e lo scarso senso del
pudore,» concluse con una smorfia indecisa tra l'orgoglio e
lo
scherno.
Pepper
arrossì, improvvisamente molto riluttante a proiettare quel
filmato.
«Forse
è meglio se lo guardi in privato,»
suggerì, sperando che non lo
interpretasse come ironia.
«Andiamo,
signorina Potts, ha visto sicuramente di peggio,»
ribatté però
lui, con un sogghigno.
«Fortunatamente
no, signor Stark, anche se nel corso degli anni ha lasciato molto
poco
all'immaginazione,» stette al gioco lei, leggermente stupita
da quel
suo fare disinibito.
«Internet
pullula già da anni di miei video "compromettenti", mi
vuole dire che non ne ha mai sbirciato neanche uno?» la
punzecchiò
lui con la sua migliore faccia da schiaffi.
«Ho
molto più rispetto per la sua privacy di quanto ne abbia lei
stesso,» gli fece notare, con altrettanta spensieratezza e
una punta
d’imbarazzo inspiegabilmente piacevole che le
pizzicò lo stomaco.
«Ammiro
la sua forza di volontà,» commentò lui,
con aria sorniona. «A
ruoli invertiti non credo che saprei resistere
a–..»
Pepper
sfogliò rapida l'album rimasto aperto sulle sue ginocchia,
piantandoglielo poi a un palmo dal naso.
«Attento
a quello che dici, o questa
potrebbe diventare virale,» lo ammonì, con finta
severità.
Tony
seguì il suo indice puntato su una sua foto sbiadita e
avvampò:
doveva aver avuto tre o quattro anni e indossava una tutina di
Capitan America mentre sventolava tutto felice uno scudo di plastica
a stelle e strisce.
«A
mia discolpa, ero giovane e ingenuo, ed è stato mio
padre
a costringermi,»
sottolineò con veemenza.
«Avevi
proprio l'aria di chi è stato costretto,» lo
provocò lei, con un
sorrisino un po' perfido, accennando al suo volto inconfutabilmente
disteso in una risata infantile.
«Uno
a zero per te,» concesse lui, sfilandole rapido l'album di
mano e
richiudendolo con uno schiocco per evitare altre scoperte nefaste.
Si
resero entrambi conto di essersi avvicinati nel corso della
discussione, con Tony col busto inclinato verso di lei e Pepper col
viso rivolto a lui; gli occhi di entrambi si posarono fugaci sulle
labbra
dell’altro, in un invito reciproco e inespresso che
però esitarono
entrambi ad assecondare, lasciandolo a perdersi a metà
strada tra
loro. Tony recuperò distanza per primo e si
schiarì piano la gola,
le mani strette sulle pellicole.
«Allora,
vogliamo svelare il mistero?» proferì poi,
rompendo il silenzio
elettrico che si era instaurato tra loro.
«Direi
di sì,» concordò subito lei, imitandolo
con lieve e, immaginò,
mutuo rammarico.
Tony
recuperò il bastone e si alzò rapido in piedi, e,
prima che Pepper
potesse aggiungere altro, si era già allontanato alla
ricerca di un
proiettore.
***
Nel
giro di mezz'ora, dopo aver recuperato e rimesso in sesto un
antiquato proiettore e aver spostato il divanetto in laboratorio di
fronte a una parete libera, riuscirono a far partire il primo
filmato. Tony smise di trafficare con la pellicola, che per ora era
muta e stava mostrando quelle che sembravano delle riprese
paesaggistiche: campagna assolata, una strada costiera, una scogliera
rossastra a picco sul mare...
«Sembra...»
esordì Pepper, assottigliando gli occhi dalla sua postazione
accoccolata contro il
bracciolo.
«…
Malibu Point,» completò Tony, con
l’entusiasmo che gli scendeva
sotto i tacchi. «Prima della villa. Ci aspettano circa venti
minuti
di emozionanti sopralluoghi edili,» sospirò
deluso,
e si scostò
dall'apparecchio in funzione, pur continuando a seguire il video con
scarso interesse.
Ovviamente si sentiva legato a quel luogo, ma
rimaneva comunque un progetto di suo padre. Quando
era in vita, la villa era arredata in modo ben più sobrio e
gli spazi
erano
molto più contenuti e opprimenti, simili alla loro vecchia
magione a
Long Island nonostante fosse la loro casa estiva. Era come se suo
padre non fosse riuscito a staccarsi dall'epoca del dopoguerra: ne
risultava un'atmosfera antiquata e stantia che stonava con
l'architettura ultramoderna degli esterni. Dopo l'incidente del '91,
una delle prime cose che aveva fatto era stato vendere la vecchia
casa e stravolgere la planimetria di Villa Stark, eliminando
qualsiasi traccia dei suoi e mantenendo solo quel famoso studiolo,
rimasto cristallizzato agli anni '60.
Fissò
le immagini che si susseguivano di fronte a lui, a tratti ondeggianti
e sfocate, probabilmente riprese da suo padre stesso. Cacciò
la mano
meccanica in tasca, tirando le labbra e sentendo un improvviso e
sordo pulsare al petto, in controtempo col proprio cuore, come un
mantice che gli comprimeva ritmicamente la cassa toracica. Erano
ondate di rabbia, realizzò dopo qualche istante, una rabbia
densa e
inconcludente che gli rubava il respiro.
Si sentiva raggirato. Da suo
padre, dallo SHIELD, dalla fievole speranza che aveva ingenuamente
coltivato nel vedersi davanti una strada ancora inesplorata che
avrebbe potuto salvarlo. Gli appunti di suo padre, che aveva cercato
così a lungo nel suo studio, non erano altro che carta
straccia, quel
filmato era assolutamente inutile e l’album e le foto
ritrovati non
avrebbero arrestato l’avanzata del palladio. Aveva preso atto
della
propria morte quasi certa mesi prima, ma ogni volta il pensiero gli
causava un senso di vertigine, e ad ogni riconferma si sentiva sempre
più inadeguato, come se tutte le conoscenze acquisite in una
vita
intera gli fossero venute meno, o fossero diventate superflue.
«Tony?»
La
voce di Pepper fu un’ancora per i suoi pensieri. La accolse
con
sollievo, lasciando che la paura gli scorresse addosso senza
annegarlo.
«Tutto
bene?» continuò la donna, e nel voltarsi Tony
prese subito atto
della linea preoccupata che le solcava la fronte, unita alle mani
strette tra loro a frenarsi.
Meditò
se mentirle, come sempre, e come sempre represse la tentazione.
«Più
o meno,» bofonchiò, scuotendo appena il capo.
«Non era quel che mi
aspettavo,» aggiunse, puntando il bastone verso il proiettore.
«Che
ti aspettavi?» indagò lei, leggermente confusa.
«Una
soluzione,» rispose di getto lui, fissando il pavimento.
Intravide
il suo sguardo intristirsi e si sentì colpevole
d’aver rovinato
una giornata partita nel migliore dei modi.
Sospirò
con un tremito nelle spalle, osservando quelle noiose immagini che si
rincorrevano sulla parete. In fin dei conti, anche dei filmati
imbarazzanti di suo padre gli sarebbero andati bene, se non altro per
farsi due risate e vedere Pepper tramutarsi in un vero e proprio
peperone, soprattutto in un momento in cui stava quasi riuscendo a
dimenticarsi del proprio corpo e di quanto lo detestasse. In
realtà
si era trovato a voler superare quelle barriere tra loro più
di una
volta da quando aveva rimesso piede a casa, ma temeva che un cambio
d’atteggiamento così repentino potesse metterla in
difficoltà, o
apparire strano, o inspiegabile. Non riusciva a spiegarselo davvero
nemmeno lui, ma dalla sera prima si sentiva più leggero di
qualche
tonnellata, e dopo la visita al cimitero gli sembrava di aver messo a
tacere un bisbiglio fastidioso che non si era mai accorto di avere
costantemente nell’orecchio. Sapeva che probabilmente avrebbe
solo
dovuto lasciarsi andare, ma temeva dove sarebbero potuti arrivare se
l’avesse fatto davvero. E non era assolutamente sicuro se
ciò che
voleva coincidesse con ciò che voleva il suo corpo, e
soprattutto
con ciò che voleva Pepper. Era di certo in grado di fermarsi
e
capirlo al momento, ma dubitava che poi avrebbe mai più
avuto il
coraggio di guardarla negli occhi. Ma ciò che più
lo terrorizzava,
troncando sul nascere ogni suo gesto, era che lei lo accettasse
spinta dalla mera paura di perderlo; ed era per quella stessa paura che
anche lui temeva di accelerare involontariamente i tempi.
La
guardò di sottecchi, seduta sul divano con le gambe raccolte
sotto
di lei, intenta a seguire pigramente il filmato e osservandolo in
realtà a sua volta, e si sentì battere il cuore
nello stomaco. Il
braccio meccanico sembrò farsi più pesante, quasi
ad ancorarlo a
terra per prevenire gesti avventati, ma si costrinse comunque a
raggiungerla, diviso tra il desiderio di starle vicino, di lei, e di
starle allo stesso tempo lontano.
Nel
passare accanto allo scatolone ne pescò fuori il quaderno
più
voluminoso, per poi sprofondare nel divano e prendere a sfogliarlo,
del tutto disinteressato alle immagini sgranate che scorrevano sulla
parete e fingendo di esserlo altrettanto nei confronti di Pepper.
Anche lei guardava un po' distrattamente il filmato e si accorse che
lanciava occhiate incuriosite al quaderno. Senza dir nulla
scivolò
vicino a lei, assecondando discretamente quell’impulso e
inclinando
le pagine in modo che potesse vederle. Colse la sua espressione
smarrita quando si trovò davanti le miriadi di formule,
schemi e
complessi grafici che riempivano le pagine e le rivolse un
sorrisetto.
«Ti
assicuro che non è così difficile come
sembra,» disse, tentando di
ricomporsi e allo stesso tempo di recuperare il suo buonumore.
«Ti
credo sulla parola,» mormorò lei, poggiando il
mento sulla sua
spalla.
Lui
si irrigidì appena di riflesso, ma quando lei fece per
ritrarsi la
trattenne sfiorandole la guancia con le dita, senza guardarla
direttamente e affondando invece lo sguardo nelle linee
d’inchiostro
davanti a lui. Due paure gli paralizzavano i pensieri, ma una era ben
più potente, ed era la stessa che l’aveva spinto
ad affrontare e
vincere quelle più piccole. L’aveva già
provata in Afghanistan:
era la paura di morire che lo spingeva a vivere con ogni mezzo
possibile, che fosse un’armatura per liberarsi o un bacio
rincorso
per anni. Si
rilassò con la testa poggiata contro la sua, respirando il
profumo
dei suoi capelli e desiderando inconsciamente che fossero sciolti,
invece che raccolti nel solito chignon.
«La
cosa più difficile è capire la sua
grafia,» continuò a voce più
bassa, a vincere il lieve imbarazzo di entrambi. «Sto andando
a
intuito.»
«È
uguale alla tua,» gli fece notare sottovoce lei, senza
traccia di
malizia e accostandosi di nuovo a lui, il naso affondato nella sua
spalla; Tony adesso avvertiva il suo respiro, e represse un brivido a
quel lieve calore che gli solleticava la pelle.
«Per
questo mi irrita,» sbuffò, con voce appena
contratta, prima di
sprofondare in un silenzio concentrato solo apparentemente sugli
appunti e intimamente su di lei.
Sorrise
appena, godendosi quel contatto così spontaneo che per una
volta non
gli provocò alcuna ansia. Sentì solo un altro
piccolo vuoto allo
stomaco, piacevole e discreto, ben diverso da quello angoscioso a cui
si era abituato. Il fatto che Pepper fosse a contatto con il suo lato
sano e che lui indossasse la benda erano un grosso aiuto e incentivo,
ma si
trovò a pensare, o forse a sperare, che a lei non avrebbe
comunque
fatto alcuna differenza.
La
guardò di sottecchi e la vide a sua volta tranquilla,
rilassata
contro il suo corpo e come lui in quieta attesa, adesso con la fronte
contro il suo collo e il respiro che continuava ad accarezzargli la
pelle. Lasciò scivolare la mano a cingerle i fianchi, in
una lieve
carezza che lei assecondò, portando a sua volta le dita a
sfiorargli
l’addome, facendovi poi aderire il palmo. Si scambiarono
un’occhiata fugace che diventò subito uno sguardo
prolungato,
consapevoli di non essere mai stati così vicini, o almeno
non in
quel
modo.
Quello era un preludio, un cercarsi esitante che prima o poi li
avrebbe inevitabilmente portati a trovarsi. Per ora trovò le
sue
labbra, dolci e schiuse contro le sue, un invito a rincorrerle con
impeto per fondersi con loro. Si scostò appena per poterla
guardare
un istante e lei fece lo stesso, entrambi rapiti, per poi perdersi
in un nuovo bacio più lento e delicato, metodico, come a
rivendicare
per loro quel tempo che sentivano di non avere.
S’interruppero
con un lieve sobbalzo nell’udire il sonoro scatto del
proiettore
che cambiava bobina, preparandosi a proiettare la seconda; Tony si
accigliò appena, con un sospiro un po’ seccato, ma
si rasserenò
nel vedere il sorriso di Pepper, messo ancor più in evidenza
dalle
guance leggermente arrossate.
«Elimino
il disturbo,» annunciò quindi scherzoso, con un
cenno verso
l’apparecchio molesto e una sicurezza che era ben
più instabile di
quanto ostentasse.
Stava
per fare leva sul bastone per alzarsi e colse Pepper che cercava di
anticiparlo per evitargli il tragitto, ma si paralizzò sul
posto nel
vedere il primo fotogramma della nuova pellicola, con la netta
impressione del proprio respiro che si congelava nel petto; il
quaderno cadde a terra con un tonfo.
Un
modellino del vecchio reattore arc spiccava in primo piano.
«Aspetta!»
fermò Pepper, che era riuscita a mettersi in piedi prima di
lui, e
si rese a malapena conto della nota stridula che si era insinuata
nella sua voce.
Lei
inchiodò sul posto, fissandolo allarmata e portando poi gli
occhi
alla proiezione. L’irritazione di Tony per quel momento
interrotto
fu soppiantata da un cardiopalma che sembrava volergli far uscire il
cuore dal petto assieme al cilindro del reattore, e si sentì
la
bocca secca nel veder emergere, appena dietro il modellino, la figura
di suo padre appoggiato al plastico della Expo.
«Ogni
cosa si può ottenere con la tecnologia,»
recitò, con la sua voce
resa più squillante dalla registrazione, e Tony riconobbe le
prime
parole del discorso per la Expo.
Fissò
i suoi occhi scuri impressi sula pellicola granulosa, con
l’impressione fasulla che ricambiassero il suo sguardo ora
imperfetto. Pepper tornò sui propri passi, sedendosi di
nuovo
accanto a lui, prendendolo discretamente sottobraccio. Tony era
così
frastornato da notarlo appena, ma le fu grato per volerlo aspettare,
ancora una volta, e per aver capito la potenziale importanza di quel
che stavano guardando, offrendogli al contempo il proprio supporto.
Il
filmato s’interruppe più volte, con suo padre che
s’ingarbugliava
nelle sue stesse parole o modificava il discorso sul momento, a volte
seccato, a volte con un fare spiritoso che gli ricordò suo
malgrado
il proprio. Si accigliò profondamente nel vederlo
sorseggiare un
bicchiere di liquore in una pausa, e trattenne una smorfia quando le
riprese si fecero più frammentarie, confermando il fatto che
quelli
fossero semplici dietro le quinte privi di alcuna logica o
utilità.
Puntò lo sguardo a terra, sulla copertina color sabbia del
quaderno
rivolto a faccia in giù, la mascella contratta come il suo
petto.
Percepì Pepper stringergli appena il braccio, quasi
invitandolo a
rialzare lo sguardo, ma non si mosse, sentendosi improvvisamente
troppo pesante per compiere qualsiasi gesto.
«Tony!»
sollevò d'istinto la testa, trasalendo appena, e
incontrò gli occhi
scuri e severi di suo padre nonostante lui gli desse le spalle.
«Che
cosa stai facendo?»
L’eco
di quelle parole sembrò propagarsi sulla superficie di una
laguna
onirica, sfiorata dalle ultime luci crepuscolari e tinta da riflessi
azzurrini.
«Che
cos’è quello? Rimettilo a posto!»
Tornò
presente a se stesso e si vide bambino, con in mano un pezzo del
plastico e un sorriso furbetto stampato in faccia che
suscitò il
cipiglio irritato di suo padre. Nel giro di pochi secondi, Jarvis
entrò nell'inquadratura e lo prese in braccio per
allontanarlo, suo
padre chiamò sua madre e senza rendersene conto lui, lo
stesso
bambino quasi trent'anni dopo, cercò alla cieca la mano di
Pepper e
la strinse, sentendosi sopraffare da quella breve serie di eventi,
immagini e suoni che offrivano uno spaccato doloroso della sua vita
di allora. Gli ci volle qualche istante per realizzare di aver usato
la destra. Abbassò lo sguardo sulle loro dita intrecciate,
pelle
contro metallo, e, invece di ritrarre le proprie come avrebbe voluto
fare con tutto se stesso, le strinse con tutta la delicatezza di cui
fu capace. Pepper lo imitò con più decisione,
quasi con forza, a
volerlo trattenere contro ogni sua paura. Tony le sorrise appena, ma
non incrociò il suo sguardo, puntandolo di nuovo sulla
parete, su
cui si susseguivano altri spezzoni tagliati del discorso, prove e
papere inaspettate di suo padre.
Lanciò
un’occhiata alla bobina: mancava forse un minuto e mezzo alla
fine.
Un sospiro gli morì sulle labbra, e desiderò solo
di poterle posare
di nuovo su quelle di Pepper. Stava per assecondare
quell’impulso,
quando si sentì chiamare una seconda volta da quella voce
distante
nel tempo:
«Tony.»
La
voce di suo padre era grave, seria, priva di quella traccia di
rimprovero o insoddisfazione che gli aveva sempre riservato.
Guardò
la proiezione e stavolta ebbe la certezza che stesse guardando lui, a
distanza di tutti quegli anni.
«Ora
sei troppo piccolo per capire, così ho pensato di lasciarti
questo
filmato.»
Strinse
di riflesso la mano di Pepper, senza distogliere l’occhio da
quello
che sembrava un fantasma riemerso dal suo passato.
«L’ho
costruita per te,» proferì, con un gesto verso il
plastico della
Città del Futuro. «E un giorno ti renderai conto
che rappresenta
molto più che una semplice invenzione. Rappresenta tutta la
mia
vita.»
Tony,
per la prima volta in tutti quegli anni, lo ascoltò.
Perché stava
parlando con lui, suo figlio, non con la proiezione ideale di chi
avrebbe voluto vedere in quelle vesti. Lo ascoltò
perché in quelle
parole riecheggiava l’eco di quelle che aveva pronunciato
riguardo
a lui, minate dal sospetto che non fossero vere, o che stesse
cercando di leggere più del dovuto in quello che in fin dei
conti
era stato solo un altro progetto.
«Questa
è la chiave
del futuro,» recitò con
decisione, mentre uno zoom
sull’Unisfera riempiva l’inquadratura, seguita
subito dopo da una
del vecchio reattore arc in scala. «Io sono limitato dalla
tecnologia dei miei tempi… ma un giorno tu risolverai questo
rompicapo. E quando lo farai, potrai cambiare il mondo.»
Pronunciò
quelle parole con la stessa, immutata fermezza con cui aveva iniziato
a parlare, e Tony avvertì un vuoto esattamente sotto il
reattore, il
principio un sentimento che gli era estraneo, o che almeno suo padre
non gli aveva mai suscitato da quando avesse memoria.
«Quella
che ora è, e resterà sempre la mia più
grande creazione… sei tu.»
Il
vuoto si allargò assieme all’accenno di sorriso
impacciato
che inclinò le
labbra di suo padre, e gli colmò il petto dandogli
l’impressione
di poter fluttuare a un palmo da terra.
Il
video si sgranò di colpo, e rimase solo il grigio
lampeggiante della
pellicola terminata, accompagnato dal sottofondo graffiante dello
statico. Tony
rimase immobile, quasi temendo che qualsiasi gesto avrebbe potuto far
scoppiare il palloncino d’elio che gli si era gonfiato nei
polmoni.
«Ok.
Anche questo era inaspettato,» mormorò infine,
senza sapere bene
come reagire a ciò che aveva appena sentito.
Pepper
non rispose, la mano ancora stretta tra la sua, probabilmente
altrettanto stupita e incerta sul da farsi.
«Non
l’ho immaginato, vero?» chiese in fretta,
più per riscuoterla che
per avviare una vera e propria conversazione su quanto successo.
«No,»
lo rassicurò lei, per poi corrugare appena le sopracciglia
quasi
mettesse in dubbio quella stessa affermazione.
«Ti
giuro che il gelato era a posto,» affermò poi,
nel debole
tentativo di mostrarsi perfettamente padrone di sé,
nonostante fosse
del tutto consapevole del velo che gli appannava l’occhio.
Pepper
sorrise con titubanza, senza rompere il contatto con lui, che
d’altronde si era quasi dimenticato di stringerle la mano con
quella meccanica. Non seppe se fosse un fatto positivo o meno, ma
forse non era il momento giusto per rifletterci.
«Sono…
confuso,» asserì dopo un po’,
controvoglia.
«Sì,
immaginavo,» alzò le spalle Pepper, in un invito a
continuare.
«Insomma,
ha sempre detto che ero irrecuperabile…»
quella parola rallentò le successive, troppo
pesante
da pronunciare. «Da dove… da dove salta fuori
questa roba?»
sbottò, con un secco cenno verso il proiettore.
Non
capiva neanche lui se fosse felice per aver ottenuto finalmente una
sorta di riconoscimento da parte di suo padre – forse anche
di
affetto, forse anche un “ti voglio bene” nascosto
tra termini
tecnici e perifrasi – o se infuriarsi per non averlo sentito
da lui
stesso quando era ancora in vita.
«Forse
era ubriaco. Non sarebbe una novità,»
sentenziò poi, brusco,
anticipando la replica probabilmente sensata di Pepper.
«Mi
sembrava perfettamente sobrio,» ribatté lei, con
dolcezza.
Tony
si abbandonò a un lungo sospiro, stringendosi la radice del
naso tra
le dita.
«Anche
a me,» ammise, di nuovo con riluttanza.
Tamburellò
brevemente sul reattore, senza riuscire a trattenersi, nonostante di
solito la presenza di Pepper lo frenasse nel timore di rievocare
ricordi spiacevoli. Se
fino a cinque minuti prima si era sentito libero, adesso si sentiva
quasi un cappio al collo che lo obbligava a guardarsi alle spalle,
verso qualcosa che era convinto di aver chiuso definitivamente
proprio quella mattina.
«Pep,
ti dispiace se… se…»
s’interruppe, gesticolando nervoso e
sentendosi in colpa a doverle chiedere ancora tempo, perché
di tempo
non ne aveva e gli sembrava che qualcuno si divertisse anche a
sottrarglielo.
Lei
sospirò, intuendo il seguito e sembrando quasi offesa, con
preoccupazione di Tony.
«Tony,
è normale
che tu voglia avere un po’ di tempo per…
metabolizzare il tutto,»
asserì con suo sollievo, accennando vaga al proiettore.
«Vuoi stare da solo?» chiese poi, e Tony si accorse
che
ancora, per
tutto quel tempo, la sua mano aveva continuato a stringere la
protesi.
«No,»
rispose subito, con fermezza, e prima di continuare cercò i
suoi
occhi.
Di
nuovo, una di quelle parole che non pronunciava mai al momento giusto
gli era rimasta incastrata in gola, lottando per rimanere inespressa.
«Rimani,»
mormorò poi, vincendo la tentazione di rimanere in silenzio.
Non
ebbe bisogno di aggiungere altro, perché gli fu chiaro dagli
occhi
ora radiosi di Pepper che lei aveva capito tutto ciò che non
aveva
detto ad alta voce. Come sempre.
Si districò con delicatezza
dalla
sua stretta, chinandosi per recuperare il quaderno caduto, giusto per
avere qualcosa da guardare mentre rimuginava tra sé. Si
lasciò
sprofondare nello schienale del divano e Pepper fece lo stesso,
leggermente più distante di prima – e se da una
parte avrebbe
voluto averla più vicina, dall’altra si rendeva
conto di aver
bisogno dei suoi spazi.
Sfogliò
con un misto di forzato distacco e istintiva curiosità il
quaderno,
cercando di dare un senso al tornado in corso nella sua testa.
Leggeva distrattamente, concentrato più sulla grafia, sul
modo di
scrivere e organizzare le idee, piuttosto che sul significato delle
parole e delle formule. Il messaggio di suo padre gli rimbombava in
testa, quasi avesse il suo personale proiettore a riprodurlo in loop.
Cosa
gli aveva appena voluto dire? Parlava di chiavi per il futuro, ma non
gliene aveva lasciata neanche una, se non quella arrugginita dello
studiolo.
“La
sua più grande creazione...”
Emise
un sospiro scettico e girò quasi con rabbia una pagina,
rischiando
di strapparla. Si soffermò sul disegno ben curato di un
tesseratto,
affiancato da formule sconosciute. Aggrottò le sopracciglia
e voltò
pagina, trovando quelle della fusione a freddo accanto a uno schema
semplificato di un reattore. Tornò alla pagina precedente,
schiudendo appena la bocca in un moto di sconcerto, per poi
raddrizzarsi di scatto, poggiando i gomiti sulle ginocchia e facendo
sobbalzare Pepper. Lo chiamò, ma la sua voce gli giunse
ovattata e
la stanza stessa sembrò perdere i propri contorni.
Si
ripensò sul palco della Expo, mentre fissava
l’Unisfera, un enorme
sole illuminato d’azzurro, cuore della fiera e simbolo del
futuro
che suo padre aveva agognato senza poter mai raggiungere. Rivide il
plastico della Città del Futuro davanti ai suoi occhi,
nitido in
ogni suo dettaglio. Preciso in ogni suo edificio, parco, sentiero, in
ogni albero piantato con studiata intenzionalità.
“Come
il progetto...”
Il
suo sguardo corse allo schema del reattore arc e la sua mano a
stringere quello infisso nel suo petto, mentre il respiro gli si
fermava in gola.
“...
di un altro
progetto.”
Click.
_____________________________________________________________________________________________
Note Dell'Autrice:
Ma buonasera!
Non avete idea da quanto io aspettassi di scrivere questo capitolo, davvero :')
Ma bando alle ciance: ho fatto un minestrone di full&angst che peggio di così non si poteva, ma spero abbiate gradito, e spero anche che non siate delusi dall'introduzione del filmato di IM2. In realtà era previsto sin dalle origini della storia e, come molte altre "tappe" fissate nell'alba dei tempi con la mia collega MoonRay, ho voluto mantenerla, in quanto mi sembrava fuori luogo scadere in tecnicismi a questo punto della storia. Ho preferito per una soluzione magari banale, ma diritta al punto che mi permettesse di concentrarmi su Tony. E comunque, ne vedremo delle belle...
Ringrazio tantissimo _Atlas_. T612, Emyclarinet e 50ShadesOfLOTSAlways per aver recensito, e tutti coloro che hanno recentemente inserito la storia tra le preferite/ricordate/seguite <3
Grazie di cuore <3
Spero di riuscire ad aggiornare presto... anche se considerando gli avvenimenti del prossimo capitolo infarterò probabilmente durante la stesura... spero di sorprendervi :')
E a proposito di infarti... -3, sappiatelo.
Un caro saluto e a presto,
-Light-
P.S. Il finale è una ripresa diretta del Capitolo 2: In Dream, come spero abbiate notato ;)
P.P.S. @Atlas: hai visto che cicisbei, quei due? :'D
|
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Capitolo 50 *** Stand by me ***
49
Stand
by me
"When
the night has come,
and the land is dark
And the moon is the only light
we'll see
No, I won't be afraid, oh, I
won't be afraid
Just as long as you stand,
stand by me
So darling, darling, stand by
me"
[Stand
By Me – Ben E. King]
"I'm
dancing in the dark with you between my arms
Barefoot on the
grass, listening to our favorite song
When you said you looked a
mess, I whispered underneath my breath
But you heard it, darling,
you look perfect tonight"
[Perfect
– Ed Sheeran]
13
Maggio, Villa Stark, 19:30
Suo
padre aveva inglobato il suo mondo da quando aveva memoria.
Era una
cupola opprimente, alle volte, altre invece sembrava dargli uno
sprone a romperla per arrivare più in alto. La maggior parte
del
tempo la percepiva come fredda, o meglio, di una temperatura
indefinibile: né gradevole né spiacevole, di
quelle giornate di
mezza stagione in cui non si sa se uscire a maniche corte o col
giacchetto e non fa poi molta differenza – indifferente.
Era indifferente, e questo Tony l’aveva sempre intuito con
chiarezza scientifica, con la stessa linearità con cui
scriveva il
risultato di un’equazione o recitava a memoria un teorema
comprovato. L’ indifferenza era una costante della sua vita
come
tante altre, come sua madre che suonava il pianoforte quando sapeva
che c’era solo lui ad ascoltarla, come Jarvis che ignorava le
sue
lamentele e spalancava le finestre della sua camera la domenica
mattina per fare le pulizie, come Rhodey che riusciva sempre a
convincerlo a uscire ogni sabato sera, o che si lasciava convincere
da lui a rimanere a casa – sbronzandosi in ogni caso, ed era
per
quello che il giorno dopo imprecava contro Jarvis e le sue pulizie
alle nove di mattina.
Suo
padre, però, non era mai stato davvero costante. A dispetto
dei suoi
completi tutti uguali e del volto impassibile, non era lineare. Anche
quello, l’aveva sempre saputo.
C’erano quelle
variabili
inaspettate che lo trasformavano in un’altra persona
– i loro
libri commentati di Verne, la foto ricordo con DUM-E, i buffetti
sulla nuca che gli rifilava di tanto in tanto e che non capiva mai se
fossero di rimprovero o di apprezzamento, ma che accettava con un
sorriso incerto, forse speranzoso. Istantanee frettolose, rare e
sbiadite nella sua memoria, ma che esistevano appaiate ai suoi aspri
richiami, agli sguardi delusi, alla percepibile assenza e ai suoi
motti impersonali che, chissà come, riuscivano sempre ad
aprire
ferite sensibili e a plasmare il mondo attorno a lui.
Il tutto in quella cornice di odiosa, protratta
indifferenza – fino all’ultimo, fino ad
attaccargliela addosso
inducendolo a salutare i suoi genitori in una sera di dicembre senza
neanche guardarli, con un distratto scrollare di dita sopra la spalla
e i pensieri già rivolti al toga-party imminente.
Quel
giorno di quasi vent’anni dopo scopriva l’ennesima
variabile –
o forse più d’una – perché
era impensabile che Howard Anthony
Stark girasse un filmato per suo figlio, ed era anche impensabile che
avesse conservato così tanto di quello che lui chiamava ciarpame
– foto, album, souvenir, ricordi, frammenti di vita
– e ancor di
più che l’avesse tenuto sottochiave nel suo
ufficio allo SHIELD.
Tony
voleva convincersi che fosse quello, il motivo per cui gli stava
schizzando via il cuore dal petto mentre si precipitava nello studio;
quello e solo quello, e forse anche l’affanno causato delle
falcate
troppo precipitose per il suo corpo indebolito. Si concentrava a
tunnel su quei due motivi, perché anche solo sfiorare
l’idea di
avere tra le mani uno straccio di soluzione per salvarsi avrebbe
rischiato di farlo impazzire per il sollievo. E a quel punto il cuore
avrebbe finito per scoppiargli come un palloncino sotto pressione,
come prima con Pepper e – no,
non era davvero il caso.
Così
diresse i suoi passi e i suoi pensieri in linea retta e metodica
verso lo studio e verso la lampadina azzurra che gli stava
illuminando a giorno il cervello, consapevole che Pepper lo stesse
chiamando e seguendo allarmata, ma col timore che se avesse aperto
bocca per
risponderle ne sarebbero usciti solo suoni incomprensibili. Si
catapultò all’interno della stanzetta col cuore
che, dopo aver
fatto un giretto nello stomaco e avergli poi ostruito la gola, adesso
gli martellava assordante tra le orecchie. Scostò con forza
il telo
che copriva il plastico della Città del Futuro, prendendo a
fissarlo
a corto di fiato, con la pupilla che seguiva frenetica le linee delle
strutture e degli edifici, donandogli nuovo senso e congiungendole
tra loro con una logica nascosta che, maledizione,
era sempre stata esattamente
davanti
a lui.
«Tony!»
La
voce di Pepper gli squillò proprio vicino
all’orecchio, e si rese
conto solo allora della sua mano poggiata sulla sua spalla sana, da
chissà quanto. Sobbalzò con lieve ritardo,
voltandosi a
guardarla e consapevole di sembrare del tutto fuori di testa
– non
che fosse una novità.
«Pepper!»
replicò d’istinto, voltandosi, e come volevasi
dimostrare la sua
voce risuonò più stridula del dovuto.
Non
vi fece caso, concentrandosi piuttosto sugli occhi preoccupati della
donna, ma tinti anche di un pizzico di titubante aspettativa.
Scollò
la lingua dal palato, obbligandola ad articolare parole di senso
compiuto, anche se sentiva i pensieri sfrecciare al triplo della
velocità a cui era in grado di tramutarli in suoni:
«Prima
di tutto: no, non sono impazzito. Almeno non credo e comunque non del
tutto,» la anticipò, coi palmi
alzati,
concedendosi il beneficio
del dubbio e faticando a concentrarsi su ciò che stava
dicendo,
oltre che a reprimere l’impulso di girarsi di nuovo a
guardare il
plastico nel timore che svanisse in uno sbuffo di fumo.
Pepper
interruppe la prima frase prima di iniziarla, la mano ancora poggiata
sopra la sua spalla e le sopracciglia involontariamente corrugate in
un moto di perplessità, ad oscurarle appena gli occhi
limpidi.
«Che
succede?» chiese invece, assottigliando le labbra e
mordendosele
appena con nervosismo.
Stavolta Tony dovette frenare
l’imprevisto
impulso di baciarle, il che gli fece chiedere se non stesse per avere
un breakdown completo. Tutta
quella situazione in verità gli era familiare, ed era un
pensiero
intrinsecamente rassicurante, perché l’ultima
volta che si era
sentito così scollegato dalla realtà aveva
davvero trovato la
soluzione per ricostruirsi una vita. Adesso, forse, avrebbe potuto
salvarla, ma voleva astenersi dal formulare del tutto quel pensiero.
«Non…
non sono sicuro,» esordì quindi, senza scostarsi
dalla sua presa,
perché aveva l’impressione che fosse
l’unica cosa a tenerlo
ancorato a terra.
Le
pieghe confuse sul volto di Pepper si approfondirono, ma non
intervenne.
«Io
credo– penso di… di–» prese
fiato, ossigenando il cervello a
corto di carburante. «Ho un’idea,»
buttò fuori infine,
semplificando il tutto nel concetto più basilare che la sua
bocca
fosse in grado di esprimere.
Vide
gli occhi di Pepper illuminarsi per un istante fugace, in uno sprazzo
di speranza che non fu in grado di mascherare. Sentì la sua
mano
stringergli nervosamente la stoffa della maglietta, come se anche lei
avesse bisogno di ancorarsi da qualche parte.
«Un’idea
per…» esitò e lo sguardo di Pepper
sfiorò il reattore nel suo
petto.
Tony,
che in un’altra situazione avrebbe odiato quel gesto,
annuì invece
quasi con entusiasmo, portando poi la mano a stringere il polso di
Pepper per rafforzare quella conferma.
«Per
questo, sì,» disse, premendo il palmo metallico
sul congegno. «E
non so… non so se è giusta, o cosa
sia esattamente, non so neanche se sarà– possibile,
in termini tecnici,» tartagliò, bloccandosi su
quelle parole quasi
fossero di per sé ostacoli fisici.
«Papà pensava…»
s’interruppe
nel realizzare come lo aveva chiamato, poi scrollò la testa
e
continuò. «Pensava che io potessi portare a
termine il suo
progetto, coi miei mezzi,» proseguì,
più misurato nonostante il
suo cuore non accennasse a rallentare, deciso a infrangere ogni
record di tachicardia. «Il progetto è
là dentro,» continuò,
scostandosi un poco e indicando il plastico dietro di loro.
«E io…
io so
cosa
fare,» disse ancora, e sentì la propria voce
rompersi in un
sorriso, che trovò un tenue, incerto riflesso sul volto di
Pepper.
Tony
si soffermò ad osservarla, a catturare con lo sguardo quelle
fossette apparse sulle sue guance, il lieve rossore che le oscurava
le efelidi, le iridi chiare e lucide, schermate dalle ciglia lunghe e
da qualche capello ramato, la linea incurvata delle sue labbra fini.
Si perse per un istante in quei dettagli come se li vedesse per la
prima volta, e forse Pepper stava facendo lo stesso, perché
si sentì
quasi accarezzare dal suo sguardo, finché non si
scostò un poco da
lui, con un brillio vivo negli occhi.
«Allora,
da dove cominciamo?» ruppe il silenzio, con voce
inaspettatamente
ferma, e Tony si riscosse, coi battiti del cuore più
rallentati e il
respiro di nuovo leggero.
Poi
comprese quello che aveva detto e batté la palpebra,
scostandosi un
poco e inarcando poi un sopracciglio.
«Noi?»
chiese conferma, picchiettando a terra col bastone a esternare la sua
perplessità.
Pepper
incrociò le braccia sottili, raddrizzando la schiena e
sfoggiando
un’espressione caparbia, col mento alzato come in una sfida
già
accettata.
«L’ultima
volta che hai avuto un’idea di questa portata, hai trovato
una
soluzione,» dichiarò con fermezza, facendo
seriamente interrogare
Tony sulle sue doti telepatiche. «E io ero lì. Ed
ero lì anche
quando sei tornato dall’Afghanistan, quando sei diventato
Iron Man,
quando hai perso tutto, quando hai iniziato a ricostruire la tua vita
e quando l’hai quasi distrutta,»
tentennò per un istante,
riprendendo il controllo della sua voce adesso friabile, e Tony
abbassò fugacemente lo sguardo. «Ero lì
quando sei tornato da me
sulle tue gambe, e quando hai deciso di non voler affrontare tutto
questo da solo, e alla Expo, e per il Progetto Phoenix, e per tutto
il resto, per dieci anni,» continuò,
accalorandosi, e i suoi occhi
si fecero più liquidi, in contrasto con la sua voce ferma
anche se
venata dall’emozione. «E voglio esserci anche
adesso,»
concluse,
con un sorriso sottile ma sicuro di sé, irremovibile in quel
proposito.
Tony
inclinò il capo, preso alla sprovvista, poi
sbuffò una mezza
risata, sentendosi di nuovo scaldare da quel calore improvviso e
incontrollabile, e seppe che qualunque tentativo di mostrarsi
disinvolto sarebbe stato vanificato dal modo in cui la stava
guardando, fin troppo intenso, come se quelle parole avessero
alimentato un piccolo fuoco dentro di sé.
«Come
se fossi mai riuscito a farle cambiare idea su qualcosa, signorina
Potts,» osservò Tony con un sorrisetto,
suscitandole
un lampo
compiaciuto sul volto.
«Potrei
dire lo stesso di lei, signor Stark,» ribatté
prontamente.
Tony
alzò le spalle, cedendole quel punto, per poi schiarirsi
la voce
e fare un gesto deciso verso il plastico dietro di sé.
«Cominciamo
da quello.»
***
13
Maggio, Villa Stark, 23:00
Il
laboratorio si era fatto silenzioso da un paio d’ore, ovvero
da
quando Pepper si era inavvertitamente seduta sul divano per
“fare
una breve pausa”: si era bellamente addormentata nel giro di
cinque
minuti mentre lui aveva continuato ad esporre ad alta voce i suoi
ragionamenti e deduzioni al vuoto, trafficando al contempo con gli
ologrammi
di JARVIS. Progettava di fingersi eternamente offeso per quella
piccola mancanza non appena si fosse svegliata… ma per ora
non
poteva fare a meno di sorridere appena ogni volta che rivolgeva lo
sguardo verso di lei, trovandola placidamente ad occhi chiusi,
raggomitolata sotto la coperta che le aveva adagiato sulle spalle.
Aveva l’insistente tentazione di raggiungerla e coricarsi
discretamente accanto a lei, cedendo anche lui al sonno, ma non
poteva concedersi distrazioni, e non era sicuro che in quel frangente
fosse in grado di gestire una vicinanza del genere senza incorrere in
qualche errore stupido e avventato.
Riportò
lo sguardo al progetto virtuale a cui stava lavorando al momento. O
meglio, alle cinque schermate che tentava di guardare
contemporaneamente con un occhio solo, sfidando anche il suo allenato
multitasking: un rendering dettagliato della Expo del ’74
sovraimpresso a una struttura atomica, l’abbozzo di un
progetto per
un acceleratore di particelle in formato casalingo, il modello di un
reattore arc modificato, e un grafico che metteva a confronto le onde
elettromagnetiche dei micro-reattori con quelle per ora solo
teorizzate del nuovo elemento.
Aveva
di nuovo quasi infartato per la gioia quando aveva avuto la conferma
che il plastico della Expo era fisicamente
la chiave per il futuro, mettendogli di conseguenza tra le mani un
elemento fino ad allora sconosciuto, ma si era subito dovuto
scontrare con la difficoltà di ricostruirlo in modo coerente
e,
soprattutto, del problema della sua sintetizzazione. Oltre a tutti
quelli che si sarebbero presentati in seguito, a cui cercava di non
pensare troppo intensamente, continuando a ripetersi il suo mantra di
“un passo alla volta”.
In
effetti i passi avanti erano stati notevoli, anche se frammentari,
visto che lui era troppo su di giri per pensare in modo lineare o
efficiente. Era caduto più volte in errori da principianti e
sviste
che avevano mandato in fumo ore di ragionamenti. Il plastico era
ovviamente solo una traccia, lo scheletro semplificato di un progetto
molto più complesso che doveva integrare con le proprie
conoscenze.
Certo,
nel momento in cui aveva ricostruito la struttura atomica di quel
nuovo elemento si era sentito come Galileo che scopriva
l’eliocentrismo. Ed era stato immensamente felice di avere
Pepper
accanto a sé, visto che così aveva avuto una
validissima scusa per
stringerla in un abbraccio improvviso e commosso che forse si sarebbe
meritato anche qualcun altro, ormai perduto nel passato.
Poi
erano subentrate le difficoltà tecniche, e
dall’euforia iniziale
era scivolato nell’atteggiamento intento e concentrato che
sapeva
essere odioso per chi lo circondava, e che lo spingeva a passare da
lunghissime dissertazioni scientifiche condite da commenti sagaci a
interi minuti di mutismo assoluto, perso nei suoi calcoli spesso
frenetici ed errati.
Pepper era stata un conforto indispensabile per
tenere a bada il carosello di emozioni e idee che gli roteava in
testa, rendendolo estremamente volatile, ed era intervenuta
puntualmente quando era stato sul punto di perdere la calma o la
pazienza. Dal suo punto di vista assolutamente estraneo a quel mondo
di formule, progetti ed elucubrazioni, aveva buttato lì un
paio di
consigli estremamente umani e sensati, riferiti più al modo
in cui
lui tendeva ad osservare quello stesso mondo, che a
quest’ultimo.
Dei semplici cambi di prospettiva che gli avevano fatto aggirare
almeno alcuni dei molti scogli che gli sbarravano la rotta. Per
esempio, il non fissarsi sulle interferenze tra reattori con nucleo
diverso prima di averne un prototipo funzionante davanti, e il
sottolineare, con perfetto tempismo di fronte a un suo imminente
crollo, che Mendeleev non aveva costruito la tavola periodica in un
giorno, né Einstein aveva formulato la teoria della
relatività in
una settimana. Il tutto rimanendogli accanto, sveglia e attenta
nonostante il sonno e la preoccupazione, da lui condivisa, di stare
alimentando una speranza vana.
Tony
sospirò, scacciando quei pensieri confusionari, e si impose
di non
divagare ulteriormente almeno per la successiva mezz’ora.
Afferrò
il nucleo azzurrino dell’Unisfera proiettato a
mezz’aria,
ingrandendo l’atomo e la sua struttura per tentare di colmare
le
falle e imperfezioni della stessa, di pari passo con il progetto
dell’apposito acceleratore di particelle. Il suo cervello
affaticato riprese a lavorare a pieno ritmo, estraniandolo dal mondo
attorno a lui mentre borbottava a mezza voce con JARVIS, avendo cura
di non svegliare Pepper coi suoi traffici.
Si
concesse un sospiro soddisfatto quando infine ultimò la
struttura
atomica dello… s’interruppe, a corto di un nome,
mancanza a cui
decise di rimediare in un momento meno frenetico. Diede una
schicchera al nucleo, e l’atomo si allargò attorno
a lui, in una
cupola di elettroni che lo avvolse completamente nella sua
rassicurante luce azzurrina, come a proteggerlo. Si trovò a
sorridere pienamente, col pensiero rivolto al contempo al futuro e al
passato, in un doppio anelito che gli fece singhiozzare piacevolmente
il cuore. Ricompattò l’atomo nel palmo della mano,
come a
custodirlo, e gli parve quasi di avvertirne il calore sia sulla pelle
che sul metallo. Il suo sorriso si affievolì un poco nel
lasciar
scorrere lo sguardo sulla protesi, venendo poi calamitato dalla
sagoma dormiente di Pepper.
Lasciò disgregare quella particella luminosa, e prese
a passare distrattamente un dito sulle linee di giunzione del
rivestimento della protesi. Seguì il contorno dei vari
componenti, riconoscendoli a colpo sicuro coi polpastrelli anche senza
guardare, nonostante la mancanza di tatto sul braccio. Si distolse
dalla chioma ramata di Pepper per concentrarsi sulla placcatura
antracite, accarezzandola con lo sguardo e muovendo appena le dita
della mano meccanica; come sempre vi fu un lieve ritardo nella
risposta, e il movimento fu spigoloso, robotico. Fissò con
intensità
il nuovo atomo che si era ricomposto a un palmo dal suo volto,
chiedendosi se
non avrebbe risolto anche quell’imperfezione secondaria,
oltre a
donargli un nuovo cuore che non rischiasse di ucciderlo.
Poggiò
i gomiti sulle ginocchia e giunse i palmi davanti a sé,
sentendo la
pelle aderire perfettamente alla superficie fredda. Avere due arti
meccanici era diventato in un certo senso quasi naturale, e aveva
iniziato già da tempo a non fare più caso al
sibilo delle giunture
meccaniche quando si muoveva e al rumore metallico che producevano le
sue dita contro gli oggetti. A volte aveva persino l'impressione di
poter percepire qualcosa; sapeva che erano solo fugaci strascichi
della sindrome dell'arto fantasma, ma assaporava quegli attimi con
irrazionale esultanza, tornando col pensiero al tempo irreale in cui
progettava di riacquistare il tatto e aveva addirittura avuto un
braccio tiepido e non gelido come adesso.
Avrebbe
solo dovuto essere grato di poterle avere, di poter camminare e
muoversi quasi normalmente anche con le fitte sempre più
frequenti
che lo debilitavano. Avrebbe dovuto essere grato, e lo era, quando
era solo. Ma bastava uno sguardo estraneo a fargli desiderare di non
avere affatto quei surrogati meccanici, o di poterli rendere
invisibili. In quei casi la percezione delle protesi non era fisica;
gli sembrava di sentirle incunearsi nella propria mente, mettendo a
nudo anche tutto ciò che di sbagliato si celava sotto la sua
superficie.
Riportò
lo sguardo a Pepper, accigliandosi. Prima o poi anche lei avrebbe
dovuto vedere la sua imperfezione; un formicolio di aspettativa gli
solleticò il basso ventre solo al pensiero, offuscato poi
dalla
consapevolezza di quanto fosse terrorizzato dal mostrarsi in quello
stato ai suoi occhi, e di quanto allo stesso tempo volesse farlo.
Sapeva, nel profondo, che quello era l’unico modo per
scacciare i
demoni, assieme a quella vocina beffarda e derisoria che sembrava
amplificarsi e sghignazzare ogni volta che incrociava il proprio
sguardo in uno specchio, nudo o meno che fosse.
Le
protesi erano funzionali ma sgraziate, e i punti di giunzione
spiccavano ancora rossi sulla sua pelle, assieme alle cicatrici ormai
bianche che lo segnavano dall'Afghanistan. E il palladio. Come poteva
mostrarsi agli occhi di Pepper – di chiunque
– con
quel mostro
avviluppato sul petto, che sembrava mettere ancor più in
evidenza la
sua debolezza? Portò le dita alle costole, trovandole in
malsano
rilievo sotto la maglietta che indossava, e gli sembrarono troppo
fragili anche solo per contenere il battito affaticato del proprio
cuore. Non era ancora scheletrico – lo sarebbe di sicuro
diventato, se fosse vissuto abbastanza – ma la sua magrezza
era evidente, innegabile,
e
stentava a riconoscersi nelle copertine patinate di Playboy per cui
aveva posato in quella che sembrava un’altra vita. Ora si
sentiva
difettoso come un soldatino di stagno scartato, con anche la stessa
determinazione nel non lasciar trasparire quella sua
fragilità
intrinseca, standosene impettito sulla sua unica gamba.
Prese
un respiro profondo, ripensando con forza a tutte le volte che Pepper
l’aveva stretto a sé, del tutto incurante di come
apparisse, e
avvicinandosi anzi ogni giorno di più con carezze
più lunghe e
sguardi più intensi. Come poco prima, quando erano stati
entrambi
sul punto di sconfinare in un territorio inesplorato e agognato da
più tempo di quanto riuscisse a quantificare.
Prese
un altro respiro profondo, sapendo di dover scacciare quelle
elucubrazioni, nella consapevolezza che fossero fantasticherie da
tenere a bada finché sarebbe stato bloccato in quel limbo di
incertezza con quell’unica luce azzurrina a brillare
all’orizzonte,
troppo lontana per rappresentare una salvezza. Saperlo era un conto,
metterlo in pratica tutt’altro, ed era altrettanto
consapevole –
con un misto di paura e aspettativa – che la determinazione
di
entrambi in quel senso si stava allentando sempre più, senza
che
nessuno dei due volesse davvero frenarsi. Anzi, ormai premevano assieme
contro quel limite, logorati dall'attesa e sempre più
incuranti di cosa li aspettasse al di là.
Si
passò le mani tra i capelli, arruffandoli nervoso, come a
ripristinare i fili sfrangiati dei propri pensieri erratici. Era
stanco, esausto, e si sentiva come se non avesse dormito per un
milione di anni; il che, sommato al senso d’indolenzimento
costante
che gli attanagliava i muscoli, gli faceva desiderare unicamente di
collassare a faccia in giù sul materasso dormendo fino al
mattino
dopo – altro che notti movimentate con Pepper.
Scrollò la testa a
quel pensiero che lo disorientava, e si concentrò invece
sulle
schermate attorno a lui. Mancava così poco…
sperava. Lo sperava
con così tanta intensità che probabilmente stava
consumando gran
parte delle sue energie in quel semplice atto, bruciando neuroni in
mute preghiere rivolte a niente e nessuno.
Si
costrinse a tenere aperta la palpebra, e oltre il velo di stanchezza
e febbrile impazienza si sforzò di leggere le formule
azzurrine
proiettate da JARVIS, in cerca di errori e possibili modifiche. La
teoria era più o meno collaudata, adesso doveva passare alla
pratica. Sapeva come costruire un acceleratore di
particelle… ma
avrebbe funzionato? Avrebbe sintetizzato il nuovo elemento o
rischiava di far saltare in aria la villa? E se ci fosse riuscito, lo
avrebbe davvero salvato, oppure l’avrebbe solo ucciso
più in
fretta? E
se non fosse stato compatibile con le protesi? Magari gli avrebbe
salvato la vita, ma cosa ne avrebbe fatto, se le avesse rese
inutilizzabili riportandolo al punto di partenza? Le odiava
abbastanza da non volerle vedere, ma non così tanto da
potervi
rinunciare, e quella dei malfunzionamenti era una deriva che non
voleva prendere in considerazione. Perché allora avrebbe
dovuto
operarsi di nuovo per sostituire i vecchi micro-reattori, e quella
consapevolezza latente lo sprofondava in una terrorizzata
prostrazione. Ne aveva abbastanza di farsi aprire e ricucire e di
porre la propria vita sul filo di un bisturi, fosse anche quello
fidato di Ian.
Si
prese le tempie tra pollice e indice, massaggiandole appena per
alleviare un principio di emicrania, e sospirò cercando di
smuovere
quel peso sul petto che si era fatto più pesante nel corso
delle
ultime ore. Quello tremò, ma rimase piantato
dov’era.
Non
aveva altre possibilità. Quella era l’ultima, l’ultima,
e proprio adesso che era così vicina sentiva crescere una
paura
martellante che rallentava i suoi gesti, che gli pulsava nello
stomaco come un’ulcera dolorosa. Non voleva illudersi
così tanto
per un altro nulla di fatto. Per un’altra notte insonne
passata a
rovinarsi la vista sugli schermi e a farsi venire i crampi a forza di
stare chino sul bancone per poi rimanere a mani vuote, frustrato,
deluso, con un altro giorno in meno davanti e buttato al vento. Con
la consapevolezza che ciò che doveva accadere in caso di
sconfitta
sarebbe accaduto davanti a Pepper, perché lei sarebbe
rimasta. E
forse sarebbe rimasta anche dopo,
e quel pensiero gli raschiava l’anima, facendola sanguinare
dall'interno.
Sentì
con chiarezza l’attacco di panico che bussava alla porta,
attirato
da quelle riflessioni concentriche, come onde attorno a un macigno
appena affondato. Poteva ancora sbarrarla e respingerlo, fare un
lento respiro e tornare a riempirsi la mente con calcoli e schemi a
fargli da scudo. Sentì poi la folle tentazione di
spalancarla, di
aprire almeno uno spiraglio, ma la soppresse appena in tempo,
premendosi con forza il palmo metallico contro la bocca per tenere a
bada un singulto. Serrò quella porta alla quale era fin
troppo
facile cedere e trasse un respiro profondo e tremolante, che
aleggiò
troppo sonoro nel laboratorio.
Udì
un fruscio provenire dal divanetto su cui si era assopita Pepper, e
si affrettò a sfregarsi l’occhio lucido e a
rilassare il volto
mascherando gli strascichi d’ansia che lo segnavano, anche se
gli
tremavano appena le mani. Lei l’avrebbe comunque letto come
un
libro aperto, ma valeva sempre la pena tentare. Riprese ad armeggiare
coi suoi ologrammi, mentre la sentiva alzarsi barcollante e
avvicinarsi alla sua postazione, attraversando la penombra
luminescente del laboratorio, silenziosa. Ebbe un improvviso,
terribile senso di déjà-vu
che gli strizzò le viscere.
«Come
va?» gli chiese, con voce un po’ appesantita dal
sonno ma
tranquilla, segnata unicamente da una tenue curiosità.
«Uh,
va,»
rispose vago lui, in modo più roco e traballante di quanto
avesse
previsto.
Si
schiarì la gola, sentendola contratta, e non ebbe bisogno di
guardare Pepper per vedere il suo cipiglio sospettoso. Non disse
nulla, ma la sentì fermarsi dietro la sua sedia, posandogli
poi una
mano delicata sulla spalla sana. Una decina di pensieri contrastanti
si agitarono nella sua testa, con una parte sollevata per il fatto
che non avesse toccato la protesi, un’altra che avrebbe
voluto lo
facesse, un’altra ancora che gli urlava quanto lei ne fosse
disgustata e le altre che strepitavano altre variazioni degli stessi,
logoranti concetti. Emise d’istinto un sospiro snervato e
avvertì
Pepper stringere la presa, per poi spostare il palmo sulla zona di
pelle lasciata scoperta dal colletto, facendogli percepire il suo
calore. Tony le fu grato: quelle piccole accortezze gli davano
ossigeno, mettendo a tacere i demoni.
Si
rilassò in modo impercettibile, reclinando la nuca contro lo
schienale con la palpebra socchiusa, godendosi semplicemente quel
contatto come se qualcuno gli avesse riattaccato la spina per
permettergli di ricaricarsi. Si accorse di essersi quasi assopito
solo quando lei lo riscosse appena, con una particella
d’allarme
nella voce.
«Tony?»
Lui
realizzò in un lampo colpevole la situazione, e colse
l’ombra di
preoccupazione appena trattenuta sul volto di Pepper, che lo fece
pentire in parte di averla fatta scendere di nuovo in laboratorio,
anche se l’aveva voluto lei.
«Sì,
sì, ci sono,» disse in fretta, scattando in avanti
e sottraendosi
involontariamente al suo tocco. «Più o
meno,» aggiunse poi,
stropicciandosi l’occhio.
Un
breve silenzio li avvolse. Tony sentì le parole successive
aleggiare
nell’aria, anche se Pepper non le pronunciò, come
se temesse di
recitare un brutto copione già scritto e recitato un anno
prima.
Poteva percepirla in piedi dietro a lui, in attesa, forse anche lei
bloccata da quella stessa consapevolezza.
«Dovrei
dormire, lo so,» sbottò infine Tony, un
po’ troppo duramente,
chiedendosi se non avesse appena innescato un qualcosa di
irreparabile.
Non
voltò la sedia verso di lei, né lei la
aggirò per guardarlo in
faccia.
«E
hai intenzione di farlo?» gli chiese, in modo talmente
sibillino che
Tony non fu certo se fosse un rimprovero, una provocazione o una
semplice domanda speranzosa.
Si
chinò in avanti con i gomiti sulle ginocchia, sentendosi
schiacciare
dal sonno, dalla paura, dalla rabbia, da quella sensazione di
minaccia incombente che lo fiaccava nel profondo, cosciente che
finiva sempre per commettere gli stessi errori. Durò un
istante, in
cui si sentì come se avesse addosso un’armatura
rotta e pesante
che rallentava i suoi movimenti. Poi si riscosse, immettendo a forza
una boccata d’aria nei polmoni, e la morsa d’ansia
lasciò un
poco la presa, lasciando posto a una stretta
diversa, mossa da altri fili a cui finora aveva impedito di prendere
il controllo.
Si
alzò in piedi. Un po’ instabile, certo, ma si
alzò in piedi,
perché adesso poteva
farlo. Si voltò verso Pepper, coprendo la distanza tra loro
prima di
poter esitare. La strinse in un lieve abbraccio senza incrociare il suo
sguardo, prendendola forse di sorpresa, ma la sentì
ricambiare
avvolgendogli le spalle, entrambe, come quella volta lontana. Tony
poggiò il mento
sulla sua
clavicola, respirando appena nel suo odore conosciuto. Era quello che
avrebbe voluto e dovuto fare anche un anno prima, ma non ne aveva
avuto né il coraggio né la
possibilità, se non troppo tardi. Sentì
mille nodi di tensione stringergli i muscoli, rendendolo estremamente
cosciente delle protesi, ma li ignorò.
Non era ancora troppo
tardi.
Forse lo sarebbe stato domani, o tra due mesi, ma non oggi.
«Sì,
dovrei dormire,» rispose semplicemente, e la sentì
rilassarsi come
se fosse rimasta sulle spine in attesa della sua reazione.
«Andiamo?»
le propose poi in un sussurro, rompendo del tutto copione.
Formulò
di proposito la frase in quel modo, con quella traccia di
ambiguità
a delineare i contorni di una domanda implicita che non necessitava
di una risposta diretta. Ma voleva sentirla accanto a sé,
percepire
il suo calore nel buio, cullarsi a occhi chiusi nel suo profumo,
cercarla e lasciarsi cercare, perché oggi non sarebbe ancora
stato
troppo tardi. Sentì il cuore che procedeva a sobbalzi nel
petto,
temendo di aver posto la domanda in modo troppo pressante, ma Pepper
affondò solo un po’ di più il volto
nella sua spalla, inspirando
a fondo.
«Va
bene,» la sentì rispondere, altrettanto piano,
altrettanto vaga,
con una carezza che gli attraversò la schiena prima di
scostarsi da
lui.
Tony
si distanziò di un passo, sentendosi attraversare da un
fremito che
sperò non fosse evidente, e le voltò le spalle
accingendosi a
chiudere la sessione, salvare i progressi e riporre il quaderno di
suo padre nel cassetto della scrivania. Come se in vita sua si fosse
mai preoccupato di lasciare il caos dietro di sé quando
usciva dal
laboratorio; ma con quei gesti inusuali gli sembrò di
riordinare al
contempo i propri pensieri sconvolti ad ogni colpo del tamburo che
gli risuonava nel petto, mentre sentiva lo sguardo di Pepper che lo
osservava dalla porta. Non gli riuscì di decifrarla,
notò solo come
ancora una volta indossasse i suoi vestiti da casa come pigiama, e
come fosse poggiata allo stipite con un piede scalzo sopra
l’altro
a limitare il contatto col pavimento freddo, riuscendo comunque a
mantenere intatta la sua eleganza.
La
raggiunse senza incrociare il suo sguardo, con un ultimo cenno della
mano per spegnere le luci dietro di sé. Le tenne aperta la
porta,
posandole poi una mano delicata alla base della schiena a guidarla
sulle scale.
Quel
breve percorso sembrò eterno e fu cadenzato dal suo cuore
che aveva
deciso di battere in controtempo ai propri passi, minando il suo
già
precario equilibrio. Gli sembrava che delle spirali formicolanti
avessero preso ad arricciarsi nel suo stomaco, causandogli una vaga
sensazione di solletico che non sapeva se fosse nuova o provata
talmente tanto tempo prima da essere quasi scomparsa dalla sua
memoria, associata a un vestito blu cobalto.
Appena messo piede nell’atrio scostò la
mano dalla
schiena di Pepper, lasciandole completa libertà di
movimento Non
riuscì però a impedirsi di accorciare i propri
passi, a prendere
tempo, a
lasciarle quel pizzico di vantaggio che gli avrebbe permesso di
capire dove fosse diretta così da evitare una figuraccia o
un
fraintendimento. Notò in lei lo stesso istante di
esitazione, in
sincrono con un suo battito mancato perché adesso avevano
entrambi
superato le scale, un passo dopo l’altro, senza ben sapere
chi
stesse guidando chi, finché non si trovarono di nuovo
vicini, a un
passo dalla sua camera e coi volti a un soffio di distanza.
Le portò con delicatezza la sua ciocca ribelle dietro
l’orecchio,
sfiorandole col pollice la guancia punteggiata di efelidi, e
sentì
la mano di lei posarsi sul suo braccio mentre le scioglieva lo
chignon. Gli scostò di rimando i capelli dalla fronte,
tirandoglieli
indietro con dolcezza, in un gesto così semplice e spontaneo
che
Tony si sentì sciogliere sotto il suo tocco.
Avvertì i propri sensi
annebbiarsi e acuirsi al contempo, facendogli registrare appena i
suoni e l’ambiente circostanti e amplificando quel contatto
di
pelle contro pelle, a cui si unì ben presto quello
più profondo
delle loro labbra. Non si rese quasi conto di essersi proteso per
primo verso di lei, catturandola in un bacio che aveva sempre
immaginato ma che non aveva mai avuto il coraggio di trasporre nella
realtà, troppo frenato dai suoi stessi limiti, dai suoi
fardelli.
Adesso però la sua unica àncora era davanti a
lui, in quegli occhi
cerulei che l’avevano aspettato fino ad ora, e lo tratteneva
a sé
con le braccia sul suo petto e le dita a cingergli il collo,
intrecciate dietro la nuca. Il clangore del suo bastone da passeggio
che cadeva a terra risuonò nel salone, ma nessuno dei due ci
fece
caso, e Pepper fu pronta a sorreggerlo quando si adagiò
appena contro
di lei.
Si
separarono il tempo necessario per incamerare una boccata
d’ossigeno,
entrambi inebriati e coi respiri accelerati che ancora si
mescolavano, gli occhi liquidi e accesi. La guidò piano
verso la
propria porta col braccio attorno alla vita, incapace di rompere quel
contatto, e lei assecondò il movimento ancora stretta a lui,
per poi
spingersi sulle punte dei piedi e cercargli di nuovo le labbra. In
quel momento, Tony sentì il cervello scollegarsi di netto,
lasciando
spazio a gesti non più repressi, finalmente sordo alla
vocina che
cercava sempre di sopraffarlo e rinchiuderlo nella sua gabbia. La
strinse a sé, ricambiando il bacio con tutto
l’impeto che aveva
trattenuto finora, e lei fece lo stesso, senza più alcuna
timidezza
o freno a interporsi tra le loro bocche.
La
schiena di Pepper incontrò infine la porta della stanza, e
Tony
riuscì a recuperare quel briciolo di razionalità
che gli permise di
scostarsi appena da lei, anche se con sguardo annebbiato. Le sue
mani rimasero a stringerle i fianchi morbidi, con tutta la delicatezza
di cui
era capace, limitandosi a sfiorarla appena con quella meccanica.
Trovò i suoi occhi, rischiando di affogarvi, e
poggiò la fronte
contro la sua percependo il suo respiro contro le labbra umide.
«Pepper…?»
cominciò incerto, con voce più roca di quanto
intendesse, ma prima
di poter continuare lei lo anticipò, con un tono altrettanto
intenso
che gli suscitò un fremito d’eccitazione.
«Sì,
Tony,» sussurrò semplicemente, anche lei
affannata, capendolo come
sempre con un solo sguardo.
La
sentì aumentare appena la stretta sulle sue spalle, e Tony
intravide
la sua espressione intensa ed emozionata nella penombra, in
un’ulteriore conferma che aumentò il suo
desiderio. Trattenne l'impeto e le inclinò il
mento con due dita per lasciarle un lungo bacio sulla guancia,
tracciando poi il profilo del suo volto fino a lambirle le labbra,
per arrivare infine al collo. Sentì le sue mani
accarezzargli la
schiena e scendere fino al bacino per attirarlo a sé,
strappandogli
un sospiro contro la sua pelle. Poi abbassò la maniglia e la
sospinse oltre la soglia.
***
Pepper
percepì la porta schiudersi dietro di lei e
scivolò nella penombra
della camera con un piccolo vuoto allo stomaco nel sentire le mani di
Tony posarsi con più fermezza sui suoi fianchi, in un misto
di
freddo e calore che le provocò un piacevole brivido. Una
parte di
lei non credeva che stesse succedendo davvero, e si aspettava di
riaprire gli occhi sul divano del laboratorio da un momento
all’altro, trovandosi a fissare la schiena di Tony immerso
nei suoi
progetti. Ma l’altra era totalmente inebriata dal suo
profumo,
dalla sensazione del suo corpo esigente contro il proprio, dalla mano
meccanica che la sfiorava appena per guidarla e da quella sana che
invece seguiva languida le sue curve imprimendole sul proprio palmo,
dalle proprie dita che non riuscivano a districarsi dai suoi capelli
scuri quasi potesse sfuggirle, dalle sue labbra che quasi le
rubavano il respiro – e sapeva che tutti quei dettagli e
sensazioni
che le stavano facendo girare la testa erano reali nonostante la loro
consistenza quasi onirica, forse proprio perché attesi tanto
a
lungo.
Come
poco prima, non capì chi dei due avesse spinto
l’altro sul letto,
sentì solo di essere stesa improvvisamente sul materasso,
con Tony
che esitava, chino su di lei in modo da non pesarle addosso.
Quando Pepper incrociò il suo sguardo nella penombra sopra
di lei,
le sembrò quasi smarrito. Comprese che, probabilmente,
neanche lui
riusciva a credere davvero a ciò che stava accadendo, e
sembrava
temere che svanisse sotto le sue dita da un momento
all’altro. Si
sollevò di nuovo per cingergli il collo e attirarlo a
sé, rompendo
la sua esitazione e facendolo adagiare accanto a lei. Tony si riscosse
e incontrò
di nuovo le sue labbra, catturandole in un lungo bacio, lento e
metodico, che avvicinò i loro corpi fino ad annullare
nuovamente le
distanze. Poi i
suoi gesti si fecero più cauti e meno intraprendenti, come
se avesse
bisogno di studiare la situazione perché impreparato ad
affrontarla.
Pepper assecondò quel rallentamento, con la
testa
leggera anche solo nel percepire il calore e le labbra
dell’uomo
contro la pelle, mentre lei iniziava ad esplorare il suo corpo con
gesti quasi impalpabili. Era consapevole di quanto fosse delicato quel
momento per lui, ed era disposta a prolungarlo anche tutta la notte, se
necessario.
Tony
prese a giocherellare con l'orlo della sua maglietta, approfondendo
il contatto e sfiorandola appena a fior di pelle, per poi esplorare
la sua schiena nuda in una lenta carezza in punta di dita che le
lasciò la pelle d'oca e accelerò il suo respiro
quando indugiò tra
le scapole, stuzzicando il gancetto del reggiseno. Gli cinse la
vita con un braccio, e sentì le sue mani posarsi di riflesso
sui
suoi glutei e premerla contro di sé, sempre delicate ma con
una
punta di decisione più marcata. Interruppero il bacio per
guardarsi,
entrambi affannati e in cerca dell’altro. Pepper vide il suo
sguardo esitare per una frazione di secondo, per poi scurirsi di
passione e riprendere a baciarla con più foga, prendendola
quasi di
sorpresa quando la sospinse di lato, portandosi sopra di lei e
incastonando infine il proprio corpo al suo. Entrambi si lasciarono
sfuggire un sospiro per quella vicinanza, e Pepper sentì la
sua mano
fattasi più ferma risalirle l’addome, seguendo la
curva dei seni e
spogliandola della maglietta, per poi rimanere su di lei,
cristallizzato in un
istante di contemplazione che la fece avvampare. Tony si
chinò piano
sulle sue labbra, stavolta sfiorandole più volte come ad
assicurarsi
che fossero tangibili, e Pepper gli accarezzò le braccia,
studiando i suoi muscoli e
risalendo fino
alle spalle. Seguì con lentezza il profilo di entrambe,
evitando con
accortezza di indugiare troppo sul bordo metallico della protesi, e
scese lungo la schiena fino a insinuarsi sotto la sua maglietta,
mentre lui cominciava a tracciare la linea del suo collo in un
sentiero di baci.
Fu quando arrivò a lambirgli gli addominali che
lo sentì sobbalzare e irrigidirsi contro di lei, frenandole
allo
stesso tempo la mano che aveva iniziato a sollevargli la stoffa
sull’addome. Si rialzò di colpo sulle ginocchia,
soffocando un gemito, col respiro corto
e un'espressione contrita stampata in faccia.
Pepper quasi
boccheggiò, presa in contropiede da quella reazione
inaspettata, ma
dopo il primo secondo di spaesamento, intervallato dal battito
convulso del proprio cuore, si sollevò sui gomiti cercando
di
intercettare il suo sguardo sfuggente. Non dovette aspettare che le
spiegasse nulla: l'aveva già intuito dal modo in cui si
stringeva la
protesi del braccio, col palmo della stessa premuto contro il
reattore e il viso voltato dalla parte sana, quasi a volerle
nascondere tutto in un solo movimento. Pepper si alzò a sua
volta sulle
ginocchia,
accostandosi a lui e aspettando qualche secondo prima di stringerlo
di nuovo a sé con gentilezza. Lo sentì tendersi a
quel contatto, ma
non si ritrasse, tenendo a bada l’ansia che aveva preso il
sopravvento su di lui.
«Magari dovrei...» cominciò, con voce
arrochita e titubante, e fece cenno come a voler rimuovere il braccio
meccanico, poi si coprì nuovamente il reattore, quasi
frenetico, al
che Pepper lo fermò, posando una mano sulla sua.
«…
fare con più calma,» completò, cercando
il suo sguardo e
trovandolo in bilico tra la vergogna e il sollievo.
Si
lasciò scostare la mano, facendo trapelare di nuovo la luce
azzurrina dal suo petto, a rischiarare flebilmente il buio della
stanza.
«Sì,
è solo che…» riprese lui, sempre a voce
bassa, ma si interruppe,
e Pepper si chiese se anche lui in quel momento udisse solo il
battito profondo del proprio cuore. «Non vorrei rovinare
tutto come al solito,»
mormorò poi, con un sorrisetto nervoso e quasi di scuse.
A
quel punto Pepper, oltre al desiderio di avvinghiarsi di nuovo a lui,
provò quello di buttarlo giù dal letto, e
sentì anche un
improvviso pizzicore agli occhi nel sentirlo pronunciare quelle
parole.
Gli
prese il volto tra le mani, sapendo di star valicando una sorta di
regola non scritta, e prevedibilmente lui sussultò. Non lo
trattenne, ma lui non si ritrasse, osando però a malapena
respirare.
Seguì con la punta delle dita il contorno del suo viso,
dalla parte
integra, per poi passare all’altra e lambire il bordo della
benda
che ancora indossava. La scollò con delicatezza, sentendolo
trattenere bruscamente il fiato a quel gesto. Prima che potesse
reagire, sfiorò con le labbra la cicatrice che gli
attraversava il
volto, dal sopracciglio allo zigomo, seguendone il profilo
frastagliato senza esitare, spinta solo dalla duplice
volontà di
conoscere appieno anche quella sua imperfezione, e di rassicurarlo.
Non sarebbe mai stato un marchio così superficiale a
definire lui, e
tantomeno a far ritrarre lei. Quel segno non voluto faceva parte di
Tony, così come le protesi, così come il
reattore, così come tutto
ciò che era oltre a tutto questo. E non offuscavano
neanche
lontanamente il desiderio che le pervadeva il petto in quel momento,
né tutti i motivi che l’aveva spinta a rimanere al
suo fianco fino
ad allora. Cercò di trasmetterlo anche a Tony attraverso
quel gesto
per lei semplice, spontaneo, ma che probabilmente per lui non era
affatto scontato. Tony si abbandonò contro le sue labbra,
respirando a fior di labbra e sfiorandole i fianchi in un anelito
trattenuto.
Lasciò che
lei gli sfilasse anche la maglietta e baciasse anche il punto di
giunzione
tra la protesi e il suo corpo, arrivando dalla spalla fino alle
nocche, percependo il sapore acuto del metallo misto a quello
più
dolce della sua pelle. Accettò anche quella parte di lui,
facendolo
rilassare e avvicinare sempre più ad ogni contatto, vero o
immaginato, e spezzandogli allo stesso tempo il respiro per
l’emozione. Pepper si scostò infine da lui per
guardarlo
in volto,
incontrando la sua pupilla lucida e di nuovo adorante, e fu quel
singolo sguardo a darle il coraggio di fare il gesto che aveva
rimandato ormai da molto tempo: posò entrambe le mani sul
suo
reattore, avvertendone la superficie liscia e tiepida, col lieve
ronzio che le riverberava nei palmi. La paura che si era aspettata di
provare non arrivò, soppiantata da un brivido di piacere
quando
sentì la presa di Tony farsi più salda sulla sua
schiena. La luce
che li illuminava si affievolì, ma Pepper intravide
distintamente il
lampo di incredulità che balenò sul volto di
Tony, che adesso la
fissava intento con le labbra schiuse, come se non riuscisse a
capacitarsi di ciò che era appena avvenuto.
Quell’istante sospeso
durò il tempo di un battito di ciglia, in cui Tony si
sentì
disorientato nel percepire il suo stesso corpo, come se fosse in
qualche modo cambiato dopo il tocco di Pepper. Come se fosse
semplicemente il suo
corpo, e non un altro fardello. Durò un attimo, il tempo di
scrollarsi di dosso i ceppi che lo trattenevano, trovandosi
finalmente libero: si slanciò sulle labbra di Pepper,
catturandola in
un bacio impetuoso e stringendola a sé quasi con smania; lei
lo
assecondò col medesimo ardore, cingendogli la vita con le
gambe e
trovandosi di nuovo sotto di lui, tempestata dalle sue labbra e dalla
nuova, vibrante energia che le trasmetteva ad ogni tocco non
più
inibito. Le
loro mani corsero insieme a sganciare il ferretto del reggiseno e il
bottone
dei jeans, portandoli più vicini e rendendoli più
sensibili ad ogni
sospiro e contatto di pelle contro pelle, ritardando ancora quello
completo.
Tony
si sentiva sospeso tra una stupefatta euforia e un desiderio
bruciante che gli rimescolava il sangue nelle vene, una sensazione
diversa da qualunque altra avesse mai provato in quei contesti;
perché Pepper, l’aveva sempre saputo, non
era una qualunque
donna e non era mai stata solo un’altra. Non ricordava di
aver mai
voluto nessuno con la stessa intensità che guidava ora i
suoi gesti,
né di aver mai usato così tanta accortezza nel
dosarli per darle
piacere.
Esplorò
ogni nicchia e curva del suo corpo, imparando a conoscerlo, ad amarlo
con ogni bacio e carezza che le lasciava sulla pelle, contando le
lentiggini che le costellavano le spalle, per poi diradarsi a
lambirle appena il seno latteo e le areole rosee. Si perse nel
seguire la sua linea alba, e deviò più volte dal
suo percorso per
risalire a cercarle le labbra, catturando i suoi sospiri e il suo
stesso nome con le proprie; sentì i suoi tremiti
riverberargli nelle
ossa quando la liberò senza fretta dei pantaloni e degli
slip,
facendola poi sussultare ad ogni tocco più intimo e deciso,
con le
sue mani aggrappate ai capelli, al collo, alle spalle nella ricerca
di un appiglio saldo, perché ora Pepper si sentiva sul punto
di
cadere da un momento all’altro. Gli accarezzò il
profilo forte del
collo, scoprendo che baciare la conchetta tra la spalla e la
clavicola gli strappava più di un gemito mentre la
stringeva di
nuovo a sé, trovando le sue fossette di Venere. Vi
incuneò le dita,
stringendola e facendola inarcare contro di lui
mentre
lei gli tracciava la linea della schiena, percorrendo con lentezza
quel lieve avvallamento, soffermandosi sulla sua pelle increspata,
sulla curva spigolosa dei fianchi stretti, sui tenui rilievi di
qualche vecchia cicatrice. Gli sfiorò il torace, con una
stretta al
cuore nel percepire i segni del palladio e le costole troppo
pronunciate, proseguendo quindi sull'addome e trovando i due solchi
virili che scomparivano oltre l'orlo dei boxer. Li scostò
appena,
facendogli trattenere bruscamente il respiro mentre si tendeva contro
di lei a quel contatto più intenso, che ricercò a
sua volta
sfiorandole un seno con le labbra. Sentì le sue mani che lo
liberavano del tutto, in una carezza languida che lo fece tremare.
Le
linee dei loro corpi si sovrapposero, finalmente prive di barriere, e
si trovarono avvinti in un abbraccio che cercava di stabilizzarli
senza riuscirvi, esaltando solo la percezione dell’uno contro
l’altro mentre si guidavano a vicenda verso il limite.
I
loro occhi si cercarono, ora impazienti, e si incontrarono in una
tacita intesa. Tony le lasciò un ultimo bacio sulle labbra,
prima di
immergersi in un solo, lento movimento nel suo calore;
quell’unione
strappò un sospiro estatico a entrambi, rimasti sopraffatti
per un
istante dal piacere prima di ricercarlo con più veemenza,
verso quel
limite, sempre più vicino ad ogni contatto più
profondo.
Pepper
lo valicò per prima, avvinghiandosi con forza a lui, e Tony
rallentò
appena, incatenandosi a lei, ai suoi occhi, alle sue dita, come a
trattenere quell’attimo che fuggiva via e imprimerselo nel
corpo;
voleva prolungare quel momento, sentirlo in ogni dettaglio prima di
cadere anche lui insieme a lei, congiunto a quella parte di
sé che
non gli apparteneva, ma che gli era indispensabile.
Per
quel singolo istante di attesa in bilico, cessò di essere
carne e
metallo, di essere lui, in uno scavalcamento di campo che lo
annullò e allo stesso tempo lo fece sentire completo,
finché un
nugolo di vertigini lo invase da capo a piedi, spingendolo di colpo
oltre il bordo e nelle sue braccia pronte ad accoglierlo.
***
Rimasero
abbracciati nella penombra, ansanti e con le gambe ancora
intrecciate, donandosi carezze morbide e stremate. Tony si
scostò
appena di lato per non pesarle addosso, e lei seguì quel
movimento,
stringendogli il busto per rimanere pelle contro pelle con lui.
Tony
deglutì, cercando di recuperare il fiato che gli rimaneva
sospeso
tra gola e polmoni, e sentì le mani di Pepper adagiarsi sul
suo
petto, come ad aiutarlo.
Non
sapeva esattamente come sentirsi, se non frastornato ed esausto, oltre
che colto
da un leggero imbarazzo nel non sapere come comportarsi adesso.
Arrivare fin qui era stato – più o meno
– semplice, naturale, ma
adesso si sentì cogliere da una lieve, impacciata
inquietudine. Le
protesi gli inviarono una stilettata pungente, a ricordargli che
erano ancora là, e decisamente seccate per lo sforzo fisico,
ma le
ignorò, assieme al carico di ombre che cercavano di
sospingere nella
sua direzione. Si era ripromesso di non pensare al domani, ed era
intenzionato a mantenere quel proposito almeno fino al mattino.
Non
riusciva comunque a parlare, e forse non ce n’era bisogno, ma
man
mano che recuperava il controllo di sé e dei propri
pensieri, sentì
disegnarsi sul volto quel sorriso scanzonato che le rivolgeva spesso,
che fu ricambiato dallo sguardo di vago, affettuoso rimprovero che
lei gli indirizzava quando intuiva una delle sue battutine
impertinenti in arrivo.
«Allora,
è stato strano?» chiese infatti Tony, come
riprendendo un discorso
interrotto.
Pepper
acuì il suo sguardo inquisitore, per poi sospirare tra
sé e
distendersi in un sorriso. Allungò una mano ad accarezzargli
il
volto, seguendo la linea del pizzetto, e Tony si chiese per quanto
tempo si fosse astenuta da quel gesto.
«No,
per niente,» rispose poi a bassa voce, sfiorandogli di nuovo
le
labbra in un bacio leggero.
«Bene,»
rispose lui, scostandosi un poco per evitare di sprofondare
completamente in quel contatto. «Certo, possiamo sempre
migliorare,»
commentò poi, con un sorrisetto scaltro, e Pepper
alzò
prevedibilmente gli occhi al cielo.
«Tony…»
cominciò con fare ammonitore, e lui sbuffò
divertito, stringendola
a sé, sentendosi profondamente felice per il semplice fatto
di stare
parlando con lei come sempre, nonostante la situazione completamente
estranea, e vinse senza difficoltà l’immotivato
imbarazzo di poco
prima.
«Che
ci sarebbe di male?» chiese ironico, prendendo a
giocherellare con
le sue ciocche ramate e trovando di nuovo i suoi occhi.
«Dopotutto,
abbiamo aspettato solo dieci anni,» continuò,
abbassando un poco la
voce e posandole un bacio appena sotto l’orecchio.
«Un
po’ meno di dieci,» replicò sottovoce
lei, col sorriso nelle
parole.
«Quanti
allora? Nove?» la provocò lui, con un sogghigno
sicuro di sé.
Lei
sorrise un po’ perfida, sfiorandogli il naso in un gesto
giocoso.
«Direi…
quattro?» propose infine, e Tony sentì la propria
espressione
tronfia cadere di schianto.
«Quattro,»
ripeté, serissimo, vedendo fin troppo bene il modo in cui
lei si
stava trattenendo per non scoppiargli a ridere in faccia.
«Wow.
Quattro,» ripeté ancora, come un disco rotto, e si
sollevò un poco
sul gomito, rimangiandosi il sorriso che stava premendo anche sul suo
volto. «Ok, da che punto stiamo contando?» chiese
poi, alzando un
sopracciglio e Pepper finse di pensarci su.
«Ha
importanza?» scrollò poi le spalle.
«Assolutamente,
ci tengo ad essere sempre preciso nelle mie analisi,»
dichiarò lui,
e stavolta il sorriso gli sfuggì tra le labbra.
«Allora
prima dovrei sapere di cosa
stiamo parlando,» lo stuzzicò lei, con un pizzico
di curiosità ben
palpabile.
Tony
percepì che adesso la discussione stava per sconfinare in
territori
decisamente
imbarazzanti, per qualcuno che non si era mai trovato nella posizione
di dover definire un rapporto di quel tipo.
«È
comunque troppo tempo,» svicolò quindi,
strappandole una risatina
nel vedere tutta quella goffa reticenza da parte sua, che
però gli
guadagnò anche un altro bacio.
La
trattenne a sé, cingendola di nuovo con le braccia, e lei
fece lo
stesso, a confermare le sue parole e il desiderio che riprendeva
già
a consumare entrambi, nella consapevolezza condivisa di aver davvero
aspettato troppo.
La
sentì sciogliersi contro il suo corpo, intrecciando
le mani
dietro le sue spalle, e lui si girò piano sulla schiena,
portandola
sopra di lui col braccio a stringerle la vita. Rimase muto ad
ammirarla, illuminata solo dalla fievole luce del reattore che
giocava sui suoi capelli, disegnandole ogni curva in altorilievo, e
vide con un misto di sollievo e ardore che anche i suoi occhi
indugiavano rapiti sul suo corpo imperfetto.
Il
“sei bellissima” che gli era salito spontaneo alle
labbra si
scontrò su quelle di Pepper quando si chinò a
baciarlo con impeto.
La seguì in quell’invito e si intrecciò
subito a lei senza
esitare, sentendosi desiderato almeno quanto lui desiderava lei ad
ogni sospiro unisono, mentre si cercavano e trovavano nel buio.
Poi
si persero di nuovo, entrambi.
___________________________________________________________________________________________________
Note Dell'Autrice:
Ah-ehm, salve?
A parte il fatto che quest' aggiornamento è fuori tempo massimo e con pessimo tempismo, considerando il periodo e in tenore del fandom... sì, ho visto Endgame e no, non farò spoiler, ma chi l'ha visto penso possa immaginare il mio stato d'animo. E credo abbia colto anche un velato riferimento al film verso la fine del capitolo ;)
A parte tutto, questa è la primissima volta che mi cimento nello scrivere una scena simile, e forse mi sono dilungata un po' troppo... ma un po' sentivo di "doverlo" a chi legge, considerando l'attesta infinita di 50 (!) capitoli. Spero di non aver fatto troppi casini, e non abbiate timore di lanciarmi pomodori in caso non doveste gradire :') (Tony mi fa sapere dalla regia che, sì, dopo sei anni di sofferenza ha gradito molto, e anche Pepper concorda).
La scelta di farli "cedere" prima di aver trovato una soluzione, a dispetto di tutto ciò che si sono detti e ripromessi in proposito, è voluta, a sottolineare il fatto che rimangano due esseri umani, e come tali soggetti ache debolezze, ripensamenti e decisioni impulsive ;)
Come sempre, il testo in blu è di Tony e quello in arancione di Pepper. E sì, questo titolo collegato a questo momento esiste dalla prima menzione di Stand By Me nella storia, dieci capitoli fa, e a tal proposito vi sarà un piccolo spin-off in futuro :D A parte ciò, il richiamo spero più evidente è a Hysteria, uno dei miei capitoli preferiti, e mi auguro che vi sia piaciuto <3
Ringrazio immensamente _Atlas_, T612 ed Emyclarinet per aver recensito lo scorso capitolo, oltre a tutti quelli che continuano a leggere e seguire aggiungendo la storia alle loro liste <3 Confesso di essere particolarmente curiosa delle vostre opinioni su questi ultimi capitoli, considerando che il prossimo è quello finale. Ci sarà un breve (?) epilogo, ma diciamo che la storia in sé si conclude nel prossimo e, no, non so affatto come gestire lo stress emotivo di fronte alla fine del MCU (per ora) e di Phoenix.
Spero di pubblicare in tempi brevi il prossimo capitolo, che, vi avviso, sarà mastodontico :')
Un caro saluto e alla prossima,
-Light-
[AVVISO]: in vista della conclusione della storia mi accingo all'ultima fatica: sto effettuando la sua revisione finale, correggendo sviste, errori di battitura e la punteggiatura dei dialoghi, oltre a operare qualche miglioramento dal punto di vista formale. I capitoli non subiranno cambiamenti sostanziali, eccezion fatta per il prologo e il primo capitolo, che in seguito al ritrovamento di un vecchio appunto cartaceo sono stati modificati. Tutto ciò non influenzerà ovviamente la trama, né gli eventi.
Soprattutto, è probabile che alcuni capitoli della prima parte cambieranno titolo e canzone introduttiva: inizialmente eravamo molto pigre nella loro scelta, e so quali sono stati buttati lì per mancanza d'inventiva/voglia. Quelli passabili di cambiamento sono indicati con * e ove è stata cambiata la canzone è presente ♪
Pubblicherò l'ultimo capitolo solo a revisione ultimata, e ho deciso di inserire su questo una sorta di countdown per tenervi aggiornati: segnerò mano mano i capitoli corretti, segnalando quelli che potrebbero essere stati soggetti a revisioni più pesanti. Chiudo il papiro, e vi lascio al "Phoenix-Bingo", con un paio di micro-sneak peek finali ;)
[Edit]: Presa dall'estro creativo (?) mi sono tolta lo sfizio di fare delle grafiche per il titolo della storia e per quelli delle tre parti, oltre che qualche illustrazione. Le trovate ai capitoli con ! :D
Prologo - Let the flames begin ✔ ! Rilettura consigliata
Capitolo 1 - It could've been worse ✔ ! Rilettura consigliata
Capitolo 2 - In dream ✔
Capitolo 3 - One way road ✔ [titolo cambiato] ♪
Capitolo 4 - As always ✔ ♪
Capitolo 5 - Get off my cloud ✔ [titolo cambiato]
Capitolo 6 - Heart of steel ✔ ♪
Capitolo 7 - Another brick in the wall ✔
Capitolo 8 - Time is running out ✔
Capitolo 9 - Stumbling ✔
Capitolo 10 - Falling ✔Correzioni&aggiunte marginali
Capitolo 11 - Sinking ✔ Rilettura consigliata
Capitolo 12 - Psychosocial? ✔
Capitolo 13 - Hysteria ✔
Capitolo 14 - Scar tissue ✔ ♪
Capitolo 15 - Twist and shout ✔ ♪ [titolo cambiato] Correzioni&aggiunte marginali
Capitolo 16 - High hopes ✔ [titolo cambiato]
Capitolo 17 - Another family reunion ✔ ♪
Capitolo 18 - It's gonna be OK, someday ✔
Capitolo 19 - Close to the bottom ✔
Capitolo 20 - Tiptoe higher ✔ [titolo cambiato] ♪
Capitolo 21 - Rage against the machine ✔
Capitolo 22 - Unsustainable ✔
Capitolo 23 - The hangover ✔ [titolo cambiato]
Capitolo 24 - Your bridges are burning down ✔
Capitolo 25 - Hycarus ✔ [titolo cambiato]
Capitolo 26 - Apocalypse, please ✔
Capitolo 27 - Of storms, shells and shattered dreams ✔
Capitolo 28 - Innervision ✔
Capitolo 29 - In noctem ✔ !
Capitolo 30 - Iron and bones ✔
Capitolo 31 - Chasing cars ✔
Capitolo 32 - It can only get better ✔
Capitolo 33 - Stay hungry ✔
Capitolo 34 - Stay foolish ✔ !
Capitolo 35 - Friends will be friends ✔
Capitolo 36 - Show and tell ✔
Capitolo 37 - No man is an island ✔
Capitolo 38 - Smoke and mirrors ✔
Capitolo 39 - Kintsugi ✔
Capitolo 40 - Dancing in the dark ✔ Correzioni&aggiunte marginali
Capitolo 41 - Showbiz ✔ !
Capitolo 42 - Legacy ✔
Capitolo 43 - Supernova ✔ !
Capitolo 44 - Neutron star ✔
Capitolo 45 - Highway to Hell ✔
Capitolo 46 - Knockin' on Heaven's door ✔
Capitolo 47 - The show must go on ✔
Capitolo 48 - Sometimes you can't do it on your own ✔
Capitolo 49 - Stand by me ✔
Capitolo 50 - W. [Completo]
Epilogo - P. [Work in progress]
L'aggiornamento sarà tra l'8 e il 9 luglio!
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Capitolo 51 *** Walk of life ***
50
Walk of life
“Someday
you will find me
Caught beneath the landslide
In a champagne supernova
A champagne supernova in the sky
Wake up the dawn and ask her why
A dreamer dreams she never dies
Wipe that tear away now from your eye”
[Champagne
Supernova – Oasis]
Il silenzio
preme gravoso sui suoi timpani e lo induce a strizzare un poco gli
occhi, ancora ciechi nel buio circostante. Il reattore gli riluce
fiocamente nel petto, ma la sua luminescenza non è
sufficiente a rischiarare i dintorni.
All’improvviso, emette un lieve sibilo e si spegne con uno
sfarfallio, calandogli una cortina oscura davanti al volto e privandolo
del tutto della vista. Sente le pulsazioni del suo cuore incepparsi per
un istante con un boato di grancassa, e le schegge acuminate che
fremono nella sua carne, pronte a dilaniarla. Ma l’acuto
dolore che si era aspettato recede, e i battiti riprendono dopo un
istante, regolari, riverberando nel cilindro metallico infisso nel suo
sterno.
Ruota rigidamente sui talloni, muovendo esitante le mani attorno a
sé senza incontrare alcun ostacolo, se non la fredda
resistenza dell’aria che gli preme addosso in un velo gelido.
Lo avverte su entrambi i palmi. Sussulta nel realizzarlo e congiunge le
mani, sfregandole appena tra loro e percependone la ruvidezza e il
calore, i calletti e le cicatrici che punteggiano sia la sinistra che
la destra. Fa poi scorrere le dita lungo il braccio destro e ne
distingue la struttura viva di carne e ossa e tendini, il gomito
mobile, la spalla agile e tonica che ruota senza sforzo in
un’orchestra di tensioni, leve e snodi. Riconosce con un moto
di perplessità una scia di rilievi regolari, più
sensibili e caldi al tatto, e conta uno ad uno dei punti di sutura,
mentre le rughe sul suo volto che si fanno via via più
pronunciate. Affonda leggermente le unghie nella pelle, sulla curva tra
collo e clavicola, e i nervi registrano quella pressione, inviandogli
una nota di fastidio quando inizia a premere con troppa forza. Lascia
la presa, col respiro irregolare, e si sfiora il volto incontrando con
un sussulto l’occhio sinistro, e le ciglia che gli sfiorano i
polpastrelli, e la palpebra socchiusa a proteggere il bulbo. Percepisce
anche il segno liscio di una cicatrice a solcargli l’orbita,
intaccandogli l’arco del sopracciglio. Non avrebbe bisogno di
verificare anche la gamba: già dall’assenza di
dolore e dalla facilità con cui riesce a rimanere in piedi
sa che la destra è viva e reale e non un surrogato
meccanico. Si china comunque a cingere il punto poco sopra al
ginocchio, trovando anche lì la trincea dei punti di sutura,
e nessuna differenza tra le due parti che separa.
Si raddrizza e si copre la bocca, espirando piano, col calore del
proprio fiato che segna l’aria fredda e rimbalza contro il
palmo della mano sana – che non dovrebbe essere tale.
Una spirale di vertigini gli avvita la bocca dello stomaco, e lui
pianta i piedi per terra a ripristinare l’equilibrio, mentre
i propri organi continuano ad agitarsi come scossi da un sisma lieve,
ma continuo.
Quale versione dell’incubo è, questa?
Sta per essere assorbito dalla sua armatura? Sta per annegare
– di nuovo, ancora? Sta per venire stritolato dalla morsa di
Iron Monger? O magari si trasformerà in un androide, o
vedrà crescersi addosso le protesi e l’illusione
di un occhio – come la prima volta?
Rimane in attesa, con quegli scenari che continuano a scorrere,
dibattersi e accavallarsi tra di loro, alimentando le scosse che lo
scuotono dall’interno. Il silenzio rimane intonso, se non per
il suo respiro discontinuo e per il fragore del sangue che gli scorre a
velocità doppia nelle vene, seguendo un percorso
serpeggiante di rapide e cascate che manda in tilt il suo cuore ormai
fuori tempo.
Una
stilla di paura si riversa nel suo corpo, con un retrogusto acido di
bile che gli strappa una smorfia. Porta entrambi i palmi al reattore
spento in un moto istintivo, col corpo teso fino a tremare e gli occhi
sbarrati nell’oscurità.
Si
aspetta di veder comparire da un momento all’altro uno
specchio, o un vetro, un qualsiasi tipo di barriera che lo separi da
una versione più perfetta e completa di se stesso; ma
attorno a lui vi è solo buio siderale privo di stelle, un
grembo freddo ma non ancora ostile che avvolge il suo corpo nudo.
Il suo timpano vibra all’improvviso, registrando un suono che
la sua mente non identifica subito, ma che il suo cuore accoglie con
uno spasmo di sollievo che quasi fa male. Sente la testa svuotarsi, con
quel suono singolo che si raddoppia, e poi triplica, fino a diventare
una successione infinita e regolare che si sincronizza ai suoi battiti,
e poi ai suoi passi quando si incammina verso di esso.
Avanza a tentoni nel buio, seguendo il familiare clangore metallico di
un martello sull’incudine.
***
Febbraio 2008,
Afghanistan
La grotta
lo accolse con le sue pareti fredde e irregolari, densa di fumo acre e
pulviscolo sospeso che catturava la fioca luce delle lampade a olio,
ammiccando in brillii dorati.
Batté le palpebre, mettendo a fuoco il frammento scheggiato
di uno specchio davanti a sé, e l’iride scura che
ricambiava il suo sguardo. Ruotò appena la testa, e anche
l’occhio sinistro si rifletté illeso sulla
superficie sporca. Si vide aggrottare le sopracciglia con fare critico,
e abbassò lo sguardo sulla mano destra, sana e intenta a
stringere un rasoio consunto, il che spiegava il suo volto insaponato
per metà. Si chinò a sciacquarlo nella ciotola
d’acqua di fianco a lui, e realizzò in quel
momento di non avere controllo sui propri movimenti, pur avvertendo
ogni input sensoriale che registrava il suo corpo. Sentì le
contusioni alle costole protestare, il gelo umido della caverna che
penetrava sotto i vestiti leggeri, la cappa di fumo che gli irritava la
gola. Il magnete premeva contro le ossa, nella carne, rendendo ogni
respiro superficiale un’agonia, e sentiva i fili collegati
alla batteria per auto tendersi ad ogni piccolo spostamento, dandogli
l’impressione che fosse sempre sul punto di venir strappato
via dal suo corpo come il tappo di un lavandino. Sussultò a
una fitta più intensa, e non seppe se fosse stato lui a
reagire o il Tony del sogno, o forse del ricordo. Era come essere
bloccato in una visuale in terza persona molto ravvicinata. Per amore
della sua sanità mentale, si adeguò a
considerarsi parte integrante del proprio corpo, e non una sorta di
entità ectoplasmatica sospesa a mezz’aria sopra la
propria spalla.
Si deterse il volto nella bacinella, sfregandosi via lo sporco e il
sapone dalle guance, e quando tornò a fissarsi
c’era la parvenza di un pizzetto ancora troppo folto a
incorniciargli il mento. Sembrò considerarlo un risultato
passabile e si tamponò con un panno il viso grondante e
arrossato dall’acqua gelida.
«Stark, che stai combinando?»
Tony sobbalzò tra sé e sentì il cuore
bloccarsi in gola, spigoloso, ma la sua controparte si girò
tranquilla in direzione di Yinsen, semisdraiato sulla sua brandina, le
mani intrecciate sulla nuca e l’acuto sguardo azzurro puntato
su di lui. Tutte le parole che avrebbe voluto dirgli gli si incunearono
sotto la lingua, si impigliarono nelle corde vocali, sfuggirono in aria
silenziosa dagli angoli della bocca, impossibili da pronunciare,
perché quel Tony ancora non sapeva a chi avrebbe dovuto la
propria vita di lì a poco. Non poteva ancora essergli grato,
ed era comunque troppo intento a mostrarsi arrogante e sicuro di
sé nonostante avesse una bomba a orologeria nel petto. Forse
sotto quel punto di vista non era poi cambiato molto.
«Mi sto rendendo presentabile,» replicò
infatti, senza scomporsi. «È un
crimine?» aggiunse poi, senza sforzarsi di scherzare davvero.
«Certo che no. Non mi dispiace vedere un po’ di
civiltà, ogni tanto,» replicò
l’altro, serafico come sempre e con quell’accento
un po’ cantilenante che sembrava sempre celare un filo
d’ironia.
Si vide alzare le spalle in modo brusco, senza degnarlo di
un’occhiata, e si riconobbe in quell’atteggiamento
scostante, di quando si sentiva preso in giro e non voleva concedere la
soddisfazione di darlo a vedere. In effetti ci aveva messo un
po’ a decifrare il proprio compagno di prigionia, e aveva
comunque finito per fraintenderlo spesso, solitamente quando esprimeva
opinioni o commenti sensati. All’epoca era abituato a
considerarsi la persona più sagace nella stanza, e ricordava
bene quante volte si fosse ritrovato senza parole di fronte a Yinsen, e
quanto ciò lo avesse frustrato. Si era sentito in bilico,
precariamente in equilibrio sulle poche convinzioni che gli erano
rimaste e che franavano inesorabili sotto i suoi passi malfermi, mentre
continuava imperterrito ad avanzare.
Un’inattesa fitta di vergogna lo investì:
paradossalmente, aveva conservato più dignità in
quella grotta buia che nel letto di un ospedale. Era certo che lo
sguardo di Yinsen potesse vederlo, vedere lui adesso,
assieme a tutti gli errori che aveva commesso prima di rialzarsi, e fu
sollevato quando il suo alter ego abbassò gli occhi, intento
a sistemarsi un cavo fastidioso impigliato nella stoffa lacera della
canottiera.
Sentì
un istintivo moto di panico nel non vedere alcuna luce azzurrina,
nonostante sapesse di avere ancora il vecchio magnete, spento e
precario. Quasi gli venne da sorridere amaramente della sfrontata
ironia del caso, che a due anni di distanza l’aveva
precipitato in una situazione terribilmente simile; ma quando si
sentì parlare di nuovo, con la voce bassa amplificata dalle
pareti rocciose, la sensazione di déjà-vu
lo
colpì alla bocca dello stomaco come un pugno a tradimento:
«Quanto
tempo mi dai?»
Yinsen sollevò le sopracciglia in un moto di sorpresa, ma
non si scompose, limitandosi a raddrizzarsi un poco sulla brandina.
«Se non ti sbrighi a finire il Jericho, molto
poco,» fu la piatta risposta.
«Intendevo fisicamente,»
replicò lui, puntandosi un dito quasi distratto sul magnete.
«Ho fatto i miei calcoli, e questo coso non è
abbastanza potente: prima o poi le schegge mi ostruiranno
un’arteria, o mi spaccheranno il miocardio. Morire
così non rientra nei piani,» sciorinò,
con calma apparente.
Tony
riusciva a sentire il tremito dei suoi pensieri di allora in sincrono
con quelli che gli si agitavano in testa adesso, in un ronzio acuto e
disturbante. Solo che due anni fa aveva molto meno da perdere. Pepper
era solo una voce lontana che gli intimava di non arrendersi, in coro
dissonante con quella di suo padre che gli ripeteva brusco che gli
Stark erano fatti di ferro. Iron Man era ancora un bozzolo informe
sepolto nel suo inconscio, un semplice mezzo d’evasione e
riscatto. La volontà di fare qualcosa di buono in vita sua
non era ancora emersa, soverchiata da quella nuda e cruda di liberarsi
o morire nel tentativo, perché Tony Stark era troppo
orgoglioso per lasciare il palcoscenico prima di aver lasciato il segno.
Vedendosi a distanza, sembrava un uomo molto più rotto di
adesso, con molte più crepe a solcargli l’anima,
da sempre celate da un involucro che aveva appena incominciato a
scheggiarsi e che necessitava di un’altra corazza per non
cadere a pezzi.
«E che piani avresti?» lo interrogò
Yinsen, ancora flemmatico ma con un’onda
d’interesse a modulare la sua voce.
«Quanto tempo ho?» insistette ancora lui,
accennando alla batteria per auto col mento e ignorando la domanda.
Yinsen rifletté qualche secondo e nel mentre si
alzò, si lisciò le falde della giacca consunta e
si piazzò a un paio di passi da lui, le spalle leggermente
curvate.
«Un paio di settimane,» decretò poi, con
occhio clinico. «Il magnete è una misura
provvisoria. Non è stato pensato per tenere lontane le
schegge per sempre.»
«Non ho mai pensato di poter vivere per sempre,»
replicò asciutto lui, inutilmente caustico. «Due
settimane. È più di quanto mi
aspettassi,» ragionò quindi tra sé.
«Cosa hai in mente?» chiese ancora Yinsen,
scrutandolo con curiosità trattenuta.
Forse anche con un pizzico di speranza, che si conficcò
rovente nel cuore di Tony, carica dell’eco di parole pesanti
e promesse silenziose che si propagava al contrario, scaturito da un
futuro troppo prossimo.
«Prima i dettagli tecnici,» replicò lui,
incrociando le braccia sotto al magnete con apparente sicurezza, anche
se continuava a spostare il peso da un piede all’altro.
«Puoi togliermi il magnete?»
Yinsen sbarrò appena gli occhi dietro le lenti rotonde,
scoccando un’occhiata confusa prima a lui, poi al congegno
che lo teneva in vita, infine alla batteria.
«Stark, non sono un medico e non ho un giuramento
d’Ippocrate, ma non ti aiuterò
a…»
L’altro sospirò irritato, interrompendolo con un
gesto brusco della mano.
«Intendo dire: si può rimuovere senza
uccidermi?»
Tony
sentì un retrogusto di bile in bocca, e un vuoto familiare
al centro del petto, ma si sforzò di non farci caso.
«Teoricamente no,» rispose Yinsen, ancora
perplesso. «Senza magnete moriresti nel giro di qualche ora
e…»
«Qualche ora,» ripeté lui, passandosi
una mano dietro al collo con fare meditabondo mentre annuiva tra
sé. «Sì, può
bastare.»
«Stark, se non mi spieghi cosa vuoi fare non
posso…»
Lui si riscosse e, inaspettatamente, trattenne un mezzo sorriso, uno di
quelli che affiorava spesso sul suo volto con un pizzico di
spavalderia: tirò fuori dalla tasca un foglietto spiegazzato
e lo aprì di fronte agli occhi acuti di Yinsen, rivelando le
linee intricate di un progetto conosciuto.
«Ho qualche idea per quell’ “ultimo atto
di sfida”,» annunciò quindi, inarcando
con aria di sfida un sopracciglio nell’osservare la reazione
del suo compagno, intento a studiare dubbioso il progetto.
«Ma prima mi serve un cuore nuovo, Dottor Ho.»
Yinsen distese il volto in quell’espressione a
metà tra il saggio e il furbetto che gli rivolgeva quando
riusciva a sorprenderlo in modo positivo, per poi scrutarlo da sopra il
bordo dei fogli con complicità.
«Da Tony Stark, non mi sarei aspettato niente di
meno,» sorrise, con un cenno di riconoscimento.
A Tony si annebbiò la vista, e sentì a sua volta
lo specchio di quel sorriso che gli inclinava le labbra.
***
14 Maggio 2010, Villa
Stark, 07:15
Il mormorio
dell’oceano filtrava ovattato dalla vetrata, con la risacca
calma e regolare che accompagnava il suo respiro in onde morbide.
Era sveglio da un po’, forse anche più di
un’ora, ma quel suono rassicurante, la carezza delle lenzuola
e il tepore di Pepper lo avevano convinto a non abbandonare
quell’alcova cosciente tra il sonno e la veglia in cui era
adagiato. Era emerso dal sogno senza scossoni, con solo un fugace
fremito della palpebra e un piccolo brivido dovuto all’aria
fresca del mattino sulla spalla scoperta. Tra le scapole aveva
percepito il respiro lieve di Pepper, discosta dal cuscino e
raggomitolata contro di lui, con un braccio a cingergli mollemente i
fianchi.
Non si era ancora mosso di un millimetro per timore di svegliarla,
anche se, dai suoi piccoli movimenti e dal modo in cui aumentava di
tanto in tanto la stretta su di lui, sembrava anche lei nel
dormiveglia. In quel momento, sentì le sue labbra premergli
contro la pelle, a pochi centimetri dal bordo metallico della protesi,
e si lasciò sfuggire un respiro più sonoro, per
poi cercarle la mano e lasciarsi stringere più forte, con
l’impronta morbida del suo corpo contro la schiena. Si mosse
un poco, anche se riluttante a sfuggire al sonno non del tutto
dissipato, ma non si voltò, mentre Pepper riprendeva a
respirare profondamente con le dita ora intrecciate alle sue, pelle
contro metallo.
Tony si riscosse del tutto, trattenendo uno sbadiglio e allungando
cautamente le gambe per stiracchiarsi senza svegliarla.
Avvertì delle fitte moleste ai moncherini e allo sterno,
unite all’indolenzimento
invece gradito che gli attraversava il resto del corpo. Aveva perso il
conto di quante volte avessero fatto l’amore quella notte.
Erano passati dall’assaporare con metodica lentezza
quell’attimo fuggente a scontrarsi insieme quasi con rabbia
contro il tempo perso, cercando di recuperarlo ad ogni bacio, carezza e
affondo che aveva piacevolmente rubato loro il sonno. Si erano
addormentati del tutto solo un paio d’ore prima, sfiniti e
appagati, col primo chiarore bigio dell’alba a rischiarare la
vetrata e le loro membra ancora strettamente annodate.
Tony
non ricordava l’ultima volta in cui fosse rimasto a letto con
qualcuno dopo essersi svegliato. Di solito si svegliava per primo,
scivolava via dalle braccia della donna di turno e si avviava in
laboratorio senza voltarsi indietro, spesso con un mal di testa da dopo
sbornia a tormentarlo. La maggior parte di coloro che si lasciava alle
spalle si accontentava di quella notte di eccessi e di potersi vantare
di essere andata a letto con Tony Stark; qualcuna gli aveva rivolto
sguardi delusi, perché forse, in fondo, ci avevano creduto;
un paio di volte ci aveva forse creduto lui stesso, senza poi prendersi
sul serio.
Non sapeva in cosa stesse credendo adesso, né se fosse
razionale o meno, ma si sentiva avvolto da una nube soffice e
voluminosa che gli alleggeriva i pensieri, offuscando qualunque sua
volontà di lasciare quella nicchia tiepida. La sola idea gli
sembrava assurda, anche se quella piccola parte di lui che ancora gli
bisbigliava suggerimenti infondati all’orecchio lo pungolava
malignamente, dicendogli di alzarsi e andare via di lì come
aveva sempre fatto, e che questa volta non sarebbe stata diversa dalle
altre. Si concentrò sulla stretta di Pepper attorno alla
vita, una cima di sicurezza fissata all’ancora della sua
mano, che gli impediva di sprofondare in quei ragionamenti.
Soffocò del tutto quelle parole illogiche, le
annegò in quel contatto vivo che si insinuava sottopelle
irrorandolo di nuova fiducia; in se stesso, in lei, in un futuro che
non era meno minaccioso, ma che non avrebbe dovuto affrontare da solo.
Trovò infine il coraggio di voltarsi verso di lei, rimanendo
nell’intreccio delle sue braccia. La vide schiudere appena
gli occhi, fissarlo da sotto le ciglia chiare per metterlo a fuoco, e
inclinare appena le labbra in un sorriso ancora assonnato che Tony
ricambiò, anche se in modo molto più esitante di
quanto avrebbe voluto.
Come gli succedeva spesso con lei, la lingua gli si incollò
al palato, e forse non era un fatto del tutto negativo, visto che nel
suo cervello non aleggiava un solo pensiero coerente e la sua banca
dati mentale non era d’aiuto in una situazione a lui del
tutto estranea. Abbassò lo sguardo, vacillando ora di fronte
al suo, con un’improvvisa e spiacevole consapevolezza di se
stesso e del proprio corpo che lo indusse a scostarsi un poco da lei,
senza però ritrarsi completamente. Era del tutto
irrazionale, lo sapeva, ma alla luce del giorno si sentiva
più vulnerabile e con ogni difetto impresso nero su bianco
sulla pelle, come il reticolo plumbeo che spiccava attorno al reattore.
Pepper non lo trattenne, ma fece risalire la mano lungo il suo fianco e
gli sfiorò il volto con la punta delle dita, adesso del
tutto sveglia e anche lei muta, intenta come lui ad assorbire e
interpretare ciò che era e sarebbe successo. Colse un breve
sprazzo d’incredulità sul suo volto, probabilmente
la stessa che stava pervadendo lui.
Non era esatto dire che si sentisse a disagio, ma avvertiva chiaramente
l’euforia e la complicità della notte appena
trascorsa che si affievolivano, lasciando il posto a strascichi di una
realtà sempre più tangibili e opprimenti,
concentrati in noduli plumbei stringenti al centro del suo petto. Erano
impossibili da ignorare, anche se alleviati da una tenue
serenità di fondo che non percepiva ormai da più
di due anni.
Gli occhi di Pepper scivolarono sul reattore, e non si curò
di nasconderlo. Tony percepiva come stessero seguendo corrucciati le
linee violacee e contorte che si diramavano da quel dischetto azzurro e
metallico, accentuate dalla sua tenue luminescenza e dai raggi del sole
che filtravano sempre più intensi nella stanza. Lui si
immerse invece in un altro azzurro, più vivo e sereno, nelle
nebulose cangianti attorniate da costellazioni di efelidi davanti a
lui. Quando i loro sguardi si incrociarono di nuovo, si
sentì in grado di risintonizzare i suoi pensieri, aggirando
il segnale distorto della paura che iniziava ad agitare entrambi,
trasmesso dalla medesima consapevolezza.
Per mesi avevano raccolto i pezzi e li avevano ricomposti uno ad uno,
con pazienza e dedizione, a volte anche sbagliando, fino a colmare i
vuoti e arrivare a un soffio dalla soluzione. E poi avevano ceduto.
Adesso sperava soltanto che così non avessero rotto tutto,
di nuovo, con quel momento di debolezza o coraggio che li aveva
ghermiti entrambi per una notte.
Ormai si trovavano ben oltre il confine di una terra ignota, senza
sapere quanto ancora vi si sarebbero potuti addentrare. Non si pentiva
di averla voluta né di volerla ancora, qui ed ora e nella
sua vita, ma la sua mente andava ad urtare dei cocci aguzzi finora
nascosti nella sabbia: come si guarda al futuro, se non si sa neanche
quanto durerà? Come si porta avanti un progetto senza
conoscerne le variabili e con troppe incognite a punteggiarlo?
L’incudine nel suo petto era pesante quanto la sera prima,
nonostante lui sentisse elio leggero che gli riempiva i polmoni,
comunque troppo debole per permettergli di decollare.
Si sollevò sui gomiti, irrequieto, e Pepper seguì
quel movimento con gli occhi, senza rompere il contatto fisico e visivo
che li univa. Tony schiuse le labbra, ma di nuovo non riuscì
a trarne alcun suono. Le posò quindi su quelle di Pepper e
vi indugiò a lungo, fluttuando sulla superficie di quel
calore quasi potesse trarne ossigeno, e lei gli cinse il collo,
sostenendolo. Si scostò per prima, attirandolo poi a
sé con dolcezza, e Tony adagiò la testa sul suo
seno, con l’orecchio premuto all’altezza del cuore
e il naso inebriato dal suo profumo. Lei prese a districargli le
ciocche di capelli sulla nuca, mentre lui le accarezzava il braccio con
la punta delle dita, con una naturalezza che sembrava dettata da anni,
piuttosto che da una sola notte d’intimità.
Si lasciarono cullare da quei gesti per molti minuti, sprofondando le
angosce nel silenzio, finché non tornarono a guardarsi quasi
in sincrono. La cosa strappò loro un sorriso più
spontaneo, anche se Tony notò che gli occhi di Pepper erano
lucidi. Prima che potesse dar voce a qualunque domanda, per quanto
scontata, lei lo anticipò:
«Devo essere alle Industries tra un’ora,»
mormorò con disinvoltura, accorciando le vedute di entrambi
al presente ed escludendo ancora una volta l’orizzonte del
futuro.
«Io dovrei già essere in laboratorio,»
replicò Tony, imitando il suo esempio, sebbene con
sottintesi più cupi.
Nessuno dei due si mosse, se non per stringersi ancora un po’
in quell’abbraccio caldo, consapevoli che avrebbero solo
voluto prolungarlo per il resto della giornata. Ma così
sarebbe stato come darla vinta al tempo e rimanere davvero immobili,
vanificando tutti i passi avanti per semplice paura.
«Quando torni?» le chiese, scostandosi infine da
lei per permetterle di alzarsi.
Mascherò a stento una smorfia per i muscoli doloranti, e
Pepper si girò sulla pancia, seguendo con velata
circospezione i suoi movimenti. Tony notò che i suoi occhi
indugiarono sul suo torso scoperto fino all’inguine, e lui si
perse a sua volta a seguire la curva della sua schiena interrotta dal
lenzuolo. Quel gioco di sguardi fu interrotto da lei, che riprese
prontamente in mano le redini della situazione prima che potessero
finire a spendere la mattinata in modi più dinamici.
«Forse più tardi del solito…»
rispose, schiarendosi appena la voce. «Ho procrastinato un
po’ di impegni, ultimamente,» aggiunse poi, con un
sorriso sottile.
«Non è da lei, signorina Potts,» la
rimproverò Tony, aggrottando giocosamente le sopracciglia.
«Ha una pessima influenza su di me, signor Stark,»
ribatté lei senza scomporsi.
«Lo prendo come un complimento,»
commentò lui, con uno sbuffo divertito. «Mi
troverai sveglio, come sempre… ma non credo avrai
più problemi a portarmi a letto,» aggiunse,
aprendosi in uno dei suoi sorrisetti maliziosi.
«Per ora l’obbiettivo è farti
alzare,» lo rimbeccò lei, sospingendolo scherzosa
a sottolineare il suo intento e a troncare qualsiasi ulteriore deriva
dei loro piani.
Tony la assecondò brontolando tra sé e si
tirò su a sedere sulla sponda del letto, trascinandosi
dietro un lembo del lenzuolo a coprirsi, mentre Pepper si
alzò rapida per poi sparire subito nel bagno adiacente,
concedendogli solo un fugace scorcio della sua figura nuda e sottile
lambita dalla luce dorata del mattino.
Lui si mise in piedi con più calma, dopo aver recuperato i
boxer dispersi tra le lenzuola ed essersi imposto di non intraprendere
anche la ricerca della benda. Testò con una smorfia la
stabilità delle proprie gambe: precaria, come previsto, e
decisamente dolorosa da mantenere. Accantonò
l’idea di raggiungere Pepper nella doccia, per quanto
invitante, e decise di aspettare il suo turno facendo colazione: forse
dopo il suo mix di antidolorifici e clorofilla sarebbe stato in grado
di non collassare sotto il getto d’acqua calda.
Uscì zoppicando in salotto, riuscendo persino a raccogliere
il bastone abbandonato lì per terra senza rompersi
l’osso del collo nel chinarsi. Raccattò poi una
felpa dallo schienale del divano, e nonostante tutto si
sentì meglio non appena la stoffa spessa andò a
coprire il reattore e la sua cornice plumbea. Si sfregò il
petto indolenzito: adesso che si era alzato, sentiva il respiro corto e
un principio di nausea che gli premeva contro il diaframma contratto,
nonostante avesse assunto il dilitio appena il giorno prima. Storse
contrariato la bocca, ricacciandola indietro e detestando che il suo
corpo gli stesse facendo scontare amaramente la decisione avventata
della sera prima.
Scosse la testa, rimescolando quei pensieri senza riuscire a cacciarli
via, e si concentrò nel preparare un caffè per
lui e un tè per Pepper, dosando i propri movimenti doloranti
e sempre più difficili da controllare, tanto che quasi ruppe
la macchinetta e si lasciò cadere di mano una tazza.
Adocchiò il rilevatore di tossicità sul bancone
della cucina e lo lasciò dov’era, poggiandosi a
braccia incrociate sul piano cottura, in attesa che la sua dose di
caffeina si riversasse gorgogliando nella tazza. Inclinò il
mento verso il basso per fissare la luce del reattore che trapelava
dalla stoffa. Contrasse di riflesso le mani, avvertendo la stretta
più salda della destra, e si umettò le labbra
secche.
A tratti, gli sembrava di percepire ancora il calore delle mani di
Pepper sul petto, e la morbidezza delle sue labbra sul volto ferito e
sensibile; ogni volta si sentiva ondeggiare, instabile, come se quelle
sensazioni potessero strabordare e inglobarlo del tutto, in un
abbraccio vellutato che leniva le piaghe più dolorose. Si
lasciò avvolgere da quell’illusione, e
l’azzurro del suo nucleo sembrò farsi meno freddo.
Riuscì a distogliere lo sguardo dal reattore, riprendendo a
respirare.
***
Pepper
accolse la solitudine della doccia con un misto di sollievo e rammarico
a cui non seppe dare un nome, ma che le rimase addosso, come il profumo
e il sapore di Tony sulla pelle e sulle labbra.
Si era trattenuta dal proporglielo ad alta voce, ma non avrebbe avuto
nulla in contrario se lui avesse deciso di farle compagnia nella
doccia. Da una parte, però, sentiva che avevano bisogno
entrambi di un momento per se stessi, così da schiarire i
pensieri dopo una notte passata a non pensare, o a cercare di farlo il
meno possibile.
Anche adesso, un vuoto insolito le riempiva la testa, animandola
unicamente di stralci fugaci della notte appena trascorsa che ancora le
avvitavano piacevolmente lo stomaco, dandole però anche un
senso di vertigine nel rievocare le mani di Tony sul suo corpo. Non una
volta, neanche nei momenti di trasporto più intenso, aveva
perso il controllo delle protesi, e l’unico marchio visibile
sulla propria pelle era il soffuso segno rosso lasciato da un bacio
più passionale degli altri appena sotto la clavicola. Lo
sfiorò come in trance, quasi credendo di vederlo dissolversi
sotto le dita, riassorbito dalla sua pelle come un desiderio espresso
ma non esaudito. Quello rimase lì, muto testimone di un
qualcosa che ancora non aveva nome, e che forse non l’avrebbe
mai avuto, ma che era innegabilmente reale. Per quanto ancora, non
avrebbe saputo dirlo. Provò l’improvviso, illogico
impulso di cancellarselo di dosso, come se così potesse
cancellare anche tutto il resto, incluso il ricordo di quella notte.
Quella concatenazione di pensieri la turbò, inaspettata, e
la spinse a chiudere di colpo il getto d’acqua, uscendo quasi
a tentoni dalla doccia. Si accorse di non avere lì i suoi
vestiti, né gli accessori da bagno, e non seppe
perché si sentì così irritata nel
dover indossare l’accappatoio di Tony; d’altronde,
non riusciva neanche a capire il perché della
metà dei pensieri che le scorrevano in testa alla
velocità della luce, troppo fugaci per essere messi a fuoco,
ma abbastanza definiti da premerle fastidiosamente tra le tempie come
frecce acuminate.
Uscì nella stanza e poi in salone in modo quasi precipitoso,
legandosi strettamente l’accappatoio in vita e cogliendo la
figura di Tony intento a bere una tazza di caffè oltre la
penisola della cucina. Sollevò la testa con un mezzo sorriso
nel vederla, ma questo si spense rapidamente; Pepper divenne
improvvisamente consapevole di quanto dovesse apparire turbata rispetto
ad appena venti minuti prima, e ogni tentativo di camuffare quel
cambiamento le morì sul volto. Si immobilizzò un
passo dopo la soglia, con le braccia a cingerle il corpo e una marea
che le montava nel petto offuscandole sempre più la vista,
dandole l’impressione di essere sul punto di annegare con le
parole incastrate in gola come bolle d’aria pronte a
sfuggirle.
«Pepper?»
La voce di Tony le arrivò ovattata, e si costrinse a
riscuotersi. Si guardò brevemente intorno, come cercando le
proprie parole disperse nell’atrio della villa, ma non
riuscì a muovere un passo, pur vedendo con la coda
dell’occhio Tony che posava la tazza e si alzava per
avvicinarsi cautamente. Quando
rialzò lo sguardo era davanti a lei, con pieghe preoccupate
a incorniciargli il volto; un fiotto di sollievo la scosse nel vedere
che il reattore era coperto, per poi tramutarsi in una tensione
opprimente che sembrava volerle rubare il respiro. Tony notò
il suo sguardo ed esalò un sospiro muto.
«Vieni qui,» la incitò poi, tendendole
con dolcezza la mano.
Lei esitò appena, prima di accettare l’invito e
stringersi a lui. Sentì le sue labbra che le sfioravano la
tempia, solleticandola col pizzetto, e socchiuse gli occhi nel
tentativo di mettere ordine tra le sue emozioni.
«Come ti senti?» riuscì a mormorare,
senza guardarlo.
Sentì il sussulto di una risatina inaspettata scuotere il
suo petto.
«Stanco, ma non lo riterrei un fatto negativo,»
rispose poi, e Pepper si trovò a sorridere oltre le lacrime
che le erano salite di nuovo agli occhi, per ora invisibili a lui.
«Tu, invece?» continuò poi,
più serio.
Anche senza guardarlo, poté immaginare le sue sopracciglia
aggrottate.
«Confusa,» si risolse a rispondere sinceramente,
dopo un istante di esitazione.
Tony a quel punto la scostò un poco da sé per
guardarla in volto, con un’espressione a metà tra
il contrariato e l’interdetto.
«Avevamo deciso che non fosse… strano,
giusto?» chiese conferma con una traballante nota di dubbio,
facendo scattare ripetutamente l’indice meccanico tra loro
due con fare un po’ agitato.
Pepper
scosse la testa, scacciando quell’interrogativo dallo sguardo
di lui, e il velo umido diluiva il proprio.
«No, non è strano,» lo
rassicurò, aumentando un poco la stretta su di lui a
sottolineare quelle parole e, assieme ad esse, la propria scelta,
ancora immutata. «Ma se possibile ho ancora più
paura di prima, e non sono sicura di… di riuscire a
gestirla,» si costrinse a confessare infine, tornando a
posare la fronte contro il suo collo e fissando di sfuggita il brillio
azzurrino e ai suoi occhi minaccioso oltre il suo colletto.
Le paure che li avevano spinti a rimandare quel momento si
stavano concretizzando davanti ai loro occhi, e Pepper non seppe dire
quale decisione sarebbe stata migliore: se aspettare ancora o non
aspettare affatto, sin dal principio. Quell'interrogativo
grattò sgradevole alla sua porta, come se l'avesse chiuso
fuori troppo a lungo.
Sentì Tony che le cingeva i fianchi in silenzio. Nonostante
la breve esitazione iniziale, lo fece saldamente e con entrambe le
braccia, scacciando le molte paure che Pepper ancora intuiva dietro
ogni gesto. Lo sentì vacillare appena, forse scosso da una
fitta, e lo sorresse prontamente, offrendogli un appoggio per
recuperare l’equilibrio.
«Pepper Potts,» esordì poi lui,
inclinando la testa per catturare il suo sguardo.
««Tu sei la persona più forte che
conosca, e conosco super-soldati, dèi asgardiani e mostri
verdi rabbiosi,» specificò, strappandole una
smorfia imbarazzata. «E io ti ho fatto una
promessa,» aggiunse, più serio, racchiudendole una
guancia nel palmo sano.
Pepper notò la mano artificiale ferma a mezz’aria,
titubante a un centimetro dal suo volto, e la accompagnò
contro l’altra guancia, suscitando nello sguardo di Tony quel
misto di confusione e incredulità che gli tingeva
l’iride di sfumature più dense. Pepper socchiuse
gli occhi e si adagiò nella sua stretta, sentendo la cortina
liquida che le appannava la vista dissolversi a poco a poco, mentre le
parole di Tony sembravano raddrizzare i suoi pensieri uno ad uno,
impedendo loro di annodarsi in grovigli cupi.
«C’è un’unica cosa che mi fa
davvero paura…» riprese d’un tratto lui,
interrompendosi, e Pepper si irrigidì, fissandolo con
rinnovata preoccupazione. «Ovvero: cosa dovrei fare adesso?
Nel senso… per ora
ti
ho fatto un tè, ma come ci si… Dovrei comprarti
dei cioccolatini? O un mazzo di fiori? Oppure ti preparo una cena coi
fiocchi, ma conoscendo la mia discutibile abilità culinaria
non… insomma, non voglio risultare banale, ma neanche
esagerare e… sono impreparato a…»
«Tony.»
Pepper sollevò lo sguardo e lo mise a tacere con due dita
sulle labbra, che si curvarono in una linea vagamente impacciata
mettendo fine al suo flusso inarrestabile, ed ebbe l’onore di
vederlo arrossire
per
forse la terza volta in dieci anni.
«Te
la stai cavando bene, finora,» stabilì poi
scherzosa, facendo scivolare la mano sulla nuca e affondandola nei suoi
capelli, lieta che fosse riuscito a dirottare il discorso.
«Imparo in fretta,» si vantò lui, per
poi ammiccare compiaciuto. «E a te piacciono proprio i miei
vestiti,» la canzonò poi, tendendo con un dito la
cinta del suo accappatoio, allentandola un poco senza però
scioglierla.
Pepper nascose un sorriso, senza contraddirlo, ma la strinse di nuovo,
suscitando uno sbuffo di finto rammarico da parte sua.
«Sono già in ritardo,» gli disse, in
tono non troppo convincente.
«In teoria lavori per
me,» osservò lui, assottigliando lo
sguardo con aria furba.
«In
teoria adesso sono io
il
tuo capo,» lo rimbeccò lei, puntandogli un dito
contro il petto, poco sopra il reattore.
Tony
schiuse la bocca a metà tra il sorpreso e
l’indignato, in un’espressione decisamente comica.
«Questo fatto ha delle potenziali e interessanti implicazioni
che
ci impegneremo ad esplorare insieme nel dettaglio stasera,»
stabilì infine con fare malizioso, pur mantenendo una
facciata offesa.
Pepper
sbuffò trattenendo al contempo una risata, e
riuscì a strapparla anche a lui con un ultimo bacio,
facendola risuonare sulle labbra di entrambi.
***
18 Maggio, Villa
Stark
Nonostante
l’allenamento decennale a cui aveva sottoposto i propri
timpani, Tony era sicuro che, al prossimo riff esplosivo degli AC/DC,
avrebbe corso il serio rischio di farsi venire un cardiopalma da
infarto per il nervoso. Data la natura del progetto a cui stava
lavorando, la cosa sarebbe stata quantomeno ironica.
Così mise in pausa Whole
Lotta Rosie e
avviò una più calma, almeno per i suoi standard,
Rock
The Casbah, tornando poi a concentrarsi sul lavoro di
saldatura che stava lentamente portando a termine a dispetto del
braccio meccanico poco collaborativo e martoriato dalle fitte.
Soffiò sul saldatore, disperdendo i filamenti fumosi che lo
avvolgevano, e controllò che il prisma davanti a lui fosse
ben fissato alla propria base girevole. Gli rimase impressa sul volto
un’espressione critica e non del tutto soddisfatta, e fu
tentato dallo smantellare anche quel terzo modello. Soppresse il suo
lato pignolo e perfezionista e decise di rimandare a dopo il giudizio
definitivo, quando avrebbe avuto almeno più di un decimo
dell’acceleratore di particelle pronto. Aveva una certa
fretta, a detta del 70% riportato dal rilevatore e dai sintomi
spiacevoli in vertiginoso aumento… ma ormai era a un passo
dalla verità, anche se doveva spronarsi costantemente per
non rimandare ulteriormente il momento in cui avrebbe saputo se sarebbe
stata anche una
soluzione.
Un
groppo amaro gli si bloccò in gola nel ripensare a tutto
ciò che lui e Pepper avevano affrontato in quegli ultimi
giorni, ai momenti di quotidianità che riempivano le loro
giornate di una spensieratezza nuova, e dei discorsi più
cupi che invece trovavano sbocco solo nel cuore della notte, sussurrati
a mezze parole tra le lenzuola, con solo la luce fioca e sinistra del
reattore a dissipare il buio. Discorsi costellati di
“se” e di “ma”, di affermazioni
certe fatte poche ore prima che diventavano ipotesi, di “non
lo so” e “non ancora”, di dubbi che
finivano spesso per venir soffocati nei sospiri, che per ora erano una
soluzione sufficiente.
Tony
deglutì a fatica e sollevò bruscamente gli
occhiali protettivi, strappandosi a quei pensieri dolceamari e
lanciò un’occhiata all’ologramma sospeso
dello…
“Starkium,” ribadì tra sé,
dopo aver passato le ultime due ore a rimuginare in sottofondo sul nome
del nuovo elemento ed essersi infine deciso a scartare il decisamente
discutibile “Howardium”.
«JARVIS, hai ricontrollato quei calcoli?» chiese
poi, sfregandosi il mento pensieroso e prendendo a sorseggiare con poca
convinzione un po' di clorofilla.
«Sì, signore. La lunghezza ottimale
dell’acceleratore è 87,4 metri,» gli
confermò, come temeva, anche se in effetti ne aveva
già avuto la certezza la prima volta.
Seguì con lo sguardo il perimetro del laboratorio,
fissandosi poi su una parete mentre tamburellava le dita sui bicipiti.
Emise un sonoro sospiro, per poi rivolgersi di nuovo al computer:
«JARVIS, avvisa Pepper di non… allarmarsi
quando
tornerà,» elaborò, mordendosi
impensierito le labbra.
Si
decise finalmente a mettersi in piedi un po’ barcollante,
calandosi di nuovo gli occhiali sul volto, e si avviò con
decisione verso le cassette degli attrezzi pesanti.
Dopotutto, non era la prima volta che buttava giù una parete
a Villa Stark.
***
23 Maggio, Villa
Stark
Pepper
sollevò di scatto il capo dalle pratiche che stava
visionando sul tavolo del salotto, in un soffuso stato
d’agitazione di cui non riuscì a identificare
subito l’origine.
Capì dopo qualche secondo che era stato
l’improvviso silenzio ad allertarla, visto che le sue
orecchie si erano abituate da giorni al continuo fracasso proveniente
dal piano inferiore, che passava dallo stridio assordante della sega
circolare, al battere incessante delle martellate, a un indefinito
tramestio di metallo e calcinacci. Il tutto inframezzato da qualche
occasionale e colorita imprecazione da parte di Tony.
L’insonorizzazione del laboratorio era stata decisamente
compromessa, da quando il proprietario aveva realizzato un cratere di
circa due metri di diametro nel bel mezzo dell’atrio, e
Pepper scoccò un’occhiata verso il groviglio di
fili, tubi e cavi che emergevano dai suoi bordi come serpenti
stanchi sparsi sul marmo impolverato.
Stava giusto per affacciarsi al piano di sotto – visto che,
l’ultima volta che si era creato quel silenzio sospetto, era
seguita una piccola esplosione che aveva provocato qualche scottatura a
Tony e un infarto del miocardio a lei – ma il suono di un
qualcosa di pesante e metallico che veniva trascinato per terra,
seguito dallo sfrigolare della saldatrice, la convinse a desistere.
Tornò ad occuparsi del bilancio della Expo, che la
attorniava in pile di documenti pronti a collassare, ma la sua mente
rimase impigliata sul sottofondo di traffici e armeggi che Tony stava
portando avanti da giorni, a dispetto del fatto che a detta di Ian
avrebbe dovuto osservare un riposo quasi assoluto.
Avevano vissuto una settimana di pace irreale, da quando Tony aveva
svelato l’enigma lasciatogli da suo padre, e da quando
avevano deciso di lasciar crollare del tutto le loro difese. Quello
slancio ottimistico aveva causato a entrambi un vuoto allo stomaco,
consapevoli di avanzare su una sottile lastra di vetro pronta a cedere,
ma avevano continuato a guardare avanti, e non dove mettevano i piedi.
Si erano trovati a seguire una routine scaturita in modo spontaneo,
come se l’unico effettivo cambiamento rispetto a prima fosse
la possibilità e libertà di cercarsi a vicenda
senza timori, che fosse per un bacio fugace tra un impegno o
l’altro o per una notte intera.
Tony, che aveva continuato ad oscillare per mesi in un limbo di
tensione e rigetto verso il proprio corpo, sembrava aver finalmente
ritrovato un equilibrio, seppur precario. Esitava ancora nel mostrarsi
nudo, si impensieriva quando lei era a contatto con le protesi e
sembrava combattere a giorni alterni con la necessità della
benda sull’occhio, ma aveva smesso di fuggire. Le faceva
capire tra le righe come ciò fosse merito suo, anche se
Pepper era convinta che quel cambiamento non sarebbe potuto partire che
da lui: era orgogliosa nel vederlo più sicuro di
sé, e nel realizzare che stava disperdendo uno ad uno i
demoni che l’avevano assillato per più di un anno
– tranne quello più pressante ancorato al suo
petto e indipendente dalla sua volontà. Si sentiva riempire
di felicità nel rivedere il vecchio Tony, coi suoi sorrisi
scanzonati e le sue battute impertinenti, unite a una
serietà e dedizione di fondo che le erano invece nuove.
Poi, tre giorni prima, l'idillio si era incrinato. Tony si era
svegliato con un’emicrania devastante che l’aveva
costretto a letto per mezza giornata; si era poi messo in piedi a forza
per riprendere il lavoro sull’acceleratore di particelle,
cercando di minimizzare la cosa. La sera stessa aveva avuto un accesso
di tosse preoccupante che l’aveva lasciato senza fiato, e
prima che Pepper potesse chiedergli come stesse, lui aveva sgranato
l’occhio fissandosi il palmo con cui si era coperto la bocca.
L’aveva poi inclinato muto verso di lei, a rivelare le
inequivocabili tracce di sangue che lo macchiavano. Erano rimasti in
silenzio a lungo, come se quel marchio rosso avesse messo a tacere i
loro pensieri.
Non era nulla di inaspettato, ma avevano sentito la cupola di falsa
serenità che li avvolgeva disintegrarsi in un coro di
cristalli infranti attorno a loro.
Ian li aveva avvertiti già da tempo che, quando la
situazione avrebbe cominciato a degenerare, l’avrebbe fatto
rapidamente, ma Pepper non credeva di vederla precipitare a quel modo.
Tony era visibilmente più debilitato con ogni giorno che
passava, e quella notte l’aveva sentito alzarsi per dare di
stomaco. Aveva concentrato ogni energia nel trattenere
l’impulso di seguirlo per stargli accanto, sapendo quanto
ciò lo facesse sentire umiliato, pronta però a
scattare in piedi al minimo accenno di vera necessità.
Quando era tornato a letto un’ora dopo, spossato, si era
accorto di averla svegliata, ma non era neanche riuscito a stemperare
la situazione con una battuta, come faceva di solito. Si era limitato a
coricarsi di peso rivolgendole la schiena, senza proferir parola,
ripiegato su se stesso quasi ad occupare meno spazio possibile. Pepper
aveva taciuto a sua volta, ma l’aveva stretto a sé
con delicatezza, posandogli un bacio rassicurante dietro al collo.
L’aveva sentito tremare, non sapeva se per il dolore, la
stanchezza o la paura. Gli aveva poggiato una mano sul reattore tiepido
come a infondergli forza, a scacciargli dal petto il veleno che lo
infestava. Lui si era rannicchiato ancor di più contro di
lei, cercando le sue mani alla cieca e rifiutando di
mostrarle il volto.
Pepper si obbligò a concentrarsi di nuovo su ciò
che stava leggendo – che non le interessava minimamente, e le
cui lettere stampate sembravano galleggiare in una distesa acquosa
– mordendosi con forza le labbra per non lasciarsi sopraffare.
Tony non era l’unico ad avere una promessa da mantenere. Si
rifiutava di cedere di nuovo al dolore come si era trovata a fare
più volte nell’ultimo periodo. Ma era riuscita a
trovare proprio in lui la forza per non lasciarsi crollare a terra; lui
che ormai faceva fatica anche a stare in piedi o a respirare, e che
passava le giornate in laboratorio a combattere contro
un’ingiustizia beffarda, per evitare che tutti i traguardi
raggiunti venissero vanificati.
Doveva solo raggiungere l’ultimo e, qualunque fosse stato,
Pepper giurò a se stessa che sarebbe rimasta al suo fianco.
***
23 Maggio, Villa
Stark
L’ennesimo
silenzio prolungato e sospetto che avvolse il salone la fece rimanere
col cuore in gola, in un riflesso condizionato. Sperò che
Tony non avesse di nuovo rischiato di tagliare a metà il
laboratorio per un fascio di particelle indirizzato male, e
sussultò nel sentire una sonora esclamazione che
riecheggiò fin lì, inquietantemente ambigua.
Subito dopo, dei passi pesanti risuonarono sulle scale, convincendola
ad alzarsi in piedi.
«Signorina Potts!» esordì Tony, non
appena mise piede nell’atrio, e già quel preambolo
la mise sul chi vive.
Si arrestò affannato sul primo gradino, evidentemente
stremato per lo sforzo, ma si raddrizzò subito, avanzando
con passo un po’ sbilenco, ma deciso.
«Posso chiederle un favore che le farà quasi
sicuramente dare di matto?» continuò, sempre in
quel finto tono formale.
Pepper batté le palpebre e prese atto di come Tony,
contrariamente alle sue aspettative dopo l'ennesima notte travagliata
che aveva trascorso, sembrava sprizzare energia da tutti i pori, e poco
mancava che iniziasse a fare il giocoliere col bastone da passeggio,
che faceva volteggiare qua e là mentre teneva
l’altra mano dietro la schiena.
«Non è una… premessa
incoraggiante,» si forzò a dire, sentendo una
contrazione più violenta del cuore che quasi le
fermò il respiro.
Guardò Tony negli occhi e vide, dopo giorni di sguardi
spenti e opachi, quel brillio vivace che portava alla luce le pagliuzze
dorate nella sua iride, e che la rendeva specchio di ogni singola
variazione d’umore che lo sfiorava. E in quel momento era
raggiante, anche se si sforzava di mascherarlo.
«Tony?» riuscì a dire soltanto, e il suo
cuore si contrasse per la seconda volta in modo doloroso, quasi se
volesse trattenere qualunque emozione positiva tentasse di farlo
battere più forte.
Lui sorrise senza più remore, fermandosi di fronte a lei.
«Mi servirebbe una mano con questo,»
proferì infine, con la voce che traballò appena,
scossa da emozioni che neanche lui riusciva del tutto a contenere.
Tolse la mano da dietro la schiena e a Pepper quasi cedettero le gambe
nel cogliere la sfumatura azzurrina di ciò che stringeva nel
palmo. Un reattore, poco più piccolo di quello incastonato
nel suo petto, con la forma di un triangolo incastonato nel nucleo
ancora spento. Pepper porto le mani a coprirsi la bocca e dovette
ordinare ai propri polmoni di riprendere a respirare, o sarebbe svenuta
per l’asfissia. Tony continuava ad osservarla sornione,
godendosi ogni singolo mutamento che attraversò il suo
volto, dalla perplessità, alla meraviglia, allo sconcerto
più totale, fino al sorriso di pura gioia che la
illuminò quando realizzò ciò che stava
guardando.
«È… insomma... vuol dire...»
cercò di formulare, senza successo.
«Sì,» rispose semplicemente lui.
«È la soluzione,» completò
poi, con voce di nuovo malferma.
Prima che potesse aggiungere altro, Pepper lo avvolse abbraccio
impetuoso, tanto stretto da togliere il fiato a entrambi, e a quel
punto il cuore di Pepper volle recuperare tutti i battiti persi e ne
mandò uno che sembrò assordarla completamente,
lasciandola con gli occhi lucidi. Tony
la invitò ad alzare il viso, sciogliendo la propria
espressione un po’ accigliata solo nel vederla sorridere
commossa. Lei si asciugò gli angoli degli occhi, scacciando
le lacrime che vi erano salite, e tornò ad affondare il
volto nella sua spalla.
«Cosa dovevi chiedermi?» realizzò poi,
sollevando lo sguardo.
L’espressione di Tony si tese in una smorfia che rasentava il
colpevole.
«Ecco, dovrei sostituire il reattore vecchio e… ho
bisogno del suo aiuto,» disse in fretta, scrutando a fondo la
sua reazione.
Pepper rimase interdetta per un istante, col pensiero che corse alle
implicazioni di quella richiesta prima che potesse fermarlo, gli occhi
fissi sul circoletto azzurrino in mezzo al petto di Tony.
Avrebbe dovuto togliersi il reattore. Più precisamente,
avrebbe dovuto rimuoverlo lei.
L’aria
che la circondava sembrò solidificarsi, diventando
impossibile da respirare, e strinse di riflesso la stoffa della
maglietta di Tony, che di rimando serrò la mascella,
incupendosi. Non disse nulla, e Pepper percepì la
rigidità dei suoi muscoli: sapeva che la mente di entrambi
era corsa allo stesso giorno, quello di cui si impegnavano a ignorare
l’esistenza, spesso fallendo.
«Sei sicuro che…»
«Al 95% circa,» la anticipò lui, e la
mancanza di una certezza assoluta si materializzò,
così imponente da schiacciarla. «È
più di quanto potessi sperare. Molto di
più,» sottolineò nel vedere la sua
dubbiosità, stringendole le braccia a dare ancor
più forza a quel concetto.
Pepper prese un respiro, che fu più un’immissione
forzata di qualche particella d’aria nei polmoni. Le
sembrò di aver inalato degli spilli.
«Avevi detto che non mi avresti più obbligata a
compiere operazioni chirurgiche poco ortodosse,» disse,
costruendo un tono disinvolto minato dalla sua gola costretta.
Tony soffiò aria dal naso fissandola combattuto, con le
labbra compresse in una linea bianca e sottile. Rimase serio, senza
cavalcare la flebile onda d’ironia che gli aveva offerto.
«Non te lo chiederei mai,
se potessi chiederlo a qualcun altro,» disse poi, sfuggendo
il suo sguardo.
«Ian
è sicuramente più qualificato
per…»
«Pepper, vorrei che fossi tu
a
farlo,» la interruppe Tony, agitandosi d’un tratto,
e lei avvertì il fugace tremito delle sue mani.
Attese
un continuo sapendo che sarebbe arrivato, seppur coi suoi tempi, e Tony
sembrò cambiare idea tre o quattro volte circa alle parole
da pronunciare, prima di dar loro voce.
«È molto probabile…» la frase
scemò nel vuoto, e ricominciò: «Potrei
avere un… un attacco di panico quando…»
fece un gesto verso il reattore incastonato nel suo petto, per poi
premersi il palmo sull’occhio come se gli fosse venuto mal di
testa, nascondendosi al contempo.
Pepper gli scostò la mano, stringendola e vincendo la sua
lieve resistenza, così da guardarlo di nuovo direttamente.
«Che succede se non funziona?» chiese, domando
l’instabilità della propria voce.
Lui scosse appena la testa. Per un momento sembrò sul punto
di non rispondere, per poi scrollare le spalle:
«Nulla,» esalò, stirando di nuovo la
bocca. «Assolutamente nulla. Mi rimetti il reattore vecchio
prima che io vada in fibrillazione… e siamo punto e a
capo,» concluse, più piano, quasi a non voler
concretizzare quella possibilità.
Pepper lo osservò, cercando di determinare se quella fosse o
meno una bugia, per poi realizzare che, a quel punto, non era
più importante: non c’erano altre strade da
percorrere. E lo sguardo di Tony era sincero, fedele alla promessa di
non mentirle.
Si portò la sua mano alle labbra, sfiorando la sua pelle
segnata da piccole cicatrici e inspirandone il tenue sentore di ferro
bruciato. Poi annuì, stringendo le palpebre.
«D’accordo,» esalò contro le
sue nocche, prendendogli in un guizzo di coraggio il reattore di mano.
Era più leggero di quanto si aspettasse, e freddo contro il
suo palmo, in contrasto con il tepore che aveva imparato ad associarvi.
Tony la fissò per un lungo istante da sotto le ciglia scure,
in modo indecifrabile, per poi scostarsi da lei e farle strada senza
una parola verso le scale del laboratorio. Pepper scollegò
il cervello, lasciandolo a galleggiare nel buio nel tentativo di
estraniarsi almeno per quel breve tragitto ancora doloroso, reso meno
arduo dalla guida di Tony.
Non appena furono entrati, lui si sedette cautamente sulla sua solita
sedia, iniziando a trafficare con alcune schermate. Pepper tenne gli
occhi appuntati sul nuovo reattore stretto tra le sue mani –
il cuore di Tony, che gliel’aveva affidato di nuovo
– e cercando di escludere dal proprio campo visivo il
laboratorio e il vecchio reattore. Riusciva a sentire la tensione che
le pizzicava la pelle, come se volesse strappargliela di dosso, e
aumentò la presa sul cilindro metallico tra le sue mani.
Si accostò a Tony mentre si toglieva la maglietta, rivelando
il torace invaso di viticci gonfi e violacei e ormai impossibili da
contrastare, anche con la clorofilla e il dilitio; lo aiutò
ad assicurare gli elettrodi sul petto, proiettando il suo battito
cardiaco su uno schermo olografico. Anche ai suoi occhi inesperti
sembrava irregolare, e più debole di quanto avrebbe dovuto,
ma forse era solo suggestione.
«Ok, stavolta sarà più
facile,» esordì Tony, guardando ovunque tranne che
nei suoi occhi. «Niente allegro chirurgo, è
più come… come Tetris: io lo tolgo, tu lo
incastri, ed è fatta,» spiegò,
sforzandosi di mantenere un atteggiamento spigliato a dispetto della
pupilla dilatata nella quale si scorgeva chiaramente la sua profonda
apprensione.
Pepper annuì appena, incapace di elaborare una risposta che
potesse essere rassicurante. Tony si umettò le labbra,
sfregandosi nervoso il pizzetto, e fece presa sul bordo del reattore
nel suo petto con la punta delle dita, congelandosi nel gesto di
sbloccarlo. Lasciò ricadere la mano, inspirando a fondo dal
naso in un moto frustrato, e Pepper gli sfiorò la spalla,
non seppe se per dare sostegno a lui o per trovarlo lei.
Realizzò in quel momento, ripensando alla spiegazione di
Tony, che avrebbe potuto sostituirlo anche da solo. Eppure,
l’aveva voluta lì, come sempre. E anche lei voleva
esserci, a dispetto di tutte le proprie paure.
«Sei… sei pronta?» le chiese in quel
mentre, accennando al nuovo reattore nella sua mano e cercando di
spacciare quell’esitazione come qualcosa di voluto.
Pepper si riscosse e incrociò il suo sguardo, sentendosi
colma di una determinazione nuova che quasi la fece tremare.
«Sì,» rispose, con una voce chiara e
salda che sembrò cogliere di sorpresa Tony.
Era pronta davvero, qualunque sarebbe stato l’esito. Non a
perdere lui, quello mai – le mozzava il respiro il solo
pensiero – ma era pronta a rimanere, così come lui
era pronto a non arrendersi.
Un po’ di quel vigore sembrò trasmettersi a Tony,
che annuì con un unico cenno del capo e afferrò
di nuovo il reattore, più saldamente stavolta. Lo
ruotò fino a udire un lieve click,
per poi tentennare una singola frazione di secondo prima di estrarlo
con delicatezza dal suo alloggio. Lo vide trattenere il fiato come se
fosse in apnea. Il suo volto si fece subito cereo e la
cavità vuota sembrava occhieggiare maligna, quasi volesse
risucchiare entrambi, rievocandole ricordi vividi che era riuscita a
seppellire quasi del tutto. Ma quello non era un ricordo, e quella non
era una fine; non adesso, non stavolta.
Posò
con mani molli ma ferme la base del nuovo reattore sul bordo metallico
dell’alloggio, allineando le scanalature di aggancio; la mano
di Tony si posò allora sulla sua, accompagnandola nel
movimento e inserendo insieme il nuovo cuore al suo posto. Vi fu un
ultimo click metallico
che echeggiò definitivo nel laboratorio.
Tony
riprese a respirare appena, stringendo ancora la sua mano poggiata sul
reattore spento. Aveva funzionato? La domanda aleggiava inespressa tra
loro, entrambi con gli occhi puntati sul dischetto metallico inerte che
racchiudeva le loro speranze.
Un flebile guizzo azzurrino lo attraversò, per poi spegnarsi
con un sibilo.
Tony quasi boccheggiò e sembrò mancare un colpo,
ma i monitor non mandarono alcun segnale d’allarme, mostrando
solo il suo battito innaturalmente accelerato.
Poi, un lumicino stabile si accese nel nucleo, espandendosi pian piano
come un sole in miniatura, andando a riempire l’intera
circonferenza del reattore e illuminandola di un azzurro vivo e
limpido, pulsante di energia.
Tony, a quel punto, le stava quasi stritolando la mano. Alzò
di scatto lo sguardo su di lei, con un sorriso che titubava agli angoli
delle sue labbra, incerto se realizzarsi o meno, esattamente come
quello che Pepper sentiva sulle sue.
Lanciarono in sincrono un’occhiata agli schermi olografici,
leggendo con rapidità i dati in cerca di
un’anomalia, di una discrepanza, in attesa di un annuncio
negativo di JARVIS o di una reazione inaspettata del corpo di Tony. Non
accadde nulla. L’unico movimento era il 100% di un verde
brillante che lampeggiò infine in un angolo, a indicare la
compatibilità completa del reattore e del nuovo elemento.
Tony si coprì la bocca con la mano metallica, le
sopracciglia strettamentecontratte in un’espressione
incredula, e cercò il suo sguardo, rivelando
l’iride lucida e vinta dall’emozione.
«Funziona,» riuscì a esalare, con un
filo di voce.
Pepper percepì quella parola scrosciare come acqua nel
deserto, salvifica, fonte di sollievo e a lungo attesa, come le lacrime
che le sgorgarono all’istante lungo le guance, frenate solo
dal sorriso che si aprì sul suo volto. Tony
liberò una risata leggera e commossa, soffocata dal suo
palmo che trattenne forse anche un singulto, e le sfiorò la
guancia bagnata.
«Queste sono di nuovo lacrime di gioia?» le fece
notare, con dolce ironia.
«Direi di sì,» rispose lei, chinandosi
per abbracciarlo e trovando rifugio contro il suo petto irrorato di un
azzurro di nuovo accogliente. «Le tue?» lo
stuzzicò poi, strappandogli uno sbuffo.
«Può darsi,» le concesse con un sorriso
un po’ umido, prima di baciarla con inaspettata tenerezza.
«E adesso?» mormorò Pepper non appena si
furono separati, accarezzandogli il dorso della mano col pollice.
Quella domanda riecheggiò tra loro, come molto tempo prima,
e stavolta spalancò la porta sul futuro che aveva tenuto
chiusa fino ad allora.
«Adesso ricominciamo,» replicò Tony, con
un sorrisetto scaltro e un brillio nuovo nello sguardo.
Pepper poggiò la fronte contro la sua, annuendo tra le
lacrime, con la luce azzurrina e rassicurante del reattore che danzava
sui loro volti e sulle loro dita intrecciate.
"If
I
fall, get knocked out
Pick myself
right off the ground
When they turn
down the lights
I hear my
battle symphony
All the world in front of me
If my armor breaks
I'll fuse it back together"
[Battle
Symphony – Linkin Park]
27
Maggio, Stark Industries, Los Angeles
«Quindi
rifiuta?»
«Rifiuto?»
«Lo
chiede a me?»
«E
a
chi, sennò?»
«Si
decida.»
«Uh,
ok… sì.»
«Sì,
accetta, o sì, rifiuta?»
«No, io
non… rifiuto!
Rifiuto.»
Tony
alzò le mani in un gesto perentorio, a sottolineare le sue
parole definitive.
«Ok,»
replicò Ian, annuendo meditabondo.
«Posso… chiederle perché?»
Tony si
grattò la nuca, sfuggendo il suo sguardo per puntarlo al di
fuori della
vetrata, concentrandosi sul viavai metodico delle macchine sulla vicina
tangenziale.
Quello era esattamente il tipo di discussione che avrebbe voluto
evitare. Non
aveva resistito alla tentazione di presentarsi senza preavviso al
dipartimento
di Ian alle Industries, e si era compiaciuto della sua reazione di
stupefatta
meraviglia del medico nel vederlo lì, in condizioni fisiche
decisamente migliori del
previsto – anche se il bastone era un appoggio ancora
irrinunciabile. Era
sicuro di aver colto un brillio lucido negli occhi di Ian, che prima
ancora
di chiedere lumi sul perché e il percome fosse ora in ottima
forma, gli aveva
stretto la mano con raro calore, del tipo che Tony avrebbe giurato di
poter
sentire anche con l’arto metallico.
Dopo le
dovute spiegazioni, non sapeva bene come, erano finiti a parlare di
occhi e
congegni oculari; un argomento che, con sua stessa sorpresa, avrebbe
preferito
liquidare al più presto.
«Ormai
non mi sembra… così necessario,»
sbuffò infine, sempre senza guardarlo.
Ian
incrociò le braccia, inclinando il mento per scrutarlo da
oltre le lenti degli
occhiali, con le iridi acquamarina che lo stavano probabilmente
scannerizzando
dall’interno.
«È
buffo,» commentò infine, con un verso
indecifrabile a coronare
quell’affermazione.
Tony
alzò un sopracciglio mentre sprofondava un po’ di
più nella poltroncina.
«Io
sarei buffo?» nel dirlo si
puntò un indice sul petto, senza sapere se
dovesse sentirsi offeso o meno. «Questa mi mancava.»
«La
sua
risposta è buffa, perché è esattamente
quella che mi ha dato lui,» aggiunse
quindi il medico, scrollando le spalle. «Dice che ormai non
è più necessario,
che ha trovato un suo equilibrio.»
«Il
suo
amico è veramente strambo,» commentò
Tony, circospetto.
«Non
immagina quanto,» sorrise Ian. «Ma è
sicuramente più sincero di lei,»
osservò
pungente.
Tony
incassò la stoccata, facendo schioccare nervoso la lingua.
«La
verità, Doc?» esordì retorico,
inclinando appena la testa di lato. «Non so se
ho davvero trovato un equilibrio, anche perché mi sento
ancora un funambolo in
un circo, ma… non voglio rischiare,»
proferì infine, sbuffando aria dal naso.
«Potrei provarci, ideare qualcosa – i progetti ci
sono – operarmi…» esitò,
tamburellando con le dita sul reattore. «E se poi qualcosa
andasse storto?»
Scosse
la testa, a sottolineare la sua reticenza, e Ian annuì di
rimando, accettando
in silenzio quella decisione.
«Stephen
ha detto che, andando lì, potrebbe sistemare anche i difetti
“residui”, e non
si aspetta nulla in cambio,» aggiunse, spostando gli occhi
sulla sua gamba.
Tony
abbassò a sua volta lo sguardo, fissandolo sulle giunture
meccaniche della
caviglia che facevano capolino sotto l’orlo dei pantaloni.
«Non
so, Doc,» tentennò, arricciando le labbra.
«Sono un uomo di scienza, non mi ci
vedo a fare il guru della montagna. A ciascuno il suo,»
concluse in tono
deciso.
«Come
vuole, ma ci pensi. E glielo dico da scettico,»
specificò Ian, trattenendosi
visibilmente dall’aggiungere altro.
«Kathmandu
non va da nessuna parte,» commentò Tony, in cuor
suo piacevolmente sorpreso
dalla premura del medico, che appariva più allegro di quanto
l’avesse mai
visto. «Comunque, c’è un certo pirata di
mia conoscenza che potrebbe darmi una
mano a reperire almeno un occhio del colore giusto. Me lo
deve,» continuò,
scrocchiandosi con indolenza le dita e godendosi il sibilo delle
giunture ben
funzionanti.
«E per
il resto?» continuò Ian, facendo un cenno al suo
volto.
Tony
alzò le spalle, sfiorando di riflesso la benda e percependo
i bordi spessi e conosciuti della cicatrice
sottostante.
«Gliel’ho
detto, Doc: il sinistro è sempre stato il mio profilo
peggiore,» concluse dopo
una pausa studiata, sollevando l’angolo delle labbra in un
sorrisetto.
Ian
scosse la testa, ma il suo sbuffo esasperato sfumò in una
risata.
***
29
Maggio, Villa Stark
L’oceano
scintillava vivace, irrorato dalla luce di un intenso tramonto, e i
riflessi
parevano ammiccare dalla cresta delle onde verso la terrazza a picco
sulla
scogliera e addobbata a festa, con una lunga tavolata a occuparla.
Tony,
da sotto il ridicolo cappellino dorato con un “40”
rosso-fluo che gli era stato
calcato in testa a forza da Rhodey, esibiva un cipiglio contrariato e
ben poco
in accordo col clima goliardico che lo circondava.
«Questo
è tradimento,» sibilò per la terza
volta all’orecchio di Pepper, seduta
accanto a lui a capotavola.
Lei per
la terza volta alzò gli occhi al cielo, che adesso iniziava
a scurirsi
lasciando intravedere le prime stelle, per poi fissarlo col mento
poggiato
sulla mano e un sorrisetto saputo a distenderle le labbra.
«Ti ha
fatto piacere, adesso puoi ammetterlo,» sentenziò,
battendo le ciglia con deliberata
lentezza a sottintendere quella sua affermazione.
Tony
non rispose, s’impegnò a non lasciar ricadere la
mandibola nel vederla
ammiccare in quel modo languido, e addentò la sua pizza con
espressione un po’
imbronciata, minata però dal lieve assottigliarsi del suo
sguardo, che gli mise
in risalto le rughe del sorriso.
«È la seconda?» gli chiese vagamente
minaccioso Ian, due
posti più in là, con un cenno al cartone vuoto.
«La
prima,» mentì bofonchiando Tony, mandando
giù
l’ultimo boccone della sua terza fetta di pizza con
un’espressione angelica non
molto convincente.
Ian assottigliò lo sguardo, rendendolo abbastanza
appuntito da perforare il titanio, ma non commentò, e Tony
accolse di buon grado
il richiamo provvidenziale di Bruce, che, dopo essersi trattenuto fino
ad allora, si sporse infine verso di lui chiedendogli con fare
noncurante i
dettagli tecnici dello Starkium. Tony
sfoggiò un sogghigno tronfio e gli fece cenno di
spostarsi vicino a lui, così da non dover gridare formule e
teoremi da una
parte all’altra del tavolo affollato.
Doveva ammettere che, in fondo, molto in fondo, la
serata non gli stava dispiacendo. Si era quasi dato alla fuga quando,
di
ritorno da Los Angeles dopo aver sistemato con Kyle i suoi ultimi
inconvenienti
legali, si era ritrovato mezzo quartier generale dei Vendicatori in
casa –
oltre a una quantità esagerata di festoni rosso-oro, una
mole di cibo in
grado di sfamare un esercito, e una pioggia di coriandoli che
l’aveva
investito non appena varcata la porta della villa. Pepper
l’aveva riagguantato tempestivamente per un orecchio, Happy
aveva
chiuso a chiave la macchina, e Rhodey gli aveva tagliato ogni via di
fuga. Tony si era lasciato trascinare docilmente a
capotavola solo perché era rimasto imbambolato nel vedere il
vestito verde che
indossava Pepper, che aveva il potere mistico di inibirgli la
facoltà decisionale.
Ma, dopotutto, non gli stava dispiacendo così tanto,
nonostante l’astio malcelato per il proprio compleanno
– o forse proprio perché
per una volta sentiva di aver più di un valido motivo per
festeggiarlo. Per
esempio, la possibilità di poterlo
festeggiare.
E tra un
brindisi, un applauso, un finto singolar
tenzone con Nat, una gara di bevuta – persa – con
Thor, un letterale braccio di
ferro – in pareggio – con Cap, un bacio
sovrappensiero a Pepper che aveva
scatenato un’ovazione collettiva, e un quasi-infarto nel
ritrovarsi persino
Fury e Coulson alla porta, il pomeriggio era trascorso rapido,
accompagnato dalla parabola variopinta del
sole calante che si tuffava nell’oceano.
Adesso, anche se teneva per principio il broncio con Pepper, avrebbe
voluto prolungare quei momenti, col timore nascosto che potessero
sfuggirgli, o che fossero solo un sogno un po' troppo vivido; erano
dubbi che gli covavano nel cuore, ma che per
quella sera tenne a bada, soffocandoli nelle loro braci.
Rischiò seriamente di perdere la sua dignità
superstite
quando, verso le undici, gli fu piazzata sotto il naso una torta panna
e fragole
di dimensioni mastodontiche – con gioia sua e disperazione
completa di Pepper – sommersa
di candeline e accompagnata da un pacchetto rosso-oro sospetto,
consegnato da Nataša “da parte della
boy-band”. Cercò di rimandare il
momento di scartarlo, meditando di farlo in privato, ma lo sguardo
intimidatorio della donna lo convinse a cedere per evitare gravi
contusioni. Mascherare
l’emozione che gli avviluppò la gola
nell’aprirlo si rivelò uno dei compiti
più
ardui che avesse mai dovuto affrontare, ma mantenne un aplomb
impeccabile nel rivelare una cornice dello stesso rosso
dell’armatura, firmata
con un pennarello dorato dai Vendicatori. Racchiudeva la foto che aveva
mandato allo SHIELD, quella che sembrava ormai una vita fa, quando si
era messo in piedi per la
prima volta, sorridente e vittorioso. Era riuscito a ringraziare solo
con un
cenno del capo, rimanendo immobile per quasi un minuto intero, per poi
decidersi a stringere la mano a Steve e Clint, dare una vigorosa pacca
sulla
schiena a Bruce e rifilare un abbraccio a tradimento a Nat, per poi
negare
strenuamente ogni suo coinvolgimento emotivo.
Fu verso
mezzanotte che si decise infine a
mettere in atto il piano incompleto che aveva provveduto ad
architettare in
quei giorni, spronato anche da quel regalo imprevisto.
Reclamò l’attenzione di tutti
battendo una forchetta contro il proprio bicchiere e tutti rivolsero la
testa verso di lui, in un misto di
curiosità e sorpresa. L'euforia ormai quasi
dimenticata di trovarsi sotto i riflettori lo investì di
nuovo, piacevolmente. Si esibì in un sorriso placido,
attendendo che il chiacchiericcio sfumasse, per poi schiarirsi la voce
e
iniziare a parlare:
«Dunque, tenendo conto del fatto che mi avete sequestrato
contro la mia volontà, e che avete occupato illegalmente la
mia villa…»
Un coro di proteste indignate si levò dai suoi ospiti, e
si affrettò a continuare:
«… ritengo doveroso dirvi che tutto ciò
è uh… dirvi che è
stato… inaspettato e sorprendentemente piacevole,»
disse in fretta, decidendosi
a togliersi quel ridicolo cappellino sotto lo sguardo truce di Rhodey.
«Bastava un grazie, Stark!» gli gridò
Steve dal fondo del
tavolo.
«Non è un “grazie”!»
protestò lui, sentendosi d’un tratto
accaldato. «È un… un semplice
riconoscimento per…»
Tony s’interruppe in un secco sospiro, rimediandosi
qualche occhiata divertita, e notando quelle pungenti di Pepper che
sembravano
pungolarlo metaforicamente.
«È un grazie,» disse infine, con un
sorriso incerto.
Fu un bene che la maggior parte dei presenti avesse un
udito superiore alla norma, o quella frase pronunciata a mezza voce si
sarebbe
potuta perdere nello scroscio della risacca.
«Dobbiamo segnarlo sul calendario come “il giorno
in cui
Tony Stark disse grazie”?» ironizzò Nat,
impassibile se non per l’angolo delle
labbra inclinato furbescamente.
Tony alzò l’occhio al cielo, mangiandosi una
decina di
risposte sagaci e allargando le braccia con fare sconfitto, a dire di
procedere
come meglio credevano, per poi riprendere:
«Comunque… tutto ciò è stato
piuttosto… inaspettato, e
non mi piace molto dover rivedere i miei piani, ma in questo caso
farò
un’eccezione, visto che sono bravo a improvvisare,»
sogghignò, attivando uno
dei proiettori olografici esterni tramite JARVIS. «Chi si
offre volontario?» li
invitò poi, godendosi le loro espressioni perplesse, in
particolare quella di
Pepper, anche lei all’oscuro di tutto. «Nessuno?
Bene, allora scelgo io,»
dichiarò fermamente. «Partiamo da lei,
Agente.»
Si alzò in piedi e indicò col bastone da
passeggio
Coulson, che quasi sbarrò gli occhi.
«Io?»
«Visto che ho il sospetto che Audrey ce l’abbia
ancora
con me per la faccenda delle uh… vacanze interrotte,
ho pensato che
magari potevate aver voglia di farvene una… che so, alle
Bahamas?» buttò lì,
suscitando un’espressione basita sul suo volto quando il file
digitale di due
biglietti aerei si materializzò nell’ologramma.
Prima
che lui potesse replicare, e vedendo che lampi di
comprensione iniziavano a balenare sui volti dei presenti, si
affrettò a
continuare, stavolta sorridendo apertamente:
«Miss Russia,» chiamò, indicando Nat,
«per te ho qualcosa
di più pratico. Non ho avuto il tempo di ultimarla
fisicamente, ma…» l’ologramma
cambiò, mostrando il modello di una tuta stealth su misura,
completa di
accessori letali, e la spia rimase a metà tra
un’esternazione di stupore e una
di vivo interesse per quel regalo che incontrava decisamente i suoi
gusti.
«Carina, ha anche lo spray al peperoncino
incorporato?»
commentò infine, sorridendo maligna.
«Possiamo aggiungerlo,» le accordò Tony
con un occhiolino, spostando poi il
bastone in direzione di Barton. «Guglielmo Tell, ti ho
rifatto il corredo,
prego, non c’è di che,»
annunciò, mostrando un altro progetto, stavolta di un
arco hi-tech con frecce abbinate, e quasi poté vedere gli
occhi di Clint che
sbrilluccicavano, con un cenno d’assenso soddisfatto e grato
nella sua direzione.
A quel punto, la cosa sembrava essersi trasformata in uno
spettacolo di varietà, con Tony che faceva da conduttore e
loro che attendevano
trepidanti il proprio turno in quel gioco a premi improvvisato.
«Brucie,» continuò Tony con voce
più acuta del normale,
pescando il “partecipante” successivo, che quasi
rimpicciolì nel sentirsi
chiamare. «Devi sapere che sono rimasto traumatizzato dalla
tua totale
mancanza di pudore quando il tuo amichetto verde decide di arrabbiarsi,
quindi…» L’ologramma
sfarfallò, e mostrò quello che a prima vista
sembrava un normalissimo
paio di pantaloni. «Sono in fibra di titanio elastica, e
dovrebbero resistere a
Hulk e preservare la tua dignità in ogni
circostanza,» lo punzecchiò, mentre
lui assumeva un colorito fortunatamente porpora e non verdastro, poi
sbottare
in una risatina imbarazzata.
«Tony,
sei il peggiore,» commentò infine, con un
sospirò
bonario, mentre lui già proseguiva con un ghigno:
«Point Break, non ho idea di cosa si regali a un dio
asgardiano,» esordì, e il dio in questione lo
scrutò interessato, per poi
accigliarsi profondamente nello scorgere la proiezione di quella che
sembrava,
e indubbiamente era, una tavola da surf. «Quindi…
uh, mi perdonerai la poca
fantasia,» concluse, trattenendo
l’ilarità nel vedere il cipiglio perplesso di
Thor, che come sospettava non aveva ben colto l’utilizzo di
quell’aggeggio
midgardiano.
«Grazie, Stark, farò buon uso di questa nobile
arma!»
dichiarò poi, con voce roboante e senza esitazione, e
stavolta anche gli altri soppressero una
risata.
«Rhodey,»
riprese Tony, voltandosi verso l’amico senza celare del tutto
l’affetto che gli
illuminò lo sguardo, e lui incrociò le braccia in
attesa, sforzandosi di
mantenersi impassibile. «Il tuo non è un vero e
proprio regalo,» esordì,
facendogli aggrottare le sopracciglia. «E diciamo che non
c’è più bisogno di
sostituire Iron Man, perché, beh...»
Tentennò appena e tamburellò soddisfatto le dita
sul
nuovo reattore. «Perché sono un genio e ho
risolto il problema. Ma, magari, non ti
dispiacerà tenere War Machine e farmi da stuntman mentre mi
rimetto in sesto,»
concluse in fretta, lasciandolo a bocca aperta, esterrefatto.
Tony gli rivolse un sorriso raggiante, prima di rivolgersi verso il
successivo "vincitore":
«Happy, non mi sono dimenticato: per te c'è quella
Rolls Royce d'epoca che mi chiedi di poter guidare da circa quindici
anni, fanne ciò che vuoi,» lo invitò,
lanciandogli le chiavi dall'altra parte del tavolo.
Il suo autista le agguantò al volo per un pelo, con un
sorriso estasiato a illuminargli il volto arrossato da un paio di
bicchieri di troppo.
«E tu,
Barbanera,» Tony
girò sui tacchi, piantando l'indice verso di lui con fare
minaccioso. «Ce
l’hai davanti, il tuo regalo!» esclamò
poi, indicandosi con un sogghigno
compiaciuto e suscitando l’ilarità generale.
Fury
alzò l’occhio al cielo, ma soffocò un
accenno di sorriso che distese il suo volto costantemente corrucciato.
«E con
questo, direi che abbiamo… oh,un momento!» Tony
s’interruppe, frugando nella tasca
interna della giacca ed estraendo ciò che aveva recuperato
di soppiatto assieme alle chiavi, in uno
dei rari attimi in cui era riuscito a svicolare via.
Si
avvicinò a Rogers, che lo fissò perplesso,
evidentemente non aspettandosi di
venire incluso nei ringraziamenti. Quando fu a portata di braccio, gli
tese la
foto con suo padre e Peggy che aveva trovato nello scatolone dello
SHIELD. Vide i suoi occhi
chiari dilatarsi per lo stupore, e poi farsi un po’ lucidi
mentre prendeva con
delicatezza la foto tra pollice e indice, quasi avesse potuto
sgretolarsi sotto il suo tocco.
«Ce ne
sono altre, circa una ventina… magari uno di questi giorni
vieni a darci
un’occhiata,» buttò lì Tony
con un sorriso gentile, tentando di trarlo
d’impaccio.
Steve
annuì, deglutendo un po’ rumorosamente.
«Grazie,
Stark,» gracchiò, incontrando brevemente il suo
sguardo per poi fissarlo di
nuovo, annebbiato, sulla foto.
Tony
gli rivolse un cenno del capo, poi si discostò da lui
tornando a capotavola, ma
rimase in piedi, imbastendo un’aria pensosa.
«Dicevo
che adesso abbiamo finito coi ringraziamenti…»
Fece una pausa a effetto. «Quindi,
direi di passare ai ringraziamenti speciali,»
concluse, guardando in
successione Ian, Kyle e infine Pepper, che prevedibilmente
arrossì nel sentirsi
tirare in causa.
«Dottor
Ian Mitchell,» iniziò, con fare un po’
pomposo stemperato da un timbro faceto.
Questi
si raddrizzò sulla sua sedia, quasi sull’attenti.
«Per la
dedizione, la professionalità e l’impegno che ha
avuto come mio medico, per l’umanità, la
disponibilità e la pazienza dimostrati come amico, e per
essersi impegnato
attivamente nell’impedirmi di fare stronzate per
più di un anno e mezzo…» Ian scosse
la testa con fare imbarazzato, agitandosi sul posto,
«… le comunico
personalmente la sua promozione a consulente generale del dipartimento
biomedico delle
Stark Industries e a capo ricercatore del Progetto Phoenix,»
concluse, avviando
lui stesso l’applauso, che risuonò subito corposo
sulla terrazza illuminata, riecheggiando sulle onde festose dell'oceano.
Osservò
l’espressione basita del medico, che si stava sforzando
inutilmente di
elaborare una risposta sensata, finendo solo per boccheggiare a vuoto,
vinto
dall’emozione che lo costrinse a togliersi gli occhiali
appannati mentre Kyle
gli dava una vigorose pacche di congratulazioni sulla spalla.
«Oh, la smetta con la pantomima,» lo riprese
bonario Tony, quando lo vide addirittura voltare le spalle agli altri
per ricomporsi. «Lo
sanno tutti che, sotto sotto, ha un cuore d'oro,» concluse
ammiccando.
«Non lo dica troppo in giro,» replicò
Ian, burbero come sempre, ma con occhi luminosi e caldi.
Tony
spostò il peso da un piede all’altro,
picchiettando a terra col bastone e
tirando un grosso respiro per prepararsi all’annuncio
successivo, che gli
avrebbe probabilmente fatto perdere il poco contegno che era ancora
riuscito a
mantenere.
«Avvocato
Kyle Andrews,» lo richiamò, con voce piena, e lui
lasciò perdere Ian voltandosi di scatto, con un
respiro visibilmente bloccato in gola.
Tony
fece un sorriso scaltro, passandosi il bastone da una mano
all’altra ad
aumentare la suspense, e prima ancora di iniziare a parlare, lo vide
sgranare
gli occhi in un moto di comprensione.
«So che
ci ho messo più tempo del previsto…»
«Oddio,»
esalò subito Kyle, portandosi le mani a coprire bocca e
naso, e Tony sorrise,
avvicinandosi di un paio di passi.
«… e
che ci sono stati un paio di imprevisti strada
facendo…» continuò, con fare
vago.
«Oddio,»
ripeté Kyle, stavolta con voce udibilmente spezzata.
«… ma
una promessa è una promessa,» concluse Tony,
mentre l’ologramma dietro di lui
cambiava a un suo cenno.
Kyle
liberò un’acuta esclamazione di pura
felicità che quasi lo assordò nel vedere il
progetto completo dei suoi tutori galleggiare a mezz’aria,
accompagnati dalla
foto del prototipo che Tony aveva testato in quella settimana, quando
era finalmente riuscito a sfruttare le
potenzialità dello Starkium a lavorare a mente libera su
quel progetto.
«Stark,»
singhiozzò Kyle, tra le lacrime di gioia che non si stava
neanche curando di
trattenere o nascondere. «Vieni subito
qua,» gli intimò, facendogli un
cenno con la mano e riuscendo a formare un sorriso sbilenco con le
labbra
tremanti.
Tony
eseguì, mentre attorno a loro partiva un altro applauso
avviato da Ian, che a
questo punto aveva a sua volta due scie umide a solcargli le guance e
si stava
di nuovo stropicciando gli occhi da sotto le lenti, mandando all'aria
ogni presunto tentativo di compostezza. Non
appena si accostò a Kyle, Tony fu inglobato in un abbraccio
spaccaossa, con
un’energia impensabile per un corpo così gracile.
«Grazie,
Stark,» disse il ragazzo, con un altro singhiozzo.
«Grazie, grazie, grazie,»
continuò a ripetere, aumentando ancora la stretta, e Tony
ricambiò, lieto che
stesse dando le spalle agli altri così da camuffare la
propria emozione.
«Grazie
a te, K,» replicò, dandogli
una lieve pacca sulla schiena.
Si
separarono con fare impacciato, Kyle paonazzo come non mai e Tony con
una
maschera molto poco convincente stampata in faccia. Incontrò
di sfuggita lo
sguardo di Pepper, anch'esso luminoso e irradiato di gioia come quello
dei presenti, ma le parole che per una volta si era preparato si
rifiutarono di uscire, troppo intime e sentite per essere pronunciate
in
pubblico come aveva programmato. Le rivolse un sorrisetto di scuse, e
lei si
limitò ad annuire discretamente, capendo come sempre senza
bisogno di parole.
«Direi
che un brindisi è d’obbligo!»
esclamò invece, riempiendo il silenzio, e si
allungò a
recuperare il proprio bicchiere, indirizzandolo verso Kyle, Ian, e poi
il resto
degli ospiti, senza però staccare gli occhi da Pepper.
Prima
di poter dire altro, fu Thor ad alzare il proprio bicchiere,
rivolgendolo verso
di lui con un gesto solenne.
«All’uomo
di ferro!» tuonò, subito imitato dagli altri, e
Tony sussultò sul posto,
guardandosi attorno quasi spaesato, con quel calore appena sbocciato
nel petto
che prendeva a fiorire, più intenso, nel vedere i bicchieri
di tutti che si levavano
verso di lui.
Si
ancorò agli occhi di Pepper, in cerca di un punto fermo che
permettesse ai suoi
pensieri in tumulto di ritrovare un ormeggio e un ordine logico, per
poi
scoprire di non volerlo fare, di volersi abbandonare a quella giostra
di
emozioni che lo rintronava piacevolmente, a quelle ondate di gioia ed
esaltazione che gli si abbattevano nel petto mozzandogli il respiro e
donandogli poi ossigeno, soffocando del tutto le voci maligne e deboli
in sottofondo.
Non si
riconosceva quasi più, ma allo stesso tempo non si era mai
sentito così
puramente se stesso da più anni di quanti riuscisse a
contare. Era cambiato, o
forse era solo riuscito a dare risposta alle mille domande che avevano
continuato ad affollarsi nella sua testa e che aveva sempre scelto di
ignorare.
Portò una mano al reattore;
un’ancora salda, conosciuta, tiepida sotto le
sue dita.
“Hai
una famiglia?”
Con una
traccia di malinconia a inclinargli le labbra, considerò uno
ad uno i presenti,
lasciando che i suoi occhi includessero ognuno di loro, venuti a
festeggiarlo
mentre sorridevano a lui, per lui. Sorrise
loro di rimando e alzò a sua volta il bicchiere, accettando
il brindisi,
accettando la vittoria, accettando se stesso.
Mentre
beveva, spostò
fugacemente lo sguardo al cielo ormai indaco, punteggiato dalle prime,
timide stelle affacciate
sul mare, e sorrise.
Forse ci aveva messo un po’ più del previsto, ma
aveva
finalmente una risposta a quella domanda.
***
30
Maggio, Villa Stark
Era
l’una e mezza passata quando anche Nataša, Steve e
Bruce si congedarono dalla
villa, dopo aver aiutato lui e Pepper aiutati a rimettere un
po’ d’ordine e
aver strappato loro la promessa di farsi rivedere presto al quartier
generale.
Tony rimase
ancora in terrazza, godendosi l’aria fresca della sera e il
mormorio quieto delle
onde. Aspettava Pepper poggiato di schiena sul parapetto, sapendo che
lei non
avrebbe tardato a raggiungerlo; e infatti, dopo pochi minuti
uscì a sua volta,
ancora col vestito verde addosso. Lui non
disse nulla, lasciando che fosse il suo sguardo ammaliato a parlare,
offuscato da ricordi onirici, e suscitò
in lei un sorriso timido e una sfumatura rossa che le oscurò
le lentiggini.
Si
avvicinò a lui, cingendogli poi la vita, e gli
posò un bacio sulla guancia.
«Ammetto
che un po’ mi è piaciuta,» disse lui,
con un piccolo sogghigno.
«Non
l’avrei mai detto,» replicò Pepper, con
aria saputa e chiaro compiacimento.
«Non
montarti la testa,» la riprese lui, con uno sbuffo divertito.
«Da che
pulpito…» lo mise a tacere lei, alzando gli occhi
al cielo e poggiandosi contro
di lui. «Alla fine, sei stato tu a sorprendere
noi,» commentò dopo qualche secondo, con voce
serena.
«Sì, di solito ci riesco bene,»
replicò lui, sornione, chiedendosi se ci sarebbe riuscito
anche con lei.Si
lasciò stringere ancora un poco, cercando di ripescare
ancora una volta le
parole che prima non erano arrivate, e ancora quelle sembrarono
ritrarsi,
schive come animali impauriti. Infine, la scostò appena da
sé, senza però
guardarla direttamente.
«Girati,»
le disse, a bassa voce.
Lei
corrugò le sopracciglia, con gli occhi accesi di
curiosità, ma eseguì,
porgendogli le spalle lasciate scoperte dal vestito e punteggiate di
delicate efelidi. Tony si
affrettò a frugare nella tasca interna della giacca,
riuscendo ad afferrare la sottile
catenina argentata sul fondo; sistemò al centro il ciondolo,
le scostò con
dolcezza i capelli sciolti e le fece passare il gioiello attorno al
collo esile,
agganciandolo con qualche difficoltà.
Lei trasalì appena nel sentire il metallo
freddo contro la pelle. Voltò appena il capo con fare
sorpreso, per poi puntare
lo sguardo sul ciondolo, una piccola goccia azzurrina adagiata tra le
sue
clavicole, e sfiorarlo con la punta delle dita.
Tony le
si accostò, poggiando il mento sulla sua spalla e sollevando
a sua volta il
ciondolo tenendolo tra pollice e indice.
«Quello
al centro,» spiegò, a un soffio dal suo orecchio,
indicando la parte centrale
della goccia, di un blu profondo e cangiante che ricordava un cielo
stellato.
«È vibranio grezzo. Era nello studio di mio padre
e… beh, ho pensato che,
simbolicamente parlando, sarebbe stato più elegante
di… di una semplice
chiave,» concluse, ringraziando il fatto che Pepper non
potesse vederlo in
faccia. «Quello attorno,» continuò,
stringendola un poco a sé e passando il
dito sulla cornice più chiara, dello stesso colore del
reattore arc, «è
Starkium e… sarebbe...insomma, non te lo devo
spiegare,» concluse, in fretta e
chiedendosi se non avesse esagerato coi simbolismi.
Pepper
rimase in silenzio, accarezzando la superficie del ciondolo che aveva
modellato
di nascosto in quei giorni, sfruttando la sua scarsa abilità
di orefice riuscendo a trarne qualcosa di almeno esteticamente
gradevole. Non era comunque
quella la parte più importante, e rimase col fiato sospeso
ad attendere la
reazione di Pepper.
Lei si
girò piano, quasi con cautela, e lo guardò con
occhi liquidi, messi in risalto
dal colore della collana. Gli posò una mano sul petto e
incontrò infine e sue
labbra in una carezza lenta, coinvolgendolo in un bacio delicato ma
intenso in
ogni movimento congiunto delle loro labbra, tanto che quando si
separarono
erano entrambi senza fiato.
«È
bellissimo,» sussurrò lei, con un filo di voce e
un sorriso pieno che le
illuminò gli occhi.
Tony
sorrise, mostrandosi compiaciuto e tirando internamente un sospiro di
sollievo,
osservando Pepper che stringeva di nuovo il ciondolo con dita quasi
tremanti.
«E non
è finita qui,» mormorò lui, sollevando
un sopracciglio con fare impertinente e attirando di nuovo la sua
attenzione.
«Il Cipriani ci aspetta,» rivelò poi,
suscitando un’espressione scioccata sul
volto di Pepper.
«Sul
serio?» riuscì a dire, incredula.
«A…»
«… a
Venezia, sì. Ho pensato che, per una volta, me lo sono
meritato,» scherzò poi, scostandole
una ciocca dal volto senza volersi addentrare in discussioni troppo
cupe.
Lei
però non lasciò correre e gli prese il viso tra
le mani, a sottolineare la sua
assoluta serietà con quel gesto che compiva ancora di rado.
«Ti sei
meritato tutto ciò che hai adesso,
Tony,» dichiarò perentoria, senza distogliere gli
occhi dai suoi. «E non voglio più tornare sulla
questione,»
concluse, a metà tra il serio e il faceto, lasciando
intendere che, se mai
avesse voluta, sarebbe sembra stata pronta ad ascoltarlo.
Lui
annuì appena, scoprendo che quelle parole non gli causavano
più un rifiuto
viscerale ma, anzi, un senso di soffusa contentezza, come di un lavoro
portato
a termine dopo molto tempo e molti sforzi. Abbassò lo
sguardo, confuso da
quella sensazione e dallo sguardo che gli stava rivolgendo Pepper.
Pensò
che era grazie a lei se era lì, ma che era per lei che voleva esserci, e
la
confusione che gli aleggiava in testa prese contorni più
morbidi e piacevoli,
conosciuti, legati a doppio filo a quel punto tra il reattore e il
cuore che
adesso lo scaldava più che mai. Forse, da qualche parte tra
l’accettare di
essere amato e il lasciarsi amare, aveva imparato ad amare lui stesso.
«Stai
bene?» mormorò Pepper nel vederlo pensoso,
accarezzandogli le spalle.
Tony
posò le labbra sulla sua guancia, sfiorandole le ciglia, e
inspirò a
fondo contro la sua pelle inalando il suo profumo. Lasciò
che gli solleticasse
i polmoni: brezza marina, un sentore primaverile, una nota floreale di
giglio.
Sapeva di casa, già da molti anni.
Le scostò la frangia dal volto con un dito
metallico, sorridendo a fior di labbra nei suoi occhi.
«Sì.»
***
Tre
mesi dopo, Malibu Beach
Il mare
era calmo, e si trascinava pigramente sulla spiaggia dorata di Malibu,
dipingendola di effimere pennellate più scure in un moto
continuo di spuma.
Soffiava un vento leggero, fresco e carico di salsedine che pizzicava i
polmoni.
Tony si
stiracchiò, allungando le mani verso il cielo terso, appena
tinteggiato dalle
dita rosate dell’alba, e si sollevò sulle punte
dei piedi sentendo i muscoli
che si contraevano piacevolmente nell’aria frizzante del
primo mattino. Si
rilassò di colpo, affondando coi talloni nella sabbia e
prendendo a trafficare
con lo smartwatch al polso, impostando una sveglia da lì a
un’ora, quando
sarebbe rientrato alla villa per fare colazione con Pepper.
Lanciò un’occhiata
all’edificio, sbirciando verso la vetrata della camera da
letto, ma da
quell’angolazione non riuscì a scorgere
l’interno; un sorriso andò comunque a
distendergli le labbra al pensiero di come stesse ancora dormendo
placidamente quando era uscito.
Riportò
lo sguardo alla distesa di piccole dune dorata di fronte a lui,
individuando in
lontananza i piccoli dolmen di rocce che aveva eretto nei giorni
precedenti, a
segnare il traguardo raggiunto di volta in volta in
quell’esercizio mattutino.
Puntò l’ultimo, con le mani piantate sui fianchi
mentre prendeva un respiro
profondo, molleggiò un paio di volte sulle gambe e mosse il
primo passo,
dandosi la spinta per spiccare in una corsa leggera.
Si
sforzò di non pesare troppo sul lato destro, cercando di
equilibrare il
movimento più rigido della protesi con quello naturale dei
muscoli veri, e dopo
qualche decina di metri riuscì a renderlo più
fluido, sebbene non perfetto. Ma
la protesi rispondeva con prontezza, priva dei difetti che
l’avevano tormentato
fino a poco tempo prima, e lui riusciva a correre.
All’inizio era stato
solo per qualche metro, in palestra e sotto lo sguardo attento di
Nataša, e via
via in modo sempre più sciolto sul tapis roulant, fino al
giorno in cui aveva deciso che, perché
no, poteva anche correre in spiaggia, e aveva raggiunto il traguardo di
un
chilometro. Era allora che gli era venuta l’idea dei dolmen:
una sorta di mèta
fisica che lo spingeva a fare sempre meglio, con l’obiettivo
finale di Iron Man
che sembrava attenderlo a braccia aperte alla fine di quella gara
contro se
stesso.
Sentì
il solito indolenzimento che lo coglieva al moncherino, spia di quanto
a lungo
poteva correre prima di risentirne, e lo tenne sotto controllo senza
lasciarsi
fermare, cadenzando il respiro e lasciando che il proprio corpo si
abituasse a
poco a poco allo sforzo prolungato.
Superò
il primo dolmen e accelerò un poco il ritmo, coi piedi che
affondavano
saldamente nella sabbia, lasciando una chiara scia dietro di
sé.
Aumentò
ancora la velocità e continuò a correre, col
vento in faccia, l’oceano che gli
lambiva le caviglie e lo sguardo puntato
all’orizzonte.
E anche senza armatura, sentì di poter spiccare il volo da
un momento all'altro.
~ Fine ~
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