I colori del vento

di Lua93
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prefazione ***
Capitolo 2: *** 1# ***
Capitolo 3: *** 2# ***
Capitolo 4: *** 3# ***
Capitolo 5: *** 4# ***
Capitolo 6: *** 5# ***
Capitolo 7: *** 6# ***
Capitolo 8: *** 7# ***
Capitolo 9: *** 8# ***
Capitolo 10: *** 9# ***
Capitolo 11: *** 10# ***
Capitolo 12: *** 11# ***
Capitolo 13: *** 12# ***
Capitolo 14: *** 13# ***
Capitolo 15: *** 14# ***
Capitolo 16: *** 15# ***
Capitolo 17: *** 16# ***



Capitolo 1
*** Prefazione ***


Prefazione
Prefazione

Quando il sole calava all’orizzonte, il buio avvolgeva ogni cosa.
Quello che durante il giorno veniva riscaldato dai torbidi raggi, la notte si trasformava, diventando gelo penetrante e sconvolgente. Piccoli granelli che formavano interi chilometri di terrificante deserto. Tutto scompariva dietro quelle dune innevate di sabbia. E quando calava la notte, la luna sembrava l’unica cosa capace di nascondermi dalle tenebre. Dipingeva il cielo di un pallido alabastro, e sembrava così vicina da poterla sfiorare, accarezzarne le rotondità, i suoi crateri, il suo essere così affascinante e influenzante. La luna inseguiva l’infinito, dietro una coltre di inaspettati.
Il vento soffiava, tutte le notti. Bussava impetuoso alle porte degli abitanti, come a voler chiedere riparo anche da se stesso. Avvolgeva ogni cosa, trascinandola lontano, verso terre sconosciute.
Terre piene di mistero, racconti da mille e una notte, capaci d’impressionare e suscitare sensazioni mai provate prima. Quello che si viveva durante il giorno, si riviveva la notte, sotto forma di incubi dalle sembianze di sogni innocenti.
La luna si colorava sempre di un candido rossore, da prima delicato, come il petalo di una rosa, per poi trasformarsi in sangue vivo. E rivedevo in quelle notti i volti di tutti gli uomini, di tutti i bambini, che cessavano di vivere durante le ore diurne.
Sentivo scorrere il loro sangue sulla mia pelle, le loro lacrime mischiate alle mie. Le urla rimbombavano nella mia testa, versi animaleschi segno di un terribile dolore, di una lenta agonia.
Vedere morire innocenti, riuscendone a salvare sempre di meno, era il mio lavoro.
Ricucire ferite profonde sui corpi dei soldati, amputare gambe a bambini che non avevano corso abbastanza, e che purtroppo non sarebbero più stati in grado di farlo, era il mio lavoro.
Leggere il dolore e la sofferenza negli occhi delle madri che perdevano i propri figli e sapere di essere impotenti, era il mio lavoro.
Cercare di salvare più vite umane possibili, era il mio lavoro.
Solo questo era il mio lavoro, il mio compito, non mi era concesso altro.
Innamorarmi del Tenente Edward Cullen, questo non era affatto un mio dovere.



*Pseudo autrice*
Cosa ci faccio qui? Bella domanda me la sono posta pure io un paio di volte, ma purtroppo per voi liberarsi di me non sarà molto facile.
Quello che avete appena letto è la prefazione di una mia nuova storia, potete ritenervi però fortunati, perchè sarà composta solo da 6 capitoli. Quindi non vi ruberò neppure tanto tempo.
Di cosa parlerà? Bè non posso di certo anticiparvi tutta la trama, però posso dirvi che i nostri protagonisti si trovano nell'Emirato del Kuwait, durante la Seconda Guerra del Golfo, siamo quindi ai giorni nostri possiamo dire. In realtà la storia è ambientata nel 2003 e intercambierà fatti davvero accaduti con fantasia.
Non posso anticiparvi nulla, se volete scoprire come si svolgeranno i fatti non vi resta che continuare a leggere la storia. Il primo capitolo verrà postato tra una settimana e così sarà per tutti gli altri. Un appuntamento settimanale. Diciamo che è più una mia comodità, se mi stabilisco un giorno in cui devo postare, è molto più facile che lo rispetti.
Detto questo, passo e chiudo, dandovi direttamente appuntamento alla prossima settimana.
Ringraziando già anticipatamente chi deciderà di seguirmi.

P.s Il nuovo capitolo di Buskers è in fase di scrittura, per arrivare ci vorrà la prossima settimana.
Lua93.


 


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Capitolo 2
*** 1# ***


1#
                                                                                                                                        1



3 Marzo 2003. Base Americana, distanza da Kuwait City 4 chilometri.


Il rumore degli elicotteri che sorvolavano il cielo, era l’unico suono percepibile nell’arco di chilometri. I raggi del sole bruciavano a contatto con la superficie degli abiti leggeri che indossavo, e a ogni respiro mi sembrava di prendere fuoco.
Era una terra torbida quella in cui ci trovavamo, insidiosa e pericolosa. Sembrava nascondere pericoli dietro ogni duna del deserto, e l’afa sembrava sua alleata.
Ci trovavamo nella base americana, distante pochi chilometri dal Kuwait, città islamica, poco distante dal Golfo Persiano. Benché il mare si trovasse a meno di venti chilometri, il terreno era piuttosto arido e privo di qualsiasi tipo di vegetazione. Sarei impazzita presto, se non mi avessero dato subito qualcosa da fare.
Mi trovavo da più di trenta minuti nel capanno medico allestito dai soldati Americani, come base di ricovero per i soldati e i civili feriti durante gli attentati. C’era un silenzio surreale  e nessuno dei presenti sembrava avere intenzione di proferire parola.
Eravamo atterrati da più di due ore, ma la maggior parte del tempo l’avevamo impiegato per arrivare dalla pista di atterraggio alla base militare. Era stato un viaggio lungo quello sulla Jeep. Più volte fummo costretti a fermarci e cambiare percorso per confondere le tracce dei pneumatici sulla strada. Ci era stato detto che non c’era bisogno di preoccuparsi, che presto avremmo raggiunto la base e allora ambientarci sarebbe stato facile. Ma non fu affatto così.
Eravamo partiti in cinque, da Seattle. Tutti infermieri, eccetto me. Unica dottoressa presente nella stanza. Aspettavamo con trepida agitazione l’arrivo del Dottor Dexter Smith, il chirurgo presente all’interno del campo. Io sarei stata la sua sola aiutante, l’unica almeno altamente qualificata da poter reggere lo sforzo fisico e mentale.
Il resto dello staff medico era composto prevalentemente da infermieri e volontari della croce rossa.
C’era chi si trovava lì per scelta, chi per obbligo, e poi c’ero io che avevo deciso di partire solo per completare la mia formazione. Lavorare direttamente sul campo era molto meglio che fare tanti anni da gavetta. Non era la scelta più giusta, in effetti ero stata chiamata pazza più volte, ma raggiungere la zona di guerra e aiutare i nostri soldati, mi riempiva di orgoglio. Ero giovane, questo lo sapevo bene, ma volenterosa, avrei imparato in fretta.
Seduta accanto a me, c’era una ragazza dai lunghi capelli dorati, legati in una coda alta, che le scoprivano il candido collo. Aveva la carnagione chiara, ricoperta di lentiggini, sembrava troppo delicata per riuscire a resistere in un posto come quello. Eppure nei suoi occhi brillava una luce di determinazione che non avevo mai visto prima.
Nessuno sembrava avere intenzione di alzarsi o muoversi, ci trovavamo tutti seduti intorno a un tavolo in attesa di direttive.
Ero completamente sfinita, eppure non feci neppure un passo in direzione della porta, ma attesi pazientemente che si aprisse. E quando finalmente accadde, la figura alta e robusta del Dottor Smith, comparve in tutta la sua fierezza.
Era un uomo piuttosto avanti con gli anni, ma con una forza che avrebbe fatto invidia a molti giovani presenti nel campo. Era stato il mio professore all’università dal primo semestre fino al giorno della mia laurea. Era stato lui a chiedermi di partire. Diceva che i soldati americani avevano bisogno di un valido sostituto in caso gli fosse successo qualcosa, così dopo tante parole e altrettante riflessioni, accettai il suo invito. Avrei completato la specializzazione e salvato vite umane, cosa potevo volere di più dalla vita?
Ma l’ambizione mi offuscava la vista, e benché sapessi di essere in una terra straniera piena di pericoli e nel bel mezzo di una guerra, la paura non aveva ancora preso a scorrermi nelle vene.
«Buongiorno ragazzi, e benvenuti nella base americana del Kuwait.» Disse a gran voce, come se avesse paura che non lo potessimo sentire. Tutti ci alzammo in piedi, salutando il dottore con una stretta di mano. Quando mi avvicinai a lui mi strinse forte in un abbraccio, «sono felice di vederti Isabella.» Mi sussurrò all’orecchio, facendomi poi voltare verso gli altri ragazzi.
«Lei è la mia assistente, la dottoressa Isabella Swan, laureata da poco in medicina e chirurgia con il massimo dei voti.» Mi presentò, facendomi arrossire.
Quando finì di presentarci, ci fece accomodare intorno al tavolo, portando con sé un paio di cartelle cliniche.
«Allora ragazzi, lo so bene che il viaggio è stato lungo e stressante, ma qui ogni secondo è prezioso e perdere tempo è un lusso che non possiamo permetterci.» Si sedette capo tavola, sistemandosi il camice bianco. Tutti noi l’imitammo, osservando ogni suo movimento.
Posò le cartelle cliniche si poggiò con le braccia sul tavolo, reggendosi sui gomiti. «Qui non ci troviamo in America, le leggi non valgono quando si è in guerra, ma questo non significa che ci si deve comportare da animali. Ognuno di noi ha diritto di esporre la propria opinione e aiutare quanto più possibile gli è concesso, senza però, intralciare in alcun modo il lavoro dei militari.» Ci disse autoritario, corrugando la fronte, come se stesse pensando.
In quel momento la porta alle nostre spalle si spalancò mostrandoci un ombra dall’aspetto minaccioso, tutti noi ci voltammo incuriositi, ma l’unica certezza era che miei occhi avrebbero visto quell’uomo sempre in maniera diversa rispetto alle altre persone presenti.
L’uomo era un soldato, probabilmente un ufficiale dato che indossava più medaglie sul petto. Era alto, molto alto, con un fisico asciutto ma non eccessivamente robusto. I muscoli delle braccia e delle gambe erano fasciati da una divisa militare verde, che ricalcava perfettamente le forme del suo fisico. Quando i miei occhi misero a fuoco il suo viso, una strana sensazione si fece spazio dentro di me. Quell’uomo non aveva due semplici occhi, ma gemme preziose, di un verde brillante, che veniva risaltato ancora di più dalla luce potente delle lampade al neon. Aveva i capelli di uno strano colore, sembrava biondo scuro, simile al rame, con ciuffi che parevano ribellarsi a qualsiasi tentativo di sistemazione.
Non disse nulla, ma i suoi occhi si posarono su ognuno di noi, come a volerci esaminare. Quando i nostri occhi s’incontrarono per la prima volta, fui pervasa da un brivido violento che percorse tutta la mia spina dorsale. Così fui costretta ad abbassare lo sguardo, intimorita.
Il dottore Smith gli sorrise amichevolmente, «Tenente, stavo dando il benvenuto al nuovo staff.» Gli disse facendolo  avvicinare. Più si avvicinava e più i suoi lineamenti si mostravano ai miei occhi, e non vi trovai imperfezione in quel viso stanco. Se da lontano poteva sembrare un uomo dall’età avanzata a causa della sua imponenza, da vicino dimostrava poco più della mia età.
«Cos’è successo agli infermieri precedenti?» domandò con voce ferma la ragazza bionda. Sembrava esausta ma non aveva alcuna intenzione di abbandonarsi al sonno.
Il Tenente la fissò in silenzio un paio di secondi, poi le rispose facendo tremare ogni cosa con la sua voce. «Sono morti in un attentato avvenuto cinque giorni fa.»
I mie occhi si spalancarono, «tutti?» domandai con un sussurro, ma il Tenente sembrò sentirlo, e quando si voltò verso di me, non riuscii a fare altro che reggere il suo ammaliante sguardo.
«No, si sono salvate solo due infermiere.» Mi rispose distogliendo quasi subito lo sguardo.
Mi passai una mano sul viso, costatando di essere leggermente sudata, avevo urgente bisogno di una doccia. Sapevo di avere un aspetto orribile e impresentabile.
«Ragazzi non vi fare prendere dal panico, il Tenente Cullen è un ottimo soldato. Non si teme nessun pericolo con lui nelle vicinanze.» Disse in tono sarcastico Dexter, cercando di smorzare un po’ l’aria satura di agitazione.
Il Tenente Cullen fece un sorriso sghembo, cambiando completamente espressione. Quando sorrideva il suo viso sembrava brillare di un'altra luce. Così serio e autoritario, già sapevo che sarebbero stati rari i suoi sorrisi.
«Ero venuto a dirti che abbiamo un nuovo ferito, questa volta si tratta di un civile. L’ospedale della città è pieno ormai, e il Sergente Hale non se l’è sentita di abbandonarlo al proprio destino.» Disse il Tenente rivolgendosi al Dottore. Dexter annuì, sollevando lo sguardo verso di noi.
«Vedete signori, la noia non vi assalirà mai qui.» Ci sorrise rassicurante, «Signorina Swan tu venga insieme a me e il Tenente Edward Cullen, gli altri possono benissimo congedarsi. Fuori  troverete le vostre valigie e un soldato che vi accompagnerà nei dormitori.» C’informò allungando verso gli infermieri una cartella clinica per ognuno. «Questi da domani saranno i vostri pazienti, il vostro compito sarà prendervi cura di loro, la loro vita è nelle vostre mani.» Gli sorrise, poi con un gesto del capo li congedò. In meno di due minuti tutti furono fuori dalla stanza, eccetto io, Dexter e il Tenente Edward Cullen.
«Edward lei è la mia nuova assistente, la dottoressa Isabella Swan.» Disse il dottor Smith, presentandomi al Tenente. L’uomo allungò ma mano verso di me, e quando ricambiai la stretta, mi resi conto di non avere neppure un briciolo della forza sia fisica che morale del Tenente. La sua era una stretta forte, autoritaria, la sua mano avvolgeva la mia completamente.
«E’ un chirurgo anche lei?» Mi domandò ritraendo la mano.
Distolsi lo sguardo dai suoi occhi, facendo un grosso respiro, «esattamente.»
Mi voltai verso Dexter passandomi una mano tra i capelli appiccicati sulla fronte a causa del troppo caldo, «potrei sapere dove si trova il bagno?» Gli domandai imbarazzata.
Dexter annuì immediatamente, rendendosi conto solo adesso che ero reduce di un lungo viaggio, «ma certo Isabella, il bagno si trova proprio dietro quella porta, » sorrise indicandomela, «io e il Tenente l’aspettiamo qui.»
Ricambiai il sorriso, voltandomi verso la porta che mi era stata indicata, quando finalmente la chiusi oltre le mie spalle rilasciai un sonoro respiro. Sembrava impossibile, eppure sentivo ancora addosso gli occhi chiari del Tenente Cullen.
Mi metteva soggezione il modo in cui mi fissava, come se cercasse di scovare qualcosa, forse era una mia impressione, forse ero solamente troppo stanca per riuscire a mettere in fila anche solo un pensiero coerente. Eppure il Dottor Smith mi voleva con lui, al suo fianco, di certo non potevo deluderlo proprio il primo giorno. Dovevo dare il massimo, da subito.
Mi avvicinai lentamente al lavello, rimanendo sconvolta quando guardai la mia immagine riflessa allo specchio.
I capelli erano un ammasso uniforme lucidi e appiccicosi, riconobbi tra le ciocche alcuni granelli di sabbia, che cercai di levare con un po’ d’acqua. Quando mi resi conto che solo uno shampoo li avrebbe tolti completamente, decisi di legarli in una coda alta. Mi sciacquai il viso più volte, massaggiandomi la nuca con la mano bagnata. Quando riacquistai un aspetto più dignitoso uscii dal bagno, ritrovandomi davanti i due uomini.
Il Dottore Smith ci fece segno di avvicinarci alla porta e insieme uscimmo fuori dalla piccola stanza raggiungendo un lungo corridoio. «In questa camera ci sono tutti i medicinali, mentre in quella accanto i macchinari per le operazioni.» Mi spiegò mostrandomi ogni stanza con accurata gentilezza. Il tenente Cullen ci seguiva come un ombra, camminando dietro di noi. Non mi voltai mai a controllare se ci fosse ancora o se invece, si fosse allontanato, sentivo i suoi occhi perforarmi la spina dorsale. Ero quindi certa che non ci avesse lasciati.
«Dov’è la sala operatoria?» domandai perplessa a Dexter. Quest’ultimo scoppiò in una fragorosa risata, seguito dal Tenente. Io rimasi in silenzio, sentendomi improvvisamente una nullità. Era ovvio che non c’era una sala operatoria, ci trovavamo in un accampamento arrangiato. Le persone venivano operate dove capitava, l’importante era salvarle le loro vite. Nessuno dei pazienti sarebbe rimasto a lungo nel campo, chi era gravemente ferito sarebbe stato trasferito poi in una struttura specializzata o il più delle volte rimpatriato.
Così fece un sorriso, dandomi della stupida da sola.
«Tranquilla Isabella, sei appena arrivata, il caldo gioca brutti scherzi. Adesso andiamo, il tuo primo paziente ti aspetta.» Mi disse dolcemente il Dottore Dexter, accompagnandomi in una sala piena di letti vuoti.
«Forse è meglio se siete voi, Dexter, a visitare il soldato Browne. La dottoressa mi sembra piuttosto affaticata.» Disse improvvisamente il Tenente, guardandomi.
Ricambia il suo sguardo, «è vero sono stanca, ma questo non influirà sulla diagnosi. Posso benissimo rimanere in piedi anche tutta la notte se necessario.» Gli risposi, lanciandogli un occhiataccia.
Il Tenente distolse lo sguardo, «ricordatevi queste parole Dottoressa Swan, perché diventeranno realtà molto presto.»
Il Dottor Smith, sembrava non essersi accorto dell’improvviso cambiamento d’aria avvenuto nella stanza. Il Tenente Cullen stava deliberatamente offendendo le mie capacità di Medico, e questo non gliel’avrei mai permesso.
«E’ il mio lavoro, salvare più vite umane possibili.» Sibilai mantenendo il contatto visivo tra di noi.
«Una cosa che ci accomuna Dottoressa, si dia il caso che questo sia anche il mio di lavoro.» Mi rispose in tono autoritario, come se gli desse fastidio che qualcuno si rivolgesse a lui con quel tono.
Evitai di rispondergli, voltandomi verso Dexter, «allora, dov’è il paziente?» Gli domandai ignorando il Tenente alle mie spalle.
Il Dottor Smith si voltò verso Il Tenete Cullen, «portalo qui Edward, e chiamami l’infermiera Brandon, ci sarà bisogno anche di lei.» Gli disse conciso.
Il Tenente annuì al Dottore prima di uscire dalla stanza, e proprio quando era sulla sogli della porta si voltò verso di me, lanciandomi uno sguardo di sfida.
Dexter fece una risatina sommessa, «prevedo grandi battaglie anche dentro la base.» Disse guardandomi, «avanti Isabella prendi il primo camice che trovi e non dimenticarlo in giro, di questi tempo anche la divisa sembra scomparire nel nulla.»

Così ebbe inizio il mio primo giorno alla Base.





Eccomi tornata con il primo capitolo, ringrazio tutte le ragazze che hanno inserito la storia tra le seguite/preferite e ricordare. Grazie davvero.
Spero che il capitolo possa piacere, ci vediamo la settimana prossima con il secondo.
Per qualsiasi dubbio non esitate a contattarmi :)
Lua93




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Capitolo 3
*** 2# ***


2#                                                                                 Consiglio di leggere questo capitolo ascoltando questa canzone Room of Angel

                                                                              2



10 Marzo 2003


Di notte, le dune del deserto inghiottivano i rumori del giorno, riflettendo sulla pallida luna un silenzio quasi irreale.
Dalla finestrella del mio dormitorio, riuscivo a vederla. Sempre intera, sempre perfetta.
Qui sembravano non esistere le fasi lunari, ogni notte era sempre la stessa. Incombeva su di noi, come una regina silenziosa che avanzava verso il suo popolo.
Se allungavo un dito riuscivo a ricamarne i contorni, quasi come se fosse a pochi centimetri di distanza. E solo in questa terra arida e desolata, il mio pollice riusciva a coprirla completamente.
Sul comodino, accanto al mio letto, avevo posato una cornice d’argento, vuota. L’avevo portata con me, come compagna di viaggio.
Era stata mia madre a regalarmela, diversi anni prima, quando ancora il mio futuro era una macchia monocolore su un’enorme tela bianca.
“Qui dentro voglio che metta la foto più bella che possiedi, Isabella. Quella che rappresenti la tua vita.”
Era una donna speciale mia madre. Forse con la testa troppo in alto, tra i pianeti e le asteroidi. Aveva un suo modo di vedere le cose, diverso da tutti gli altri, ma non per questo sbagliato.
Ogni notte, prima di abbandonarmi al sonno, fissavo la cornice vuota, riflettendo sulla foto che avrei voluto metterci. Ma ogni notte, il sonno mi strappava dai rumorosi pensieri, prima che riuscissi a decidere.
La verità era che la mia vita non aveva ancora scattato la giusta foto che meritava di essere scelta. E preferivo guardare lo sfondo nero della cornice, piuttosto che una foto che non aveva significato.
Credevo di poterla riempire con tutte le immagini che vedevo durante il giorno. Perché da quanto ero lì, non vi era giorno in cui non scoprissi nuove terrificanti verità, e non vi erano notti in cui anche con le palpebre abbassate smettessi di vedere.
Cercai di addormentarmi, distogliendo lo sguardo dalla cornice e posandolo invece sul letto vuoto accanto al mio.
Era ormai una settimana che condividevo il mio dormitorio con una ragazza. Si chiamava Alice Brandon, era un infermiera della Croce Rossa. Lei aveva passato la maggior parte della sua giovane vita a bendare feriti ed amputare gambe.
Alice era una di quelle ragazze dall’aspetto minuto e fragile, ma dal carattere esplosivo e inarrestabile. All’interno del campo lavorava senza mai fermarsi neppure un minuto. E durante le trasferte dall’ospedale civile all’ospedale di campo era sempre l’unica a voler partire senza che le venisse imposto di farlo.
Non avevamo parlato molto durante quella settimana, neppure quando eravamo da sole all’interno del dormitorio. Alice non trascorreva mai la notte dentro la stanza, nel suo letto.
Allungai un braccio verso il comodino bianco, afferrando la sveglia prima che potesse cadere per terra, a causa di un mio movimento brusco e scoordinato. Segnava le undici di notte.
Posai un ultima volta lo sguardo sul letto vuoto accanto al mio e poi sulla cornice, prima di abbandonarmi tra le braccia di Morfeo.

Il rumore di una serratura che veniva aperta mi fece sobbalzare. Spalancai gli occhi, fissando la figura che lentamente entrava dentro la stanza.
Mi passai una mano sul viso, sollevandomi leggermente per poterla vedere meglio.
Alice si era appena chiusa la porta alle sue spalle, camminando in punta di piedi per non svegliarmi. Ma quando i suoi occhi chiari si scontrarono con i miei scuri e stanchi, smise di camminare.
«Sei sveglia.» Bisbigliò lasciando scivolare le scarpe bianche sul pavimento, accanto al suo letto.
Annuì distogliendo lo sguardo dalla sua figura, per poter leggere l’orario.
«Sono le cinque.» Mi sussurrò facendo qualche passo verso il suo letto.
Ignorai le sue parole e lessi ugualmente l’orario. La sveglia segnava le cinque e tre minuti.
Ritornai sulla figura esile di Alice, osservando i suoi movimenti.
«Perché ti rimetti a letto?» le domandai a bassa voce.
Non c’era nessun altro nella stanza a parte noi due, eppure entrambe evitavamo di parlare ad alta voce. Questo non accadeva solo la notte, ma pure il giorno. Più che altro era una mia paura, quella che se avessimo urlato qualcuno ci avrebbe sentito e non avrebbe esitato neppure un attimo a spararci.
Era una paura stupida e irrazionale, ma quando si viveva in un campo colmo di militari e fucili anche la cosa più ovvia e scontata diventava dubbiosa.
«Non ho dormito molto questa notte.» Mi sorrise infilandosi, completamente vestita, sotto le coperte.
Mi sollevai dal letto, mettendomi seduta, «non avete paura di essere scoperti?» le domandai afferrando un elastico dal cassetto del comodino, legando i miei capelli in una coda alta.
Alice sbadigliò, «tenere una relazione segreta è difficile, ma altamente eccitante.»
Ridacchiai alzandomi dal letto e prendendo il mio borsone.
«Il Tenente Cullen mi ha visto uscire dal dormitorio di Jasper.» Bisbigliò lentamente.
Io mi bloccai, voltandomi immediatamente verso di lei. Alice mi fissava con aria innocente, mentre cercava di reprimere una risata.
«Vi ha visto insieme?» gli domandai avvicinandomi al suo letto, sedendomi accanto alle sue gambe.
Alice scosse la testa, sospirando contro il cuscino, «avevamo già finito da un pezzo.» Disse con tono malizioso.
Io sollevai lo sguardo al soffitto, facendo un grosso respiro, «ti ha detto qualcosa?» le chiesi osservandola.
«Voleva sapere cosa ci facevo nel suo dormitorio.»
«E tu cosa gli hai risposto?» le domandai incuriosita.
Alice mi sorrise ammiccando, «che non è l’unico a dormire in quella stanza e che non ero lì per lui.»
Mi sollevai dal suo letto, dandole le spalle. Con passo veloce e deciso raggiunsi il mio letto e il mio borsone, dove presi l’asciugamano e il bagnoschiuma.
«Credi abbia capito?» le chiesi senza voltarmi.
«Che mi scopo il Sergente Hale?» domandò e dal suo tono notai una certa ironia.
Mi voltai verso di lei, stringendo al petto l’asciugamano, «più o meno.» Le sorrisi.
Alice scoppiò a ridere, «io e Jasper ci amiamo e anche se è severamente vietato avere relazioni all’interno del campo, soprattutto tra stretti collaboratori, noi continuiamo a fare l’amore tutte le notti.» Mi disse risoluta, socchiudendo gli occhi.
Attesi un paio di secondi, poi mi allontanai dal letto e raggiunsi la porta.
«Pensi che ci saranno conseguenze?» le chiesi aprendo la porta.
Alice teneva ancora gli occhi chiusi quando mi rispose, «sotto quell’aria da duro il Tenente Cullen ha un cuore che batte e anche piuttosto velocemente.» Mi rispose.
La vidi voltarsi dall’altra parte così chiusi la porta del dormitorio alle mie spalle, raggiungendo il bagno riservato alle donne, poco lontano dal mio dormitorio.

Lasciai che i miei muscoli si sciogliessero a contato con l’acqua calda della doccia.
Quello che noi chiamavamo bagno era in realtà una piccola costruzione in cemento, che accoglieva due piccole docce, tre lavandini e un solo water.
Le donne presenti nel campo erano solo cinque, compresa me. Avevo avuto modo di conoscerle durante la cena di accoglienza avvenuta una settimana prima. Dexter me le aveva presentate ufficialmente. Tre sarebbero state mie colleghe, tra cui Alice Brandon, l’infermiera sopravvissuta all’attentato in cui il precedente corpo ospedaliero era morto. Le altre due erano infermiere, tra queste c’era la ragazza bionda con le lentiggini che era partita con me dall’America, si chiamava Jessica.
Le altre donne erano invece due militari.
Erano rare le occasioni in cui c’incontravamo in bagno, solitamente perché io ero sempre la prima ad alzarmi la mattina presto, raggiungendo le docce per prima.
L’acqua che bagnava il mio corpo era rugosa, sembrava tagliare la mia pelle al solo contatto. Non era acqua pulita come poteva esserla quella delle nostre case in America. In Islam le condizioni di vita erano piuttosto precarie, così come lo erano le condizioni igieniche. Prima di immergermi sotto la doccia, la lasciavo scorrere diversi minuti, per liberarla dai granelli di sabbia che durante la notte il vento spingeva dentro le cisterne.
Ogni volta era come se non mi fossi lavata, come se la mia pelle puzzasse ancora di epidermide bruciata e sangue. E più strofinavo, più l’odore di morte si appiccicava sul mio corpo.
La prima volta che un paziente morì tra le mie braccia non sono riuscita a reprimere i singhiozzi. Così mi sono ritrovata con il volto ricoperto di lacrime e le braccia di Alice avvolte intorno al mio corpo in una stretta rassicurante.
Sarei dovuta essere forte, ma non ero ancora pronta a questo. E probabilmente non lo sarei mai stata.
Ora però, a distanza di sette giorni, quando un paziente dalle condizioni critiche si affidava alle mie cure, sapevo che neanche il massimo sarebbe bastato a salvargli la vita. E i loro occhi, anche se chiusi per sempre, li vedevo ancora fissarmi. Non sarei mai riuscita a smetterla di sentirmi in colpa, ma la guerra non guardava in faccia nessuno, e chi ero io per impedire alla morte di compiere il proprio destino?
Non sempre i miei pazienti sopravvivevano agli interventi, ma quando invece accadeva, nessuno poteva togliermi il buon umore. E rivederli sorridere era la gioia più grande che avessi mai provato in venticinque anni di vita.
Uscii dalla doccia avvolta solo da un asciugamano. Il caldo asfissiante si appiccicò subito sulla mia pelle, che in meno di due minuti si ritrovò completamente asciutta. Mi rivestii velocemente, indossando la mia divisa blu, con il camice bianco.
Quando ritornai nel mio dormitorio per riporre l’asciugamano e il bagnoschiuma, trovai il letto di Alice integro, come se nessuno ci avesse dormito. Sollevai lo sguardo verso il mio letto, e notai la stessa cosa. Anche le mie lenzuola erano state sistemate. La stanza era vuota, segno che Alice era già uscita.
Sorrisi involontariamente, quella ragazza era davvero speciale.

Quella mattina non mi presentai in sala mensa. Avevo lo stomaco chiuso e se solo avessi provato a riempirlo ero certa, avrei rimesso tutto.
Erano rare le mattine in cui riuscivo ad ingerire qualcosa. Da quando ero lì , il mio stomaco non ne voleva proprio sapere d’ingerire cibo. Così mi ritrovai sotto di due chili in solo una settimana.
Camminavo lungo il campo con passo svelto e deciso, salutando chiunque mi sorridesse o mi chiamasse per nome.
Dentro il campo era come vivere in una grande famiglia. Tutti si aiutavano a vicenda e non mi era mai capitato di vedere qualcuno litigare. Anche quando si doveva aspettare e rispettare la fila per poter telefonare a casa, avendo dentro il campo solo tre cabine telefoniche, nessuno era scorbutico o maleducato. Era come se vivere all’interno dell’inferno avesse creato una piccola oasi paradisiaca.
Jessica Stanley, l’infermiera bionda partita con me, gridò il mio nome, sollevando un braccio per attirare la mia attenzione.
«Ehi Bella, puoi dire a Dexter che farò cinque minuti di ritardo?» Mi urlò dalla finestrella del suo dormitorio.
Io mi avvicinai di qualche passo per risponderle, «come mai?»
Jessica mi mostrò un assorbente, «ospiti indesiderati.» Sorrise.
Io scoppiai a ridere, «tranquilla ti copro io.»
Mi mimò un grazie con le labbra, prima di scomparire dentro la stanza.
Ripresi a camminare sotto il sole cocente, con le mani nelle tasche del camice. Notai un ombra poco distante da me, e quando sollevai lo sguardo per capire chi ci fosse accanto a me, smisi di respirare. Due intensi occhi verdi mi scrutavano attentamente.
«Tenente, buongiorno.» Bisbigliai deglutendo rumorosamente.
Quell’uomo aveva il potere di destabilizzarmi. Qualsiasi cosa facessi con lui accanto mi veniva male, iniziavo a innervosirmi ed ero costretta ad allontanarmi.
«Buongiorno a lei Dottoressa Swan. Anche oggi non è venuta a fare colazione!» Mi fece notare, sostenendo la mia andatura senza troppi problemi.
Mi voltai verso di lui, sgranando gli occhi per lo stupore, «adesso mi controlla, Tenente?» Sibilai elettrizzata e infastidita nello stesso tempo.
Edward scosse la testa, evitando qualsiasi espressione, «chiunque in questo campo si è accorto delle sue malsane abitudini alimentari.»
Ridacchiai falsamente, «sono un dottore, conosco le conseguenze.» Gli risposi, costretta a fermarmi per far passare una Jeep.
Il Tenente mi imitò, nascondendo le mani dentro le tasche del pantalone verde militare.
«Non metto in dubbio le sue buone qualità di medico, ma anche lei avrà notato che da quando è arrivata ha perso visibilmente peso.»
Lo fulminai con lo sguardo, «Tenente esattamente lei che cosa vuole? Non mi vorrà di certo dire che si sta preoccupando per la mia saluta.» Gli dissi digrignando i denti.
Quell’uomo aveva un modo di porsi con me che mi faceva saltare i nervi.
E la cosa che più mi infastidiva e che lui si comportava così, solo nei miei confronti, con tutte le altre persone presenti nel campo, manteneva si un comportamento altero e impenetrabile, ma le rispondeva sempre molto educatamente.
«No.» Rispose freddo, «non m’interessa la sua salute, ma quella dei miei soldati si. E se lei non è nel pieno delle sue forze e capacità, come crede di poter aiutare gli altri?» mi domandò inchiodandomi con i suoi impenetrabili occhi verdi.
Aprii la bocca come a voler replicare, ma le mie labbra si erano fatte improvvisamente secche e dalla mia gola sembrava non voler uscire nessun suono.
«Smettetela di fare la preziosa Dottoressa, qui ci si deve adeguare. Il suo stomaco la ringrazierà anche se lo riempirete di sabbia.» Continuò duramente.
Mi morsi il labbro inferiore per evitare di urlargli in faccia. Le mani iniziarono a prudere, e venni invasa da un incredibile calore. Avrei tanto voluto prenderlo a schiaffi.
«Quando imparerete che cos’è l’educazione sarà davvero troppo tardi, Tenente.» Sibilai allontanandomi da lui senza neppure salutarlo.

Il Dottore Smith mi sorrise allegramente, non appena mi vide entrare.
«Isabella, sei sempre la prima.» Ridacchiò allungandomi una tazza di caffè bollente. Io lo ringraziai iniziando a berlo con piccoli sorsi.
«Jessica farà cinque minuti di ritardo.» Gli dissi posando la tazza sul tavolo, mentre prendevo la cartella clinica di John White, il soldato che due giorni prima era stato colpito alla gamba sinistro. Era stato operato d’urgenza, per sua fortuna il proiettile non aveva intaccato nessun muscolo e avrebbe ripreso a camminare senza complicazioni.
«Oggi niente visite mattutine per te.» Mi disse catturando la mia attenzione.
«Come mai?» Chiesi bevendo un altro sorso di caffè.
Dexter si sollevò dalla sedia, afferrando una borsa a tracolla, «dobbiamo andare all’ospedale civile del Kuwait. Due civili sono in gravi condizioni e lì non hanno più posto.» Mi spiegò prendendo dalle mie mani la tazza di caffè, finendo il contenuto in pochi secondi.
Lo guardai truce, «come mai dobbiamo?»
«Perché è il nostro lavoro Isabella, anche se sono civili stranieri e non soldati americani, noi abbiamo il dovere-»
Sbuffai sollevando gli occhi verso il soffitto, «io intendevo perché devo venire anche io, mi avete sempre detto che era troppo pericoloso per una novellina come me.» Gli spiegai posando la cartella clinica di White sul tavolo.
Dexter scosse la testa, «oggi ho avuto un’illuminazione e ho detto “Isabella deve toccare con mano la realtà fuori da questo campo”.» Ridacchiò allontanandosi dal tavolo.
«Quindi vengo pure io?»
«Esatto. Andiamo, fuori c’è già la Jeep che ci sta aspettando.»
Lo seguì controvoglia, ricordandomi solo adesso di Jessica.
«Ma non dobbiamo aspettare Jessica? Di solito non è lei ad accompagnarvi?» gli domandai mentre uscivamo dal campo ospedaliero.
Non appena vidi chi era presente dentro la Jeep un sonoro sospiro uscii dalla mia bocca senza che potessi fare nulla per evitarlo.
«Oggi verrete tu e Alice con me.» Mi rispose mentre apriva lo sportello anteriore della Jeep e prendeva posto accanto al conducente.
Alice mi sorrise allungando una mano per aiutarmi a salire. Ma invece della sua mano, dovetti prendere quella del Tenente Cullen che si era offerto gentilmente di aiutarmi. Quando gli fui accanto lo ringraziai, ma come ben immaginavo non ottenni nessuna risposta da parte sua.
Sospirai lanciando un occhiata d’avvertimento ad Alice. Non ero certa delle sue parole. Forse il tenente Edward Cullen il suo cuore l’aveva venduto a qualche petroliere arabo.

L’ultima volta che avevo percorso questa strada, era stata una settimana prima, quando ancora la mia pelle profumava di fragole e i miei occhi non si erano contaminati. A distanza di sette giorni, mi ero vista la mia vita cambiare.
Il terreno era sconnesso, pieno di ghiaia che graffiava le ruote della Jeep. Il vento caldo trasportava profumi provenienti dalla cittadina, poco distante da noi.
Tenere gli occhi aperti era quasi impossibile, i granelli di sabbia erano troppo sottili e fitti per non infastidire gli occhi. Così tenevo la testa bassa, e in silenzio ascoltavo il Dottor Dexter e il tenente Cullen discutere sulle procedure.
Alice indossava un paio di occhiali da sole e sembrava piuttosto al suo agio davanti al Tenente. I due non si erano scambiati nessuna parola, solo qualche occhiataccia da parte di lui, ma che non ottenne nessuna risposta. Alice si voltò verso di me, catturando la mia attenzione allungandomi un paio di occhiali da sole.
«Prendi questi.» Mi sorrise.
La ringraziai, indossandoli immediatamente.
«La Jeep ci lascerà proprio davanti l’ingresso dell’ospedale, ma ci aspetterà sul retro.» Disse il Tenente Cullen, rivolgendosi a Dexter, «dovrete essere veloci, non avendo nessuna scorta con noi siamo soggetti facili.» Continuò posando lo sguardo sulle dune del deserto.
Come me indossava un paio di occhiali da sole, con le lenti nere. Per mia fortuna era impossibile vedere i suoi occhi.
«Non ci saranno problemi, prenderemo i due civili e torneremo alla base.» Rispose immediatamente Dexter, annuendo alla sua stessa affermazione.
Alice nel frattempo m’indicava la strada, dicendomi che una volta svoltata quell’ultima duna, Kuwait sarebbe stata visibile ai nostri occhi.
«Accelerate.» Sibilò il Tenente, rivolgendosi al soldato che guidava la Jeep.
Io mi voltai verso Alice avvicinandomi al suo orecchio, «perché il Tenente è così nervoso?» gli domandai sussurrando.
Alice smise di sorridere, «stavamo percorrendo questa strada, quando la seconda Jeep contenente lo staff medico è stata bombardata.»Bisbigliò passandosi una mano tra i corti capelli neri.
«In quanti siete sopravvissuti?»
«Solo in quattro, io e il dottor Smith eravamo in un'altra Jeep insieme al Tenente. Quando è avvenuta l’esplosione, Edward ha ordinato di fare retro front.» Mi spiegò sussurrando.
Mi voltai verso Il Tenente Cullen, osservando il suo viso. Teneva le labbra sigillate, lo sguardo fisso davanti a sé. Così duro e freddo, si era plasmato una solida corazza intorno al suo corpo, impossibile da valicare.
«Mi dispiace tanto.» Farfugliai abbassando lo sguardo.
Alice posò una mano sul mio braccio, «questa è la guerra, purtroppo.»
Per il resto del tragitto non proferì più alcuna parola. Lasciai che i miei occhi si riempissero di tutte quelle immagini, di tutta quella terra, di quel deserto. La pelle la sentivo scottare sotto i raggi solari e il vento era l’unico rimedio a quell’insostenibile afa.
«Guarda!» Mi disse improvvisamente Alice, indicandomi un gruppo di bambini Palestinesi che ci correvano incontro.
Inizia a sorridere, guardandomi intorno.
Le case erano costruzioni fatte di pietra e calce di un colore giallognolo. Non possedevano tetti, ma terrazze rettangolari piene di panni e tendoni. I bambini sembravano spensierati o solo ottimi attori.
In lontananza vidi un gruppo di donne vestite di nero, con indosso lunghi burqa che m’impedivano di riconoscerne i tratti. Una di loro strinse più forte il suo bambino tra le braccia, quando ci vide passare.
Parlavano ad alta voce, in una lingua a me sconosciuta.
Voltandomi dall’altra parte vidi due soldati Italiani allontanare un uomo. Urlavano anche loro.
Mi strinsi involontariamente ad Alice, che notando il mio cambiamento, cercò di rassicurarmi, sorridendomi allegramente. «Quante cose si perdono i telespettatori da casa, vero?» ridacchiò Alice, passandomi una mano intorno alla spalla.
Il Tenente Cullen si voltò verso di noi, i nostri occhi s’incontrarono, e benché entrambi nascosti dalle lenti scure, sentii il suo sguardo sciogliere la plastica nera.
«Siamo quasi arrivati.» Ci disse con tono fermo.
Alice annuì, cercando di distrarmi, indicandomi un mercato dove vi erano solo donne, «dici che una cosa del genere mi donerebbe?» mi chiese.
Io mi voltai verso di lei, «intendi il burqa?»
«Si, se ci fossero di più colori sarebbero più carini non credi?»
Io la fissai allibita, «ti priverebbe di tutti i tuoi diritti, se l’indossassi. Nessuno ti riconoscerebbe più, e tu diventeresti solo una macchia in mezzo a tante altre macchie. Quei vestiti, distruggono l’immagine della donna.» Sibilai incolore.
Alice mi guardò dispiaciuta. Stava per dire qualcosa, ma entrambe sobbalzammo quando sentimmo il motore della jeep spegnersi.
Il Tenente Cullen scese dalla Jeep con un piccolo salto, controllando che la zona fosse tranquilla. Poi fece scendere tutti gli altri.
Quando ci trovammo dentro l’ospedale, un odore acre e nauseabondo invase le mie narici. Levai gli occhiali, guardandomi intorno, cercando di capire da dove provenisse. Anche gli altri m’imitarono, posando gli occhiali dentro la borsa o in tasca.
«Qui non esistono gli obitori, i cadaveri rimangono dove muoiono fin quando non passa il sacerdote a benedirli. Affidando la loro anima ad Allah.»
Mi voltai spaventata, quando sentii la voce profonda del Tenente sussurrarmi all’orecchio.
«E’ disumano vivere così.» Controbattei guardando un enorme fila di donne con in braccio i loro bambini sanguinanti.
«E’ la guerra.» Rispose semplicemente, distogliendo lo sguardo.
Eravamo rimasti solo noi cinque, il soldato che ci aveva condotto fin qui era rimasto all’esterno, dove ci avrebbe aspettato. Mentre il secondo militare era sceso con noi.
Il Dottor Smith si bloccò guardandoci, «i due civili si trovano in stanze differenti. Uno è in attesa di essere operato, l’altro è già passato sotto i bisturi ma richiede un'altra operazione, che qui purtroppo non sono in grado di fare.» Disse in tono duro.
Non l’avevo mai visto così preoccupato.
Eravamo come topolini dispersi in un enorme gabbia piena di serpenti.
«Ci conviene dividerci.» Suggerì Alice, rivolgendosi a Dexter.
Quest’ultimo annuì, concordando con Alice, «io, Alice e Garrett andiamo a cercare Abdel Nasser, l’uomo che deve essere operato.» Disse inflessibile, guardando prima il soldato Garrett e poi il Tenente.
«Mentre tu Isabella andrai con Edward al piano superiore, il nome del ragazzo è Jaffar Issam, ha quindici anni. E’ senza un braccio, sarà facile riconoscerlo.» Continuò.
Io e il Tenente annuimmo.
«Tra venti minuti ci troviamo tutti e cinque nel parcheggio posteriore. Con o senza i due civili.» Disse duro Edward, sciogliendo le nostre postazioni.
In meno di due minuti eravamo già al piano superiore a cercare Jaffar.
Senza rendermene conto, ci ritrovammo uno accanto all’altro, senza che nessuno proferisse parola.
Edward Cullen era un militare. Era un cittadino Americano che aveva deciso di servire il suo paese, combattendo. I suoi occhi erano colmi di un passato pieno di tristezza e dolore che non potevo neppure lontanamente immaginare.
Non potevo capire il perchè dei suoi moti di rabbia, o i suoi improvvisi cambiamenti d'umore. Tra tutti gli uomini presenti nel campo, lui era il più enigmatico e difficile da interpretare.
«Proviamo a chiedere a qualche infermiera.» Suggerì indicando una donna con indosso l’uniforme da infermiera. Il Tenente però mi bloccò prima che potessi avvicinarmi, stringendo la sua mano intorno al mio polso.
Mi voltai verso di lui, spaventata.
«Non chieda nulla a nessuno.»
Io lo fissai allibita, «e come facciamo a trovarlo? Usiamo i super poteri?» domandai ironicamente.
Edward mi lanciò un occhiataccia. «Il ragazzo in questione ha tentato di salvare un militare americano durante una sparatoria. I suoi cittadini lo vogliono morto.»
«Allora perché è qui? Non è pericoloso?»
Il Tenente sollevò lo sguardo dai miei occhi, notando una figura che si stava avvicinando a noi.
Sobbalzai quando sentii una voce parlarci. Non era americano, ma neppure arabo.
Lo guardai negli occhi, era un soldato italiano, che cercava di parlare in inglese.
Edward lo bloccò, parlandogli in un italiano perfetto.
Ci furono diversi scambi di battute, in cui l’unica parola che capì fu il nome di Jaffar. Il militare c’indicò un lungo corridoio.
Il Tenente lo congedò in italiano, poi si rivolse a me, «da questa parte.»
Edward mi strinse forte la mano, mentre camminavamo con passo spedito lungo il corridoio, quando entrammo nella stanza che gli era stata indicata dal cittadino italiano, non riuscii a fare altro che chiudere gli occhi.
La stanza era piena di cadaveri, la maggior parte coperti da lenzuoli bianchi, ma da molti lettini penzolavano braccia e gambe dei defunti.
Edward mi lasciò sulla soglia della porta, sollevando uno ad uno i lenzuoli per guardare i corpi. Stava cercando Jaffar.
Lo fissai incredula, osservando i suoi movimenti agili. Ogni terminazione nervosa del suo corpo irradiava agitazione e tensione. Non si voltò neppure una volta verso di me. L'unica cosa che io riuscivo a fare era guardarlo cercare il corpo del ragazzo.
Posai la testa sullo stipide della porta, stringendo le mani a pugno, così forte da far diventare le nocche bianche.
Quando il Tenente sollevò l’ultimo lenzuolo, i suoi occhi divennero il riflesso del dolore. Mi avvicinai a lui, fissando il corpo senza vita di un ragazzo senza un braccio.
Il Tenente mi fece voltare, «andiamo via. Subito.» Disse furioso.
In un primo momento non riuscii a capire il perché di quell’improvviso moto di rabbia, ma quando nell’aria iniziò a vibrare il rumore di colpi d’arma da fuoco, il mio cuore iniziò a pompare più sangue del necessario.
Le mie gambe iniziarono a tremare e se non ci fosse stata la presa salda del Tenente sarei caduta sul freddo pavimento bianco.
«Sapevano del nostro arrivo. Maledetti Iracheni!» Disse digrignando i denti.
In meno di un secondo lo vidi stringere tra le mani la mitragliatrice, mentre faceva qualche passo verso la porta.
«Si nasconda e non esca fin quando non glielo dirò io.» Mi disse duramente.
Feci come mi aveva ordinato, accovacciandomi dietro un tavolo pieno di bisturi sporchi di sangue. Cercai di non farmi assalire dalla paura e restai in ascolto.
Quando sollevai lo sguardo, Edward non era più nella stanza.
Improvvisamente prima che potessi prendere una decisione, sentii rumorosi colpi provenire da fuori la stanza. Qualcuno armato era entrato dentro l’ospedale, con l’intento di ucciderci.
I miei pensieri corsero subito a Alice e al Dottor Smith che si trovavano al piano di sotto. Se fosse successo qualcosa ad Alice, ero certa, il sergente Hale si sarebbe vendicato anche da solo, ma se fosse successo qualcosa a Dexter, tutto quello che stavamo facendo in quella terra sarebbe stato inutile.
Involontariamente strinsi forte le braccia intorno alle gambe, nascondendo il volto tra le ginocchia. L'eco assordante dei proiettili era come una colata di lava bollente. Ero invasa da un calore estraneo al mio corpo, avvolta da una bolla di paura che m'impediva di respirare.
Ero circondata da corpi senza vita, e dentro di me, sentivo la mia anima spezzarsi in due, stramazzando al suolo come un uomo colpito dalle morte più crudele.
I rumori d’arma da fuoco cessarono all'improvviso e sentii alcuni passi avvicinarsi.
Il mio cuore iniziò a battere all’impazzata, sentivo i battiti rimbombare dentro le orecchie, risuonarmi fin dentro la testa. Quando sollevai la testa, e incontrai gli occhi scuri di un ragazzo con in mano una mitragliatrice, ogni pensiero svanì.
Non esisteva più nessuno.
C'ero solo io e questo ragazzo sconosciuto, dall'aspetto troppo fragile e dal sorriso deformato.
Non c'era più neppure la mia famiglia che aspettava una mia telefonata.
La luna, lo sapevo, non sarebbe stata più di colore alabastro.
La cornice non sarebbe mai stata riempita.
Il ragazzo mi urlò qualcosa in arabo, ma per quanto mi sforzassi di capire non riuscivo a comprenderlo.
Mi puntò l’arma sulla fronte, ed era pronto ad uccidermi, senza pensarci troppo.
L’avrebbe fatto senza neppure sapere il mio nome.
Indossava una maglietta di lino bianca, priva di qualsiasi forma di protezione. Le mani stringevano il grilletto, ma le braccia sembravano così sottili che sarebbe bastato poco a spezzarle. Continuò ad urlarmi contro, fin quando non sentii il rumore di uno sparò e fui certa di essere morta. Così chiusi gli occhi, non avrei mai voluto vedere altro sangue, non se questo fosse stato il mio.
Ma quando non sentii alcun dolore provenire dal mio corpo, aprii gli occhi, ritrovandomi il corpo del ragazzo addosso, e lo sguardo del Tenente Edward Cullen fissarmi spaventato.
«Sta bene?» mi sussurrò.
Non l’avevo mai sentito parlare con quel tono di voce, così dolce e preoccupato.
Mi aiutò ad alzarmi, stringendomi in un abbraccio protettivo. «Tranquilla, adesso andiamo via.» Ero ancora completamente sotto shock, quando non so come, riuscimmo a raggiungere la Jeep.
Il Tenente mi aiutò ad entrare, e subito il mio corpo venne assalito da due esili braccia. Alice era ancora viva, ma il suo viso era completamente sporco di sangue.
La Jeep mise in moto e partì senza indugiare, lasciando indietro di noi il caos.
I miei occhi si riempirono di lacrime, quando vidi che mancava Dexter.

Buon Pomeriggio ragazze, sono diventata brava e puntuale, questa cosa sorprende anche me, devo ammetterlo.
Cosa dire di questo capitolo?
Terrificante, non è cosi? Almeno questo è quello che ho pensato io mentre lo scrivevo.
Piccole precisazioni, i campi base dove albergano i militari sono composti da dormitori e bagni pubblici. Una sola tendopoli dove si mangia e un ospedale di campo. Quello che descrivo quindi dovrebbe essere realtà, ma non essendo mai stata in questi luoghi, potrei benissimo sbagliarmi, quindi prendete le mie descrizioni con le pinze. Le cabine telefoniche invece, sono certa sono reali, perchè i militari in guerra non possono usare i cellulari e per telefonare utilizzano schede speciali. Molte delle descrizioni che faccio sono frutto di ciò che ho visto in televisione e in numerosi film. Inoltre il fatto di avere un papà poliziotto, che conosce molto bene queste cose, mi ha aiutato molto.
Durante la prima Guerra del Golfo, gli Iracheni invasero il Kuwait è per questo che cito loro durante l'assalto in ospedale.
In realtà il conflitto tra americani e Iracheni è iniziato il 20 Marzo 2003 con l'invasione dell'Iraq da parte degli Americani e dagli Inglesi, con contributi minori tra cui anche l'Italia. Però come avevo già precedentemente spiegato nel primo capitolo, questa storia intercabia fatti realmente accaduti a fatti totalmente inventati.
Ho preso la Seconda Guerra del Golfo come ambientazione, ma la mia storia andrebbe presa anche come riferimento alla corrente guerra in Libia,
Ciò che io tengo a raccontare non sono i movimenti militari, ma più specificatamente le persone. Il popolo, come potrebbe essere vissuta la guerra dai partecipanti.
Isabella Swan è una giovane dottoressa che si ritrova catapultata in un altro Mondo. Rischierà la sua vita molte volte, come accade anche nella realtà per tutte le persone che si trovano in quelle terribili zone.
Un pò per svagare, un pò perchè il romanticiscmo non guasta mai, ho inserito la storia d'amore tra Edward e Bella all'interno della storia. La stessa cosa per Alice e Jasper.
La guerra è un arma di distruttrice di massa, ma chi lo dice che da un terreno terremotato non possa nascere un fiore?
La morte del Dottor Dexter sarà un duro colpo per Bella ma anche per Alice e Edward dato che si conoscevano da tempo. Dal prossimo capitolo cambierà anche il rapporto tra i due. Ovviamente sarà graduale, non aspettatevi subito fuoco e fiamme!
Per qualsiasi dubbio o domanda, non esitate a conttatarmi.
Grazie a tutte le mie lettrici. Un bacione.
Lua93.



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Capitolo 4
*** 3# ***


3#                                                    3


10 Marzo 2003
 
Il campo sembrava essere invaso dal silenzio. E poco importava che fosse notte e che il cielo era costellato da infinite stelle, nessuno riusciva a sollevarlo lo sguardo da terra.
Il Sergente Jasper quando ci aveva visto arrivare, si era bloccato di colpo, posando i suoi occhi sulla figura minuta di Alice, che chiedeva aiuto per scendere dalla Jeep.
Non aveva aspettato neppure un secondo poi a stringerla tra le sue braccia, lì davanti a tutti.
Alice era ricoperta di sangue ma sapevamo entrambe che non era il suo.
Durante il tragitto nessuno aveva osato proferire parola. Solo il Tenente Cullen aveva continuato a borbottare parole sconnesse, ma dall’intensità con cui gli uscivano dalle labbra, ero certa che non si trattassero di complimenti. Non che ci avessi fatto molto caso in effetti, perché da quanto ci eravamo allontanati dalla piccola cittadina, mi ero chiusa in me stessa. Aspettando che tutto svanisse, come accadeva negli incubi.
Una volta rientrati alla base, ci erano corsi tutti incontro, già a conoscenza della tragedia.
Jessica si avvicinò a passo spedito verso di me, mentre tentavo di scendere dalla Jeep senza smettere di tremare. Solo le braccia forti del Tenente riuscirono a calmare i miei tremori, aiutandomi a camminare.
Non appena le esili braccia di Jessica mi circondarono le spalle, il Tenente si allontanò lasciando che nuovi spasmi mi assalissero.
Quello che accadde subito riuscivo a ricordarlo a stento.
I ricordi successivi erano solo un ammasso informe di profumi e parole. Erano ricordi amari, che bagnavano la mia mente, invasa dal terrore.
Un unico pensiero saettò nella mia mente, svelandomi una crude e reale verità. Nulla sarebbe stato come prima, non più.
 

30 Marzo 2003

 

C’era una canzone dei Queen, che cantava sempre mia madre, quando era triste e aveva voglia di piangere. Diceva che in realtà non importava niente, che nulla era veramente importante comunque soffiasse il vento.
L’aveva cantata il giorno del suo licenziamento, continuando a ripetere che era così che doveva andare e che certe donne erano portate solo a fare le mamme, e non lavorare. E lei, era felice di essere una di quelle.
L’aveva cantata subito dopo il funerale del nonno, quando papà si era chiuso nella loro stanza da letto senza dire una parola, continuando a ripetermi che andava tutto bene, e che sarebbe tornato presto a sorridere.
L’aveva cantata quando aveva scoperto di aspettare un bambino, un maschietto che avrebbe reso orgoglioso il suo papà, vincendo le partite di baseball con la scuola, e invece si era ritrovata costretta a nascondere il dolore dopo aver scoperto di averlo perso, perché non voleva farsi vedere debole ai miei occhi. La cantava spesso quando ero una bambina.
Poi improvvisamente smise di farlo, quando portai a casa il mio primo ragazzo, la sera del ballo di fine anno.
Dopo una settimana dalla festa, mi ero ritrovata con il cuore spezzato a causa del mio primo fallimento amoroso. Avevo invaso la stanza di fazzolettini bagnati e intere confezioni di gelato al pistacchio. E quando mia madre mi strinse forte tra le sue braccia, le chiesi perché avesse smesso di cantare la sua canzone, e lei mi rispose che era scaduto il suo tempo. Che da adesso in poi, sarebbe toccata a me, cantarla.
 
Levai i guanti in lattice gettandoli distrattamente nella ciotola di metallo, sospirando sollevata.
Mi passai una mano tra i capelli, sciogliendoli dalla coda che avevo fatto prima di ricucire le ferite di Owen. Il soldato che solo due ore prima si era fatto saltare in aria una bomba di carta, durante l’allenamento.
Alice uscì dalla stanza subito dopo di me, sorridendomi complice.
«Dai non prendertela, è la prima volta che lo mandano in una zona di guerra. Non c’è neppure da una settimana.» Cercò di farmi sorridere Alice.
La guardai di sottecchi, mentre mi versavo del caffè fumante dentro la prima tazza che trovai.
«Io capisco che sia difficile, la tensione, e tutto il resto,» borbottai sedendomi sopra uno scatolone pieno di medicinali, «ma come diamine può un soldato con oltre cinque anni di servizio, farsi scoppiare una bomba carta in mano?» domandai ironicamente, facendo scoppiare a ridere Alice.
«Tu ci ridi, ringraziamo il cielo che l’abbia gettata immediatamente, altrimenti a quest’ora avrebbe dovuto imparare a mangiare la minestra direttamente dal piatto, come i cane.» Continuai bevendo il caffè, amaro e senza zucchero. Già era un miracolo che ci fosse il caffè, non potevo di certo pretendere troppo.
Alice si avvicinò posando una mano sulla mia spalla, «Se ci pensi Owen potrebbe benissimo essere il nome di un cane.» Ironizzò.
Sollevai lo sguardo scuotendo la testa, «la mia era una battuta.»
«Anche la mia dottoressa Swan.» Ridacchiò Alice.
Le sorrisi finendo il mio caffè in silenzio.
Pochi minuti dopo Jessica fece il suo ingresso nella stanza, stringendo tra le braccia due enormi cartelle.
«Che roba è?» le domandò Alice avvicinandosi, per prenderne una in mano.
Mi sollevai sbuffando, raggiungendo le due donne.
«Qui dentro c’è tutto quello che è successo negli ultimi venti giorni.» Rispose Jessica a Alice, spostando poi lo sguardo su di me. «Ho fatto come mi avevi chiesto. Ho scritto tutti i nomi dei soldati che sono entrati e usciti dall’ospedale, le loro operazioni e le loro visite di routine. In più ho registrato tutti i medicinali che ci hanno inviato dagli Sati Uniti.»
Io annuì, aprendo la cartella contenente tutte le informazioni sui soldati.
«Com’è andata l’operazione di Owen?» Mi domandò Jessica, gettando un occhiata alla porta dove riposava.
«Per fortuna nessun nervo è stato intaccato. Durante l’esplosione si è riuscito a rompere solo tre dita. Chissà se la prossima volta riuscirà a fare di meglio.» Risposi sarcastica, senza sollevare lo sguardo dalla cartella clinica di John White, il soldato che venti giorni prima era stato operato da Dexter.
«Poverino, i ragazzi non fanno altro che prenderlo in giro per la sua goffaggine, ci mancava solo questa figuraccia.» Sospirò Jessica, allontanandosi dal tavolo.
Annuì distrattamente, stringendo tra le mani l’ultima cartella clinica toccata da Dexter. Non riuscivo ancora a credere che erano passati solo venti giorni dall’attentato. Cercai con tutte le mie forze di non piangere.
«Bella cos’hai?» Mi domandò Alice posando una mano sul mio braccio, «stai tremando.» Sussurrò fissandomi preoccupata, Jessica si avvicinò guardandomi allarmata.
«Jessica vai a controllare Owen.» Bisbigliai incolore.
«Bella sicura che sia tutto okay?» Mi domandò passandomi una mano tra i capelli, «sei pallida come un cadavere.»
«Sto bene.» Sibilai, sollevando lo sguardo e puntandolo dritto su di lei, «e adesso fai quello che ti ho detto senza discutere.» Continuai fredda, stringendo tra le mani la cartella clinica di John. Sentivo lo sguardo sorpreso di Alice addosso, e l’espressione sbigottita di Jessica che si trasformava in delusione.
Si allontanò dalla stanza in silenzio, lasciando me e Alice da sole.
«Che diamine ti è preso, si può sapere Bella?» Mi domandò stizzita, incrociando le braccia sotto il petto.
L’ignorai, continuando a sfogliare le cartelle cliniche dei soldati.
«Bella sto parlando con te.» Sbottò irritata, passandomi una mano davanti al viso.
Quando incontrai i suoi occhi chiari e limpidi, una fitta mi colpì in pieno stomaco, costringendomi ad abbassare lo sguardo, per non cedere al suo, supplichevole.
«Alice sbaglio o hai delle visite da fare?» le sussurrai senza voce, richiudendo la prima cartella. Sentii i suoi occhi osservarvi mentre riponevo le due cartelle sul secondo ripiano dello scaffale in metallo,
«Mi spieghi perché ti vengono quest’improvvisi cambi d’umore? Non ti ricordavo così lunatica.» Mi disse avvicinandosi alla porta, posando la mano sulla maniglia.
Fissai la sua immagine, osservando i lineamenti delicati di quel viso così raro da trovare in una zona come questa. «Non lo so.»
«Io invece credo di saperlo.» Mi disse lasciando la maniglia e facendo qualche passo verso di me.
«Non credo proprio.» Controbattei lanciandole un occhiataccia.
Sollevò un sopracciglio, sorridendomi sorniona, «non c’è nulla di cui vergognarsi Bella.»
Non riuscivo a capire dove stesse cercando di portarmi con quelle frasi sconnesse.
«Alice te lo giuro, chi ti capisce è bravo.» Le disse avvicinandomi a lei, e aprendo la porta le feci segno di uscire dalla stanza, ritrovandoci così nel piccolo corridoio.
«Possiamo parlarne se vuoi, credevo fossimo amiche.» Mi sorrise dolcemente.
Io sollevai gli occhi verso il soffitto bianco, «Alice sono solo stanca okay? Non c’è nulla di cui parlare.» Sbuffai annoiata.
Alice sollevò le mani in segno di resa, «va bene, la smetto. Vieni a mensa con me e Jessica questa sera?» mi domandò speranzosa.
«Non ho molta fame.» Le risposi in automatico.
Alice scosse la testa, «da quando hai preso il posto di Dexter non ti fai più vedere in giro.»
«Io non ho preso io posto di nessuno.» Farfugliai, stringendo le mani a pugno.
«Non volevo dire questo.» Cercò di giustificarsi.
Annuì automaticamente, cercando di non ricordare. «Ti credo Alice.»
Alice attese un paio di secondi, osservandomi attentamente. Poi non appena vide che avevo ripreso a respirare regolarmente mi sorrise, «questa sera ci saranno pollo e patate, da quando non mangi una buona coscia di pollo?» mi chiese allegramente.
Mi morsi il labbro per evitare che le rispondessi malamente.
Erano giorni che non toccavo cibo, se non qualche fetta biscottata. L’unica cosa che riuscivo a inghiottire era il caffè. Sapevo che non era molto salutare, ma il mio stomaco continuava a rifiutare qualsiasi cosa c’infilassi dentro.
«Va bene, Alice.» Sussurrai in fine, sperando che si allontanasse.
Alice mi sorrise vittoriosa, «ci vediamo tra un oretta. Mi raccomando non fare tardi. Sai che i ragazzi sono capaci di divorarsi anche i piatti per la fame.»
Le sorrisi, promettendole che non avrei fatto tardi.
Poi ci dividemmo, imboccando due strade diverse.
Immediatamente raggiunsi il piccolo bagno riservato al personale, chiudendomi la porta alle spalle. Quando finalmente mi resi conto di essere sola, potei lasciare libere le lacrime, che m’imploravano di essere liberate.
Non ero più la stessa dal giorno in cui Dexter perse la vita.
Dopo che Alice ci raccontò come erano andate le cose, come il dottor Smith avesse fatto di tutto pur di proteggerla da quei fucili impazziti. Sia lui che Garrett morirono quel giorno, mentre cercavano di sfuggire da quel massacro.
Era un miracolo quello accaduto a Alice. Riuscii a sfuggire prima che gli Iracheni si accorgessero di lei. E quando tentò di tornare indietro per aiutare Dexter si accorse che era troppo tardi. Il suo corpo non aveva più vita, così come quella del povero Garrett.
Da quel giorno divenni io il nuovo chirurgo, prendendo così il comando dell’ospedale di campo.
Da quel giorno la mia vita non fu più la stessa. E questo non era causato dalle continue operazioni chirurgiche o dalle innumerevoli scelte che ogni giorno ero costretta a prendere.
Da quel giorno qualcosa cambiò dentro di me. Qualcosa si era spezzato dentro il mio corpo, e tutto quello che mi sembrava importante prima del mio arrivo, ora non lo era più.
La dolce e tenera Isabella Swan era scomparsa quel giorno, abbandonata in quella stanza piena di cadaveri. Al suo posto c’era una nuova Isabella, che non avrebbe più fissato la luna con occhi sognanti. Una nuova ragazza che non avrebbe mai voluto scegliere di vivere la sua vita così duramente.
Ma dalle scelte del passato non si poteva scappare, e ora ero costretta a viverne le conseguenze.
 
Di notte, il cielo del deserto assumeva oscure sfumature, costellando il cielo di una miriade di stelle dall’aspetto terribilmente meraviglioso. L’afa del giorno lasciava spazio al vento pungente della notte. Un escursione termica da far accapponare la pelle per quanto fosse improvvisa.
Camminavo per il campo militare mentre indossavo il maglioncino bianco, che consapevolmente avevo portato con me.
Dalla tendopoli della mensa, provenivano schiamazzi e risate.
Salutai gentilmente Clark e Steven i soldati di turno, prima di entrarvi.
Le luci delle lampade al neon mi costrinsero ad assottigliare lo sguardo, nel tentativo di scorgere Alice e Jessica tra tutti quei soldati, terribilmente affamati.
In lontananza vidi una mano sollevarsi in aria e agitarsi convulsamente. Feci un cenno con la testa ad Alice, facendole capire di averla vista.
Sedeva in un piccolo tavolino infondo alla sala, accanto a lei c’era il Sergente Jasper, e Jessica che parlavano tra un boccone e l’altro.
Li raggiunsi, sedendomi accanto a Jessica e salutandoli educatamente.
«Buonasera dottoressa, come sono andate oggi le visite?» mi domandò gentilmente il Sergente Hale, mentre stringeva tra le mani una coscia di pollo.
Gli sorrisi educatamente, «bene, grazie.»
Osservai Alice e Jessica parlottare allegramente, come se non ci trovassimo in una mensa militare, nel bel mezzo di una guerra, ma bensì in un ristorante al sicuro dalle bombe.
«Come sta Owen?» mi chiese Jasper passandosi il tovagliolo sulle labbra.
Feci spallucce, distogliendo lo sguardo.«Si rimetterà presto, nel giro di due settimana potrà tornare in servizio.» Gli risposi.
Iniziai a guardarmi in giro, osservando i volti rilassati dei soldati che chiacchieravano allegramente, tra un boccone e un altro.
Alice catturò la mia attenzione, indicandomi il suo piatto, «tu non mangi Bella?» mi domandò con voce gentile e premurosa.
«Oh no, io sto bene così, grazie.» Le dissi prima che mi costringesse a prendere qualcosa dal suo piatto.
Ritornai a fissare i ragazzi quando il rumore di un piatto posato malamente sul nostro tavolo, catturò la mia attenzione. Abbassai immediatamente la testa, ritrovandomi sotto gli occhi un piatto fumante di pollo e patate.
Sollevai lo sguardo imbarazzata, incontrando gli occhi verdi del Tenente Cullen che mi fissavano remissivi.
Subito dopo si sedette accanto a Jasper, proprio di fronte a me.
Iniziò a mangiare come se nulla fosse, non prima di aver salutato tutti noi educatamente.
«Grazie ma non ho molta fame.»Borbottai osservando il mio piatto.
Edward sollevò lo sguardo, inarcando un sopracciglio, «farete un piccolo sforzo.» Mi disse duramente.
Alice ci osservava silenziosamente, così come Jessica che non riusciva a fare altro che fissare il corpo del Tenete. Erano poche le volte che riuscivamo a vederlo senza la divisa militare.
Quella sera infossava un pantalone nero e una canotta bianca che metteva in evidenza le sue spalle larghe. Aveva una carnagione chiara, diafana, che s’intonava perfettamente con quelle due gemme che si ritrovava al posto degli occhi.
«Mangiate, per favore.» Mi sussurrò lanciandomi un occhiata quasi supplichevole, attraverso le sue lunga ciglia.
Silenziosamente presi la forchetta e il coltello dal tavolo e iniziai a tagliare il pollo in piccoli pezzi, mangiandolo poco alla volta.
Il sorriso vittorioso del Tenente fu più bello di mille stelle. E quella sera, per la prima volta da quando mi trovavo lì, il mio stomaco non oppose resistenza.
 
Finito ci cenare, mi fermai ad aiutare Angela, la donna che lavorava all’interno della base come cuoca.
Mentre lei lavava le stoviglie, io sistemavo i tavoli per la mattina successiva.
C'eravamo conosciute durante una delle tante visite mediche che le avevo fatto. Era una ragazza di poco più di trent’anni. Soffriva di diabete, così molte volte era costretta a fare continue visite in ospedale.
Mi resi conto che saremmo diventate amiche dal nostro primo incontro, lei era quel genere di persona che rimaneva ad ascoltare in silenzio, senza giudicare.
Era una ragazza molto coraggiosa. Suo marito, Ben, era morto due anni prima nell’attentato alle Torri Gemelle. Ed era stata proprio la morte del marito che l’aveva convinta a partire come volontaria nelle zone di guerra.
Angela era una donna modesta, consapevole dei suoi limiti. Molto coraggiosa e testarda, ma terribilmente gentile e buona con tutti. Lei era una di quelle donne che come mia madre, erano programmate per amare, purtroppo però il destino le era stato avverso. Durante una delle tante visite mi spiegò che non poteva avere figli, che la natura con lei era stata maligna, negandole la gioia più grande che una donna potesse mai provare, avere un figlio.
«Sei gentile ad aiutarmi Bella, ma sono certa sarai esausta, perché non vai a dormire?» mi domandò sorridendomi gentilmente.
Scossi la testa sistemando i cereali sul bancone, «non sono stanca. Davvero.» Le dissi sollevando gli angoli delle labbra.
Angela mi guardò torva non smettendo però di sorridere, «sei davvero testarda, ma sono felice che tu mi dia una mano.»
«Lo faccio volentieri.» Le dissi, portandole gli ultimi vassoi rimasti sul tavolo.
«Però sul serio Bella, vai a dormire, altrimenti come farai domani mattina ad alzarti?» mi domandò preoccupata.
Io la guardai, perdendomi nei suoi tratti delicati. Indossava un paio di occhiali dalle spesse lenti, che le nascondevano due splendidi occhi azzurri. «Tanto non riesco mai a dormire.»
«Hai paura?» Mi domandò posandomi una mano sul braccio.
Annuì mordicchiandomi il labbro, «Ma non dei rumori dell'esplosioni che provengono dal deserto. Io ho paura di non farcela. Con Dexter era tutto più semplice, lui sapeva sempre come risolvere i problemi, io non credo di esserne capace.» Le confessai torturandomi le mani.
Angela mi sorrise dolcemente, «ascoltami bene Bella. Se Dexter ti aveva chiesto di venire qui ad aiutarlo era perché credeva in te e nelle tue capacità. Perché era certo che ce l’avresti fatta, che saresti stata forte e coraggiosa.» Mi sussurrò passandomi una mano sui capo, «e ora che lui non c’è più, ora che tu hai preso il suo posto come Chirurgo, ci stai dimostrando che quella di Dexter è stata la scelta più giusta. Nessun altro avrebbe avuto il tuo coraggio, Bella. Sei un medico e una donna straordinaria.» Mi sorrise stringendomi forte tra le sue braccia.
La ringraziai, ricambiando l'abbraccio, cercando di catturare un po’ della sua positività.
«E adesso vai a dormire, capito? Qui non c’è più bisogno di te.» Mi disse imitando il tono duro e severo del Tenente Cullen. Io scoppiai in una fragorosa risata.
«Come desiderate capo.» Ridacchiai, dandole un bacio veloce sulla guancia, ringraziandola ancora una volta prima di augurandole la buona notte.
Uscii dalla mensa chiudendomi la porta alle spalle, stringendomi le braccia intorno alle spalle. Quella era davvero una notte gelida.
Tutte le luci dei dormitori erano spente, compresa quella del Tenente Cullen e del Sergente Hale. In un primo momento pensai che Alice fosse nel suo letto, che quella sera non fosse con Jasper, ma quando vidi il Tenente Cullen fuori dal suo dormitorio, cambiai opinione.
Edward fissava il cielo, sembrava immerso in chissà quali pensieri. La sua figura era illuminata dal riflesso pallido e alabastro della luna, che quella sera sembrava ancora più grande e vicina del solito. Mi dava le spalle, eppure anche se girato, potevo immaginare la sua espressione dura e quei lineamenti dalla bellezza sconvolgente essere offuscati da un velo perenne di malinconia.
Mi avvicinai a lui silenziosamente, tanto che quando gli parlai, lo vidi sobbalzare.
«Dottoressa, cosa ci fa a quest’ora fuori dal suo dormitorio?» Mi domandò gettando la sigaretta per terra, spegnendola definitivamente con la scarpa.
Osservai i suoi movimenti silenziosamente, divertita da quel suo improvviso imbarazzo.
«Non sapevo che fumasse Tenente.» Gli dissi specchiandomi nei suoi occhi.
Quegli stessi occhi che avevano il potere di mandarmi in confusione senza il minimo sforzo.
«Mi capita di accendermi una sigaretta quando sono nervoso.» Mi spiegò distogliendo lo sguardo dal mio viso.
Inarcai un sopracciglio divertita, «devo dedurre che quindi lei è un fumatore dipendente.» Gli dissi sollevando lo sguardo verso il cielo, sorridendo, certa che lui mi stesse guardando.
«Molto divertente dottoressa, non la facevo così spiritosa.» Mi rispose serio, ma dal suo tono notai una certa nota ironica.
Feci spallucce abbassando lo sguardo verso le mie scarpe. «Alice non è nel nostro dormitorio, giusto?» gli domandai leggermente imbarazzata.
«Ho promesso a Jasper che non avrei detto nulla, anche se ormai tutti sono al corrente della loro relazione.»
Sollevai lo sguardo, osservando il suo volto illuminato dalla tenue luce della luna, «siete molto amici? Lei e il sergente intendo.»
Annuì voltandosi verso di me, «sono anni che ci conosciamo. Abbiamo frequentato la stessa accademia militare. All’epoca avevamo solo diciotto anni.» Mi spiegò inflessibile.
Chissà perché sotto quel cielo così limpido e quel vento portatore di desideri, vidi un altro uomo, celato dietro quell’espressione così rigida.
«Capisco.» risposi semplicemente.
Rimanemmo entrambi in silenzio, ascoltando i rumori del deserto.
«Lei come sta?» Mi domandò poi, voltandosi di nuovo verso di me, e inondandomi con il suo sguardo enigmatico.
«Bene.» Balbettai confusa, non riuscendo a capire il senso di quella domanda.
Il Tenente scosse la testa, «Come sta realmente, dottoressa.» Specificò infilando le mani in tasca.
Aprì la bocca come a voler rispondergli, ma le parole mi morirono in gola, quando cercai di parlare.
Come stavo?
Avevo smesso di domandermelo. Non avevo più tempo per cercare una risposta sincera.
Tutto quello che riuscivo a trovare era perchè lo vedevo riflesso nello specchio. Fin quando ci sarebbe stata la mia immagine, fin quando la luce del sole mi avrebbe permesso di vedere, io ci sarei stata. E quello per il momento poteva bastare, perchè oltre non riuscivo ad andare.

«Non volevo sembrarle sgarbato prima in mensa. Ma lei è così magra e debole, mi date l’impressione di essere come un ramoscello davanti ad un enorme tempesta.» Disse senza mai distogliere i suoi occhi dai miei.

C’era qualcosa nelle sue parole che sembravano in eterno conflitto con quel suo tono sempre freddo e distaccato. Come un dissidio interiore che non riuscivo a comprendere e che lui, molto probabilmente, non riusciva a risolvere.
«Non sono così debole come crede, Tenente.» Bisbigliai, non riuscendo a dire altro.
Edward sorrise impercettibilmente, «lo so, dottoressa. Lo so.»
Avrei tanto voluto ringraziarlo e rimanere con lui a parlare ancora tutta la notte. Ma il sonno e la stanchezza sembravano non essere d’accordo con quella mia decisione.
«E’ stanca, perché non va a letto?»
Annuì, sistemando una ciocca di capelli dietro l’orecchio, «anche lei, sembra stanco.»
Edward sospirò, «altri dieci minuti e rientro.»
Abbassai la testa imbarazzata, ricordandomi del perché lui non fosse nel suo dormitorio.
«Allora buona notte Tenente.» Bisbigliai guardandolo negli occhi.
«Notte dottoressa.» Rispose distogliendo immediatamente lo sguardo dal mio viso.
Continuava a sfuggirmi, e non riuscivo a capirne il motivo.
Gli diedi le spalle incamminandomi verso il mio dormitorio, senza mai voltare lo sguardo verso il Tenente. Quella notte, sotto un cielo stellato e una luna piena, avvertì qualcosa cambiare dentro di me. Qualcosa che si scioglieva e che cercava di liberarsi.
Ma non riuscì a capire che cosa fosse.
Quella notte il vento cambiò direzione.
 
Nothing really matters, 
Nothing really matters to me,
Any way the wind blows.



BuonSalve carissime lettrici e carissimi lettori. Torno con un nuovo capitolo, molto più leggero del precedente, ma con questo non voglio dire che sia meno importante.
Come avete letto, Bella è cambiata, non riesce più a essere la ragazza spensierata di un tempo. E come darle torto, si trova lì da un mese ormai e ne ha passate davvero tante.
C'è stato uno sbalzo temporale, come avete potuto leggere. Dal 10 Marzo, giorno della morte di Dexter, si è passato al 30 Marzo.
In questi venti giorni, la situazione all'interno del campo è cambiata, così come Isabella.
Il rapporto con Alice e Jessica si è fatto molto più intimo, soprattutto con Alice, ma come avete notato anche voi, Bella subisce cambi d'umore improvvisamente. E questo accade, non perchè è pazza, ma semplicemente perchè è piena di responsabilità. Ha preso il posto di Dexter, questo significa doppio lavoro e doppia fatica.
Il rapporto tra Alice e Jasper invece non è cambiato molto, abbiamo solo trovato un Edward consapevole e quindi rassegnato a questa nuova verità. Parlando sempre di Edward, in lui avete notato qualche cambiamento? Io direi di si.
Punto primo, si preoccupa per Bella. Se nello scorso capitolo l'abbiamo visto distaccato e disinteressato, in questo si vede benissimo quando la salute della dottoressa Swan sia invece, una sua preoccupazione. Il loro rapporto non si è ancora surriscaldato, entrambi sono avvolti dal freddo. E il fatto che ora Bella sia meno, come dire... dolce, non è certo di aiuto. Ma la morte di Dexter per quanto sia stata terribile, è stata un bene per questi due giovani. Come cosa è orribile da dire, ma dalla sua morte c'è stato un avvicinamento tra i due, che presto si scongelerà completamente.
Vediamo infine l'arrivo di un nuovo personaggio, Angela. Non sarà un personaggio particolarmente presente, arriverà all'occorrenza. Sarà un pò come il saggio del villaggio, dando in futuro, ottimi consiglia a Isabella.
Prima che me ne dimentichi, il ritornello che intonava Reneè e che possiamo trovare a fine capitolo, è l'ultima strofa di Bohemian Rhapsody, bellissima canzone dei Queen.
Detto questo, mi sono resa conto che le note che ho scritto sembrano un papiro, così vi saluto.
Ringrazio chi ha inserito la storia tra le seguite, le preferite e le ricordate. E chi ha commentato il capitolo precedente.
Un bacione a tutti!
Lua93.

P.s. Lua non è allergica alle recensioni, quindi non abbiate paura a lasciarne. Anzi sarà ben felice di leggere le vostre riflessioni e le vostre considerazioni.
      Per chi segue Buskers avviso che il capitolo è ancora in fase di scrittura, quindi sarà postato tra un paio di giorni. Grazie a tutte voi per la pazienza :)


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Capitolo 5
*** 4# ***


4#                  Questa volta consiglio di leggere il capitolo ascoltando Muse - Symphony Exogenesis Part 3, se dovesse finire prima che voi aveste terminato il capitolo, ripremete play, non ve ne pentirete!
                                                                                                    Vi chiedo gentilmente di leggere le note a fine capitolo.
                                                                                                                                         Buona lettura.


                                                                                                                                                                   4


31 Marzo 2003

Sentivo la ghiaia pungermi sotto i piedi, mentre camminavo lungo il campo, diretta ai telefoni pubblici.
Quella mattina si respirava il vento del deserto. Una brezza leggera che s’insinuava sotto pelle, nello strato cutaneo più profondo.
Era il respiro di Dio, che si rilassava dopo la tempesta.

Quella notte non avevo dormito molto, forse a causa della conversazione avvenuta con il Tenente, o semplicemente a causa della tempesta di sabbia che si era abbattuta su di noi, poche ore dopo il coprifuoco generale.
Il vento si era messo a bussare furioso, sbattendo contro i vetri del nostro dormitorio, impedendomi di prendere sonno. Rimasi sempre in uno stato di dormiveglia surreale, dove distinguere il sonno e la realtà era pressappoco impossibile. Una cosa però era certa, quella sera Alice non fece ritorno. Probabilmente Jasper le aveva impedito di uscire fuori con quella bufera.
E così mi sono ritrovata a immaginare come doveva essere, avere il Tenente nella stessa stanza, quando il cielo era ricoperto di stelle.
Chissà se Alice era riuscita a dormire, anche se stretta tra le braccia di Jasper.
Pensieri che non avevano alcun filo logico, e che inspiegabilmente non riuscivo a scacciare dalla mente.
E quando la tempesta notturna terminò, era già l’alba, un nuovo giorno era appena sorto, e i dubbi della notte non potevano attanagliare la mia mente durante le ore lavorative, decisi così di smettere di pensare, per almeno dodici ore.
Erano più di dieci giorni che non sentivo casa. Loro non potevano contattarci, non avendo nessun numero da chiamare, noi invece, potevamo telefonarli liberamente, utilizzando una scheda telefonica personale.
Avevo diritto a cinque ore di telefonate, spendibili in un mese. Un tempo relativamente troppo lungo quando si avevano a disposizione solo pochi minuti per salutare le nostre famiglie.
Raggiunsi i tre telefoni pubblici messi a disposizione, erano entrambi occupati. Così mi misi in fila, in attesa del mio turno.
Guardandomi intorno, scorsi la figura minuta di Alice uscire dal bagno femminile, con aria rilassata e riposata. La vidi accelerare il passo in direzione della mensa, mentre si sistemava il camice blu da infermiera.
Il rumore di passi frettolosi che strisciavano sulla calda terra, mi fecero voltare, scontrandomi contro due occhi verdi, irrequieti e infastiditi.
«Buongiorno Tenente.» Lo salutai con un leggero sorriso.
Involontariamente lasciai che i miei occhi esaminassero la sua intera figura, catturando ogni più piccolo particolare di quel completo militare color cammello.
«’Giorno Dottoressa, come sta?» Mi domandò addolcendo la sua dura espressione.
Sollevai lo sguardo, incontrando le sue iridi verdi che mi fissavano. Erano talmente limpidi i suoi occhi, che riuscivo a riflettermi dentro di essi.
«Edward, perché continuiamo a darci del lei? E’ ormai un mese che lavoriamo insieme.» Sorrisi cordialmente, ignorando la sua domanda.
Non riuscivo a capire il perché, ma c’era qualcosa in quella sua espressione dura e afflitta che mi rendeva irrequieta e in un certo senso spaventata. Come se avessi paura che rifiutasse.
Edward strinse la mascella, lo vidi mentre cercava di trattenersi dal dire qualcosa. I suoi occhi si spostarono dai miei, fissando un punto lontano oltre le mie spalle.
Non riuscivo a capire quei suoi improvvisi cambi di personalità. La notte scorsa mi era sembrato così gentile e disponibile a una conoscenza che non si limitasse solo alla sfera lavorativa.
«Se questo le fa piacere.» Rispose continuando a darmi del lei.
«Si, mi piacerebbe molto.» Gli sorrisi, incitandolo a cambiare atteggiamento.
Uno dei telefoni si liberò, e il sorrisone allegro del soldato mi immerse col suo calore. Ci passò accanto salutando entrambi educatamente, «sarò papà.» disse incredulo, continuando a ripeterlo quasi per auto convincersene.
Edward gli sorrise dandogli una pacca sulla spalla, «Eh bravo il nostro Peter, auguri.»
Il ragazzone dagli occhi azzurri ripeté la stessa frase diverse volte.
«Come si chiama tua moglie?» gli domandai colta dalla sorpresa.
«Charlotte. Si chiama Charlotte.» Rise, «la mia piccola Charlotte, lo sapevo io che s’era rotto qualcosa l’ultima volta. E lei che continuava a ripetermi che era una mia impressione.»
Scoppiò a ridere, come se fosse ubriaco. Io lo seguii a ruota, portandomi una mano sulla bocca per non essere troppo scortese.
«Due mesi fa, c’è stata la notte più bella della mia vita. Quella donna, è un fuoco. Ci credo che-»
Edward sollevò una mano, facendo segno di tacere.
Peter si zittì all’istante abbassando la testa, ma senza smettere di sorridere.
«Abbiamo capito Peter, adesso però non esagerare con i commenti, c’è una donna con noi.» Disse con tono severo.
Peter annuii e sebbene si sentisse mortificato non riusciva proprio a smettere di brillare. «Scusami Dottoressa.»
Sollevai leggermente gli angoli delle labbra facendo un gesto con la mano, come a voler scacciare quelle parole.
«Vai adesso, e mi raccomando, la tua Charlotte, per oggi, cerca di tenerla fuori dai tuoi pensieri, almeno quando tieni in mano un arma.» Disse autoritario Edward, facendo allontanare il soldato.
Lo vedemmo allontanarsi, poi entrambi ci voltammo verso la cabina telefonica.
«Ti ho visto quasi correre per arrivare ai telefoni, dovrai fare sicuramente una telefonata urgente. Passa avanti, io posso aspettare.» Gli dissi ritornando a guardarlo.
Scosse la testa, passandosi una mano tra la chioma ramata. «Non è così urgente.»
Annuii, incuriosita. Avrei tanto voluto sapere chi fosse il destinatario, e perché lui avesse tutta questa fretta di sentirlo.
Mi resi conto solo in quel momento, che sebbene fosse quasi un mese che lavoravo nel campo, e avessi imparato a conoscere quasi tutti i ragazzi e le ragazze della base, di Edward sapevo poco e niente.
L’unica notizia che si era lasciato scappare era stata quella sulla sua amicizia con Jasper. Probabilmente quest’ultimo era l’unico a conoscenza del perché il Tenente Cullen fosse l’uomo più enigmatico che avessi mai conosciuto.
«Se io avessi un fidanzato dall’altra parte dell’oceano che aspetta una mia telefonata, non lo farei attendere.» Gli dissi sorridendogli leggermente imbarazzata.
Edward mi guardò, senza mostrarmi alcuna emozione.
«Penso che accadrebbe anche a me, se questa persona esistesse. Ma non c’è alcuna donna che aspetta di sentire la mia voce, quindi Isabella, telefona tranquillamente, io posso aspettare.»
E non so perché, dopo quelle parole, mi nacque un sorriso spontaneo, che si disegnò sul mio viso.
Gli sorrisi, dandogli le spalle per raggiungere il telefono.
In quel momento telefonare casa non mi sembrava più tanto importante. Eppure quell’improvvisa e bizzarra felicità non m’impedì di commuovermi, quando sentì la voce di mia madre dall’altra parte del Mondo, rispondermi amorevolmente.
Quando riagganciai, feci un sospiro profondo, scacciando una lacrima solitaria che involontariamente era sfuggita al mio controllo. Mi voltai lentamente, trovando Edward a pochi metri da me, con le braccia strette sul petto e gli occhi fissi su di me.
Lo raggiunsi sorridendogli leggermente, «scusami.»
Il Tenente corrugò la fronte, incerto, «perché dovresti scusarti Isabella, è normale sentirsi così quando si è lontani da casa. Non siamo indistruttibili.»
«Che io non sono indistruttibile è un dato di fatto.»
Lo feci ridere.
«Ma sei coraggiosa.» Disse addolcendo i suoi lineamenti, «conosco un sacco di donne, che se fossero state al tuo posto, si sarebbero arrese molto prima.»
Abbassai lo sguardo leggermente imbarazzata. Era la prima volta che ci davamo entrambi del tu, e sentirlo così vicino, mi fece sentire strana.
«Edward io ti ringrazio.» Borbottai posando la mia mano sul suo braccio. Un gesto che fece scattare entrambi.
Gli occhi del Tenente si posarono immediatamente sui miei, trafiggendomi.
«Per avermi salvato la vita, tre settimane fa.» Continuai, osservando la mia mano sul suo braccio. La sua pelle era calda, vibrava leggermente.
«Non devi ringraziarmi, ho semplicemente svolto il mio compito.» Disse distogliendo lo sguardo dal mio viso, «chiunque al mio posto avrebbe fatto la stessa cosa.» Cambiò di nuovo espressione, ritornando alla sua solida maschera di cera.
Lo vidi irrigidirsi, e osservare il telefono dietro le mie spalle.
Lasciai il suo braccio, stringendo la mano a pugno dentro la tasca del camice, «si, hai ragione. E’ stato solo lavoro, chiunque l’avrebbe fatto.» Farfugliai, sentendomi in imbarazzo.
Feci per andarmene, ma la sua mano mi bloccò, costringendomi gentilmente a fermarmi.
«Isabella.» Bisbigliò combattuto, serrando la mascella.
Era un groviglio di muscoli tesi e parole che non trovavano via d’uscita.

Attesi che continuasse, ma la sua presa si fece sempre più debole, fino a quando non la sentii più.
Mi allontanai prima che potesse parlare, imboccando la strada che mi avrebbe condotto nell’ambulatorio. Mordendomi forte il labbro inferiore, durante tutto il cammino, costringendo me stessa a smettere ancora una volta di pensare.
 
 


1 Aprile 2003

Quella mattina la mensa era gremita di soldati. Vidi Angela faticare per riuscire a servire tutti. Volevo avvicinarmi e aiutarla, ma due esili braccia mi circondarono la vita impendendomi di correre da lei.
«Finalmente hai ripreso a mangiare regolarmente.» Mi sorrise Alice, indicando il vassoio pieno che reggevo in mano.
«Si, non potevo continuare a vivere di solo aria.» Le dissi, mentre ci avvicinavamo all’ultimo tavolo libero. Jessica era vicino al bancone, si stava versando un bicchiere di succo d’arancia.
Sedendoci notai che né Jasper, né Edward erano presenti in sala.
«Chi stai cercando?» Mi domandò incuriosita Alice, dando un morso alla sua brioche.
Scossi la testa, versando un po’ di latte nel mio caffè, «nessuno, stavo solo osservando Angela. Oggi è davvero impossibile servire tutti questi ragazzi.»
Alice annuì titubante, «hai ragione, povera donna, tutti pensano che quello di occuparsi della mensa sia il lavoro minore, ma non si rendono conto che è davvero faticoso.»
Stavo per risponderle, quando Jessica si sedette accanto a noi, posando il suo vassoio sul tavolo.
«Ragazze ci sono news.» Sorrise osservandoci.
Io mi voltai verso Alice, guardandola interrogativa.
«Che io sappia no.» Affermò quest’ultima ricambiando il mio sguardo.
«No, non c’è nessuna novità.» Dissi bevendo un sorso del mio caffè.
Jessica sollevò lo sguardo verso il soffitto, sbuffando, «la mia non era una domanda, ma un affermazione.» Scosse la testa come se non dovesse sorprendersi del fatto che non avessimo capito.
«E quali sarebbero queste tue grandi novità?» Domandò Alice, facendo una smorfia, «il Presidente ci rimpatria per cattivo comportamento?»
Scoppiai a ridere, beccandomi un occhiataccia da parte di Jessica.
«Come siete poco fantasiose ragazze.» Sbuffò, aprendo il suo yogurt, immergendoci il cucchiaino.
«Allora diccele, non tenerci sulle spine.» Disse Alice non finto entusiasmo. Una battuta ironica che Jessica non capì, perché il suo viso, improvvisamente s’ illuminò, gli occhi iniziarono a brillare, eccitandosi, «oggi avremo visite in ospedale.»
«Tutti i giorni abbiamo visite in ambulatorio, Jessica, non è una novità questa.» Presi un piccolo pezzo di brioche e l’immersi nel caffè.
«Si, ma oggi abbiamo un soldato speciale.»
Alice corrugò la fronte, come se stesse riflettendo.
«E chi sarebbe?» Domandai pulendomi le labbra con il tovagliolo.
Alice sbatté la mano sul tavolo, sorridendoci entusiasta. «Come ho fatto a dimenticarlo, Jessica ha ragione. Oggi verranno gli ufficiali a controllo.»
La fissai in silenzio, aspettando che continuasse.
«Jasper me l’aveva detto ieri notte.» Rise leggermente, mentre le sue guancie ci coloravano di un tiepido rossore, «Questa mattina il Tenente e Jasper verranno a controllo da noi.»
«E’ vero che le spalle del Tenente sono così larghe, e le braccia così forti da riuscire a mandarti in contro circuito solo guardandolo?» domandò Jessica, guardando negli occhi la piccola Alice.
Quest’ultima scoppiò in una fragorosa risata, «non saprei, è sempre stato Dexter a visitare gli ufficiali. Non ho mai visto Edward senza uniforma, ma ti posso assicurare che Jasper ha tutti i punti giusti per eccitarti.»
Sospirai portandomi una mano davanti il viso, «Alice!» La richiamai.
«E’ così che è scoccata la scintilla tra me e Jasper. Quattro mesi fa, durante una visita di controllo.» Ci disse ridacchiando, «Dexter era impegnato con il Tenente, così io dovetti controllare la pressione e il battito del Sergente. Vi assicuro ragazze, è stato un attimo, come se tutto si fosse bloccato. Era la prima volta che lo vedevo così esposto, e i suoi occhi, quel mare azzurro che si ritrova al posto delle iridi, è stato lo spettacolo più devastante a cui potessi mai assistere.» Sorrise con occhi sognanti.
Jessica si mordicchiava il labbro, «che incontro romantico.»
Bevvi l’ultimo sorso di caffè, riponendo la tazza sul vassoio. Mi alzai, prendendo anche quello delle altre ragazze, ormai vuoti.
«Peccato che oggi ho il giro delle visite, quindi non potrò assistere a questo meraviglioso spettacolo.» Disse dispiaciuta Jessica, alzandosi anche lei.
Alice ci seguì a ruota, camminando accanto a noi, «Bella non ti dispiace vero, ma ho promesso a Jasper che sarei stata io a visitarlo.»
Scossi la testa posando i tre vassoi sul tavolo, salutando Angela che ci osservava divertita.
«Quindi il bel tenebroso Edward, sarà tutto tuo Bella.» Esordì Jessica, leggermente irritata.
Mi voltai verso di loro, parlando per la prima volta da quando avevano intavolato quell’argomento. «Non vi eccitate troppo ragazze, sarà anche un bell’uomo, ma non penso proprio sia tutto quest’essere sovrannaturale.» Dissi, lasciando entrambe a bocca aperta.
 
Avevo una strana sensazione addosso, mentre percorrevo il lungo corridoio, che mi avrebbe portato nel mio studio.
Davanti alle ragazze, avevo cercato di non lasciarmi travolgere da quella notizia. Non era la prima volta che visitassi un uomo, anzi da quando mi trovavo qui, il mio lavoro era concentrato principalmente su uomini. Operazioni, visite di routine, cuciture, semplici prelievi. Non era quindi la prima volta che vedessi un uomo senza divisa. Ma solo al pensiero di dover visitare Edward, qualcosa dentro di me scattò, mandandomi automaticamente in confusione.
Ed era la prima volta che un uomo mi facesse quell’effetto.
Dal punto di vista sessuale, la mia vita non era mai stata frenetica, ma le mie buone esperienze, le avevo avute. Quindi sapevo riconoscere un attrazione fisica da una semplice curiosità. Quello che mi trasmetteva il Tenente solo con lo sguardo, era ipnotico, maledettamente diretto e violento.
Ma sapevo, o almeno cercavo di auto convincermi, che quello di oggi sarebbe stato solo lavoro.
Quando entrai nel mio ufficio, lo trovai in piedi, di fronte alla scrivania, con le mani che giocavano con una penna.
«Edward.» Lo chiamai, facendolo sobbalzare.
«Buongiorno Isabella.» Mi salutò impassibile.
Mi avvicinai a lui, cercando di sembrare il più professionale possibile.
Dio sembravo una ragazzina alle prime armi.
«Meglio sbrigarci, Edward ho delle visite da fare.» Gli dissi dandogli le spalle, avvicinandomi all’attaccapanni per indossare il camice bianco.
Sentì il Tenente muoversi, avvicinandosi.
«Allora Edward, dovresti sederti sul lettino.» Dissi assumendo un tono di voce autoritario, c’era una piccola soddisfazione in quello che stavo facendo. Per la prima volta da quando ci conoscevamo, ero io a prendere il comando.
Lui mi obbedì, rimanendo in silenzio.
Lo raggiunsi stringendo in mano il misuratore della pressione, e lo stetofonendoscopio.
Mi avvicinai a lui, sorridendogli, «solleva la manica, così misuriamo la pressione.»
Il tenente annuì, rigirandosi la manica della divisa. Le sue mani sembravano nervose, si muovevano frettolose. Sollevai lo sguardo sul suo viso, osservando i suoi occhi fissi sul suo braccio.
«Edward, perché sei nervoso?» Gli domandai, bloccando quel goffo movimento di mano. Gentilmente gli spostai la mano dal braccio, finendo di arrotolare la camicia color sabbia.
Lo sentì irrigidirsi, quando le mie dita sfiorarono la sua pelle.
«Non mi piacciono gli ospedali.» Rispose guardandomi.
Scossi la testa, sorridendogli, «e io che pensavo tu avessi paura, che stupida!» Dissi ironica, prendendo il misuratore, avvolgendo intorno al suo braccio il manicotto. Sollevai la testa, «non agitarti Tenente, altrimenti i valori risulteranno tutti sbagliati.» Gli dissi sorridendogli.
Lui sbuffò, passandosi una mano tra i capelli.
«Stai fermo, Edward.» Dissi leggermente scocciata, attendendo che si calmasse. Poi premetti il pulsante rosso che mise in moto il macchinario.
Osservai il volto di Edward, concentrato sul suo braccio. Strinse forte la mascella, mentre il misuratore iniziava a vibrare.
Seguì con gli occhi, i tratti di quel viso perfetto. Il naso dritto e regolare, la mascella perfettamente squadrata. Il taglio degli occhi sottile, che nascondeva sotto lunghe ciglia uno sguardo intenso. I capelli spettinati e di un colore simile al ramato, ma leggermente più scuri.
Quando i numeri sul display di fermarono, abbassai la testa, leggendo i valori.
«Centoventicinque su ottanta. Pressione davvero ottima, Tenente.» Gli dissi sarcastica, cercando di tranquillizzarlo.
Lui sbuffò, «non c’è bisogno di trattarmi come un bambino, non è la prima volta che faccio una visita medica.» M’informò mentre liberavo il braccio dal manicotto.
«E allora perché sei così nervoso?» Chiesi ancora una volta, riponendo il macchinario.
«Non lo so.» Una risposta secca, che mi lasciò con mille dubbi addosso.
Lo vidi sistemarsi la manica, iniziando a sbottonare i primi bottoni della camicia. Sollevò la testa di scatto, guardandomi interrogativo.
«Devo toglierla, giusto?»
Annuì, incapace di distogliere lo sguardo.
Non persi neppure un suo movimento, e se anche sapevo che avrei dovuto lasciargli un po’ di privacy, voltandomi dall’altra parte, lui non disse nulla, continuò invece a sfilare la camicia, rimanendo così, solo in canotta bianca.
«Anche questa.» Disse levandosela, prima che io potessi rispondergli.
Quello che videro i miei occhi, subito dopo quello strano spogliarello, era davvero qualcosa di straordinario, che se qualcuno me lo avesse detto solo qualche ora prima, non ci avrei mai creduto.
Sapevo che Edward avesse un fisico asciutto e allenato per la guerra. Ma non potevo minimamente immaginare, che dietro quel suo aspetto così maledettamente disordinato e attraente, si nascondessero due spalle così. Mi avvicinai lentamente, tracciando con l’indice il profilo dei suoi addominali.
Lo vidi sospirare, mentre stringeva il lenzuolo bianco del lettino.
Le mie mani finirono involontariamente sulle sue spalle, accarezzandole. Sentivo la sua pelle scottare sotto il mio tocco. Possedeva il corpo più bello che io avessi mai visto.
Improvvisamente, come se solo in quel momento fossi riuscita a rendermi conto di quello che stavo facendo, allontanai le mani dal suo corpo, arrossendo imbarazzata.
Presi il stetofonendoscopio tra le mani, avvicinandolo al suo petto.
L’indossai, silenziosamente, accostando la parte metallica e fredda sul suo petto, facendolo sussultare.
Inizia a muoverlo verso l’alto, fino a raggiungere il suo cuore. Batteva così furiosamente, che credetti potesse uscire dal petto.
«Non è normale che batta così forte.» Sussurrai, preoccupata.
Rimanemmo di nuovo in silenzio. Lo sentivo chiaro e forte, iniziando a contare quanti battiti facesse al minuto.
Era troppo veloce.
Alzai lo sguardo sul volto di Edward, trovandolo intento a fissarmi intensamente.
La sua mano fu più veloce della mia e con un solo colpo, mi liberò dal stetofonendoscopio, facendolo cadere a terra. L’osservai incredula, mentre portava entrambe le mani sul mio viso.
Le nostre labbra si toccarono, scatenando brividi caldi e eccitanti lungo tutta la mia spina dorsale.
Lo sentì imprecare, prima di ritornare sulle mie labbra, con una tale passione da togliermi il fiato. Tanto che dovetti sorreggermi alle sue spalle, per evitare di scivolare.
La sua lingua sfiorò la mia, riempiendomi con il suo illustre calore. Il suo profumo m’investì, facendomi annebbiare la vista.
Il mio cuore batteva furioso, così vicino al suo, da accavallare i nostri battiti, creandone uno solo.
Le sue mani scesero lungo i miei fianchi, avvicinandomi al suo corpo. Le mie, invece, salirono sul suo viso, accarezzandolo, fino a raggiungere i capelli, quell’ammasso morbido e setoso che da sempre avevo desiderato accarezzare.
Stavo bruciando viva ad ogni suo tocco. Le sue labbra erano lava incandescente, pronte a incendiarmi al loro passaggio.
Ci staccammo solo quando entrambi rimanemmo senza fiato, ma prima che potessi dire o fare qualcosa, lui mi allontanò, scendendo dal lettino.
Afferrò la sua camicia, correndo fuori dalla stanza prima che potessi anche solo rendermene conto.
Portai una mano sulle labbra, imbambolata, sentendo ancora il sapore di quelle di Edward.

 

 

Buonsalve carissime, come state?
Sono ritornata, anche se un pò in ritardo. Cosa posso dirvi se non grazie? Ho letto davvero delle bellissime recensioni e ringrazio tutte e 10 le anime che l'hanno lasciate, facendomi sorridere.
Ringrazio inoltre chi ha inserito la storia nelle tre liste, siete davvero in tanti, e io davvero non me l'aspettavo.
Per quanto riguarda questo capitolo, cosa posso dirvi?
Prima di tutto è stato diviso in due giorni. Se la situazione dal punto di vista della Guerra è abbastanza statico, quella all'interno del campo è tutt'altra cosa.
Tra Edward e Bella è davvero scoppiata la scintilla. Quello che però volevo chiedervi e di non giudicare subito Edward. Lo sappiamo tutte che è stato un vero idiota a lasciare Bella dopo averla baciata, ma cercate anche di capirlo, come direbbe la mia Professoressa di biologia "voglio vedere le vostre cellule celebrali in azione", quindi su ragazze sforzatevi al massimo per cercare di capire il perchè di questa sua improvvisa fuga.
Il prossimo capitolo molto probabilmente sarà un Pov Edward, quindi doppia sorpresa eheh.
Come vi avevo detto all'inizio di questa storia, il capitolo sarebbe stato di soli 6 capitoli, non vi preoccupata, perchè non vi lascerei mai a bocca asciutta o insoddisfatti della storia, quindi anche se il capitolo fosse solo di sei capitoli più l'epilogo la storia non verrebbe rovinata. Però vorrei che fosse voi a decidere se volete che la continui, magari allungandola. Le idee ci sono, ma preferire sapere la vostra opinione.
Un bacione e grazie a tutte le ragazze e ragazzi che recensiranno.

P.S. Il capitolo di Buskers verrà pubblicato tra Domenica e Lunedì. Mi scuso in anticipo per questo mio enorme ritardo, ma è un capitolo davvero impegnativo e vorrei che fosse perfetto, anche se difficilmente ci riuscirò a renderlo tale, voi mi raccomando non mi abbandonate!

Lua93.


 

 

 


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Capitolo 6
*** 5# ***


5. Capitolo                                                  Come ormai di abitudine, vi lascio una canzone da poter ascoltare mentre leggete il capitolo: Nine Inch Nails - Leaving Hope
                                                                        Buona lettura, ci vediamo a fine capitolo, dove vi ruberò solo due minuti...

Pov Edward


2 Marzo 2003


 Il tramonto aveva colori più vividi in questo cielo, concentrato in un unico immenso manto infuocato,che incendiava il deserto.
Attraverso la finestrella del mio ufficio, riuscivo a scorgere gli ultimi raggi del sole, che cercavano di scappare dalle tenebre, infilandosi negli angoli più nascosti, quasi nel tentativo di seppellirsi nella sabbia, confondersi con essa. L’aria era calda, satura dell’incessante odore di polvere da sparo, sempre presente nel campo.
Peter O’Shea, uno dei primi soldati ad essere stato trasferito, continuava a fischiettare, intonando una triste melodia,  mentre riordinava vecchie mappe geografiche e piante del territorio.
«Mi manca Charlotte.» Sbottò improvvisamente, chiudendo il cassetto dell’armadietto con un certo nervosismo.
Distolsi lo sguardo dai fascicoli che mi erano stati consegnati quel pomeriggio, noiose scartoffie riguardanti i soldati arrivati da poco.
«Voglio vederla, voglio sfiorarla, voglio amarla.» Farfugliò voltandosi verso di me.
«Ti ho concesso il permesso di tornare da lei solo due mesi fa, non posso accontentare ogni tuo capriccio.» Gli sorrisi, sollevandomi dalla sedia.
Peter annuì controvoglia, «lo so Edward, solo che non è facile stare così lontani dalla persona che si ama.»
«Posso capirti.»
«Lei come si chiama?» Mi domandò incuriosito.
Io scoppiai a ridere, «Kay.»
«Bionda o bruna?»
«Chiara»
«Occhi?»
«Scuri.»
«Oh, quanti anni ha?»
Feci un calcolo veloce, «cinque.»
Peter mi guardò sbalordito, ma prima che potesse farmi qualche altra domanda, lo misi a tacere, dandogli la risposta definitiva.
«E’ un labrador, Peter.»
Lui scoppiò a ridere, sollevato. «Pensavo avessi una bambina.»
Scossi la testa dandogli una pacca sulla spalla, «E’ lei la mia bambina. Quando sono in missione è mia madre che se ne occupa.»
«Come vedi posso capirti benissimo, adesso basta però, vai con gli altri e cerca di non pensare troppo a tua moglie, io devo raggiungere il Dexter.» Gli dissi, mentre mi allontanavo dall’ufficio.
«Ci proverò, tu vai, che qui chiudo io, capo.» Mi urlò alle spalle, chiaramente ancora divertito.
Quando mi chiusi la porta della caserma alle spalle, il sole era calato da diversi minuti ormai, lasciando che l'oscurità inghiottisse ogni cosa, riempiendo il campo di un inquietante silenzio.
Era difficile gestire la situazione all'interno della base, i ragazzi sembravano non essere mai pronti. Ed erano rari i momenti in cui riuscivo a distrarli, cercando di liberargli la mente.
Dovevo continuare a spronarli, cercando di riuscire a convincerli a resistere, a continuare a lottare per la nostra Patria, per i nostri stessi cittadini, ma soprattutto per la propria vita. La verità era difficile d'accettare, soprattutto quando dovevo mentirgli, dicendo loro che questa era anche una nostra guerra.
Mi trovavo nello stato del Kuwait da più di sei mesi ormai. Il mio compito, come quello dei miei soldati, era mantenere l'ordine pubblico all'interno delle cittadine limitrofe alla base, addestrare la polizia locale, garantire l'arrivo e la distribuzione degli aiuti umanitari, ma soprattutto proteggere i civili, anche se di un altra religione, anche se diversi da noi.
Era quello il compito più difficile, proteggere persone che non volevano essere protette. Difendere donne che non volevano essere difese.
Sarebbe stata una bugia dire che tutto aveva avuto inizio solo da un conflitto d'interesse che riguardava più il predominio dei giacimenti petroliferi, che il controllo totale di queste terre. Gli Stati Uniti non si sarebbero arresi facilmente, così come i Pakistani che non avevano alcuna intenzione di abbandonare la propria terra in mano al nemico.
Passai accanto al mio dormitorio, lanciando un occhiata alla luce accesa proveniente dalla finestrella. In tutto questo Inferno, c'era qualcuno che era riuscito a trovare un pezzo di Paradiso. Quella di Jasper e Alice era diventata un'abitudine, pericolosa per entrambi, ma Jasper era il mio migliore amico da tanti anni ormai, per lui avrei fatto qualsiasi cosa. Avrei continuato a fingere fin quando mi sarebbe stato concesso.
Raggiunsi velocemente l’ambulatorio, salutando cortesemente Kristen, l’unica infermiera, insieme ad Alice, sopravvissuta all’attentato, mentre usciva dalla porta principale, con in mano diverse cartelle cliniche.
«Buonasera, Tenente.» Mi sorrise, leggermente imbarazzata.
Ignorai lo sguardo malizioso lanciatomi subito dopo avermi salutato. Sapevo di non essere indifferente alle donne, e fin quando si era un ragazzo, non vi era cosa più bella che sapere di essere desiderato, e riuscire a conquistare più donne possibile, per vantarsene con gli amici. Ma l’età dei giochi era finita da un pezzo. Ero diventato uomo. Un uomo che aveva scelto come futuro, un campo di combattimento. Per svolgere il mio lavoro, trasformavo la rabbia verso il passato in qualcosa di produttivo per il mio Paese.
Entrai all’interno dell’edificio, raggiungendo velocemente l’ufficio di Dexter.
Un uomo e un medico eccezionale, nonché mio buon amico.
«Edward, pensavo non venissi più.» Ridacchiò quest’ultimo, sollevandosi dalla sedia, mentre afferrava da uno scaffale una cartella rossa.
«Ho avuto un piccolo problemino con uno dei miei ragazzi, voleva tornare da sua moglie.»
Sorrise, «come biasimarlo, questo posto è un inferno.»
Annuii, ritrovandomi d’accordo con lui. Poi come ormai d’abitudine, mi sedetti di fronte a lui, incrociando le braccia al petto.
«Avanti dimmi tutto.»
Lesse velocemente il nome scritto sulla cartella rossa, allungandomela, «questa sera non ti annoierò promesso, niente partite a scacchi.» Ridacchiò guardandomi, «volevo solo farti vedere il curriculum della Dottoressa Swan.»
«Quando arriverà?» Domandai aprendo la cartellina e sfogliando le prime pagine.
Dexter si rilassò sullo schienale della sedia, «domani, insieme a gli altri cinque ragazzi che mi aiuteranno in ospedale.»
Annuii, assimilando più informazioni possibili sulla nuova arrivata. Si era laureata da meno di un anno con il massimo dei voti, scegliendo l’azione sul campo come specializzazione. Aveva poco più di venticinque anni.
«Mi dispiace così tanto per i miei ragazzi, erano così giovani. La guerra si sta portando via gli uomini migliori, bisognerebbe smettere di ucciderci a vicenda.» Sospirò passandosi una mano tra i capelli brizzolati.
«Se cerchi sul dizionario la parola utopia, troverai come esempio la pace. Quindi non sorprenderti se ti dico che sarà impossibile eliminare la guerra.»
Stavo per chiudere il fascicolo, quando mi accorsi, di aver saltato una pagina, contenente un immagine. Ritornai indietro, concentrandomi sulla foto stampata, che ritraeva una ragazza.
«Hai proprio ragione Edward.» Sospirò Dexter.
«E’ lei?» Domandai, puntando l’indice sulla fotografia.
Dexter si allungò leggermente verso di me, in modo da poter osservare la fotografia. «Si è lei. Piuttosto giovane penserai, ma fidati di me, se ti dico che come lei non ce ne sono in giro. Ha carattere, voglia di imparare e coraggio da vendere, ma soprattutto sa come gestire situazioni difficili. Se non ne fossi stato convinto non l’avrei mai portata qui, come mia assistente.»
Dexter continuò a parlare a proposito delle sue qualità come medico e della sua brillante tesi che l’aveva portata ad ottenere come risultato finale il massimo punteggio nel suo corso. Ma i miei pensieri vorticarono sconnessi solo in direzione del suo viso. Possedeva due grandi occhi color nocciola, incastonati dentro un viso pallido a forma di cuore, incorniciato da un infinità di capelli castani, che ricadevano sinuosamente sulle sue spalle. Le labbra tirate in un mezzo sorriso, sembrava quasi che si stesse trattenendo dal farlo.
Una scarica elettrica invase il mio corpo.
«Edward mi stai ascoltando?»
Sollevai gli occhi, ritornando alla realtà. Dexter mi fissava con un sorrisetto divertito sul volto.
«Oh credo di aver capito. Vedrai allora come rimarrai incantato quando la vedrai dal vivo.» Lanciò un occhiata maliziosa in direzione della fotografia.
Senza guardare chiusi la cartella della dottoressa Swan, sollevandomi dalla sedia.
«Mi sembra abbastanza preparata, ovviamente non nego che sono leggermente titubante, dato la sua giovane età, ma mi fido di te, Dexter.» Dissi tutto in un fiato, ignorando la sua precedente battuta.
Il mio amico annuì, riprendendosi la cartella, «ottimo, sono certo lavorerete bene insieme.»
Distolsi lo sguardo, fissando il muro oltre le spalle di Dexter, mentre una strana sensazione si fece spazio dentro il mio corpo.



1 Aprile 2003


Non ero riuscito a guardarla, mentre andavo via.
Ero fuggito da lei, come un vigliacco che scappa di fronte al suo avversario incapace di affrontarlo.
Camminavo con lo sguardo rivolto verso il terreno arido e caldo di quella maledetta terra. Sentivo come fuoco sulle mia labbra, il sapore di quel bacio, e tra le mani, lungo i sottilissimi nervi che componevano le mie dita, il formicolio della rabbia e del desiderio che provavo per quella donna. Tanto potente  e sconvolgente, quanto sbagliato.
Mi allontanai dall’ospedale, furioso con me stesso, per essere stato troppo debole di fronte a quegli occhi tentatori. E se c’era una cosa che detestavo, era proprio quella di non riuscire a controllarmi.
La mia mente ripercorreva nitidamente ogni mio gesto, ogni mio tentativo di allontanarla da me, ma qualsiasi mio sforzo, qualsiasi segnale cercassi di lanciarle, lei non riusciva a scorgerlo. Così, quando me l’ero ritrovata talmente vicina da sentirmi assuefatto dal suo profumo, voglioso di quelle labbra a forma di rosa, non ero riuscito a resistere alla tentazione di possederle quelle stesse labbra.
Ed essere pelle contro pelle, sentirla come creta sotto le mie mani, mentre si lasciava andare a quel mio gesto sconsiderato.
Cristo controllati Edward, ti stai comportando come un maledetto moccioso.
Indossai la camicia, richiudendo tutti i bottoni.
I raggi caldi del sole s'infrangevano sulla mia pelle sudata, mentre cercavo un pò di riparo tra le ombre all'interno del campo.
Quando raggiunsi la caserma, vidi i miei uomini irrigidirsi e guardarmi meravigliati.
«Sull’attenti.» Ruggii, osservando i ragazzi muoversi velocemente, per cercare di formare una fila dritta e composta.
«Edward calmati, non siamo più negli anni quaranta.» Sbottò John, allontanandosi dagli altri soldati. Lo fissai esterrefatto, mentre raggiungeva la sua postazione accanto alla radio.
«Scusami?» Domandai ironicamente, «forse dalle tue parti, nel Wisconsin, non ti hanno mai insegnato il rispetto per un tuo superiore, non è così White?» Ringhiai, facendolo sobbalzare.
John si sollevò dalla sedia, «che diamine ti prende Edward, non ti sei mai comportato così?»
Osservai il resto dei ragazzi fissarmi in attesa di una mia qualche reazione. Mi passai una mano tra i capelli, «Non alzare la voce ragazzino, hai visto la metà delle cose che ho visto io. Non sai nulla della guerra e dei soldati che vi combattono.» Dissi trattenendomi dal colpirlo con un pugno.
John si pietrificò, fissandomi spaventato.
«Edward, calmati per favore.» S’intromise Peter, osservando sia me, che John.
Feci un respiro profondo, avvicinandomi alla porta del mio ufficio, quando la voce stridula di Peter catturò la mia attenzione, «vuoi parlarne?»
«E cosa dovrei dirvi, che siete una razza d’incompetenti? Frignoni e privilegiati?» Domandai con una certa nota sarcastica, che li fece incupire maggiormente.
Peter mi guardò di traverso, «non ti riconosco più.» Sospirò, voltandosi verso gli altri ragazzi. Stavo per controbattere, quando la voce pacata di Jasper catturò la nostra attenzione.
«Che sta succedendo qui?»
I miei occhi incontrarono quelli di Jasper, leggermente preoccupato. Non era difficile intuire che c’era qualcosa che non andava.
Lo vidi corrugare la fronte, pensieroso.
«Ragazzi raggiungete le vostre postazioni, oggi il deserto è più silenzioso del solito, e questo non è mai un bene.» Disse Jasper, risoluto.
Ignorai il suo sguardo arrabbiato mentre raggiungevo il mio ufficio.
Quando vi entrai, mi avvicinai alla finestrella che dava sul retro del campo, osservando l’infinità di sabbia che conteneva quella terra. Così difficile scorgere la fine, che chiunque sarebbe impazzito al solo pensiero di rimanerne imprigionati.
Sentii lo scatto secco della porta che si chiudeva e i passi frettolosi del mio migliore amico, riecheggiare in tutta la stanza.
«Edward, sei per caso impazzito?» Mi chiese leggermente sconvolto.
Mi voltai verso di lui, facendogli segno di stare zitto, ma lui, ovviamente, non mi diede retta.
«Ti sembra il modo di trattare i ragazzi? Con tutto quello che stanno passando?» Continuò imperterrito, mantenendo un tono di voce inflessibile e aspro.
Sbattei una mano sulla scrivania, facendolo sobbalzare, «dannazione Jasper, so perfettamente quello che stanno provando i miei uomini.»
Jasper sospirò, «sii più umano con loro Edward, non sono delle macchine.»
Annuii, rendendomi conto di aver esagerato con John.
«Edward, siamo amici da più di dieci anni, e ogni volta che penso di sapere come sei fatto, ecco che un nuovo lato di te emerge, scombussolando tutto.»
Sollevai lo sguardo sui suoi occhi azzurri, «che vuoi dire?»
«Che diamine è successo in ospedale?» Mi domandò laconico, aspettando una mia risposta.
 «Ovviamente nulla.»
Sollevò lo sguardo verso il soffitto. «Ovviamente nulla.» Ripeté imitandomi.
Lo fissai torvo, desiderando che se ne andasse. Ma ovviamente, lui non colse il messaggio, perché lo vidi avvicinarsi, fino a sedersi sulla sedia di fronte la scrivania.
«Dato che tu non hai voglia di parlare con me, mi toccherà fare il mio solito monologo, non è così?» Mi chiese divertito, stringendo le braccia sul petto.
Lo fissai, sedendomi sulla sedia.
«Una volta terminata la mia visita medica, sono passato nell’ufficio della dottoressa Swan, per vedere se anche tu avessi concluso.» Iniziò con tono pacato, «ma tu non c’eri.»
Aspettai che continuasse, sapevo dove voleva arrivare, lo conoscevo da troppo tempo ormai. Riuscivo benissimo ad anticipare le sue mosse, cosa che lui, non era mai stato in grado di fare, con me. Tra i due, ero sempre stato io quello più imprevedibile.
«Stavo per andare via quando all’improvviso mi sono accorto che c’era qualcosa che non andava.» Smise di sorridere, «Isabella sembrava sconvolta. Era pallida come un cadavere, così mi sono precipitato da lei, preoccupato che non si sentisse bene.»
M’irrigidii riuscendo a immaginare perfettamente la situazione in cui si era ritrovato Jasper.
«Le ho chiesto se stava bene e se avesse bisogno di qualcosa, ma lei non mi ha risposto, sembrava sotto shock.» Disse leggermente preoccupato, «adesso io mi domando, che cazzo hai combinato Edward Cullen?» Mi chiese alzando leggermente il tono, in maniera del tutto inusuale, puntandomi uno sguardo omicida.
Serrai la mascella, cercando di calmarmi.
«Edward che cosa hai fatto a quella povera ragazza?» Continuò leggermente irritato.
Lo fissai stizzito, «non è successo nulla.»
«Non  mi è sembrato sai, perché non avevo mai visto Isabella così pallida e sconvolta. Conosco quella donna da più di un mese, Alice non fa che parlarmi di lei e di quanto sotto quel suo aspetto forte si nascondi una ragazza fragile.» Sospirò grattandosi il mento, «indubbiamente, Edward, credo che Isabella non sia un soggetto facile, ma devi capire che quella ragazza si è vista morire il suo professore. L’uomo che l’ha praticamente accompagnata durante tutta la sua formazione come medico.»
«Dexter era mio amico Jasper, non dimenticare che anche io ho sofferto.» Sibilai.
Il mio migliore amico annuì, «sto solo cercando di spiegarti che dovresti comportarti meglio con Isabella.»
«Ma che ne sai tu eh? Tu che parli e non conosci la reale situazione, dovresti solo stare zitto.» Lo zittii, sbattendo la mano sul legno della scrivania, «dannazione Jasper lo so che quella ragazza è fragile. Ma non riesci proprio a capire che sto cercando in tutti i modi di non lasciarmi travolgere da lei.» Sbottai improvvisamente, sollevandomi dalla sedia e portando entrambe le mani sulla testa.
«L’ho baciata, ecco cosa è successo.» Confessai infine, osservando un sorrisetto compiaciuto spuntare sulle labbra di Jasper.
«Avanti Edward, raccontami cos’è successo in quella stanza.»
Ritornai seduto sulla sedia, fissando il mio migliore amico, cominciando a raccontargli ogni cosa. Dal mio nervosismo al suo tono gentile, fino ad arrivare al momento in cui ho sentito le sue mani accarezzare la mia pelle e la perdita del mio autocontrollo, che si sgretolava come un muro di cartongesso colpito da un tornado. «Così l’ho baciata, scollegando il cervello.» Conclusi passandomi nuovamente una mano tra i capelli.
Jasper annuì, assimilando tutte quelle nuove informazioni. Lo guardai, sperando che almeno lui potesse trovare una soluzione a quel mio enorme problema, che prendeva il nome di Isabella Swan.
«Questa ragazza ti ha letteralmente sconvolto, non era mai successo prima che perdessi il controllo.»
«Lo so.» Borbottai preoccupato.
Il mio migliore amico sorrise, «perché sei scappato via dopo averla baciata?»
Raddrizzai le spalle, irrigidendomi, «perché se fossi rimasto un altro solo minuto con lei, non sarei riuscito ad andarmene, senza aver prima commesso qualche sciocchezza.»
Scosse la testa, contrariato, «non hai risposto alla mia domanda Edward.»
«Jasper, possibile che non capisci? Eppure anche tu ci sei passato con Alice. Solo che io non posso lasciare che il desiderio che provo per quella donna diventi un problema per me, ma soprattutto per i soldati. Non riuscirei a concentrarmi con lei nelle vicinanze.» Gli spiegai, cercando di calmarmi.
«Quando i miei occhi, hanno incontrato i suoi per la prima volta, ho sentito come una fitta colpirmi lo stomaco. L’avevo capito subito che dovevo starle lontano, per non lasciare che il mio autocontrollo crollasse. Ma ogni mio tentativo sembrava inutile, perché lei continuava ad abbassare le mie difese, continuava a guardarmi con quei suoi enormi occhi capaci di far crollare il mondo.» Dissi lasciandomi andare, «e quando oggi me la sono ritrovata così vicino, non sono riuscito a fermarmi.» continuai affannosamente, «la desidero Jasper, ma non posso averla.» Sospirai lasciandomi andare sullo schienale della sedia.
Il mio migliore amico mi guardò con uno strano luccichio negli occhi, «chi ti dice che non puoi averla?»
Scossi la testa, risoluto, «non ci provare Jasper, non riuscirai a farmi cambiare idea. E’ troppo pericoloso, sia per me che per lei.»
«Io mi sono lasciato andare con Alice.» Sorrise ammiccando.
«Sappiamo entrambi che non è possibile avere relazioni all’interno della base, ma per te, che sei il mio migliore amico ho chiuso un occhio.»
«Fai la stessa cosa con Isabella.»
«Non posso.»
Jasper scosse la testa, «come vuoi Edward, solo spiegami, cosa pensi di fare adesso? L’ignorerai o le parlerai?» mi domandò incuriosito.
La sua domanda mi lasciò spiazzato. Non avevo ancora pensato a questo. Ero troppo sconvolto per riuscire a prendere una decisione, ma sapevo che qualsiasi scelta avrei preso, mi avrebbe reso infelice. Il mio compito era quello di proteggere i miei uomini, e tutte le persone che lavoravano alla base. Ci trovavamo in una terra che non era la nostra, circondati da nemici pronti ad attaccare. Una donna avrebbe alterato ogni mia decisione, sia fuori che dentro il letto. Non potevo permettermi di abbassare la guardia, l’avrei allontanata da me a qualsiasi costo.
Non ero più lo stesso da quanto Isabella aveva messo piede nella base.
«Non lo so.» Sospirai.
Jasper si alzò dalla sedia, guardandomi dall’alto, «pensaci Edward, perché ti sei infilato in un bel problema, e questa volta essere un tenente non ti servirà a nulla. Non puoi prevedere cosa accadrà.» Mi disse prima di andarsene, chiudendosi la porta alle spalle.
Mi sentivo impotente, per la prima volta, non sapevo come comportarmi.
Alzandomi dalla sedia e voltandomi verso la finestra, mi accorsi di una figura minuta che camminava frettolosamente lungo il campo.
La riconobbi immediatamente, senza il bisogno di vederla in volto.
Isabella sembrava preoccupata, si dirigeva con passo spedito lungo la mensa, stringendosi addosso il camice bianco. Sembrava così fragile, così bisognosa di un abbraccio, che subito mi maledissi per aver ceduto a quell’insensato desiderio che provo per lei. Innaturale e sbagliato, privo di logica e senso morale. Dovevo disfarmene immediatamente, prima di perdere completamente il senno della ragione.
Mi voltai pensieroso, cercando di pensare lucidamente a una soluzione.
C’era solo una cosa che potevo fare. Qualcosa di cui non sarei mai andato fiero, sarebbe stata una mossa falsa e vigliacca, ma mi avrebbe permesso di ritornare alla normalità.
Con passo spedito mi avvicinai alla porta, abbassando la maniglia quasi con rabbia.
«John.» Gridai, catturando immediatamente la sua attenzione. Il ragazzo si voltò fissandomi preoccupato.
«Ditemi Tenente.»Disse educatamente, probabilmente ancora scosso dalla nostra ultima conversazione.
Il soldato si alzò in piedi, aspettando che continuassi.
L’osservai corrugando la fronte, continuando a ripetere che quello che stavo per fare era la scelta giusta, «devi farmi un favore.»




 BuonSalve, miei carissimi lettrici e lettori, come state?
Sono più che sicura che questo capitolo vi abbia lasciato con più domande rispetto alla volta precedente. Sinceramente, ho avuto un periodo abbastanza negativo, anzi se dovessi descriverlo direi, tragico. Dal quale sono riuscita ad uscirne viva, ma non del tutto.
Sicuramente come me, avrete notato che in questo capitolo c'è qualcosa che non quadra, anche a me non convince molto, sarà che ancora non sono uscita completamente dalla crisi che mi ha portato, tra le altre cose, anche al blocco dello scrittore. Anche se definirmi una scrittrice è una parolona, solo che non riuscivo più a scrivere, così quando mi sono sbloccata questo è stato il risultato. Non eccezionale, devo dire, però meglio di niente no?
Quindi vi chiedo perdono, promettendovi che il prossimo capitolo sarà sicuramente meglio.
Ma adesso andiamo un pò con ordine.
La prima parte è un flashback, credo che l'abbiate capito tutti dalla data. Infatti è il ricordo che ha Edward della sera prima dell'arrivo di Bella. Quando Dexter gli parla della sua nuova assistente. Non so se riuscite a scorgere il leggero cambiamento tra l'Edward prima dell'arrivo di Bella e dell'Edward dopo l'arrivo di Bella. Effettivamente è difficile, ma c'è.
Poi si ritorna al tempo della storia, al momento in cui si è allontanato dall'ospedale e ha raggiunto il suo ufficio. Dove, cercherà, una soluzione al problema "Bella".
Cosa avrà in mente il tenente Cullen?
Vi dico solo che  ci sarà un colpo di scena, non indifferente.
Non aggiungo altro.
Solo non lasciatevi subito travolgere dall'amore. Perchè quello che prova Edward nei confronti di Bella è solo attrazione fisica, per il momento xD
Detto questo ringrazio tutti i voi per l'enorme pazienza che state dimostrando nei miei confronti. Prometto di tornare alla carica il più presto possibile, nel frattempo perdonatemi ancora per questo capitolo -.-
Un bacione.
Lua93.



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Capitolo 7
*** 6# ***


6#                                                                            

                                                                                        6


1 Aprile 2003


I raggi caldi del sole, filtravano attraverso la piccola finestrella del mio studio, illuminando le pareti bianche.
Lentamente mi sollevai dal lettino, sul quale mi ero seduta, e ancora scossa dall’accaduto, sistemai lo stetofonendoscopio, che avevo utilizzato per ascoltare il battito cardiaco di Edward.

Sistemai il lenzuolo bianco stropicciato del lettino, senza accorgermi di una figura alta alle mie spalle.
Mi voltai spaventata, facendo un grosso respiro di sollievo nel vedere il volto di Jasper.
«Scusami Isabella, non volevo spaventarti.» Mi parlò lentamente, fissandomi.
Sollevai la mano destra, facendo un gesto frettoloso, come se volessi scacciare le sue parole, «tranquillo, è stata colpa mia, non ti avevo sentito arrivare.»
Jasper sorrise leggermente, «vedo che Edward è già andato via.»
M’immobilizzai, voltando il volto da un’altra parte, in modo che non potesse vedermi. «Si, la sua salute è eccellente, non c’è voluto molto.» Farfugliai, avvicinandomi alla scrivania.
«Tutto bene Isabella, mi sembri un po’ agitata, è successo qualcosa?» Mi domandò troppo apprensivo.
Gli risposi senza voltarmi, «sto bene, davvero.»
«Il Tenente vi ha forse detto qualcosa di sconveniente?» Mi chiese con finta innocenza.
Mi voltai verso di lui, «il Tenente è stato molto professionale e distaccato, come giusto che sia.» Risposi falsamente, utilizzando il suo stesso tono di voce.
Jasper annuì, rimanendo in silenzio, i suoi occhi si spostarono dietro le mie spalle, sembrava quasi preoccupato. «Mi aveva detto di aspettarlo fuori dal tuo ufficio, in modo da tornare insieme in caserma.»
Deglutii passandomi una mano tra i capelli, «se ne sarà dimenticato.»
Il sopracciglio alzato e l’espressione beffarda che comparvero sul volto di Jasper mi fecero capire che questo era impossibile. «Lui non si dimentica mai nulla.»
«Che cosa stai cercando di dirmi?» Gli chiesi mettendomi sulla difensiva.
Il sorriso amichevole di Jasper allentò la tensione dei miei muscoli, ma nei suoi occhi leggevo tutt’altro che curiosità, «nulla Isabella. Solo vorrei cercare di capire il vostro comportamento.»
«Il mio comportamento?»
Il Sergente annuì, «non solo il tuo, con vostro intendo anche l’atteggiamento di Edward.» Rispose risoluto.
L’osservai leggermente in imbarazzo, «Jasper parla chiaro, non comprendo le tue strategie militari.»
«Quale strategia Isabella? Stavo solo cercando di capire cos'è accaduto dentro questa stanza.»
«Ho visitato il Tenente, poi lui è andato via.»
Scosse la testa, «sembravi sconvolta quando sono entrato, e ancora adesso, hai gli occhi lucidi, Isabella posso sapere cos’è successo?»
Feci un respiro profondo prima di rispondergli, «se credi di conoscere così bene il Tenente, perché non vai a chiederlo direttamente a lui. Avrai la conferma di ciò che ti ho detto, qui non è successo nulla.» Risposi quasi di digrignando i denti. Avrei fatto ad Alice una bella ramanzina a proposito del suo fidanzato. Questo suo atteggiamento non riuscivo a decifrarlo, perché insistere così tanto?
«Buona idea.» Ridacchiò, salutandomi cortesemente prima di uscire dal mio ufficio.
Quando finalmente fui sola, mi lasciai scivolare sulla sedia, facendo un grosso respiro, per calmarmi.
 
 
«Non posso visitarla in queste condizioni.» Sbottai contrariata.
Alice si voltò a fissarmi, come me, cercava di trovare una soluzione, ma entrambe trovavamo difficile, tradurre le parole di quella donna.
«Se non mi lasci visitare tua figlia, non posso aiutarla, mi capisci?» Quasi strillai, sovrapponendo le mie parole, a quelle arabe che la sconosciuta mi stava gettando addosso da quasi dieci minuti.
«Peter dannazione, cosa sta dicendo?» Domandò esasperata Alice, voltandosi verso il soldato che l’aveva condotta in ospedale.
Ci trovavamo dentro il piccolo ambulatorio, dove le pareti rifrangevano le urla disperate di quella povera madre, che cercava forsennatamente di farsi capire.
«Non ne ho la più pallida idea.» Rispose Peter, imbambolato.
La donna stringeva una bambina di pochi mesi tra le braccia, avvolta da solo una coperta azzurra di lino, che lasciava intravedere il volto piccolo e sofferente della neonata. Gli occhi della bambina erano chiusi, sembrava quasi che dormisse, ma dalla sua boccuccia continuavano a uscire gemiti disperati.
«Dobbiamo sedare la madre.»
Alice si voltò verso di me, sorpresa. Le lanciai un’occhiata veloce, facendole intendere che la mia non era né una domanda né una costatazione, ma un ordine ben preciso.
Cercai di calmare la donna, allungando la mano verso la bambina, in modo che potessi prenderla tra le braccia, ma la madre spinse via le mie braccia, urlandomi qualcosa nella sua lingua.
«Non la porto da nessuna parte, devo solo visitarla.» Le dissi lentamente, sperando che lei potesse capirmi, e magari, ascoltarmi.
Alice nel frattempo preparò la siringa, spostando gli occhi prima su di me, poi sulla donna. Le annuii silenziosamente, «non fartene accorgere, sistemati dietro le sue spalle.» Le dissi senza mai distogliere lo sguardo dalla donna, in questo modo poteva pensare che stavo parlando con lei.
Alice fece esattamente come le dissi, avvicinando l’ago alla donna.
Gli occhi scuri dell’iraniana erano rossi e colmi di lacrime. Continuava a muoversi troppo velocemente, per Alice sarebbe stato impossibile sedarla. Così mi avvicinai a lei, osservando la tunica nera che indossava, e che lasciava scoperto solo gli occhi.
«Peter io prendo la bambina, tu cerca di farla stare ferma.»
Il soldato annuì, «sarebbe tutto molto più semplice se parlassimo l’arabo.»
«E’ una lingua che conosci?» Gli domandai stizzita, voltandomi verso di lui.
Gli occhi chiari di Peter mi fissarono sconcertati, non rispose alla mia provocazione, ma si sistemo dietro di me, pronto a bloccare la donna non appena avessi preso la bambina.
Feci un grosso respiro.
«Signora mi dia la sua bambina, non lo vede che sta male, piange disperatamente.»Tentai di parlarle un'altra volta, con scarsi risultati, così, dopo aver dato un cenno di assenso ad Alice, mi avventai sulla donna, strappandole la bambina dalle braccia.
La donna lanciò un urlo di terrore, e nel tentativo di riprendersi la bambina, mi spinse via con rabbia. Barcollai nel tentativo di trovare un appoggio, e prima che potessi ritrovarmi a terra con la piccola, mi aggrappai allo schienale della sedia, riuscendo ad arrestare la mia caduta.
Nel frattempo Peter l’aveva immobilizzata e Alice era riuscita a sedarla.
La donna continuò a dimenarsi per altri dieci secondi, poi chiuse gli occhi, addormentandosi.
Peter e Alice si voltarono contemporaneamente verso di me. Io abbassai lo sguardo sulla bambina che reggevo in braccio, i suoi gemiti rimbombavano nelle mie orecchie. Riuscivo a sentire la pelle calda della neonata attraverso la leggera coperta che l’avvolgeva.
«Prima pretende che l’aiutiamo, poi ci proibisce di visitare la figlia.» Borbottò Alice, voltandosi verso la donna, sdraiata sul lettino.
Accarezzai la fronte bollente della bambina, «Alice, mi servono degli antibiotici immediatamente. Potrebbe non farcela, ha difficoltà a respirare e il suo battito è troppo debole.»
Alice si allontanò immediatamente dalla donna, uscendo dalla stanza, quasi correndo.
Peter sollevò lo sguardo, «che cos’ha?»
Rimasi in silenzio, posando la mano sulla fronte della neonata, per poi scendere sul suo petto. Sentivo il suo cuore battere furiosamente, troppo velocemente perchè potesse essere considerato normale. I respiri della piccola erano alternati, si spezzavano prima che potesse acquistare nuova aria dall'esterno.
«Non ne sono sicura, ma credo sia tubercolosi.» Risposi allontanando la bambina dalla stanza, e con lei in braccio, raggiunsi Alice, con i battiti del cuore che mi rimbombavano fin dentro i timpani.

Non appena fui certa che la neonata era fuori pericolo, la lasciai sotto la sorveglianza di Alice.
La visitai accuratamente, facendole diverse volte gli stessi esami, ma gli esiti erano chiari, la piccola era malata di tubercolosi polmonare. I sintomi erano abbastanza chiari, febbre, prividi, perdita di peso e uno strano pallore che stonava con la carnagione scura della neonata. Sapevo che non c'era molto tempo, prima che la malattia potesse diventare contagiosa.
Così con passo veloce, e molto preoccupata mi allontanai dall’ospedale, quasi correndo all’interno della base.

Passando di fronte la caserma dei soldati, una strana stretta allo stomaco m’impedii di respirare.
Non avevo avuto neppure il tempo di metabolizzare l’accaduto, che subito Edward era fuggito via, allontanandosi sia da me sia da ogni responsabilità di quel gesto. In quel momento, se non fosse che c’era una bambina che stava lottando contro la morte, sarei andata da lui.
Rimanevano solo due ore, prima che la donna si svegliasse, richiamando l’attenzione su di se e sulla sua bambina. Non sapevo con esattezza da quanto tempo la malattia fosse in incubazione e quanto fosse scoppiata, ma in quel frangente le possibilità di contagio erano davvero molto alte. L’unica soluzione era quella di parlare con la madre, chiedendole da quale villaggio provenisse e inseguito farle una visita specializzata per accertarmi che anche lei non l’avesse contratta.
Raggiunsi frettolosamente la mensa, che lentamente iniziava a popolarsi di soldati. Inizia ad agitarmi, cercando con lo sguardo Angela. E non appena la vidi, intenta a servire uno dei soldati, corsi verso di lei.
«Bella!» Esclamò Angela sorpresa.
Con non troppa facilità cercai di regolarizzare il respiro, reggendomi al tavolo sul quale si trovavano i piatti. Uno dei soldati ci raggiunse, fissandomi preoccupato.
«Dottoressa, stai bene?» Mi domandò posando una mano sulla mia spalla.
Annuii distrattamente, sollevando lo sguardo su Angela, «mi serve il tuo aiuto.» Biascicai, tra un respiro e un altro. Ricordavo di una conversazione avvenuta con Angela, nella quale mi raccontava di un corso d'arabo che aveva frequentato in America prima di partire, diversi anni prima.
«Che cosa è successo?» Mi domandò posando il mestolo.
«Una donna araba è venuta in ospedale questa mattina, è stato Peter a portarla da noi.» Iniziai, afferrando il bicchiere colmo d’acqua che il soldato mi aveva gentilmente offerto.
Bevvii tutto in un sorso, rischiando quasi di affogarmi. «Aveva una bambina con se, per riuscire a visitarla abbiamo dovuto sedare la madre, sembrava indemoniata. Comunque sia, la neonata è malata di tubercolosi polmonare, da diversi giorni.»
Angela corrugò la fronte non riuscendo a capire.
«C’è una neonata malata di tubercolosi nel campo?» Domandò il soldato agitandosi.
Annuii ancora una volta, senza voltarmi verso di lui, ma tenendo lo sguardo immobile sul volto di Angela, «la madre si sveglierà tra poco, e noi abbiamo bisogno di porgli alcune domande. Tu sei l’unica che conosce l’arabo qui dentro.»
Angela scosse la testa, «Bella ho fatto solo un corso, tra l’altro nemmeno concluso, potrei imbrogliarmi e sbagliare a tradurre.» Borbottò contrariata.
«Tubercolosi.» Continuò a ripetere il soldato, come se fosse una cantilena.
Intorno a noi si era cristallizzato uno strano silenzio, tutti quanti si voltarono per cercare di capire cosa stesse succedendo.
«Angela non importa, è sempre meglio di niente. Non capisci, se non parliamo con la madre, non solo rischiamo la morte della bambina, ma potrebbero esserci complicazioni molto più gravi di quante immagini.»
«Che cosa intendi dire?» Mi chiese titubante.
Voltandomi mi accorsi che tutti gli occhi erano puntati su di me. Deglutii, prima di rispondere, «Non sappiamo ancora se anche la madre può essere infetta e se sia stata proprio lei a trasmettere la malattia alla neonata. Questo significa che l’intero villaggio dal quale proviene la donna potrebbe essere a rischio.»
«Se si viene infettati quanto tempo occorre prima che si possa contagiare?» Mi domandò perplesso il soldato, fissandomi terrorizzato.
Mi voltai verso di lui, «non appena la malattia è attiva ci vogliono circa due settimane prima che si possa trasmettere.»
Angela sospirò, «va bene, prima che le cose peggiorino, è meglio prevenire.»
Le sorrisi, ringraziandola.
«Dobbiamo avvisare immediatamente il Tenente.» Disse improvvisamente il soldato che fino ad ora era rimasto in silenzio, dietro di noi.
Mi voltai verso di lui, «perché?»
«Ci sono due persone malate di tubercolosi all’interno del campo, prima che esplodi il contagio, dobbiamo allontanarle.» Mi rispose risoluto.
Lo fissai in cagnesco, «devo prima fare tutte le dovute visite mediche e inseguito le allontaneremo dall’ospedale per portarle in una sede specializzata.»
Il soldato che mi aveva allungato il suo bicchiere d’acqua ritornò attivo, fissando prima il suo collega e poi me, «sono solo due maledette straniere arabe, allontaniamole prima che infettino anche noi.»
«Sono due esseri umani dannazione, e quella che rischia la vita è solo una neonata, lo capisci?»Ruggii, facendolo indietreggiare, «non osare mai più dire una cosa del genere.»
Angela mi afferrò per il braccio, trascinandomi fuori dalla mensa.
«Avviseranno Edward dell’accaduto.» Mi disse mentre ci dirigevamo con passo svelto verso l’ospedale del campo.
Grugnii contrariata, «per quel che mi riguarda il Tenente Edward Cullen potrebbe benissimo andare all’Inferno.»
 
 
La donna si chiamava Jannah, da quando si era risvegliata e Angela le aveva parlato, non aveva fatto altro che pronunciare il nome della sua bambina, evitando di rispondere alle nostre domande. Avevamo scoperto troppo poco, a stento eravamo riuscite a sapere il suo nome e quello della neonata, ma non voleva dirci altro. Adesso che aveva visto sua figlia smettere di piangere, aveva smesso di urlare anche lei.
«Deve dirti da quanto tempo la bambina era in quelle condizioni, ma soprattutto da quale villaggio provengono.»
Angela cercò di tradurre come meglio poteva le mie domande, ma Jannah continuava a scuotere la testa e a ripetere il nome di sua figlia.
«Nadira non guarirà se lei non risponde alle nostre domande.» Sospirai, sedendomi accanto alla donna.
Angela ripeté le mie stesse parole nella sua lingua, poi mi fissò, aspettandosi dell’altro.
«Sua figlia è molto malata Jannah, potrebbe non sopravvivere. Ha bisogno di cure che qui non siamo in grado di darle, deve essere trasferita al più presto.»
La donna ascoltò le mie parole, poi si voltò verso Angela, ascoltandole nella sua lingua. I suoi occhi scuri si fecero rossi e una lacrima rimase imprigionata nel suo burqa.
Poi, dopo minuti che parvero ore, iniziò a parlare, lentamente, in modo che Angela potesse capirla.
«Dice che è scappata dal suo villaggio, perché il marito non voleva che Nadira venisse curata.» Disse Angela, rabbrividendo nel pronunciare quelle parole.
Io mi voltai verso Jannah che continuava a parlare, mentre si torturava le pieghe del suo vestito.
«E’ la prima bambina che ha avuto, dopo cinque figli maschi. Il marito avrebbe voluto liberarsi della neonata molto tempo prima, ma aveva acconsentito a lasciarla crescere con la madre, convinto che potesse essere poi utile per qualche scambio.»
Mi voltai verso Angela sorpresa e terrorizzata nello stesso tempo, «scambio?»
Angela annuì tristemente, «intende matrimonio, Bella.»
Jannah riprese a parlare, mentre la sua voce tremava. Rimasi in silenzio distogliendo lo sguardo dai suoi occhi. L’unica parte del suo corpo scoperta dal burqa, ma anche l’unica che lasciava libera la sua anima e la sua infinita tristezza.
«Quando il marito ha scoperto della bambina, era intenzionato a lasciarla morire, ma Jannah è scappata, correndo per diverse ore per il deserto, consapevole del pericolo che si stava lasciando alle spalle.»
Feci segno ad Angela di proseguire, mentre osservavo Alice somministrare un’altra piccola dose di antibiotici a Nadira.
«Non si era resa conto di essere così vicina al confine, e si spaventò molto nel vedere il nostro campo, ma l’amore per la sua bambina era più forte della paura della morte, così corse verso di noi.
«Dice di aver avuto paura di essere sparata, perchè i soldati iniziarono ad urlargli contro, ma lei non capiva le loro parole. Così si buttò a terra, nascondendo la bambina tra le sue braccia. Poi un soldato si è avvicinato e ha visto che tra le braccia reggeva una neonata, così ha urlato qualcosa agli altri militari, in modo da abbassare le armi. Ha detto che non potendo sollevare lo sguardo per vederlo in volto, non può dire quale soldato si fosse avvicinato, ma ricorda il suo profumo, ed era lo stesso che sentiva quando eravamo nel tuo ufficio. Comunque sia, il soldato ha cercato di tranquillizzarla, senza puntargli nessuna arma addosso, e di questo ne è grata.» Continuò bloccandosi.
Parlava di Peter.
Non doveva essere facile per Angela, interpretare una lingua così difficile.
«Chiede scusa per il suo comportamento, non voleva reagire in quel modo, ma aveva troppa paura per la sua bambina. Adesso vi ringrazia.» Concluse Angela, singhiozzando.
Allungai una mano verso Jannah, sperando che lei potesse stringerla, ma la sua cultura le impediva qualsiasi contatto esterno. Un nodo alla gola m’invase, mozzandomi il respiro.
«Dille che è al sicuro adesso, ma che dobbiamo sapere da dove proviene e se anche lei è infetta.» Dissi rivolgendomi ad Angela.
Quest’ultima annuii, traducendo quello che avevo appena detto, a Jannah.
La donna attese in silenzio, sospirando e scuotendo ancora una volta la testa.
«Dille che non abbiamo nessuna intenzione di riportarla da suo marito, ma che quello che le ho chiesto è necessario per salvare la sua bambina.» Provai ancora, sperando con tutta me stessa che potesse cambiare idea.
Aspettando una sua risposta mi avvicinai alla porta della camera della neonata, dove eravamo state costrette a metterla per isolarla dagli altri soldati.
Alice uscì dalla porta, levandosi la mascherina e i guanti in lattice.
«Ha ancora la febbre molto alta, Bella non credo che noi possiamo fare molto.» Mi disse combattuta, gettando i guanti nel cestino accanto alla porta.
«Dobbiamo trasportarla in un centro qualificato.»
Alice si voltò verso di me, dispiaciuta, «e se la portassimo all’ospedale di Kuwait City?»
Scossi la testa voltandomi verso Jannah, «non possiamo, è scappata dal suo villaggio, abbandonando il marito, se la lasciamo sola, l’uomo tornerà a prendersela.»
«Il marito sa che si trova in questa base?»
«Non credo.» Le risposi, posandole una mano sul braccio, e sorridendole per rassicurarla.
Ritornai da Angela e Jannah, fissando entrambe le donne negli occhi, «allora Angela?»
«Ha detto che non possiamo sapere da dove proviene, perché ha paura che noi la riportiamo dal marito, però ha risposto alla tua seconda domanda, dicendo che nessun altro nella sua famiglia ha avuto gli stessi sintomi di Nadira,  e che sono sette giorni che la neonata è in queste condizioni.» M’informò sedendosi accanto a Jannah, che nel frattempo aveva ripreso a piangere.
Abbraccia Angela, stringendola forte, «sei stata fantastica, conosci l’arabo davvero molto bene.»
«Credo sia questione di forza di volontà, da dopo la morte di Ben, mi sono buttata a capo fitto in questo lavoro.» Mi disse tristemente, nominando il defunto marito.
«Sei una donna eccezionale.» Le sorrisi fiera di averla nella mia squadra.
Angela ridacchiò, cercando di smorzare un po’ la situazione, «cosa pensi di fare adesso?»
Feci spallucce, «farò una visita alla madre per accertarmi che anche lei non sia contagiata, poi vedremo.»
Alice si avvicinò fissandomi, «posso visitarla io Jannah, così da non lasciare sola la bambina.»
Le sorrisi, «va bene.»
Angela si voltò verso Jannah, informandola delle nostre intenzioni. Dopo un attimo d’incertezza, si decise a seguire Alice, ma solo dopo che Angela fu costretta a prometterle che sarebbe tornata presto da Nadira.
Una volta sole, posai la testa sulla spalla di Angela, socchiudendo gli occhi, incapace di pensare.
 

«Dov’è la dottoressa?»
Una voce roca e infuriata rimbombò nella mia mente, facendomi aprire gli occhi spaventata.
Non mi ricordavo di essermi addormentata, così quando mi sollevai dalla sedia, dovetti sorreggermi al muro per evitare di cadere, presa da un improvviso capogiro.
Mi avvicinai alla porta di Nadira, osservandola dall’esterno.
La piccola sembrava dormire tranquillamente, agitandosi di tanto in tanto, ma aveva smesso di piangere. Voltandomi vidi che non c’era nessuno come me, ma il suono di passi frettolosi mi fece intendere che non lo sarei stata ancora per molto.
La prima persona che vidi fu Angela, che trovò subito i miei occhi. La fissai con aria interrogativa, perdendomi in quell’oceano scuro colmo di una tristezza che non riuscivo a concepire, forse perché ce n’era troppa in un corpo così piccolo.
Non appena lei si spostò vidi l’uniforme color cammello di Jasper, e i capelli ramati di Edward. Quando quest’ultimo sollevò lo sguardo dal freddo pavimento e incontrò i miei occhi, strinse forte i pugni, avendo presso a poco la mia stessa reazione.
«Dottoressa, puoi spiegarmi che diamine sta succedendo?» Mi domandò con finto buonismo il Tenente, fissandomi adirato. Per lo meno, non aveva ripreso a darmi del lei.
Feci spallucce, sedendomi con nonchalance sulla sedia dov’ero seduta prima del loro arrivo.
«Sto svolgendo semplicemente il mio lavoro.»
Lui sospirò, passandosi una mano tra i capelli scompigliati, proprio lì, dove solo quella mattina le mie dita avevano giocato.
«Cos’è questa storia di una donna araba e della sua bambina malata?» Mi domandò senza distogliere i suoi occhi dai miei.
«Questa mattina Peter ha condotto in ospedale una donna e una bambina, proprio come hai detto tu. La bambina è malata, ed io me ne sto prendendo cura.» Gli risposi con astio.
Lui fece un passo verso di me, guardandomi in cagnesco. Poi si voltò verso Jasper e Angela, «lasciateci soli.»
In un primo momento entrambi rimasero immobili, ma dopo una seconda occhiata da parte di Edward si allontanarono, fissandomi con aria colpevole.
Una volta soli, mi sollevai dalla sedia, avvicinandomi alla porta di Nadira, dando le spalle a Edward.
«Dobbiamo parlare.» Disse dopo più di un minuto di silenzio.
Gli risposi senza voltarmi, «la bambina ha solo pochi mesi, è malata di tubercolosi polmonare da una settimana, restano solo altri sette giorni prima che la malattia inizi a diventare pericolosamente contagiosa.» Parlai velocemente, posando il palmo della mano sulla maniglia, consapevole che non sarei entrata nella stanza.
«Non possono stare dentro la base.» Disse lapidario.
Mi voltai verso di lui, scontrandomi con due gemme penetranti e terribilmente affascinanti, «non la lascerò morire.» Controbattei, stringendo le mani a pugno.
Edward scosse la testa, imprecando a bassa voce.
«Il marito di Jannah vuole uccidere la piccola, e questo io non posso permetterlo, se tu le lascerai andare io andrò con loro.» Sentenziai mantenendo un’auto controllo che non credevo di poter reggere, non di fronte a lui, soprattutto non così vicino a lui.
Edward inarcò un sopracciglio, «oh non essere melodrammatica Isabella, cos’hai, istinto materno nei confronti della bambina? O è solo un dispetto che vuoi farmi?» Mi domando sprezzante, avvicinandosi.
Sgranai gli occhi, incredula, «un dispetto per cosa Edward, sentiamo.»
Lui mi diede le spalle, iniziando a camminare avanti e indietro, «forse per quello che accaduto questa mattina.»
Indignata e anche abbastanza delusa mi voltai verso Nadira, «perché cosa è successo questa mattina?» gli domandai mentendogli.
«Ci siamo baciati.» Rispose rassegnato, perdendo un po’ di quella freddezza che tanto lo caratterizzava.
Deglutii sollevando gli occhi verso il soffitto, «tu mi hai baciato.»
Mi sentii afferrare per un braccio, e fui costretta a voltarmi e a scontrarmi contro il suo sguardo inferocito.
«Non mi sembrava che tu ti stessi ribellando.»
Mi liberai dalla sua stretta, stizzita, «questa potevi risparmiartela.»
«Comunque sia hai ragione, questa mattina non è successo nulla, è stato solo un momento di debolezza, che non si ripeterà.» Disse risoluto, e le sue parole furono dette con così tanta determinazione da farmi intendere che sarebbe stato realmente così. E se una parte di me, si sentiva sollevata, l’altra stava sprofondando.
«Bene, chiuso l’argomento.» Sbottai.
«Bene.» Ripeté lui, questa volta avvicinandosi alla parete a vetro che ci separava dalla piccola Nadira. «Non possono comunque rimanere Isabella, se qualcuno dovesse venire a sapere che nascondiamo una fuggitiva, come pensi reagiranno i cittadini del suo paese, ma soprattutto suo marito?»
Mi voltai verso di lui, «non possiamo portarla a casa, un uomo che vuole uccidere la propria figlia non merita niente, soprattutto amore e compassione.»
Edward fece una smorfia, «da queste parti nessuno ragiona come te.»
«Sarà, ma la bambina adesso non può muoversi.» Risposi giocando sulle mie competenze per raggiungere il mio obiettivo.
«E io non posso di certo tenerla qui dentro, con i miei soldati. Che cosa pensi che succederà se solo uno dei miei uomini dovesse contrarre la tubercolosi?» Mi chiese con un sorriso beffardo.
Lo guardai cercando di non inveirgli contro, possibile che dentro un corpo così bello si nascondesse un uomo così freddo e senza scrupoli?
«Non accadrà.»
Inarcò un sopracciglio, «ne sei certa?»
«Edward, per favore.» Mi voltai verso di lui, stanca di lottare, stanca di continuare a fingere questo disinteresse. Sentivo le lacrime pungermi gli angoli degli occhi, pronte a liberarsi, se solo non avessi mantenuto un minimo di autocontrollo.
Lo vidi stringere i pugni, e lottare contro se stesso. Era combattuto, e nei suoi occhi, potevo leggere tutto il disappunto e la voglia di risolvere alla svelta questa situazione.
«Cosa pensi avrebbe fatto Dexter?» Gli domandai, posando la mano sul vetro, «secondo te, l’avrebbe abbandonata?» continuai sentendo la mia voce sempre più lontana.
Edward scosse la testa, «la madre è infetta?»
In quello stesso momento la figura minuta di Alice attirò la nostra attenzione, seguito da Jannah, che camminava con la testa bassa. «No, Jannah sta bene.» Rispose Alice, al mio posto.
Le sorrisi, mimandole un grazie con le labbra, poi mi voltai verso Edward.
«Sarai la mia rovina Isabella.» Borbottò più a se stesso che a me.
I suoi occhi erano fissi sulla figura di Jannah, poi con mia grande sorpresa le parlò nella sua lingua. Sia io che Alice ci voltammo verso il Tenente, entrambe sorprese.
Jannah scosse la testa.
«Cosa le hai detto?» Gli chiesi preoccupata.
Edward ignorò la mia domanda e continuò a parlare a Jannah, ma senza ottenere risposta, continuava a scuotere la testa, senza sollevare mai lo sguardo.
«Non può rimanere qui Isabella, ci sono troppo uomini presenti nel campo, non lo vedi, non può neppure rispondere alle mie domande. E' una religione troppo diversa, una vita troppo distante dalla tua. Rassegnati, per favore.» Borbottò cercando di arrampicarsi sui doveri morali e religiosi di Jannah.
Gli lanciai un’occhiataccia, passandomi una mano tra i capelli, «dormirà nel mio dormitorio.»
Alice sollevò gli occhi verso il soffitto.
«Isabella qui non siamo in America, nella tua bella casetta a organizzare un pigiama party.» Mi fece notare Edward.
Avrei tanto voluto voltarmi verso il suo bel faccino e mollargli uno schiaffo, per tutto quello che mi stava facendo passare.
La guerra mi stava portando finita, ed io non ero forte come lui, non avevo i suoi muscoli o la sua preparazione. Io ero solo una dottoressa, con un coraggio che presto si sarebbe trasformato in paura, e l’incredibile desiderio di evadere da una realtà troppo crudele.
«Ho capito Tenente.» Sussurrai, mordendomi il labbro inferiore, «ubbidiremo ai tuoi ordini.»
Edward sembrava sorpreso, quasi come se non si aspettasse una mia resa.
«Bene, chiamerò personalmente il capo reparto di malattie infettive dell’ospedale, a Kuwait City, abbiamo già collaborato una volta insieme, non sarà difficile far trasferire la neonata.»
Sentii le forze mancarmi, e l’aria nella stanza dimezzarsi.
«La madre potrà partire con lei, ma quello che accadrà dopo che avranno lasciato questa base, non è più affare mio.» Disse con un tono di voce piegato, come se quelle parole gli costassero molto più di quanto volesse lasciare intendere.
Una lacrima solitaria sfuggii al mio controllo. Edward mi fissò in silenzio, senza distogliere l’attenzione dal mio viso.
«Bene, sono i tuoi ordini questi e noi obbediremo, adesso però glielo dirai tu a Jannah, perché io le avevo promesso che l’avremmo difesa.»Borbottai voltandomi dall’altra parte.
Lo sentii pronunciare un debole si, prima di uscire dalla stanza, facendosi seguire da Alice e Jannah.
Una volta sola mi lasciai scivolare sul pavimento, mentre salate lacrime rigavano il mio volto stanco.
 

Quella stessa sera, solo dopo che Jannah e Nadira furono messe su un’ambulanza per essere trasportate a Kuwait City, io uscii dall’ospedale.
Le urla disperate di Jannah che cercava di ribellarsi dalle mani dei soldati che le intimavano di salire a bordo, non sarei mai riuscita a dimenticarle. I suoi occhi scuri trovarono i miei, colmi di una delusione che, anche se di una lingua diversa aveva lo stesso significato. La fiducia che mi aveva concesso quella mattina si era trasformata in rabbia e delusione. Iniziò a inveire anche contro di me, ma chiesi ad Angela di non tradurmi le sue parole, perché sarebbero state davvero impossibili poi da dimenticare.
Ancora una volta avevo perso, non ero riuscita a salvarle.
Jannah sarebbe stata costretta a tornare da suo marito, che ero certa, l’avrebbe punita anche con la sua stessa vita. Mentre le sorti della piccola Nadira erano incerte, anche se non era difficile immaginare cosa le sarebbe successo. Era troppo piccola per lottare, troppo piccola per sopravvivere.
Come potevo guardare il cielo quella sera, sapendo che presto si sarebbe popolato di due stelle che, tutto meritavano tranne brillare solitarie in quella notte scura?


BuonSalve ragazze e ragazzi, che strano vedermi qui a quest'ora, vero? Però ho preferito postare adesso, piuttosto che farvi aspettare un altro giorno. Ero già abbastanza in ritardo.
Prima di parlare di questo capitolo, ci tenevo a ringraziare le 13 persone che hanno recensito il capitolo precedente, davvero grazie mille. In oltre, ringrazio tutte le persone che hanno aggiunto la storia nelle tre liste, davvero siete in molti, non mi aspettavo un tale successo per questa storia. Ma mi sono dovuta ricredere, davvero grazie.
Come forse avrete capito in questi giorni sono stata a Londra, ed è per questo che non ho potuto postare il capitolo, ma adesso che sono tornata sarò molto più presente. Contente? In questo momento v'immagino con le vostre facce infrante per il capitolo. Però non disperate perchè da come avrete notato, la storia non finisce qui.
Esatto non durerà solo sei capitoli, perchè altrimenti questo sarebbe stato l'ultimo.
Così preparatevi perchè accadranno moltissime cose, prima che la storia si possa considerare conclusa.
Detto questo passo al capitolo: Allora, cosa dire. Per prima cosa, qui non si capisce ancora cos'ha combinato Edward, però con quello che è successo potreste fare delle supposizioni, diciamo che Bella gli ha facilitato molto il compito.
Qualcuno con le sue supposizioni si è un pò avvicinato, ma nessuno è riuscito a capire cos'ha fatto realmente Edward, meglio così, no? Sarà davvero una sorpresa, quello che scoprirete nel prossimo capitolo.
In questo capitolo vediamo che entrano in scena due personaggi molto importanti Jannah e Nadira. Se pensate che possa aver offeso in un qualche modo la curtura di questa donna per favore fatemelo sapere. Io credo di essere stata il più reale possibile, le difficoltà e i problemi di queste donne che tentano di ribellarsi alla volontà del marito o famigliari sono davvero molte. In questa storia, Bella si sentirà in dovere di aiutarle. E in tutto questo che ruolo ha il Tenente Cullen? è davvero il cinico e insensibile uomo che Isabella pensa che sia?
Voi che l'avete visto anche in una veste passata, qual è stata la vostra impressione su Edward?
Detto questo però vi saluto, altrimenti con questo papiro, rischio davvero di rivelarvi troppo.
Un bacione a tutte.

P.S Oggi c'è stato il quizzone per chi deve sostenere l'esame di maturità. Voglio augurarvi in bocca al lupo a tutti voi per l'orale. Avanti ragazzi, gli scrittri sono passati, ora manca l'ultima prova e poi libertà xD



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Capitolo 8
*** 7# ***


Come sempre sono in ritardo, ma questa volta ho davvero esagerato facendovi aspettare più di un mese. Mi scuso anticipatamente con tutti voi, e spero di essermi fatta perdonare con questo capitolo un pò più lungo del solito. Io vi consiglio di ascoltarlo con questa canzone: Sigur Ros - Glosoli


                                                                                       7




«Per favore, potresti ripetermi le motivazioni che mi hanno spinto ad accettare?»

La figura minuta di Angela veniva coperta completamente dalla notte, nascondendomi così il suo volto. In silenzio mi avvicinai verso di lei, sdraiata da diversi minuti sul mio letto.
«Salveremo due persone innocenti.» Le risposi meccanicamente, mentre afferravo frettolosamente la torcia da dentro il comodino. «E dopo averlo fatto, ti sentirai molto meglio.»
Angela si sollevò a sedere, allungandomi le batterie di ricambio, in caso si dovessero scaricare quelle dentro la pila. Bofonchiai un grazie, mentre continuavo a riempire il borsone.
«E’ una follia.» Sospirò alzandosi dal letto.
«Lo so, ma non posso fare finta di nulla.»
Gli occhi scuri di Angela saettarono velocemente sui miei, trafiggendomi. «Sappi che ho accettato di venire con te, solo perché non voglio che vada in giro per il deserto da sola.»
Le sorrisi, «ammettilo, anche a te eccita da morire disubbidire agli ordini del Tenente.»
Angela mi fissò truce, «oh non penso proprio. Dimmi un po’ la verità Isabella, tra te e Edward c’è stato qualcosa vero? Non dirmi di no, perché non ci credo.»
Mi voltai dall’altra parte, con la scusa di osservare strani movimenti provenire dal campo. Ma fuori dalla finestrella del mio dormitorio, sembrava tutto estremamente tranquillo. La notte inghiottiva ogni cosa, divorando famelicamente ogni piccolo spiraglio di luce.
«Sai perché lo chiamano “il quarto vuoto”?» Le chiesi, evitando di rispondere alla sua domanda. Sapeva di costa stessi parlando. Era con quel nome che veniva chiamato il deserto che ci circondava.
Angela non rispose immediatamente, ma quando lo fece, dopo quasi due minuti, il sangue mi sembrò congelarsi nelle vene.
«Dicono che venga chiamato così per le sue dimensioni, ma io ho sempre creduto che si trattasse di una scusa, un diversivo.»
Mi voltai verso di lei, «un diversivo?»
Angela annuì, avvicinandosi con passi lenti verso di me, «il deserto non è altro che un territorio vuoto. Un pezzo di Mondo dove non ci può essere vita, ma solo solitudine, desolazione. Si dice che gli stessi beduini abbiano paura ad attraversare questo deserto. E’ vuoto perché non si riempie mai.»
Il rumore del vento che bussava sui vetri della finestra mi fece sobbalzare. «Abbiamo la mappa, vedrai non ci perderemo.»
Un sorriso intrinseco di tristezza si dipinse sul suo volto stanco, «non capisci, non è il deserto che mi terrorizza Bella, ma ciò che ci aspetta una volta arrivati in città. Dovremo muoverci come fantasmi, entrare di soffiato dentro l’ospedale e portare via Jannah e Nadira senza farci scoprire.»
«Pensi sia impossibile?» Le domandai afferrando il borsone contenente qualche medicinale e diverso materiale utile per il breve viaggio.
Angela fece spallucce, «probabilmente avremmo più possibilità di sopravvivere se ci perdessimo nel deserto.»
Mi voltai verso di lei, prima di aprire la porta del dormitorio, «allora non venire, riuscirò a cavarmela anche senza di te.»
Angela scosse la testa, ridacchiando, «non lascerò a te tutto il divertimento.» Poi mi superò, estraendo dalla tasca dei pantaloni le chiavi della Jeep, facendole tintinnare. «Allora, vogliamo andare?» Mi sorrise vincitrice.
Annuii raggiungendola velocemente, senza fare il minimo rumore.
L’aria fredda della notte mi colpì in pieno viso. Strinsi forte gli occhi nel tentativo di proteggermi dai granelli di sabbia che il vento sollevava fastidiosamente. Angela mi allungò la mano che io afferrai prontamente in modo da seguirla.
Avevamo progettato quel salvataggio abbastanza velocemente, forse da incoscienti, ma non avrei cambiato idea per nessun motivo al Mondo. Angela e Alice si erano subito offerte di aiutarmi, anche se con qualche ripensamento quando poi si resero conto che le mie intenzioni erano serie. Il piano sarebbe stato abbastanza semplice. Alice ci avrebbe procurato le chiavi di una delle Jeep parcheggiate fuori il campo, in modo da non svegliare i militari con le luci degli abbaglianti, e nel frattempo tenere il Sergente e il Tenente occupati per le prossime ore. Distrarre Jasper non sarebbe stato difficile per lei, in fin dei conti, era quello che faceva tutte le notti. Il vero problema sarebbe stato Edward, ma chissà come lei era riuscito a bloccarlo nel suo ufficio con la scusa di dovergli parlare. Mentre io e Angela avremmo raggiunto Kuwait City per poi entrare dentro l’ospedale e riprenderci Jannah e Nadira, portandole al sicuro in un accampamento italiano, poco distanze dalla città.
Angela aveva lavorato diversi mesi in quell’accampamento, conosceva molto bene Aro Volturi il chirurgo che si occupava dell’ospedale del campo. Mettersi in contatto con lui non fu affatto semplice, ma Angela sembrava avere sempre la soluzione ad ogni problema. Lì la donna e la bambina sarebbero state al sicuro, almeno fin quando le acque all’interno del nostro campo non si sarebbero calmate, in seguito mi sarei occupata personalmente del loro trasferimento in una base più sicura. Il tutto venne organizzato nel giro di un paio d’oro. Era da poco passata l’una di notte, quando io e Angela uscimmo dal mio dormitorio, raggiungendo frettolosamente la Jeep.
La ghiaia scivolava sotto le suole delle nostre scarpe, emettendo uno strano rumore, come se non fossimo le sole a correre in quella notte gelida. Ma voltandomi non trovai altro che buio e ombre silenziose di capanni allestiti frettolosamente per le provviste. Il silenzio del deserto riempiva gli spazi vuoti, circondandoci minacciosamente. Quando raggiungemmo la Jeep, mi sedetti al posto di guida, aspettando che Angela chiudesse lo sportello accanto a me.
«Pericoloso è a dir poco.» Borbottò, mentre estraeva dal borsone la mappa che avremmo dovuto seguire.
Ridacchiai, inserendo le chiavi e attesi qualche secondo prima di mettere in moto.
«Cosa stai aspettando? Avanti Bella parti, e cerca di essere il più veloce possibile.»
Obbedii silenziosamente, accendendo il motore della macchina con le mani che mi tremavano. Un rumore secco e repentino mi fece intendere che la Jeep era pronta, così affondando il piede nella frizione e spostando la marci sulla prima, mi lasciai andare ad un gridolino di felicità, quando abbandonata la frizione premetti il piede sull’acceleratore, lasciandomi alle spalle il nostro campo militare.
Sentivo la sabbia del deserto scorrere sotto le ruote della Jeep, mentre accendevo gli anabbaglianti per raggiungere il più velocemente la strada.
«Hai mai guidato una Jeep, Bella?» Mi domandò Angela con entrambe le mani che stringevano la cintura di sicurezza.
Le sorrisi, «A diciassette anni guidavo un Pick Up.»
«Non è la stessa cosa.» Borbottò Angela, nel tentativo di rimanere ferma, «cerca di non sbandare e rimani sulla strada principale.»
Feci come mi disse, e nel giro di qualche secondo la Jeep sembrò rilassarsi sotto le mie mani, procedendo con più tranquillità lungo la strada buia.
Mi sporsi per osservare le dune del deserto illuminate dal chiarore della luna. Il colore alabastro del nostro satellite illuminava la sabbia, che sembrava brillare sotto di esso.
«Sei sempre stata così?» Mi domandò improvvisamente Angela, mentre sembrava perdersi come me, nel meraviglioso panorama che ci circondava.
«Così come? Impulsiva?»
Lei scosse la testa, sorridendomi, «altruista.»
Feci spallucce ritornando con lo sguardo sulla strada, «ho sempre pensato che salvare gli altri mi avrebbe aiutato a salvare me.»
«Salvarti da cosa?»
«Da ciò che sono realmente. Ossia una ragazza terribilmente spaventata dalla vita. Vivo con gli occhi chiusi, perché ho paura di rimanere delusa da ciò che mi circonda se dovessi aprirli.» Le spiegai, stringendo forte le mani sul volante.
Angela corrugò la fronte, pensierosa, «sinceramente non riesco ancora a capire cosa ti ha spinto a raggiungere queste terre.»
Ridacchiai cercando di alleggerire la tensione, «vuoi sapere la verità? Non lo so neppure io. In America la mia vita è sempre stata piuttosto piatta e monotona, come se ci mancasse qualcosa. Salvare vite umane mi fa sentire bene, mi riempie di orgoglio, e mi fa credere soprattutto di essere importante per qualcuno.»
Angela allungò la mano fino a sfiorare il mio braccio, che accarezzò lievemente, per non deconcentrarmi dalla guida.
«Sei così giovane e così bella, che questa tua scelta di vita ti fa onore.»
Mi morsi il labbro inferiore, «voglio una vita che mi faccia sentire fiera di me e di ciò che sono. Sai a volte vorrei tanto essere come te.»
Angela scoppiò a ridere, portandosi un indice sul petto, «come me? E perché mai?»
«Perché hai tutto ciò che a me manca.»
«Ti sbagli Bella, io se potessi tornerei indietro. Sarei stata capace di salvare solo Ben, infischiandomene di tutti gli altri innocenti che si trovavano dentro le torri Gemelle quel maledetto 11 Settembre. E avrei vissuto con lui, senza interessarmi degli altri. Perché sono un essere egoista Bella, sono una donna che se avesse potuto scegliere, non avrebbe mai permesso alla sua vita di imboccare questa strada.»
Mi voltai verso di lei, «ma tu non sei così.»
«Ora non lo sono, ma prima ero egoista e vigliacca. La morte dell’unica persona che abbia mai amato in tutta la mia vita, mi ha fatto aprire gli occhi, forse è stato un bene in fin dei conti.» Sospirò, rilassandosi sullo schienale del sedile. «Tenevo gli occhi chiusi, proprio come te, e poi un bel giorno, sono stata costretta ad aprirli.»
«Mi dispiace tanto.» Le sussurrai tornando con lo sguardo sulla strada.
«Sono passati due anni, quante cose sono successe da quel giorno.» Sorrise con le labbra, ma negli occhi vi era dipinta la tristezza più dolorosa che avessi mai visto.
Stavo per controbattere, quando mi accorsi che non eravamo sole, lungo la strada. Istintivamente accelerai, beccandomi un occhiataccia da parte di Angela.
«Ci stanno seguendo.» Le spiegai, affondando per quanto fosse possibile, il piede nell’acceleratore.
Angela iniziò ad agitarsi, si voltò cercando di scorgere che tipo di macchina ci stesse seguendo.
«Si sta avvicinando.»
«Chi pensi che sia?» le chiesi spaventata, mentre cercavo di calmarmi. Iniziai a respirare lentamente, cercando di non decelerare.
Angela afferrò lo zaino che aveva sotto i piedi, estraendone una pistola che avevamo portato con noi, per sicurezza.
«Ho paura.» Ammisi voltandomi verso di lei.
I suoi occhi erano gonfi e rossi, sembrava sul punto di scoppiare in un attacco isterico. «Tu non fermarti per nessuna ragione al Mondo, anche se questi dovessero spararci contro.» Mi disse cercando di calmare il tremolio della sua voce.
Riuscii solo ad annuire, mentre mi passavo una mano sul viso, imperlato di sudore.
Le luci si fecero più intense, segno che la macchina si stava avvicinando. Non appena mi resi conto che non era una sola, la Jeep che ci stava seguendo, lanciai un urlo di terrore.
«Sono due.» Disse semplicemente Angela, zittendosi immediatamente.
«E adesso cosa facciamo?»
Silenzio.
«Angela rispondimi dannazione, vedo le luci della città in lontananza, ma non so cosa fare.» Le dissi urlando, cercando di risvegliarla dal trans in cui era scivolata.
Con la mano cercai di attivare il segnale radio che collegava tutte le Jeep del campo, sperando che qualcuno potesse sentirci. Ma non appena premetti il tasto giusto, la voce del Tenente Cullen mi raggiunse come un tuono nel petto.
Lo sentii distintamente mentre parlava con qualcuno, ma non appena ebbi la certezza che chi ci stava seguendo non era altro che lui con gli altri soldati, il mio cuore perse diversi battiti. Se una parte di me era sollevata da quella rivelazione, l’altra era terrorizzata all’idea di doverlo fronteggiare sotto quel cielo stellato.
Rallentai istintivamente, frenando bruscamente quando le forze mi vennero a mancare. Angela lasciò scivolare la pistola dalle mani, voltandosi verso il finestrino.
«Come hanno fatto a trovarci?» Mi chiese sollevata.
Le lanciai un’occhiataccia, «per favore non dirmi che sei stata tu.» feci per scendere dalla Jeep quando lei mi bloccò.
«Non giungere a conclusioni affrettate, il Tenente non è un novellino, evidentemente Alice non è riuscita nel suo intento.» Mi disse quasi come se volesse rimproverarmi per aver pensato male.
Strinsi forte le mani intorno al volante, e attesi in silenzio che lo sportello venisse aperto, per ritrovarmi il volto furente del Tenente a pochi centimetri dal mio.
Ma non accadde nulla, così dopo diversi minuti, Angela scese dalla Jeep, portando le mani sugli occhi, come se stesse cercando di scorgere il volto dei passeggeri delle Jeep che ci seguivano. In meno di dieci secondi però, dalla prima Jeep scesero il Tenente Cullen e il Sergente, seguiti da Peter e John.
Vidi Jasper raggiungere Angela e stringerla in un plaid scuro, per poi portarla dentro la loro Jeep. Nell’oscurità della notte, vidi la figura fiera e distinta di Edward raggiungermi, con passo veloce. Non appena mi fu accanto, aprì lo sportello del guidatore, ritrovandomi così, i suoi bellissimo occhi chiari addosso. Occhi che sapevano di fuoco ardente, lava incandescente che bruciava come impazzita. Erano due gemme inferocite, ma anche terribilmente spaventate.
Non appena mi vide la sua espressione divenne meno feroce, ma i suoi occhi continuavano a bruciare di rabbia.
«Tu sei completamente impazzita.» Mi disse facendomi scendere con uno strattone dalla Jeep. Quando toccai terra con i piedi, per la troppa foga da lui usata, scivolai sulla sabbia, ma prima che potessi toccare davvero quel terreno freddo, le braccia di Edward mi afferrarono, stringendomi in una morsa tra il protettivo e l’infuriato.
«Come diamine ti è saltato in mente di prendere una delle mie Jeep e scappare nel pieno della notte? Per fare cosa poi? Disubbidire ad un mio ordine.» Sembrava un altro uomo sotto quella luna che sapeva di veleno. I capelli perennemente scompigliati, sembravano più sconvolti del solito. Benché inferocito, il suo viso era incorniciato da una bellezza troppo intensa per un solo essere umano.
«Sali immediatamente sulla Jeep, faremo i conti una volta tornati al campo.»
Feci esattamente tutto ciò che mi disse, e non appena lo vidi salire sulla Jeep e mettere in moto, mi lasciai sprofondare sul sedile, dove poco prima era seduta Angela.
Gli lanciai un occhiata furtiva, giusto quel tanto che bastava per scattare una fotografia virtuale di quella scena. Teneva lo sguardo fisso davanti a se, le mani strette sul volante, lo stringeva talmente forte che le nocche delle dita si fecero bianche.
«Tu sei pazza.»
Feci un grosso respiro prima di parlargli, «come sei riuscito a scoprici?»
Lui si voltò di scattò verso di me, trafiggendomi con quei due smeraldi che si ritrovava al posto degli occhi. «Pensi davvero che io sia talmente stupido da non rendermi conto di ciò che accade intorno a me? Di ciò che accade all’interno del mio campo?» Urlò inferocito. Non l’avevo mai visto così arrabbiato e spaventato.
«Tu non ti rendi conto di ciò che ho passato negli ultimi trenta minuti. Avevo il terrore che vi fosse successo qualcosa.» Disse, questa volta, senza alzare la voce, negli occhi leggevo tutta la sincerità di quelle parole.
In quello stesso momento, vidi le luci del campo accese, e tutti i soldati che ci attendevano lungo il cancello d’ingresso. Socchiusi gli occhi quando la luce dei fari delle altre Jeep ci affiancarono.
Non appena il motore si spense, Edward afferrò il borsone da sotto le mie gambe, portandoselo in spalla, poi mi ordinò di scendere.
Non appena toccai terra, due esili braccia mi abbracciarono spaventate.
«Mi dispiace tanto Bella, ma ho avuto troppa paura per voi.» Alice cercò di scusarsi con me, ma io continuai a ripeterle che andava tutto bene, e che non ero arrabbiata con lei.
Rimasi immobile di fronte a tutti gli sguardi delusi degli altri soldati, quando la voce severa di Edward risvegliò tutti quanti.
«Come potete vedere sia la dottoressa Swan che Angela Weber stanno bene, non c’è alcun motivo per cui dovete rimanere alzati a quest’ora della notte. Chi è di turno torni nelle proprie postazioni, gli altri vadano a letto.» Detto ciò tutti si allontanarono, continuando però a lanciarmi occhiata.
Edward si avvicinò a me, allungandomi il borsone, «domani mattina alle otto presentati puntuale nel mio ufficio.»
Lo fissai sbigottita, «perché attendere, se devi cacciarmi fallo subito.»
«Non esagerare dottoressa, in questo momento non sono nel pieno delle mie facoltà mentali.» Mi disse digrignando i denti.
«Come vuoi Tenente.» Bisbigliai allontanandomi da lui, seguita da Angela e Alice.
Peter ci accompagnò personalmente nei nostri dormitori, come se avessimo bisogno di una guardia.
Quando richiusi la porta del dormitorio alle mie spalle, mi voltai verso Alice, che mi fissava preoccupata.
«Tranquilla, non sono arrabbiata con te.» Le sorrisi, cercando di rassicurarla.
Poi senza aspettare alcuna risposta, m’infilai nel letto, lasciando scivolare le scarpe sul pavimento, ero talmente esausta ed agitata che crollai non appena posai la testa sul cuscino.


Il mattino seguente, mi risvegliai con un forte mal di testa, dovuto probabilmente alla posizione scomoda che avevo assunto poco prima di addormentarmi. Mi svegliai prima del solito, a causa dell’agitazione, infatti intorno a me c’era ancora buio. Non era l’oscurità della notte, ma più un chiarore lontano che cercava di farsi spazio. Sollevandomi mi accorsi di non aver neppure più il giubbotto, ma che probabilmente era stata Alice a levarmelo durante la notte, perché io non ricordavo di averlo fatto.
Silenziosamente raggiunsi il borsone che la sera prima avevo riempito prima di tentare quell’assurdo salvataggio, e con estrema lentezza lo svuotai, racimolando un po’ di tempo. Era ancora molto presto.
Passai quasi un’intera ora a sistemare prima il borsone e poi la valigia che conteneva i miei vestiti, per poi uscire dal dormitorio per raggiungere i bagni femminili.
Feci una doccia veloce, sciacquandomi da tutta la sabbia che il mio corpo aveva appiccicato sulla pelle la sera prima. Quando uscii dal bagno, mi accorsi di una figura piegata sul water.
«Alice è tutto okay?» Le chiesi avvicinandomi.
Vedendo che non rispondeva, le posai una mano sulla fronte, raccogliendole i capelli per evitare che si sporcassero.
«Non sei costretta ad assistere.» Borbottò china sulla tazza, con un braccio cercò di allontanarmi, ma io non mi mossi, e attesi che finisse per aiutarla a sollevarsi.
Dopo che si fu sciacquata e lavata i denti, le passai un asciugamano
«Grazie.» Mi sorrise flebilmente, il volto ancora completamente bianco.
Mi accorsi solo allora che ero ancora bagnata e che indossavo l’accappatoio, così facendola sedere sul pavimento le dissi di non muoversi. Corsi nello spogliatoio dove avevo lasciato i vestiti puliti e mi cambiai velocemente, voltandomi di tanto in tanto per controllarla. Quando ebbi finito, tornai da lei.
«Stai bene?» le domandai, aiutandola a rimettersi in piedi.
Alice mi sorrise, annuendo, «adesso sto molto meglio, ieri sera credo di aver mangiato qualcosa che mi ha fatto male.»
«Vuoi fare una visita?»
Lei scosse la testa, «non c’è bisogno, sono un’infermiera riconosco i sintomi di un’intossicazione alimentare.» Ridacchiò mostrandomi una fila di denti piccoli e perfetti.
«Sai che non te l’ho chiesto per mettere in dubbio le tue capacità, ma solo perché sono preoccupata per te.»
«E’ solo un po’ di nausea.» Sorrise, «passerà presto.»
Mi sporsi per abbracciarla e lei si tuffò immediatamente tra le mie braccia. «Scusami se ieri sera ti sono sembrata scorbutica, ma ero troppo arrabbiata per parlare.» Farfugliai tra i suoi capelli.
Alice si allontanò di poco, guardandomi negli occhi, «tranquilla, l’avevo capito. Solo non voglio litigare con te, quindi ti darò prima la mia versione dei fatti. Non che non mi fidi di Edward, ma ultimamente non è più lo stesso.» Disse più a se stessa che a me.
«E quale sarebbe la verità?» Le domandai portandomi entrambe le braccia sui fianchi.
Alice abbassò lo sguardo, leggermente imbarazzata, «mentre voi vi allontanavate dal campo, io ero riuscita a distrarre Edward, ma qualcosa deve essere andato storto, perché lui ha capito immediatamente che c’era qualcosa che non andava. E io sono così pessima nella recitazione.» Ammise afflitta, «non sono proprio riuscita a mentirgli, così quando gli ho rivelato le vostre vere intenzione, si è trasformato in una specie di segugio. Era irriconoscibile.»
Distolsi lo sguardo dai suoi occhi, fissando un punto lontano del pavimento bianco.
«Ciò che più mi fa sentire in colpa è il fatto di non essere stata in grado di aiutarvi.» Aggiunse tristemente.
Con un sorriso sincero le dissi che non doveva affatto prendersela con se stessa, e che forse se non ci avessero fermate, molto probabilmente saremmo morte.
«Non saprei, mi sembravi così determinata ieri, nessuno sarebbe riuscito a fermarti.» Rifletté pensierosa.
Con un alzata di spalle posi fine a quella ambigua conversazione, così dopo averla riaccompagnata nel dormitorio, le concedetti la mattinata libera.
Una volta pronta, m’incamminai con passo deciso verso l’ufficio del Tenente.

Il sorriso allegro di Peter mi rassicurò, e stringendomi in un abbraccio un po’ impacciato mi condusse davanti la porta dell’ufficio di Edward.
«Grazie Peter, ne avevo proprio bisogno.» Lo ringraziai con un sorriso.
Il soldato rise, una risata allegra e spensierata, sembrava quasi appartenere ad un altro Mondo, distante anni luce da dove mi trovavo io in quel momento. Ma infondo, come poteva essere altrimenti, aveva da poco scoperto di aspettare un bambino con la sua compagna, Charlotte. Anche se si trovava in una zona di guerra, non poteva evitare di sorridere, dopo aver scoperto una notizia così bella.
«Sicura di non voler fare prima colazione?» Mi chiese per la terza volta.
Gli lanciai un occhiataccia, «Non cominciare a fare il papà ansioso proprio con me.»
Lui scoppiò in una fragorosa risata, e sollevando entrambe le mani verso il soffitto si scusò.
«Adesso sarà meglio che vada.» Borbottai indicando la porta in legno. Peter annuì, mimandomi un in bocca al lupo. Gli sorrisi per l’ultima volta, prima di bussare energicamente sull’uscio.
La voce pacata e profonda di Edward, mi risvegliò da uno strano torpore che per tutta la notte aveva avvolto il mio corpo. Non appena entrai nel suo ufficio, lo vidi sollevare la testa da dei documenti, fissandomi con i suoi intensi occhi verdi.
«Alla buon ora.» Commentò facendomi cenno di avvicinarmi e sedermi sulla sedia di fronte alla scrivania.
«Scusa il ritardo, ma Alice questa mattina si è sentita poco bene.» Confessai sedendomi.
L’espressione dura di Edward cambiò, trasformandosi in preoccupazione, «qualcosa di grave?»Mi domandò corrugando la fronte.
Subito scossi la testa, «semplice intossicazione alimentare.»
«Spero tu, le abbia dato il resto della giornata libera.» Mi punzecchiò inarcando un sopracciglio.
Evitai di controbattere, annuendo semplicemente.
Ci fu un minuto di silenzio, nel quale non facemmo altro che fissarci negli occhi. E ci furono brividi, che mi scavarono sotto la pelle, raggiungendo l’intera spina dorsale. Forse erano i suoi occhi o semplicemente il fatto che avevo provato il sapore delle sue labbra sulle mie, qualsiasi cosa fosse, era terribilmente frustante, perché mi rendeva debole, come se mi trovassi nuda, priva di difese davanti ai suoi occhi.
Lo vidi sistemarsi più comodamente sulla sedia, portando entrambe le mani dietro la nuca, «sai che per quello che hai fatto ieri, meriteresti il rimpatrio?» Mi domandò con fin troppa calma.
«Lo so.»
«Tecnicamente è quello che dovrei fare, ma sai perché non lo farò?» Mi chiese con un lieve sorriso.
Scossi la testa, osservando il suo repentino cambiamento d’umore.
«Perché per quanto io disapprovi ogni tua decisione, e per quanto io possa detestare l’idea di avere una ragazzina che disubbidisce ai miei ordini, non sarò io a mandarti a casa. Ma sarai tu stessa a chiedermi di farti partire.» Sorrise senza ironia.
Lo guardai esterrefatta, «non verrò mai da te a implorarti di licenziarmi.» Gli dissi gelida.
Edward posò entrambe le mani sulla scrivania e con un gesto improvviso si avvicinò al mio viso, osservandomi di sottecchi, «ne sei proprio sicura?»
«Ovvio, e per favore Tenente, non chiamarmi più ragazzina, sicuramente abbiamo la stessa età.» Gli dissi sbuffando.
Lui rimase in silenzio, lanciandomi un’occhiataccia.
«Mi spieghi qual erano i tuoi piani Isabella?»
Che strano sentirgli pronunciare il mio nome. Un’altra scarica invase il mio corpo, questa volta fu qualcosa di più intenso e profondo.
«Volevo andare a riprendere Nadira e la madre.» Gli risposi con una certa indifferenza, che lo fece incupire ancora di più.
Corrugò la fronte, pensieroso, «Per portarle dove?»
«All’accampamento di Aro Volturi.»
«Ovvio, dove altro avreste potute portarle, se non dagli italiani? Ma davvero credete che la loro sia solo una missione di pace?» Mi chiese sornione, ma qualcosa mi fece intendere che la sua era solo una domanda retorica, «perché sei così cieca, come fai a non accorgerti del Mondo che ti circonda?»
Non riuscivo a capire cosa stesse cercando di dirmi, «spiegati meglio.»
Lui sbuffò e sollevandosi dalla sedia, fece il giro della scrivania, posizionandosi oltre le mie spalle, poi con una calma disarmante scese con le labbra sul mio collo, avvicinandosi all’orecchio, «perché hai così poca fiducia in me?» Mi domandò con un sussurrò impercettibile.
Deglutii in attesa che continuasse.
«Davvero pensi che io sia così insensibile da non aver già pensato alla protezione di Jannah e Nadira?»
Questa volta mi voltai verso di lui, trovandomi il suo volto a pochi centimetri dal mio, «cosa vuoi dire?»
Lui scosse la testa, sorridendomi dolcemente. Ed era questo suo soffrire di diverse personalità che mi faceva impazzire ogni secondo, ogni minuto, ogni dannatissimo momento che passavo in quel campo.
«Non sono più a Kuwait City, sono state trasferite entrambe questa mattina.»
Lo fissai incredula, «vuoi dire che tu avevi già in mente di allontanarle dal loro villaggio?»
Edward annuì, «ovviamente ho dovuto prima chiedere il permesso, che stranamente mi è stato subito accordato. In questo momento un’ambulanza le sta trasportando in una base inglese che si occupa solo di donne e bambini.»
Non appena sentii quelle parole, un nodo stretto nella gola m’impedii di parlare, e sentii come qualcosa che scoppiava nel petto, forse felicità, forse, semplicemente gratitudine.
«Se solo tu fossi stata meno impulsiva.» Borbottò contrariato, «ne saresti stata informata questa mattina stessa.»
Mi voltai verso di lui, imbarazzata, «ho messo a repentaglio la mia vita e quella di Angela per un’incomprensione.»
Edward annuì, avvicinandosi di nuovo alla mia sedia, e abbassandosi alla mia altezza, mi fissò dritto negli occhi, «adesso capisci perché ero così infuriato?» Mi chiese cercando di non alzare il tono di voce, «dopo che Alice si è lasciata scappare qualche parola, ho subito capito le tue intenzioni. Ero così infuriato con te Isabella che solo al pensiero mi viene da vomitare. Ho avuto paura lo capisci?»
Sospirai abbassando la testa per nascondermi dai suoi occhi.
«Se ti fosse successo qualcosa, non me lo sarei mai perdonato.» Farfugliò a bassa voce allontanandosi da me.
«Mi dispiace Edward, ma se tra noi ci fosse un po’ più dialogo, forse non sarebbe successo nulla.» Gli dissi alzandomi dalla sedia.
Edward scosse la testa, «tu sei troppo testarda, certe cose proprio non riesci a capirle.»
Feci diversi passi verso di lui, raggiungendolo, «e allora spiegamele queste cose.» Sussurrai costringendolo a guardarmi negli occhi.
Eravamo di nuovo troppo vicini, come due mine pronte ad esplodere. Lo vidi smettere di respirare e cercare con tutte le sue forze di evitare di sfiorarmi.
«Sei troppo stupida, certe cose non puoi capirle.» Disse infine, voltandosi dall’altra parte. Ancora una volta, l’Edward cinico aveva vinto sull’Edward altruista. Ma qual’era la sua vera faccia?
«Non ti permetto di parlarmi in questo modo.»
Lui si voltò furioso, «e io non ti permetto di comportarti come se fossi l’unica persona in questo campo. Non esisti solo tu, lo capisci? Ho altre vite da salvare.» Disse sbattendo la mano sulla scrivania.
Sobbalzai presa alla sprovvista, «il tuo problema e che non riesci a gestirmi, ammettilo il mio comportamento ti fa impazzire.» Lo punzecchiai, affermando solo la verità.
Edward si voltò verso di me, inondandomi con il suo sguardo. «Ti tratterò come uno dei miei innumerevoli problemi, e come con tutti gli altri problemi che ho avuto a che fare, troverò una soluzione.» Ammise con un mezzo sorriso.
Feci spallucce, «non ti libererai di me tanto facilmente.»
Scosse la testa, ridacchiando leggermente, «vedremo dottoressa Swan.» Disse, mentre mi apriva la porta del suo ufficio.
Lo superai senza neppure salutarlo, ma voltandomi verso di lui, gli sorrisi, come a voler riconfermare la mia presenza all’interno del campo. Lui chiuse la porta alle sue spalle, questa volta senza dire nulla.

Quella stessa sera, in sala mensa raccontai ad Angela della conversazione avvenuta con Edward quella mattina. Lei mi ascoltò in silenzio, senza mai interrompermi e solo dopo aver ascoltato il racconto, si decise ad aprire bocca.
«Lo dicevo io, che tra te e il Tenente c’era qualcosa.»
La fissai sconvolta, «ma cosa diamine stai blaterando, smettila di dire scemenze Angela, piuttosto cosa pensi che farà?» le domandai, mentre davo un morso al pezzo di pane che mi era rimasto.
«Non saprei, essendo un militare, utilizzerà qualche strategia altamente complicata per il tuo cervellino.» Mi sorrise divertita.
«Mi stai prendendo in giro?» Le domandai improvvisamente imbarazzata.
Lei scoppiò a ridere, «vedrai Bella, non farà assolutamente nulla. E’ un uomo troppo intelligente e poi figurati se avrà il tempo di pensare a come vendicarsi di te, con tutto quello che ha da fare qui dentro.» Mi sorrise, rassicurandomi.
«Speriamo.» Sospirai, voltandomi dall’altra parte, «poso il vassoio e vado a salutare Alice, è da questa mattina che non la vedo.» Dissi, incamminandomi verso il ripiano della cucina dove i soldati avevano lasciato tutti gli altri vassoi, poi raggiunsi Alice, stringendola in un abbraccio non appena la vidi.
«Ehi come mai tutto questo calore? Non sto morendo Bella.» Mi disse sorridendomi.
Ridacchiai, «come ti senti?»
«Molto meglio.» Mi rispose e sembrava essere sincera.
«Almeno voi riuscite ad essere allegre, io sono un fascio di nervi.» Jessica ci passò accanto, sedendosi sulla sedia con fare teatrale.
Alice la fissò incuriosita, «questa volta cosa ti è successo?»
Jessica scosse la testa, agitando la mano in aria, «a me personalmente nulla. Ma da domani le cose cambieranno.»
Mi voltai verso Alice, fissandola interrogativa, poi mi rivolsi a Jessica, «cosa intendi dire?»
Jessica mi guardò disgustata, «oddio davvero non sai nulla?»
«Avanti Jessica, illuminaci con uno dei tuoi soliti pettegolezzi.» Disse Alice sbruffando.
«Nessun pettegolezzo questa volta, ma solo la pura e semplice verità. Da domani avremo un nuovo militare che gironzolerà nel campo.» Disse accavallando le gambe.
«Non sapevo dovessero arrivare nuovi ragazzi.» Borbottai cercando di capire a chi si stesse riferendo.
«Infatti non arriverà nessun novellino, ma un vero e proprio esperto di guerra.» c’informò Jessica.
Alice corrugò la fronte, «e chi sarebbe?»
Jessica si sollevò dalla sedia, osservandoci dal basso verso l’altro, con un sorrisetto divertito sul volto, «avete mai sentito parlare del Sergente Black?»
In un primo momento quel nome non mi fece tornare nulla in mente, ma non potevo dire la stessa cosa di Alice, era sbiancata improvvisamente.
«Il Sergente Jacob Black è stato mandato qui dal Generale in persona, per controllare che tutto venga svolto a dovere.» Continuò Jessica.
Mi voltai verso Alice, «è una specie di supervisore?»
«E’ come un controllore Bella, lo spediscono dove c’è bisogno. Solitamente non viene mai mandato se prima non c’è stata una soffiata.» Mi spiegò sedendosi sulla sedia.
«Vuoi dire che qualcuno ha chiamato il Generale Winchester, chiedendogli di mandare nella nostra base un supervisore?»
Entrambe le donne annuirono.
«Quando è stato chiamato?» Domandai mordicchiandomi il labbro inferiore.
Jessica sembrò rifletterci su, «qualche giorno fa.» Disse infine.
«Chi è stato a chiedere il suo intervento?» Chiesi, sentendomi le forze mancare.
«Il Tenente Edward Cullen in persona.» Mi rispose Jessica, fissandomi preoccupata. «Tutto okay?»
Scossi la testa, sedendomi sulla sedia per evitare di cadere a terra in seguito ad un violento capo giro, «no, non è okay per nulla.»
Edward aveva fatto la sua mossa, e questo, prima che io e Angela cercassimo di salvare Nadira e Jannah, questo significava solo una cosa, ossia che lui voleva liberarsi di me, probabilmente subito dopo esserci baciati.




Buonsalve a tutti quanti!
Colpo di scena, ammettetelo non ve l'aspettavate. E invece è proprio lui signori e signore, Jacob Black! qunate di voi avevano ipotizzato in un suo arrivo? Quante di voi vorrebbero rispedirlo a calci da dove è venuto? Eh lo so, quest'ultima cosa la vorrei fare anche io, essendo una Team Edward, ma purtroppo per voi, in questa storia il bel Black avrà il suo bel ruolo xD
Vi chieso scusa ancora una volta per l'enorme ritardo. Potrei giustificarmi dicendo che sono appena tornata dalle vacanze, prima sono stata a Londra, poi in Sicilia. Insomma è stato un mese piuttosto movimentato, in cui è andato tutto un pò più a rilento, mi riferisco al mondo di Efp.
Mi scuso anticipatamente per gli errori che potreste trovare, non ho avuto il tempo di rileggere il capitolo! Ma lo farò presto.
Non so ancora quando riuscirò a pubblicare il prossimo capitolo, spero comunque i primi di Agosto.
Vi lascio alle vostre riflessioni, un bacione a tutte voi! xD
Lua93.

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Capitolo 9
*** 8# ***


8#
                  Facciamo così, adesso voi vi leggete il capitolo, magari con questa canzone di sottofondo, poi dopo, leggerete le mie scuse per la prolungata assenza.
                                                                                 
Dustin O'Halloran - Opus 55


                                                     
8




3 Aprile 2003


 
Aprii gli occhi di scatto.
Il buio aveva avvolto ogni cosa, persino l’ossigeno presente nella stanza. Il mio corpo era rimasto imprigionato tra le lenzuola, addossate come una seconda pelle. Cercai così di liberarmi da quella trappola fastidiosamente sudaticcia e bollente. Non mi resi conto di essere sveglia fin quando non trovai davanti ai miei occhi il volto rilassato e sereno di Alice, completamente immersa nel mondo onirico della notte. Il suo respiro era basso, un rumore appena accentuato, il mio, invece, non riusciva a riprendersi.
Quella notte feci un incubo, o almeno, credetti di farlo, dal momento che quando mi svegliai non ricordai nulla, se non la sensazione sgradevole e inquietante di un gran vuoto dentro il petto.
Mi alzai cercando di fare il meno rumore possibile, per non disturbare Alice, e acciuffando malamente il mio borsone, mi avvicinai alla porta.
«Dove stai andando?» La voce addormentata di Alice mi fece sobbalzare, prendendomi di sorpresa.
Quando mi voltai versi di le, la trovai con le mani sul viso. I suoi capelli erano un ammasso confuso e disordinato, scuri come il buio che avvolgeva il Mondo, neri come il deserto.
«A fare una doccia.» Risposi bisbigliando. Benché entrambe fossimo sveglie, avevo la sensazione che se avessi parlato ad alta voce, il campo si sarebbe rianimato. Sarebbe stato un risveglio violento e obbligatorio, lo stesso a cui ero stata sottoposta involontariamente quella mattina. Uno dei risveglio peggiori che avevo avuto da quando mi trovavo nel Kuwait.
Alice si mise a sedere, sbattendo più volte le palpebre, «che ore sono?»
«Le cinque.»
«E’ ancora presto.» Mi fece notare, voltandosi verso l’unica finestrella del nostro dormitorio.
Posai il borsone sul pavimento, facendo qualche passo verso di lei, «non ho dormito molto bene questa notte.»
Alice sorrise teneramente, «lo so.»
«Ho fatto troppo rumore?» le domandai con un gemito strozzato. 
«Un po’.» Rispose, stringendosi le coperte al petto, «ti ho sentito parlare.» Aggiunse flebilmente,
La fissai interrogativa, perdendomi nei tratti delicati del suo volto. Ultimamente il suo viso appariva senza luce, sempre stanco e sofferente. «Cos’ho detto?»
«Continuavi a ripetere il nome del Tenente.»
Strinsi le mani a pugno, ringraziai l’oscurità per la protezione che mi stava regalando dagli sguardi indagatori di Alice.
«Credo di aver fatto un incubo.» Dissi.
«C’è qualcosa di cui vorresti parlarmi?»Mi domandò sistemandosi più comodamente sul materasso.
I primi bagliori dell’alba cominciarono a riempire la stanza.
«No.» Risposi velocemente, ritornando verso la porta, «C’è forse qualcosa che dovresti dirmi?» le chiesi abbassandomi per riprendere il borsone, senza però mai distogliere l’attenzione dai suoi occhi.
«No.» Ribatté prontamente, regalandomi un sorriso tirato.
«Bene.» Borbottai abbassando la maniglia, facendo scattare la serratura.
Sentii Alice sospirare prima di chiudermi la porta alle spalle.
 

«Stiamo combattendo una guerra che non ci appartiene.» John sbatté una mano sul tavolo bianco della mensa, facendo ribaltare il bicchiere contenente dell’acqua.
Peter gli bloccò il pugno, prima che colpisse ancora una volta quella superficie liscia e poco resistente, «amico non ti riscaldare troppo.»
Il soldato sbuffò liberandosi dalla stretta possente del compagno, lanciandogli uno sguardo minaccioso, «non ci provare Peter, non tentare di calmarmi. Come puoi chiedermi di stare calmo, sapendo cosa succederà oggi?» Continuò fissandolo.
Osservai la scena, seduta a qualche metro di distanza. C’era qualcosa di strano nell’aria quella mattina, e non si trattava del solito odore di terra bruciata e sangue. Quella mattina il deserto mi era apparso un ammasso di fuoco giallo. Il vento soffiava ferocemente, innalzando nuvoloni di polvere. C’erano tutti i presupposti per un cattivo presagio.
«Si tratta del Sergente Black?» Domandai interrogativa a Jessica, intenta a finirsi il suo yogurt.
La ragazza sollevò lo sguardo, «come dici?»
Sbuffai, spazientita, «I soldati sono tutti irrequieti, soprattutto John.» Le feci notare, indicando il loro tavolo.
«Non penso.» Rispose semplicemente, abbassando nuovamente gli occhi verso la sua colazione.
Con le mani cominciai a sbriciolare la brioche, che avevo preso poco prima, osservando attentamente la scena che si stava presentando davanti ai miei occhi.
Intorno al tavolo di Peter e John si erano riuniti altri due soldati, chinati l’uno sull’altro, i loro sguardi erano duri, freddi, non lasciavano trasparire alcuna emozione.
«La nostra missione in queste terre non ha alcun significato non è così? Siamo solo le marionette del Governo.» Sibilò risoluto John.
Uno dei soldati sembrò riscaldarsi, «Noi siamo qui per servire la nostra Nazione.»
«Garrett dannazione ragiona, eri con il Dottor Smith quando è morto. Come puoi non avere alcun dubbio sull’autenticità del nostro compito?» John sembrava incredulo.
«Non parlare di cose che non sai, non ci provare. Tu non puoi neanche lontanamente immaginare cosa ho provato quel giorno. Se sono vivo è solo grazie a Dio.» Sospirò Garrett abbassando gli occhi.
Il respiro mi si mozzò in gola, al ricordo di quel duro momento. Per giorni interi non avevo fatto altro che pensare a come io avessi vissuto quella tragedia, ignorando chiunque era con me quel giorno. Non ero stata la sola a soffrire.
«C’è chi questo non può dirlo.» Disse John provocandolo. I due si fissarono in cagnesco per un tempo che mi parve infinito.
«Basta così, state esagerando entrambi. La guerra porta sempre disperazione e vittime, cerchiamo solo di non peggiorare la situazione.» Peter sembrava aver preso il controllo della situazione, prima che degenerasse. I suoi occhi scuri erano fissi in quelli di John. «Ho una moglie che in grembo cresce mio figlio. Come te voglio tornare a casa sano e salvo.» Continuò questa volta non riuscendo a mascherare la tristezza.
«Sembrerei una femminuccia se vi dicessi che sono terrorizzato?» Chiese il quarto soldato che fino a quel momento non aveva aperto bocca.
I ragazzi si guardarono negli occhi, scoppiando poi in una fragorosa risata.
«Tranquillo Paul, non lo diremo a nessuno.» Rise Peter.
La tensione sembrava essersi allentata, ma c’era qualcosa negli occhi di tutti i soldati, che ancora non riuscivo a decifrare.
Jessica finì il suo yogurt, passandosi un tovagliolo sulle labbra.
«Non sei curiosa di conoscere il Sergente Black? Si dice che sia molto giovane e avvenente.» Sorrise maliziosamente.
Scossi la testa, alzandomi dalla sedia.
«E adesso che cosa ho detto di male?» Mi domandò la rossa alle mie spalle, quando ormai mi ero già mi ero allontanata dalla mensa.
 
 
Alice non si era presentata in ospedale.
Quando ero andata via quella mattina, dal nostro dormitorio, l’avevo lasciata nel suo letto, certa di rivederla al mio ritorno, ma mi ero sbagliata. La stanza era vuota e il suo letto disfatto. Pensai che si fosse allontanata dal dormitorio per fare colazione ma quando raggiunsi la sala mensa non la trovai neppure lì. In ospedale l’infermiera di turno mi disse che quella mattina non era passata a ritirare le cartelli cliniche dei suoi pazienti, così toccò a Jessica fare il giro di Alice, contro la sua volontà, ovviamente.
Inizialmente non ci feci molto caso, cominciai a pensarci solo dopo più di quattro ore di assenza. Inizia a preoccuparmi quando perlustrando il campo alla ricerca di Alice, notai che non era la sola a mancare, ma che anche Jasper quella mattina non si era ancora visto in caserma.

La forte tentazione di chiedere spiegazioni al Tenente, era diventata quasi una necessità. Io e Alice avevamo legato in maniera particolare, con lei riuscivo a essere me stessa, mi sentivo come se fossi ancora in America quando c’era lei vicino a me. Sapevamo entrambe di nasconderci particolari più o meno imbarazzanti, ma questo non ci aveva mai impedito di essere delle buone amiche. Quando si vive tra la disperazione ci si aggrappa a qualsiasi illusione pur di non affogare.
Cominciai a chiedere ai soldati se l’avessero vista, ma nessuno sapeva che fine avesse fatto.
Mi avvicinai alla sala comune, spalancando le porte in un colpo solo, i
ncurante di chi si potesse trovare all’interno della mensa.
«Angela? Ci sei?» La chiamai, alzando leggermente il mio tono di voce.
Un rantolo basso e sofferente mi rispose da dietro il ripiano della cucina. Senza pensare corsi vero quel lamento, ritrovandomi il corpo di Angela in ginocchio sul pavimento.
«Oh ciao Bella, non ti avevo visto.» Mi salutò con una smorfia, abbassandosi subito dopo.
La fissai interrogativa, «che cosa stai cercando?» le chiesi inginocchiandomi per raggiungere la sua stessa altezza.
«La mia fede.» Sbottò allungando la mano sotto il tavolo di metallo. «l’avevo tolta per pulire il piano di cottura di questa odiosa mensa.» Piagnucolo voltando la testa dall’altra parte della stanza. «Neppure cinque minuti che già l’avevo persa.»
Sollevandomi da quella scomoda posizione, mi avvicinai al piano di cottura ancora ricoperto di sapone. Mi voltai verso Angela sorridendola comprensiva, «c’è qualcosa che non va?»
«Se non tropo la fede entro due minuti incendio questo posto.»
Ridacchiai a bassa voce, non l’avevo mai vista così arrabbiata e minacciosa.
«Angela la tua fede è esattamente dove l’hai lasciata.»
«Cosa intendi?» Mi domandò mettendosi in piedi.
Con un sorriso sincero le indicai l'anello, immobile sul ripiano più alto della cucina. Gli occhi di Angela s’illuminarono e l’afferrò immediatamente, indossandolo con premura. «Sto impazzendo.» Disse infine, sollevando gli occhi verso il soffitto.
Aspettai qualche secondo prima di farmi prendere completamente dal panico. Angela era l’unica che sapeva come calmarmi.
«Hai per caso visto Alice?» Le chiesi speranzosa.
«No, perché?»
«Non è venuta a lavoro questa mattina.» Sospirai massaggiandomi le tempie con entrambe le mani. Il clima afoso del mese di Aprile mi procurava una forte emicrania. A casa non ne avevo mai sofferto, ma le temperature nel Medio Oriente erano completamente diverse dalle nostre.
Angela prese in mano una spugna e riprese a pulire la cucina, questa volta con la fede al dito, «stamattina non è venuta neppure qui, ma com’è possibile che tu non l’abbia vista? Non dormite nella stessa camera?»
Annuii, sedendomi sul mobiletto di metallo, proprio accanto a lei, «si ed è proprio per questo che non riesco a darmi pace. Questa mattina mi era sembrata più stanca del solito, così l’ho lasciata riposare senza metterle fretta, ma quando sono ritornata dal bagno, lei non era in camera. Ho pensato che fosse venuta qui ma raggiungendo la mensa non l’ho trovata.» Le spiegai giocherellando con l’elastico con cui solitamente in ospedale legavo i miei lunghi capelli.
Angela sospirò, «dove pensi possa essere?»
«Con Jasper, dato che questa mattina non ho visto neppure lui.» Risposi risoluta.
«Se è per questo, io non ho neppure visto il Tenente, oggi.» Controbatté lei, sollevando lo sguardo verso di me.
«Angela che cosa sta succedendo?» le domandai preoccupata, «questa mattina i soldati erano agitati, parlavano in maniera confusa e sembravano spaventati. E’ per il Sergente Black?» Continuai sperando di trovare nelle parole di Angela una risposta capace di sciogliere tutti i miei dubbi.
«Aspetta, che cos’hai detto?» I suoi occhi scuri divennero una lastra di ghiaccio, il viso assunse un’espressione dura che mai le avevo visto rivolgermi.
«E’ l'arrivo del Sergente Black la causa di tutto questo turbamento?» Ripetei perplessa.
Angela scosse la testa, lasciando la spugna sul piano ancora completamente zuppa di schiuma e con una certa fretta si allungò verso lo strofinaccio accanto alla mia gamba, afferrandolo con rabbia. «Hai detto che i soldati erano parecchio turbati.» Disse asciugandosi le mani.
Annuii non riuscendo a capire.
«Vieni, dobbiamo andare immediatamente dal Tenente, devi chiedergli spiegazioni.»
«Che cosa?» Le domandai scendendo dal mobile, «perché dovrei farlo?»
«Se è vero che i ragazzi erano spaventati, significa che sta per succedere qualcosa di pericoloso, e noi come membri attivi di questo campo abbiamo tutto il diritto di saperlo.»
«Sapere cosa?»
Angela si voltò, guardandomi stizzita, «è quello che devi scoprire.»
«Perché lo dovrei fare io? Non puoi parlarci tu con il Tenente?» Le chiesi innervosendomi per tutta quella situazione.
«Sei tu la Dottoressa, io sono solo una volontaria.» Rispose, questa volta addolcendosi.
Controvoglia mi ritrovai costretta a seguirla. Ci ritrovammo in meno di due minuti lungo l’accampamento, stranamente silenzioso.
Il vento pizzicava sulla pelle, trasportando con sé, granuli di sabbia rossa rubata dal deserto.
Angela camminava con passo spedito, gli occhi fissi davanti a sé, con un’espressione intraducibile sul volto. Solo una volta l’avevo vista così preoccupata, la sera in cui tentammo di allontanarci dal campo per salvare Jannah e Nadira.
Io la seguivo titubante, mille brividi mi attraversavano lo strato più profondo dell’epidermide. C’era sempre una parte di me che non riusciva a resistere davanti agli occhi chiari e profondi del Tenente, e quella parte sarebbe stata la mia rovina, perché in sua presenza perdevo ogni capacità di difendermi.
«Che cosa sta succedendo?» Domandò più a se stessa che a me, Angela. Si era fermata improvvisamente, quando eravamo ormai giunti davanti la caserma.
Incuriosita sollevai lo sguardo da terra, trovandomi davanti una Jeep diversa da quelle usate nella nostra base.
All’interno vi erano due soldati, entrambi con la pelle scura e il capo nascosto da grossi caschi colo cammello. Indossavano due divise dello stesso colore, e benché si trovassero al sicuro dentro la macchina, tutti e due tenevano tra le mani un’arma.
«Quelli chi sono?» Le chiesi, avvicinandomi.
Angela scosse la testa, non sapendo cosa rispondere.
Improvvisamente la grande porta della caserma si aprì, e ne uscirono due uomini. Il primo era leggermente del secondo, ma entrambi avevano un atteggiamento fiero e distaccato.
Non appena si spostarono dalla penombra riuscii a scorgere i tratti lineari del Tenente Cullen, notando come la sua pelle fosse molto più chiara del secondo uomo, di qualche centimetro più alto di lui.
Involontariamente mi avvicinai, incuriosita.
Quando riuscii a scorgere con chiarezza anche il secondo uomo ne rimasi sorpresa. Si trattava di un ragazzo, forse un mio coetaneo. La sua pelle era di una tonalità color ruggine, simile a quella degli Indiani D’America . I tratti del suo viso erano regolari con zigomi sporgenti e il mento un po' arrotondato come quello di un bambino. I suoi occhi, invece, erano scuri e impenetrabili, mentre il suo viso veniva incorniciato da capelli neri molto lucidi. Fisicamente sembrava molto più robusto di Edward. Le sue spalle erano larghe e i muscoli del suo corpo si distinguevano anche attraverso la divisa. Così diversi eppure così simili.
Non mi ci volle molto per capire che si trattasse del Sergente Black.
«E’ lui, vero?» domandai ad Angela, conoscendo già la risposta. Lei infatti si limitò semplicemente ad annuire.
«Cosa devo fare?»
«Vai da loro.» Mi rispose, con un sorriso tirato.
Controvoglia mi ritrovai d’accordo con lei, non potevo nascondermi ancora a lungo. Se era vero che il Sergente Black era stato chiamato per controllare la mia efficienza, avevo tutto il diritto di chiedere spiegazioni al Tenente. Così, presa da un attacco di rabbia riuscii a raggiungere i due uomini, davanti la caserma.
Quando Edward mi vide, cambiò espressione, lasciando trasparire chiaramente una certa sorpresa nel vedermi proprio davanti a lui. Io, cercai di essere il più professionale possibile, avvicinandomi verso di loro con fierezza.
«Buongiorno Tenente.» Dissi educatamente, puntando i miei occhi dritti in quelli di Edward.
«Buongiorno Dottoressa.» Rispose malamente, serrando la mascella.
Il Sergente Black mi osservò incuriosito, non riuscendo però a mascherare un sorriso sul suo volto. Dovevo ammettere che non era un uomo che passava di certo inosservato. Benché fosse completamente diverso dal Tenente. Non avrei saputo dire che dei due fosse il più interessante, non in quel momento. Ma quando sprofondando nuovamente negli occhi chiari di Edward, capii che c’era sempre una prima scelta.
«Buongiorno, sono il Sergente Jacob Black, il nuovo supervisore della base.» Si presentò il ragazzo, allungandomi la mano.
Ricambiai la stretta, sentendo la sua pelle bruciare a contatto con la mia.
«E’ un piacere fare la sua conoscenza. Io sono la Dottoressa Isabella Swan.» Sorrisi.
Era davvero molto giovane.
Fui la prima a sciogliere le nostre mani, ritrovandomi gli occhi incandescenti di Edward sul mio viso.
«Come mai non si trova all’interno dell’ospedale del campo?» Mi domandò Il Sergente Black.

Rimasi qualche secondo incantata davanti a quell’oceano nero che erano i suoi occhi. Neri come il petrolio presente in quelle terre.
«Avevo bisogno di parlare con il Tenente Cullen.» Risposi, voltandomi verso Edward.
Quest’ultimo non mi sembrò molto sorpreso, anzi sorrise lievemente, mostrandomi ancora una volta quel suo lato sconosciuto e misterioso del suo carattere, «dimmi Isabella, c’è qualcosa che volevi chiedermi?» mi chiese mellifluo.
Si, volevo semplicemente chiederti perché mi hai baciato, perché l’hai fatto?Ho le labbra in fiamme da quando sono entrate in contatto con le tue.
Sospirai, «volevo parlarle dei ragazzi, questa mattina mi sono sembrati diversi dal solito.»
«Cosa intendi dire?» Mi chiese.
«Erano agitati, preoccupati. Soprattutto John.» Risposi sincera, come se fossimo solo io e lui. Solo noi e il nostro rapporto ambiguo e turbolento. Che cosa eravamo? Che cosa saremmo diventati?
«Bella.» Sospirò frustato. Fu la prima volta che lo sentii pronunciare il mio soprannome. I suoi occhi erano diventati un manto infuocato pronto ad esplodere. La sua voce riempiva i silenzi, ma non le incomprensioni.
«La Dottoressa non sa nulla?» Domandò intromettendosi il Sergente Black.
«No.» Grugnì Edward, voltandosi verso il Sergente.
«Sapere cosa?» Chiesi ignorando la reazione del Tenente.
Black mi fissò attentamente prima di rispondermi, «questa sera le forze americane attaccheranno l’aeroporto di Baghdad.»
Il sangue mi si gelò nelle vene, «un attacco diretto alla capitale, perché?»
Questa volta fu Edward a rispondermi, le mani serrate a pugno, l’espressione più fredda e lontana che gli avessi mai visto sul suo volto perfetto, «perché la guerra è appena cominciata.»
«Mi dispiace Dottoressa, ma vedrà che qui siamo al sicuro.» Cercò di consolarmi il Sergente.
Quando mi voltai verso di lui, mi sentii invadere il corpo da una furia estranea, «nessuno si salva in guerra.»
«Comunque sia, questo è un momento cruciale per l’esercito americano, tutto deve funzionare alla perfezione. E io sono qui proprio per questo.» Concluse, voltandosi verso l’accampamento.
Io e Edward ci fissammo in silenzio, ma i nostri occhi erano così carichi di parole che non fu necessario parlare per venirne a conoscenza.
«Questo accampamento è una perfetta catena di montaggio, tutti lavoriamo per dare il massimo.» Dissi rivolgendomi al nuovo arrivato, senza però allontanare gli occhi da quelli di Edward.
«Meglio così Dottoressa.» Sorrise e sembrò sincero.
Mi voltai verso il Sergente, «chiamatemi Isabella. In tempi così bui non c’è alcun bisogno di creare altri muri.»
Il Sergente sollevò gli angoli delle labbra, mostrando una schiera di denti bianchi e perfetti, «E così sia, Isabella.»
Non mi voltai per osservare la reazione di Edward, ma non potei mai dimenticare il rantolo che ne seguì subito dopo.
 

Quella sera, quando rientrai nel mio dormitorio, dopo aver passato il resto della giornata in ospedale. Mi ritrovai il corpo minuto di Alice, seduto sul suo letto, con lo sguardo fisso sulla porta d’ingresso, come se mi stesse aspettando.
«Alice, ma dov’eri finita, ti ho cercato tutto il giorno.» Dissi preoccupata, avvicinandomi al suo letto, «è arrivato il Sergente Black, domani visiterà l’ospedale. Dobbiamo mostrarci tutti forti e coraggiosi, siamo una squadra solida, e non dobbiamo lasciarci abbattere da un attacco così subdolo da parte del Tenente.» Continuai, ma Alice sembrava non ascoltarmi.
I suoi occhi mi fissavano terrorizzati e le sue mani stringevano convulsamente il lenzuolo, all’altezza del petto.
«Alice, che cos’hai?» Le chiesi accarezzandole il braccio.
«Sono incinta.» Rispose flebilmente, «sono incinta.» Ripeté quasi per auto convincersene.

 

 

BuonSalve a tutte voi, non so neppure come cominciare. E' davvero tantissimo tempo che non aggiorno I Colori del Vento. Esattamente è dal 2 Agosto, quasi due mesi. Inaccettabile, me ne rendo conto da sola. E a mia difesa vi posso dire che non si è mai trattata di mancata voglia di scrivere, ma solo mancanza di tempo. Infatti l'ispirazione c'è sempre stata, il tempo un pò meno. 
Non vi posso promettere che il prossimo aggiornamento avverà in tempi brevi, perchè vi direi una bugia, ma forse riuscirò a postare ogni settimana, magari la Domenica. La causa principale è la scuola, mi rendo conto che come scusa risulterà un pò banale, ma essendo all'ultimo anno, mi piacerebbe molto non rimanere indietro in nessuna materia - si eccetto matematica che continua ad essere un enorme buco nero persistente - tengo a precisare che io, essendo una ragazza pigra e fedele al Divanesimo, dove come mia massima esponente si trova Sabrina Ferilli, vi dico che cercherò di svegliarmi un pò ed essere più veloce con gli aggiornamenti. Metteteci in conto però una cosa molto importante, ossia la Patente, ebbesi si, avendo superato l'esame teorico lo scorso Agosto, avrò l'esame pratico i primi di Ottobre. Sono un pericolo pubblico, avviso chiunque di stare ad una distanza di minimo diciotto metri da me e dalla mia Artura (macchinina bianca che non si sa come, si accende ancora).
Ricapitoliamo quindi: Scusate, scusate, scusate, scusate, scusate (immaginate la mia vocina come quella del cricetino di Pintus) Non odiatemi per questo - lo so è una cosa davvero triste, diciotto anni, anzi diciannove tra cinque mesi e ancora si diverte con queste battute- io al posto vostro mi odierei, ma vi prego, ancora una volta, di non ascoltarmi.
Chiuso il paragrafo melodramma, apriamo quello più importante ossia la spiegazione di questo capitolo.
Come avete letto l'inizio non è dei più allegri, difatti la bella Dottoressa ha avuto un incubo, inutile dirvi che il protagonista era quel gran pezzo di gnocco di Edward. La nostra cara Bellina è rimasta piuttosto turbata dal bacio scambiato con quel gran pezzo di manzo. Come darle torto? Il problema principale è che in questa storia non c'è tempo per piangersi addosso, per capire chi ha torto e chi ha ragione. In questa storia ognuno agisce per autodifesa o nel caso di Edward per autolesionismo. Come infatti vediamo più in là con l'arrivo del Sergente Jacob Black, AVVISO: Tutte le lupacchiote saranno felice di sapere che in questa storia Jacob avrà un ruolo davvero molto importante e che quindi non ci sarà alcun pericolo di eliminazione per godimento da parte della sottoscritta. 2AVVISO: Essendo la sottoscritta Team Edward, non vi promette però che ci sarà un lieto fine fiabesco per il lupacchiotto. 3AVVISO: In questa storia Edward non rimarrà impassibile agli avvenimenti, come invece fa l'Edward della zia Meyer. Si che Bella preferisce quest'ultimo al lupo, ma se mai dovesse succedere qualcosa, sappiate che Edward allungherà le mani!
Okay si direi che ho anche anticipato troppo.
Nel prossimo capitolo molte cose vi saranno più chiare. Come per esempio la gravidanza di Alice, anche se non era difficile da immaginare, dato che con Jasper ci davano dentro di santa ragione tutte le benedettissime sere eheh!
La cosa più importante di questo capitolo è l'avvenimento storico, difatti, nella notte del 3 Aprile 2003 le forze statunitensi appartenenti alla 3^ divisione di fanteria attaccarono l'aeroporto di Baghdad. 
Da quel momento ci furono veri attacchi e scontri aperti tra americani e Iracheni. 
I prossimi capitoli tratteranno infatti di questa lunga e difficile settimana.
Mi sembra di aver detto tutto, lascio a voi la parola adesso!
Un bacione a tutti!
Lua93.

P.S: Grazie a tutti quelli che hanno aggiunto questa storia nelle tre liste, siete davvero in tantissimi.
Come sono tantissime le persone che mi hanno aggiuto tra gli autori preferiti *_* Me emozionatissima!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 10
*** 9# ***


9#                                                                                  
                                                                                   Questo è il mio regalo di Natale per voi. Credo, e posso dirlo con certezza, di essere tornata.
                                                                                                                                 Aesthesys - I Am Free, That Is Why I'm Lost.

                                           9

Alice accarezzava delicatamente il suo ventre ancora piatto, fissando un punto indistinto oltre le mie spalle. Teneva gli occhi aperti ma sembrava non vedere. La luce soffusa emessa dal lampadario dava forma ai contorni, rendendo ogni dettaglio, all’infuori di quella mano, insignificante.
«Incinta.» Ripetei ad alta voce, cercando di cogliere un altro significato, qualcosa che doveva essermi sfuggito mentre Alice mi confessava il suo segreto. «Tu sei incinta.»
«Io sono incinta.» Confermò senza inclinazione di voce, il suo bel volto era pallido, sotto gli occhi grosse ombre violacee contrastavano il colorito adamantino della sua pelle. Sembrava non riuscire a fare altro che sfiorarsi il ventre, al ritmo di una melodia ancora acerba.
Mi sedetti accanto a lei, «stai bene?»
Alice annuì, «quando mi sono sentita male, ieri mattina, credevo si trattasse davvero solo di un’intossicazione alimentare.» Iniziò a parlare lentamente, come se ogni parola che fuoriusciva dalle sue labbra le costasse una gran fatica. «per tutto il giorno non ho fatto altro che riposare, come mi avevi consigliato tu, ricordi?»
Sussurrai un debole si, accarezzandole i capelli, per tranquillizzarla.
«E’ successo tutto così velocemente.» Borbottò mordicchiandosi il labbro inferiore, «un attimo prima stavo cercando un pacchetto di fazzoletti e l’attimo dopo mi sono ritrovata gli assorbenti in mano.» Si fermò, voltandosi verso di me, «non mi era mai successo prima, voglio dire, per noi ragazze mantenere il conto è naturale, eppure qualcosa dentro il mio cervello deve essersi inceppato, perché quando ho controllato sul calendario, il mio ultimo ciclo, risaliva a due mesi prima.» I suoi occhi cercarono i miei, ed era uno sguardo così spaventato, sembrava essersi persa. «Come ho fatto a non accorgermene, io che sono sempre così precisa.» Piagnucolò arrabbiata.
«In questi due mesi non hai mai avuto nausee?» Le domandai ancora scossa.
Sembrò esitare prima di rispondere, «non ricordo. Voglio dire, sono sopravvissuta a due attentati, questo non avrà messo a repentaglio la vita del bambino? In seguito a traumi così pesanti non si dovrebbe avere un aborto? Insomma, ho seguito interi corsi di medicina dove tutti i libri, tutti i manuali e tutte le pazienti raccontavano le stesse cose. Quando cavolo avvengono gli aborti spontanei?» Mi chiese agitandosi, iniziò a torturarsi i capelli con la mano libera.
«Alice, calmati per favore.»
«E se il bambino fosse malato? Come faccio a saperlo, qui non abbiamo i mezzi per controllare.» I suoi occhi si fecero lucidi, la voce le tremava, «e se morisse?»
«Prima di tutto cerchiamo di non farci prendere dal panico. Otto settimane non sono poi così tante, e se fino ad ora non hai avuto problemi di nessun genere significa che il bambino sta bene. Non tutte le donne perdono il feto, a causa di un incidente. Il rischio è molto alto, ma ti posso assicurare che la medicina non è una scienza esatta. Io sono certa solo di una cosa, che tu e il tuo bambino siete ancora vivi, dopo tutto quello che avete passato.» Sorrisi, stringendola in un abbraccio.
La mia amica sembrò tranquillizzarsi, così prima che le venisse un nuovo attacco di panico, l’aiutai a infilarsi sotto le coperte, rimanendole accanto.
«Domani mattina faremo un’ecografia, va bene?»
Alice annuì, stringendomi la mano, «ho paura.» Ammise, «sono terrorizzata. Mi sento come se fossi paralizzata, non riesco a muovermi, non riesco a respirare, sento questo esserino che mi cresce dentro e anche se sembra impossibile una parte di me, lo sapeva già di non essere più sola, che qualcosa in me era cambiato.» Una lacrima rigò via, scivolando lungo la sua piccola guancia, fino a bagnare il cuscino. «Ho così tante domande da fare, ma ho troppa paura delle risposte. Aspettare un bambino in un posto come questo, sapere di essere in costante pericolo. Solo adesso mi rendo conto dell’enorme sbaglio che ho commesso passando tutte le notti con Jasper.»
«Questo esserino è il frutto del vostro amore, e non osare mai più pensare una cosa del genere, capito?» Cercai di sembrare severa, ma dentro di me mi sentivo spezzata.
Alice sorrise, «l’ha detto anche lui sai?»
«Jasper?» Chiesi leggermente confusa.
«Si. Appena ho scoperto di essere incinta, sono corsa da lui, meritava di sapere la verità prima di chiunque altro. Quello che porto qui,» sospirò indicandosi la pancia, «ha la priorità su tutto.»
«Hai fatto bene.»
 «Non dire così, ho sbagliato in così tante cose.»
«Alice, non ci pensare, vedrai che troveremo una soluzione.» La rassicurai.
«E’ quello che ha detto anche Jasper, ha ripetuto le tue esatte parole. E quando gli ho accennato a un possibile aborto, lui si è arrabbiato, non mi avrebbe mai permesso di farlo. Ed io ero così felice di sapere che anche lui, come me, non avrebbe mai voluto separarsene. Così quando gli ho confessato di volerlo questo bambino, lui mi ha detto che mi amava.» Sorrise, e il suo volto divenne la cosa più luminosa presente nella stanza.
«Su questo non c’erano dubbi.»
«Ma adesso dimmi, come possiamo farcela? Jasper deve combattere questa guerra e io devo soccorrere i feriti, non posso stare a poltrire tutto il giorno, mentre fuori da queste pareti avviene un massacro.» Ancora una volta la tristezza ebbe il sopravvento e tutti i progressi conseguiti fino a quel momento precipitarono.
«Non ti preoccupate, vedrai che insieme ce la faremo.»
«Posso fidarmi di te?» Mi domandò improvvisamente, puntando i suoi occhi nei miei.
Non credo di aver risposto nulla, eppure lei si sollevò sui gomiti e mi abbracciò, capendo i miei silenzi.
«Vi proteggerò a costo della mia vita.» Le promisi, ricambiando l’abbraccio.
Alice ridacchiò, «sai, sembra che tu e Jasper viaggiate sulla stessa lunghezza d’onda, anche lui ha usato queste parole, prima che andassi via.»
«Questo perché è la verità. Vedrai che riusciremo a cavarcela, senza che il Sergente Black ne venga a conoscenza.» La tranquillizzai, cercando di auto convincere anche me. Quell’uomo avrebbe scavato a fondo dentro ognuno di noi, ma avrei tentato in tutti i modi di proteggere la piccola Alice.
«Rimane solo un problema.» Sussurrò mentre m’infilavo sotto le coperte del mio piccolo letto. «Cosa diremo al Tenente?»
«Di lui dovrebbe occuparsi Jasper.» Le risposi strofinando il viso sul cuscino. La mia voce uscii ovattata e confusionaria, segno che la stanchezza stava prendendo il sopravvento.
«Quel fifone non vuole dirgli niente.» Si lagnò.
Sbuffai infastidita, non avevo ancora ben chiaro le idee di Alice, ma un campanello d’allarme iniziò a suonare nella mia testa dopo quell’affermazione. «Stai forse cercando di dirmi qualcosa?» Le domandai spazientita.
Nell’oscurità della stanza sentii la risposta come una supplica, «solo tu puoi aiutarci.»
«Perché dovrei dirgliela io la verità? Jasper è il suo migliore amico e tu lo conosci da più tempo di me.» Affermai, sapendo benissimo che il mio discorso non faceva una piega.
«Bella, ancora non l’hai capito?» Alice sembrò divertita.
«Capito cosa?»
«Di tutte le persone presenti in questo accampamento, tu sei l’unica capace di affrontarlo. Lui si sente intimorito da te. Sei come una specie di droga per lui. Per quanto vorrebbe tenerti alla larga, ha bisogno di te.»
Le parole mi morirono in gola, ritornando indietro. Potevo allontanarlo da me quanto volevo, quanto potevo, ma lui avrebbe sempre trovato il modo per riacciuffarmi. Alice aveva ragione, eravamo diventati dipendenti l’uno dell’altra.
Sospirai. «Lo farò.»
Morfeo calò su di noi, dopo quell’ultima promessa.

 
Fu nel cuore della notte che li sentii.
Non erano esplosioni, quelle erano impossibili da udire. Ma i fasci di luce che provenivano dall’orizzonte, avevano superato i confini, giungendo fino a noi. Quanyo fosse la verità e quanto solo un incubo, non riuscii a capirlo, perché non riuscii a fare altro che smettere di respirare, mentre fasci di luce colpivano il cielo e il rumore degli elicotteri perforava il silenzio della notte. In quella terra piatta, la sabbia era portatrice di parole, di sangue, di paura mai affrontate.
Voltandomi verso Alice, la fissai dormire placida, il respiro regolare e i capelli sparsi su tutto il cuscino. Ripensai alle sue parole, alle sue lacrime,ma soprattutto alla creatura che cresceva dentro il suo esile corpo. Avevano concepito l’amore in un campo minato, forse c’era ancora speranza, forse il sole poteva sorgere ancora sulle terre di Allah. Ma cosa avremmo dovuto aspettarci una volta aperti gli occhi, quelli della coscienza?
Rimasi sveglia ad ascoltare i rumori della notte, fissando quella sottile luce che filtrava dalla finestra. Le parole di Edward mi risuonavano in testa come una litania. La tensione dei soldati, l’ansia di Angela, l’arrivo del Sergente. Sapevo di dover essere forte, ma da sola non ne sarei mai stata capace. Per quanto mi era difficile ammetterlo, avevo bisogno di Edward, e per qualche assurda ragione, sapevo che anche lui aveva bisogno di me.
 

Quando il sole sorse sul deserto, Alice ed io ci alzammo, preparandoci per la nuova giornata.
Rispetto alla sera precedente, sembrava più rilassata, e quelle ore di sonno le avevano fatto acquistare nuova energia. Anche il suo corpo sembrava stare meglio. La sua pelle era tornata a brillare e qualcosa nei suoi occhi mi diede speranza.
«Anche se non posso mangiare nulla prima dell’ecografia, tu dovresti fare colazione.» Mi sorrise, cingendomi il braccio intorno al fianco mentre c’incamminavamo verso la mensa.
Ridacchiai, «prenderemo qualcosa per dopo, non possiamo lasciare a digiuno il fagiolino.»
Alice si fece tutta rossa, sistemandosi il camice bianco imbarazzata, «che strano parlare di lui, non so come, ma tu riesci a fare sembrare tutto così reale e vicino.»
«E questo è un male?» Le domandai pensierosa.
Un gruppo di soldati ci passò accanto, dirigendosi con passo spedito e con stomaco affamato verso la mensa.
«No, non direi un male. Più che altro direi che è strano.» Rispose con sincerità.
Corrugai la fronte, continuando a non capire, «credo che la gravidanza ti abbia dato al cervello.» Borbottai leggermente infastidita, mentre Alice rideva, in un attimo di spensieratezza.
Un’ombra scura avvolse i nostri passi, facendoci sobbalzare spaventate. E prima ancora che capissimo di chi si trattasse, il Sergente Black si era già materializzato davanti a noi, con un sorriso smagliante e due occhi neri che sembravano pozzi di petrolio.
«Scusate, non avrei voluto spaventarvi.» Disse dispiaciuto, bloccandoci la strada.
Cercai di sdrammatizzare, rispondendogli che non ci eravamo affatto spaventata.
Il Sergente ridacchiò, «comunque buongiorno Dottoressa, stavo interrompendo qualcosa?» Ci domandò guardando prima me, poi Alice.
«Affatto.» rispose quest’ultima, allungando una mano verso di lui, «Io sono Alice Brandon, una delle tante infermiere.» Si presentò con un sorriso tirato, stringendo la mano dell’uomo.
Jacob sembrò non rendersi conto della sottile ironia utilizzata da Alice, o comunque, se si fosse accorto di qualcosa non lo diede a vedere. «Piacere di conoscerla, io sono il Sergente Jacob Black.»  E come se nulla fosse, si mise accanto a me, camminando al nostro fianco.
«Posso unirmi a voi?» Ci chiese con allegria.
«Noi stavamo andando a mangiare qualcosa prima di iniziare.»Risposi osservandolo. C’era qualcosa in lui, che mi tranquillizzava. Era come trovarsi in presenza di qualcosa di familiare. Sprigionava calma, tranquillità. Non era affatto una spiacevole compagnia.
Annuì,«anche io.»
Un finto sorriso si era disegnato sul volto di Alice, sapevo quanto si sentisse in disagio. Era come trovarsi davanti al proprio rapinatore dopo essere state derubate. Jacob era il nemico, quello che avrebbe messo in pericolo la relazione di Alice e di Jasper, ma soprattutto, sarebbe risultato un problema per il bambino, se fosse venuto a conoscenza della sua esistenza.
Lui però sembrò perso in un altro mondo. Non aveva affatto l’aria di ufficiale tenebroso o pericoloso. Mi sembrava più un bambino in mezzo a tanti soldati adulti. Forse erano i suoi occhi, così innocenti o il suo volto infantile. Qualsiasi cosa fosse, m’incuriosiva.
«Per quanto tempo ti fermerai con noi?» Gli domandai, voltandomi verso di lui.
«Tanta fretta di liberarti di me?» Ammiccò scherzando.
Ovviamente avvampai, come poche volte mi era capitato, se non in presenza del Tenente. Pensavo fosse l’unico capace di farmi provare quel genere d’imbarazzo.
«Certo che no, solo curiosità.» Farfugliai distogliendo lo sguardo dai suoi occhi.
Jacob rise, «credo una settimana. Devo solo accertarmi che sia tutto in regola.»
«Lo è.» S’intromise Alice con astio.
Cercai ancora una volta di risollevare la situazione, rivolgendomi al Sergente, «Alice ha ragione, siamo davvero un’ottima squadra.»
«Ne sono convinto.» Disse, aprendo la porta della mensa, facendoci  entrare per prima. «Prego signorine.»
«Grazie.»
«Si, molto gentile.» Borbottò Alice, osservandosi intorno. «Senti Bella, io vado a prendermi un caffè e vado in ospedale, non ho molta voglia di stare qui.» Mi disse osservando i movimenti gentili del Sergente che ci aspettava vicino al bancone, «ci vediamo lì.»
«Va bene.» Sorrisi intenzionata a tornare da Jacob, quando la mano di Alice mi bloccò. «Tranquilla, tra meno di dieci minuti sarò da te.» Le sorrisi.
«Non si tratta di questo.» Sbuffò inviperita, «si tratta del Sergente. Non mi fido di lui, lo vedo come ti guarda.»
Scoppiai in una fragorosa risata, «ma di che cosa stai parlando? La gravidanza ti ha reso per caso paranoica?» le chiesi abbassando il tono della voce.
«Ti sto solo mettendo in guardia, certe cose si capiscono subito.»
Inarcai un sopracciglio, indispettita, «certe cose?»
«Non ti rendi conto che ti sta facendo la corte?» Mi chiese stupita. Entrambe ci voltammo verso il Sergente, ci dava le spalle e sembrava molto preso dalla conversazione che stava intrattenendo con  Peter.
«Sei paranoica.»
Alice mi lanciò un occhiataccia, «e tu troppo ingenua. Ci penserà Edward a farlo stare buono.»
Adesso era io quella stizzita, «adesso vai, prima che cambi idea. Ci vediamo tra poco.» La salutai, dandole le spalle. Quella ragazza mi avrebbe fatto perdere il senno.
Con passo spedito raggiunsi Jacob che reggeva in mano due vassoi stracolmi. Mi sorrise imbarazzato, «non sapendo cosa ti potesse piacere, ho preso un po’ di tutto.»
«Hai fatto bene, questa mattina ho una fame da lupi.»
Ridacchiò, «sono felice di averti conosciuta, solitamente sono tutti un po’ resti ad avvicinarsi quando lavoro.» Mi disse con sincerità.
Ci sedemmo in uno dei pochi tavoli liberi, in fondo alla sala.
«Probabilmente perché hanno paura delle tue decisioni.» Sollevai gli angoli delle labbra, zuccherando il caffè.
Jacob sembrò essere d’accordo con me, «se devo essere sincero, sono molto scrupoloso e preciso quando si tratta di lavoro, forse è per questo che non vado tanto a genio.»
Feci spallucce, «anche io mi sono sentita un pesce fuor d’acqua appena arrivata alla base.» Ammisi, aprendomi più del necessario.
«Il Tenente mi ha raccontato la tua storia, e anche se non conosco la tua versione dei fatti, voglio che tu sappia che non ti giudicherei mai.» Lo disse come se fosse la verità. I suoi occhi divennero un lago scuro in cui specchiarsi, profondi e sinceri. Ma fino a quale punto della mia storia, Edward era arrivato?
Cercai di sembrare il meno nervosa possibile, anche se sapevo perfettamente di essere pessima come bugiarda. «Oh, stai parlando dell’attentato all’ospedale?» Chiesi con finta innocenza.
Il Sergente annuì, «esattamente, il Tenente è stato molto riservato, e se devo essere sincero mi ha incuriosito. In seguito all’incidente, non deve essere stata facile.»
Tentai di decifrare le sue parole,ma c’era sempre qualcosa che non riuscivo a comprendere fino in fondo.
«Il Tenente non vi ha raccontato nient’altro?»
«No, perché?» Domandò fissandomi.
Feci spallucce, evitando di guardarlo negli occhi. Se lui era stato chiamato per farmi tornare in America in seguito all’errore commesso l’altra notte, perché Edward non gli aveva raccontato della mia fuga?
Tentai di non darci troppo peso, sicuramente aveva qualcos’altro in mente. Eppure una piccola parte di me, si sentii traboccare di gratitudine nei suoi confronti.
«Guarda, è arrivato il Tenente.»
Sollevai il viso, scontrandomi con due gemme dall’altra parte della sala. I suoi occhi erano fissi sul nostro tavolo e non appena i nostri sguardi s’incontrarono, lui si voltò dall’altra parte, con un espressione inesprimibile sul volto.
«Sembra sempre di cattivo umore, assomiglia molto al Generale Winchester, anche lui è così freddo e distaccato.» Disse, bevendo con calma il suo caffè.
Cercai di non badarci, ma sapevo benissimo che l’espressione delusa dipinta sul suo volto, non sarei riuscita a levarmela dalla mente molto facilmente.
 
 
Alice aveva imparato a trafiggere con i suoi silenzi. A volte si perdeva nella contemplazione di un attimo fino a renderlo surreale e subito dopo, riusciva a farti precipitare senza spingere. Quando rientrai dalla mensa, la trovai seduta sulla sedia dietro la mia scrivania, con entrambe le mani sul ventre. Fissava la porta, in attesa che questa venisse aperta, e anche dopo che vi entrai, lei rimase in silenzio a osservarla.
«Sei pronta per l’ecografia?» le domandai, facendole segno di seguirmi.
Alice si alzò e obbediente raggiunse con me la sala dei macchinari, fortunatamente vuota.
«Dove hai lasciato il tuo migliore amico?» mi chiese con sarcasmo mentre si sdraiava sul lettino accanto alla macchina.
«Jacob non è il mio migliore amico.» Le risposi, sollevandole la maglietta. Le versai un po’ di gel sul ventre, avvicinando la sonda.
Alice sollevò gli occhi al cielo, «in questo momento sono troppo ansiosa, ti riprenderò quando mi sarò ripresa.»
Ridacchiai, «certo, adesso che ne dici di dare un’occhiata?» Le domandai, indicandole lo schermo.
La vidi cambiare espressione nel momento esatto in cui i suoi occhi si posarono sul piccolo. Non era altro che un fagiolino ancora in formazione. «E’ all’incirca due centimetri.» Sussurrai, ruotando la sonda, poi alzai il volume dell’apparecchio e in meno di due secondi la stanza si riempì di un nuovo suono.
«O mio Dio, è il suo cuore!» Alice urlò emozionata, non riuscendo a trattenere una lacrima.
Sorrisi di riflesso, osservando il piccolo.
«Come puoi vedere tu stessa, sta benissimo.» La rassicurai, lasciandole ascoltare ancora un altro po’ il cuore del suo bambino.
Alice rideva e piangeva contemporaneamente, sembrava al settimo cielo, «non riesco a crederci, sento il suo cuoricino, vedo il mio piccolo. Sono così felice. Lui sta bene.»
«Adesso gli facciamo fare un bel sorriso, per la foto da mostrare al papà.» Ridacchiai, stampando le immagini e i risultati della visita.
Con ancora le lacrime agli occhi, Alice si rivestì, stringendomi in un caloroso abbraccio. «Grazie.»
«Non devi ringraziarmi.» Dissi allungandole le foto del piccolo, «queste non farle vedere a nessuno se non a Jasper, mi raccomando.»
Sorrise di riflesso, accarezzandosi la pancia, «vedrai amore, il tuo papà sarà felicissimo di sapere che stai bene.»
«Il problema sarà nascondere la pancia, per un altro mese possiamo stare tranquille, in caso diremo che sei ingrassata.» Cercai di sdrammatizzare, mentre ritornavamo nel mio ufficio.
Alice sembrò essere d’accordo con me, «non potremo nasconderci a lungo.»
«Non dovrai farlo per molto. Quando Jacob sarà andato via, tu potrai tornare in America senza correre rischi. In questo modo anche la carriera di Jasper sarà al sicuro.» Riflettei ad alta voce, cercando di tranquillizzarla. L’unico problema era il Tenente, se tutto fosse andato secondo i miei piani non ci sarebbero state complicazioni, ma essendo Edward una mina vagante, non potevo averne certezza.
«Voglio che Jasper ritorni in America con me, non farò nascere mio figlio senza il padre.» Disse convinta, il suo essere così testarda non ci avrebbe aiutato in futuro.
«Per il momento pensiamo solo a non farti scoprire, okay?»
«Va bene.»
Annuii sollevata, «e adesso meglio rimettersi a lavoro, prima che qualcuno si accorga della nostra prolungata assenza.»

 
Avevo trascorso l’intera giornata a sistemare le pratiche e riorganizzare i turni in ospedale, in modo da rendere il lavoro di Alice meno faticoso. Le avevo riservato solo i turni diurni, prendendo il suo posto in quelli notturni.
In ospedale non ci furono operazioni quel giorno, ma non per questo il lavoro era risultato meno duro. Ultimamente il numero dei pazienti era salito vertiginosamente, soprattutto da quando non vi erano più solo soldati americani ma anche abitanti del luogo. La situazione sembrò peggiorare verso sera, quando ci arrivarono le prime notizie da Baghdad. L’aeroporto era stato conquistato senza troppe difficoltà e perdite, e questo con grande gioia da parte dei militari del nostro campo, che non furono chiamati per prestare soccorso.
Purtroppo però i feriti arrivarono con gli elicotteri nel giro di qualche ora, cercando di smistarli in più ospedali da campo. Da noi ne arrivarono due privi di vita, e per quanto cercassi di essere forte, di fronte a un corpo esamine non riuscivo ancora a darmi pace.
Fu per quel motivo che decisi di rimanere in ospedale tutta la notte, vegliando sugli altri feriti. Non avrei accettato altre morti, non se avrei potuto fare qualcosa per evitarlo.
Rimasi sveglia fino alle tre del mattino, controllando costantemente la loro salute, e solo dopo essermi accertata delle loro condizioni ritornai nel mio ufficio.
La stanza si trovava nella semi oscurità, ricoperta da un silenzio surreale. In quel momento sentii addosso tutto il peso delle mie responsabilità. Per quanto tempo saremmo riuscite a mantenere il segreto?
Ciò che più mi preoccupava era la reazione di Edward, lui era così imprevedibile. Era da quella mattina che non lo vedevo, e per quanto continuassi a ripetermi di disprezzarlo, avevo bisogno dei suoi occhi, anche solo per un secondo. Erano gli unici capaci di rassicurarmi, forse perché pieni di quel dolore sordo a cui non riusciva a dare un nome, forse perché ricoperti di quella patina di magia che ero riuscita a portargli via quando le sue labbra avevano sfiorato le mie. E Dio, come mi mancava quel calore.
Così immersa nel buio dei miei pensieri, con la mente già persa nel mondo onirico non mi resi conto di una figura in piedi accanto alla porta. Ero certa di stare sognando, eppure due occhi come quelli non si potevano dimenticare in una notte. Erano verdi. Intensi, in fiamme. Sentii la sua presenza accanto a me, il suo corpo vicino al mio. Ma ero sempre più convinta che fosse tutto frutto della mia immaginazione, della mia mente sempre meno lucida e stanca.
Solo la mattina seguente, quando mi risvegliai con un plaid sulle spalle, mi resi conto che non si era trattato di un sogno.





Ebbene si, sono tornata!
Appena postato questo capitolo rimuoverò l'Annuncio.
Che ne dite vi può andare bene come regalo di Natale? A me il vecchio Santa ne ha fatto uno bellissimo, mi ha ridato la voglia di scrivere questa storia, e non sia detto che non accadrà anche per Buskers.
Per il momento eccomi qui, con il nuovo capitolo. Commenti? Vi ricordavate dove eravamo rimasti?
Tra Bella e Jacob succederà qualcosa? Come la prenderà Edward? E Alice?
Troppe domande, e le risposte le troverete solo leggendo!
Posterò regolarmente tutti i Venerdì, compreso il 30 Dicembre!
Colgo l'occasione per augurare a tutti voi un Felice Natale, mi raccomando mangiate, giocate a tombola e state con le persone che amate!
Lua93.

P.s. Se voleste lasciarmi un commentino ne sarei davvero felice :D


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Capitolo 11
*** 10# ***


10#

                                 Sono in anticipo, lo so. Solo che domani non ce l'avrei fatta a postare, così ho preferito farlo oggi, con calma.
                               
  La canzone che vi suggerisco richiama molto i sentimenti di Isabella. Birdy ~ Terrible Love.
                                 Origiariamente la canzone era dei The National, ma io, sinceramente, adoro troppo questa versione.
                                 Ringrazio i 21 angeli che hanno recensito lo scorso capitolo. Questo capitolo lo dedico a voi.

                                 Buona lettura.

                                                                    10


La testa pulsava dolorosamente a causa della scomoda posizione assunta durante la notte. E per quanto la presenza del plaid mi avesse aiutato a combattere il freddo, i muscoli delle spalle e del collo erano doloranti. Cercai di sistemare la criniera indomabile che avevano formato i miei capelli, districandoli con le dita, ma il risultato sembrava non migliorare, così sapendo di non avere tempo per tornare in camera, decisi di legarli in una coda alta, nascondendo dietro le orecchie i ciuffi più ribelli. Andai nel piccolo bagno dell’ospedale prima di tornare dai ragazzi, dove sciacquai il viso, passando più volte l’acqua fredda sulla nuca, cercando di alleviare il dolore.
Quella mattina ero un fascio di nervi, mi sentivo disorientata, e qualsiasi spiegazione cercassi di dare al gesto di Edward, questa non riusciva a soddisfare i miei dubbi.

juTentai di non pensarci ma per quanto provavo ad estraniarmi, mentre controllavo la salute dei tre militari feriti, la mia mente andava involontariamente al ricordo di quella notte. Il lavoro era la mia priorità, non avrei dovuto pensare ad altro, focalizzai così la mia attenzione solo sul ragazzo sdraiato sul lettino bianco.
Con impazienza attesi il suo risveglio, essendo l’ultimo rimasto sotto gli effetti della morfina, nella speranza che si riprendesse presto. Per come era arrivato la sera prima, sarebbe stato un miracolo se fosse riuscito a riaprire gli occhi. Erano in momenti come questi in cui mi sentivo impotente, quando sapevo che l’unica cosa da fare era aspettare.
Improvvisamente  la porta della stanza si spalancò, facendomi sobbalzare.
«Scusa non volevo spaventarti.» Borbottò imbarazzata Angela, guardandosi intorno. «Il Tenente mi ha chiesto di portarti qualcosa di caldo.» Aggiunse allungandomi un contenitore di plastica con dentro del caffè.
I suoi grandi occhi mi osservarono con apprensione, «sei rimasta qui tutta la notte?» mi chiese posando poi, la sua attenzione sul soldato completamente fasciato.
«Si.» Le risposi sorseggiando il liquido caldo. «Edward sapeva che ero qui.» Ammisi giocherellando con il coperchio in plastica del termometro.
La sua piccola mano si accosto a quella grande e scura del ragazzo, accarezzandogli il dorso con le dita, «come vorrei che tutto questo non fosse necessario.» Sospirò con amarezza. I suoi occhi divennero lucidi e in quel momento tentò di mascherare la tristezza con un falso sorriso, «è’ passato a trovarti?» mi domandò fissandomi.
«Questa notte è venuto in ospedale.» Risposi, prima si alzarmi dalla sedia per gettare il bicchiere.
«Ecco perché sapeva dove ti avrei trovato.» Sorrise, passandosi la mano tra i capelli corti e ricci, «Cos’è successo?»
«Nulla, cosa pensi sia successo?» Borbottai imbarazzata, «mi ha portato una coperta e poi è andato via.»
Angela assentì, «e tu?»
«Io dormivo.»
«Oh.»
La fissai torva, «Perché quel sorrisetto sulle labbra?»
«Perché anche se sono passati tanti anni, non riesco proprio a smettere di sognare. Cosa vuoi farci, sono una romantica io, vecchio stampo. Roba che a voi giovani manca.» Mi rispose allungando la mano verso la mia, stringendola forte, «senti Bella, anche se continui a negarlo, tra di voi c’è qualcosa. Si vede, si percepisce. Sono scariche elettriche che riempiono l’aria che vi circonda.»
Liberai la mano dalla sua stretta, alzandomi, «senti Angela, smettila di dire cretinate, okay?»
«Non sono affatto cretinate, e lo sai anche tu. Non è la prima volta che ti riserva queste attenzioni.» Mi fece notare, sistemando la sedia sulla quale era seduta.
«Angela per favore.» La supplicai, nascondendomi dai suoi occhi indagatori.
La sentii sbuffare, mentre si avvicinava, «io lo dico per te, credi che non mi sia accorta degli sguardi che vi siete lanciati ieri mattina, quando eri con il Sergente Black?» Chiese sarcastica, «lui era geloso.»
«Ti sbagli.» Sbraitai facendola sobbalzare. Sentivo le guancie accaldate, così come il resto del corpo, «Smettila, non voglio ascoltare le tue false supposizioni. E comunque, se anche fosse vero, questo non ti riguarderebbe.» Sbottai arrabbiata.
Angela sembrò delusa, «hai ragione, non è affare mio.» Disse mortificata.
«Senti mi dispiace, okay? E che sono esausta, questa notte ho dormito malissimo.» Borbottai cercando di arrabattare delle scuse quanto meno decenti. Non avrei voluto aggredirla, non era nella mia natura alzare la voce con le persone, ma da quando mi trovavo alla base, il mio carattere sembrava aver assunto sfumature nuove, inaspettate, anche per me. Non ero la Bella che conoscevo, quella euforica e sempre pronta ad aiutare gli altri.
Angela sembrò capire, perché si avvicinò lentamente, stringendomi in un tenero abbraccio.«Tranquilla, so che è difficile, non preoccuparti.»
«E che non ci riesco.» Sbottai trattenendo a stento le lacrime, «sono così stanca. Sapevo che sarebbe stata dura, ma non così.»
«Sfogati tesoro, non ti tenere tutto dentro.» Sussurrò accarezzandomi i capelli.
Mi aggrappai alle sue braccia come se fossero ancore di salvezza, nascondendo il viso nell’incavo del suo collo. E lì, tra le sue esili braccia, lasciai che tutti i nodi annodati dentro di me si sciogliessero, buttando fuori tutte quelle lacrime represse e quelle paure che conservavo dentro da troppo tempo.
«Tutti noi vorremmo tornare a casa. Anche io sono esausta e in confronto a te non faccio assolutamente nulla, quindi non scusarti, non sentirti neppure in imbarazzo. Nessuno qui è invincibile.» Mi sussurrò dolcemente.
«Ci mancava solo il Sergente.» Ammisi stizzita, asciugandomi con il dorso della mano le ultime lacrime.
Angela mi sorrise, «Se il Tenente ancora non gli ha riferito nulla significa che non ha intenzione di raccontargli tutta la verità.»
«E allora perché l’ha convocato?»
La mia amica fece spallucce, «non saprei.»
«Quell’uomo è indescrivibile, come vorrei poter essere nella sua bella testolina per capire le sue intenzioni.» Bofonchiai frustrata.
Angela ridacchiò, abbracciandomi un’altra volta. «Non preoccuparti di quello che ha in testa lui, preoccupati piuttosto di quello che passa per la testa al Sergente, sarebbe saggio tenerlo d’occhio.» Disse assumendo un atteggiamento serio e preoccupato.
«Lo farò.» Promisi, accompagnandola alla porta. «Grazie.» Le sussurrai con gratitudine, sorridendole.
«Quando vuoi sai dove trovarmi. Se c’è qualcosa che ti preoccupa, qualsiasi cosa, io ci sono.»
«Lo so.» Ammisi, pur sapendo che non le avrei mai raccontato del bacio o del segreto di Alice.
Sorrise.«A dopo.»
«Ciao.»
In quell’istante le palpebre del soldato si sollevarono, riempiendo la stanza di luce blu, dello stesso colore dei suoi occhi.
Mi avvicinai al suo letto, controllando il battito del suo cuore. «Ben svegliato.» Sorrisi ottimista.
 
 
Nella tarda mattinata, Jessica venne a cercarmi, chiedendomi di raggiungere il mio ufficio, dove il Sergente Black mi stava aspettando. In un primo momento pensai che si fosse sbagliata, che tra tutte le persone che potevo aspettarmi lui era l’ultima, essendo arrivato da poco. Ma quando entrai nella stanza e lo vidi seduto dietro la mia scrivania, con un fascicolo in mano, con su scritto il mio nome, un enorme groppo in gola m’impedii persino di salutarlo.
«Buongiorno Bella, come stai?» Mi domandò quest’ultimo, con il tono allegro di sempre. La sua divisa era impeccabile, sembrava disegnata appositamente per lui. Seguiva perfettamente le forme sinuose del suo corpo, aderendo ai muscoli delle braccia e del petto, come una seconda pelle. Mi sorrise, indicandomi con la mano la sedia vuota davanti alla scrivania. «Prego siediti.»
«Teoricamente siete seduto sulla mia sedia.» Gli feci notare, rimanendo in piedi.
Jacob ridacchiò, assentendo  la mia ultima battuta, «hai ragione, purtroppo però, per il momento tu ti siederai davanti a me.»
Lo fissai interrogativa,«perché?»
«Dovrei farti un paio di domande, nulla d’importante. Si tratta solo di un controllo.» Mi spiegò aprendo il fascicolo.
Sospirando mi ritrovai ad assecondarlo, sedendomi sulla sedia.
«Allora, Bella.» Sollevò il viso, fissandomi, «parlami un po’ di te.»
«Come scusa?» Chiesi confusa, «non dovremmo parlare di lavoro?»
Jacob scoppiò in una fragorosa risata, socchiudendo gli occhi. Io lo fissavo sempre più incuriosita, se si trattava di uno scherzo non era affatto divertente.
«Intendevo dire, parlami di te come medico.» Chiarì, passandosi una mano tra i capelli corti.
«Tutto quello che devi sapere su di me è scritto in quel fascicolo.» Ero un fascio di nervi. Non sapevo bene che cosa dire, soprattutto perché non conoscevo le sue intenzioni. «C’è qualcosa di poco chiaro all’interno del mio curriculum?»
«Assolutamente no. Ed è per questo che mi sorge qualche dubbio.» Ammise sempre con quel suo tono spensierato che poco si accostava all’atteggiamento che avrebbe dovuto assumere come ufficiale.
«Continuo a non capire.» Confessai con una risatina isterica.
«Senti Bella, io non sono qui per metterti nei casini, dico sul serio.» Sorrise alzandosi, «tu sembri davvero un ottimo medico, stai facendo un lavoro eccellente all’interno della base e anche fuori, voglio dire, hai una preparazione esemplare.» Disse avvicinandosi.
Rimasi seduta, imbarazzata dopo tutti quei complimenti. «Però?» Sussurrai sollevando la testa per poterlo guardare negli occhi.
Jacob sospirò, «però ho la netta sensazione che mi stai nascondendo qualcosa. Ti sei specializzata da poco eppure sei stata chiamata in guerra senza un minimo di esitazione.»
«Pensi sia una raccomandata?» Domandai sbigottita, «Il Dottor Smith mi ha seguito per tutta la durata della specializzazione, chiedendo lui stesso il mio aiuto in queste terre.»
«Era un tuo professore?» Mi chiese posando le mani sul sedile della sedia. Irrigidii le spalle, rimanendo immobile.
«Si.» Sussurrai debolmente.
Jacob sembrò soddisfatto da quella risposta, eppure rimase stabile dietro di me. «Bene, e una volta arrivata qui, voglio dire, dopo la morte del tuo professore, come sei riuscita ad andare avanti?»
«Con preparazione e forza di volontà. Non sarei tornata indietro lasciando la base senza un medico.» Risposi sincera.
«Saresti stata presto sostituita se solo avessi voluto rientrare. Ti è stata data la possibilità di scegliere?»
«Ho rifiutato il rientro in America.» Risposi lapidaria.
Avvertii il calore delle sue mane sulle mie spalle, «stai tremando.» Mi fece notare sfiorandomi.
Istintivamente mi sollevai, fronteggiandolo, «è tutto?»
«Per il momento si.» Sorrise, allontanandosi per riprendersi il mio fascicolo, «non preoccuparti, non voglio che tu ti senta in soggezione quando ti faccio queste domande. Si tratta solo di lavoro, stupide precauzioni. Lo so che il tuo lavoro qui è eccellente, cosa potresti mai aver commesso, giusto?» Ridacchiò.
Annuii, incapace di rispondergli.
«Bene.» Sorrise, avvicinandosi alla porta, «è il turno delle infermiere adesso.» Disse cercando di sdrammatizzare la situazione, rendendosi conto del mio atteggiamento distaccato. Cercai di sorridergli, nascondendo le mie insicurezze dietro quel gesto. Stava per uscire, quando si voltò improvvisamente verso di me, «sai, la foto sul tuo curriculum è davvero molto bella.» Ammise uscendo di scena prima che potessi rispondergli.
 
 
Impiegai diversi minuti prima di riuscire a riprendermi. Solitamente non cedevo mai così facilmente, o almeno credevo. Con Edward ero sempre riuscita ad assumere un atteggiamento forte, cinico, capace di reggere qualsiasi parola. Ma con Jacob, era stato completamente diverso. Lui era l’esatto opposto. Con i suoi modi gentili riusciva a portarti direttamente dove desiderava, riuscendo a spingere il mio inconscio nella direzione da lui prescelta. Probabilmente la paura di essere scoperta mi aveva reso più debole o quanto meno pragmatica, perché con lui mi era impossibile fingere o nascondere le mie sensazioni. Questo non fece altro che accrescere l’inquietudine, che già albergava dentro di me, da quando aveva messo piede all’interno dell’accampamento. Forse sia Angela che Alice avevano ragione sul conto di Jacob, le sue intenzioni potevano andare ben oltre la semplice curiosità. Le sue domande mi erano sempre troppo dirette, come se tutte le parole dette la mattina precedente fossero cadute nel dimenticatoio, e le confessioni fatte lasciate andare.
Quali fossero le sue vere intenzioni non ero ancora riuscita a capirlo, ma avrei tentato in tutti i modi di proteggere la mia carriera, il mio lavoro e il segreto che Alice cresceva dentro. Era proprio per tutti questi motivi che avevo abbandonato l’ospedale durante l’ora di pranzo, per raggiungere l’ufficio di Edward, dove sapevo si sarebbe rifugiato mentre i soldati accorrevano nella mensa.
Quando entrai nella caserma, vi era solo John, vicino ai monitor con indosso una cuffia, probabilmente in collegamento con gli accampamenti vicini.
Sollevai la mano salutandolo gentilmente, mentre mi dirigevo con passo spedito nell’ufficio di Edward. John ricambiò con un sorriso, riprendendo a parlare al microfono.
Feci un respiro profondo, prima di bussare leggermente alla porta. Ci vollero diversi secondi prima che rispondesse accordandomi l’accesso. Per quanto avrei voluto evitare quell’incontro, una parte di me, forse la più determinata, desiderava ardentemente perdersi negli occhi chiari del Tenente. E quando ciò accadde, quando i nostri occhi s’incontrarono, percepii un notevole aumento di temperatura all’interno del mio corpo. Ultimamente mi accadeva spesso in sua compagnia.
«Isabella?» Domandò inarcando un sopracciglio, sembrava notoriamente sorpreso di vedermi.
Sollevai leggermente gli angoli delle labbra, avvicinandomi alla scrivania, «Tenente disturbo?» chiesi mantenendo un atteggiamento distaccato, per quanto la sua vicinanza me lo permettesse.
Lui scosse la testa, facendo aderire la schiena allo schienale della sedia, «è successo qualcosa?»
«Il Sergente Black questa mattina è venuto a farmi visita,» risposi fissandolo, «mi ha fatto qualche domanda.»
Edward sembrò non battere ciglio, come se le mie parole non avessero avuto alcun significato, quasi come se non gli avessi parlato. «E’ il suo lavoro, Isabella. Lui è stato chiamato proprio per questo. Farà domande a tutti noi, è toccato anche a me.» Disse portandosi le braccia al petto.
Annuii impercettibilmente, «c’è qualche problema alla base?»
«Perché mi chiedi questo?» Domandò perplesso.
«Non si risponde a una domanda con un’altra domanda.» Risposi laconica, sedendomi sulla sedia di fronte alla scrivania.
Il Tenente sembrò rilassarsi, perché vidi i muscoli del collo e delle spalle allentarsi, «hai ragione, a volte sono un vero maleducato.» Disse sarcastico.
«Avanti Edward, smettiamola con questi inconvenievoli, lo sappiamo entrambi il perché della sua presenza.» Sbottai infastidita dal suo atteggiamento.
I suoi occhi si accesero di una nuova luce e sul suo pallido volto comparve un ghigno divertito, «se lo sai, perché sei venuta a domandarmelo.»
«Perché voglio sentirtelo dire.» Confessai stringendo le mani a pugno, «dimmelo.» Continuai senza mai distogliere lo sguardo, «dimmi che la mia presenza in questa base t’innervosisce, che vorresti solo rispedirmi a casa. Dimmi che hai convocato il Sergente solo per fargli scoprire l’errore dell’altra notte.»
Edward rimase immobile, ascoltando attentamente le mie parole. Ancora una volta rimase calmo e rilassato, mentre mi fissava in silenzio.
«Dimmelo.» Sbraitai iniziando a respirare con affanno.
Con un gesto rapido si sollevò dalla sedia, facendomi sobbalzare quando me lo ritrovai alle spalle, come era accaduto quella mattina con Jacob.
Lo sentii avvicinarsi posando entrambe le mani sui braccioli della sedia, impedendomi qualsiasi movimento. «Perché vuoi sentirtelo dire?» Mi domandò chinandosi all’altezza del mio viso. Avvertivo distintamente il suo profumo, muschio e sabbia. Intenso, profondo, lentamente si conficcava nella mia pelle, penetrandomi.
«Solo così saprò quanto mi odi.» Risposi con un bisbiglio del tutto inudibile.
Edward si avvicinò all’orecchio, sfiorandolo con le labbra, «è questo quello che vuoi? Vuoi sentirti dire che ti detesto? Vuoi sentirti dire quanto disapprovo la tua presenza nella mia base?» Mi domandò languido, stringendo le mani sui braccioli, «quanto vorrei che tu non ci avessi mai messo piede qui dentro?»
«E’ per questo che hai chiamato Jacob.» Sussurrai senza fiato.
Lui ringhiò infastidito, «si, è per questo che ho richiesto l’intervento del Sergente Black, perché voglio che tu vada via da qui. Che tu t’allontana il più possibile da me.»
Mi voltai di scatto, ritrovandomi il suo viso a pochi centimetri dal mio, «e allora perché non gli hai detto della mia fuga? Del mio tentativo di salvare quelle due donne eh?» Domandai perdendomi nell’oceano verde dei suoi occhi. Socchiuse leggermente le labbra, come a voler dire qualcosa, ma le parole gli morirono in gola.
La presa sulla sedia si fece sempre più debole, fino a scomparire del tutto. E con la stessa disarmante lentezza si allontanò da me, indietreggiando di qualche passo.
Tentai di riprendere il controllo della situazione, cercando più aria di quanto i mie polmoni ne potessero contenere. Avrei preso fuoco da un momento all’altro se lui non avesse smesso di guardarmi in quel modo. Non riuscivo a respirare con quegli occhi.
«Perché non l’hai fatto?» Domandai nuovamente, «rispondimi.» Lo scongiurai alzandomi dalla sedia.
Edward sembrò pietrificarsi e ancora una volta rimase in silenzio.
«Se è vero che mi odi, perché non hai detto a Jacob di quella sera, ho disubbidito ai tuoi ordini, devi punirmi.» Dissi con un filo di voce avvicinandomi.
Era così alto.
«Puniscimi.»
Feci un altro passo, ritrovandomi così vicina a lui da poterlo sfiorare con un minimo movimento. Edward mi fissava senza parlare.
«Perché non l’hai detto a Jacob?»
Improvvisamente avvertii due mani stringermi con forza i polsi, e gli occhi di Edward brillarono di rabbia. «Sergente Black, dannazione, lui è il Sergente Black.» Sbottò spintonandomi, ma senza mai lasciarmi andare.
Lo fissai per nulla intimorita, fronteggiandolo, «avanti Edward, rispondi.»
«Vuoi sapere la verità Bella?» Domandò senza dolcezza, «vuoi davvero sapere perché non gli ho detto nulla?»
Annuii, sentendo il suo respiro sulle labbra.
«Perché sono stato un pazzo. Sono stato un folle a permetterti di farti avvicinare. E tu questo non lo capisci? Proprio non ci riesci? Eh?» Mi chiese con un mezzo sorriso, che tutto sembrava tranne felice. «Non capisci che ogni minuto che passo in tua compagnia è un pezzetto di razionalità che va scemando?»
«Io capisco solo che tu sei stato un pazzo, hai detto bene.» Dissi con disprezzo, avvertendo il cuore battere all’impazzata, certa che potesse sentirlo anche lui. «Non hai pensato neppure per un solo secondo alle conseguenze. Davvero credevi che si trattasse solo di me? Non sei neppure riuscito a capire come sono fatta che già ti ostini ad odiarmi.»
Edward serrò la mascella, aspettando che continuassi.
«C’è qualcosa di molto più importante da nascondere adesso.»
«Se si tratta del bacio che c’è stato tra di noi ti posso assicurare che non-» Non attesi neppure che finisse la frase, quello che conservavo dentro non poteva più essere trattenuto.
«Alice è incinta.» Ammisi smettendo di lottare, «è incinta.» Ripetei amareggiata.
In quel momento i suoi occhi divennero una maschera dietro la quale s’intravedeva solo il nulla. Abbandonò la presa sui miei polsi, indietreggiando.
«Ora capisci cosa significa? Il tuo migliore amico è nei guai e se qualcuno lo scoprisse…» Farfugliai distogliendo lo sguardo, «se Jacob lo venisse a sapere, sarebbe la fine.»
«Alice è incinta?» Mi domandò con voce spezzata, non l’avevo mai visto così pallido.
«Di otto settimane.» Risposi laconica.
Lo vidi stringere forte i pugni, colpendo il muro con violenza. Inconsciamente indietreggiai, poi, però, la parte razionale del mio essere, mi costrinse ad avvicinarmi, preoccupata soprattutto nel momento in cui vidi il suo bel viso deformarsi per il dolore.
«Stai fermo idiota, così ti fai male.» Gridai, afferrando la sua mano tra le mie, così piccole in confronto. Controllai attentamente che non si fosse rotto nulla, mentre lui continuava a ripetere frasi senza senso.
«Senti, adesso non importa, dobbiamo solo non farlo scoprire a nessuno.» Dissi arrabbiata, non riuscendo a lasciare la sua mano. «Dobbiamo mantenere il segreto.» Farfugliai.
Edward mi fissò intensamente, «non mi sono fatto nulla.»
«Lo so.» Sospirai, certa che la sua mano fosse perfettamente integra.
Le sue labbra si avvicinarono pericolosamente alle mie, «e allora perché continui a stringerla?»  Mi domandò incatenando i suoi occhi ai miei.
Scossi la testa,«non lo so.» Ammisi sosprirando. Così chiusi inconsciamente gli occhi.
Lo avvertii indistintamente mentre si avvicinava, mentre il ricordo del nostro ultimo bacio si faceva strada tra tutti gli altri ricordi. Avevo smesso di combatterlo. Avevo smesso di pensare.
Il rumore della maniglia che veniva abbassata ci fece allontanare repentinamente, prima che qualcuno ci potesse vedere.
Una chioma dorata spuntò dalla porta, mentre due occhi azzurri ci fissavano incuriositi.
«Disturbo?» Domandò Jasper prima di entrare.
Edward teneva ancora la mano a mezz’aria, «no, entra pure.» Rispose con calma, recuperando il suo abituale controllo. Dal canto mio, invece, sapevo di essere totalmente inaffidabile, così, prima che Jasper potesse capire qualcosa, mi allontanai, scusandomi con entrambi, prima di uscire.
Che Jasper fosse da Edward per raccontargli la verità era poco probabile, ma sicuramente Edward gli avrebbe chiesto spiegazioni.
Ma se lui non fosse entrato, se Jasper non ci avesse interrotti, fino a che punto ci saremmo spinti? Tentai con tutte le mie forze di non pensarci, respirando a pieni polmoni l’aria fuori dalla caserma.


Buonasera a tutti voi, se siete riusciti ad arrivare fino a qui, può significare una sola cosa, ovvero che il capitolo non è riuscito a farvi addormentare xD
Sinceramente, adoro scrivere di Edward e Bella e del loro rapporto così complicato ed introverso. Spero di essere riuscita a trasmettervi i loro sentimenti, anche se mi rendo conto, che sono piuttosto contorti, sopratutto quelli del tenebroso Tenente.

Ma andando per ordine, notiamo che Bella finalmente è riuscita a sfogarsi, prima d'impazzire completamente. E anche se non ha potuto raccontare la verità ad Angela, questa ha compreso le sue difficoltà e il suo dolore. Quante volte anche noi, nella vita quotidiana ci sentiamo così? Quante volte vorremmo dire tutto quello che sentiamo dentro e non possiamo? Ma anche se non ci riusciamo, le lacrime escono ugualmente e chissà perché c'è sempre qualcuno, vicino o lontano, che riesce a comprendere il nostro malessere senza spiegazioni. Per quanto mi riguarda, ho avuto la fortuna d'incontrarla una persona così. E spero con tutto il cuore di non perderla, perché è davvero speciale.
Dopo questa confessione alla Beautiful, torniamo alla storia. Il Sergente ha iniziato il suo interrogatorio, dobbiamo sempre ricordarci il motivo della sua presenza, ossia quella di supervisionare il lavoro di tutti gli addetti alla base, militari, medici, infermieri. Tutti. E oggi è toccata alla nostra Dottoressa. Che abbia capito qualcosa mi sembra difficile, ma non si può mai sapere.
Sinceramente credo che Edward abbia lasciato trapelare molto. Non credete anche voi? Da adesso in avanti non si scherza più, i due dovranno parlare seriamente, perchè la miccia ormai è accesa e la bomba rischia di scoppiare da un momento all'altro, (a buoni intenditori poche parole *_*)
Per tutti quelli preoccupati per un possibile avvicinamento tra Bella e Jake dico, "state sereni". Ricordate che sono una team Edward a tutti gli effetti ù.ù
Il prossimo capitolo sarà scoppiettante, avviso e verrà postato il 5 Gennaio. Anticipo di un giorno essendo Venerdì 6 l'epifania =)


Allora, come sono andate le feste? Vi siete divertiti? Avete mangiato? Cosa vi hanno regalato di bello? A me qualche soldino ^_^ e un buono sconto da spendere in libreria *_*
Prima di lasciarvi andare voglio ringraziarvi per il caloroso bentornata che mi avete dato, le vostre recensioni erano tutte bellissime. Grazie grazie grazie,
Colgo l'occasione per augurarvi un felice anno nuovo, con la speranza che sia migliore di questo 2011.
Speriamo che questo 2012 sia speciale, e che nel caso dei futuri maturanti, come me, ci riservi tanta fortuna xD
Lua93.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 12
*** 11# ***


11#            
           

        Per il nuovo anno vi lascio un capitolo tutto dedicato al bel Tenente.
        Sarà un Pov Edward e vi consiglio di stare molto attenti, perché sarà un capitolo pieno di rivelazioni. Ho lanciato diversi segnali e indizi.
        Come sempre vi lascio una canzone:  Andrew Belle - In My Veins
        Good read.

                                                                              11


 
Pov Edward
 
I capelli color mogano furono l'ultima cosa che vidi di lei prima che si chiudesse la porta alle spalle. Li aveva legati in una coda alta che le risaltava la linea sinuosa del collo e il colore candido della pelle. Era uscita eppure sentivo ancora il suo profumo nella stanza, mi entrava dentro, lentamente fino a risucchiarmi, fino a rendermi incapace di desiderare altro.
Per qualche secondo rimasi impietrito, tentando di riacquistare un po’ di lucidità per affrontare Jasper. Quello che Isabella mi aveva confessato andava ben oltre un semplice segreto, era decisamente un problema, uno di quelli difficili d’affrontare. Non riuscivo mai a concentrarmi abbastanza quando si trattava di questioni personali, ne avevo avuto la prova proprio con lei. In capace di gestire i miei sentimenti, di tenere a bada le mie emozioni.  
Jasper mi fissava immobile davanti la porta, le sue mani sfioravano continuamente il tessuto leggero della divisa in un gesto nervoso e spazientito.
«Come mai Bella era qui?» Mi domandò spezzando il silenzio creatosi intorno a noi.
Feci spallucce ritornando composto dietro la scrivania, «discussioni come al solito.»
«Non mi sembravate proprio sul punto di discutere.» Disse sarcastico, mentre si sedeva sulla sedia usata poco prima da Isabella.
Inarcai un sopracciglio, «non credi di stare un po’ esagerando, non mi sembri nelle condizioni adatte per sfottere.»
«Che cosa intendi dire?»
L’espressione sul suo viso mutò drasticamente, mostrandomi un’insicurezza ben percepibile dal tremolio lieve della sua voce.
«Isabella mi ha detto la verità.» Risposi senza girarci troppo intorno. Il problema si era presentato, l’unica soluzione possibile era quella di tentare di risolverlo coinvolgendo il resto dell’accampamento il meno possibile.
Jasper abbassò gli occhi, stringendo le mani a pugno sulle sue gambe, «quindi lo sai.»
Annuii, «perché non sei venuto tu a dirmelo?»
«Perché so come sei fatto, e sicuramente mi avresti urlato contro.» Rispose con sincerità.
Era visibilmente innervosito da quella situazione, e piuttosto imbarazzato. «Effettivamente è proprio ciò che vorrei fare, oltre darti un pugno sul viso.»
«Me lo meriterei.» Ammise sospirando.
«Almeno ne sei consapevole. Il problema comunque rimane.» Gli feci notare.
Gli occhi di Jasper s’illuminarono di una strana luce, fissandomi con avversione. «Non credo che mio figlio sarà mai un problema.» Disse irrigidendosi, «anche se questo è il tuo accampamento e noi dobbiamo sottostare ai tuoi ordini, non ti permetto di parlare di lui come se fosse un errore.»
Lo fissai esterrefatto, «Jasper hai messo incita una donna mentre siamo in guerra, cosa dovrei dirti? Vorresti che ti facessi i complimenti, ti stringessi la mano e ti aiutassi a montare la culla?»Domandai con finta ironia, «non so se ti sei reso conto della gravità della situazione.» Aggiunsi avvilito.
In otto anni di amicizia, non avrei mai creduto di poterlo dire o anche solo pensare. Ma Jasper si era rivelato per quello che era, un vero sprovveduto. E purtroppo non era il solo. Per quanto detestassi ammetterlo sapevo che quella situazione era stata causata anche da un mio errore. Se non gli avessi permesso di frequentarsi, di trascorrere tutte le notti sotto lo stesso tetto, probabilmente tutto questo non sarebbe successo.
«Cazzo Edward, certo che me ne sono accorto. Credi che non lo sappia?» Chiese alzando la voce, «ho sbagliato, questo lo so anch’io. Ma ormai è successo e di certo non obbligherò Alice ad abortire solo per un tuo capriccio.»
«Non si tratterebbe di un capriccio, ma di una necessità.»
«Non ucciderò mio figlio.» Ringhiò con rabbia.
«Dannazione Jasper, davvero mi credi capace di un gesto così meschino? Non te lo chiederei mai, anche se si trattasse dell’unica soluzione per salvarti il culo.» Sbraitai sbattendo il palmo della mano sul legno duro e freddo del tavolo. «Sono tuo amico da troppo tempo, cosa credi che per me sia facile gestire questa situazione senza farmi sopraffare dai sentimenti?»
«Aspetta, quindi tu non vuoi che Alice abortisca?» Mi domandò leggermente perplesso.
«Certo che no idiota.» Borbottai guardandolo, «che razza di amico sarei se ti chiedessi di fare una cosa del genere?»
Vedevo ancora ancora gli occhi di Jannah quando abbassavo le palpebre. Lo sguardo terrorizzato di una madre che sapeva di stare perdendo la propria bambina. Inerme, mentre osservava da dietro lo specchio la morte che accarezzava il volto pallido e piccolo di sua figlia, troppo debole per combattere. Se avessi permesso alla morte di portarsi via il figlio che Alice cresceva in grembo, non sarei più riuscito a guardarla negli occhi. Avrei ucciso una donna oltre che un bambino. Avrei spezzato due vite.
«Voglio bene ad Alice, cosa credi? Ero con lei in entrambi gli attentati, so come la paura s’impossessa di lei, come sia difficile continuare a guardare i suoi occhi, come continua a tremare.» Aggiunsi passandomi la mano destra tra i capelli.
Jasper strinse gli occhi, «non voglio lasciarla andare.» Digrignò i denti portando entrambi le mani sulla testa, in un gesto disperato, «cosa ci posso fare se mi sono innamorato?»
«Non puoi fare nulla.» Sussurrai abbassando lo sguardo, «non sei stato tu a deciderlo.»
«Amo quella donna più della mia vita, e sapere di averla messa in pericolo mi terrorizzata. Sapere di essere la causa delle sue paure, non mi fa respirare. Che razza di uomo sono?» Gli occhi di Jasper si fecero lucidi.
L’ultima volta che l’avevo visto in quello stato fu al funerale di sua madre, morta cinque anni prima in un incidente stradale. Quando si era rifiutato di venire perché non riusciva ad accettarlo. Quando si ubriacò fino a trasformarsi in un fantoccio alla mercé della disperazione.
Lo costrinsi ad andare, rimanendo al suo fianco per tutta la durata della funzione, che ancora puzzava di alcool.
Tremava, come quel giorno.
«Che razza di padre potrò mai essere?» Continuò sputando con rabbia quelle parole.
Mi sollevai in piedi, avvicinandomi a lui, «sarai un padre eccezionale. Tuo figlio sarà orgoglioso di te, come lo è Alice, come lo sono io, come lo è l’America intera. Sei un soldato Jasper, hai affrontato la morte.» Dissi posandogli la mano sulla spalla, «io ti starò accanto anche questa volta. Per quanto continui a comportarti da idiota.» Aggiunsi con un mezzo sorriso.
Jasper si sollevò, «che razza di bastardo che sei.» Sbottò ricambiando il sorriso.
«Non ti aspetterai un abbraccio spero.» Borbottai arretrando di qualche passo.
Il mio amico scosse la testa, «posso solo dirti grazie.»
I suoi occhi chiari, ancora rossi per quel momento di debolezza, mi fissavano pieni di gratitudine, mentre tentava di riacquistare un po’ di contegno.
«Isabella mi ha detto che è di otto settimane.» Dissi, cercando conferma.
Lui annuì. «Alice mi ha mostrato l’ecografia che ha fatto con lei due giorni fa.» Le sue labbra si aprirono in un sorriso, «diventerò padre.»
«Idiota lo sei già, è un primato che hai raggiunto anni fa.» Lo schernii, reclamando quella spensieratezza che aveva caratterizzato i miei primi anni di addestramento in America, quando con i compagni di corso ci chiudevamo intere notti nei bar a bere birra e fumare sigarette, alla ricerca di qualche bella ragazza. I momenti spensierati di una gioventù passata troppo in fretta.
«Ha parlato il frigido.» Mi canzonò Jasper, ammiccando.
Lo fissai interdetto, «come?»
«Hai capito benissimo. Non ti ricordavo mica così sai? Eri sempre così attento e passionale con le donne, mai le avresti trattate come stai trattando in questi mesi Isabella.» Rispose con sincerità.
«Io sarò stato pure un incosciente con Alice, ma tu, non sei da meno. Tratti Bella come l’ultima delle donne. Quando ti renderai conto che questo tuo atteggiamento non fa altro che spingerla a odiarti?»
«E’ quello che voglio.» Risposi laconico, abbandonando l’euforia dei ricordi.
Jasper ridacchiò, divertito, «non sei altro che un masochista.» Poi pur sapendo che le sue parole mi avrebbero scalfito, proseguì imperterrito, «continui a nascondere i tuoi sentimenti, li spingi dentro con forza, e poi vedrai come emozione dopo emozione scoppierai, Edward.»
Serrai la mascella, trovando improvvisamente interessante il pavimento di legno del mio ufficio. «Non credo che questi siano affari tuoi.»
«Ti sbagli. La tua idea brillante ti si è rivoltata contro. Non solo con l’arrivo del Sergente Black hai complicato maggiormente la situazione con Bella ma hai persino appeso un cappio intorno al mio collo.» Controbatté risoluto, con la solita calma.
«Se avessi saputo di Alice in tempo, quel bastardo non sarebbe di certo qui.»
«Ovviamente, esattamente come se avessi saputo che si sarebbe interessato alla dottoressa, giusto?» Domandò retorico inarcando un sopracciglio. «Io e Alice forse ce la potremmo cavare, infondo dovremmo resistere solo un paio di giorni, poi lui sarà andato via, ma sicuro che lo farà da solo?» Aggiunse interrogativo.
Digrignai i denti, infastidito, «tu preoccupati della pancia di Alice, fino a quanto rimarrà piatta e innocente non ci saranno problemi, ma non appena si noterà il cambiamento fisico, sarà costretta ad andare via.»
Una ruga contrariata comparve sulla sua fronte, «e con quale scusa?»
«A tempo debito mi farò venire un’idea, per il momento cerca di non spargere la voce.»
Sospirò rassegnato, «e tu cerca di andare a riprendertela, cosa credi che non si sia capito? Bella non ti è per nulla indifferente.»
«Non commetterò il tuo stesso sbaglio.» Annunciai dandogli le spalle per ritornare dietro la mia scrivania.
Solo quando rialzai lo sguardo su di lui, si decise a controbattere. «Per quanto ti piacerebbe.» Sorrise provocatorio, con una certa malizia.
«Scusami ma tu non sei di turno a quest’ora?»
Colse al volo il mio stato d’animo e il desiderio di rimanere da solo, così con un ultimo tentativo cercò di riportare la conversazione sulla dottoressa, ma notando la mia caparbietà si arrese definitivamente.
Prima di aprire la porta, si voltò un’ultima volta, fissandomi con un’espressione dura che poco si accostava a quel volto sempre sorridente e spensierato, «Il Sergente Black ha iniziato il suo interrogatorio, se davvero vuoi sentirti meglio, evita di fargli scoprire l’errore commesso da Bella.» Mi disse autoritario, «agisci sempre d’impulso quando si tratta d’interessi personali, è per questo che l’hai convocato, non è così?»
Annuii rassegnato, continuare a negare il mio interesse per quella donna sarebbe stato da stupidi, era palesemente ovvio che non mi fosse indifferente. Per quanto detestassi provare quei sentimenti per Isabella. Lei che era sempre così determinata da togliermi il fiato, a cosa valevano le mie medaglie e gli onori ricevuti, se con lei le mie capacità erano inutili?
«Allora cerca di difenderla Edward.» Continuò portando la mano sulla maniglia, «gli occhi del Sergente Black si sono soffermati un po’ troppo su di lei.» Concluse chiudendosi la porta alle sue spalle. Spiazzandomi, esattamente com’era solito fare Isabella.
 
 
Sotto il crepuscolo del Kuwait, la terra arida e sabbiosa si apriva in piccole spaccature sotto la suola delle scarpe, assumendo increspature e modifiche ad ogni passo. Sotto le mie scarpe avvertivo il calore di quella terra assimilato durante il giorno.
John mi camminava accanto, riassumendomi gli avvenimenti di quella giornata, con una certa tensione. Il suo passo era lento, camminava controvoglia, come spinto da una forza sconosciuta. Se bene più basso di me di qualche centimetro, la sua stazza fisica era nettamente superiore alla mia. Era rigido e le sue parole misurate.
«L’attacco in aeroporto è riuscito perfettamente, così come quello alle mura della città di Baghdad.» Mi disse fissando un punto indefinito davanti a se.
Annuii, «secondo il Generale entro quanto riusciranno ad assediarla?»
«Un paio di giorni al massimo, gli inglesi sono meticolosi non amano lasciare le cose a metà.» Mi rispose grattandosi il mento, «cosa pensa di fare Tenente?»
«Attenderò nuovi ordini dal Generale, sicuramente avrà bisogno di uomini.»
John sussultò, «saremo chiamati a partecipare?»
«Probabile.» Risposi conciso.
Le sue labbra si piegarono in una smorfia contrariata, ma il suo buon senso gli impedì di controbattere.
Ci stavamo dirigendo alla mensa, quando il Sergente Black richiamò entrambi, facendoci voltare.
L’uomo ci raggiunse con grandi falcate, sistemandosi la divisa, «Buonasera Tenente.» Salutò con educazione, «Soldato.» Continuò rivolgendosi a John.
«Buonasera Sergente.» Ricambiammo.
Lo fissai con attenzione, notando un sorrisetto soddisfatto disegnato sulle labbra.
«Tenente, prima della cena, dovrei parlarle.» Mi disse autoritario, lanciando un’occhiata al ragazzo che mi stava accanto. Quest’ultimo salutò entrambi educatamente, portandosi la mano dritta sulla fronte, prima di dargli il consenso per allontanarsi.
«Potete parlare adesso.» Dissi austero, stringendo le mani a pugno. In quel momento avrei preferito non ritrovarmelo davanti. Le parole di Jasper continuavano a risuonarmi in testa.
Gli occhi del Sergente Black si sono soffermati un po’ troppo su di lei.
Parlava di Isabella, anche Jasper come me, aveva notato qualcosa di strano in lui. Il modo in cui la guardava, il modo in cui pronunciava il suo nome, non facevano altro che accrescere l’irritazione che provavo nei suoi confronti.
«Tenente, volevo solo congratularmi con lei. In questi due giorni non ho potuto fare a meno di notare quanto questo campo sia rispettoso ed efficace. Sicuramente le si deve rendere merito.» Sorrise mellifluo.
Lo fissai leggermente spiazzato, «dovere.»
«Oh sono certo che non è solo questo. I soldati lavorano sodo e sono sempre pronti a intervenire in caso di necessità. Lo stesso ospedale da campo grazie alla preparatissima dottoressa, sembra non avere difetti.» Continuò, accentuando un sorriso nel nominare Isabella.
Rimasi in silenzio, fissandolo con astio.
«Devo dire che sono rimasto piacevolmente sorpreso quando ho appreso la notizia che lei non è l’unico a parlare arabo.»
«Come?» Domandai inarcando un sopracciglio.
Non riuscivo a capire dove volesse arrivare con quell’arringa.
«Sul curriculum di Angela Weber c’era scritto che parlava arabo, così durante le mie solite domande di routine rivolte al personale, ho soddisfatto una mia piccola curiosità.» Mi rispose sollevando gli occhi verso un cielo che cominciava a imbrunire.
«Cosa volete dire?»
«Nulla Tenente, sono solo molto compiaciuto, sicuramente sarà stata molto utile la sua conoscenza.» Rispose, «il campo è uno dei migliori che abbia visionato.» Riprese lusinghiero con un sorrisetto divertito sul volto scuro, «complimenti.» Aggiunse allungandomi la mano che strinsi prontamente.
«Come le ho già detto, è il mio lavoro.»
Lui ridacchiò, «certamente Tenente. Adesso però, andrei a cenare, oggi è stata una giornata faticosa per tutti.» Salutò incamminandosi verso la mensa, senza girarsi.
Sollevai la testa, fissando il cielo stellato del deserto. E sotto quello stesso cielo maledissi il giorno n cui chiesi l’intervento di un supervisore all’interno della base.
Ero stato impulsivo. Speravo di riuscire a liberarmi di Isabella senza troppe difficoltà, eppure ogni volta che lei si presentava davanti a me, tutti i buoni propositi sparivano nel nulla.
Come quella mattina, quando le nostre labbra erano talmente vicine da poter sentire il sapore dell’altro. Desideravo assaggiarle ancora. Una sola volta non mi era bastata.
Non avrei commesso lo stesso errore di Jasper, ma non avrei neppure permesso al Sergente Black di portarmela via. Ero stato uno stupido, e l’avevo capito quando, forse, era troppo tardi.
 
 
La mattina del 6 Aprile mentre un reparto corazzato Usa penetrò a Baghdad, alcuni dei miei soldati si preparavano a raggiungere i compagni nella città, equipaggiando due Jeep.
I raggi caldi del sole scivolavano sulle loro fronti umide, mentre si guardavano intorno con occhi spaventati.
«Appena potrò, vi raggiungerò.» Dissi a Peter mentre l’accompagnavo sulla prima Jeep.
Il ragazzo sorrise, «il suo posto è qui Edward, sarò io a fare ritorno, lo devo alla mia Charlotte.»
Portai una mano sulla sua spalla, «bravo, torna per tua moglie.»
«Non lascerò mio figlio senza un padre.» Promise sedendosi sul sedile anteriore, «andiamo a salvare il culo ai nostri compagni, ragazzi!» Incitò gli altri soldati che animati dal coraggio dell’amico, risposero con un urlo alle sue parole.
Peter ridacchiò, visibilmente teso, «a presto.»
«Non fate scemenze ragazzi, ricordate gli allenamenti, siete uomini capaci di tutto. Tornate indietro possibilmente con le vostre gambe.» Dissi loro, salutandoli per l’ultima volta prima che le macchine partissero.
Le Jeep sgommarono sulla sabbia, lasciando le orme degli pneumatici sulla terra. Rimasi a fissare le due macchine in lontananza fin quando non divennero puntini minuscoli nell’immensità del deserto.





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Capitolo 13
*** 12# ***




Buona Domenica a tutti. Vi chiedo scusa per il leggero ritardo, ma con l'inizio delle attività scolastiche il tempo libero a mia disposizione si è dimezzato.
Per motivi di comodità posterò tutte le Domeniche.
Ora vi lascio alla lettura del capitolo, con questa triste canzone in sottofondo: Red - Hymn For The Missing
Buona lettura.




                                                                                                                               12


6 Aprile 2003



 

Non avevo dormito molto quella notte. Un po’ perché Alice si era sentita poco bene e sentirla lamentarsi, mentre si rigirava nel letto, non mi aveva permesso di riposare, un po’ perché quella notte il cielo sembrava più scuro del solito e mi sentivo come dentro un buco nero. La luna non si vedeva neppure dalla finestrella della camera, ed era qualcosa che mi lasciava sempre un po’ atterrita. Vederla mi faceva sentire più vicina alla vita e un po’ più lontana dall’inferno.
Così non mi sorpresi più di tanto, quando durante le prime luci dell’alba, raggiunti i bagni, scorsi un riflesso pallido allo specchio. Sul viso due grandi ombre scure cerchiavano i miei occhi mentre le labbra secche e screpolate spiccavano in mezzo al biancore della mia pelle. Avevo da diverso tempo assunto l’aspetto di uno zombi. Inguardabile, impresentabile.
Quella mattina decisi di prendermi cura un po’ del mio corpo, che avevo trascurato un po’ troppo ultimamente. Iniziai dalla doccia, rimanendo sotto il getto dell’acqua fin quando i primi tremolii dovuti al freddo s’impossessarono della mia pelle. Impiegai diversi minuti nel tentativo di districare i capelli e liberarli dai mille nodi che si erano venuti a formare. E solo dopo aver assunto un colorito più umano e asciugato i capelli con un vecchio phon da viaggio, mi decisi a fare ritorno nel dormitorio.
Il rombo di un motore, catturò la mia attenzione, facendomi, involontariamente, cambiare destinazione. Camminavo con passo lento verso l’ingresso al campo, dove in lontananza ero riuscita a distinguere due Jeep e diversi soldati. I raggi del sole anche se appena sorto, riscaldavano la mia pelle, e la sensazione di freschezza lasciata dalla doccia, rendevano piacevole il contrasto di quell’aria secca sul mio corpo.
Prima di poter raggiungere l’ingresso, vidi partire le due Jeep e con loro gli occhi dei ragazzi che vi erano dentro. Rallentai l’andatura quando mi accorsi della presenza di Edward davanti a me. Mi dava le spalle, l’attenzione rivolta alle due macchine, era quindi poco probabile che si fosse accorto della mia presenza. Sospirai leggermente titubante sul da farsi.
Mi persi a osservare come la sua perfezione apparisse irraggiungibile persino di spalle. Indossava la solita uniforme verde, che fasciava perfettamente i muscoli delle sue spalle, le linee sinuose delle sue braccia, le sue mani si muovevano a rallentatore, si aprivano e si chiudevano a pugno ritmicamente. Una brezza leggera scompigliava i suoi capelli ramati, facendoli apparire un ammasso informe intorno alla sua austera figura.
Quando gli fui abbastanza vicina da poter sentire il suo profumo, qualcosa si sciolse in me. Il ricordo di un bacio e l’avvicinarsi di un altro, interrotto bruscamente prima di poter essere soddisfatto.
«Dove sono diretti?» La mia voce fu un sussurro leggero nella tranquillità del mattino. Edward si voltò sorpreso verso di me, puntandomi i suoi grandi occhi versi addosso.
«Baghdad.» Rispose lanciandomi una lunga occhiata prima di voltarsi nuovamente verso l’orizzonte.
Il deserto riusciva a mettermi sempre una certa agitazione dentro. L’ignoto che portava dietro di sé lasciava sempre atterriti.
Sussultai. «La città è stata presa?» Chiesi non riuscendo a mascherare l’orrore.
Edward annuì, senza voltarsi.
«I ribelli non si arrenderanno così facilmente, si opporranno.» Dissi più a me stessa che a lui, «i soldati saranno costretti a difendersi aprendo il fuoco.» I miei occhi cercarono i suoi, «e molti di loro moriranno.» Sospirai cercando qualcosa dentro quel mare in tempesta. Una scintilla, uno spiraglio, qualsiasi cosa sarebbe stata sufficiente. Avevo bisogno del calore dei suoi occhi. Mi sarei accontentata anche solo della consapevolezza, qualsiasi cosa pur di farli sembrare vivi.
«Siamo qui per questo.» Disse quasi con ovvietà, «non è così?» Mi domandò voltandosi improvvisamente verso di me.
«Non per farci uccidere.»
«Serviamo semplicemente il nostro Paese.» Ribatté con un sorriso triste.
La mia mano era così vicina alla sua, che tutte le mie difese sarebbero crollate da un momento all’altro. Percepivo il suo calore, le vibrazioni tese del suo corpo che tentava di nascondere dietro tremori inesistenti.
«Anche Dexter rispondeva sempre così, “serviamo il nostro Paese”. E guarda com’è finita, lui è morto.» Digrignai, dandogli le spalle.
Edward mi seguì in silenzio, mentre raggiungevamo i dormitori.
«Una volta mi hai detto che nessuno di noi è indistruttibile. Nonostante ciò tu cerchi continuamente di uccidermi.» Borbottai, fissando senza alcun interesse il modo in cui le scarpe spostavano la sabbia.
I muscoli di Edward si tesero, il suo corpo s’irrigidì, ma non proferì parola.
Sospirai, «quando ieri mi hai detto quelle cose, le pensavi realmente?» Gli chiesi inumidendo le labbra.
Teneva le mani in tasca, la sua camminata era sicura, agile, non lasciò passare molto tempo prima di darmi una risposta. «Si.»
Annuii, «forse dovremmo parlare. Voglio dire, non è normale il nostro atteggiamento. Siamo persone adulte, forse dovremmo discutere di quello che ci è successo.» Annaspai in cerca di aria. Sentivo i suoi occhi sul mio viso, ma non riuscivo a sollevare lo sguardo. «Il bacio e tutto il resto.» Terminai, fermandomi proprio davanti al mio dormitorio. Lui si arrestò contemporaneamente.
«E se io non avessi nulla da dire?» Mi domandò con voce bassa e dannatamente seducente.
Sollevai la testa, scontrandomi contro la sua espressione tormentata. «Non ti crederei.»
Si avvicinò lentamente, sovrastandomi con il suo corpo. Involontariamente indietreggiai fino a ritrovarmi con la schiena sulla porta.
«E se invece, avessi qualcosa da dirti?»
Deglutii fissando le sue labbra, troppo vicine alle mie, «ti ascolterei.»  
Le sue braccia si sollevarono, fino a posarsi con i palmi aperti delle mani sulla porta, accanto alle mie spalle.
«Perché mi hai baciato?» Chiesi perdendomi nella linea morbida del suo collo, osservando il pomo d’Adamo sollevarsi ritmicamente.
Rimasi immobile mentre le sue labbra si avvicinavano pericolosamente al mio viso. «Perché continui a torturarmi?»
«Io-»
Lui m’interruppe. «Tu sei una fonte inesauribile di guai, una continua tentazione, un tormento. E’ così difficile da capire Bella?» Sussultai, sentendolo pronunciare il mio soprannome. «Odio le tue domande, perché sono sempre così dirette.»
«Ed io odio il modo in cui mi guardi, perché mi fai sentire sempre debole.» Riuscii a dire, scostandolo di qualche centimetro.
Fece uno strano sorriso, sollevando solo un angolo delle labbra, «Davvero mi odi?» Chiese dolcemente.
Volevo rispondergli, sul serio, ho tentato, ma qualcosa in gola m’impediva di parlare. Così rimasi in silenzio, persa nella contemplazione di quel volto sempre più simile a quello di un diavolo sotto mentite spoglie.
Lui fece per avvicinarsi nuovamente, ma il movimento brusco della porta che si apriva dietro di noi, mi fece indietreggiare, fino a farmi scontrare contro il corpo esile di Alice.
«Bella?»
Edward si ricompose, indietreggiando velocemente. «Buona giornata dottoressa.» Sorrise maliziosamente, «Alice.»
Quest’ultima lo fissò interdetta ma Edward non gli diede neppure il tempo di controbattere che già si era voltato, dando le spalle a entrambe.
Il mio respiro era affannato, il cuore tremava nel petto.
«Bella?» Mi chiamò nuovamente Alice. Mi costrinse a voltarmi, «adesso tu mi racconti tutto.» Sbottò spingendomi di nuovo dentro la stanza. Mi ordinò di sedermi sul letto, mentre lei chiudeva la porta. «E quando dico tutto, intendo dire che non voglio tralasciato neppure un particolare.» Mi disse autoritaria. E dal luccichio che aveva negli occhi, mi resi conto che la sua curiosità non si sarebbe saziata così facilmente.
 

Aveva ancora gli occhi rossi, le labbra bianche come la pelle e una voce che si sentiva solo nel silenzio. Con una mano si accarezzava il ventre, fissandomi indispettita.
«Senti Alice, sul serio, non c’è nulla da dire.» Dissi lamentandomi, giocando con una ciocca dei capelli più lunga delle altre.
Sollevò un sopracciglio, «eravate praticamente appiccicati l’uno sull’altra.»
«Mi stava raccontando della partenza dei ragazzi.» Tentai di giustificare il comportamento del tenente, senza alcun risultato. I suoi occhi mi scrutavano senza tregua.
«Non ti credo Bella, mi dispiace.» Disse sospirando, «io ti ho raccontato di questo bambino. Ti ho confidato un segreto. Pensavo che la nostra amicizia fosse speciale, ma evidentemente mi sbagliavo.» Aggiunse rammaricata, continuando ad accarezzarsi la pancia.
Mi sentivo persa, demotivata. Avrei dovuto raccontarle la verità, lei avrebbe mantenuto il segreto ed io mi sarei sentita più leggera. Eppure c’era qualcosa che mi bloccava le parole in gola.
«Non è così.» Biascicai leggermente imbarazzata, «sai che ti voglio bene.»
Sorrise, «allora dimmi la verità. Conosco quello sguardo, hai paura e lo capisco, ma sai che di me ti puoi fidare.»
«E che è tutto troppo complicato.»
«Tu provaci.»
«Ci vorrà tempo.»
«Da qui non si muove nessuno.» Ridacchiò abbassando gli occhi verso il suo ventre, «noi ti ascolteremo.» Mormorò con dolcezza, riuscendo a sciogliere il nodo che m’impediva di parlare. Così iniziai dall’inizio, dal principio di tutto, senza omettere alcun particolare, bacio compreso. E le espressioni sul suo viso mutarono a ogni mia parola, i suoi sussurri erano seguiti da sobbalzi e strane esclamazioni, mentre gli raccontavo di come le nostre labbra erano entrate in contatto. Fino a quella mattina, quando le nostre difese erano crollate dinanzi alla realtà dei sentimenti che provavamo. Forse troppo violenti, forse semplicemente impossibili da soddisfare. Ma il desiderio che provavo per lui era reale, palpabile, troppo lontano per poterlo avere ma abbastanza vicino da sentirne il calore. Edward era presente in ogni mia parola, il suo viso era impresso nella mia mente come un fotogramma. Scalpitava, desideroso di più attenzione, di un contatto più profondo, di una smania troppo accecante e violenta da poter essere domata solo con le parole.
Avevo bisogno di pelle. Del suo corpo. Di quegli occhi che m’incendiavano il volto ogni qual volta, si posavano su di me. E senza che me ne accorgessi mi ritrovai in lacrime, con le mani strette in quelle di Alice nel tentativo di porre fine a tutta quell’incessante tempesta.
La mia amica mi fissava intenerita, cercando di apparire rilassata, ma l’ombra scura del suo volto suonò come campanello d’allarme nella mia testa.
«Lo so, è patetico.» Borbottai asciugando le lacrime con la manica della camicia, «con tutto quello che stai passando, ci mancavano le mie lacrime.»
Alice mi diede un buffetto sul braccio, lanciandomi un’occhiataccia, «non dire assurdità. Io sto bene.»
«Vorrei avere anche io tutto questo coraggio. Tu e Angela mi avete dimostrato più volte la vostra grande forza di volontà, mentre io…» Ansimai tentando di acquistare un po’ di lucidità, «io sono finita con l’innamorarmi dell’uomo più cinico ed enigmatico del pianeta.» Dissi cupa, «ho perso in partenza. Chi vuoi che possa aiutare in queste condizioni? Non sono neppure in grado di prendermi cura di me stessa, guardami sono un ferrovecchio. Ogni volta che l’incontro, ogni dannatissima volta perdo un pezzo di me. Sono rimasta vuota, incompleta. Mi ha preso tutto.»
Alice mi strinse in un abbraccio, «io aspetto un bambino Bella. Chi è messa peggio?» Mi domandò con ironia, cercando di risollevarmi il morale.
Sorrisi ricambiando l’abbraccio, «ultimamente non faccio altro che piangere. Che fine ha fatto la Bella combattiva di qualche settimana fa?»
«Sarà scomparsa insieme al mio ciclo mestruale.» Rispose Alice, scoppiando poi in una fragorosa risata, che coinvolse anche me.
Ridevo e piangevo, senza riuscire a capire quando smettevo uno e iniziavo l’altro. Mi ci vollero diversi minuti prima di riuscire a riprendermi definitivamente, cercando di apparire il più normale possibile.
Dovevo essere inguardabile. Occhi gonfi e rossi dal pianto. Peggio di una notte insonne.
«Sai io l’avevo immaginato. Qualcosa sarebbe successo alla fine, lui non mi sembra del tutto indifferente.» Mi disse sorridendomi.
Annuii, «la sua è solo attrazione fisica.»
«Dici?» Mi domandò dubbiosa, «non penso sai. Non guarda nessuno come guarda te.»
La fissai interdetta, non riuscendo a capire, «perché come mi guarda?»
Alice fece spallucce, «hai presente quando sai di non avere più alcuna possibilità? Quando ti rendi conto che ormai è tutto finito, che persino il sangue nelle vene si è prosciugato?» I suoi occhi chiari brillarono, «lui ti guarda come un moribondo guarda la sua medicina. Come se fossi l’ultima sacca, del suo stesso sangue, rimasta per la trasfusione.»
Tremai, precipitando in un limbo.
Alice si sedette nuovamente sul letto, chiudendo gli occhi. «Ho ancora mal di testa.» Borbottò massaggiandosi con i polpastrelli le tempie.
«Questa notte hai dormito pochissimo, so che quello che sto per dirti non ti farà piacere, ma credo che tu debba prendere in seria considerazione l’idea di tornare a casa. « Le dissi quasi autoritaria. Vederla così pallida e indifesa mi rendeva nervosa, sapevo di poter fare poco, l’unica cura era il riposo assoluto.
«Non posso Bella, di certo non vi abbandonerò proprio adesso.» Sbottò leggermente infastidita.
«Il primo trimestre è quello più pericoloso, sia per te sia per il bambino.» Le ricordai avvicinandomi, «qui ce la caveremo benissimo. Non appena Jacob sarà tornato dal Generale, tu prenderai il primo aereo per tornare in America. E questo è un ordine.»
«E Jasper?» Mi domandò sussurrando.
Le sorrisi apprensiva, «starà bene.»
«Non andrò da nessuna parte senza di lui.» Disse stringendo il lenzuolo bianco tra le mani.
Era così testarda, eppure così dannatamente coraggiosa. «Va bene, ma adesso che ne diresti di riposare?»
Alice mi fissò perplessa, «sono quasi le otto, dobbiamo andare in ospedale.»
«Ti sbagli, io andrò in ospedale. Tu rimani qui e rilassati, ti porterò qualcosa da mettere sotto i denti dalla mensa.» Le sorrisi, indossando il camice bianco che avevo lasciato ai piedi del letto la notte precedente. Non riuscivo a lasciarlo, persino fuori dall’ospedale. Era come uno scudo protettivo.
Alice mi guardava con riconoscenza, «grazie.»
«Grazie a te.» Sollevai gli angoli delle labbra, «grazie di cuore.» Le dissi mentre s’infilava nel letto, nel frattempo mi avvicinai alla porta, uscendo dal dormitorio silenziosamente. Ero stata sincera. L’avrei ringraziata all’infinito se fosse stato possibile. Alice mi aveva fatto aprire gli occhi. Grazie a lei ero riuscita ad attribuire finalmente un nome a quella sensazione che provavo nei confronti del tenente. Irrazionale e illogico amore.

 
La mensa quella mattina era piuttosto silenziosa. Quando arrivai, la trovai quasi deserta, vi erano solo tre soldati, tra cui Garrett. I suoi occhi erano chini sul tavolo, mentre le sue mani sbriciolavano una ciambella. Sembrava avvolto in una bolla isolata dal resto del gruppo. Non parlava, non si muoveva. Passandogli accanto, per raggiungere Angela, gli domandai se stesse bene.
«Sono solo preoccupato, sa, sarei dovuto partire anch’io questa mattina, ma il tenente ha preferito mandare solo Peter.» Mi rispose con un sorriso triste.
Posai una mano sulla sua spalla, «vedrai che andrà tutto bene.»
«Non so. Peter non è un novellino, ma quando si hanno troppi pensieri in testa lavorare diventa più complicato. E sa bene anche lei, che nel nostro lavoro si deve essere concentrati, sempre.» I suoi occhi scuri brillavano sotto le lampade al neon.
Tentai di tranquillizzarlo, ma sapevo che sarebbe stato del tutto inutile.
«Sono qui da sette mesi.» Disse improvvisamente, attirando l’attenzione anche degli altri due militari, che si voltarono verso di lui. «Peter ed io siamo arrivati insieme al tenente e al sergente. Dal nulla abbiamo costruito quest’accampamento, con l’aiuto di soldati inglesi.» Continuò guardandomi, «ne abbiamo passate davvero tante, rischiando più volte la vita. Ma ovunque andassimo eravamo insieme, sapevamo di poter contare l’uno sull’altro. La nostra carcassa non sarebbe mai rimasta nel deserto.» Tentò di sorridere, ma sul suo viso comparve una smorfia troppo rammaricata perché potesse essere scambiata per un vero sorriso. «Ora Peter è lì fuori e io sono qui. Non potrò difenderlo e questo mi fa una gran rabbia, perché essere padre è la cosa più incredibile. Vedere nascere il frutto del proprio amore, assistere a quel piccolo miracolo.» Ridacchiò, perso nei meandri della sua memoria. Lo lasciai continuare, immaginando però, che lui questa gioia doveva averla provata. Garrett portava una fede d’oro all’anulare sinistro, e sorrisi, immaginando con quanta dolcezza la famiglia aspettasse il suo ritorno.
«Peter ha tutto il diritto di vivere. Come tutti qui, per questo odio sentirmi così. So che in caso di difficoltà, se Dio se lo portasse via prima del tempo, io mi sentirei responsabile. Non sarà solo Charlotte a uscirne distrutta.» Disse rammaricato.
Gli altri ragazzi annuirono, fissandolo in silenzio.
«Si, ma vedrai che andrà tutto bene.» Ammisi con sincerità. «Peter farà di tutto pur di tornare sano e salvo, ha la pelle dura, e poi ama troppo la vita per lasciarsi sopraffare dalla guerra.» Sorrisi, «e ama la sua Charlotte, per questo farà di tutto pur di tornare a casa, prima del parto.» Conclusi convinta di ogni parola uscita dalle mie labbra.
Garrett sembrò assimilare lentamente il significato del mio strano discorso, ma ne uscì con un sorriso, e una nuova luce negli occhi. «Ha ragione dottoressa.» Dissi con entusiasmo, «Peter O’Shea farà il culo a tutti i pakistani.»
Scoppiamo a ridere, attirando l’attenzione di Angela, che ci fissava da dietro il bancone con aria interrogativa.
«Il vostro arrivo qui è stato una manna dal cielo.» Sussurrò Garrett, fissandomi, «sono poche le donne con il vostro coraggio.»
Strinsi forte le mani a pugno dentro le maniche della divisa, nascondendo i miei occhi lucidi. «Vorrei che fosse così.»
«Lo è dottoressa. Solo che c’è troppa luce per poterlo vedere.» Sorrise sollevandosi. Con voce autoritaria richiamò i suoi compagni, avvicinandosi all’uscita.
Io li osservai andarsene con ancora le mani nelle tasche e il cuore che batteva troppo velocemente.
Angela mi si avvicinò, il suo bel viso era illuminato dalla luce artificiale delle lampadine. Aveva i capelli legati in una coda nascosti sotto una cuffietta verde.
«Sei stata brava sai? Hai risollevato l’animo di quell’uomo.» Si congratulò, sorridendomi. Ma un ombra scura nei suoi occhi, mi lasciò interdetta. Sembrava come se si stesse sforzando di apparire rilassata.
Feci spallucce, «tra le tante cose»
«Continui a ripetere che sei debole, poco coraggiosa, eppure siamo in molti a doverti ringraziare.» Disse mentre ci avvicinavamo al bancone. I piatti erano quasi vuoti, vi erano rimaste solo qualche ciambellina. Le chiesi se potesse mettermele in un piatto e lei lo fece senza chiedermi nulla.
«Bella.» Mi chiamò prima che uscissi, mi voltai verso di lei, scorgendo una strana luce negli occhi.
«Che succede?» le domandai preoccupata.
Angela fece un grosso respiro prima di rispondermi, «ieri sono stata interrogata dal sergente Black.» Mormorò con voce fioca, «e lui sa.» Uno strano brivido mi pervase la spina dorsale, «sa tutto Bella. Sa della nostra fuga.»
Strinsi forte la busta tra le mani, fissando Angela terrorizzata, «come fa a saperlo?»
«Sul mio curriculum c’è scritto che parlo arabo, così lui mi ha fatto qualche domanda, incuriosito. E alla fine, non so come, siamo finiti a parlare di Jannah e Nadira.» Farfugliò, con gli occhi rossi e le mani tremolanti, «alla fine è riuscito a scoprirlo.»
«Come?» Domandai incolore.
Angela abbassò gli occhi, «mi ha minacciata.»
Lascia la colazione su uno dei tanti tavoli di plastica, avvicinandomi frettolosamente verso la mia amica, ormai completamente sommersa dalle lacrime.
«Quando avevi intenzione di dirmelo?»
«Mi dispiace tanto.»
«Ti ha minacciata? Cosa ti ha detto?» Chiesi forse con troppa foga.
Le sue mani si arpionarono sulle mie braccia, «sapeva che nascondevamo qualcosa in questa base. Alcuni documenti erano incompleti.» Borbottò con affanno.
«Angela devi andare dal tenente a raccontargli la verità.»Provai a respirare regolarmente, ma qualcosa m’impediva di farlo. L’aria all’interno della mensa era diventa improvvisamente troppo pesante e irrespirabile.
«Non posso mi ha proibito di farlo.»
Sbarrai gli occhi, sconvolta, «lui… che cosa?»
La feci sedere sulla prima sedia, prendendole un bicchiere d’acqua.
«Tranquilla, non è colpa tua. Prima o poi l’avrebbe scoperto in un modo o nell’altro.» Cercai di controllare il mio tono di voce, ma nascondere il nervosismo era impossibile. «Se il tenente aveva intenzione di cacciarmi dalla base, alla fine l’avrebbe detto lui stesso al sergente, no?»
Angela scosse la testa, posando il bicchiere vuoto sul tavolo. «Ti sbagli. Edward non aveva alcuna intenzione di farlo sapere al sergente. So che potrà sembrarti assurdo, ma credo che lui l’abbia chiamato per qualcos’altro, forse per interessi personali.» Mi rispose tremolante.
La fissai sorpresa, «come fai ad esserne così sicura?»
«E’ stato il sergente a farmi aprire gli occhi. Dopo averlo scoperto, mi ha obbligato a tenere la bocca chiusa e di non dire nulla a nessuno, soprattutto al tenente.»
Rimasi paralizzata di fronte a quella verità.
I pensieri erano troppi, la testa cominciava a farmi male. Edward stesso mi aveva detto che Jacob era stato chiamato per me, eppure una volta arrivato alla base non gli ha raccontato nulla. Che avesse cambiato idea?
Cercai di capirci qualcosa, ma Angela continuava a ripetermi scusa ed io non riuscivo più neppure a respirare.
«Bella stai attenta, il sergente ha qualcosa in mente.» Borbottò mettendomi in guardia.
Annuii, avevo intuito anch’io qualcosa. Il sergente durante la nostra ultima chiacchierata si era lasciato trasportare un po’ troppo, arrivando a toccare punti personali.
«Non essere in pena per me. Ci penserò io a risolvere questa situazione.» Le dissi rassicurandola. Le chiesi di stare tranquilla per un po’ e di non pensare a nulla, era troppo scossa. L’abbracciai forte, continuando a ripeterle che non era colpa sua. Poi con la colazione di Alice in una mano e il mio caffè nero nell’altra, raggiunsi il mio dormitorio, dove trovai la mia amica immersa nel mondo dei sogni. Senza svegliarla le lasciai le ciambelle accanto al letto, sul comodino che divideva i nostri letti, assicurandomi che stesse bene. Ero ancora scossa a causa di quell’inaspettata rivelazione, ma avevo deciso di comportarmi come se nulla fosse, come se non sapessi niente. Così mi allontanai, per raggiungere l’ospedale da campo. E il sole quel giorno era più caldo e vicino del solito. I suoi raggi erano violenti quella mattina, mi colpivano sulla pelle come lame intenzionate a ferirmi. Persino la terra bruciava sotto i miei piedi, per questo quando raggiunsi l’ospedale, la lieve oscurità del corridoio mi permise di riprendere fiato.
Bevvi velocemente il mio caffè, iniziando con le visite. Senza Alice che controllasse e cambiasse le flebo ai pazienti, il mio lavoro si era moltiplicato. Eppure non mi lamentai. Quella ragazza era riuscita a entrare nel mio cuore, come tutti in quel campo. Ed era proprio per questo motivo, per l’affetto che provavo per loro, che avrei fatto qualsiasi cosa per difenderli.
Jessica mi aiutò con alcuni documenti e per la maggior parte della mattinata tenni la testa occupata, cercando di scacciare via tutti quei pericolosi pensieri che mi opprimevano.
Ero un chirurgo dopo tutto, mantenere i nervi saldi e il sangue freddo era una mia specialità.









Spero che il capitolo vi sia piaciuto, credo di averci lasciato un pò di me stessa dentro. Ormai le carte si sono svelate, senza però rivelare i reali piani di Jacob, non che siano, alla fine, così difficili da intuire.
Tengo a precisare che Alice sta bene, il bambino non è in pericolo di vita. Però date le sue condizioni e il luogo in cui si trova, è normale stare male. Alice è un infermiera, passa la maggior parte del suo tempo in ospedale, a curare pazienti e aiutare Bella. Crescere un bambino e sopportare tutte quelle ore di lavoro, senza riposare non è affatto salutare, per questo Isabella cerca di darle una mano, per quel che può.
Per quanto riguarda Peter vi dico solo che non sono così sadica, ma neppure un anigioletto. Siamo pur sempre in guerra.
Per concludere, senza lasciare troppi spoiler vi dirò semplicemente che molto probabilmente Angela non rimarrà con le mani in mano :D A buon intenditori poche parole.
Ah si, bè... stavo dimenticando la cosa più importante. Credo sia scontato ripeterlo, però male non farà sicuramente. Bella si è arresa al tenente. Ormai sarà difficile controllarsi, perciò preparatevi, perché i prossimi capitoli incendieranno il deserto.
Un bacione a tutti.
Lua93.


P.S. Lo scorso capitolo ha ricevuto poche recensioni, mi rendo conto di non essere l'unica a non avere tempo, però mi piacerebbe molto leggere le vostre opinioni, quindi non esitiate a lasciarmi anche due paroline xD
Ultima cosa e poi prometto di sparire. Qualche tempo fa ho scritto una shot originale, se vi va, venite a darci un occhiata: Gli occhi rimangono.

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Capitolo 14
*** 13# ***


13#
Buonasera a tutti, con un pò di ritardo riesco a postare il capitolo.
Non dirò nulla, non troverete nessuna nota alla fine, voglio lasciarvi così fino alla prossima settimana. Sadica dite? Leggete prima il capitolo ^^ Avviso che il capitolo potrebbe turbare, anche se mi sono mantenuta molto con il rating. La storia è tutto frutto della mia immaginazione, eccetto ovviamente per la guerra in Iraq. Tratto di tematiche che fortunatamente non hanno mai fatto parte della mia vita, per questo se credete che possa sembrare troppo o che la storia rischia di diventare inverosimile, non esitiate a contattarmi.
Buona lettura: Massive Attack - Teardrop


Questo capitolo è dedicato a te Ariii
un bacione.
B.

                                                                       13


«Sei sicura di non volere nulla?» Mi domandò apprensiva Jessica, fissandomi da dietro la porta del mio ufficio. «Non puoi andare avanti solo bevendo caffè». Continuò facendo ondeggiare i suoi lunghi capelli. Era diventato un vizio il suo. Non riusciva a smettere di toccarli, di pettinarli con le dita delle mani. Nervosismo, tensione, troppi stati d’animi diversi per poter scoprire quale fosse la causa della sua costante agitazione. Jessica aveva gli zigomi troppo sporgenti e quando sorrideva le guancie si sollevavano formando due piccole collinette sotto gli occhi. Le sue labbra si aprivano e si chiudevano ritmicamente continuando a parlare. Sorrideva, si toccava i capelli.
Seduta sulla sedia in plastica scura dietro la mia scrivania, avevo deciso di smetterla di ascoltarla, almeno fin quando non mi avesse lasciato rispondere ad una delle sue domande.
«Sto bene così». Provai a liquidarla, sollevandomi per raggiungerla, «vai a mettere qualcosa dentro lo stomaco, io rimarrò qui», le dissi posando una mano sul suo braccio.
Ostentò un cipiglio insoddisfatta, «sei proprio sicura di non volere nulla?»
«Si Jessica, perché non porti con te anche Kristen? Sicuramente Angela vi avrà conservato qualcosa dall’ora di pranzo» le risposi con un mezzo sorriso.
La rossa sembrò esitare, così tentai di rasserenarla, «mangerò qualcosa questa sera.»
«Sei troppo testarda,» sbottò arrendendosi, «guarda che l’ho capito che non vuoi uscire dall’ospedale». Disse improvvisamente, sorridendomi.
La fissai accigliata, passandomi una mano tra i lunghi capelli, «che cosa stai dicendo Jessica?»
«Ma si, tu mi nascondi qualcosa». Continuò ignorando la mia domanda, «sono già diversi giorni che Alice non si presenta o se lo fa, si trattiene al massimo due ore». Parlò lentamente, come a voler dare conferma alle sue stesse parole, «e tu hai preso il suo posto, facendo anche i suoi turni».
«Te l’ho detto l’altro giorno. Alice sta poco bene, si è trattato di un’intossicazione alimentare davvero forte ed è per questo che le ho consigliato di stare a riposo». La bloccai, prima che le sue supposizioni potessero diventare un problema.
Sembrò non essere molto convinta, così continuò, ignorando beatamente i miei tentativi di sviare il discorso. «Questo lo capisco», ammise contrariata, «quello che non comprendo è il tuo comportamento».
«Che vuoi dire?» Le domandai incrociando le braccia sotto il seno.
Jessica mi fissò attentamente, studiando la mia espressione perplessa. «Forse è solo una mia impressione, ma è da un paio di giorni che ti comporti in modo strano, per non parlare di oggi. Non sei mai uscita dall’ospedale, persino quando il Sergente Black ti ha chiesto di essere ricevuto nel tuo ufficio, l’hai liquidato chiedendomi di dirgli che avevi troppo lavoro da sbrigare». Le sue parole erano dirette, taglienti, arrivavano dritte al punto, senza girarci intorno. E dietro quel sorriso sempre dipinto sulle labbra e quei capelli dalle mille sfumature del rosso, si nascondeva un cervello tutt’altro che eccentrico e smemorato.
«Non avevo tempo da perdere in chiacchiere». Sbottai leggermente inalterata. «Ci sono persone all’interno di questo edificio che necessitano della mia completa attenzione».
Jessica sembrò sorprendersi, sicuramente non si aspettava una reazione del genere da parte mia. «Hai ragione», si scusò abbassando lo sguardo, leggermente mortificata, «non avrei dovuto farti pressione, a volte dimentico che non sono l’unica qui dentro che rischia d’impazzire». Cercò di farmi sorridere, ma ero ancora troppo scossa per riuscire a farlo.
Sapevo che le sue parole non erano del tutto false. Mi stavo realmente nascondendo, ma non da Jacob. Volevo solo estraniarmi quel tanto che bastava per non crollare. Dopo tutte le parole dette e ascoltate quella mattina, il rischio che precipitassi dentro i miei stessi tormenti e le mie stesse paure, era davvero elevato.
«Non preoccuparti». Dissi semplicemente, accompagnando Jessica lungo il corridoio, appena fuori il mio piccolo ufficio.
«Vado a chiamare Kristen, a dopo Bella».
Annuii, osservandola scomparire lungo il corridoio stretto e poco illuminato.
Da una delle due finestrelle che si trovavano nel mio ufficio, una volta tornata dentro, scorsi le ombre delle due donne che si allontanavano dall’ospedale, perdendosi nella luce ancora calda della sera. Il cielo aveva assunto sfumature color porpora, mentre il sole calava lentamente verso ovest.
Era stata un giornata estenuante, per tutta la mattinata non avevo fatto altro che passare dal letto di un paziente a un altro. Jessica e Kristen erano le uniche due infermiere, insieme ad Alice, che lavoravano con me all’interno dell’ospedale. E anche loro, come me, si ritrovarono con il doppio del lavoro a causa dell’assenza di Alice.
Mancanza più che giustificata, e per evitare che le due mi facessero troppe domande, come era accaduto poco prima con Jessica, avevo inventato la scusa di un’intossicazione alimentare. Bugia poco credibile, dato che persino Jessica, solitamente sempre troppo distratta, si era posta qualche domanda.
Dopo la partenza del Sergente Black avrei chiesto a Edward di rispedire Alice in America, con la scusa di un ordine superiore, in modo da non destare troppi sospetti all’interno della base. Nascondere un segreto così grande era diventato faticoso, soprattutto a causa della presenza del supervisore.
Proprio quest’ultimo, era venuto a cercarmi nella tarda mattinata, con la scusa di dover completare il mio interrogatorio. Non ero ancora pronta per affrontarlo. Le parole di Angela mi vorticavano in testa, e per quanto desiderassi non crederle, queste non volevano abbandonarmi.
Eppure il suo sorriso aperto e giocoso, i suoi occhi scuri e profondi, erano riusciti ad ingannare la mia mente. Ero persino giunta alla conclusione che il suo arrivo alla base non era stato poi così dannoso, almeno fin quanto la verità di Alice non era venuta a galla.
Che il Sergente avesse minacciato Angela era ancora qualcosa di cui a stento riuscivo a capacitarmene. Ero ancora troppo scossa da quelle rivelazioni così improvvise che mi era difficile comprendere quale fosse il suo scopo finale. Avevo smesso di domandarmi il perché Edward l’avesse chiamato, ormai era ovvio che la risposta ero io. C’era un filo invisibile che ci collegava, un legame fisico che non ci permetteva di stare troppo lontani l’uno dall’altra. E la tensione di quella mattina, si sarebbe trasformata in qualcos’altro se solo Alice non avesse aperto la porta.
Troppi pensieri. Troppe domande. Non sarei riuscita neppure a respirare con tutto quello che mi vorticava per la testa.
Decisi così di fare un ultimo giro di controllo, prima di lasciare l’ospedale nelle mani di Kristen, per il turno notturno.
Le stanze erano piuttosto silenziose, tanto che preoccupata per la salute dei due pazienti, arrivati il giorno prima dall’ospedale civile, mi accertai che le loro funzioni vitali fossero regolari. Solitamente erano le infermiere ad occuparsene, ma essendo la sola in ospedale, decisi di fare l’ultimo giro di controllo, per accertarmi personalmente della loro salute.
L’ospedale da campo non era molto grande, poteva ospitare al massimo dieci pazienti. Ma la maggior parte dei letti erano vuoti. Le uniche stanze occupate erano quelle riservate ai civili delle città vicine, ragazzi esuli o uomini abbastanza coraggiosi da sfidare il loro paese pur di raggiungere la tanto agognata libertà.
Libertà che non sarebbe mai arrivata se raggiunta attraverso le armi, e l’unico sfogo che avrebbe trovato, sarebbe stato nella morte.
Era passato così tanto tempo dall’ultima volta che avevo respirato aria pulita che ormai i miei polmoni erano pieni di disinfettanti e odori provenienti dal deserto. La mia vita era cambiata radicalmente dal mio arrivo alla base. Poco più di un mese fa, ero semplicemente una ragazzina pronta a raggiungere i suoi obbiettivi, come qualsiasi neo specializzata. Ora, a distanza di così tanto tempo, quello che osservavo tutte le mattine riflesso allo specchio, era l’immagine di una donna logorata dalla stanchezza e dal peso che era costretta a portare sulle proprie spalle. Quella donna ero io, eppure non riuscivo a riconoscermi. Che fine avevo fatto? Come era possibile cambiare così tanto senza rendersene conto?
Il deserto aveva risucchiato anche le mie aspettative future. Non mi aspettavo più nulla ormai, dopo un’esperienza così non avrei mai potuto pretendere qualcosa in più. Eppure quel qualcosa era arrivato come un tornado, colpendomi in pieno petto. Una tempesta che prendeva il nome del bel tenente, che ormai, da giorni aveva catturato il mio cuore. Forse era accaduto il primo giorno, forse quando mi aveva salvato la vita, o forse, quando le nostre labbra si erano incontrate, e staccandosi, si era rotto qualcosa anche dentro di me. Qualcosa che solo il suo corpo avrebbe potuto restituirmi. Inutile negarlo, tra tutta quella sofferenza, in mezzo a tutta quella disperazione, era nato qualcosa di diverso, qualcosa che ci avrebbe portati entrambi verso l’autodistruzione.

Nella semioscurità del corridoio, illuminato debolmente da due lunghi lampadari al neon, mi avvicinai alla porta del mio ufficio, per concludere le ultime pratiche della giornata e raggiungere Alice nel dormitorio.
Un rumore leggero che proveniva da dentro la stanza mi fece sussultare. Tenevo ancora la mano sulla maniglia, quando questa venne aperta completamente, mostrandomi il volto scuro del Sergente Black.
Sussultai spaventata, «cavolo», ansimai con una mano sul cuore.
Jacob ridacchiò, portandosi una mano dietro la nuca, «non volevo spaventarti».
Non risposi, rimanendo dietro la porta, i suoi occhi trovarono i miei, e con un sorriso sincero si spostò per farmi entrare.
«Mi hai preso alla sprovvista, non credevo ci fosse qualcuno», confessai, avvicinandomi alla scrivania, dandogli le spalle, «pensavo di essere sola».
«E che questa mattina sono venuto per parlarti, ma mi hanno detto che eri troppo occupata». Lo sentii rispondere, ma non trovavo il coraggio di voltarmi. Guardarlo negli occhi, parlare con lui, dopo aver scoperto quello che aveva fatto, mi risultava un impresa impossibile.
«Mi dispiace molto, ma sono stata troppo impegnata», ripetei le sue stesse parole, afferrando alcuni fogli sul tavolo per metterli dentro una cartella vuota.
Avvertii il suo profumo, e il calore della sua pelle dietro la schiena.
«Immagino che salvare vite umane sia impegnativo,» sussurrò avvicinandosi al mio viso, «a volte dimentico che al posto di armi tra le mani, voi dottori reggete i bisturi.» Ridacchiò.
Rimasi immobile, avvertendo la sua presenza accanto a me. «Cerchiamo di fare il nostro meglio, impegnandoci al massimo». Farfugliai con un filo di voce.
Il tocco caldo e leggero della sua mano sulla mia spalla, mi fece rabbrividire. Mi voltai lentamente, incontrando i suoi occhi scuri.
«Posso immaginare», sollevò gli angoli delle labbra, «sei stanca». Constatò, sfiorandomi le guancie con le dita della mano, che dalla spalla era salita sul mio viso.
Lo fissai sorpresa, «come mai sei qui?»
Lui si allontanò di qualche centimetro, abbassando entrambe le mani, «volevo parlarti di una cosa abbastanza delicata.»
«Cosa?» Chiesi con il cuore in gola.
Sapeva della mia fuga, del mio sbaglio e del rischio a cui avevo sottoposto Angela e il resto dell’accampamento. Se avesse voluto denunciarmi l’avrebbe già fatto la sera stessa, ma non erano quelle le sue intenzioni.
«Siediti Bella».Mi ordinò con dolcezza, indicandomi la sedia di fronte la scrivania. Per qualche secondo rimasi immobile, poi obbedii.
Lui si posò con tutto il corpo sul tavolo, fissandomi leggermente divertito.
«Mi stai facendo preoccupare», ammisi con un risolino nervoso, «avanti parla». Lo supplicai, stringendo le mani a pugno sotto la sedia.
Il suo bel viso divenne una maschera nera, improvvisamente seria e autoritaria. Per una frazione di secondo rividi Edward in quel cambiamento d’umore così repentino, e qualcosa scattò dentro di me.
«Sai è una storia piuttosto interessante» Ridacchiò, muovendosi in direzione della porta. Lo seguii con lo sguardo e quando lo vidi avvicinarsi alla serratura, sgranai gli occhi.
«Che stai facendo?» Gli domandai ansiosa, mettendomi in piedi.
Jacob fece due giri di chiave, poi sfilandola dalla serratura se l’infilò in tasca. «Così nessuno ci disturberà», rispose mellifluo, «perché non ti riaccomodi?»
Indietreggiai vedendolo avvicinarsi.
«Avanti non ti mangio mica, voglio solo parlarti». Cercò di sdrammatizzare, sulle sue labbra il sorriso non era mai scomparso, ma i suoi occhi improvvisamente neri, mi destabilizzarono.
«Di cosa?» Domandai assecondandolo. Se avessi perso tempo ascoltandolo, Kristen sarebbe arrivata quanto prima per iniziare il suo turno, passando come d’abitudine nel mio ufficio.
La luce era ancora accesa, dall’esterno qualcuno sicuramente l’avrebbe notato.
Le mani di Jacob iniziarono ad agitarsi, muovendosi davanti al suo viso, «sai, non mi era mai capitato prima. Voglio dire, come supervisore sono sempre stato attento e scrupoloso e se c’era qualcosa che non andava me ne rendevo conto subito», sorrise, «e invece questa volta sono stato fregato». Mi ordinò nuovamente di sedermi sulla sedia e questa volta fui costretta ad assecondarlo senza ripensamenti.
Iniziai a temere che Kristen non sarebbe mai arrivata. Alle nostre spalle il cielo divenne nero.
«Non capisco». Ammisi sospirando, «da chi saresti stato fregato?»
«Ma da te ovviamente». Rispose come se fosse ovvio. Si portò entrambe le mani sulla camicia militare, slacciando i primi bottoni.
Tremai e non per il freddo. Le mie mani istintivamente si strinsero intorno al petto, mentre seguivo i suoi movimenti.
«In un primo momento ho pensato che una ragazza come te, non avrebbe mai potuto compiere una cattiva azione. Perché ammettiamolo Bella, io sono stato chiamato dal Tenente per te». Disse sprezzante, camminandomi intorno.
«Continuo a non capire».
Lui scosse la testa, avvicinandosi pericolosamente al mio viso, «no, non ci provare, con me quell’espressione da cucciolo bastonato non funziona». Ridacchiò accarezzandomi i capelli, istintivamente mi allontanai, mettendomi in piedi.
«Mi stai spaventando, per favore apri la porta e fammi uscire». Gli chiesi con un filo di voce, cercai di essere autoritaria, ma vederlo così alto e muscoloso davanti a me, così possente e nettamente in vantaggio, mi destabilizzò.
Jacob scosse la testa, mettendosi davanti la porta, «non posso, è da questa mattina che ti cerco, e ora che finalmente riesco a stare da solo con te, ti dovrei lasciare volare via?» La sua domanda retorica seguito da un sorriso mellifluo mi costrinse ad ammettere che qualsiasi cosa avesse fatto, dentro quella stanza, io ne sarei uscita sconfitta.
«Cosa vuoi da me?» Gli domandai passandomi una mano tra i capelli.
«Vorrei farti notare che non sei proprio nella posizione giusta per poterti permettere questo atteggiamento. Per favore stai zitta e ascoltami». Cordiale e spietato, non mi lasciò altra scelta che assecondarlo.
«Bene», disse una volta che mi sedetti nuovamente, «allora, vediamo se riesco a farti capire quello che voglio dirti senza troppe parole».
«Vedi Bella, quando ti ho visto la prima volta ho pensato che una creatura come te non avrebbe mai potuto commettere nulla, con i tuoi atteggiamenti sfrontati nei confronti del tenente, ho capito immediatamente che tra di voi non scorreva buon sangue. Ed è stato proprio quel nostro primo incontro, che mi ha fatto capire il perché del mio arrivo qui. Il tenente aveva chiesto al Generale un supervisore, senza dare spiegazione, e anche durante il nostro primo colloquio non mi aveva dato alcun chiarimento. Desiderava solo che qualcuno vigilasse la base e controllasse che tutto fosse in regola». Le sue parole erano misurate, a volte si fermava nel bel mezzo del racconto cercando le parole adatte per descriverlo. Io rimasi in silenzio, ascoltandolo senza interromperlo.
Sapevo dove voleva arrivare.
«Così dopo averti conosciuto, e visto il modo in cui guardavi il tenente, ho capito che tra di voi era successo qualcosa. Ho iniziato a fare domande, come ogni bravo controllore, non scoprendo però nulla d’incriminante. Sembrava tutto in regola. Piuttosto bizzarro, non trovi?» Afferrò la sedia oltre la scrivania, quella dove ero solita sedermi, trascinandola davanti alla mia. Poi con calma si accomodò davanti a me.
«Ho pensato che ci doveva essere sotto qualcosa, perché nessun comandante avrebbe lasciato supervisionare volontariamente la sua nave senza essere certo che questa fosse immacolata» Disse, e la sua metafora era fin troppo diretta per poter essere fraintesa.
«Quando ho scoperto che la dolce Angela Weber, responsabile della mensa, parlava arabo, mi sono subito incuriosito, e facendole qualche domanda è spuntata fuori la verità», sorrise, avvicinandosi maggiormente, le nostre ginocchia si sfioravano e il suo respiro s’infrangeva sul mio viso. «Sono stato costretto persino a minacciarla per arrivare fino a te. Sinceramente però, non capisco una cosa,» sospirò frustato, «perché sono stato chiamato qui se non volevate che si scoprisse la verità?»
Scossi la testa, «non lo so».
Jacob digrignò i denti, «ma si che lo sai,» sbottò innervosendosi, «ma dato che ti scoccia dirlo ad alta voce, sarò io a farlo». Sputò con rabbia quell’ultima parola, allungando una mano verso la mia gamba.
Feci per allontanarla, ma la sua mano strinse con forza la mia, costringendomi a stare ferma. Gemetti per il dolore, ma non lasciai uscire una sola parola dalle mie labbra.
«Ho ipotizzato una mia teoria, vediamo un po’ se sono riuscito ad avvicinarmi alla realtà», disse ridacchiando, «il bel tenente si è preso una sbandata per te, così per cercare di non cadere in tentazione ha richiesto al Generale Winchester un supervisore. Ovviamente, Edward non se l’è sentita di tradirti, perché altrimenti il suo cuore non l’avrebbe mai perdonato,» spiegò divertito, «così non mi ha raccontato nulla. Forse sperava che lo scoprissi senza il suo aiuto,o molto probabilmente, sapeva che se lui avesse raccontato tutta la verità, quella che ci sarebbe andata di mezzo non saresti stata solo tu. Perché ammettiamolo Bella, scappare in piena notte da un accampamento militare, non è stata un’idea brillante. Per fare cosa poi? Salvare due irachene. Che cosa stupida». Disse sollevando gli occhi al cielo, «il fatto e che se Edward ti avesse denunciato quello stesso giorno, il suo curriculum sarebbe rimasto intatto, ma nascondendoti ha aggravato la situazione. Per questo non capisco perché mi ha chiamato. Voglio dire, adesso che ho scoperto tutta la verità, potrei denunciarvi entrambi, mi domando come mai non ha pensato a questo piccolo particolare». Sospirò pensieroso, cercando nei miei occhi una risposta.
«Non posso sapere cosa passa per la mente del tenente, io so solo di aver sbagliato e di questo me ne sono resa conto immediatamente. Per vigliaccheria non ho raccontato niente, ma se questo significa mettere nei guai anche Edward, allora le cose cambiano». Gli dissi con sicurezza. Non avevo mai pensato a quest’eventualità, credevo che a poterci rimettere sarei stata solo io, ma anche Edward si trovava nei guai per aver mentito. Se davvero sapeva a cosa andava incontro perché si è esposto così pericolosamente?
«Vedo che anche tu sei interessata al tenente. Mi domandò perché sono qui allora. Credo che Cullen si è lasciato scivolare la situazione dalle mani. Peccato che non abbia messo in conto una cosa.» Sorrise con cattiveria.
Lo fissai interdetta, «che cosa?»
«Il tuo fascino non ha colpito solo lui, sai?»
«Che cosa vuoi dire?» Gli domandai stringendo le mani.
Jacob si alzò dalla sedia, costringendomi a seguirlo. Le sue mani furono da prima sulle mie spalle, poi sempre più vicine al mio viso. «Pensavo di riuscirti a conquistare senza troppe difficoltà, ma quando questa mattina ti ho visto con il tenente, ho capito che c’era solo una cosa che ti avrebbe resa mia». Mi confessò all’orecchio, strofinando il suo naso lungo il mio collo. Provai ad allontanarlo, ma la sua stretta era diventata di ferro.
«C’è solo una cosa che puoi fare per salvare il tenente». Con una mano mi scostò i capelli, mentre con le labbra aveva iniziato a depositarmi piccoli baci dalla clavicola fino al lobo dell’orecchio.
Cercai di liberarmi, ma qualsiasi mio movimento non faceva altro che indispettirlo ulteriormente.
«Se non vuoi che denunci il tenente Cullen al generale, dovresti lasciarti andare sai?» Lo sentii sorridere sulla mia pelle.
Portai le mani sul suo petto desiderosa di allontanarlo il più possibile, «lasciami». Sussurrai con affanno.
Lui scosse la testa, «non così in fretta», le sue mani finirono sui miei fianchi e con una spinta mi portò sulla scrivania. Sbattei la schiena contro il legno duro del tavolo, gemendo per il dolore. Jacob si approfittò di quel momento di debolezza per avventarsi sulle mie labbra con rabbia. Le sue mani iniziarono ad accarezzarmi tutto il corpo, nel tentativo di spogliarmi dal camice bianco.
Inizia a dimenarmi, mordendogli il labbro inferiore con i denti. Sentii qualcosa di caldo e bagnato scivolare sulla mia bocca, e l’odore acre del sangue investii le mie narici.
Jacob si allontanò dal mio viso, controllando la gravità del morso.
«Sei proprio una strega sai?»Sorrise avvicinandosi nuovamente, «forse non ti è ben chiaro la situazione.» Disse sollevando la mano destra, non mi resi conto delle sue intenzioni fino a quando non sentii la mia guancia bruciare sotto il palmo della sua mano.
Il dolore fu talmente intenso che non riuscii a impedire alle lacrime di scivolare via dai miei occhi.
«Così impari». Sbottò catturando i mie polsi, « e adesso, vogliamo o no, salvare il tenente da un brutto guaio in cui sicuramente si caccerà se non assecondi i miei desideri?» Il suo tono era gentile, ma la durezza delle sue parole non fecero altro che demotivarmi. Era troppo forte, qualsiasi movimento da parte del mio corpo veniva anticipato dal suo.
«Sei uno stronzo. Pensavo fossi una persona seria, ma a quanto vedo sei solo uno squallido bastardo.» Strillai, cercando di non lasciarmi sopraffare.
Lui rise, sfilandomi con non poca facilità il camice, «smettila di dimenarti tanto».
«Ti denuncerò Jacob. Le violenze sessuali battono qualsiasi altra cosa, lo sai?» Urlai tra le lacrime.
Il Sergente sembrò non ascoltarmi, troppo impegnato nel tentativo di denudarmi. Contro la mia volontà mi spinse sulla scrivania, sovrastandomi con il suo corpo. Continuai a divincolarmi, a strillare. Sentivo le sue mani scivolare sotto la camicetta lillà che indossavo. Il contatto diretto con la sua pelle fredda mi fece rabbrividire. Sfilò le mani da sotto la camicia e iniziò a farle vagare sul mio petto, fino a raggiungere i primi bottoni, che strappo con rabbia. Gridai spaventata, provando a liberare le gambe dalla sua stretta, ma sembrava tutto inutile. Entrambi troppo presi dalla lotta, non ci accorgemmo del rumore assordante emesso dalla porta mentre si spalancava.
Avevo smesso di respirare, ero come caduta in uno stato di trans dove tutto mi appariva sfocato. Persino quando non sentii più il corpo di Jacob sul mio, mi ci vollero diversi secondi per mettere a fuoco la situazione.
Sollevandomi mi accorsi di una terza presenza nella stanza.
Un sospiro di sollievo uscii dalle mie labbra quando mi resi conto che si trattava di Edward. Il suo viso era una maschera di cera, teneva le labbra serrate e la mascella contratta. I suoi occhi chiari erano fissi in quelli di Jacob, sembrava fuori di sé dalla rabbia, perché continuava a colpirlo ripetutamente sul viso, senza mai smettere di guardarlo.
Jacob cercò di difendersi, portandosi le braccia sulla faccia per proteggersi, ma i pugni di Edward erano veloci e imprevedibili, iniziarono a colpirlo ovunque, costringendolo ad arretrare, fino a farlo cadere a terra.
«Toccala e ti ammazzo». Urlò avventandosi nuovamente sul suo corpo. Se non si fosse fermato, l’avrebbe ucciso, «è mia. Lei è mia». Ringhiò.
Scesi barcollando dalla scrivania, avvicinandomi verso i due uomini. Provai a catturare l’attenzione di Edward, ma lui era troppo preso a infliggere dolore al corpo agonizzato di Jacob, per accorgersi di me.
«Basta». Sussurrai debolmente, «E’ a terra Edward, basta».
Avvolsi le braccia intorno al suo corpo, pregandolo di stare fermo, di calmarsi. Mi dava le spalle nascondendomi il suo viso, ma sapevo che doveva essere irriconoscibile.
Si era scagliato su di noi, senza dare a Jacob il tempo di rendersi conto del suo arrivo.
Lo sentii irrigidirsi non appena le mie braccia lo circondarono. Si voltò verso di me lentamente, fissandomi terrorizzato.
I tratti del suo viso si addolcirono non appena i nostri occhi s’incontrarono, con le braccia mi avvolse in un abbraccio, stringendomi forte.
«Mai più», sussurrò con la voce che gli tremava. Sentivo il battito del suo cuore sempre più accelerato, «non ti lascerò mai più».
Ricambiai la stretta, non riuscendo a trattenere le lacrime.
«Come sapevi che eravamo qui?» Gli domandai sul suo petto, non riuscendo ad allontanarmi da lui.
Edward sospirò, «è stata Angela. Non vedendoti arrivare per l’ora di cena senza le altre ragazze si è preoccupata. E’ corsa da me, raccontandomi la verità». Mi rispose, scostandosi di qualche centimetro. I suoi occhi scivolarono sul mio corpo, la camicetta leggermente strappata lasciava intravedere i ricami del mio reggiseno.
«Dio Bella è tutta colpa mia», disse tormentato, accarezzandomi la guancia gonfia. «Perdonami ti prego».
Scossi la testa, «non è colpa tua». Farfugliai, «ne parliamo con calma, adesso occupiamoci di Jacob». Gli dissi, costringendolo a voltarsi. Il Sergente era sdraiato a terra, si sollevò con difficoltà, fissando il tenete con rabbia ma anche con tanto terrore.
«Lurido figlio di puttana» Strillò portandosi entrambe le mani sul viso tumefatto, «te la farò pagare».
«Non ci provare neppure Black. Hai provato a violentarla, sai cosa significa? Che se ti rispedisco dal Generale che ancora respiri è da considerare un miracolo». La voce di Edward era fredda, lontana, così diversa dal tono che aveva usato poco prima con me. I muscoli delle sue braccia tremavano, segno che la rabbia stava tornando a sopraffarlo. L’arrivo di Jasper e di altri due soldati, lo costrinsero a trattenersi.
Edward spiegò la situazione al Sergente, che immediatamente portò via Jacob, trascinandolo probabilmente nel suo ufficio.
Solo dopo essere rimasti soli, potei lasciarmi andare tra le sue braccia. «Grazie, grazie, grazie». Continuavo a ripetere tra i singhiozzi. Edward si abbassò per prendere il camice bianco da terra, avvolgendomelo intorno alle spalle, con dolcezza.
«Sono qui». Sussurrò accarezzandomi con delicatezza il viso, «non ti lascio».

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Capitolo 15
*** 14# ***


14# Buona Domenica a tutti, chiedo scusa per il mancato appuntamento della scorsa settimana ma, come avevo annunciato sulla mia pagina facebook, la mancanza di tempo mi ha impedito di postare. Per chi non lo sapesse sulla mia Home potrete trovare tutte la pagina con l'indirizzo, dove lascio spoiler e avvisi riguardanti le mie storie. Per qualsiasi cosa potrete trovarmi qui: Lua93 Facebook
Detto questo, passiamo al capitolo. Lo troverete un pò più breve rispetto ai capitoli precedenti, ma sono certa che non vi deluderà. E' un capitolo di passaggio oserei dire doveroso.
Canzone:  Thriving Ivory - Flowers for a ghost  Buona lettura ^^

           
                                                                                                                                                                          14


Stavo seduta sul lettino verde dell’infermeria, osservando i movimenti rapidi e impacciati di Edward nel tentativo di trovare del ghiaccio secco per il mio viso. Sentivo la guancia ancora in fiamme, avvertendo un fastidioso gonfiore sotto la tempia, all’altezza dell’occhio.
Jasper e John avevano portato Jacob in caserma, in attesa che il tenente rientrasse nel suo ufficio. Non sapevo quanti danni i pugni di Edward avessero inflitto sul suo corpo, ma dalla quantità di sangue che aveva perso, ero certa che non avrebbe riacquistato molto facilmente un aspetto dignitoso.
Tentai di sollevare le labbra in un sorriso compiaciuto, ma una scossa elettrica mi pervase la zona lesa, impedendomi di muovere anche solo un muscolo.
Edward esultò quando finalmente riuscì a trovare una busta con del ghiaccio dentro il congelatore. Con un sorriso impacciato si avvicinò, posando delicatamente il ghiaccio sul mio viso.
«Ahi», non riuscii a trattenere un lamento. Per quanto quel contatto freddo mi avrebbe impedito di diventare una mongolfiera, avrei preferito qualcosa di più confortevole.
Il tenente ridacchiò, sedendosi accanto a me. «Non ti facevo così delicata». Mi disse cercando di scaricare un po’ la tensione, ma i tratti del suo viso erano ancora troppo tesi. I miei occhi erano allacciati ai suoi, completamente immersi in quel prato irlandese, che quasi non mi accorsi della sua mano che, lentamente, era salita ad accarezzare il mio viso, occupando il posto del ghiaccio.
«Hai l’incredibile capacità di finire nei casini come nessun altro», disse flebilmente, sfiorando la pelle umida a causa del ghiaccio, «solo che questa volta ci sei andata davvero troppo vicino al pericolo». Concluse con un sospiro.
Evitai di muovere la mano che tenevo vicina alla sua, per quanto desiderassi il contatto caldo con la sua pelle. Mi sarebbero bastate le sue dita sul mio viso per l’eternità.
Feci spallucce, nascondendomi dai suoi occhi, «il sergente Black ha sempre mantenuto un atteggiamento rigoroso nei miei confronti».
Edward mi costrinse a sollevare il viso, fino a perdermi nella dolce profondità del suo sguardo. «E non ti sei mai accorta dei suoi occhi? Di come ti guardasse?» Mi domandò con una dolcezza nuova per me. Non aveva mai usato quel tono di voce, neppure una volta da quando l’avevo conosciuto.
Non riuscii a rispondergli, così feci semplicemente di non con la testa.
«Credi che invece io, non l’abbia notato? Gli uomini queste cose le vedono subito. Il modo in cui ha posato gli occhi su di te la prima volta che ti ha visto. Come avrebbe voluto mangiarti», digrignò i denti, deglutendo rumorosamente, «se Angela fosse venuta da me dieci minuti dopo, se questa sera fossi arrivato in ritardo, non me lo sarei mai perdonato». Ammise frustato facendo scivolare la mano sul mio collo.
Socchiusi gli occhi, rabbrividendo, «ma non è successo», aggiunsi debolmente.
«Non diresti così se ti fossi vista allo specchio». Borbottò contrariato, sbuffando leggermente infastidito.
Lo fissai sgomenta, «sono davvero così inguardabile?» domandai sussultando.
«Hai il viso gonfio e un’ombra violacea sotto l’occhio», mi rispose infastidito, portando nuovamente il ghiaccio sul mio viso, «ti sei almeno accorta dei segni che hai sul polso?»
«Non era così forte la sua presa, non ho sentito dolore». Risposi imbarazzata, abbassando lo sguardo sulle braccia. Lentamente sollevai le maniche del camice, scoprendo dei segni scuri all’altezza del polso, nettamente in contrasto con il colore pallido della mia pelle. Non riuscii a trattenere un sussulto, sorpresa.
«Ora capisci perché vorrei trasformare il sergente Black in una scatola di fiammiferi?» Mi domandò a pochi centimetri dal mio viso.
Sorrisi debolmente, «non l’avresti mai fatto». Sussurrai con sicurezza.
«Se non fosse stato per te, non si sarebbe più rialzato dal pavimento». Ammise cautamente, «io… avrei voluto ucciderlo. Non si mettono le mani addosso a una donna contro la sua volontà, non si costringe a farle fare qualcosa senza il suo consenso», respirava con affanno, la sua voce era un mormorio basso e rauco, «nessuno deve toccarti».
Sussultai sorpresa, non riuscendo a distogliere lo sguardo dalle sue labbra, piene e imbronciate in una smorfia di disapprovazione, «hai detto delle cose prima», cominciai a parlare con la voce che mi tremava. Edward adagiò un indice sulle mie labbra impedendomi di continuare.
«Non qui e non adesso», mi disse dolcemente, «devo prima parlare con il sergente Black». Si allontanò dal mio viso, mettendosi in piedi. Con pazienza attese che anch’io scendessi dal lettino, affiancandolo mentre ci allontanavamo dalla stanza. Il suo braccio era sceso intorno alla mia vita, sorreggendomi e stringendomi a sé. Il mio viso era a pochi centimetri dal suo petto, avvertivo il suo respiro irregolare sotto la cassa toracica.
«Ti accompagno nel tuo dormitorio», mi spiegò una volta usciti dall’ospedale, «non hai alcuna fretta, ma ho bisogno di te per affrontare Black». Confessò stringendo la presa intorno alla mia vita.
Le sfumature argentate della luna riflettevano una flebile luce sul volto pallido del tenente.
«Non credo che sia una buona idea», bofonchiai, «mi sentirei in imbarazzo davanti a lui».
Edward rallentò il passo in prossimità del dormitorio, «non sarai sola, ci sarò io con te».
«Che cosa hai intenzione di fare?»
Lui fece spallucce. Ci fermammo davanti la porta, guardandoci. «Devo ascoltare anche la sua versione dei fatti, anche se le sue intenzioni erano inequivocabili. Non voglio perdere il controllo, non di nuovo, almeno», mi rispose sospirando, «per questo che ho bisogno di te. Non te lo chiederei se potessi, lo sai».
Sembrava visibilmente imbarazzato, le sue mani giocavano con il bordo della mia camicia.
«Va bene».
«Vorrei sbrigare questa faccenda il prima possibile». Disse irrigidendosi.
Annuii stanca, ma d’accordo con lui. «Dammi dieci minuti, il tempo di cambiarmi. Non sopporto più questi vestiti». Ammisi abbassando gli occhi.
Sentivo ancora l’odore forte di Jacob sulla pelle, e per quanto desiderassi farlo sparire, sapevo che sarebbe rimasto a lungo su di me, anche dopo. Certe sensazioni, non sarebbero sparire così facilmente.
«Ti aspetto». Rispose semplicemente, lasciando che mi allontanassi da lui.
Una volta dentro il dormitorio, con la porta chiusa e lontano dai suoi occhi, mi lasciai andare, liberando un nuovo pianto, questa volta più intenso. Alice mi fu subito accanto, stringendomi in un abbraccio familiare e protettivo. Non so come facesse a saperlo, chi le avesse raccontato l’accaduto e quanto la voce si fosse sparsa nel campo, ma sapere di non doverlo raccontare ad alta voce, mi aiutò a riprendermi.
Alice mi aiutò a cambiarmi, porgendomi un pantalone pulito e una maglia maniche corte da poter indossare. Vedendo i segni sul polso mi strinse dolcemente, facendomi sentire la sua presenza accanto a me.
«Sei sicura di non voler fare una doccia?» mi chiese mentre legavo i capelli.
Scossi la testa indossando un maglioncino leggero sopra la maglietta, «sto bene così». Risposi.
«Va bene tesoro, vuoi che venga con voi?»
«Non c’è alcun bisogno, non ti devi preoccupare», mi avvicinai alla porta, posando la mano sulla maniglia, «è stata Angela a dirtelo?» le domandai incuriosita, prima di aprirla.
Alice annuii, «ero al tavolo con Jasper e Edward, stavamo parlando del piccolo», mi rispose sedendosi sul letto, «è arrivata da noi livida in volto. Mi dispiace così tanto».
«Non devi esserlo, io sto bene. Edward è stato in gamba». Cercai di rassicurarla, mostrandole uno dei miei sorrisi migliori. Il ghiaccio aveva fatto effetto.
«Ti ha salvata». Sussurrò con gli occhi lucidi.
Annuii con il cuore in gola, «si, mi ha salvata».
 

«Fai piano dannazione, mi stai facendo male».
Jessica sbuffò, gettando il cotone sporco di sangue nel cestino, cercando di non rispondere al Sergente. I suoi movimenti erano cauti, leggeri. Le era stato chiesto di pulire e disinfettare le ferite inferte da Edward a Jacob. E contro la sua volontà si era ritrovata costretta a obbedire.
Edward lo fissava incolore, in piedi davanti la sua scrivania, le braccia incrociate sul petto.
«Come mai anche lei qui, preoccupata per me?» Jacob si voltò verso di me, sorridendomi sfacciatamente, per quando gli fosse possibile. Il labbro inferiore era gonfio e spaccato all’angolo, mentre un grosso livido gli aveva gonfiato l’occhio sinistro in maniera innaturale. Jessica lo ripulì facendo attenzione a non fargli male, ma quando passava il disinfettante sulle zone lese sorrideva compiaciuta davanti ai suoi lamenti.
«Black non costringermi a romperti anche il setto nasale». Proruppe Edward, guardandolo con odio.
Jacob alzò le mani, in segno di resa.
Quando Jessica terminò, il volto di Jacob era meno peggio di quanto credessi. Nettamente più gonfio del normale, ma per sua fortuna si sarebbe ripreso in un paio di settimane, ritornando come nuovo.
«Dovrei ringraziarti? Ma per favore, ho il volto tumefatto a causa tua». Sbottò stringendo le mani a pugno. La sedia sotto di lui tremò.
Edward mi si avvicinò repentinamente, costringendomi a voltare il viso verso il sergente. «E’ quello che tu hai fatto a lei, come lo chiami?»
Sollevai gli occhi, incontrando quelli di Edward. Le sue mani di nuovo delicate, lasciarono il mio viso, posandosi sulla spalla.
«Jessica puoi andare». Sospirò rivolgendosi all’infermiera. Quest’ultima si allontanò lanciandomi un’occhiata dispiaciuta.
Nella stanza regnava un silenzio pesante e imbarazzante. Edward e Jacob si fissavano in cagnesco, mentre io e Jasper li osservavamo preoccupati.
«Allora, scommetto che ti starai chiedendo perché l’ho fatto, giusto?» Domandò divertito Jacob.
«Meno strafottenza Black», s’intromise Jasper, in piedi dietro di lui.
Mi sentivo in imbarazzo, sola con tre uomini in una stanza troppo piccola. Sapevo che né Edward né Jasper mi avrebbero mai fatto del male, ma il mio inconscio tremava al pensiero di potermi ritrovare nuovamente in una situazione analoga a quella con Jacob.
«Parliamoci chiaro Jacob, sei in un mare di guai». Lo avvisò Edward avvicinandosi alla sua sedia.
Il sergente sollevò un sopracciglio, divertito, «che coincidenza, anche tu».
«Non credevo di averti concesso il permesso di darmi del tu».
«Sarai anche un mio superiore, ma le mani addosso non me le ha mai messe nessuno. Ammetto di aver un po’ esagerato con la dottoressa ma, mi sarei fermato. Non avevo intenzione di farle del male». Disse fissando Edward negli occhi. Teneva la mascella contratta, indispettito. Potevo vedere le sue cellule celebrali in azione, mentre elaborava un piano per liberarsi da quell’impiccio fastidioso.
«Non mi sembrava», controbatté Edward con fin troppa calma, «quando sono entrato nella stanza, non ricordo di aver visto alcun coinvolgimento da parte della dottoressa. Non era un gioco il tuo».
Jacob sorrise, «non ti aspetterai delle scuse». Disse voltandosi verso di me.
«Non mi aspetto proprio niente da te». Bofonchiai guardandolo.
Edward sbuffò,«senti Jacob, smettila con questi giochetti. La tua situazione è già abbastanza complicata. Adesso, se non vuoi beccarti una denuncia da parte di Bella, ti conviene collaborare.» Disse serio.
«Cosa dovrei fare esattamente?» domandò Jacob, sistemandosi più comodamente sulla sedia.
«So che sei a conoscenza di ciò che ha fatto Isabella, ma ti avviso sin da ora che non servirà a nulla», sorrise compiaciuto, «non è affatto vero che non ho registrato l’azione della dottoressa, come avrai sicuramente pensato, semplicemente ho fatto in modo di nascondere i documenti. Sono stato io a chiedere un supervisore, anticipando una possibile mossa da parte del generale. Questo avrebbe messo in buona luce il mio campo e il mio lavoro, prima che qualche dubbio potesse insorgere nella mente del generale Winchester», parlava lentamente, fissando Jacob leggermente sollevato, «quindi come puoi vedere, non ho mai avuto intenzione di mettere a rischio la carriera della dottoressa». Ammise infine.
Lo fissai interdetta, non riuscendo a seguire il suo discorso. Davvero non aveva chiesto l’intervento di un supervisore a causa mia? O era tutta una scusa inventata per Jacob?
«Spiegati meglio».
«Tranquillo Black, farò in modo che le mie parole possano essere comprese da una mente limitata come la tua,» sorrise e Jasper ridacchiò.
«Hai davvero documentato la fuga di Bella?»
«Ovviamente, non potevo correre il rischio di essere richiamato dal generale, ne andava del mio orgoglio. Sarebbe stato molto più semplice ammettere di aver ricevuto un supervisore poco attento». Spiegò camminando avanti e indietro.
«Quindi hai bleffato?» Gli domandò Jacob, nero di rabbia.
Edward scosse la testa, «affatto, semplicemente, come ogni buon giocatore, ho giocato bene le mie carte» gli rispose, «come vedi, non ti servirà giocarti questo jolly con il generale, non riusciresti a dimostrare il contrario».
«Quindi, cosa farai?» Gli chiese digrignando i denti.
Jasper mi lanciò un’occhiata divertita, come a volermi consigliare di stare attenta. Incuriosita, osservai Edward, mentre mi si avvicinava.
«Ti denuncerò, ti ricordo che hai minacciato una mia collaboratrice e tentato di violentare una dottoressa per scopi personali».
Le sue parole erano misurate, fredde, distaccate. Se non lo conoscessi, avrei pensato che il tenente non possedeva alcun cuore, ma avendolo sentito battere dentro il petto, sapevo che dietro quella facciata si nascondeva tanta insicurezza.
«Fammi capire bene, sono nella merda?» domandò Jacob questa volta senza ironia.
Edward annuì, «adesso, mi piacerebbe sentirti chiederle scusa». Gli disse autoritario. Jacob si voltò verso di me, fissandomi.
«Non voglio sentirle Jacob, quindi evita di aprire bocca», l'anticipai prima che potesse dire qualcosa. Edward si voltò verso di me, visibilmente incuriosito.
La testa mi girava vorticosamente, «non voglio ascoltare le tue patetiche scuse, false e meschine come te» sputai con rabbia quelle parole, stringendo le mani intorno ai fianchi. «Desidero solo sapere perché io».
«Questa è semplice,» mi rispose fissandomi, «ti basta guardare negli occhi del tenente Cullen per conoscere la risposta».
Edward s’irrigidì, «che vuoi dire Black?»
«Tu la desideri, non è così?» ridacchiò buttando indietro la testa, «e poi quello nella merda sarei io? Ti sbagli di grosso Edward, posso chiamarti così?» Riusciva a farmi paura. «Vorresti farla tua, come avrei voluto io, solo che c’è un etica di comportamento che t’impedisce di farlo. Non sono ammesse relazioni all’interno delle basi militari, e tu questo lo sai benissimo. Per questo hai richiesto un supervisore, perché desideravi allontanare Isabella dalla base per proteggere il tuo già basso autocontrollo.» Le sue mani avevano preso a lisciarsi il pantalone, sporco di terra.
Jasper dietro di lui divenne una statua. Sapeva di essere in pericolo, Jacob ci avrebbe avuto in pugno se avesse saputo tutta la verità. Ed era stato un bene non far venire Alice, altrimenti qualcosa sarebbe uscito allo scoperto.
«Quando però, hai capito che il tuo folle gesto avrebbe danneggiato la sua carriera, hai cambiato idea, nascondendo le carte. Ma ormai era troppo tardi, io ero già arrivato. Così hai pensato bene di assumere un atteggiamento freddo e distaccato nei miei riguardi, rispondendo evasivamente alle mie domande», spiegò guardando prima il tenente, poi me. «ma tranquillo, anche la dottoressa non era riuscita a capire quanto il suo fascino aveva conquistato anche me. E sai, quando io desidero qualcosa faccio di tutto per ottenerlo». Sorrise sadico.
«Da bambino dovevi avere un sacco di amichetti,»l’interruppe Edward, con sicurezza.
Jacob ridacchiò, «me la sono cavata».
«ll tuo discorso non fa una piega, e molto probabilmente avrai anche ragione, ma sai qual è la cosa davvero divertente?» gli chiese Edward, con una domanda retorica, «questo non cambia la situazione. Le tue sono solo supposizioni senza fondamento, quello che ho io, invece, sono fatti concreti».
Jacob rimase in silenzio, sapendo che Edward aveva ragione.
«Quindi?» Domandò esausto.
«Tu sparirai alle prime luci dell’alba, i miei uomini ti accompagneranno dal generale che, verrà informato personalmente dal sottoscritto in una lunga telefonata. Non ti farai mai più vedere, non creerai più problemi. Sparirai dalle nostre vite».
«Sei un bastardo Cullen». Jacob chiuse gli occhi cercando di calmarsi.
Edward scosse la testa, voltandosi verso di me, «ti sbagli, sto semplicemente proteggendo qualcuno a  cui tengo molto».

 

Il tenente mantenne la sua promessa. Verso le cinque del mattino il sergente Black, accompagnato da tre militari della base, salì su una Jeep, per fare ritorno all’ambasciata americana, dove ad attenderlo ci sarebbe stato il generale Winchester, già a conoscenza dell’accaduto.
I miei occhi lo videro allontanarsi, sparendo tra le dune del deserto. E in quel momento qualcosa si sciolse dentro di me, e una nuova consapevolezza si fece strada nella mia mente.
Nulla sarebbe stato più come prima.
«Posso farti una domanda?» I miei occhi cercarono quelli di Edward, trovandoli già intenti a fissarmi.
Lui annuì, rimanendo in silenzio.
«Hai inventato tutto sul momento?»
«No, non mi piace rischiare. Avevo chiesto qualche informazione in più sul conto del sergente Black ancora prima del suo arrivo, e le informazioni sul suo conto non erano molto rassicuranti, per questo, una volta giunto alla base, non gli ho raccontato la verità e ho nascosto i documenti». Mi spiegò con sicurezza.
«Non ti fidavi di lui?» Ero confusa, non riuscivo a capire le sue parole.
Edward sorrise comprensivo, «non proprio. Il sergente Black ha un passato militare poco professionale, che chissà come aveva saputo tenere segreto. Purtroppo per lui, io ho dei buoni investigatori». Rispose fissandomi. «Ho tentato di rimediare a un mio stesso errore».
«Lui era qui per me?» Domandai deglutendo.
Edward annuì, «si».
«Non mi darai nessun’altra spiegazione?»
«Non adesso». Mi rispose con un sorrisetto divertito.
Sbuffai, «se non adesso quando?» gli chiesi spazientita. Ma lui mi aveva già voltato le spalle, e dandomi la giornata libera, era rientrato in caserma, visibilmente più tranquillo.
Non l’avrebbe mai ammesso ma quelle spiegazioni non sarebbero arrivate tanto facilmente.

 

 

Jacob è davvero andato via? La risposta è si, il sergente non si farà vedere per un pò.
Edward come abbiamo potuto leggere  qualche capitolo fa, aveva chiaramente ammesso che Jacob era stato chiamato per Isabella, ovviamente a quest'ultima non lo confesserà mai apertamente, ma solo attraverso lunghi e misteriosi giri di parole. E' un uomo troppo orgoglioso, ma oltre questo piccolo difetto, ha anche tanti pregi. Uno di questi è proprio il controllo. Nel Pov Edward ho omesso volontariamente di scrivere dell'indagine che aveva fatto fare sul sergente Black, ma sappiate che Edward non gli avrebbe mai permesso di farsi mettere i piedi in faccia. Il passato turbolento di Jacob non verrà raccontato, non in questa storia almeno, ma sappiate che non è affatto un santo come ci aveva fatto credere durante il nostro primo incontro. E' per questo motivo che Edward ha nascosto i documenti e cercato di proteggere Isabella. Edward ha cercato di rimediare a un suo stesso errore,  sapeva di aver sbagliato nel richiedere un supervisore, pentendosi immediatamente del suo gesto. Ma ormai il danno era fatto, doveva rimediare in qualche modo. Ovviamente lui non avrebbe mai potuto immaginare che Jacob potesse arrivare a tanto, tentare di violentare la dottoressa. Quindi alla fine abbiamo scoperto che mentre Jacob architettava un piano contro il tenente per avere Isabella, Edward ne creava uno tutto suo per proteggere la dottoressa. Insomma quella all'oscuro di tutto era Isabella che si è ritrovata in mezzo a due fuochi.
Fortunatamente la situazione si è risolta nei migliori dei modi, ora non ci resta che leggere di loro due. Riusciranno mai a parlare questi due idioti? 
Nel prossimo capitolo ci sarà la tanto attesa svolta. E che svolta (a buon intenditore poche parole xD)
Per farmi perdonare per la lunga attesa, ho deciso di lasciarvi un piccolo spoiler del prossimo capitolo ^^
Auguro a tutti voi una splendida settimana e per chi come me, non ha ancora visto neppure un fiocco di neve (forse sono l'unica in tutta italia) auguro che il cielo regali pure a noi una spruzzatina di magia bianca  **

Spoiler:
«E se io non volessi? Se lo desiderassi anche io?» Gli chiesi avvertendo una fitta al basso ventre. I nostri corpi erano così vicini da innescare una reazione troppo pericolosa per poter essere ignorata.
Edward sgranò gli occhi, stringendo le labbra. Stava combattendo un diverbio interiore, lo potevo capire dall’espressioni che assumeva il suo viso. Lentamente, avevo imparato a conoscerlo.
«Cosa succederebbe se ti chiedessi di baciarmi?» Domandai allacciando le braccia intorno al suo collo.
Rimase sorpreso da quella richiesta ma, qualcosa nei suoi occhi, forse il luccichio che avevano assunto o il colore liquefatto, mi fecero capire che anche lui, come me, non desiderava altro.
«Non ti permetterei più di uscire da questa stanza». Mi rispose dopo un tempo che mi parve un'eternità, posando le labbra calde e morbide sulle mie.



 

 

 

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Capitolo 16
*** 15# ***


15. Capitolo Buona Domenica, siamo già al 12 Febbraio, ma sono l'unica a vedere i giorni passare così velocemente? Io sono rimasta ancora alle vacanze di Natale, qui tra poco arriviamo a Pasqua xD
Finalmente anche da me è arrivata la neve *_* Bianca, fredda e perfetta , ha chiuso le scuole per due giorni, regalo fantastico da parte del cielo ù.ù
Comunque sia, tralasciamo queste riflessioni del tutto fuori luogo e dedichiamoci al capitolo. Avviso che è quello che stavamo aspettando da tanto tempo, sia voi che io ù.ù
Non so bene quello che ho scritto, mi sono lasciata trasportare molto e poiché il raiting scelto è l'arancione, mi sono mantenuta molto nel limite. Se lo doveste trovare incompleto non prendetevela con la sottoscritta, è la prima volta che descrivo una scena "rossa" xD
Non sarà l'ultima però, sono certa che ci prenderò la mano eheh.
Vi lascio alla lettura del capitolo, grazie a tutti voi, siete i lettori migliori del mondo ^^
Blue Foundation - Eyes On Fire consiglio di ascoltarla più volte durante la lettura in caso dovesse terminare prima della fine xD



                                                                                     
 
                                                                                         
                                                                     15


7 Aprile 2003



«Bentornata», il sorriso allegro di Alice mi diede il benvenuto nel dormitorio, mentre chiudevo la porta. «Ho visto la jeep partire, è davvero tutto finito?»

Annuii gettandomi di peso sul letto, «si e sono esausta», ammisi chiudendo gli occhi.
Sentii Alice ridacchiare, «dovresti riposare, sono più di ventiquattro ore che non dormi».
«Edward mi ha dato la giornata libera, pensi di potercela fare da sola?» le domandai sistemandomi più comodamente sul materasso.
«Certo, Jessica e Kristen mi daranno una mano».
Sbadigliai, strusciando la faccia sul cuscino, «solo un paio di ore, poi vi raggiungo».
Alice rise a bassa voce, «dormi testona».
Poco dopo avvertii la porta chiudersi mentre scivolavo tra le braccia di Morfeo.
 
Quando aprii gli occhi, la stanza era avvolta da una fastidiosa luminosità. Il sole era alto in cielo, irradiava ogni cosa sotto di esso. Le lenzuola intorno al mio corpo sudato divennero fastidiose, graffiavano sulla pelle. Mi sollevai lentamente, fisicamente sana, mentalmente persa.
Avevo bisogno di una doccia per levarmi quell’odore nauseante dal mio corpo. Così raccolsi il borsone da sotto il letto, portandolo direttamente con me verso i bagni.
Il silenzioso era opprimente, il campo sembrava essere stato avvolto da una bolla, proteggendolo dai rumori esterni. Ero sollevata, mi sentivo finalmente libera di un peso. La partenza di Jacob era stata una liberazione, potevamo finalmente smettere di fingere e Alice sarebbe potuta tornare a casa.
Chiusi gli occhi sotto il getto caldo dell’acqua, lasciando che il vapore avvolgesse il mio corpo. Mi sciacquai più volte, insaponando tutto il mio corpo. Non mi resi conto di aver finito l’interno flacone fin quando non uscì più nulla.
Una volta fuori dalla doccia, mi sentii finalmente pulita, non c’era più Jacob sulla mia pelle.
 
Verso mezzogiorno raggiunsi la mensa, trovando tutti i tavoli occupati dai soldati. Quando entrai, si voltarono verso di me, qualcuno sorrideva, qualcuno mi fissava preoccupato, ma tutti si girarono dall’altra parte, e seguendo i loro occhi, trovai il tenente infondo alla stanza, seduto con Jasper.
Quando i nostri occhi s’incontrarono, lo vidi accennare un sorriso, abbassando nuovamente lo sguardo.
Volevo raggiungere il suo tavolo, ma due braccia mi avvolsero, stringendomi affettuosamente.
«Bella mi dispiace così tanto» Angela tremava tra le mie braccia, la sua voce era un sussurro leggero.
La strinsi, ricambiando il suo abbraccio, «ti devo ringraziare, se non fosse stato per te, non sarebbe andata a finire così».
Sorrise, fissandomi con gli occhi lucidi, «sono felice di vederti stare bene. Hai messo qualcosa sul viso?» mi domandò apprensiva.
Annuii, sfiorandomi la guancia, «il lieve gonfiore dovrebbe sparire in meno di dodici ore». Le risposi.
Sembrò sollevata, «bene, perché da come ti aveva descritta Alice, dovevi essere peggio di una mongolfiera», disse facendomi ridere, «invece rimani sempre bellissima».
Arrossii, «Alice esagera sempre».
«Avrai fame, vieni ci sono le lasagne», disse prendendomi per mano, portandomi in cucina.
«Lasagne?»
«Scongelate». Ridacchiò porgendomi una grande porzione.
Mi sedetti sull’isola della cucina, iniziando a mangiare con gusto. Angela mi fissava sbalordita, evidentemente non aveva ancora capito fino a che punto potevo arrivare a stomaco vuoto.
«Lo sanno tutti?» Chiesi mandando giù il boccone con un sorso d’acqua.
Angela annuì, «si è sparsa la voce, ma il tenente ha fatto ben intendere che non voleva sentirne parlare. Ha chiesto ai suoi soldati di fare finta di nulla e di non disturbarti»
La fissai sorpresa, «oh».
«Eh già, adesso mangia prima che si raffreddi». Aggiunse con un sorrisetto malizioso.
«Forse dovrei andare di là», ipotizzai, ripensando alle sue parole.
Ridacchiò, «forse dovresti».
Scesi dal tavolo, portando il piatto con me. Angela rimase in cucina sistemando le stoviglie sporche, osservandomi mentre mi allontanavo.
Quando ritornai dai ragazzi, i tavoli pieni si erano dimezzati. Controllai il tavolo, dove era seduto Edward, e sorrisi nel trovarlo occupato.
Li raggiunsi velocemente, sedendomi accanto ad Alice.
«Ehi, ben arrivata, credevo che Angela ti avesse rapito». Sorrise, finendo la sua porzione di pasta.
Edward inarcò un sopracciglio scettico, «non credo che solo quella ti riempirà lo stomaco», disse indicando il mio piatto.
«Mi basterà», risposi facendo spallucce.
Jasper lanciò un’occhiata divertita ad Alice, sul tavolo le loro mani si sfiorarono, di tanto in tanto. Lui non le levava mai gli occhi da dosso, in un modo o nell’altro le faceva sentire sempre la sua presenza.
«Prendi il mio stufato», Alice sollevò gli angoli delle labbra, «io sono piena».
«Devi mangiare Alice, non ci sei più solo tu, ricordi?» Quello di Jasper fu un debole sussurro, mentre le guancie di Alice s’imporporarono di un timido rossore.
«Jasper ha ragione», intervenne Edward allungandomi il suo piatto, «Bella mangerà il mio». Disse sollevando lo sguardo su di me.
Sotto quegli occhi chiari non potei fare altro che obbedire, riempiendomi lo stomaco con quella prelibatezza.
«Sono felice». Disse improvvisamente Alice, cogliendoci di sorpresa. «Finalmente quel vile è andato via, ora possiamo riprendere a respirare». Spiegò stringendo la mano di Jasper.
Edward si voltò verso l’amico, «ora può tornare a casa».
Jasper annuì, sotto lo sguardo interrogativo di Alice.
«Aspettate un attimo, cos’è questa storia? Jasper lo sai che non andrò da nessuna parte senza di te». Disse irrigidendosi, «se io andrò via, tu mi seguirai, chiaro?»
«Non è così semplice Alice, io non ho ancora terminato il mio anno, non posso rientrare». Le spiegò cercando di non agitarla.
Le sue parole però sembrarono ottenere l’effetto contrario, Alice sbuffò infastidita, voltandosi verso di me. «Bella per favore, potresti spiegare a quest’idiota che, né io né suo figlio, torneremo a casa senza di lui?»
Jasper mi lanciò un’occhiata disperata, sotto lo sguardo spazientito di Edward.
«Mi dispiace Alice, ma questa volta devi obbedire. Non puoi rimanere qui in queste condizioni». Le risposi bevendo un sorso d’acqua. Il mio stomaco aveva smesso di brontolare, erano altre, adesso, le preoccupazioni.
«Non potete obbligarmi». Disse cocciuta.
«Adesso basta così», Edward catturò la nostra attenzione sbattendo leggermente la mano sul tavolo, «Alice non puoi rimanere, mi dispiace. Non sei attiva al cento per cento, ed io ho bisogno di collaboratori pronti a qualsiasi ora del giorno e della notte». Le disse incrociando le braccia sul petto. «Isabella non può fare anche il tuo lavoro. Per questo motivo, fra tre giorni tornerai in America. Un aereo americano partirà con i soldati in congedo e tu andrai con loro, fine della storia».
«E Jasper? Non voglio che mio figlio cresca senza un padre».  Borbottò con gli occhi lucidi.
Il sergente le strinse il braccio intorno alle spalle, attirandola sul suo petto. «Tornerò a casa il prima possibile», le sussurrò dolcemente.
«Ti prometto che lo farò tornare prima del parto». Disse Edward, il sorriso che ne seguii, sciolse tutti i miei dubbi.
«Promesso?» Sussurrai fissandolo.
Lui si voltò verso di me. Occhi negli occhi, «io mantengo sempre le mie promesse, Bella».
Quando ritornammo alle nostre abituali mansioni, capii che era arrivato il tempo, per me e Edward, di parlare, e questa volta non gli avrei permesso di tirarsi indietro.
 
Il cielo quella sera aveva assunto sfumature rossastre, mentre il sole tramontava alle mie spalle. L’aria era calda, la sabbia sembrava più gialla del solito sotto gli ultimi raggi del sole.
Non totalmente cosciente di ciò che stavo facendo, bussai  alla porta del dormitorio di Edward, e senza dargli il tempo di rispondere, entrai, ritrovandomelo davanti mezzo nudo, solo con un pantalone addosso. Probabilmente era tornato da poco dalla doccia, perché i suoi capelli erano ancora bagnati. Si stava vestendo, quando voltandosi i nostri sguardi s’incontrarono.
«Credevo fossi Jasper», disse leggermente imbarazzato, indossando la prima maglietta che gli capitò sotto mano. L’osservai incurante di fronte alle sue parole, perdendomi nella linee sinuose delle sue spalle larghe. Arrossi abbassando lo sguardo quando voltandosi, mi scoprì intenta a fissarlo.
«Avrei dovuto aspettare prima di entrare, scusami».  Bisbigliai trovando improvvisamente interessante il pavimento.
Edward non rispose immediatamente, rimase in silenzio per diversi secondi, e quando lo fece, quando mi parlò, improvvisante fu come se le altre voci non avessero alcun significato, non avessero più alcun suono. C’era solo lui.
«Credimi quando ti dico che sono altri i motivi per cui dovresti scusarti».
Sollevai la testa, incuriosita, «non credo di aver capito cosa vuoi dire».
Lui sorrise leggermente, «nulla. Piuttosto, come mai sei qui?» Mi domandò incrociando le braccia sul petto.
Tentai di rimanere lucida di fronte alla sua figura così austera e sicura, desiderai mostrarmi forte e sicura di me, ma davanti ai suoi occhi, precipitavo.
«Non abbiamo tutta la notte, Jasper arriverà a momenti», mi avvisò visibilmente divertito. Non ero ancora riuscita a capire come potesse assumere quell’atteggiamento così freddo e distaccato pur utilizzando quel tono di voce.
Scossi la testa, «non arriverà».
Edward sussultò sorpreso, «perché?»
«E’ con Alice, non credo però che rimarrà con lei tutta la notte». Risposi riflettendoci. Quella di Alice era stata una richiesta piuttosto semplice, desiderava solo passare un po’ di tempo con il padre del suo futuro bambino, prima di tornare a casa.
«E tu sei qui per avvisarmi di questo?» Mi chiese Edward con tono sarcastico.
«Anche, ma non solo.»
Edward si sedette sul letto, fissandomi. «Okay, allora cos’altro devi dirmi?»
Feci un grosso respiro, «volevo parlare con te.»
«Sono qui.»
«Esatto, è proprio per questo che sono venuta da te. Io sono confusa», borbottai sistemandomi una ciocca di capelli scivolata da dietro l’orecchio, «il tuo “sono qui” mi confonde, tu mi confondi». Precisai fissandolo. «Edward, credo sia arrivato il momento di parlare e farlo sul serio.» Dissi tutto in un fiato, «hai detto delle cose nel mio ufficio, quando mi hai salvata da Jacob», sussultammo entrambi dopo quelle parole. Lo vidi stringere le mani suo copriletto, stropicciando la stoffa leggera. «E io vorrei sapere solo se ci credevi sul serio in quello che hai detto».
«In ogni singola parola». Disse lapidario sollevando gli occhi su di me, «sarebbe inutile negarlo adesso, giusto?» chiese retorico, le sue labbra si sollevarono in un sorriso, «sarebbe da stupidi».
Annuii semplicemente, attendendo che continuasse.
«Non mentivo quando ho detto che ci tenevo a te, quando ho detto che nessuno doveva toccarti», fece un respiro profondo sollevandosi dal letto, «nessuno a parte me». Disse avvicinandosi.
Avvertii il battito del mio cuore accelerare dentro il petto, mentre le sue mani salivano sul mio viso, da prima insicura e tremolanti, poi sempre con più sicurezza si adagiarono intorno al mio collo, sino all’attaccatura dei capelli dietro la nuca.
«Quando hai detto che ero tua», sussurrai fissando le sue labbra sottili e dannatamente troppo vicine alle mie, «cosa-»
«Cosa significava?» Mi domandò interrompendomi.
Assentii, lasciando immobili le mie braccia lungo i fianchi, il mio corpo reagiva a ogni suo tocco invisibile, tremavo a causa della sua vicinanza.
Edward posò la fronte contro la mia, «significa», precisò con un sussurro, «che mi sono arreso. E’ da quando hai messo piede in questa base che combatto contro l’impulso di farti mia. Capisci quello che voglio dire?» Ridacchiò smorzando un po’ la tensione che si era creata tra i nostri corpi, «quando ti ho baciato, ho dovuto usare tutta la forza che avevo per allontanarmi da te».
Istintivamente portai entrambe le mani sulle sue braccia, «tu mi volevi».
«Io ti voglio, è diverso». Mi corresse, «l’aveva capito persino il sergente Black».
Una delle sue mani raggiunse il mio viso, accarezzandomi la guancia, non più gonfia, colpita da Jacob, «mi dispiace».
«Smettila di dire che ti dispiace, sono qui e sto bene». Ringhiai spazientita. Tutte quelle parole non facevano altro che confondermi.
«Dovrei allontanarmi», mi sussurrò all’orecchio, ma la sua presa non fece altro che aumentare intorno al mio corpo, in contraddizione con le sue parole, «dimmi di lasciarti e giuro che lo farò».
«E se io non volessi? Se lo desiderassi anch’io?» Gli chiesi avvertendo una fitta al basso ventre. I nostri corpi erano così vicini da innescare una reazione troppo pericolosa per poter essere ignorata.
Edward sgranò gli occhi, stringendo le labbra. Stava combattendo un diverbio interiore, lo potevo capire dalle espressioni che aveva assunto il suo viso. Lentamente, avevo imparato a conoscerlo.
«Cosa succederebbe se ti chiedessi di baciarmi?» Gli domandai allacciando le braccia intorno al suo collo.
Rimase sorpreso da quella richiesta ma qualcosa nei suoi occhi, forse il luccichio che avevano assunto o il colore liquefatto, mi fecero capire che anche lui, come me, non desiderava altro.
«Non ti permetterei più di uscire da questa stanza». Mi rispose dopo un tempo che mi parve un’eternità, posando le labbra calde e morbide sulle mie.
Fu un bacio lento, un riscoprire insieme le vecchie sensazioni, approfondendone le sfumature. Le sue mani stringevano il mio viso in una morsa d’acciaio, impedendomi d’allontanarmi. Non avevo paura di lui, come avrei potuto? La sua pelle contro la mia era come fuoco, lava incandescente che incendiava tutto lungo il suo passaggio. Desideravo approfondire quel contatto, così portai le mani sui suoi capelli ramati, completamente asciutti, percependoli setosi al tatto, esattamente come ricordavo dall’ultima volta che li avevo sfiorati.
Provai ad allontanarmi lentamente, per quanto Edward me lo permettesse, le sue labbra continuavano a cercare le mie, a bagnarmi la bocca con i suoi baci.
«Fai l’amore con me», farfugliai senza fiato.
 Lui mi fissò intensamente, «non posso», sussurrò  allontanandosi di qualche centimetro.
«Si invece», controbattei stringendo le mani intorno alla sua maglia, «smettila di pensare, fallo e basta».
«Ti assicuro che se fossi stato a mente lucida non ti avrei neppure baciato», sussurrò spostando il suo sguardo dal mio viso.
Strinsi la presa sul suo corpo, «non m’importa. Io ho bisogno di te».
«Sono qui».
«No, non lo sei. Io ho bisogno di sentirti, per favore», lo supplicai. Le gambe si fecero molli, incapaci di gestire il peso del mio corpo. Mi aggrappai alle sue braccia, avvicinando nuovamente il mio viso al suo. «Non mi vuoi?»
Gli occhi di Edward brillarono di una nuova luce, «è proprio perché ti desidero troppo che non posso farlo». Rispose ringhiando.
Ci fissammo in silenzio, nella semi oscurità della camera. Il profumo del bagnoschiuma sulla sua pelle richiamava le mie labbra. «Fai l’amore con me». Gli sussurrai nuovamente all’orecchio. Se quella sera fossi andata via, se quella sera lui mi avesse rifiutato, sarei crollata. Edward gemette quando le mie labbra sfiorarono il suo collo. E stringendo il mio corpo in un abbraccio stritolante e possessivo, capii che si era arreso.
Le sue mani arpionarono i miei fianchi, costringendomi a seguirlo sul letto. Mi fece scivolare sopra di lui, continuando a baciarmi senza il bisogno di respirare. Le sue mani erano così delicate mentre sfiorava ogni centimetro del mio corpo, da sembrare irreali, mentre assaporava con le labbra tutto il profilo del mio viso, fino a scendere sul collo. I suoi gesti erano cauti e leggeri, come se avesse il timore di spezzarmi. Mi sembrava quasi impossibile credere che quelle mani appartenessero al tenente. Lui che con i suoi gesti rapidi e le sue espressioni ciniche non aveva fatto altro che tenermi alla larga. Sembrava un altro uomo, benché la passione che sprigionava in quel momento, non fosse altro che un pallido riflesso, di quella tenuta nascosta la prima volta che mi aveva baciato.
Mi aggrappai alle sue spalle, cercando un appiglio. Con le braccia mi avvolse la vita mettendosi seduto, senza allontanarmi dal suo corpo. Mi separai dalle sue labbra controvoglia, cercando di riacciuffarle.
Edward sorrise, «sei impaziente e bellissima».
Nascosi il volto nell’incavo del suo collo, facendo scivolare le mani sul suo petto.
«Non ti allontanare ti prego, guardami Isabella. Hai sempre avuto ragione tu, ho bisogno di te». Sussurrò accarezzandomi con infinita lentezza la schiena, disegnando cerchi immaginari sulle vertebre. Obbedii perdendomi dentro quelle gemme liquide.
Trovai il bordo della maglietta nera che indossava, cercando di sollevargliela, ma solo con il suo aiuto riuscii a levargliela completamente.
Alzai il viso, osservando il suo petto nudo. La mia memoria non gli rendeva affatto giustizia. Con le dita accarezzai da prima le spalle larghe per poi scendere sul suo petto, dove vi era una piccola voglia color caramello. Mi chinai, baciandogliela con infinita dolcezza, riprendendo poi il cammino delle mie mani sui pettorali, alternando le carezze ai baci.
Edward sospirò lasciando che proseguissi con la mia esplorazione, prima di catturare le mie labbra tra le sue. Afferrandomi per i fianchi mi fece scivolare sotto il suo corpo, sfilandomi la maglietta. I nostri occhi non si persero mai di vista, neppure quando mi ritrovai di fronte a lui, solo con il reggiseno. Attese pazientemente che io acconsentissi prima di riprendere a spogliarmi, osservando accuratamente il tutto il mio corpo.
«Sei la cosa più bella che abbia mai visto», sussurrò mentre mi sfilava l’intimo, «non perderò il controllo, te lo prometto, posso fermarmi». La sua voce rauca mi fece tremare dal desiderio.
«Ci sei tu sul mio corpo, nessun altro. Non ho paura di te». Respirai affannosamente stringendo il lenzuolo quando Edward scese con le labbra sul mio corpo.
Ti voglio, non ti fermare.
Da prima baci lenti e delicati dietro l’orecchio, poi sempre più impazienti e bagnati sul petto.
Con impazienza l’aiutai a liberarsi dei suoi vestiti, rimanendo senza parole di fronte al suo corpo nudo. Iniziai a percorrere con le dita i muscoli delle braccia, fino a raggiungere la sua mano, che strinsi forte, con coraggio, ma anche con tanta paura. Non era affatto la mia prima volta, eppure i suoi gesti, i suoi movimenti, mi trasmettevano sensazioni mai provate prima.
«Quando mi guardi così, io non riesco a respirare.» Ammisi strofinando la punta del naso sul suo petto. Edward strinse forte la mia mano, portandosela sulle labbra.
«Ti desidero.» La sua voce bassa e roca mi fece rabbrividire. Osservai indistintamente le sue mani scivolare lungo la mia pancia piatta, fino a raggiungere il punto più delicato del corpo.
Avvicinai le mie labbra alle sue, cercando un altro bacio. Questa volta più intenso e profondo. Le sue dita mi portarono in paradiso, muovendosi abilmente dentro di me, e solo quando fui completamente pronta mi fece sua, continuando ad accarezzarmi e a venerarmi. E ogni spinta era un pezzetto di cielo che si disintegrava, sentivo la pelle bruciare sotto le sue mani, mentre mi portava a raggiungere le più alte vette del piacere. Strinsi le mani intorno al lenzuolo bianco, cercando di trattenere i gemiti di piacere. Edward respirava affannosamente sul mio viso, continuando a rubarmi baci. Sarei potuta morire in quel momento che nulla avrebbe avuto sapore più dolce di lui. Era la congiunzione perfetta di un’eclisse nel deserto. Era lui dentro di me ed io dentro di lui, due corpi pieni dell’altro, ma non era abbastanza, avrei voluto di più, chiesi di più. E Edward mi diede tutto se stesso.
Raggiunsi il culmine aggrappandomi alle sue spalle, mentre lui accompagnava gli ultimi movimenti prima di raggiungermi. E fu calore, fuoco che incendiava le pareti interne della mia anima. Solo dopo diversi minuti riuscii a riprendermi, rendendomi conto di ciò che era appena accaduto.
Edward uscii delicatamente, respirando affannosamente. Poi mi strinse forte tra le sue braccia baciandomi la testa, mentre respirava il mio profumo.
«Sei ossigeno puro Isabella Swan.» Sospirò continuando ad accarezzarmi. Mi lasciò fare quando posai l’orecchio sul suo cuore, ascoltando i suoi battiti.
«Non ti avrei mai creduto capace di tutta questa gentilezza, ti ho sempre visto così freddo e distante». Gli confessai dopo che esserci ripresi.
«Era un atteggiamento che mi hai portato ad assumere tu, anche se inconsapevolmente.» Ammise coprendo i nostri corpi intrecciati con il lenzuolo.
Sollevai il viso, incontrando i suoi occhi, più lucidi del solito, «davvero?»
Le sue labbra si aprirono in un sorriso sghembo che mi fece tremare tutta, «era un modo per tenerti lontana. Sin dalla prima volta che ti ho visto sapevo che non sarei riuscito a resisterti».
«Anch’io ti ho voluto dal primo istante». Sorrisi.
«L’arrivo del Sergente Black, devo ammettere che è stato un colpo basso.» Borbottò fissando il letto vuoto di Jasper, alla sua destra. «Ero convinto di poter gestire quello che provavo, e invece.» Sospirò affranto, «la gelosia mi ha sopraffatto».
«Sei stato bravo», gli dissi, osservando il suo profilo regolare. La linea del naso perfettamente dritta, la mascella squadrata e quelle labbra gonfie per tutti i baci ricevuti. «sei un ottimo soldato Edward».
«Non più da quanto ci sei tu». Mi confessò intrecciando le sue dita alle mie. «Non è un offesa, è solo una constatazione. Se ci fosse stata un’altra donna al tuo posto, probabilmente Jacob non ci avrebbe neppure provato, ma in quella stanza c’eri tu e io-»
«Tu sei arrivato e mi hai salvato», sollevai gli angoli delle labbra, «non è la prima volta che lo fai».
Mi diede un bacio leggero sulla fronte ancora sudata, «dovere».
Rimanemmo in silenzio, osservando l’oscurità della notte entrare attraverso la piccola finestrella.
«E adesso che si fa?» Gli domandai temendo un suo rifiuto.
Edward, al contrario, mi strinse più forte sul suo petto, «non ti lascio Bella. Questa notte sei con me, domani si vedrà».
 
 
 
 
E qui direi che possiamo ufficilamente dire che il bel tenente si è arreso alla dottoressa ù.ù
"Sei ossigeno puro" vi dovrebbe ricordare Gray's Anatomy, non me ne vogliate, l'ho trovata perfetta per quel momento tutto loro.
A Domenica prossima, buon inizio settimana.
Lua93.

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Capitolo 17
*** 16# ***


Dopo più diun mese, riesco a postare il nuovo capitolo. Prima di lasciarvelo leggere però, vorrei dirvi alcune cose.
Questo mese, è stato uno dei più difficili. Quando si perde una persona cara, tutto sembra non avere più alcun significato e ci si chiede che senso ha continuare. Non voglio assolutamente tediarvi con i miei problemi o con le mie preoccupazioni. Quindi abbandono qui il campo personale, lasciandolo tale. Solo avrete notato che non ho più il mio account facebook e che alcune storie sono state eliminate dal mio account Efp. Su questo punto non ho molto da dire, solo che attraversando una certa fase dove tutto mi sembrava sbagliato, ingiusto, dove qualsiasi cosa facessi mi sembrava vuota, ho pensato che liberarmi di Efp e delle mie storie mi avrebbe fatto sentire meglio. Non eliminerò assolutamente nè I colori del vento, nè Busker (che non so ancora quando riprenderò), nè The butterfly effect, su questo potete stare tranquille.
Per quanto riguarda I colori del vento, non ho alcun capitolo pronto, quindi dovrete avere un pò di pazienza, spero comunque di non farvi più aspettare così tanto. Detto questo vi lascio al capitolo, spero possiate perdonarmi. Grazie di cuore a tutte voi. Questo capitolo lo voglio dedicare a tutte le lettrici che non hanno mai smesso di sperare in un mio ritorno.
Nessun accompagnamento musicale, questa volta lascio scegliere a voi.
Lua93.


                                                              16

8 Aprile 2003

Il respiro regolare di Edward s’infrangeva sui miei capelli, mentre un suo braccio intorno alla mia vita mi attirava più vicino al suo corpo. Le luci dell’alba scivolavano sul vetro della finestra, disegnando strane ombre sul pavimento grigio. Per tutta la notte, le braccia di Edward erano rimane arpionate sui miei fianchi, non permettendomi di allontanarmi dal suo corpo neppure per un secondo. Mi aveva stretta a sé, fin quanto la stanchezza non aveva preso il sopravvento, e assopendomi avevo avvertito il calore della sua labbra sul mio viso.
Jasper non era rientrato nel dormitorio, così Edward mi aveva obbligato a rimanere con lui, almeno, fino all’alba. E ora che, il suo profumo era diventato parte della mia pelle, il sole faceva la sua comparsa all’orizzonte. Non ero ancora pronta ad abbandonarlo, lasciare le sue forti braccia per ritornare nella vita reale, fuori da quelle quattro mura che avevano assistito alla nostra unione.
Sollevai la testa dal suo petto, osservando il suo volto rilassato. Le palpebre chiuse, come sipario di un sogno, le labbra leggermente socchiuse ancora gonfie per i troppi baci. Feci scivolare le sue braccia dal mio corpo, posandole sul materasso. Scattai una fotografia immaginaria di quel momento. L’immagine di Edward quella mattina sarebbe rimasta per sempre nei miei ricordi, così come le sensazioni provate durante la notte. Avevo toccato il paradiso tra le sue braccia, mentre intorno a noi il deserto ci separava dalle porte dell’inferno.
Mi rivestii velocemente, senza fare troppo rumore. I nostri abiti erano sparsi un po’ ovunque, e ridacchiai nel ritrovare la mia maglietta sul letto intatto del Sergente. Stavo per infilare le scarpe quando mi sentii osservata. Sollevai la testa, incontrando gli occhi chiari di Edward che mi scrutavano assonnati.
«Dove stai andando?» Mi domandò sussurrando, la voce ancora impastata dal sonno.
Mi avvicinai, accarezzando con la mano la sua guancia, «è l’alba», risposi con un sorriso.
Prima che potessi allontanare la mano dal suo viso, Edward l’afferro e attirandomi verso il suo corpo mi fece cadere nuovamente sul letto.
«Non mi sembrava di averti dato il permesso», disse mettendosi seduto. Le sue braccia mi avvolsero i fianchi e sollevandomi mi fece sedere sulle sue gambe. Data la scomoda posizione, allungai le mie intorno al suo bacino.
Sospirai incrociando le braccia dietro il suo collo, «lo sai meglio di me che devo andare».
Sorrise avvicinando le sue labbra alle mie, «stavi andando via senza neppure avvisarmi». Borbottò contrariato, accarezzando con la mano il mio viso.
«Non volevo svegliarti», mi giustificai accorciando la breve distanza che ci separava, facendo congiungere le nostre labbra. Edward approfondì il bacio, chiedendo accesso alla mia bocca con la sua lingua. Portai le mani su i suoi capelli scompigliati, sfiorando la sua intimità con la mia. Edward ringhiò e per punizione mi morse il labbro inferiore.
«Ahi» mi lamentai accarezzando con la lingua il punto dolente.
Lui sorrise compiaciuto, «così impari a provocarmi».
«Non ti stavo provocando», dissi tracciando con l’indice della mano i tratti del suo viso.
Edward inarcò un sopracciglio, «davvero?»
«Se avessi voluto provocarti, avrei fatto questo», dissi maliziosamente facendolo sdraiare sul letto. Rimasi seduta sul suo bacino, dondolandomi leggermente, chinandomi poi per baciargli il patto.
«Non male dottoressa», gemette assecondando i mie movimenti, «ma non sei ancora ai miei livelli». Aggiunse con un sorriso sghembo capace di mandarmi in tilt il cervello. In pochi secondi capovolse le posizioni, schiacciandomi con il suo corpo al materasso, con i gomiti si reggeva per non pesarmi troppo.
L’osservai ammaliata, seguendo il percorso intrapreso dalle sue labbra lungo tutto il mio collo. Infilò una mano sotto la maglietta, accarezzandomi il ventre piatto.
«Edward», gemetti stringendo i suoi capelli.
Rise e senza darmi il tempo di controbattere mi sfilò la maglia, cercando i gancetti del reggiseno sulla schiena.
«Secondo me sei troppo vestita», disse sfilandomi il reggiseno. Mi accarezzò lentamente il petto fino a raggiungere i miei seni. Mi morsi il labbro per non lasciarmi sfuggire un nuovo sospiro di piacere.
«Non abbiamo tempo», farfugliai aiutando le sue mani a sfilarmi il jeans.
Edward sollevò la testa, guardandomi con desiderio, «ieri sera è stato tutto così affrettato che non mi sono reso conto di non aver usato la protezione».
Mi allungai per baciarlo e lui mi lasciò fare, godendosi il calore del mio corpo nudo sotto il suo.
«Prendo la pillola», gli risposi prendendo fiato.
Sembrò sollevato e senza aggiungere altre parole, entrò nuovamente in me, per la seconda volta. E per la seconda volta mi sentii persa. Le sue spinte erano lunghe e lente, mi avvolgevano completamente, inondandomi di illustre piacere. Con le mani accarezzava tutto il mio corpo, stringendomi. Le sue spinte si fecero sempre più veloci, sempre più profonde. Pensai di stare impazzendo, mi manteneva in bilico senza permettermi di scoppiare.
«Per favore», gemetti mordendogli la spalla.
Sentii Edward ridacchiare, «per favore cosa?» si stava prendendo gioco di me, la sua voce divertita rimbombò nella mia testa.
Spinsi il bacio contro il suo, e lo sentii ringhiare, imprecando sotto voce. Lo feci un'altra volta e continuai a farlo fin quando al limite mi portò al culmine del piacere, seguita immediatamente da lui.
Sconvolta rimasi senza fiato, il corpo che ancora tremava.
Edward mi baciò a lungo, riempiendomi il viso, il collo e i seni di baci.
«Adesso puoi andare», disse con un sorriso soddisfatto.
Gli diedi un pugno sulla spalla, «idiota». Borbottai alzandomi.
Abbracciandomi mi strinse nuovamente avvolgendomi questa volta completamente, «deve rimanere un segreto».
«Lo so», dissi rassicurandolo, baciandolo dolcemente. Poi entrambi iniziammo a vestirci sotto lo sguardo divertito dell’altro.
«Dimmi una cosa, finirà?» Gli chiesi sedendomi sul letto una volta vestita. Lui stava ancora abbottonando la camicia, quando mi rispose.
«Io non voglio che finisca, e tu?» Domandò leggermente imbarazzato. Mi chiesi che fine avesse fatto il tenente Cullen e chi fosse quell’uomo che mi fissava spaventato.
Scossi la testa, «neppure io». Ammisi e lui sorrise.
Sarebbe stato sempre così tra di noi, mi avrebbe mostrato il suo vero sorriso solo quando saremmo rimasti soli. Mi avrebbe potut0 amare completamente solo dentro quella stanza?


Quando uscii dal suo dormitorio, stando attenta a non farmi vedere da nessuno, raggiunsi direttamente la mensa, ritrovandola quasi piena.
Angela dietro il bancone stava servendo il caffè ai soldati di turno, ridendo e scherzando con loro. La raggiunsi, facendomi riempire una tazza.
«Ti trovo particolarmente bella questa mattina». Sorrise Angela, versandomi il caffè.
Feci spallucce prendendo una brioche, «ho dormito bene».
«Si vede», concordò, «sembri felice, è forse successo qualcosa?» mi domandò con aria indagatrice.
Scossi la testa, bevendo un sorso di caffè, «sai dopo tutto quello che è successo con Jacob, questa notte mi è sembrato di riprendere a respirare, se capisci quello che voglio dire».
«Sicura di aver solo respirato?» mi chiese con un sorrisetto malizioso, intimorita da quel suo tono di voce mi ritrovai ad annuire cercando di capire.
Ridacchiò, «carina quella macchia rossa sul collo».
Provai a nascondere la prova incriminante con i capelli, sotto il suo sguardo divertito, sperai con tutto il cuore che non mi chiedesse nulla e per mia fortuna fu quello che fece. Mi sorrise semplicemente dicendomi che l’amore mi stava bene.
«L’amore fa bene a tutti».
«Si, ma a te dona particolarmente».
Mi voltai cercando un tavolino libero per poter fare colazione in tranquillità. I ragazzi quella mattina erano piuttosto silenziosi, meno ansiosi rispetto ai giorni precedenti.
Non avevo chiesto ancora informazioni su Baghdad, temendo in una risposta negativa. Con Peter avevo legato particolarmente, dal giorno in cui aveva portato in ospedale la piccola Nadira. Era cambiate così tante cose nel frattempo. Il tempo pareva essersi cristallizzato, non esisteva più alcun orologio capace di gestire le ore che scorrevano all’interno della base. Tutto intorno a noi sembrava eterno, e i giorni che trascorrevamo in compagnia della paura, sembravano non avere fine. Non esisteva più alcun tempo esteriore, la teoria di Bergson in quelle terra non aveva alcun significato. Un giorno composto di sole ventiquattro ore poteva durare il doppio, così come tutto poteva durare un solo secondo.
Un tocco leggero sulla spalla, mi fece sobbalzare, distraendomi dai miei pensieri.
«Buongiorno,» mi sorrise Alice, sedendosi, «a cosa stavi pensando così intensamente?» mi domandò dando un morso al suo cornetto riscaldato.
«Al tempo».
«Al tempo?»
Annuii giocherellando con la tazza ormai vuota, «hai presente la teoria di Bergson?»
«La distinzione tra il tempo interiore e quello esteriore?» Chiese confusa, passandosi una mano tra i corti capelli.
«Esattamente, pensavo semplicemente che in queste terre questa teoria non vale poi molto, giusto?»
«Concordo, pensa, sono incinta da soli due mesi e già mi sento come se dovessi partorire da un giorno all’altro». Rispose facendomi ridere.
Aveva questo modo di fare Alice che, riusciva sempre a farti stare bene, in un modo o nell’altro.
«Ti sentirai molto meglio quando tornerai a casa», le dissi per tranquillizzarla, ma qualcosa nelle mie parole sembrarono ferirla, perché il suo bel sorriso si spense. «Alice, è tutto okay?»
«Vorrei rimanere qui, è possibile?» mi chiese ignorando la mia domanda. I suoi grandi occhi chiari erano fissi nei miei, un velo trasparente le copriva la naturale luminosità.
Scossi la testa, «tesoro lo sai che non si può», cercai di spiegarle i motivi di quella difficile decisione, ma lei sembrava non volermi ascoltare.
«Guarda che se rimani qui, diventa tutto più complicato, e io non sto parlando solo della guerra. Sai cosa significherebbe per Jasper veder nascere il proprio bambino in questa terra desolata?» Allungai la mano per stringere forte la sua, «lo so che sei terrorizzata. Lo so che non vorresti lasciarlo solo, che lo ami come non credevi possibile e che lasciarlo significherebbe lasciare anche un pezzo di te qui con lui. Ma tu devi essere forte, per entrambi. Devi essere coraggiosa per la splendida creatura che porti in grembo», sospirai, sperando che le mie parole potessero calmarla in qualche modo.
«E se lui non dovesse tornare, se lui suo figlio non potesse vederlo mai più?» la sua voce era un sussurro lontano, qualcuno si voltò incuriosito nella nostra direzione.
La costrinsi ad alzarsi e a seguirmi fuori dalla mensa. All’esterno le temperature erano notevolmente cresciute, il sole era già alto in cielo e i suoi raggi caldi bruciavano sulla pelle.
Ritornammo nel nostro dormitorio, dove trovai entrambi i nostri letti disfatti. Alice mi spiegò che Jasper non aveva voluto dormire con lei, perché temeva di darle fastidio dato le dimensioni dei materassi. Voleva che il suo bambino riposasse bene. Sorrisi stringendola in un abbraccio.
«E secondo te, un uomo così, non farebbe di tutto per tornare a casa?» Le domandai in un sussurro.
Alice mi fissava disorientata, poi finalmente riuscii a convincerla, e aiutandola con il borsone, iniziammo a rimettere dentro tutti i suoi vestiti.
«Tu mi prometti che starai attenta?»
Annuii, «certamente».
«Va bene, mi hai convinta. Però c’è una cosa che devi assolutamente dirmi», disse e questa volta sulle sue labbra nacque un pericolosissimo sorrisetto malizioso.
Ridacchiai sedendomi sul letto, «sai che non ti dirò neppure una parola, vero?»
Mise il broncio, cercando con i suoi occhi di intenerirmi, ma io ero irremovibile.
«Okay non chiederò nulla, però qual cosina me la devi dire», mi fissò con aria indagatrice avvicinandosi, «quante volte?»
Sbuffai sollevando gli occhi verso il soffitto bianco, «due».
«Ce ne saranno altre?» Mi chiese inarcando un sopracciglio.
«Spero proprio di si».

Quel giorni rimasi in ospedale più del previsto, cercando di terminare alcune pratiche che avrei dovuto consegnare a Edward il giorno dopo. Il brutto dell’ospedale da campo stava proprio nelle scartoffie. Mentre negli ospedali in America dei documenti se ne occupava l’amministrazione, qui ero costretta a fare anche il loro lavoro. Le cartelle erano rimaste incomplete a causa di Jacob. Mi ero perse più di un giorni di lavoro e ora dovevo recuperare. Kristen e Jessica erano tornate nei loro dormitori, con me era rimasta solo Alice, che contro la mia volontà mi aveva chiesto di poter lasciare il lavoro solo qualche ora prima di partire.
Il suo aereo sarebbe partito tra soli due giorni e lei non voleva assolutamente rimanere con le mani in mano durante quelle quarantotto ore. Non avevo ancora visto Edward, non sapevo come si sarebbe comportato in pubblico, probabilmente mi avrebbe ignorato come al solito, per non destare sospetti.
Alice passò dal mio ufficio trascinandosi dietro un carrello pieno di lenzuola sporche, mi sollevai dalla sedia con l’intento di aiutarla, ma un enorme boato bloccò entrambe.
Raggiunsi Alice lungo il corridoio, cercando di capire l’origine di quel rumore.
«Che cos’è stato?» Mi domandò voltandosi dall’altra parte del corridoio.
Scossi la testa, «sembrava provenire dall’esterno».
«Un attacco alla base?» la sua voce si spezzò mentre pronunciava quelle parole.
«Non credo».
Lasciammo il carrello dentro il mio ufficio e chiudendo la porta a chiave, uscimmo dall’ospedale da campo, cercando di capire cosa fosse successo.
Nell’aria fresca della sera, vicino all’ingresso della base vi era un carro armato, due uomini stavano parlando con Edward, Jasper era dietro di loro.
Ordinai a Alice di rientrare dentro l’ospedale, per non lasciare i pazienti da soli, promettendole che l’avrei raggiunta immediatamente.
I soldati si radunarono intorno al carro armato, alcuni spaventati, altri incuriositi. Garrett mi raggiunse con due grandi falcate mentre raggiungevo il Tenente.
«Che cosa è successo?» Chiesi spaventata.
Garrett aumentò il passo, «si tratta di Baghdad».
«Di cosa stai parlando?»
Il soldato si fermò in mezzo al campo, si guardò intorno preoccupato, poi avvicinandosi al mio viso abbassò la voce, «lei non sa nulla dottoressa, okay?»
Annuii, non riuscendo a muovere neppure un muscolo. La sensazione che qualcosa di brutto fosse accaduto aveva avvolto il mio corpo in una bolla.
«Oggi alcune truppe inglesi hanno occupato Bassora, contemporaneamente a Baghdad un carro armato ha colpito l’hotel Palestine, dove alloggiavano alcuni giornalisti», mi spiegò cercando di non farsi vedere dagli altri soldati.
Lo bloccai per un braccio prima che potesse allontanarsi, «cosa c’entra tutto questo con la nostra base?» La mia voce uscì più isterica di quanto volessi.
Garrett sbuffò, liberandosi gentilmente dalla mia misera stretta, «significa che la situazione in città sta peggiorando, gli inglesi hanno bisogno di un aiuto americano più massiccio. Si deve fermare la rivolta prima che la situazione peggiori».
Sapevo che non mi avrebbe detto nient’altro, così decisi di raggiungere direttamente Edward, per chiedere informazioni più dettagliate, ma quando mi ritrovai a pochi metri da lui, i suoi occhi verdi riflettevano solo rabbia. Stava parlando con i suoi soldati e riuscii a capire solo qualche parola. Il carro armato era ripartito, innalzando un enorme nube di sabbia. Jasper ordinò ai soldati di prepararsi, nel giro di ventiquattrore avrebbero dovuto smantellare tutto. Il sangue mi si gelò nelle vene, e l’agitazione iniziò a prendere il sopravvento.
Tenni lo sguardo fisso sul volto di Edward, non si era ancora accorto di me. Le sue mani si torturavano i capelli, la sua voce però era ferma. Il suo abituale autocontrollo riuscì a calmare i ragazzi che, obbedirono ai suoi ordini senza controbattere. Quando rimase solo, sollevò la testa e fu in quel momento che i nostri occhi s’incontrarono. Lo raggiunsi cercando di ignorare il tremolio delle mie gambe.
Edward mi afferrò poco gentilmente costringendomi a seguirlo, lontano da occhi indiscreti.
«Che sta succedendo?» Gli chiesi cercando di mantenere la sua stessa velocità, «perché dovete smantellare il campo? Intendi tutto l’accampamento, anche l’ospedale?»
Mi trascinò dietro un dormitorio, guardandosi intorno, poi, senza darmi il tempo di controbattere, mi ritrovai le sue labbra umide sulle mie. Fu un bacio violento, i suoi denti torturarono le mie labbra, la sua bocca mi riempiva completamente. Le sue mani si strinsero intorno ai miei fianchi, stringendomi in un abbraccio soffocante. Mi permise di riprendere fiato solo per qualche secondi, prima di ritornare prepotentemente sulle mie labbra. Strinsi le mani intorno alle sue spalle, cercando un appiglio per non cadere. Le sue mani, invece, salirono sui miei capelli, trattenendomi la testa ben salda contro la sua. Fu uno di quei baci che non avrei mai pensato di provare, totalizzante, completo. Le sue labbra si muovevano decise sulle mie. Lo capii solo dopo che si fu allontanano che, quel bacio, era stato la sua valvola di sfogo.
Entrambi cercammo di riprendere fiato, i nostri sguardi si cercavano, intimoriti.
«Hanno bisogno di me e dei miei ragazzi a Baghdad, questo accampamento verrà smantellato» mi spiegò ancora ansante, accarezzandomi il viso, «tu e il resto della tua equipe tornerete in America, insieme agli altri volontari».
Mi pietrificai, cercando di rielaborare le sue parole, strinsi convulsamente le mie mani sulle sue.
«Questo significa che ti devo lasciare?»
Lui annuì, voltando la testa per controllare che nessuno ci avesse visto.
«Partirete domani all’ora di pranzo, la situazione in città è più grave di quanto pensassimo».
«Edward, cosa accadrà?» Gli domandai appoggiando il capo al suo petto, ascoltando il battito del suo cuore. Una nuova consapevolezza si era fatta strada in me. Ora potevo capire il sentimento che provava Alice nel dover lasciare il proprio uomo nel bel mezzo dell’inferno. Non sarei riuscita a sopportarlo. Non ne sarei stata in grado.
«Non lo so», disse stringendo la presa sul mio corpo, «non lo so».

Non rimase a lungo insieme a me, nel giro di qualche minuto mi aveva di nuovo abbandonato, dovendo occuparsi di tutta la trasferta, mi disse comunque, di raggiungerlo nel suo dormitorio quella sera. Prima di andarsene mi baciò nuovamente, dolcemente, senza foga. I suoi occhi potevano nascondere al mondo intero le sue paure, ma non ai miei, non dopo quello che avevamo condiviso. Non dopo aver capito di amarci.


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