Alice

di alaisse_amehana
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Una normale giornata di strani eventi 1 ***
Capitolo 2: *** Una normale giornata di strani eventi 2 ***
Capitolo 3: *** Colpo di testa 1 ***
Capitolo 4: *** Colpo di testa 2 ***
Capitolo 5: *** Più domande che risposte ***
Capitolo 6: *** Saltatori ***
Capitolo 7: *** Morgana ***
Capitolo 8: *** Buchi alle orecchie ***
Capitolo 9: *** Moto ***
Capitolo 10: *** Ospiti non invitati ***
Capitolo 11: *** Sei del mattino ***
Capitolo 12: *** Universum ***
Capitolo 13: *** Nuovo compagno ***
Capitolo 14: *** Mens sana in corpore sano (parte 1) ***
Capitolo 15: *** Mens sana in corpore sano (parte 2) ***
Capitolo 16: *** Piccole Bugie ***
Capitolo 17: *** Allenamento (ancora?) ***



Capitolo 1
*** Una normale giornata di strani eventi 1 ***


Frequentare l’ultimo anno del liceo può risultare destabilizzante per una ragazza svogliata come me. Non che sia stupida, almeno non particolarmente, ma non ho voglia di applicarmi. Me lo sono sentito ripetere dalle elementari.
< Signora, sua figlia non è affatto una bambina stupida, ma non si impegna>.
< Sua figlia è molto brava quando si applica, peccato lo faccia così raramente!>.
< La ragazza mostra chiari sintomi di disturbo della personalità>.
Davvero poco incoraggianti.
Mia sorella è l’esatto opposto. Lei è bella, seria, studiosa. Ha un sacco di amici che le chiedono aiuto nei compiti e altrettanti ragazzi che fanno la fila sotto al nostro portone per poter uscire con lei. Non scherzo, l’ultima volta ne ho dovuti scavalcare un paio per entrare in casa. E il bello è che lei non fa nulla per attirarli. Voglio dire, non è una di quelle oche che sta tutto il tempo a flirtare con quelli che incontra. Diciamo che emette quelle che io chiamo “onde positive”.  Non ho ancora conosciuto nessuno che le possa sentire, quindi le chiamo come mi pare.
Per farla breve si tratta di quella sensazione che emanano le persone molto solari, quelle con cui è impossibile sentirsi a disagio. Forse non potete avvertire le onde, ma avrete capito di cosa parlo.
Mia sorella è un vero e proprio tornado di onde positive. Le emette pure mentre dorme. Inevitabile che i ragazzi ne siano attratti come falene dalla luce.
La cosa che mi dà più fastidio però non è mia sorella e le sue emanazioni positive, ma il fatto che percepisco chiaramente anche quello che provano i ragazzi, e le ragazze, che le stanno attorno. Questo è ciò che faccio. Fin da quando ero bambina.
Per questo so che mentre facciamo colazione, mia madre sta pensando alla riunione coi dipendenti, mio padre pensa a cosa mangerà a pranzo, e mia sorella sta ripetendo la lezione di immunologia.
Bah, secchiona.
< Cosa hai a scuola, tesoro?> mi chiede mia madre.
Aspetto tre secondi prima di rispondere. Tanto so che basteranno perché ritorni a concentrarsi sulla sua riunione e la domanda cada nel vuoto.
Mia sorella interrompe la lunga lista di sigle impronunciabili che stava elencando per posare i suoi enormi occhi azzurri su di me. E’ incredibile quanto siano grandi i suoi occhi. Quando ti fissano sembrano risucchiarti da qualche parte a metà strada tra il tuo cervello e il suo.
< Non avevi la versione di latino?> chiede innocente.
Mentre la guardo mi vedo rispecchiata nei suoi pensieri. Mi faccio forza per bloccare quelle immagini. E’ impossibile parlare con qualcuno e vedersi riflessi mentre lo si fa. Provare per credere.
Credo che sia per questo che pensano tutti che sia un po’ ritardata. Ma non è colpa mia se mi ci vuole tutta questa fatica per avere una normale conversazione.
< Mmmh, sì. Latino> rispondo masticando i cereali al cioccolato.
Riempirsi la bocca di qualcosa è sempre una buona scusa per evitare domande. Ormai i miei ci hanno fatto l’abitudine. Una volta ho proposto di comunicare con dei bigliettini. Mi hanno guardato così male che non ci ho più provato. Eppure sarebbe tanto più facile!
< Hai studiato?> chiede mio padre addentando la fetta biscottata ricoperta da mezzo centimetro di marmellata.
No, ho giocato a FreeCell sul computer fino alle due di notte e poi ho chattato fino alle quattro con un quarantenne che si spacciava per un sedicenne.
< Sì, studiato tutto> mugugno con la bocca piena di cereali. Un po’ di latte mi cola sul mento. Ecco, ora sì che devo avere l’aria da ritardata.
Mia sorella storce la bocca e riprende con la sua litania di virus.
In effetti, per essere precisi, non leggo i pensieri in senso stretto. Piuttosto è come se davanti alle persone si aprisse uno schermo piatto su cui scorrono delle immagini. Ma è più complicato di così perché non mi limito a vedere, ma anche a sentire. Ultimamente, poi, è peggio del solito. Fino a qualche tempo fa non mi succedeva con tutti, e soprattutto non con la stessa intensità. Da qualche settimana, però, mi sento come una tv con il digitale terrestre. Centinaia di canali e nessun libretto di istruzioni per usarli.
< Sono le otto, farai tardi> dice mia madre alzandosi per portare la tazza nel lavandino.
< Ci penso io, oggi ho lezione alle dieci> si offre mia sorella saltando in piedi come una molla e prendendole la tazza di mano.
Mi chiedo dove prenda tutta quest’energia la mattina presto.
< Grazie, tesoro>.
Mio padre continua a mangiare la sua fetta biscottata e a pensare al pranzo.
Di tutta la famiglia, lui è quello con cui è più facile stare. Se i pensieri di mia madre e mia sorella sono come popcorn scoppiettanti, quelli di mio padre sono un placido laghetto, non troppo profondo a dirla tutta.
< Alice?> mi chiama mia madre sulla porta.
Anche se non potessi sentire i suoi pensieri, il tono basta per avvertirmi che sta perdendo la pazienza. Lascio perdere i cereali e vado a prendere lo zaino in camera. Mettendomelo sulle spalle rischio di cadere all’indietro ma recupero l’equilibrio all’ultimo minuto. Medito se lasciare a casa il dizionario di latino. Ma poi fare la versione in classe potrebbe essere problematico.
< Alice!> questa volta il tono di mia madre è di aperta minaccia.
Lascio stare il dizionario ed esco.
< Ciao!> saluto uscendo sul pianerottolo.
Mi rispondono le loro voci sfalsate. Mia sorella ha ripreso a ripetere a mente la lezione. Sento che mi perfora il cervello anche con una porta a separarci.
Non posso andare avanti così.
Me ne rendo conto mentre sono alla fermata del pullman e il tizio accanto a me sta pensando alla notte di fuoco appena passata con l’amante. La sola idea di continuare così tutto il giorno mi fa venire voglia di mettermi in un angolo a urlare.
Infilo le cuffiette dell’mp3, a tutt’oggi l’unico metodo efficace che ho trovato contro i pensieri molesti. Grazie alla musica riesco a filtrare ciò che sento. E’ come premere off sui suoni indesiderati. In sottofondo riesco a sentire il rumore del traffico, ma l’uomo accanto a me è di nuovo un tizio qualunque che non ha nulla da dirmi. Sempre se non lo guardo.
Arriva il pullman, pieno come sempre. Per entrare devo premere contro le persone che stanno in mezzo alle porte. Ho qualcosa di duro incastrato nelle costole e i capelli di una ragazza mi solleticano il naso minacciando di farmi starnutire.
Ci fermiamo ad una fermata. Mentre una signora di mezz’età spinge per uscire mi cade un auricolare. Subito i pensieri di tutti quelli intorno mi si riversano addosso come un fiume in piena. Barcollo e per non cadere sono costretta a posare un piede a terra. Le porte cominciano a chiudersi e faccio appena in tempo a scendere prima che mi pizzichino in mezzo.
Guardo l’autobus che si allontana mentre riprendo fiato.
Cominciamo bene.
Ormai è troppo tardi per aspettare il pullman dopo. Tanto mancano solo un paio di fermate. Mi avvio sul marciapiede strascicando i piedi. Sono tentata di fare dietro front e tornarmene a casa. I miei saranno già usciti e sicuramente mia sorella sarà andata in università prima per prendere i posti a lezione. Solo lei può alzarsi all’alba per ripetere la lezione del giorno prima e andare a tenere il posto per le amiche. Io non lo farei nemmeno sotto tortura. E’ anche vero che io non ho amiche a cui tenere il posto.
Mi fermo un attimo ad un incrocio. La tristezza mi assale. Per quanto cerchi di negarlo è ovvio il motivo per cui trovo così insopportabile mia sorella. La ragione è che la invidio. La invidio con tutta me stessa, con ogni fibra del mio corpo. Vorrei essere lei.
Ma anche questo non è del tutto vero. Vorrei essere chiunque, tranne me stessa.
Sono arrivata al cavalcavia. Superato quello mancheranno un paio di isolati prima della scuola.
Una bella salita per cominciare la giornata col piede giusto!
Le macchine mi sfrecciano sulla sinistra rombando. Comincio a scendere dall’altra parte con un sospiro di sollievo. Lo zaino pesa come se l’avessi riempito di pietre.
Avrei dovuto lasciare a casa il dizionario, tanto non servirà a nulla. Arrivo al semaforo di Via Nizza. Corso Dante è un lungo tappeto di cemento che mi accoglie famelico. I rami scheletrici degli alberi con le foglie appena cadute ancora sui marciapiedi non aiutano a migliorare l’umore.
Avete una vaga idea di cosa voglia dire passare sei ore chiusa in una stanza con venticinque persone che vi urlano nelle orecchie? Ovviamente no. Ma lasciate che ve lo dica: è un Inferno. Con la I maiuscola. Mica per scherzo.
Certo, non mi urlano davvero nelle orecchie, ma il concetto è lo stesso.
Mentre mi avvicino i passi diventano più lenti e corti. Non lo faccio apposta. E’ che non riesco ad avvicinarmi più velocemente.
Indugio un secondo sul cancello aperto. Un ragazzo più piccolo mi supera con una falcata da centometrista. Dietro si lascia degli stralci di formule chimiche. Le vedo volteggiare nell’aria come coriandoli. Non ci vuole molto per capire che corre incontro ad una verifica che lo terrorizza. Gli auguro mentalmente buona fortuna e varco la soglia per la tortura giornaliera.
Il nostro liceo non poteva nascere in un luogo più appropriato. Mi sento come se sull’architrave ci fosse scritto di lasciare ogni speranza.
In ogni caso tutte le mie speranze di passare una giornata piacevole, o per lo meno indolore, le ho lasciate a casa, chiuse in un cassetto.
Dopo aver aspettato un ascensore che ha deciso di darsi alla macchia, salgo le cinque rampe di scale che mi separano dalla classe. Arrivo con il fiato corto e la lezione iniziata da cinque minuti. La prof di latino e greco mi guarda con compassione. Per fortuna ho ancora le cuffie nelle orecchie e non posso sentirla. Però mi vedo  benissimo riflessa nei suoi pensieri. Secondo il suo punto di vista sembro un pulcino bagnato e infreddolito.
< Croisées, devi farti dare il biglietto all’entrata>.
Odio quando pronunciano il mio cognome. Nessuno sembra rendersi conto che è francese. Non è colpa mia se uno dei miei bisnonni era francese. Scusate tanto! Però un piccolo sforzo per dirlo correttamente potrebbero farlo.
< Ma sono le otto e trentacinque…> provo a protestare.
Cerco di non guardarla. Forse così sembrerò anche più umile e implorante. Non mi importa cosa crede. Non posso farmi segnare un altro ritardo dai bidelli. Quei maledetti biglietti gialli finiscono nel registro e quando diventano troppi vengono convocati i genitori. Dall’inizio dell’anno sarebbe la terza volta.
La prof di latino è particolarmente ligia su questo punto. Per somma sfortuna, tre giorni su cinque me la becco alla prima ora.
< Dovresti cercare di arrivare in orario. In fondo non abiti nemmeno lontano> dice con tono compassionevole. Sembrerebbe quasi che si stia scusando, ma non demorde. Quel fottuto biglietto me lo farà prendere a costo di buttarmi giù dalle scale.
< Sì, ma vede…>.
< No, no. Mi spiace, ma devi farti segnare il ritardo> questa volta il suo tono è fermo.
Non resisto alla tentazione di guardarla. Mi vedo riflessa in versione lacrimosa.
Ehi, ma scherziamo? Non ho gli occhi lucidi!
E’ questo, più di tutto, a farmi decidere a tornare di sotto.
Mentre scendo le scale con calma- tanto vale godersi il ritardo- cerco di pensare ad una soluzione. Le vie di fuga, però, sono piuttosto esigue.
Numero uno. Emigro in un paese straniero dove la gente non pensa. Inesistente, credo.
Numero due. Mi cavo gli occhi e mi rompo i timpani ascoltando la musica col volume al massimo per due ore. Secondo i miei è possibile. Potrei provare se è vero. Ma temo che non siano i miei timpani il problema. Rischierei di trovarmi sorda, ma ancora in grado di avvertire i pensieri.
Numero tre. Mi chiudo in cantina fino alla fine del mondo o alla guerra nucleare. A quel punto sarò l’unica sopravvissuta e il problema sarebbe risolto alla radice.
Nel frattempo ho raggiunto il banco dei bidelli, di fronte all’entrata.
Maria, la bidella napoletana che veglia sulle nostre povere esistenze, mi allunga un biglietto giallo con sopra scarabocchiati il mio nome, la data e l’ora di arrivo. Sapeva già tutto, brava la nostra Maria. L’angelo custode che ci urla dietro in dialetto stretto. Dopo cinque anni in questa scuola ancora non capisco quello che dice. Ma potendo vedere e sentire cosa pensa non è molto importante.
< Alice bella, e cerca di arrivare in orario! Lo sai che quella è una strega> mi urla.
Per fortuna l’atrio è vuoto. Forse in strada l’hanno sentita.
< Ci proverò, Maria> rispondo arrendevole.
Ci provo, ma non ci riesco spesso.
Di nuovo cinque piani di scale in salita.
Entro in classe, senza parlare poso il biglietto giallo sulla cattedra e faccio lo slalom tra i banchi per trovare il mio posto. Per la versione in classe i banchi sono stati spostati in mezzo alla stanza come relitti lasciati a naufragare in mezzo al mare.
Per sedermi sulla mia sedia, esattamente al centro dell’aula, devo quasi volare sopra un banco e passare in mezzo alle gambe di un mio compagno. Quando finalmente mi siedo, trovo già ad aspettarmi la fotocopia della versione da tradurre.
Cicerone.
Mi lascio sfuggire un gemito mentre mi tolgo la felpa e tiro fuori il dizionario. Lo lascio cadere sul banco con un tonfo. Nessuno bada a me, sono tutti a capo chino sul brano da tradurre. Sulle loro teste posso vedere scorrere le parole come nelle vignette di un fumetto. Per un attimo mi incanto a guardarle. Se non fosse così complicato distinguere esattamente cosa pensa ciascuno, sarebbe uno scherzo copiare la versione. Invece mi tocca farmela da sola.
< Croisées, togliti le cuffie> mi ordina la prof, in piedi di fianco alla cattedra.
Durante le versioni resta in piedi a passeggiare davanti alla lavagna come un cane da guardia.
Togliermi le cuffie?
No, mai!
< Togliti le cuffie> ripete la prof.
Giulia e Carlotta, sedute vicino a me, si girano a lanciarmi un’occhiata di biasimo. Giulia, una ragazza minuta dai capelli castani tagliati a caschetto, si sta visualizzando molto chiaramente mentre mi strappa gli auricolari dalle orecchie per far tacere la prof.
Mi affretto a togliere le cuffie e i pensieri mi sommergono come una valanga. Metà della classe sta urlando, metaforicamente parlando, in latino, mentre l’altra metà insulta a fasi alterne l’insegnante e Cicerone.
Prendo un foglio protocollo a righe mentre la testa sta per esplodermi. Se solo potessi avere un attimo di pausa, di respiro per riordinare le idee… ma nessuno sembra intenzionato a smettere di pensare. Davvero poco rispettoso nei miei confronti.
La penna trema nelle mie mani mentre sottolineo i verbi sul foglio per poterli cercare. Stefano, il secchione della classe seduto dietro di me, ha già tradotto le prime due righe. Posso sentirlo compiacersi mentre trova un verbo particolarmente complicato. Mi aggrappo ai suoi pensieri come ad un giubbotto di salvataggio. E’ difficile distinguerli dagli altri. Come sentire una voce particolare che canta in mezzo ad un coro, con la differenza che ognuno canta quello che gli pare al ritmo che vuole.
Lascio perdere la fotocopia e comincio a scrivere la traduzione sul foglio protocollo. Non so se è corretta, ma tanto non è che potrei fare di meglio da sola. Aspetto pazientemente che Stefano finisca di fare la costruzione della frase, seguendo i suoi ragionamenti. Ogni tanto perdo qualche passaggio, ma guardando la versione seguo vagamente il filo dei suoi pensieri.
Il titolo della versione è “Amicizia eccessiva”.
Leggo la traduzione della prima riga.
Perciò, se siete d’accordo, vediamo innanzitutto fino a che punto deve spingersi l’amore per un amico.
Bella domanda.
Per me, che non ho mai avuto un amico degno di questo nome, è quasi incomprensibile.
I minuti scorrono veloci, ma non mollo i pensieri di Stefano. Se mi concentro riesco a isolarli dagli altri, ma è faticoso. Il suo modo di pensare è strano, contorto. Ritorna sulle frasi, per poi fare salti in avanti e indietro. Non riesco a stargli dietro. Percepire i pensieri di estranei è come sentire una radio sintonizzata male. Alcune frasi hanno senso, altre sono solo un feroce gracchiare degli altoparlanti.
Vorrei alzarmi in piedi e urlare: “Abbassate il volume!”, ma temo che la prof non la prenda troppo bene. E’ la donna dotata di meno senso dell’umorismo su tutta la terra.
Potrei fingere di avere una colica, o di svenire. Potrei persino ficcarmi due dita in gola e vomitare sullo zaino di Carlotta. La sua faccia orripilata sarebbe un premio sufficiente.
Invece resisto e Stefano mi premia con l’ultima frase della versione. Vorrei girarmi e dargli un bacio.
Se infatti è stata la tua fede nella virtù a concederti l’amicizia, difficilmente l’amicizia resterà se rinunci alla virtù.
E bravo il nostro Cicerone. Pure le frasi ad effetto ha voluto aggiungere. Ma non poteva copiare i suoi temi da qualcun altro, come fanno tutti?
Suona la campanella della seconda ora. Gemiti di panico si alzano nell’aula.
< Ancora cinque minuti prof!> implora qualcuno.
L’insegnante agita le mani davanti alla faccia come per calmare un cavallo che sta per travolgerla.
< Ragazzi, non vi preoccupate: vi lascio tutto l’intervallo> dice.
La classe ripiomba nel silenzio mentre chi non ha ancora finito sfoglia febbrilmente il dizionario e gli altri ricopiano in bella.
E’ la prima volta dall’inizio dell’anno che finisco la versione in tempo. Ma so che dovrò pagarne il prezzo. Concentrarmi sui pensieri di Stefano per quasi due ore ha prosciugato tutte le mie energie. Sento il mal di testa in agguato, pronto a ghermirmi al primo attimo di disattenzione.
Consegno la versione senza nemmeno riguardarla e scappo in bagno dove mi sciacquo la faccia con l’acqua fresca.
In tasca ho un’ultima aspirina. La mando giù con due bei sorsi e mi appoggio contro il muro. Considerando l’igiene che regna nei bagni della scuola non so se è una mossa furba. Come minimo rischio di prendermi il vaiolo. O il tifo.
Mi tornano in mente tutti i nomi di virus schifosi che mia sorella recitava a colazione. Forse tra quelli ce n’era uno abbastanza brutto da annidarsi tra queste mattonelle lerce.
< Tutto bene?> mi chiede una voce famigliare.
Apro gli occhi e vedo Eleonora, l’unica ragazza della classe con cui posso vantare una sorta di legame. Quanto di più vicino all’amicizia posso avere.
Vengo avvolta dal profumo di fiori e sotto ai miei piedi compare un prato verde. Intorno alla mia testa volteggia una farfalla dalle ali dorate. Resto per un attimo abbagliata ad osservarla, poi mi ricordo di rispondere.
< Sì, tutto bene. Ho solo mal di testa> rispondo fissandomi i piedi per non essere distratta.
Ma anche così è piuttosto complicato, dato che una coccinella dalle ali iridescenti si sta arrampicando sui lacci.
Con lei è sempre stato così. Dal primo giorno che l’ho vista, spandeva intorno a sé un’aura di puro idillio. E’ qualcosa di diverso dalle onde positive di mia sorella. Meno evidente per chi non sa vedere, ma più sconvolgente per chi ci riesce. La cosa positiva è che non riesco a percepire i suoi pensieri. Nessuno schermo piatto in cui posso vedermi specchiata, nessun rumore molesto, almeno di solito. Il problema sono tutte le creature, insetti o animali, che le volteggiano intorno.
In questo momento ha uno scoiattolo che si arrampica sul braccio.
Reprimo a fatica l’impulso di allungare una mano e accarezzargli la coda. Il risultato sarebbe piuttosto imbarazzante.
< Hai finito in fretta> continua Eleonora nel tentativo di mandare avanti la conversazione.
Le sono grata per tutti gli sforzi che fa per essermi vicina. So che non è facile avere a che fare con me. Ma non sembra farci troppo caso. Forse perché anche lei non riesce a legare molto con gli altri.
Nonostante sia una ragazza incantevole, con due fossette irresistibili quando sorride e due occhi verde acqua da capogiro, fa fatica a relazionarsi con i nostri compagni. E’ timida, e non molto brillante a scuola. Gli altri della classe ricordano più un branco di cani randagi pronti a tuffarsi sul più debole del gruppo quando la fame si fa sentire. Non proprio l’ambiente ideale per due come noi.
< Ho trovato qualche frase fatta sul dizionario> mi invento.
Non mi piace mentirle, ma non è che posso dirle: “Sai, l’ho letta nella mente del primo della classe, una cosa che so fare da quando sono nata”. Temo che potrebbe prenderla male.
< Beata te. Io non ho dovuto inventare l’ultima frase… Hai capito cosa c’entrava la virtù?>.
Mi stringo nelle spalle. Chi può sapere cosa voleva dire quel vecchio?
< Forse intendeva la castità…> Eleonora si sta arrampicando per una strada pericolosa. Mai rimuginare su una versione appena fatta. In cinque anni non l’ha ancora capito? Quel che è fatto è fatto, dedichiamoci a qualcosa di più utile. La merenda ad esempio.
< Ma se parlava di castità perché uno dovrebbe averla per essere amico di qualcuno?>.
Mmm, davvero troppe domande a stomaco vuoto.
< Vado al bar a prendermi qualcosa, vieni?> le chiedo.
< Oh, sì. Ho voglia di saccottino al cioccolato>.
Il cibo risolve un sacco di problemi. Dico sul serio.
Usciamo dal bagno e cominciamo a scendere le scale, affollate di altri ragazzi con la nostra stessa intenzione. Oltre al vociare si aggiungono subito i pensieri sparati in tutte le direzioni da menti febbrili all’opera. Ho lasciato l’mp3 in classe e non posso certo usarlo mentre sono con Eleonora.
Sento il sangue defluirmi dal viso e barcollo appoggiandomi al muro. Sono tentata di dirle che ho cambiato idea.
< Tutto ok?> mi chiede subito posandomi una mano sulla spalla.
Il rumore intorno a me si attenua come se mi avessero infilato due batuffoli di cotone nelle orecchie. Mi guardo attorno incredula. Gli altri ragazzi sono sempre lì. Si muovono su e giù per le scale, si rincorrono, si salutano. Sento quello che dicono, ma è come se avessero iniziato a pensare sottovoce.
< Alice!> mi richiama Eleonora.
< Sto bene> rispondo rimettendomi dritta.
Non appena toglie la mano dalla mia spalla il frastuono di poco prima mi colpisce di nuovo.
< Pensandoci… non credo di stare proprio benissimo. Ti spiace se mi appoggio a te per scendere?> dico sudando freddo per la tensione.
< Certo>.
Mi appoggio alla sua spalla, nonostante sia più bassa di me di quasi tutta la testa, e il rumore si attenua. Vorrei urlare per la gioia.
Scendiamo per i cinque piani che ci separano dal bar e ci mettiamo in fila in mezzo al marasma di ragazzi in attesa. Per arrivare vicino al bancone dobbiamo farci strada a spintoni.
Cerco di non guardare nessuno e di non perdere il contatto con Eleonora. Anche se non ho capito come sia possibile, sembra che la sua vicinanza funzioni come l’mp3.
Arrivo al bancone dopo aver quasi calpestato una ragazza di quinta ginnasio e un ragazzino che sembra appena uscito dalle elementari. E il fatto che stia pensando alle carte dei Pokemon  non gioca a suo favore.
< Due saccottini> ordino al barista barbuto, un uomo sulla sessantina che ama il look alla Babbo Natale. Ogni tanto me lo immagino con un berretto rosso e un campanello in mano. Mi risolleva la giornata.
Pago e mi trascino fuori con Ele attaccata al braccio.
Appena siamo fuori dalla calca le do il suo saccottino e addento il mio. Il ripieno al cioccolato mi cola sul un lato della bocca e mi affretto a pulirlo con un dito.
Chiudo gli occhi per assaporarlo meglio. La parte migliore della giornata.
Ci siamo appoggiate nel corridoio che porta alla palestra. Subito prima si aprono le porte che danno sull’Aula Magna, decisamente un nome un po’ altisonante. Lì c’è meno gente. Davanti al bar invece c’è ancora una folla di ragazzi affamati. Davvero uno spettacolo interessante da osservare.
Sono ancora abbastanza vicina a Eleonora da sfiorarle la spalla, così percepisco solo un lieve borbottio in sottofondo. Lei non sembra farci caso, concentrata sulla sua brioche. Ha un uccellino azzurro posato su una spalla che cinguetta allegramente. Per non fissarlo decido di dedicarmi anch’io alla mia merenda.
< Sia lodato il cioccolato> dice dopo aver ingoiato l’ultimo boccone.
Annuisco mugugnando la mia approvazione con la bocca piena. Un paio di briciole mi cadono sulla maglietta e cerco di spolverarmi senza farmi notare troppo.
Ele si allontana per buttare il tovagliolo nel cestino e i tappi nelle orecchie vengono bruscamente rimossi. La ragazza che mi passa vicino sta pensando intensamente a cosa dire al ragazzo che le piace. E’ indecisa tra un “Che fai?” e un “Come va?”. Se non fossi troppo impegnata a non vomitare la brioche che ho appena mangiato le suggerirei di saltargli addosso e darci un taglio con quella lagna.
Vorrei mettermi ad urlare per sovrastare il rumore e smettere di sentire.
Sta peggiorando sempre di più. Ormai il volume dei pensieri ha raggiunto l’equivalente di una cassa da discoteca sparata al massimo. E anche le immagini che vedo intorno agli altri sono sempre più nitide. Ma c’è qualcosa di strano.
All’improvviso è come se tutti gli schermi piatti su cui vedo riflessi i pensieri degli altri subissero la stessa interferenza. Le immagini tremano, si confondono in una massa indistinta di colori. Non sento più frasi coerenti, ma un forte frusciare, come se ci fossero dei disturbi nella trasmissione.
Subito dopo un peso opprimente mi blocca il respiro. Apro la bocca ma non riesco a far entrare aria nei polmoni. Annaspo, barcollo e mi accascio contro la parete. Due secondi dopo è tutto finito.
Inspiro bruscamente non riuscendo a credere di poterlo fare. Anche i suoni e le immagini sono tornate alla loro assordante manifestazione.
Mi guardo attorno. Nessuno si è accorto di quanto è appena successo.
Ovvio che sia così, certo, ma mi sento comunque scombussolata. E’ come se fossi l’unica ad aver sentito un allarme antincendio e dovessi decidere se scappare da sola o provare ad avvertire gli altri.
Suona la campanella.
Eleonora torna indietro e mi prende per mano correndo verso le scale. Un’orda di ragazzi parzialmente riposati sta facendo lo stesso.
< Presto, adesso abbiamo matematica!> dice Eleonora facendo i gradini due a due. Le sto dietro solo per non perdere il contatto con la sua mano. Se dessi retta al mio istinto me ne andrei senza voltarmi indietro.
Per le scale vado a sbattere contro un ragazzo più giovane. Dal suo petto spunta la zampa di un animale che si protende verso di me. Mi scanso con un urlo di sorpresa e il ragazzo mi guarda perplesso prima di correre verso la sua classe. È la prima volta che qualcosa esce dallo schermo piatto per tentare di avvicinarsi.
Eleonora mi strattona verso l’alto. Mancano ancora un paio di piani. Lascio perdere la brutta sorpresa della zampa di cane spuntata dal nulla (puah!), e mi concentro sull’evitare di scivolare sui gradini. Mi manca solo una gamba rotta per completare in bellezza la giornata.
Quando arriviamo la prof non c’è ancora.
Mi lascio cadere al mio posto, miracolosamente tornato in penultima fila, attaccato al muro, e prendo le cuffie da sotto al banco. Le infilo e accendo la musica. Finalmente salva.
Ho ancora lo stomaco contratto per quello che è successo di sotto. Vorrei tornare a casa, ma ho ancora cinque ore da sciropparmi tra matematica, storia e astronomia. Come se ci fosse qualcosa di utile tra loro.

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Capitolo 2
*** Una normale giornata di strani eventi 2 ***


Volevo ringraziare tutti quelli che hanno lasciato una recensione al primo capitolo, e un grazie a chi mi ha seguito dall'altra storia commentando pazientemente anche questa!
Forse questo capitolo è un po' lungo, ma come potete notare dal titolo in realtà era insieme al primo e ho dovuto dividerlo, altrimenti era illegibile... Spero che la storia continui a intrigarvi, la parte più interessante sta arrivando! (spero...)





Arriva la prof di matematica. Avanza nell’aula come una balenottera che si trascina faticosamente sulla spiaggia. Come sempre, la prima cosa che fa è sbattere la borsa sulla cattedra come un tonno appena pescato sul carretto del pescivendolo. Poi si infila nello spazio tra lavagna e cattedra, troppo esiguo per la sua mole notevole, e comincia a spingere quest’ultima verso il centro dell’aula, costringendo i malcapitati in prima fila a battere in ritirata per non essere travolti. Uno spettacolo affascinante, non scherzo.
Dopo gli assestamenti tellurici dovuti a questo teatrino, la prof parte in quarta a disegnare strane forme e simboli alla lavagna, col gesso che si spande attorno a lei come una nuvola celestiale discesa dal cielo ad avvolgerla. In realtà è solo la sua mania di agitare il cancellino per enfatizzare i concetti, ma dirlo non era così d’effetto.
Perdo subito la concentrazione e mi limito a far finta di seguire scarabocchiando un angolo del quaderno. Accanto a me, Eleonora fa più o meno la stessa cosa, con l’unica differenza che lei si è impegnata abbastanza da scrivere il titolo.
Passo così le due ore di matematica successive, scampando per un pelo al tiro a sorte per stabilire chi debba fare gli esercizi alla lavagna. Stefano si offre come volontario prima che la prof possa puntare il dito sul registro e chiamare un povero sventurato. Quel ragazzo ha tanti difetti, ma in certe occasioni sa come farsi amare.  
Suona la campanella per il secondo intervallo. Non mi muovo dal mio posto, troppo sfinita anche solo per alzarmi. La classe si svuota e io mi tolgo per un attimo le cuffie. Sono rimaste solo Giulia, che se ne sta tranquilla al suo posto sfogliando una rivista e pensando a che smalto comprare, e Stefano, che ripassa per l’ora dopo. I loro pensieri sono abbastanza innocenti perché non mi debba preoccupare di doverli tenere a bada.
Chiudo per un attimo gli occhi posando la testa sul banco. Non riesco a tenere gli occhi aperti. Quando la campanella suona di nuovo e gli altri cominciano a rientrare, trovo ad aspettarmi la seconda (o siamo già alla terza?) brutta sorpresa della giornata. Mi sfrego il viso per essere sicura di essere del tutto sveglia, ma non cambia nulla.
Addosso a tutti quelli che stanno rientrando sono comparse delle enormi bolle gelatinose di un marrone sporco e nauseante. Sembrano uscire direttamente dalla loro pelle, ingrandendosi e rimpicciolendo, muovendosi sui loro corpi come enormi lombrichi. Non posso fare a meno di fissarle. Un paio dei miei compagni mi lancia delle occhiate perplesse. Ma l’entrata del prof di storia riporta l’attenzione alla cattedra. E giusto che parliamo del prof di storia, dalla sua testa spunta una bolla enorme. Sembra una palla di fango che gocciola sui suoi capelli. In mezzo a quella specie di gelatina marrone compaiono a tratti dei visi, irriconoscibili. Vorrei urlare, ma la voce mi rimane strozzata in gola.
< Che ti prende?> mi chiede Eleonora, di nuovo al mio fianco.
< N-niente…> riesco a borbottare distogliendo lo sguardo dal professore per posarlo su di lei.
Grazie al cielo non ci sono lombrichi marroni. Ne sembra immune.
< Ah!> mi lascio sfuggire, guardandola.
< Sicura di stare bene?> chiede corrugando la fronte.
< Ah-aaah> annuisco cercando di essere convincente.
Forse non ha bolle marroni che le spuntano dalla pelle, ma attorno a lei è sparita l’aura di serenità che ha di solito. Non ci sono insetti o animaletti simpatici che le si arrampicano addosso. Anche il colorito sembra più pallido.
Ora devo pensare a come superare le restanti ore senza farmi prendere da una crisi isterica o vomitare addosso a qualcuno. Delle due prospettive, non so quale sia la peggiore. Forse la possibilità che si verifichino insieme.
Il prof di storia apre il suo quaderno di appunti. Perché poi dovrebbe averlo? Non dovremmo essere noi quelli con gli appunti? Mi concentro su dettagli del genere per evitare di fissare direttamente i miei compagni o l’insegnante. Cosa più difficile a farsi che a dirsi. Provate a stare in una stanza piena di persone e a non guardare nessuno, dando però l’idea di essere concentrati sulla lezione. Pressoché impossibile. Per fortuna il prof di storia non brilla per attenzione nei confronti di chi l’ascolta. Più che fare lezione, si limita a raccontare con voce monocorde quanto ha scritto sul suo quaderno. Di solito alzo la mano e sparo una domanda a caso solo per interrompere quel monotono spreco di sillabe. Ma oggi non sono proprio in vena. L’unica domanda che mi viene in mente comporterebbe una sirena e tanti medici in camice bianco che mi dicono di calmarmi e non cercare di strappare a morsi la camicia di forza.
Fisso il foglio bianco che ho davanti, stringendo la penna fino a farmi sbiancare le nocche. Ho rimesso le cuffie e riesco a sentire la voce del professore sotto la musica dei Green Day. Nessun pensiero molesto. Per fortuna l’mp3 funziona ancora. Cerco di prendere appunti concentrandomi solo sulla lezione, senza alzare gli occhi dal banco. Non è facile. Soprattutto per la mia innata tendenza a distrarmi e evitare di ascoltare le lezioni. Troppe distrazioni. Questa volta l’unica salvezza è proprio seguire le parole del prof.
Riempio un foglio dopo l’altro con la mia calligrafia piuttosto disordinata. La verità è che non ho nemmeno una calligrafia che possa considerarsi mia. Scrivo almeno in una decina di modi diversi. Un esperto che si trovi davanti la mia scrittura da analizzare giungerebbe alla conclusione che si tratta di uno scherzo orchestrato da una ventina di persone diverse che hanno scritto a turno sul foglio.
Quando suona la campanella che pone fine anche alle due ore di storia, mi sembrano le campane del Paradiso. Sempre che in Paradiso ci siano campane che suonano. Guardo il prof uscire dall’aula portandosi dietro la sua massa di fango marrone sulla testa. Disgustoso.
Mentre aspettiamo che arrivi l’insegnante di scienze, accade di nuovo. Anche se ho lo sguardo puntato sul banco, avverto le immagini intorno ai miei compagni tremare e fondersi. Nelle orecchie sento il fruscio di un’interferenza radio. La gola mi si blocca in un grumo di panico. Questa volta dura più a lungo. Secondi eterni che gocciolano faticosamente nei miei polmoni bisognosi d’aria.
Sto per buttarmi a terra in cerca di ossigeno, quando le orecchie tornano a funzionare all’improvviso e posso di nuovo respirare. So di avere il viso paonazzo, perciò mi prendo un paio di secondi per calmarmi. Solo allora mi rendo conto dell’atmosfera di festeggiamento nella classe.
< Che succede?> chiedo a Eleonora.
< La prof di scienze non c’è. Ci fanno uscire un’ora prima> mi dice allegramente ritirando l’astuccio e il diario nello zaino. Metà dei nostri compagni sono già usciti, aggiungendosi alla massa di studenti che stanno tornando a casa.
Finalmente una buona notizia!
Ritiro tutta la mia roba nel tempo che una persona normale impiega per rimettere il tappo alla penna e mi avvio fuori seguita da Eleonora.
< Che entusiasmo! E non era nemmeno giorno di interrogazioni…> dice mentre ci inseriamo nel flusso di studenti che scendono le scale.
< Ho voglia di tornare a casa…> rispondo.
E dormire almeno per venti ore filate, aggiungo solo mentalmente.
Non voglio più vedere nessuno finché queste orrende bolle marroni non saranno sparite.
Insomma, deve esserci una fine alle schifezze che sono costretta a vedere.
Scendiamo i cinque piani di scale che ci separano dall’uscita alla velocità di un bradipo ubriaco. Sono arrivata a contemplare l’ipotesi di gettarmi da una finestra per fare prima. Ma temo che arrivare a casa con una gamba rotta sia piuttosto complicato.
Ci facciamo strada nell’entrata affollata di studenti usciti dal bar, corredati tutti da tante graziose bolle marroni che escono dalle parti più impensate, e nel cortiletto che dà sul marciapiede. Il cancello aperto è quasi ostruito dalla massa di ragazzi uscenti.
Mentre siamo in coda, Eleonora mi rifila una gomitata di tutto rispetto tra le costole.
< Hai visto quello?> chiede.
Mi volto in cerca di chi ha attirato la sua attenzione.
< Non mi sembra della nostra scuola, deve essere più grande> continua.
Finalmente capisco a chi si riferisce.
Accanto ad un albero, appoggiato al tronco con aria indifferente c’è un ragazzo alto e… beh, bellissimo. Sembra un modello da copertina.
< Deve essere alto un metro e novanta!> dice lei, con un bisbiglio eccitato.
Alle nostre spalle alcune ragazze hanno notato il tipo e commentano senza andare tanto per il sottile. Sono molto felice di non sentire i loro pensieri. Ho paura di cosa potrei trovare nelle loro menti.
< Non credo, al massimo uno e ottantacinque> dico tanto per dire qualcosa.
< Ma l’hai visto?> continua Eleonora mentre procediamo a passo di lumaca. Ancora un paio di anni e forse raggiungeremo il marciapiede. Coraggio, Alice, non mollare.
In effetti il ragazzo è molto bello, ma non è quello a turbarmi. C’è qualcos’altro. Mi costringo a osservare i capelli ricci che gli ricadono morbidi attorno al viso, della stessa tonalità ambrata della pelle. Un viso perfetto con incastonati due occhi azzurro cupo che brillano attenti mentre scruta la folla di studenti in uscita. Mentre scrutano me.
< Ti sta guardando> mi conferma Eleonora all’orecchio.
Il mio cuore salta un battito. Poi capisco il perché non posso fare a meno di osservarlo. Intorno a lui, ragazzi e ragazze si muovono portandosi dietro le loro orrende bolle marroni, e le immagini dei loro pensieri brillano come fuochi d’artificio. Lui invece è l’unico ad essere assolutamente privo di immagini. Appena me ne rendo conto i suoi occhi scivolano su di me, riprendendo a scrutare la folla. Tiro un sospiro di sollievo.
< Credi che stia aspettando qualcuno?> chiede Ele.
Siamo arrivate al cancello, grazie al cielo.
In mano il ragazzo tiene un cellulare argentato e gli lancia continue occhiate.
< Probabile> riesco finalmente a rispondere.
In quel momento noto anche la ragazza. Non deve avere più di vent’anni ed è anche lei molto bella. Il viso pulito, la carnagione pallida in contrasto con i capelli castani che tiene in parte legati in piccole treccine. I lineamenti dolci sono però tesi in un’espressione preoccupata.
Ormai sono diventata brava a leggere le espressioni. Anche su di lei non vedo traccia di bolle o altre immagini. La tentazione di avvicinarmi è fortissima.
La ragazza afferra il braccio del ragazzo e gli mormora qualcosa all’orecchio indicando verso il semaforo all’angolo. Guardo anche io in quella direzione e per poco non mi metto ad urlare. E’ come se un enorme buco nero avesse avvolto i ragazzi che stanno aspettando il semaforo verde. E capisco anche che le disgustose bolle sugli studenti, in qualche modo hanno origine da quella cosa. Intorno ad essa, infatti, le masse gelatinose sono più grosse e scure, mentre si diradano allontanandosi, facendosi anche più chiare e sbiadite.
Mi blocco in mezzo al cancello aperto e Ele è costretta a trascinarmi via prima che la folla mi calpesti.
Nel frattempo il ragazzo ha puntato il cellulare nella direzione indicatagli dalla ragazza e ha esclamato qualcosa che non sono riuscita a cogliere. Ma non sembra nulla di buono.
< Smettila di fissarlo, o se ne accorgerà> dice Eleonora.
< Come?> chiedo, ancora scioccata da quanto ho appena visto. Mi tremano un po’ le gambe.
< Il ragazzo. Lo so che è bello ma lo stai guardando come se non ne avessi mai visti in vita tua>.
E’ così! vorrei risponderle. Non ho mai visto niente di più orrendo in vita mia. Quella massa nera là in fondo, intendo. Non quel povero ragazzo dal viso da angelo che con ogni probabilità potrebbe spiegarmi che sta succedendo.
Devo almeno provare a chiedere.
Mi volto per tornare indietro, ma sono già spariti. Anche il buco nero non esiste più, ma alcune bolle marroni sono rimaste tutto attorno e volteggiano in particolare su alcuni ragazzi.
< Oh, è già andato via> dice Eleonora con un sospiro di rimpianto.
< Magari domani lo vediamo di nuovo!> dice speranzosa.
Non so se sperarlo anche io. Preferirei non rivedere né lui né le masse di gelatina marrone. Il mio stomaco ha dei limiti di sopportazione. E oggi sono andata pericolosamente vicino a superarli.
< Eccola!> dice Ele indicando il lato opposto della strada, dove sua madre la sta aspettando in macchina.
Loro abitano fuori città, perciò la madre viene a prenderla nella pausa pranzo per portarla a casa.
< A domani> mi urla mentre attraversa.
Rispondo al saluto e proseguo verso la fermata del pullman. Dall’altra parte della strada è parcheggiato un camper. Sembra che sopra non ci sia nessuno eppure avverto una forte energia provenire da lì. Sento una vibrazione interna, come se fossi troppo vicina alla cassa di una radio sparata a tutto volume. Non ci faccio troppo caso. Probabilmente sopra ci sono alcune persone e le vibrazioni che sento sono i loro pensieri che mi arrivano attutiti.
Raggiungo la fermata del pullman, strapiena di altri studenti in attesa. Anche oggi mi toccherà aspettare il secondo autobus per tornare a casa. Ma non importa. Sono fuori da quell’inferno e non ho intenzione di tornarci. Domani inventerò una scusa per restare a casa. Fossi anche costretta a ficcarmi due dita in gola e vomitare la colazione nel water, o sul tappeto del salotto. Dipende da quante storie faranno i miei per lasciarmi stare a casa.
Il primo autobus arriva e gli altri ragazzi ci si buttano sopra come se fosse l’ultima scialuppa di salvataggio durante l’affondamento del Titanic. Sono talmente pigiati l’uno sull’altro che mi chiedo se dentro al pullman è rimasto abbastanza ossigeno per tutti. Forse qualcuno perderà conoscenza prima che arrivino alla fermata successiva.
Il pullman riparte come un elefante obeso con due ippopotami sulle spalle. Una similitudine che, vi garantisco, è molto azzeccata.
Mi siedo sulla panchina rimasta vuota, in attesa. Grazie alla musica non sento i pensieri della ragazza di quarta ginnasio che è rimasta a terra insieme a me. La ricordo vagamente per averla incrociata un paio di volte nei corridoi. E poi è difficile dimenticarla visto che attorno alla testa ha sempre una coroncina di fiori cangianti. Ovviamente solo io posso vederli.
Per fortuna non devo aspettare molto prima che arrivi il secondo pullman. Nel frattempo è arrivato alla fermata un altro ragazzo, trafelato per la corsa. Non credo di averlo mai visto, anche se ha sulle spalle uno zainetto nero ed è quindi probabile che arrivi dal mio stesso liceo. Lo osservo di sottecchi mentre il pullman si ferma e apre le porte. Neanche su di lui c’è traccia delle bolle marroni. Mi blocco con un piede a mezz’aria quando mi accorgo che non c’è nemmeno traccia dello schermo piatto su cui di solito vedo i pensieri. Come i due ragazzi che erano fuori dal cancello. Spalanco la bocca per parlare, ma lui è già salito. Salto anche io dentro all’ultimo secondo, mentre le porte si chiudono.
Il ragazzo si è seduto sul fondo, in un angolo vicino al finestrino. Vorrei fiondarmi su di lui e chiedergli spiegazioni, ma mi rendo conto che sarebbe assurdo.
Nella mia testa si svolge l’intero dialogo che ne verrebbe fuori.
“Ciao, come va? Volevo sapere perché non hai nessuno schermo ultrapiatto su cui posso vedere i tuoi pensieri. Sai, di solito con gli altri funziona così”.
“?”.
“ Sì, insomma, cosa fai di particolare? Magari segui una dieta. Oppure non pensi. Dimmi, tu pensi?”.
“Ecco, a dire il vero…”.
Me lo vedo mentre si stringe al petto lo zaino prima di schizzare fuori dal pullman alla prima fermata.
Decido saggiamente di mantenermi a debita distanza e di osservarlo con attenzione. Non dimostra più di diciassette o diciotto anni. Ha i capelli biondi che si allungano in un sottile codino sulla spalla e il lineamenti ancora arrotondati, da bambino. Guarda fuori con le labbra socchiuse, tra cui si intravedono i denti davanti un po’ sporgenti. Dall’aspetto sembra un ragazzo normalissimo, addirittura banale. Tranne per il fatto che è l’unico in tutto il pullman che non ha immagini psichedeliche che gli volteggiano attorno.
Si porta un telefonino argentato all’orecchio e comincia a parlare. Ho come un dejà-vu, ma non riesco a capire perché. Tiene una mano davanti alla bocca, come se temesse che qualcuno gli legga il labiale.
Sono talmente concentrata su di lui che per poco non mi perdo la mia fermata. Me ne accorgo all’ultimo e salto giù con un balzo da atleta professionista. Solo quando sono sul marciapiede mi rendo conto di quanto sono stata stupida.
Avrei almeno potuto attaccare bottone col ragazzo per saperne qualcosa in più. Non che sia un’esperta del settore, ma non è che abbia una dignità da difendere, ormai. Quindi anche una figuraccia con uno sconosciuto non mi preoccupa più di tanto.
Il pullman però è già al semaforo, troppo lontano anche per un corridore della maratona.
Quando finirà questa giornata?
Arrivo al mio palazzo e prima di entrare devo tenere la porta alla signora del quinto piano. Quella che ha tre barboncini soffici come zucchero filato e simpatici come delle iene. L’ultima volta che ho dimenticato le scarpe sul pianerottolo le ho trovate fatte a pezzi della dimensione di coriandoli. La simpatica signora continua ad insistere che non possono essere stati i suoi angioletti, ma dato che sono gli unici animali del palazzo sono piuttosto propensa a non crederle.
< Grazie, cara> dice la signora Martini uscendo in strada con le sue tre belve al guinzaglio. In dieci anni che abitiamo nel palazzo non ha ancora imparato il mio nome.
Mi vedo riflessa nei suoi pensieri come una ragazzina spaurita che tiene gli occhi bassi. Il che, ad essere sinceri, è quello che sto facendo. Ma dura poco. Subito i suoi pensieri tornano alle sue adorate creature che le zampettano attorno. E’ una delle persone più ridondanti che mi sia capitato di vedere. Sembra che i cani attorno a lei siano moltiplicati. Ora ne vedo almeno una decina. E sono perfettamente sobria.
Finalmente raggiungo il quarto piano, dopo aver fatto- anche qui- le scale.
Cosa hanno oggi gli ascensori?
Apro la porta, entro nel salotto, e mi è subito chiaro che non dovrei essere lì.
Sul divano ci sono degli arti aggrovigliati e per un attimo penso che si tratti dei resti di qualche macabro scherzo. Poi gli arti si muovono, si ricompongono e si dividono nei rispettivi corpi. Si tratta di mia sorella e un ragazzo che ho già visto un paio di volte, mezzi nudi. Per fortuna hanno ancora i pantaloni.
Il viso di mia sorella è paonazzo. Il ragazzo- Matteo forse?- si sta infilando di nuovo la maglietta, ma anche così vedo che sta pensando ansiosamente a qualche giustificazione. Non si è nemmeno accorto che sono la sorella e non la madre della ragazza che si stava allegramente sbattendo sul divano.
< Che diavolo ci fai qui?> chiede Serena con voce acuta. Così acuta che credo abbia superato qualche legge fisica sui suoni.
Sono talmente sorpresa che non riesco a formulare una risposta di senso compiuto. Forse è dovuto al fatto che lei è in reggiseno e sta pensando a molte cose violente che vorrebbe provare, su di me. Provate voi a parlare con qualcuno che ha scritto in fronte che vi vuole uccidere.
< Uhm, finito prima la lezione…?>.
Ok, non è una vera risposta col punto interrogativo alla fine, ma non è che mi fosse rimasta molta prontezza di spirito per risultare convincente.
< Ma che finito prima!> urla lei alzandosi in piedi.
< Hai di nuovo saltato la scuola, vero? Aspetta che lo sappiano mamma e papà…> grida, il viso sempre più rosso.
Matteo ha finito di rivestirsi ed è già sparito nell’entrata. In un attimo ha guadagnato le scale.
< Ti chiamo dopo> sento che dice mentre è sulla porta.
Ma mia sorella sembra del tutto dimentica di lui. La sua attenzione è tutta per me.
Che fortuna!
< Sei la solita bugiarda!> sta urlando intanto mia sorella.
Lo so che non dovrei prendermela. In fondo li ho interrotti in un momento delicato. Ma non è nemmeno colpa mia se non hanno preso la semplice precauzione di chiudersi in camera. Si trattava di fare una decina di passi in più nel corridoio e girare una chiave nella serratura.
Vorrei farglielo notare, ma le parole mi si incastrano in gola mentre i pensieri di Serena si avventano su di me come corvi su un cadavere. Per i suoi occhi sono una figura patetica e maligna spuntata fuori per rovinarle la vita. L’immagine che ha di me è così miserabile che mi viene da piangere solo a guardarla.
Quindi è così che la mia stessa sorella mi vede. Un esserino patetico e ritardato con la bava alla bocca.
Beh, la bava alla bocca è un’invenzione mia, ma credo che non ci voglia molto perché faccia anche quell’aggiunta.
Mi tappo le orecchie con le mani per evitare di sentire i suoi insulti mentali, decisamente più numerosi di quelli che sta urlando. Lei lo prende come un affronto personale.
< Ascolta quando ti parlo!> urla sempre più infuriata.
A dire il vero ascolto anche quando stai zitta… vorrei dire.
< Almeno rispondimi, non stare lì muta come un pesce lesso!>.
Ci sono davvero tante cose che le direi, se solo smettesse per un attimo di martellarmi la mente con i suoi pensieri. Le immagini si espandono attorno a lei, invadendo l’intera stanza. Mi rivedo specchiata in una decina di posti diversi, come in una casa degli specchi. Ogni immagine più assurda. In un angolo vedo il mio viso con gli occhi spalancati e lucidi come quelli di un pesce palla.
< Rispondimi!> grida mia sorella.
Rispondimi. Di’ qualcosa!
Stupida! Stupida!
I suoi pensieri mi feriscono le orecchie come artigli.
Ritardata di una sorella!
Stronza!
Non posso più sopportare di starla ad ascoltare. Scappo in camera sbattendomi la porta alle spalle. Chiudo a chiave con il respiro affannato e mi butto sullo stereo alla scrivania. Lo accendo al massimo del volume e mi lascio scivolare a terra. Finalmente posso scoppiare in lacrime, sola con i miei pensieri che, a dirla tutta, non sono poi gran cosa.
Vengo scossa da dei conati e mi piego in due sul tappeto. Ho ancora lo zaino e la giacca. Mi libero di entrambi lasciandoli in mezzo alla stanza. Mi sento soffocate e mi libero anche della felpa.
La cosa peggiore è che, durante il litigio con mia sorella, ne ho avvertito distintamente il disprezzo. E’ stata come una doccia gelata, condita da un bel pugno nello stomaco.
Fa male.
Mi alzo e butto giù dalla scrivania tutto quello che c’è sopra.
Mi fa sentire meglio.
Il portapenne di latta rotola sul pavimento sparpagliando biro e pennarelli in tutte le direzioni. I quaderni cadono in un ammasso di fogli spiegazzati e un soprammobile orrendo che mi hanno regalato i miei va in pezzi. La musica copre il rumore.
Non è abbastanza.
Come una diga che comincia a cedere in un punto, la furia che sento non può più essere arginata. Il bisogno di distruggere tutto quello che mi passa per le mani è impellente. Mi piacerebbe avere una mazza da baseball. Allora sì che sarebbe divertente.
Prendo le coperte dal letto e le tiro fino a disfarlo del tutto. Non ha fatto nessun rumore.
Vado alla cassettiera sotto la finestra e apro il primo cassetto. Comincio a lanciare il contenuto in giro.
Sto diventando pazza, realizzo.
Chissenefrega.
Il vantaggio è proprio che non sono più responsabile delle mie azioni.
Mi dedico metodicamente al resto della camera. Con calma.
Quando mi fermo, sono sdraiata sul tappeto in mezzo alla stanza. Attorno a me c’è il caos più totale.
Ho il fiatone e alcuni graffi sulle braccia che non so come mi sono fatta.
E sto bene.
Benissimo.
Non conosco la musica alla radio. Ha un bel ritmo e mi metto a seguirlo con la testa, agitandola da un lato e dall’altro. Canticchio addirittura qualche strofa, stonando.
Intorno a me ci sono i resti del contenuto del mio armadio. Non c’è un solo soprammobile al proprio posto. I cassetti sono stati svuotati e il pavimento è coperto da uno strato di vestiti e biancheria, una volta puliti.
Mi sollevo su un gomito per ammirare l’opera appena compiuta. Un parte di me si chiede preoccupata come farà a mettere tutto a posto, ma non è quella predominante. Mi gira la testa per l’euforia.
La musica si ferma e sento bussare alla porta. A giudicare dalle grida è da parecchio che mia madre è arrivata e cerca di farsi aprire.
Mi alzo e spengo la radio. Ho i muscoli delle gambe irrigiditi, come quelli del collo e delle spalle. Mi guardo allo specchio appeso dietro la porta, rimasto intatto per miracolo. Nella mia momentanea pazzia forse ho preferito non attirarmi sette anni di sfiga. Non che le cose possano peggiorare più di tanto. Mi stupisco nello scoprire che il mio viso è normale, rilassato.
< Alice, apri subito questa porta!> sta urlando intanto mia madre.
Obbedisco socchiudendo la porta il necessario per affacciarmi in corridoio. Dietro mia madre, nella penombra, c’è mia sorella in lacrime.
< Che c’è?> chiedo impostando la voce sul tono più innocente che riesco a trovare.
L’euforia di poco prima non è ancora svanita. Mi sento forte, potente. All’improvviso mia sorella non mi fa più così paura. La guardo nell’angolo in cui si è messa, la faccia congestionata e gli occhi lucidi. Tira su col naso distogliendo lo sguardo. I suoi pensieri vorticano come una massa informe. Non ne distinguo nessuno in particolare e anche le sensazioni che sento provenire da lei sono così confuse che non riesco a capirle. E mi rendo conto che non le sento perché non voglio sentirle. E’ come se fossi riuscita a costruire un enorme muro che mi protegge dal resto del mondo.
Guardo mia madre e scopro che il muro tiene fuori anche lei.
E’ come se la vedessi per la prima volta. Solo il suo viso, le sue espressioni. Solo quello che anche gli altri possono vedere.
< Cosa stavi facendo?>.
La voce le trema. Anche lei ha gli occhi lucidi, ma è così pallida che sembra stia per svenire. Deve essersi precipitata a casa dal lavoro. Guardo di nuovo mia sorella. Si è ripresa abbastanza da ricomporre il viso in un’espressione calma.
< Niente> rispondo.
E’ meraviglioso sentire solo la propria voce.
< Fammi entrare> dice mia madre facendo un passo avanti.
Io mi metto in mezzo, chiudendomi la porta alle spalle.
< Lascia stare, mamma. Ho messo in disordine, dopo ripulisco> dico tranquilla.
Nemmeno io riesco a spiegarmi la pace che sento. Forse è per il mio mostrarmi così serena che lei non insiste. Esita e guarda mia sorella, come se non sapesse decidersi su cosa fare.
E capisco che non vuole altri problemi. Vuole credere con tutta se stessa che quello che è appena successo sia solo un banale litigio tra sorelle. Vuole credere che si è spaventata per nulla e che può tornare in ufficio. Non vuole pensare che sua figlia possa essere pazza, non dopo esserci passata tanto tempo prima.
Mi tornano in mente le numerose visite a tutti quei dottori. Così tanti…
Non ricordo i nomi di tutti, solo alcune facce. Ma mi basta quel pensiero perché la mia sicurezza vacilli, solo per un secondo.
< Ho fame, vado a prepararmi qualcosa per pranzo. Volete qualcosa anche voi?> chiedo avviandomi verso la cucina.
In questo modo so che sto lasciando la porta della camera incustodita. Ma non ho bisogno di leggere la mente di mia madre per sapere che tanto non ci entrerà. Perché ha paura di quello che potrebbe trovare. Ha paura che la sua vita vada di nuovo in pezzi.
Serena ci segue dopo una breve esitazione. Lei forse avrebbe controllato, ma non osa farlo con nostra madre lì presente.
E’ strano.
Non vedo più niente intorno a loro. Le immagini sono tutte sparite. Eppure mi sembra di poterle capire meglio di quando avevo libero accesso alle loro menti.
Forse perché prima ne venivo coinvolta. Ora c’è un muro che ci separa.
E pensare è così facile quando si è da soli nella propria testa!

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Capitolo 3
*** Colpo di testa 1 ***


Eccomi qui con un nuovo capitolo in tempo per augurarvi Buone Feste e Buone Abbuffate di cioccolato!
Come potete vedere dal titolo anche questo capitolo l'ho dovuto dividere a metà, perciò si interrompe un pò bruscamente e riprenderà nel prossimo che posterò il prima possibile^^ Buona lettura a tutti!




La sveglia mi strappa dal sonno trapanandomi il cervello. Per spegnerla mi giro con troppa foga sul letto calcolando male le distanze e finisco stesa a terra. La caduta viene attutita da uno spesso strato di oggetti non bene identificati.
Ieri sera non ho messo a posto. Lo so che l’avevo promesso, ma proprio non mi andava. E poi i miei sono usciti per una cena con degli amici e mia sorella si è chiusa in camera a studiare, perciò non è che rischiassi di essere scoperta.
Mi sono limitata a rimettere le lenzuola sul letto e tirar su i quaderni che stavano sulla scrivania. Oh, e ho buttato i resti dei soprammobili rotti dopo esserci finita sopra con un piede nudo. Il dolore è stato un potente stimolo.
Mi alzo in piedi scivolando su uno strato di vestiti, biro e libri scolastici. La stanza è ancora nella penombra della mattina presto. Scavo nei mucchi di roba sul pavimento in cerca di biancheria pulita. Guardo le mutande stropicciate che ho rinvenuto sotto una borsa chiedendomi se è igienico indossarle. Ma visto lo stato delle altre non ho molta scelta.
Trovo anche un paio di jeans blu quasi intonsi e una maglia nera a maniche lunghe di tessuto elasticizzato, quindi non ha bisogno di essere stirata. A giudicare dalla scollatura particolare, doveva essere di mia sorella.
Vado in bagno a farmi la doccia e visto che non ho voglia di lavarmi anche i capelli mi arrangio con una coda di cavallo. Qualche ciocca mi si arriccia un po’ sulle punte. Una volta pulita e vestita l’insieme non è così male. Guardandomi allo specchio mi sento quasi carina.
Arrivata in cucina mi accorgo che la pacchia è finita.
Il muro è crollato e intorno ai miei, seduti al tavolo, vorticano una serie di immagini da capogiro. Non ci sono più schermi piatti, ma le visioni si espandono tutto attorno creando un alone di luci e paesaggi.
< Ah, sei già pronta!> dice mia madre alzandosi e posando una tazza piena di latte sulla mia tovaglietta.
Sbatto le palpebre stupita non tanto dal suo gesto, quanto dalla serie di immagini che le vorticano attorno. Ci sono delle scarpe- le riconosco, sono quelle che deve portare a far aggiustare perché il tacco è consumato- una busta bianca, dei documenti, una lista della spesa e tante altre cose che si muovono troppo velocemente perché possa distinguerle. Il tutto su uno sfondo rosso scuro.
< Stai molto bene stamattina. Hai fatto qualcosa ai capelli?> chiede mentre mi siedo.
< Non li ho lavati> rispondo stupidamente.
Mio padre è sempre immerso nelle sue considerazioni, non bada molto a quello che lo circonda. Mia sorella brilla per l’assenza.
< Dov’è Serena?> chiedo per evitare altre domande sui capelli. Tutta quell’attenzione mi mette a disagio. Sono abituata a essere ignorata e lasciata a me stessa.
< Doveva vedersi con un’amica per colazione>.
Che tradotto vuol dire che doveva incontrarsi col ragazzo e finire quello che ieri avevo interrotto, capisco subito. Meglio, almeno i suoi pensieri mi sono risparmiati per un’intera mattinata.
< Davvero, tesoro, stai molto bene stamattina. Quella maglia è nuova?> mia madre torna all’attacco. Non molla la presa come un mastino da guardia che ha addentato un intruso.
< Era di Serena> taglio corto ingoiando una cucchiaiata di cereali.
“Il dottore dice di farla parlare ma non sa quanto è complicato…”.
I pensieri di mia madre sono una doccia gelata. Ecco spiegato l’improvviso interesse per i miei capelli. Ieri deve essersi spaventata abbastanza per chiamare di nuovo uno dei suoi dottori. Però non ne ha fatto cenno, quindi non si è spaventata abbastanza per chiedere una visita.
Lancio un’occhiata sospettosa a mio padre, ma i suoi pensieri sono innocenti. Da quel poco che sento si sta chiedendo quanto tempo ci vorrà per le pratiche che deve ancora sbrigare.
Mia madre annaspa alla ricerca di qualcosa da dire. Mi fa un po’ tenerezza vederla così in difficoltà, così cerco di venirle incontro.
< Oggi ho due ore di ginnastica. Per caso i miei pantaloni della tuta sono da stirare?>.
La vedo tirare un sospiro di sollievo.
< Te li ho messi ieri nel cassetto. Non li hai visti?>.
Il latte mi va un po’ di traverso. Tossisco cercando di deglutire allo stesso tempo.
Mio padre si accorge della mia presenza.
< Fai attenzione Alice> mi dice.
Annuisco mentre mi schiarisco la gola per parlare.
< Vado a farmi la borsa per la palestra>.
< Vuoi una mano? Ti prendo i pantaloni…> si offre mia madre.
< No! Ehm, volevo dire… non ce n’è bisogno, davvero, faccio in un attimo>.
Schizzo fuori dalla cucina così in fretta che mi lascio dietro una nuvoletta di polvere come nei cartoni di Beep Beep.
Entro in camera e mi chiudo la porta alle spalle. Sul pavimento ci sono alcuni mucchi di vestiti divisi per qualche strano motivo che non mi torna in mente. Tutta l’euforia del giorno prima ha lasciato spazio alla consapevolezza di essere nei guai. Comincio gli scavi.
Ai piedi del letto rinvengo lo zaino e la giacca. Alla fine del terzo mucchio trovo i pantaloni della tuta ai quali aggiungo una maglietta trovata lì in mezzo. Le scarpe da ginnastica per fortuna erano in bagno e sono scampate al disastro.
Riesco e rimettere insieme tutti i pezzi in un tempo quasi equo.
Prima di uscire mi guardo allo specchio. La coda alta mi piace. Credo che mi dia un’aria più adulta. E si vedono di più gli occhi grigio chiaro, contornati da una linea viola scuro e cinque pagliuzze intorno alla pupilla, come petali di un fiore, dello stesso colore. Sono occhi strani. Le poche volte che li notano mi chiedono se porto delle lenti. Ma dato che di solito tengo lo sguardo basso non capita tanto spesso.
< Io vado, ci vediamo stasera!> saluto i miei passando di corsa nell’entrata.
Mia madre urla qualcosa in risposta, a cui fa eco la solita raccomandazione di mio padre.
< Fai attenzione!>.
Me lo dice sempre. Qualsiasi cosa faccia. Non so se mi fa piacere, perché vuol dire che si preoccupa per me, o se mi da fastidio, perché crede che io non sia responsabile.
La fermata dell’autobus è deserta. Sono uscita prima del solito e anche il pullman che arriva è meno affollato. Non abbastanza per permettermi di sedermi, ma abbastanza perché non debba appendermi fuori dal finestrino.
Grazie alle cuffie tengo a bada i pensieri molesti, anche se questa mattina sono meno intensi del solito, mentre le immagini che avvolgono le persone si sono diffuse a riempire ogni spazio vuoto.
La signora davanti a me, che sembra una governante polacca di un secolo fa, è attorniata da tendine di pizzo bianco e tazze di ceramica.
Arrivata alla fermata della scuola mi gira la testa. Scendo e mi dirigo all’entrata del liceo con un passo leggermente più veloce del giorno prima. Nonostante tutto, mi sento di buon umore. Supero il camper che avevo già visto ieri e mi fermo all’attraversamento pedonale.
La musica dell’mp3 ha un bel ritmo, tengo il tempo mentre cammino.
Quando entro nell’atrio tutto il buon umore mi scivola addosso, lasciando il posto allo sgomento. I ragazzi che girano nell’atrio, gli insegnanti e i bidelli, tutti hanno quelle enormi bolle marroni attaccate addosso. E anche l’aura attorno sembra sporca, inquinata da quelle bolle. Mi blocco in mezzo all’ingresso guardando la scena a bocca aperta. So che dovrei muovermi, fare qualcosa, o per lo meno togliermi dal passaggio, ma proprio non posso farlo. Le gambe non si muovono.
Tutti i miei sensi mi stanno avvertendo che c’è qualcosa di strano, di sbagliato, in quello che sta accadendo.
Qualcuno mi urta da dietro e per poco non finisco distesa sul pavimento. Recupero l’equilibrio all’ultimo e mi volto per vedere chi mi ha spinto. Si tratta di un ragazzo di seconda che non si è nemmeno fermato per scusarsi. Su di lui incombe una serie di bolle gelatinose che sembrano un grosso lombrico.
Maria agita una mano da dietro il bancone nella mia direzione. Niente saluti urlati. Anche lei ha qualcosa di diverso, spento. La prima campanella mi avverte che se non mi do una mossa finirò per arrivare in ritardo anche oggi.
Stranamente l’ascensore non è più latitante. Ci metto un piede sopra per controllare che non sia uno scherzo. Sembra reggere bene il mio peso così salto dentro e premo il pulsante del quinto piano. Le porte si chiudono e comincia la lenta salita fatta di cigolii e tante preghiere perché non si blocchi come al solito.
Uno dei miei primi ricordi in questa scuola, quando ero matricola, è di quando sono rimasta bloccata in ascensore con un’altra decina di ragazzi. Invece di salire siamo finiti nel sotterraneo dove è dovuto venire a liberarci un bidello che ormai non c’è più, Pesce. Non ho ancora capito se era il suo vero nome o un nomignolo dovuto alla sua espressione poco sveglia. Certe domande ti segnano l’esistenza…
Questa volta l’ascensore fa il suo dovere, anche se con esasperante lentezza, e mi porta al quinto piano senza incidenti. In classe ci sono già quasi tutti, seduti ai propri posti. Eleonora solleva lo sguardo dal libro che sta leggendo e mi saluta.
Anche qui le masse gelatinose prosperano in ogni dove. Persino il verde brillante dell’aura di Eleonora è chiazzato da macchie marroni color fango.
< Pronta per filosofia?> chiede mentre mi siedo.
Borbotto una risposta affermativa, troppo concentrata nel guardarmi attorno.
Nell’aula tira un’aria più pesante del solito, e non intendo dire che dobbiamo aprire le finestre. Gli altri sono nervosi, quasi stessero soffrendo tutti insieme della sindrome premestruale, pure i pochi ragazzi.
Entra il prof che non aspetta nemmeno la campanella per annunciare che ha deciso di fare un’interrogazione a sorpresa. Il gelo che piomba sulla classe è avvertibile anche da chi non può vedere i colori intorno ai ragazzi farsi più cupi.
< Ma prof, non può! Non ci ha avvertiti!> grida Erica, la rappresentante della classe, una ragazza dai capelli biondi ossigenati e il piglio di un comandante dell’esercito.
< Sono l’insegnante! Non ho bisogno di avvertire nessuno se decido di interrogare!> ribatte il prof.
Tutti i miei compagni guardano speranzosi verso Erica, tifando perché riesca a spuntarla.
Mi scopro a fare anche io il tifo, mentre tengo d’occhio le bolle marroni. Quella del prof è aumentata rispetto al giorno prima.
< Ma se interroga oggi sarà una strage per tutti! Questo è l’anno della maturità, non può fare uno scherzo del genere…>.
< Posso e lo faccio. Tu sei la prima> il tono del prof non ammette repliche.
Nella classe scoppia il panico. Una in prima fila scoppia a piangere. Si tratta di Chiara, una ragazza alta e dalla voce acuta che sta sempre per i fatti suoi.
I colori delle aure cominciano a pulsare e lanciare lampi colorati. E’ il caos più totale. Alcuni stanno meditando se uscire prima.
Erica si alza e va alla cattedra, pallida.
Ho ancora le cuffie, ma mi basta vedere le bolle marroni agitarsi e volteggiare sulle teste delle persone per capire lo scompiglio creato dal prof, senza bisogno di sentire i pensieri.
L’ora passa in un’agonizzante susseguirsi di attimi di panico quando il prof deve scegliere la vittima successiva. Eleonora viene scelta per terza e si avvia alla cattedra come un condannato a morte. So che non ha studiato. Nessuno l’ha fatto!
L’unico tranquillo è Stefano. A quanto pare ieri sera non aveva nulla da fare e l’ha passata sul libro di filosofia. Ma come si può non avere nulla da fare a diciannove anni?
Beh, parlo io che non esco nemmeno per andare al cinema…
Eleonora torna al suo posto con una smorfia così avvilita che non oso chiederle come è andata. Il prof intanto sta scegliendo il quarto malcapitato ma la campanella ci salva.
Si sente un respiro di sollievo collettivo mentre il prof mette a posto il registro e esce dalla classe.
E’ l’ora di ginnastica. In assoluto la materia peggiore.
Provate a giocare a pallacanestro sapendo esattamente dove vogliono andare i vostri avversari, cosa vogliono fare e da dove vogliono tirare, ma sapendolo di tutti e in contemporanea. Poi provate a muovervi per il campo.
Ecco, appunto.
< Andiamo in palestra, che è meglio> dice Eleonora con un sospiro lunghissimo. Alla fine mi chiedo se le è rimasta un po’ d’aria nei polmoni.
< Andata male?> azzardo.
< Lasciamo perdere>.
Ok.
Nello spogliatoio ci cambiamo tra i commenti malevoli rivolti al prof di filosofia. Il meno violento è quello dove gli auguriamo di finire sotto un camion, e poi di essere investito di nuovo in retromarcia. Eleonora riesce addirittura a fare un pallido sorriso nel sentirlo.
Scopro che la maglietta che ho raccattato stamattina mi va stretta. Deve risalire ai tempi delle medie. Mi tira sul petto come se stesse per esplodere, contrastando con i pantaloni talmente larghi che devo fare due giri con il cordino in vita per non farli cadere. L’insieme è piuttosto comico.
Ci raduniamo tutti in una palestra, dove troviamo ad attenderci anche un’altra classe. Oggi ci tocca fare lezione insieme.
< Bene, ragazzi, facciamo palla prigioniera> ordina la prof di ginnastica.
L’ululato di approvazione dei ragazzi rimbomba fino al soffitto alto. Le ragazze fanno smorfie sdegnate.
< Fate le squadre> dice la professoressa, sedendosi sulla sua sedia in un angolo e tirando fuori il cellulare di ultima generazione. Non ha fatto nemmeno lo sforzo di mettersi le scarpe da ginnastica. Indossa dei jeans così attillati che sembrano tatuati addosso e i tacchi a spillo.
Non mi importa di cosa fa, basta che non si accorga che ho addosso le cuffie dell’mp3.
I due capisquadra cominciano e scegliere i giocatori. Vengo presa quasi subito da quello dell’altra classe. Vedo i miei compagni che si scambiano dei sorrisetti. Stanno pensando che è stata una fortuna che sia stata scelta dall’altra squadra, così non potrò fare danni nella loro. Non li ho sentiti, ma non faccio fatica a capirlo. Il poveretto che mi ha scelto non ha idea di cosa combino in campo. Si è lasciato ingannare dall’aspetto quasi atletico ereditato da mia madre e dal fatto che sono l’unica ragazza che non ha passato l’ultimo quarto d’ora a pettinarsi i capelli con le dita per renderli più voluminosi. Cosa che invece le mie compagne hanno fatto fino a pochi secondi fa.
Inizia la partita senza nemmeno bisogno che la prof dia il via, troppo concentrata sul suo cellulare.
Evito il primo tiro per puro caso, mentre mi abbasso per legarmi i lacci delle scarpe la palla mi passa sopra la testa. Qualcuno ridacchia, ma non sono sicura di essere io la causa.
Grazie all’mp3 è più facile muovermi senza essere distratta, ma le immagini che attorniano tutti i miei compagni di squadra sono sempre lì e più sfolgoranti che mai, gelatina marrone a parte. Ma durante la partita sembra che le bolle si riducano, ritirandosi e sbiadendo, come se il movimento le consumasse.
Dal corpo di un ragazzo dell’altra classe, un tipo mingherlino con i capelli color topo, spuntano strani tentacoli che si allungano in tutte le direzioni. Sembra che cerchino di afferrare i ragazzi che gli passano accanto, ovviamente senza risultati. Cerco di tenermi alla larga. Anche se so che non possono toccarmi, non mi voglio trovare alla loro portata.
Nell’altro campo Stefano si prepara a tirare. Istintivamente mi porto le mani alla testa per proteggermi. Tutti quelli che conoscono i tiri di Stefano fanno lo stesso, abbassandosi. La palla parte alla velocità di un proiettile sparato da un cannone e mi centra in pieno sul fianco. Se si fosse trattato solo della pallonata, non sarebbe stato un grosso problema. Ma dato che mi trovo vicino al muro e alle spalliere di legno, e dato che la pallonata mi ci spinge contro come se mi avesse colpito Hulk in persona, la cosa diventa più problematica. E dolorosa.
Per alcuni secondi la botta in testa mi fa vedere le stelle. Intendo letteralmente. Tanti puntini luminosi danzano davanti ai miei occhi mentre pensieri e rumori mi invadono il cervello. Ho perso le cuffie e sono sotto il tiro incrociato di ragazzi preoccupati e altri che se la ridono.
< Fatemi passare! Cosa è successo?> urla la prof facendosi largo nella calca. Ha ancora il cellulare in mano.
< Tutto bene?> chiede piegandosi su di me. Sta pensando ai problemi con l’assicurazione nel caso debba andare in pronto soccorso.
Annuisco con attenzione, cercando di muovere la testa il meno possibile. Colgo l’occasione al volo, prima di subire altri danni o provocarne.
< Posso andare in infermeria?>.
< Va bene> dice subito lei.
Poi abbassa gli occhi. Vede il filo delle cuffie.
< La prossima volta impari a non metterti la musica nelle orecchie durante la lezione>.
Non mi sembra degna di una risposta.
Il caposquadra mi aiuta ad alzarmi mentre Eleonora appare al mio fianco. Il ragazzo, un tipo alto e dal fisico atletico, mi scruta per alcuni istanti.
< Sicura di star bene?> mi chiede.
Mi accorgo che continuo a stringergli la mano osservando i complicati tatuaggi che appaiono e scompaiono sul suo braccio.
< Benissimo!> dico lasciandolo andare come se scottasse.
< Scusa…> aggiungo, non so perché.
< Tranquilla, vai pure a riposarti!> dice tornando in campo.
< Ti accompagno?> chiede Eleonora.
< No, grazie. Vado da sola>.
Mi avvio all’uscita ondeggiando un po’. Dovrei cambiarmi, ma in questo momento non ne ho la forza. Esco nel corridoio e mi dirigo verso l’infermeria, che in realtà non è altro che una stanzetta minuscola con un lettino e una poltrona, un armadietto sempre vuoto, tranne che per un termometro, e una scrivania. La porta è proprio di fronte a quella dell’Aula Magna, quindi vicino al bar. Non proprio il posto più tranquillo. Mi sono rimessa le cuffie, ma una si è rotta.
Mi stendo sul lettino chiudendo gli occhi e pregando che il pavimento si apra per inghiottirmi.
Fuori dal bar ho visto altri ragazzi ricoperti dalla gelatina marrone che si fa sempre più scura e disgustosa.
Anche la musica mi da fastidio, così la spengo e resto immersa nel silenzio dello stanzino. Dall’esterno sento i rumori della scuola e i pensieri mi arrivano come un ronzio ovattato. Si sta bene. Potrei restare qui per le prossime due ore. L’idea mi solleva un po’ il morale. Mi metto comoda per farmi un sonnellino, quando la luce nella stanza si abbassa di colpo.
Mi alzo a sedere di scatto, cercando di capire cosa è successo. Dall’esterno entrano i raggi del sole, ma è come se si fosse alzata una spessa nebbia scura nella stanza. Vado alla porta e la socchiudo. Il sangue mi si gela nelle vene.
Di nuovo quell’enorme buco nero che sembra inghiottire ogni cosa. Le forme e i colori vengono attratti da una forza invisibile che risucchia anche il calore. Questa volta, però, vedo cosa nasconde tutta quell’oscurità. Si tratta di una ragazza di quinta. La conosco di vista perché l’anno scorso le nostre aule erano vicine. Si chiama Silvia. Ha il viso tirato e le occhiaie, come se non dormisse da giorni. E’ vestita con un semplice abito a fiori e tiene i capelli scuri legati in uno chignon sulla nuca. Il ritratto dell’innocenza. Non fosse per l’oscurità che diffonde dalla sua pelle e invade il corridoio.
Mentre passa davanti alla porta mi guarda negli occhi e un guizzo li attraversa. Sono così terrorizzata che non riesco a muovermi. L’aria è diventata più fredda e rabbrividisco nella mia tenuta leggera.
Silvia gira verso l’Aula Magna, sparendo dietro la porta azzurra. La luce torna nel corridoio e vedo la seconda cosa che mi lascia senza fiato.
Il ragazzo e la ragazza del giorno prima avanzano nel corridoio, seguiti dal tipo biondo del pullman e un quarto ragazzo. Li guardo sfilare davanti alla porta, si muovono veloci e fluidi, come se sapessero esattamente dove andare e cosa fare. Indossano tutti e quattro degli strani abiti grigi, leggermente lucidi. Si tratta di semplici pantaloni e maglie a maniche lunghe, ma così simili da dare l’impressione di essere una divisa.
Prima che spariscano anche loro nell’Aula Magna, l’attenzione cade sull’ultimo ragazzo. Cammina dietro gli altri, con le spalle un po’ curve e le mani in tasca. Ad un primo sguardo sembrerebbe capitato lì per caso, ma vedo che scruta in giro circospetto e concentrato. I capelli neri gli coprono il viso ed è solo quando si volta nella mia direzione che riesco a vederlo bene. Ha gli occhi più verdi che abbia mai visto. Ma quello che mi colpisce è uno strano luccichio che vedo brillare per un secondo, prima che segua gli altri fuori dalla mia visuale.
La curiosità lotta con la paura per qualche istante, prima che decida di uscire con una scrollata di spalle. Peggio di così…
Mi aggiungo alla strana processione che si è introdotta nell’Aula Magna. Le pareti arancioni dell’anticamera contrastano col gelo che proviene dall’interno. Le luci sono spente a avanzo nella penombra. Quando arrivo all’entrata del salone, davanti a me si allunga il corridoio in discesa tra le due file di poltrone, come in un teatro. In fondo, vicino al palco, c’è la scena più strana che potessi immaginare. In mezzo c’è Silvia col vestito a fiori a brandelli, l’ombra l’avvolge e si espande verso l’alto come un fumo denso e nero. Gli altri quattro, vestiti di grigio, tengono in mano delle sfere argentate e stanno in cerchio, intorno a lei.
< Ora!> grida la ragazza e gli altri tre si muovono al suo comando.
Accadono troppe cose contemporaneamente perché riesca a registrarle tutte. I quattro fanno lo stesso movimento con la mano che regge la sfera argentata, disegnando un cerchio nell’aria. Davanti ad ognuno di loro si apre uno specchio circolare di luce e prima che abbia il tempo di fare qualsiasi cosa sono spariti all’interno.
Ho iniziato a correre verso il palco senza averlo deciso coscientemente. Le mie gambe si sono mosse e io mi sono trovata a correre sulla scia di quei quattro. I cerchi d’argento sono già svaniti. Continuo a correre verso Silvia mentre davanti al suo petto si apre il famigliare schermo ultrapiatto. Lei mi sorride, come se mi desse il benvenuto, ma i suoi occhi sono vuoti e completamente neri. Non sono i suoi occhi. E’ troppo tardi per fermarmi quando mi accorgo che non dovrei essere lì. Ma invece di finirle addosso, come mi ero aspettata. Passo attraverso lo specchio davanti a lei.
L’Aula Magna sparisce. Le luci si spengono.

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Capitolo 4
*** Colpo di testa 2 ***



Ciao a tutti! Come promesso ecco la seconda parte del capitolo^^ Spero che la troverete interessante!
Avviso per chi segue anche l'altra storia: purtroppo questa settimana salterò la pubblicazione, ma non temete, Theo tornerà presto in tutta la sua imbranataggine e in più ci sarà anche una sorpresa a cui ho lavorato molto... ma ovviamente non vi dico cosa ;)
Grazie a tutti quelli che stanno seguendo le mie storie. Buona lettura!





Mi sento tirare in una decina di direzioni diverse. Una forza mostruosa mi trascina via, in un risucchio senza fine. Cerco di urlare, ma non sento nulla. Anche i suoni sono stati spenti.
Poi tutto finisce e mi trovo a ruzzolare su un terreno sassoso e in pendenza. Mi fermo contro un masso di roccia che mi toglie il fiato.
< Ouuff> ansimo girandomi sulla schiena e portandomi le mani allo stomaco. Decisamente, questa non è la mia giornata con l’attività fisica.
Le voci mi raggiungono mentre devo ancora riprendere fiato.
< Attenzione!>.
< Ma quella chi è?>.
< Come è arrivata qui?>.
Giro la testa quel tanto che basta per vedere i quattro Ragazzi Grigi scrutarmi da sopra la discesa da cui sono appena rotolata. Guardandomi meglio attorno noto anche che sono finita nella terra di Mordor. Davvero, manca solo Gollum che dice “E’ il mio tesssoro”.
< Dite che è una trappola?> sta dicendo la ragazza.
Ha una bella voce, bassa e modulata. Ma le parole che pronuncia hanno un tono duro, pronto a tutto.
Mi metto seduta a fatica, cercando di capire dove diavolo sono finita, in che modo e perché. Non proprio in questo ordine di priorità.
< Chi sei?> mi chiede il ragazzo stupendo che ho notato ieri. La sua voce è calma e controllata. Mi punta addosso uno strano strumento argentato. Direi che è una spada, se esistono spade sottili come matite e senza impugnature. Diciamo che assomiglia di più ad un lungo ramoscello d’argento. Anche gli altri impugnano qualcosa di simile, ma di forme leggermente diverse.
< Allora?> mi incita lo stesso ragazzo.
< Non credo sia un problema, Blu> si intromette il ragazzo dai capelli neri.
Blu, che nome è? Di colpo non mi fanno più tanta paura.
< E come lo sai?> ribatte il ragazzo dal nome improponibile.
< L’ho vista nella scuola. Secondo me ci ha seguito> continua l’altro. E’ più basso di Blu, ma ha le spalle più larghe e lo sguardo più cupo. Sulla pelle pallida i suoi occhi risaltano come un germoglio verde su un cortile d’asfalto.
< Non può averlo fatto. I portali erano chiusi!> dice la ragazza con una smorfia.
< Diego, sei sicuro di averla vista nella scuola. Non era una Rep?> chiede Blu rivolto al ragazzo dagli occhi verdi.
Diego si stringe nelle spalle.
< Ti dico che l’ho vista> dice lapidario.
Non di molte parole il tipo.
Diego. Almeno lui ha un nome normale.
< Controlla con l’aperio> ordina la ragazza.
Aperochè?
No, no, non controllate proprio un bel niente. Giù le mani.
Il panico deve essere evidente sul mio viso, perché il ragazzino biondo alza una mano parlando direttamente a me. Allora qualcuno si è accorto che sono qui che ascolto.
< Tranquilla, non è nulla di pericoloso> tira fuori il cellulare argentato che ho già visto.
E’ grosso più o meno come il palmo della sua mano, sottilissimo e dall’aspetto avveniristico. Una specie di arma letale venuta dal futuro. Almeno è quello che mi viene da pensare mentre me lo punta addosso.
< Adesso mi sparaflesci il cervello come in Men in Black?> mi faccio scappare.
Sono le prime parole che dico, e ovviamente sono una cazzata paurosa.
Blu scoppia a ridere. Persino la ragazza e Diego accennano un debole sorriso.
< No, ti scatto una foto…>.
Credo che scherzi, ma in effetti preme un pulsante e si sente un leggero clic.
< Allora, Gost, è pulita?>.
Gost.
Ok, questi hanno qualche problema con i nomi. Quasi, quasi mi metto a ridere, ma vedo la faccia del ragazzino biondo e mi passa la voglia.
< Incredibile ragazzi, guardate qua!> dice mostrando il cellulare agli altri.
Cos’è, sono venuta così male?
Anche gli altri guardano la foto allibiti.
Blu balza giù dalle rocce per accucciarsi di fianco a me. Mi prende per il mento e mi fissa dritto negli occhi, prima di lasciarmi andare con un gemito sorpreso. Prima che si raddrizzasse ho fatto in tempo a vedere che negli occhi azzurro cielo ha quattro pagliuzze grigie disposte intorno alla pupilla come petali di un fiore.
< Ha cinque stigma!> grida.
Si susseguono esclamazioni di stupore e incredulità. Condite con un imprecisato numero di “Non può essere” e “Impossibile!”. Solo Diego rimane in silenzio.
Mi schiarisco la voce. Tanto per ricordare che ci sono anche io, seduta ai piedi di una roccia che puzza di zolfo, con addosso la mia tuta e senza la più pallida di cosa sta succedendo.
< Mi sapreste dire, gentilmente, come levare le tende? Senza offesa, ma non credo che la vostra scampagnata alla ricerca dell’Anello sia di mia competenza, perciò tornerei a scuola. Almeno lì ci sono i pavimenti>.
Ok, forse la citazione era un po’ troppo. Ma non è che mi stiano rendendo le cose semplici.
Spostano di nuovo l’attenzione su di me e una certa idea deve farsi strada in tutti e quattro perché subito dopo si guardano con gli occhi spalancati.
< Dobbiamo portarla fuori di qui!> dice la ragazza guardandosi intorno, visibilmente spaventata.
Non credevo di fare così tanta paura.
Un tuono squarcia il cielo, di un bianco lattiginoso. L’ho già detto che sembra di essere nelle terre di Mordor? Ecco, ora mi sembra di vedere in lontananza una luce rossastra sopra un vulcano. Tipo il Monte Fato.
Forse la pallonata mi ha preso alla testa, dopotutto.
Anche i tre ragazzi sembrano improvvisamente più nervosi.
Blu mi tira su di peso, passandosi lo strano oggetto argentato nell’altra mano. Mentre lo fa, il ramoscello cambia forma. Si allunga, si ispessisce e spunta una vera e propria elsa, diventando una spada.
< Ah!> dico a quella vista.
< Dite che l’hanno portata qui apposta?> chiede la ragazza continuando a scrutare intorno.
< Non credo, siamo stati noi a decidere di venire qui oggi. Deve essersi trattato di un caso. Ma dovevano essere sulle sue tracce> risponde Blu, tenendomi stretta per un braccio.
Mi fa quasi male, ma non oso protestare. Sono così spaventata e disorientata che non so se scappare a gambe levate urlando: “E’ la fine del mondo!”, oppure buttarmi ai loro piedi implorando pietà.
Ma perché non sono rimasta sdraiata in infermeria?
< Abbiamo capito il perché di quella interferenza, allora. Era lei>.
< Sì, Morgana. Era lei. Ma adesso pensiamo ad un modo per uscire di qui prima che ci raggiunga l’Occulto>.
Ve bene, mi sono bevuta il cervello. Tutto sommato credevo sarebbe stato peggio. Certo, avrei preferito finire in un posto più stile Bahamas, però qui sono in compagnia di alcuni ragazzi niente male, perciò posso farmelo bastare. E poi, magari, il mio delirio potrebbe migliorare portandoci tutti in una spiaggia dei tropici.
Non ho nemmeno finito di pensarlo che le rocce spariscono e ci troviamo tutti in una spiaggia con la sabbia bianca e le palme.
Fantastico! Comincio a prenderci gusto sul serio.
< Come siamo finiti qui?> chiede Gost, il ragazzino biondo.
Pensare al suo nome rischia di farmi scoppiare a ridere, ma tengo duro. E’ già abbastanza strano senza che mi metta a sghignazzare come un’idiota.
< In che universum siamo?> chiede Morgana.
Diego mi fissa, attento e serio. La sua espressione non lascia trapelare nessun pensiero. E’ la prima volta che riesco a guardare un ragazzo negli occhi senza sapere cosa pensa. Nonostante Blu mi stia ancora tenendo per un braccio, è Diego quello che sembra essere più vicino.
< Credo che ci troviamo nel suo> dice indicandomi agli altri.
Quattro paia d’occhi mi fissano.
< Non so di cosa state parlando, ma qui mi sembra più carino rispetto a dov’eravamo prima> dico.
Morgana alza gli occhi al cielo.
< Facci uscire subito di qui!> dice puntandomi contro il suo rametto argentato.
< Non credo possa farlo> dice Gost.
< Allora pensiamoci noi, ma andiamo via>.
Morgana è sempre più agitata.
Non capisco perché. Qui si sta benissimo. Nessun tuono in lontananza.
< Potrebbe averci seguito> dice scrutando sotto le palme.
< Non capisco niente di quello che dite. Non è che potresti lasciarmi?> chiedo con un’occhiata velenosa a Blu, che mi libera il braccio.
< E non è che potreste spiegarmi chi diavolo siete e cosa ci faccio qui?>.
< E soprattutto cosa sta succedendo> aggiungo.
Il paesaggio trema. Non nel senso di un terremoto. E’ come quando alla tv sparisce il segnale e le immagini si distorcono. Anche il mare e la sabbia si deformano come un disegno ad acquerello immerso in una pozzanghera.
Uno strappo all’altezza dello stomaco e ci troviamo di nuovo nella terra di Mordor.
< Ci ha trovati!> grida Morgana. Tra le sue mani il ramoscello cambia forma. Si allunga fino a raggiungere la sua altezza diventando una lunga lancia d’argento. Nelle mani di Gost è invece comparsa una lunga catena, mentre Diego brandisce uno spadone enorme.
Non mi piace per niente.
Restiamo tutti immobili col fiato sospeso. O meglio, io trattengo il fiato fino a diventare paonazza e dover tossire per respirare di nuovo, loro scrutano le lande desolate come aquile in attesa della preda, immobili e attenti.
< I Camminatori di Sogni sono arrivati qui> dice una voce cantilenante alle mie spalle.
Faccio un salto di mezzo metro buono nascondendomi alle spalle di Blu. Davvero poco dignitoso, ne sono perfettamente consapevole. Ma non è che mi preoccupi molto della dignità in questo momento.
Dietro di noi è comparsa Silvia. O qualcosa che ricorda il suo aspetto. I capelli le pendono ai lati del viso in ciocche scomposte e il vestito è strappato e sporco. Gli occhi sono due pozzi di oscurità.
< Silvia?> provo a chiamarla, con poca convinzione.
La sua risata non ha nulla di umano. Se le rocce potessero ridere, produrrebbero questo suono.
Diego avanza mettendosi al fianco di Blu, la spada in pugno. Un secondo dopo Morgana e Gost fanno lo stesso. Capisco che lo fanno per proteggermi, ma non capisco perché.
< Così anche voi l’avete scoperta…> sogghigna la strana creatura.
Occulto, l’hanno chiamata. Un nome sinistro come il personaggio.
< Quindi eri sulle sue tracce> dice Blu, spostando il peso sui piedi distanziati, pronto all’attacco.
< Siamo tutti sulle sue tracce> risponde la creatura sibilando.
< Vattene da questo universum. Non ti lasceremo prendere il controllo> dice Morgana, puntando la lancia contro l’Occulto.
L’essere punta i suoi occhi su di me. Un sorriso le increspa le labbra esangui.
< Sì?>.
Anche gli altri quattro si voltano. E io sto in piedi, impalata, con una mano alzata.
Oddio, l’ho fatto davvero. Ho alzato la mano come durante una lezione di storia. Perché la terra non si apre per ingoiarmi?
Visto che ormai ho attirato l’attenzione, tanto vale fare la domanda.
< Ehm, ecco, mi chiedevo… non è che potresti spiegarmi perché tutti mi cercano?>.
Sul viso di Blu è comparso un sorrisetto incredulo mentre Diego fissa la ragazza di fronte a noi senza perderla d’occhio.
< Insomma, non è che ci sia mai stata la fila sotto casa mia. Perciò, ecco, se mi cercano tutti ce ne avete messo di tempo per trovarmi…>.
Ok, sto farfugliando. Diamoci un taglio.
< Tu sei la Porta. Lei ti vuole!> dice l’Occulto, prima di lanciarsi verso di noi con le braccia protese. Dalle sue dita spuntano artigli affilatissimi. Faccio un passo indietro, spaventata, mentre Blu le trancia una mano con un unico movimento del polso. La mano artigliata cade a pochi centimetri dai miei piedi e la guardo contorcersi e poi svanire come corrosa dall’acido. Sento il sapore della bile in bocca.
La creatura ha perso del tutto le fattezze di Silvia e si è trasformato in un mostro alato, gli arti allungati e ricoperti di pelle grigia coriacea. Uno spettacolo che da solo basterebbe a farmi perdere il sonno per una settimana. Aggiungiamoci anche le decine di pipistrelli che spuntano dal nulla e cominciano a svolazzarci addosso. Mi lascio cadere a terra coprendomi la testa con le mani nell’inutile tentativo di tenerli lontani. Li sento che mi afferrano per i capelli con le loro unghiette appuntite. Del liquido caldo mi cola sul viso. Deve essere sangue. Il mio sangue.
Urlo con tutto il fiato che ho in gola. Urlo così forte che mi sembra di potermi perforare i timpani da sola.
E come quando negli incubi gridi così forte da svegliarti, mi ritrovo di colpo nell’Aula Magna, stesa a terra in posizione fetale. Silvia è appoggiata contro il palco, il vestito di nuovo integro e i capelli in ordine. Sembra addormenta. Un secondo dopo compaiono i quattro ragazzi. Anche i loro vestiti sono in ordine e in mano tengono le sfere argentate di prima. Le armi sono sparite.
< Non l’abbiamo ucciso> sta dicendo Morgana inginocchiandosi accanto a Silvia per controllare come sta.
< L’abbiamo solo rimandato nel Limbo>.
Blu si stira le braccia, portandosele dietro la testa. Sbadiglia e piega la testa da un lato e dall’altro.
Resto ferma, incapace di muovermi.
Nel mio campo visivo entrano due occhi verdi. Ci sono tre pagliuzze color ambra disposte attorno alla pupilla che luccicano nella penombra della sala.
< Stai bene?> chiede Diego.
Sono sotto le poltrone della prima fila. Se provo ad alzare la testa ci sbatto contro. Vorrei rispondere qualcosa d’effetto, o almeno di rassicurante. Tipo: “Mai stata meglio, baby”, ma proprio la voce non vuole saperne di uscire.
Diego allunga lentamente e mani verso di me, appiattendosi sul pavimento per raggiungermi.
< Ora ti tiro fuori, ok?> chiede.
Faccio per allontanarmi, strisciando sulla schiena. Diego si blocca mostrandomi i palmi delle mani.
< Non ti faccio nulla, d’accordo?>.
Il cuore mi batte all’impazzata nel petto. Ho il respiro accelerato e faccio fatica a pensare.
< Annuisci se mi senti> sta dicendo Diego.
Costringo la mia testa a fare un rapido cenno. Lui sembra sollevato.
< Ok, allora adesso ti prendo per le braccia, così ti tiro fuori. Va bene?> chiede mantenendo un tono rassicurante. Il tono che si userebbe con un bambino che ha appena avuto un terribile incubo. Mi lascio cullare dalla sua voce. Di nuovo riesco a fare un cenno con la testa.
Quando mi prende per il gomito mi irrigidisco, pronta a lottare e ribellarmi, ma poi mi lascio trascinare fuori senza opporre resistenza.
Ora che sono uscita da sotto le poltrone posso respirare meglio.
< Tutto bene con la ragazza?> chiede Morgana guardandomi dall’alto.
Diego, inginocchiato accanto a me scuote le spalle, senza rispondere.
< Dobbiamo uscire di qui. Diego, pensa al contenitore. Blu, pensa alla ragazza. Gost, tu con me. Ci vediamo alla base tra cinque minuti> ordina Morgana.
Diego si alza e prende in braccio Silvia portandola fuori dall’Aula Magna al seguito degli altri due. Non si volta indietro.
Blu si siede per terra di fronte a me. Guardarlo da così vicino è sconvolgente. Per i suoi occhi, e le pagliuzze così simili alle mie.
< Si chiamano stigma> dice notando la domanda inespressa stampata sul mio viso.
< Le pagliuzze negli occhi si chiamano stigma. Ognuno di noi ne ha di diverse> mi spiega.
Annuisco, giusto per fargli capire che sto ascoltando.
Blu sorride.
< E’ difficile, lo capisco. Ma che ne dici di andarcene, così ti spieghiamo tutto con calma?>.
Lo guardo senza capire.
Spiegare tutto. Davvero c’è una spiegazione? Una che non comporti dosi di tranquillanti per il resto dei miei giorni, magari?
< Vieni con me e ti diremo tutto> continua Blu.
Mi porge una mano.
< Ehi, non mordo le ragazze, sai? A meno che non siano loro a chiederlo…> dice facendomi l’occhiolino. Arrossisco fino alla punta dei capelli.
Prendo la mano che mi porge, lasciandomi tirare in piedi. Le gambe mi reggono a stento.
< Non ti devi preoccupare di quello che è successo nell’universum di quella ragazza. Qui sei perfettamente al sicuro, sai> Blu continua a parlare cercando di rassicurarmi, ma le domande si moltiplicano nella mia testa. Così come le insicurezze.
Sono al sicuro qui?
Non lo so.
Torniamo in palestra. La partita è in pieno svolgimento. Non devo essere stata via più di qualche minuto, eppure avrei giurato che fosse passato molto più tempo.
< Prendi la tua roba. Io ti aspetto qui> dice Blu con un cenno verso gli spogliatoi.
Sto per chiedergli come fa a sapere che mi devo cambiare, ma un’occhiata ai miei pantaloni deformati mi da la risposta.
< Non posso uscire dalla scuola. Ho finito le uscite giustificate…> dico.
Blu scuote la testa.
< Lascia stare. A quello ci penso io> dice.
< Deve venirmi a prendere un genitore se non posso firmarmi l’uscita> dico per essere più chiara.
Il sorriso candido di Blu è quasi abbagliante.
< Non ti preoccupare>.
Non ho abbastanza forza per continuare con quella conversazione. Entro nello spogliatoio e mi cambio più in fretta che posso mentre il ribollire dei pensieri dei ragazzi nella palestra mi raggiunge anche attraverso i muri. Infilo di nuovo jeans e maglietta nera, cercando di rimettere in sesto la mia coda. Anche così i capelli mi arrivano quasi alla vita. Mia madre dice che sono così lunghi che mi ci potrei impiccare.
Esco dallo spogliatoio, lanciando appena un’occhiata nella palestra.
Le bolle marroni sono scomparse.
Sono così sfinita che non riesco nemmeno a stupirmi. Mi limito a constatare il fatto e raggiungere Blu che mi aspetta in corridoio, appoggiato ad un termosifone.
< Pronta?> chiede.
< No>.
Lui ride e mi prende per un braccio, conducendomi fuori. Ha una bella risata, anche se non sono dell’umore adatto per apprezzarla appieno.
Arrivati al bancone dei bidelli trovo un uomo di mezz’età intento a firmare il registro.
< Ah, eccole la figlia!> dice Maria al mio arrivo.
Guardo perplessa l’uomo e poi la bidella, pensando a uno scherzo o un errore.
< Ma questo non è….>.
Una gomitata nelle costole da parte di Blu mi fa tacere.
< Cosa, piccola?> chiede Maria.
< Niente>.
L’uomo che dovrebbe essere mio padre non gli assomiglia affatto. C’è qualcosa di strano. Poi capisco: intorno a lui non vedo nessuna immagine. Osservando meglio, e guardando attraverso il guscio esterno, per un attimo riesco a vedere Morgana, nascosta dietro l’illusione.
E’ troppo.
Mi lascio condurre fuori dalla scuola come un cagnolino obbediente. Non mi passa per la testa che potrebbero essere dei pazzi che vogliono farmi del male. L’idea non mi sfiora nemmeno. La possibilità di avere delle risposte cancella la paura per i possibili rischi.
< Dov’è Silvia?> chiedo mentre usciamo.
< Al sicuro. Tra poco potrai vederla> risponde Morgana tornando al suo aspetto normale.
Superiamo un incrocio, poi Blu si infila tra un’auto e il camper che ho visto stamattina. Penso che voglia salire sull’auto, invece bussa alla porta dell’altro veicolo.
Viene ad aprire Gost.
< Fatto?> chiede.
Blu indica nella mia direzione con la testa e Gost si fa da parte per farmi passare. Morgana mi spinge dentro senza tante cerimonie. Spero solo di non dovermene pentire.
 

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Capitolo 5
*** Più domande che risposte ***



Rieccomi qui! Scusate per il ritardo^^
Finalmente in questo capitolo si capirà qualcosa in più, almeno spero... ma come potete intuire dal titolo siamo solo all'inizio!
Buona lettura!




Entro nella cucina-salotto di un normalissimo camper. Alle finestre ci sono tendine a fiori, sul minuscolo tavolo c’è una tovaglia cerata con dei limoni e una scaletta porta ad un letto sopra la poltrona del guidatore.
Nell’esiguo spazio ci siamo solo noi quattro. Non c’è traccia di Silvia, né dell’altro ragazzo, Diego.
Tengo lo zaino stretto contro il petto e non oso muovermi.
Blu si dirige all’armadio di fianco alla porta del bagno e lo apre. Mi aspetto di vederci dei vestiti appesi, invece la porta dà su un altro locale. Un locale troppo ampio perché possa entrare in un camper. Spalanco la bocca e resto inebetita a guardare.
Blu si fa da parte e Morgana entra nell’armadio, o quello che è, senza voltarsi indietro. Riesco a intravedere una luce chiara e pareti metalliche o di vetro, come un laboratorio.
< Dopo di te> dice Blu con mezzo inchino galante. Non so se mi sta prendendo in giro o vuole solo sdrammatizzare la situazione.
Non mi muovo.
Ok, lo so che ci sono andata di mia spontanea volontà lì dentro. E so anche che avrei dovuto aspettarmi qualche stranezza. Ma entrare in un armadio che nasconde un intero laboratorio di CSI mi sembra un tantino troppo.
< Non possiamo parlare qui?> chiedo con voce acuta.
Oh, il prossimo passo sarà piagnucolare che voglio la mamma.
Alice, cerca di stare calma.
Gost si agita al suo posto, a disagio.
< Chiamo Gabri?> chiede a Blu.
Chi è questo, un altro schizzato?
< Sei venuta fin qui per fermarti sulla soglia? Non volevi vedere la tua amica?> chiede Blu senza rispondere all’altro.
< Non è mia amica, la conosco di vista> dico.
< Allora non c’è problema. Te ne puoi andare, giusto?>.
Capisco che mi sta sfidando, e capisco che lo fa perché smetta di comportarmi come una fifona. Ma la mie gambe non vogliono proprio saperne di muoversi.
< Allora ci siete?> chiede Morgana spuntando dall’armadio.
< Ci stanno aspettando. Gabriele è in cucina con Diego e Marianna>.
Le mie gambe fanno un passo avanti. Varco la soglia dell’armadio sentendomi molto Alice che cade nella tana del Bianconiglio. Ho anche il nome giusto.
< Ah, bastava dire così allora> ironizza Blu, seguendomi.
Gost è l’ultimo e prima di entrare si chiude la porta dell’armadio alle spalle. Mi trovo in un corridoio con pavimento e pareti grigio chiaro, tranne quella di destra, che è in realtà composta da una lunga vetrata. Dall’altra parte si vede quello che sembra in tutto e per tutto un laboratorio dalle strane apparecchiature. Ci sono dei computer e delle macchine che ricordano un po’ quelle dei telefilm, boccette colorate e microscopi.
Morgana ci fa strada verso la porta di metallo a sinistra, che dà su una cucina incredibilmente confortevole.
Un grosso tavolo rotondo occupa il centro della stanza, con una tovaglia rossa e un cesto di frutta al centro. Il ripiano dei fornelli e gli armadietti sono sull’arancio, come i cuscini delle sedie. L’unica cosa che manca sono le finestre, ma sono compensate da diverse lampade di luce bianca che danno l’illusione della luce solare. Sulla destra, un’ampia porta scorrevole socchiusa lascia intravedere il salotto.
< Benvenuta> mi saluta un uomo sulla trentina.
Non posso fare a meno di fissarlo. Di fianco a lui, una donna poco più giovane e Diego sono seduti al tavolo. Ma quello che non riesco a smettere di guardare sono i suoi occhi. Sono di un grigio talmente chiaro da sembrare cristallo, e intorno alla pupilla brillano ben sette stigma nere.
Vorrei dire qualcosa, ma non mi viene in mente nulla. Da dietro le spalle proviene un risatina. Non ho bisogno di voltarmi per sapere che si tratta di Blu.
< Temo che dovremo spiegarle un po’ di cose, Gab… è una novellina> dice divertito.
Il suo commento non mi infastidisce. Anzi, gli sono grata per aver rotto il ghiaccio in quel modo. Se fosse dipeso da me la conversazione si sarebbe fermata lì.
< Siediti> mi invita l’uomo.
E’ alto, con un fisico allenato, ma non palestrato. Indossa dei jeans e una normale maglietta che per qualche motivo mi sembrano fuori posto. Forse perché tutti gli altri, tranne la donna, indossano ancora quelle specie di divise grigie.
Mi siedo, non osando quasi respirare. Tengo sempre lo zaino stretto al petto.
dice la donna, Marianna, mi sembra di ricordare.
< Chi ne vuole?> ha una voce musicale e ben modulata. Al solo sentirla mi rilasso.
Tutti rispondono affermativamente. Marianna mi guarda, in attesa.
< Sì, grazie…> bisbiglio.
Lei annuisce con un sorriso e va ai fornelli.
< Mi hanno detto cosa è successo> dice Gabriele rivolto a me, senza altri preamboli.
Annuisco. Non so che altro dire.
< Hai delle domande?> chiede gentilmente.
Apro la bocca per parlare, ma non mi viene in mente nulla. Non che non abbia delle cose da chiedere, ma decidere da dove cominciare è difficile.
< Chi siete?> riesco a dire alla fine.
Forse è la domanda più innocua.
< Hai ragione, non ci siamo nemmeno presentati. Io mi chiamo Gabriele, lei è la mia compagna, Marianna> dice indicando la donna che prepara il tè.
< Penso che tu conosca già i loro nomi> dice con un cenno a indicare gli altri ragazzi.
Annuisco per l’ennesima volta.
Restano in attesa. Allora capisco.
< Io mi chiamo Alice>.
Blu ridacchia.
Gabriele sospira, si passa una mano sul mento e poi la lascia cadere sul tavolo.
< E’ piuttosto difficile credere che tu non sappia nulla… i tuoi occhi…>.
< Cos’hanno i miei occhi?> chiedo, spaventata.
< Che cosa sono esattamente le stigma?>.
Gabriele lancia un’occhiata accusatrice verso Blu, che si stringe nelle spalle, appoggiato al muro vicino ai fornelli. Morgana e Gost si sono seduti attorno al tavolo, vicino a Diego.
< Ti hanno detto altre cose?> chiede Gabriele, osservandomi con attenzione. Dalla tasca dei suoi jeans spunta un angolo di un cellulare argentato. Sembrano avere tutti lo stesso apparecchio.
< Ho sentito che parlavano di universum, e poi ho sentito che quello strano telefono si chiama aperio…> dico.
Gabriele annuisce a ogni parola che dico.
< Dunque, dovremo partire dall’inizio. Per rispondere alla tua prima domanda: le stigma, si tratta di quelle pagliuzze colorate che hai negli occhi. Penso tu ti sia accorta che sono particolari e di un colore insolito…>.
< Come le vostre> dico sulla difensiva.
La soggezione che ho provato finora è appena sparita, sostituita dalla testarda determinazione a farmi raccontare tutto quello che sta succedendo.
< Esatto, sono la stessa cosa>.
< Ma cosa vogliono dire?>.
Gli altri ascoltano, senza darlo a vedere. Nessuno guarda noi, sono tutti concentrati su qualche angolo della stanza, come se fossero annoiati. Solo Diego osserva attentamente Gabriele, come se stesse seguendo una lezione importante.
< Sono un segno del nostro potere. Il loro significato originale era “simbolo di infamia”, una volta quelli come noi erano perseguitati dalla Chiesa>.
Schiocco la lingua, scettica. E’ un mio brutto vizio. Mia madre dice sempre di non farlo. Ma in questo momento non mi importa molto di essere beneducata.
< Non credi che ci perseguitassero?> chiese Gabriele con un sorriso pacato. Tutto in lui fa venire in mente un’insegnate paziente che spiega la lezione a un alunno indisciplinato.
< Perché avrebbero dovuto?>.
Invece di rispondere mi fa un’altra domanda.
< Tu dove credi di essere finita, quando hai incontrato loro?> chiede con un cenno.
Mi stringo nelle spalle, non sapendo che rispondere.
< In una realtà alternativa? Su Giove? Non lo so! Forse l’ho solo immaginato…> dico rendendomi conto di quanto sembrino assurde le mie parole.
< Una realtà alternativa… potremmo definirla così, ma è più complicato>.
Marianna torna al tavolo portando un vassoio di biscotti ricoperti di gocce di cioccolato e una teiera fumante. Blu l’aiuta con alcune tazze bianche con disegni azzurri. Mentre lei versa il tè, Gabriele continua a parlare.
< Si tratta di segreti tramandati da generazioni. Il posto che hai visto non era così lontano come potresti pensare. Si trattava dell’universum della ragazza, Silvia>.
< Non capisco cosa sia questo universum di cui parlate!> sbotto.
< E’ il mondo interiore di una persona>.
< Mondo interiore?>.
Gabriele annuisce, serio. Guardo gli altri. Nessuno sembra divertito o sul punto di urlare “scherzetto!”. Perciò deve dire il vero, almeno secondo lui.
< Quindi io sarei finita nel mondo interiore di una ragazza che conosco appena, semplicemente passando attraverso il suo schermo ultrapiatto?>.
Mi rendo conto di aver fatto un passo falso non appena finisco di parlare.
< Schermo ultrapiatto?> chiede Gabriele, perplesso.
Blu lancia un fischio mentre afferra un biscotto.
< Ve l’avevo detto che ci nascondeva qualcosa!> esclama compiaciuto.
Lo guardo male, ma per tutta risposta mi fa l’occhiolino.
< Non dovresti dirci qualcosa?> dice sornione.
Anche gli altri hanno drizzato le orecchie, mettendosi in ascolto. Diego ha spostato la sua attenzione da Gabriele a me. Prima di parlare fulmino Blu con lo sguardo ma lui sogghigna, per nulla colpito.
< E’ come chiamo quello che vedo davanti alle persone. Di solito hanno come uno specchio, o uno schermo ultrapiatto appunto, dove vedo quello che pensano, oppure delle immagini che non capisco sempre… a volte le immagini stanno attorno alle persone, come un’aura…>.
Più vado avanti e meno riesco a controllarmi. Nel giro di dieci minuti ho raccontato tutto: le voci che sento e che solo l’mp3 riesce a far tacere, il mio riflesso nei pensieri degli altri, le bolle marroni… quando finisco di parlare ho la gola secca. Marianna mi avvicina premurosa una tazza di tè che mi affretto a sorseggiare. Sa di mandarino.
< Però!> esclama Blu.
< E non sei impazzita?> chiede Morgana con gli occhi spalancati. Noto solo ora che nelle iridi marrone scuro ha tre piccole pagliuzze dorate.
< Non è che sono del tutto sana di mente…> ammetto.
Gost e Blu ridono. Sul volto di Gabriele passa un debole sorriso, mentre le due ragazze li guardano male.
< Oh, dai Morgana, stava facendo una battuta, ok? Quindi è buona educazione ridere> si difende Blu.
< Non è buona educazione ridere di quello che dice la gente> ribatte Marianna, sedendosi vicino a Gabriele. Mi prendo un minuto per osservarla.
Non deve avere più di trent’anni, la pelle ancora liscia e candida. Ha lunghi capelli neri che le scendono sciolti sulle spalle e occhi dello stesso colore. Non riesco a vedere quante stigma ha, ma direi cinque o sei, di colore grigio chiaro. L’immagine speculare di quelli di Gabriele.
< Quindi è tutta la vita che convivi con questi fenomeni?> mi chiede l’uomo.
Da come si comporta, e dalla sua età, direi che è il capo del gruppo, o della squadra, o della setta…
< Direi di sì…>.
< La creatura nel… nell’universum di Silvia> mi costringo a pronunciare quella parola assurda.
< Quella creatura ha detto che sono una porta. Che cosa voleva dire esattamente?> chiedo.
< Non una porta, La Porta> dice Blu, mettendo le maiuscole alle iniziali.
Non ho ancora deciso se mi infastidisce o no. Di sicuro avrei già voluto tirargli un paio di ceffoni. Deve capire le mie intenzioni dal mio sguardo, perché si allontana un po’ con la sedia.
< La Porta> Gabriele pronuncia le parole guardandomi fisso. E’ come se mi stesse soppesando, giudicando. Mi sento all’improvviso esposta e vulnerabile.
< Se fosse così sarebbe…>.
< Un disastro?> chiedo completando la frase.
< Sono morta, vero? Quelle orrende bolle marroni e quello che avete chiamato Occulto…>.
Davanti ai miei occhi compaiono una decine di possibili scenari in cui grossi lombrichi marroni si arrampicano sul mio letto per soffocarmi. La mia immaginazione sta prendendo il volo.
< Non ti devi preoccupare> dice Gabriele.
< Sappiamo come fare per proteggerti>.
Il sollievo mi permette di dare un taglio alle scene apocalittiche che ho in testa.
< Ma cosa sono gli Occulti? E sono solo loro a darmi la caccia? Non mi avete ancora detto cosa vuol dire essere la Porta…>.
Gabriele solleva una mano per interrompermi.
< Non tutto insieme>.
Sorride, prende un biscotto e mi passa il piatto. Ne prendo uno anche io ma non lo mangio, mi limito a tenerlo in mano.
< Ognuno di noi ha un universum personale>.
< Anche io?>.
< Sì>.
Non sembra infastidito dall’interruzione ma gli altri mi stanno facendo capire chiaramente di star zitta e lasciarlo parlare. Decido di dar loro ascolto.
< Si tratta di un vero e proprio mondo che, in qualche modo, ha una sua concretezza. Quando sei entrata in quello di Silvia hai sentito di essere in un posto specifico, giusto?>.
< Era come un sogno, ma molto più vivido> confermo.
< Entrare nell’universum di qualcuno non è così semplice. Bisogna essere invitati a farlo>.
< Come i vampiri per entrare in casa!> esclamo.
Blu si schiarisce la gola per farmi capire di smettere con le stupidaggini.
Ok, va bene, sto zitta.
Gabriele prosegue.
< Se non si è invitati, bisogna aprire un varco, un passaggio. Ma quando si entra nell’universum di qualcuno si gioca sul suo terreno. E’ un po’ come entrare in un videogioco contro un avversario che ha il pieno controllo di tutto il mondo virtuale>.
< E’ rischioso…>.
< Esatto. Per questo abbiamo queste>.
Tira fuori una sfera argentata, uguale a quelle che ho visto usare nell’Aula Magna.
< Si chiamano clavis, chiavi. Servono per aprire i varchi negli universum, ma non solo. Sono fatte di un metallo che si chiama conversio, molto raro. La sua proprietà è quella di non essere soggetto alle regole dell’universum in cui entra, ma di chi lo usa>.
Mi gira la testa.
< Non capisco>.
< Quando entriamo in un universum estraneo siamo disarmati, ma queste sfere, questo metallo, risponde al nostro volere, non al padrone del mondo in cui siamo entrati>.
Ripenso a come quelle strane sfere argentate hanno cambiato forma mentre i ragazzi lottavano contro l’Occulto, diventando delle armi. In quel momento sembrano normali biglie d’argento.
< Quindi potete usarle per difendervi>.
< Sì, o per attaccare>.
< E chi dovrebbe attaccarvi?>.
Ma lo so già chi: gli Occulti.
< Ci sono molte creature all’interno degli universum> continua Gabriele.
< Alcune pacifiche, di solito lo sono quasi tutte. Si tratta di un mondo interiore, in qualche modo costruito dal possessore, ma allo stesso tempo è qualcosa di estraneo. E’ facile per creature maligne entrarci… e a volte prenderne il controllo>.
< Creature maligne? Gli Occulti dici?>.
< Ci sono cinque categorie di demoni. Gli Occulti fanno parte della quarta e sono molto pericolosi. Si insinuano poco a poco in un universum, fino a prenderne il controllo>.
Ok, adesso la testa sta proprio per esplodermi.
Marianna posa una mano sul braccio di Gabriele per fermarlo.
< Forse dovremmo fare una pausa> dice.
< No!> la forza del mio urlo spaventa persino me.
< No, voglio sapere tutto, per favore> dico più piano.
< Cosa succede quando un demone prende il controllo di un universum?>.
< Di solito riesce a manifestarsi nel mondo reale, possedendo l’umano>.
Rabbrividisco e devo posare il biscotto che ho ancora in mano per non sbriciolarlo.
< Era quello che stava per succedere a Silvia?>.
< Sì> dice Gabriele, grave.
< Se non lo avessero fermato, ci sarebbe riuscito>.
< Ma non lo avete ucciso…> dico ricordandomi delle parole di Morgana.
< L’avete mandato nel…>.
< Nel Limbo, sì> dice Morgana.
< Cos’è?>.
< E’ il luogo da dove arrivano gli Occulti e tutte le altre creature come loro>.
Prendo un bel respiro per fare l’ultima domanda.
< E io cosa c’entro con tutto questo?>.
< Tu sei l’unica che può aprire dei varchi senza le clavis. E da quello che ci hai raccontato il tuo potere è immenso. Puoi aprire varchi in tutti quelli che incontri. Ti basta avvicinarti. Se loro ti prendessero…>.
Gabriele fa un gesto impotente con le braccia, come se stesse facendo una considerazione ovvia e terribile al tempo stesso.
< Potrebbero entrare in questo mondo senza impossessarsi di un universum. Potrebbero aprire un varco che li porti direttamente qui>.
Oh, sì, avevo proprio bisogno di una bella notizia.

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Capitolo 6
*** Saltatori ***



Eccomi qui con un altro capitolo... questo è un pochino più lungo degli altri, ma spero che non sia troppo pesante^^
Un grazie a tutti quelli che seguono la storia, sapere che piace a qualcuno è una soddisfazione immensa!





La suoneria del cellulare rompe il silenzio come un colpo di cannone. Cado quasi dalla sedia mentre cerco di recuperarlo dalla tasca dei pantaloni.
E’ Eleonora.

Tt bene?
Ho provato a kiamart, non 6 a casa?


Guardo l’orologio e per poco non mi prende un colpo. E’ quasi l’una. Come ha fatto a passare tanto tempo senza che me ne accorgessi?
< Sono i tuoi genitori?> mi chiede Gabriele.
< No, è un’amica. Mi ha cercato a casa…>.
Penso febbrilmente a una scusa, ma non mi viene in mente nulla.
< Dovrei tornare > dico.
Intorno al tavolo è tutto un gran scuotere di teste e sbuffi.
< Sarebbe meglio che finissimo di parlare. Ci sono molte cose che devi sapere. Inoltre dovremo limitare gli effetti del tuo potere, se non vuoi impazzire sul serio> dice Gabriele.
< E’ possibile?>.
Spalanco gli occhi e trattengo il respiro.
< Mi state dicendo che c’è un modo perché non debba più vedere tutto quello che vedo?>.
Solo in quel momento mi viene in mente anche un’altra cosa che avrei dovuto notare prima.
< Perché su di voi non vedo schermi ultrapiatti?>.
Gabriele sorride del nome che ho usato.
< Perché noi sappiamo proteggere il nostro universum da intrusioni esterne. Se non ne fossimo in grado non potremmo fare quello che facciamo>.
< Perché non dici ai tuoi che ti fermi a pranzo da un’amica?> propone Morgana.
< Oh, dai, quanti anni hai, dieci?> chiede Blu sollevando gli occhi al cielo.
< Hai bisogno del permesso dei tuoi per stare fuori un pomeriggio?>.
Qualcosa di ghiacciato mi scende nello stomaco. Abbasso gli occhi, non osando incrociare quelli degli altri.
Loro non hanno idea del perché i miei mi tengano tanto sotto controllo, come potrebbero? Non possono sapere di cosa ha scatenato tutto questo. E non devono saperlo.
Marianna colpisce Blu sulla nuca con uno scappellotto. Il colpo risuona nella cucina. Blu piega la testa in avanti, poi si raddrizza massaggiandosi la testa.
< Ehi!> protesta.
< Te lo sei cercato> dice Gabriele, non sembra che scherzi.
Sorrido all’espressione offesa di Blu. E’ strano vederla su un ragazzo così grande. Ha l’aria di un bambino troppo cresciuto che è stato punito per un capriccio.
< Oggi non c’è nessuno a casa. Torneranno tutti nel pomeriggio. Posso rimanere qui per un po’> dico cercando di non sembrare troppo sollevata all’idea di non dover chiamare i miei.
< Bene, allora mentre io e Blu prepariamo il pranzo…> dice Marianna.
< Ehi, non tocca a me!> protesta Blu, subito zittito da un’occhiataccia della donna.
< Perché non la portate a vedere la sua amica?> conclude Marianna.
Morgana si alza in piedi, subito imitata da Gost e Gabriele. Diego resta seduto.
< Vi do una mano a cucinare> dice.
E’ la prima volta che parla da quando sono arrivata. Il suo tono piatto non lascia trasparire nessun’emozione. Per un attimo i nostri sguardi si incrociano e qualcosa brilla in fondo ai suoi occhi. Per un attimo vedo attraverso di lui, dentro un’oscurità densa e gelida.
Sbatto le palpebre, seguendo gli altri fuori dalla cucina, spaventata e confusa. Sento gli occhi di Diego seguirmi finché non mi chiudo la porta alle spalle. Un brivido mi scuote mentre mi guidano per il corridoio, poi un altro sulla destra e infine la porta in fondo.
Ci troviamo in un’infermeria. Una vera, non come quella della mia scuola. Ci sono quattro letti con le coperte bianche, le luci abbassate e i mobiletti da ospedale. Nell’ultimo letto in fondo c’è una ragazza sotto le coperte, spunta solo il viso pallido.
Mi avvicino a lei, sedendomi sul letto di fianco. Sembra che stia dormendo, ma per quello che ne so potrebbe essere… scuoto la testa.
< Tra poco starà bene. Stiamo controllando che l’Occulto se ne sia davvero andato e che non possa tornare> mi spiega Gabriele.
< Come fate?>.
Mi indica un monitor su un lato. Dei tubicini argentati partono di lì e si posano sulle tempie di Silvia, quasi nascosti dai capelli.
Gost e Morgana si mantengono in disparte. Gabriele controlla i valori sul monitor prima di sedersi accanto a me. Mi sento strana a stargli così vicino e non sentire nulla. Né un pensiero, né un’immagine fuggono da lui.
< Questa è stata la più lunga conversazione che sia mai riuscita a sostenere> dico rendendomi conto che è proprio così.
< Non mi sorprende> dice con un sorriso. E’ molto dolce e mi dà sicurezza. Nonostante l’evidente differenza d’età è come se avessi appena scoperto di avere un fratello maggiore.
< Potete fermarlo quindi? Il mio potere. Potete farmi tornare normale?> chiedo con tono un po’ troppo supplichevole per i miei gusti.
< Non è così semplice> dice Gabriele.
Mi sento sprofondare. Per un attimo avevo creduto che l’incubo fosse finito.
< Ma vedremo di trovare un modo. Anzi, vado subito nel laboratorio per vedere cosa riesco a fare. In così poco tempo non posso prometterti nulla>.
< Va bene qualsiasi cosa> dico di nuovo speranzosa.
Cerco di soffocare l’aspettativa, ma è più forte di me. Devo credere che stia per finire. L’idea di tornare a scuola a quelle condizioni non è contemplabile.
Resto da sola con Morgana e Gost, quest’ultimo mi guarda imbarazzato, giocando con un angolo della sua maglia.
< Andiamo in salotto?> chiede Morgana per rompere il silenzio.
< Tra quanto potrà andarsene?> chiedo con un cenno verso Silvia.
< Stasera sarà a casa dai suoi> dice spostandosi una treccina di capelli dietro l’orecchio.
Mi alzo, tranquillizzata, ed esco insieme a loro dall’infermeria. Rifacciamo la strada a ritroso ma invece di entrare nella cucina passiamo dalla porta accanto.
Un lungo divano e altri due più piccoli disposti ai lati sono rivolti verso un’enorme televisione con almeno quattro tra lettori dvd e consolle per videogiochi nel mobiletto al di sotto. La parete dietro è ricoperta di scaffali con film e giochi, mentre quella a destra di scaffali pieni di libri. Una poltrona e un tavolo con delle sedie attorno completano il mobilio.
Tutto l’arredamento è piuttosto semplice, senza troppi soprammobili o fronzoli, ma è comunque confortevole.
Morgana si lascia cadere sul grosso divano di fronte alla televisione e prende il telecomando.
< Ti va una partita a Zombie III?> chiede.
< Non ci ho mai giocato> ammetto.
Così come non ho mai giocato a nessun tipo di videogioco. Con una sorella maggiore secchiona e genitori anti-tecnologia sarebbe stato complicato farsi regalare una Play Station. Senza contare che non mi interessano molto i videogiochi.
< Allora devi provare!> esclama Gost, tutto ringalluzzito.
Prende una custodia tra le mille che ci sono e infila il cd nello scomparto di una delle consolle. Torna al divano porgendomi una grossa pistola di plastica grigia.
< E cosa ci devo fare con questa?> chiedo prendendola goffamente. Per farlo devo lasciare lo zaino a terra.
< Per sparare!> mi risponde.
Ovvio, che altro poteva essere?
Anche Gost tiene in mano una pistola identica alla mia.
< Tu non giochi?> chiedo a Morgana, abbandonata sul divano.
< Ho già finito il gioco tre volte, ora non mi va>.
Gost sbuffa mentre il gioco si avvia con una musichetta da film horror.
< Io devo ancora superare l’ultimo livello, quello con lo zombie gigante> dice sporgendo in fuori il labbro inferiore.
< Ma non ti preoccupare, adesso iniziamo dal primo livello>.
< Che fortuna> dico ironica.
Morgana sorride, mentre Gost è troppo concentrato sul gioco – anche se non è nemmeno iniziato – per rendersi conto del mio sarcasmo.
Inizia il gioco e sullo schermo spuntano orde di orrendi zombie che cercando di mangiarmi. Il monitor è diviso in due, da una parte ci sono io, dall’altra Gost. Il suo personaggio se la cava alla grande tenendo a bada i mostri, mentre il mio è tirato in tutte le direzione dalle loro zampacce putride.
< Devi sparargli!> dice Gost, così preso dal gioco che saltella davanti alla tv come un pugile prima di partire all’attacco.
Mi decido a puntare la pistola di plastica e premere quello che spero sia il grilletto. Sul monitor compare un macchia rossa dove ho colpito uno degli zombie, dalle casse proviene il suono di uno sparo.
Non so bene cosa mi aspettassi, di certo non di prenderci gusto.
< Una volta che uccidi uno zombie non si torna indietro> dice Morgana mentre comincio anche io a saltellare davanti alla televisione sparando in tutte le direzioni per far fuori più zombie possibile.
< Mi ha preso! Mi ha preso!> urlo abbassandomi inutilmente per evitare gli attacchi dei mostri.
Gost allunga una mano e preme un paio di bottoni sul lato della mia pistola.
< Per liberarti devi fare così> dice, concentrato sul suo lato del monitor.
Non faccio in tempo a ringraziarlo che un altro zombie è spuntato da un angolo con gli artigli protesi a afferrarmi, artigli simili a quelli del mostro alato. Mi blocco e lascio che lo zombie mi afferri. Il mio personaggio finisce a pezzetti.
< No… ce la stavi facendo> dice Gost deluso.
< Riproviamo?> chiede.
Io mi sento mancare il fiato. Quegli orrendi artigli non vogliono saperne di sparire dalla mia vista.
< A cosa state giocando?> chiede Blu facendo capolino dalla porta della cucina. Dietro si vede la tavola già apparecchiata.
< Zombie III> risponde Morgana annoiata.
Mentre noi giocavamo ha recuperato un libro e si è messa a leggere.
< Fico! Come va?> chiede entrando nel salotto.
< Si è fatta fare a pezzi> dice Gost non riuscendo a nascondere la delusione.
< E’ quello che capita con i novellini…> sorride Blu mettendosi al mio fianco.
< Che ne dici di riprovare?> chiede lanciandomi un’occhiata dall’alto verso il basso. Mi sta sfidando a dire di no, ad ammettere che ho paura.
Mai! Piuttosto mi faccio massacrare dagli zombie per tutto il pomeriggio.
< Ok, ma vedi di non disturbare> dico fingendo una sicurezza che non provo.
Blu mi fa l’occhiolino prima di prendere la pistola, con le mie mani ancora sopra, e puntarla contro il monitor.
< Che fai?> chiedo infastidita.
Il gioco sta per ripartire. Gli zombie sono già diligentemente in fila, pronti a farsi ammazzare.
< Ti aiuto a prendere la mira> sorride Blu.
E’ così vicino che sento il suo fiato sul collo e le nostre spalle si toccano.
< Oh, il nostro stallone sfodera tutte le sue arti di seduzione!> esclama Morgana con tono ancora più annoiato di prima.
< Non ti preoccupare, Morg, prima o poi arriverà il tuo turno> dice Blu, prima di premere il mio dito sul grilletto per fare fuoco.
Il primo zombie finisce a terra in una pozza di sangue. Così come il secondo e il terzo. Pensavo che Blu avrebbe preso il controllo della pistola, muovendomi il braccio come fossi un burattino, invece lascia che sia io a fare tutto. Ogni tanto mi aggiusta un po’ la mira, poi mi lascia sparare. Gost, di fianco a noi, non smette di saltellare e sparare urlando suggerimenti e imprecazioni.
In pochi minuti superiamo il primo livello, facendo fuori tutti gli zombie.
< Good job!> urla Gost facendo il verso alla voce registrata del videogioco.
Rido anche se non so il motivo. Mi sento felice e basta. Sollevo lo sguardo. Blu mi osserva con un mezzo sorriso sulle labbra. Non vedo ciò che pensa. Non sento nulla provenire da lui o dagli altri, eppure è la prima volta che mi sento così vicina a qualcuno.
< E’ pronto!> annuncia Marianna sbucando nel salotto.
< E… Blu, non hai finito di preparare!> dice autoritaria.
Blu si allontana, tornando ai suoi compiti.
< Bella partita, novellina!> dice lasciandomi lì con la pistola fumante in mano. Beh, fumante per modo di dire.
Mi giro per restituire la pistola a Gost e mi rendo conto che Morgana mi sta osservando dietro le pagine del suo libro. Dato che non sembra intenzionata a dire nulla, faccio finta di niente e seguo gli altri in cucina. C’è un profumo fantastico di lasagne e infatti Marianna sta giusto sfornando la teglia.
< Ma… come è possibile che ci siano tutte queste cose in un camper?> chiedo, con notevole ritardo.
Blu dà una pacca sulla spalla di Gost, che piomba seduto sulla sedia con un tonfo.
< Vuoi fare tu gli onori?> chiede.
< Solo perché tu non sei in grado di spiegarlo> dice il ragazzino biondo prendendosi la sua rivincita. Si rivolge direttamente a me, mentre Marianna e Diego ci passano i piatti con porzioni abbondanti di lasagna.
< Si tratta di piegare lo spazio a disposizione. E’ possibile grazie all’uso del conversio e di alcune tecniche particolari… diciamo che la nostra cultura, che si è sviluppata insieme alla normale scienza e filosofia, per molti versi ha fatto deviazioni interessanti. Soprattutto a partire dal XIX secolo…>.
< Non ti ha chiesto una lezione di storia, Gost, sii più conciso> lo rimprovera Blu infilzando un boccone enorme con la forchetta e mettendoselo in bocca. Cosa che gli guadagna un altro scappellotto da parte di Marianna.
< Non fare bocconi così grandi, quante volte te lo devo dire? E non aspettiamo Gabri?> chiede.
< E’ nel laboratorio> dice Marianna.
< Ne avrà per un po’…>.
< Sarà meglio che gli porti qualcosa allora. Quell’uomo si dimenticherebbe la testa in giro se non fosse attaccata al collo>.
Marianna prende un piatto e esce dalla cucina.
< Cominciate pure, io torno subito> dice.
< Come stavo dicendo…> Gost riparte all’attacco con le sue spiegazioni.
Blu, che nel frattempo ha finito di masticare, sbuffa e riprende a rimpinzarsi. Morgana gli lancia delle occhiate disgustate, mentre taglia le lasagne nel suo piatto. Diego ascolta educatamente Gost, rimanendo neutrale.
< Grazie alle tecniche scoperte in anni di ricerche e l’utilizzo del conversio possiamo creare pieghe nello spazio… renderlo più…>.
< Spazioso?> gli vengo in aiuto io.
< Esatto!> dice Gost puntandomi contro la forchetta, ancora vuota.
< Rendere lo spazio più spazioso… non avrei saputo esprimermi meglio> dice Blu, il piatto quasi vuoto.
Io non ho ancora iniziato a mangiare. Gost fa finta di non averlo sentito e si dedica al suo piatto. Decido di imitarlo e mi basta assaggiare un boccone per sentirmi meglio.
< Allora, come sono venute?> chiede Marianna, rientrata in cucina.
< Ottime> dico sinceramente.
Marianna sorride compiaciuta e prende posto anche lei attorno al tavolo.
In tutti questi anni, non avrei mai pensato che sedersi a tavola per mangiare potesse essere tanto divertente.
Mi sento un po’ in colpa a pensarlo. In fondo lo so che non è colpa dei miei se per me è così difficile stare con loro. Ma non posso fare a meno di sentirmi rilassata, contenta.
Ascolto le chiacchiere di tutti. Quello che parla di più è Blu, che continua a stuzzicare Gost, ma senza cattiveria. E anche il ragazzino si difende bene con frecciatine che segnano diversi punti. Se fosse una gara, direi che sarebbero alla pari. Morgana e Marianna intervengono alternativamente a favore dell’uno o dell’altro. L’unico che resta in silenzio per tutto il tempo è Diego. A meno che non venga interrogato direttamente non prende la parola.
< L’ultima volta che ti abbiamo lasciato da solo alla base abbiamo trovato la cucina in fiamme> dice Gost.
Blu si stringe nelle spalle.
< Stavo cucinando quando è scattato uno stupido allarme in laboratorio>.
< Non era un allarme, era il timer per la ricarica degli aperio. Dovevi solo staccare la spina> lo rimbecca Gost.
< E come facevo a saperlo, scusa? Qualcuno mi aveva detto qualcosa? No. Quindi ero convinto che Gabri avesse dimenticato qualcuna delle sue diavolerie accese e stesse per far saltare in aria tutto…>.
< Così hai lasciato il forno acceso per quasi un’ora senza andarlo a controllare…> continua Gost, implacabile.
L’espressione di Blu, tra lo stizzito e l’annoiato, è molto divertente.
< E’ stata la prima volta che abbiamo mangiato qualcosa di decente durante il tuo turno di cucinare… perché abbiamo ordinato la pizza> sogghigna Morgana, senza pietà.
Non posso più trattenermi e scoppio a ridere. Si girano tutti verso di me.
< Non devi mica dare ascolto a tutto quello che raccontano!> dice imbronciato. Mi ricorda sempre più un bambino troppo cresciuto. Ma molto, molto più affascinante.
< Non mi sono mai divertita tanto a tavola> ammetto.
Le loro espressioni cambiano di colpo. Mi mordo le labbra, vorrei non aver parlato.
E’ Marianna a rompere il ghiaccio.
< Qui sei la benvenuta. E’ un piacere averti con noi>.
Gli altri annuiscono e io mi sento sollevata.
Blu prende il bis di lasagna, imitato da Diego e Gost. Morgana li guarda trangugiare il cibo come se non riuscisse a credere ai propri occhi.
< Il co’atimento sci ha mescio f’ame> dice Blu, la bocca piena.
< Abbiamo lottato per cinque minuti, scemo, non puoi usarlo come scusa per abbuffarti> lo rimbecca lei.
Blu si stringe nelle spalle e continua a mangiare.
Ingoio l’ultimo boccone e mi devo appoggiare allo schienale della sedia, troppo piena per stare in posizione normale.
< Ho fatto la macedonia. Morgana, puoi prenderla? E’ in frigo> dice Marianna.
< Faccio io> dice Diego alzandosi.
Posa sul tavolo una terrina gigante piena fino all’orlo di frutta tagliata a tocchetti. Torna subito con delle ciotole e i cucchiaini. Mentre serve la macedonia mantiene lo sguardo fisso su quello che sta facendo, come se richiedesse tutta la sua concentrazione. Quando mi passa la macedonia le nostre dita si sfiorano e avverto chiaramente la stessa oscurità che avevo visto prima attraverso i suoi occhi. E’ una percezione così definita e intensa che per poco non lascio cadere la ciotola. Mi riprendo all’ultimo e la poso sul tavolo, arrossendo fino alla punta delle orecchie.
Non ci sono commenti, come se nessuno l’avesse notato. E forse è così. Forse sono solo io che mi sto immaginando tutto.
Si sente la suoneria di un cellulare e Blu prende l’aperio da una tasca. Legge qualcosa, poi scrive una risposta e lo rimette via.
< Quindi funziona anche come cellulare quell’aggeggio?> dico indicandolo.
Gost si raddrizza, entusiasta di poter dare altre spiegazione.
< In origine erano tutti cellulari. Poi li abbiamo modificati ricoprendoli di conversio e aggiungendo alcuni programmi. Ora possono fare una miriade di cose che neanche…>.
< Non glielo devi vendere, Gost, spiegale solo cosa fa> lo interrompe Blu.
< Sì, giusto. Beh, per esempio ci avverte nel caso ci siano Occulti o altri demoni in giro che si stanno manifestando. Anche se funzionano da molto vicino e lo possiamo vedere solo scattando una foto. Possiamo usarli per comunicare all’interno degli universum, ma non verso l’esterno>.
Mi torna in mente quando mi hanno scattato la foto.
< Cosa avete visto quando l’avete usato su di me?> chiedo, curiosa.
< Come?> chiede Gost, mi guarda come se non si ricordasse bene perché sono lì, troppo preso com’era dallo spiegare le meraviglie dell’aperio.
 < Oh, sì. La foto> dice prendendo il suo.
< Guarda!>.
Mi porge l’aperio già acceso. Sul monitor c’è la mia foto. Nella tuta da ginnastica sono più ridicola di quanto mi aspettassi. Devo smetterla di fare lezione in quelle condizioni. Ci credo che i palloni sembrano avere una predilezione nel colpirmi: offendo il loro senso estetico. Ma a parte questo non vedo nulla di strano. Forse facendo attenzione si possono vedere delle linee sottili che contornano la mia figura, ma niente di così eclatante.
< Non ci vedo nulla di strano> dico.
< Infatti>.
< Non ti seguo>.
Gost agita l’aperio in una mano e il cucchiaino nell’altra. Sembra un direttore d’orchestra che non ha le idee chiare su che brano deve fare eseguire.
< Non dovresti essere visibile… almeno non così nitidamente>.
Armeggia un po’ con il cellulare finché non trova un’altra foto da mostrarmi.
Si vede il viso di Morgana, ma è sfocato, come se fosse stato fatto attraverso una parete d’acqua in movimento.
< Non si vede quasi nulla> dico.
< Esatto. Saresti dovuta venire più o meno così, anzi più sfocata>.
< Perché?>.
< Quando entriamo in un universum, quasi subito cominciamo a esserne assorbiti. E’ come entrare nelle sabbie mobili: ne vieni risucchiato. Mentre sei lì i confini tra te e il creatore dell’universum si sfaldano. Il risultato sono foto sfocate. Ma se sei uno di noi, un Saltatore, questo avviene più lentamente, o non avviene affatto>.
< Come scusa, un Saltatore?> chiedo perplessa.
< Sì, anche tu lo sei. Una Saltatrice>.
Resto a bocca aperta per lo sconcerto.
< Cioè come una rana?>.
Mi guardo intorno.
< Come una cavalletta?> la mia voce gronda sarcasmo, anche se non lo faccio apposta. E’ che, tra tutte le cose assurde successe, quel nome è talmente ridicolo…
Scoppiano tutti a ridere. Blu deve tenersi la pancia con le mani. Solo Gost mi guarda con la bocca socchiusa, evidentemente in imbarazzo.
< Temo che il nome che hai scelto non sia il massimo> dice Marianna. Si sta asciugando gli occhi con un fazzolettino.
< E’ perfetto invece!> si irrita Gost.
< Cosa facciamo tutti i giorni? Saltiamo da un universum all’altro. E’ perfettamente logico che ci chiamiamo così, quindi>.
Mi rendo conto di averlo offeso e cerco di rimangiarmi quanto ho detto.
< Sì, mmmh, in effetti ha senso ora che me l’hai spiegato>.
Blu mi lancia un’occhiata che vorrebbe dire “troppo tardi per fare marcia indietro”. Gli rispondo con un’occhiata che gli dice di farsi i fatti suoi. Se non avessi paura di rovinare un viso così bello l’avrei già preso a pugni sul naso. Ma non potrei vivere avendo sulla coscienza il suo naso storto. Però magari gli darebbe più fascino, quindi prenderlo a sberle sarebbe un atto caritatevole. L’idea mi fa sorridere e Blu si allontana impercettibilmente, come se avesse intuito i miei pensieri.

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Capitolo 7
*** Morgana ***


Ciao a tutti!!!
Questo capitolo è un po' diverso dal solito... non solo perchè è più corto, ma anche perchè è decisamente più deprimente u.u Lo so, sono una pessima pubblicitaria, ma - ehi! - in fondo Alice mica può fare solo siparietti comici, ogni tanto deve essere seria. Ditemi cosa ne pensate^^




< Tocca a me sparecchiare> dice Morgana per cambiare argomento.
< Ti do una mano> colgo l’occasione per levarmi di torno.
Diego si unisce a noi senza un commento.
< No, tu hai già preparato> dice Morgana spingendolo al suo posto.
< Porta la frutta a Gabriele e assicurati che mangi qualcosa> dice Marianna dolcemente.
Aiuto Morgana a portare i piatti nel lavandino.  Blu e Gost evaporano dalla cucina in un attimo. Non avrei mai detto che due persone potessero sparire così in fretta.
< Figurati se si fermano a dare una mano!> sbuffa Morgana.
< Blu ha preparato> le fa notare Marianna.
< Per quello che fa di solito…> borbotta mentre apre l’acqua e si infila i guanti di gomma.
< Ti aiuto ad asciugare> le dico prendendo uno strofinaccio.
Marianna finisce di rimettere in ordine il resto.
< Quindi non avevi idea di essere una porta… mmmh?> mi chiede Morgana per rompere il silenzio.
Secondo te? Mi tengo il commento sarcastico, visto che lo fa solo per iniziare una conversazione.
< Nessuna idea> confermo.
< E voi? Quando avete scoperto di essere… sì, insomma, dei Saltatori?>.
Morgana fa una smorfia strana a quel nome, come se stesse per scoppiare a ridere dopo aver addentato un limone.
< Quasi preferisco il modo in cui ci chiamano i demoni: Camminatori di Sogni>.
< Mmmh, anche a me sembra più carino…> ammetto.
< Però, dato che lo usano loro, non ci sembra il caso di tenerlo>.
.
< Comunque … mi hai chiesto come siamo diventati Saltatori>.
Ci pensa su per un po’. L’acqua calda scorre e lei insapona con cura ogni piatto prima di sciacquarlo e passarmelo.
< Ognuno di noi ha una storia diversa e non credo sia giusto che te le racconti io>.
Marianna è ancora seduta al tavolo della cucina, apparentemente concentrata su un cruciverba.
< Posso raccontarti cosa è successo a me> dice Morgana grattando la teglia della lasagna.
< Sono pochi quelli che nascono con le stigma. Per lo più ci vengono imposte dopo… quando capitano certe cose>.
Morgana parla senza guardarmi. L’unico rumore nella stanza è l’acqua che scorre.
< Non sono cose piacevoli. Per essere marchiati serve qualcosa di più di un semplice incidente o un trauma. Bisogna entrare in stretto contatto con un demone oppure esserne posseduti. Ma anche in quel caso non è detto che tu ottenga delle stigma. Diciamo che serve una predisposizione naturale e un contatto con un demone>.
La voce di Morgana è pacata. Racconta come se stesse leggendo da un libro.
< E’ successo cinque anni fa. Avevo sedici anni e non mi interessavo di nulla a parte me stessa. Non lo dico per essere melodrammatica, era proprio così. La scuola non ha mai avuto grandi attrattive per me, ci andavo per avere un pubblico>.
La guardo di sottecchi mentre asciugo un piatto. E’ strano sentire quella storia dalle sua labbra. Se non potessi vedere il suo sguardo perso in lontananza direi che sta raccontando la trama di un film.
< Mia sorella maggiore era più saggia di me. Era diligente e tutto il resto, sai, la figlia che tutti vogliono avere>.
Capisco benissimo cosa vuole dire. Il pensiero corre subito a Serena e ai suoi voti perfetti.
< Non andavamo molto d’accordo. Io ero troppo… beh, superficiale per lei. E lei non sopportava di avere a che fare con gente come me>.
Aspetto che arrivi alla parte peggiore. Vedo che si avvicina dal modo in cui Morgana stringe i denti e si concentra con più energia nel lavare i piatti.
< Una sera c’era una festa e io volevo andarci a tutti i costi. Erano alcuni giorni che mi comportavo in modo strano, ma quella più strana era proprio mia sorella. Aveva avuto dei problemi a scuola e con il suo ragazzo, insomma roba di tutti i giorni. Almeno era quello che pensavo. I miei la costrinsero ad accompagnarmi perché loro avevano un altro impegno>.
Fa un respiro profondo mentre cerca di pulire l’ultimo piatto, ma si deve fermare. Per un attimo non parla, poi riprende. La sua voce è sempre così controllata da risultare quasi inquietante.
< Non potevo saperlo ma un Occulto si stava lentamente impadronendo di lei. Quando salimmo in macchina notai che c’era qualcosa che non andava. Mia sorella andava troppo veloce e mi ignorava completamente. Pensai che lo facesse perché era arrabbiata, ma lei era prudente, non avrebbe mai fatto qualcosa di stupido solo per irritare me>.
Chiude l’acqua e si toglie i guanti. Io continuo ad asciugare gli ultimi piatti anche se non ce ne sarebbe bisogno. Non voglio rischiare di incrociare il suo sguardo. Ho paura di cosa potrei vedere.
< Ci schiantammo contro un palo della luce. Mia sorella ci mandò la macchina contro intenzionalmente, accelerando>.
< Che cosa?>.
Non posso fare a meno di trasalire.
< Voleva ucciderti?> chiedo scioccamente. Non so come comportarmi. Quale è la reazione giusta a un racconto del genere?
Morgana si stringe nelle spalle.
< Non so cosa sia passato per la mente di mia sorella in quel momento. L’unico risultato fu che lei rimase uccisa, mentre io sopravvissi per miracolo. Mentre ero in ospedale feci degli strani sogni, cose che non potevo capire sul momento>.
Comincia a sistemare nella credenza i piatti che ho già asciugato.
< E’ lì che ho conosciuto Gabriele e Marianna. Facevano ricerche sull’Occulto che si era impadronito di mia sorella e mi hanno trovato. Volevano solo farmi delle domande ma si sono accorti della pagliuzza nei miei occhi>.
< Aspetta, hai detto pagliuzza? Ma tu nei hai tre> la interrompo.
Morgana annuisce, dandomi le spalle.
< Col tempo aumentano. A volte, se miglioriamo, quando il nostro potere negli universum aumenta, compaiono altre stigma. Indicano il livello a cui siamo arrivati>.
< Ma io ho cinque stigma…> obietto.
Morgana sorride, voltandosi finalmente verso di me. Il viso è sereno ma nei suoi occhi leggo una tristezza profondissima.
< Vuol dire che sei già più forte di me. Anche se non sai cosa questo comporti>.
Restiamo in silenzio per diversi minuti.
< Quindi cosa è successo dopo che hanno visto la stigma?>chiedo.
Morgana va a sedersi al tavolo vicino a Marianna e le prende una mando. La stringe per alcuni istanti prima di rispondermi.
< Mi hanno dato un posto in cui stare e altri con cui condividere quanto mi era successo. Mi hanno spiegato del loro mondo e mi hanno lasciato scegliere se dimenticare tutto e tornare alla mia vita oppure stare con loro>.
Marianna mi osserva. Le rispondo con un debole sorriso.
< Ma i tuoi genitori? Anche loro sanno cosa è successo davvero a tua sorella?>.
Morgana scuote la testa.
< Secondo la polizia mia sorella perse il controllo dell’auto a causa dell’asfalto bagnato. Non ho mai voluto dire loro la verità, avevo paura che fosse… troppo>.
< Ma ti lasciarono andare via con dei perfetti sconosciuti?> chiedo.
< Dissi loro che volevo diplomarmi da privato e che avevo trovato degli insegnanti, in una scuola al confine con la Svizzera. Gli dissi che avevo bisogno di allontanarmi dalla mia vita, il che era vero>.
< E loro ti lasciarono andare così?>.
Morgana e Marianna sorridono scambiandosi uno sguardo complice.
< Gabriele è molto bravo a convincere le persone> è l’enigmatica risposta.
< Quello che non mi è chiaro… è perché l’Occulto ha fatto sì che tua sorella si schiantasse con l’auto. Che guadagno poteva trarre perdendola?>.
Mi rendo conto che non dovrei intromettermi, ma non posso fare a meno di chiedermelo.
< Il potere che un Occulto ottiene dalla morte del proprio contenitore è enorme, se il contenitore si è ucciso…> questa volta a spiegare è Marianna.
< E’ la prova che l’Occulto ne ha preso il pieno controllo. In questo modo gli Occulti riescono a palesarsi nel nostro mondo in modo fisico. Quando lo fanno diventa quasi impossibile contrastarli>.
Sono spaventata e allo stesso tempo elettrizzata da quanto sto scoprendo. L’adrenalina in circolo è uno stimolante potente della curiosità. Marianna sembra intuirlo perché mi ferma prima che possa andare avanti con altre domande.
< Abbiamo molto da fare. Che ne dici di riposarti un po’ nel salotto. Puoi usare tutto quello che vuoi… televisione, videogiochi, libri. Fai come se fossi a casa tua>.
Allora dovrei rintanarmi in un posto fuori dai piedi e aspettare che arrivi ora di cena…

Ovviamente mi sono dimenticata di dire una cosa...
Insieme a delle amiche ho cominciato a tenere un blog che parla di libri. Se volete darci un'occhiata e farmi sapere cosa ne pensate, ogni suggerimento è ben accetto^^


http://labellaeilcavaliere.blogspot.it/ 

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Capitolo 8
*** Buchi alle orecchie ***


Luglio col bene che ti voglio... Come? Non è luglio? No, davvero??? E allora perchè il mio cervello è già in vacanza??
Ah, ehm, dalla regia mi dicono che il mio cervello è perpetuamente in vacanza, perciò di non preoccuparmi e continuare a cantare. Ok, io vi saluto, torno a studiare materie che dimenticherò cinque minuti dopo l'esame e a mangiare gelato alla nocciola, alla faccia della prova costume! (Per cosa le hanno inventate le taglie forti sennò??)




Gli zombie mi inseguono. Sono dappertutto e allungano i loro orrendi artigli ad afferrarmi. Mi prendono per i vestiti, tirando e strappando. Cerco di scappare, ma quando riesco a liberarmi da uno di loro ce ne sono già altri tre pronti a prendere il suo posto.
< Devi sparare!> dice Gost. Si trova davanti a me e tiene a bada una decina di mostri a suon di pallottole.
< Non ho la pistola> urlo in risposta, ma la mia voce è soffocata dalle urla raccapriccianti degli zombie che mi hanno afferrata.
Mi dibatto nella loro presa, cercando disperatamente di liberarmi. Uno strattone più forte dei precedenti mi manda a ruzzolare su qualcosa di morbido. Sbatto le ginocchia e rotolo sulla schiena. Quando riapro gli occhi sto fissando un soffitto bianco e la parte superiore di alcuni scaffali. Nel mio campo visivo entra un viso contornato da capelli neri con due occhi verdi perplessi.
< Tutto bene?> chiede Diego, inginocchiato accanto a me.
Mi tiro su a sedere di scatto e ho la conferma di essere nel salotto dove Marianna mi aveva mandato a riposarmi.
< Mmmh, mi sono addormentata> dico, come se non fosse evidente.
< Zombie, eh?> chiede Diego con un mezzo sorriso.
Mi rimetto seduta sul divano a fatica. Mi fanno male tutte le articolazioni.
< Uhm, io… ho parlato?> chiedo invece di rispondere.
< Urlavi qualcosa a proposito di una pistola e di artigli> dice Diego, sempre seduto sul tappeto ai miei piedi.
Non mi sento del tutto a mio agio sola con lui. Certo, è un ragazzo stupendo e non riesco a sentirne i pensieri, fatto assolutamente positivo e incredibile, ma c’è qualcosa che mi preoccupa. Quell’oscurità che ho percepito quando ci siamo toccati, tanto per cominciare. Non mi era mai capitato con nessuno.
< Dove sono tutti?>.
Diego si sdraia sul tappeto appoggiandosi ai gomiti.
< Mari e Gabri sono andati a riportare a casa la ragazza. Morg e Gost sono in ricognizione e Blu… beh, lui non lascia detto dove va, ma immagino che qui in città ci siano un paio delle sue amiche da visitare>.
L’accento che pone su amiche e visitare lascia poco spazio all’immaginazione.
< Quindi ti hanno lasciato qui a farmi da balia?> chiedo inquieta.
Lui non risponde, ma nei suoi occhi scorgo uno strano luccichio. Non mi piace per niente.
< Forse dovrei tornare a casa> dico alzandomi in piedi.
L’orologio segna le sei di sera.
Non è possibile! Non posso aver dormito così tanto. I miei saranno già tornati a casa. Al pensiero della mia camera nel caos più totale mi sento male.
Faccio per prendere lo zaino, ma Diego mi ferma afferrandomi il polso. Il mio primo istinto è quello di divincolarmi, invece resto immobile. Il suo tocco è fermo ma gentile, mi sfiora appena.
< Ho una cosa per te> dice Diego frugando nella tasca dei jeans. Ne tira fuori due piccoli orecchini argentati.
< Gabriele mi ha detto di farteli mettere. Dovrebbero aiutarti nel tenere fuori dalla testa i pensieri estranei… per le immagini che vedi ci deve lavorare>.
Mi mette in mano gli orecchini, poi mi lascia andare tornando a una distanza di sicurezza. Tiene lo sguardo basso e le mani in tasca, come l’avevo visto fare a scuola. Guardo gli orecchini. Sono piccoli, incisi con cura a formare strani simboli in rilievo, il tutto in pochi millimetri quadrati.
< Sono, beh, bellissimi… ma c’è un problema> dico.
Gli agito gli orecchini sotto il naso.
< Non ho i buchi alle orecchie!>.
Diego piega la testa di lato per controllare che non lo stia prendendo in giro. Mi volto per mostrargli il lobo delle orecchie assolutamente privo di buchi.
< Ah!> è il suo unico commento.
< Già> dico.
Gli orecchini nella mia mano luccicano beffardi. E’ come se mi avessero dato un antidoto per un veleno mortale in una bottiglietta infrangibile e senza cavatappi. Se non fosse che mi sembrano persone a posto direi che mi stanno prendendo in giro, in modo davvero sadico.
< Potrei farti i buchi> propone Diego.
Lo guardo sbalordita, e anche un po’ spaventata.
< Scherzi?>.
< No, perché? Non è mica così difficile. Non ti farò male>.
Certo, e io in realtà sono la fata Turchina.
< Non se ne parla proprio!> urlo indietreggiando.
Non voglio che questo psicopatico mi sfiori. Non mi fido a fare i buchi alle orecchie in farmacia, figuriamoci nel salotto di un camper.
Prima che possa impedirglielo si è ripreso gli orecchini che avevo in mano.
< Fidati> dice.
Sembra che voglia fare sul serio. Mi porge tranquillo una mano, come se mi stesse invitando a seguirlo. Non ho nessuna intenzione di stare al gioco.
< Ah ah, molto divertente. E’ stato un bello scherzo. Adesso ridammi quegli orecchini, troverò un modo per indossarli lo stesso>.
Magari con della supercolla.
Diego non demorde, anzi sembra farsi più determinato a ogni mio rifiuto.
< Scommettiamo che non sentirai nulla?>.
Il suo sguardo è una sfida aperta. Mi ricorda quello che mi ha lanciato Blu mentre giocavamo al videogioco. Ma non conoscono un modo più carino di guardare le persone?
< E se invece mi farai un male tremendo, che è poi quello che succederà, cosa farai?> chiedo, tanto per provocarlo.
< Potrai farli a me> ribatte prontamente.
< Cioè posso prendere un ago e infilzarti come più mi piace?> chiedo per avere la conferma di aver capito bene.
< Dove vuoi>.
Il viso di Diego si apre in un sorrisone da trentaquattro denti. Non credevo fosse in grado di sorridere così. E’ come se tutto il suo viso fosse illuminato da una luce interna. Resto per alcuni secondi abbagliata.
< Ci sto. Aspettati di soffrire> mi sento rispondere.
Questa è una pessima, pessima idea.
Mi fa sedere di nuovo sul divano e prende il primo orecchino, aprendolo.
< Cioè, scusa, non lo disinfetti nemmeno?> chiedo scivolando sui cuscini fino a portarmi dalla parte opposta. Ora ci separa un metro buono.
< Il conversio non trasmette nessun tipo di infezione. Lo usiamo come disinfettante nei casi più gravi>.
Non chiedo quali possono essere questi casi gravi. Per oggi ne ho avuto abbastanza di gravità e compagnia bella.
< Allora, credevo avessimo un patto> mi ricorda Diego.
Si sposta anche lui sul divano, arrivandomi vicino. Il cuore mi batte così forte che potrei avere un infarto da un momento all’altro.
< Se non giri la testa ti faccio un piercing al naso> dice.
Non mi piace come tiene in mano l’orecchino. Sembra più che pronto a mettere in atto la sua minaccia.
< Userò un ago enorme e mi implorerai di smetterla, dopo> soffio tra i denti voltando la testa di lato.
Serro gli occhi così forte che potrei averli fatti rientrare nel cranio. Forse il buio che vedo è quello della mia testa desolatamente vuota.
La risatina bassa di Diego mi fa venire i brividi. In realtà ha usato il pretesto degli orecchini per attaccarmi e farmi a pezzi come gli zombie del videogioco.
So che sto dando i numeri, ma mi aiuta a non scappare dalla stanza urlando. Solo l’orgoglio in questo momento mi impedisce di farlo.
< Vuoi darti una mossa o la tiriamo ancora per le lunghe? Spero che tu ti stia divertendo perché dopo sarà il mio turno…>.
< Fatto!>.
< Come??>.
< Ho fatto> ripete paziente Diego.
Socchiudo un occhio per sbirciare. In mano ha solo più un orecchino e mi guarda, aspettando che mi volti dall’altra parte per mettere anche quello.
La mia mano vola a controllare e scopro che all’orecchio destro è davvero comparso un orecchino.
< Che diamine…>.
Continuo a giocherellare con il lobo dell’orecchio cercando di trovare il trucco. Non ho sentito nulla, nemmeno il tocco delle sue dita.
< C’è un trucco!>.
< Certo che c’è> risponde Diego.
< Non ho mai detto che non ne avrei usati>.
Non riesco a smettere di giocherellare con l’orecchino. Aspetto il momento in cui sentirò il dolore, ma non arriva.
< Non ti farà male> dice Diego, come leggendomi nel pensiero.
< Mi vuoi dire cosa hai fatto?> chiedo, sospettosa.
Diego fa un lungo sospiro, appoggiandosi allo schienale del divano.
< E’ un trucco molto semplice. Il dolore viene percepito qui> dice toccandomi la fronte. Il suo tocco è così leggero che lo sento appena. I nostri occhi si incontrano e questa volta non scorgo oscurità nel suo sguardo. Solo una strana luce.
< Ho bloccato per un attimo la percezione del dolore, in modo che non sentissi nulla> continua lui, distogliendo lo sguardo.
< Si può davvero fare?> chiedo sottovoce.
Diego non risponde, limitandosi a attendere la mia reazione.
< Ovvio che si possa fare!> dico da sola.
< L’ho appena provato sulla mia pelle. E’ solo che non posso credere che sia vero>.
Diego continua a restare in silenzio, l’orecchino rimasto in mano.
< Oh, per la miseria! Finiamola con questa storia>.
Mi volto dall’altro lato.
< Vai, sono pronta>.
Non posso fare a meno di chiudere di nuovo gli occhi e incrociare le dita. Ci vuole poco più di un secondo.
< Fatto> mi annuncia Diego.
Controllo di nuovo che non mi stia prendendo in giro. Devo constatare che da entrambi i lati ora ho due piccoli orecchini. E non ho sentito nulla.
Diego mi guarda, un mezzo sorriso gli storce le labbra. So che sta aspettando che dica qualcosa, ma proprio non mi viene in mente nulla. Sono allibita.
< Dovrei tornare a casa…> mormoro, ancora stordita.
Diego annuisce. Se è deluso non lo dà a vedere.
< Ti accompagno> dice alzandosi in piedi.
Mi prende lo zaino e se lo mette in spalla, come se fosse naturale. Faccio per imitarlo, ma la porta si apre e entra Blu, in tutto il suo splendore.
Quando finirà questa giornata?

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Capitolo 9
*** Moto ***


No, non mi hanno rapito gli alieni, mi dispiace. Lo so che speravate che fossi stata risucchiata da un buco nero o qualcosa di simile... Invece ero semplicemente in coma post esami e immersa nel lavoro estivo. Una pacchia insomma!
Vabbè, vi lascio a questo capitoletto corto corto, in attesa di temperature più clementi che non mi friggano il cervello ancor prima che lo metta in moto... (u.u notato il gioco di parole col titolo...?).
Ok, la smetto di umiliarmi in questo modo.
Buona lettura!





< Ehi, ancora qui?> chiede.
No, siamo delle allucinazioni…
< Già> rispondo, a corto di parole.
Stare sola con questi due mi rende nervosa. Soprattutto perché non ho la più pallida idea di cosa stiano pensando.
< La stavo per accompagnare a casa> dice Diego con un cenno verso di me.
Non ne sono sicura, ma mi sembra che anche lui sia in tensione. Quando è arrivato Blu si è improvvisamente irrigidito e non guarda nessuno di noi in viso.
< Posso portarla a casa io… stavo per prendere la Yamaha> dice attraversando la stanza per frugare tra i ripiani di uno scaffale. Due secondi dopo ci mostra le chiavi.
< La Yamaha… dici la moto?>.
< No, il pianoforte!> Blu solleva gli occhi al soffitto.
Deglutisco guardando Diego in cerca di aiuto.
< Non sono mai andata in moto…>.
Il sorriso di Blu è troppo ampio per i miei gusti.
< Allora devi fare un giro con me> dice ammiccando.
< Non accetto un no> dice prendendomi per mano e strappando lo zaino a Diego. Mentre mi trascina fuori dal salotto gli lancio sguardi disperati che però cadono nel vuoto. Prima di uscire l’ultima cosa che vedo è Diego che mi saluta con la mano.
Blu mi trascina nel camper vero e proprio, oltre la porta dell’armadio, poi fuori. In strada è già buio e le macchine hanno i fari accesi. La zona in cui è parcheggiato il camper, però, è nella penombra. I due lampioni vicini sono spenti.
Andiamo sul retro del camper, dove Blu si ferma e prende l’aperio. Lo punta verso la targa come fosse il telecomando di un portone automatico e subito si apre uno scomparto, dove secondo i miei calcoli avrebbe dovuto esserci il bagno. All’interno, in uno spazio largo poco più di un metro, è sistemata un’enorme moto nera.
Non me ne intendo per nulla di moto. L’unica cosa che so è che questa ha l’aria di un mostro pronto a sbranarmi ed è grossa, molto grossa.
Blu balza sul camper e preme un pulsante sulla parete che fa scendere una passerella fino a terra per la moto. La porta giù con la tranquillità di uno che fa una passeggiata col proprio cane. Come se non avesse appena fatto comparire un garage in fondo ad un camper, in mezzo a una strada trafficata.
< Pronta?> chiede richiudendo il portellone da cui è uscito. Una volta chiuso nessuno potrebbe dire che di lì sia appena uscita una moto di quelle dimensioni.
< Senti, non è che possiamo andare a piedi? Portati pure la moto se ci tieni, ma a mano> dico a disagio.
Blu mi lancia lo zaino tra le braccia e si mette a cavalcioni della moto, come se non mi avesse sentito. Poi mi lancia il suo sguardo di sfida. Non posso leggergli i pensieri ma è come se avesse una scritta luminosa sulla fronte che mi chiede se sarò davvero così vigliacca da non salire dietro di lui. Sostengo il suo sguardo finché le mie gambe non si muovono da sole per farmi salire.
Blu mi passa un casco. Non so da dove l’abbia tirato fuori.
Faccio fatica ad agganciarlo. I capelli legati mi danno fastidio.
Blu è costretto a scendere e darmi una mano.
< Questi è meglio scioglierli> dice togliendomi l’elastico.
Sento i capelli che mi ricadono morbidi sulla schiena. Blu si attarda un po’ troppo a sfiorarli con le dita prima di mettermi il casco.
< Ecco qua. Pronta per la battaglia> dice con un colpo leggero che mi risuona nelle orecchie.
< Ehi, smettila> dico cercando di togliermi i capelli dal viso.
Blu ride mentre rimonta in sella e mette in moto. Istintivamente mi aggrappo a lui, stringendomi contro la sua schiena.
Ci metto alcuni secondi per capire che mi sta chiedendo qualcosa.
< Come hai detto?>.
< Dove abiti, principessa?> chiede con un sorrisetto strafottente.
Mi viene voglia di tirargli un pugno sulla spalla, ma visto che deve guidare e riportarmi salva a casa, lascio stare.
Gli rispondo e lui parte come se avesse uno di quei demoni di cui mi hanno parlato che gli alita sul collo. Ma l’unica vicino al suo collo sono io.
Soffoco a fatica un urlo mentre Blu sfreccia tra le auto come un centauro impazzito. Vorrei urlargli di rallentare, oppure di farmi scendere, ma le parole mi si sono fermate da qualche parte tra lo stomaco contratto per la paura e la gola serrata dall’adrenalina.
Andiamo così veloci che i fari delle macchine e le luci dei lampioni si confondono in strisce di luce. Mi lacrimano gli occhi per l’aria, ma non riesco a chiuderli. Sono ipnotizzata dalla strada che mi scorre davanti.
Qualcosa dentro di me si scioglie e mi ritrovo a guardare affascinata le case che scorrono senza più tremare. Continuo a aggrapparmi a Blu come a un salvagente in un mare in tempesta, ma la paura mi sta lentamente scivolando di dosso.
Non mi sono mai sentita così… libera. L’aria fredda che mi frusta la faccia è un balsamo che lava via le preoccupazioni.
Arriviamo troppo presto sotto il portone di casa mia. Mi sembra che siano passati solo pochi secondi. Mi tolgo il casco e lo ridò a Blu. Sento le guance in fiamme e gli occhi lucidi. Delle ciocche di capelli mi sono finite sul viso e cerco di rimetterle a posto.
< Così ti sei divertita> dice Blu. La sua espressione dice che non aveva dubbi.
< Sì>.
Non ci sono parole che possano descrivere la sensazione che provo. Una parte di me sta ancora volando sulla strada, con le luci che si confondono in strisce colorate.
< Grazie> dico e lo penso davvero.
E’ strano come due ragazzi, nel giro di pochi minuti, mi abbiano fatto fare qualcosa di cui ero così spaventata e alla fine sia stata contenta in entrambi i casi.
La mia mano va automaticamente a controllare che gli orecchini siano al loro posto.
< Allora, mi fai entrare?> chiede Blu seguendomi.
Mi fermo davanti al portone, le chiavi in mano.
< I miei dovrebbero essere già a casa> dico lentamente.
< Beh, tu hai conosciuto Gabriele e Marianna. Direi che puoi presentarmi ai tuoi genitori. Mi adoreranno> dice facendo l’occhiolino.
Non so come comportarmi. Non capisco se mi sta solo provocando per vedere la mia reazione, oppure fa sul serio.
< Puoi smetterla?> chiedo.
< Di fare cosa?>.
< Di comportarti come… come se fossi una ragazza da conquistare. Non ho dubbi che tu riesca a abbagliare tutte quelle che ti capitano davanti, ma ora come ora la mia testa è fin troppo incasinata per pensare anche a questo. Perciò ti prego, puoi comportarti più seriamente?>.
Non so cosa gli passi per la testa, ma la sua espressione muta una decina di volte dalla sorpresa all’incredulità, prima di assestarsi su una rigida compostezza, guastata però da un velo di ironia.
< Come vuoi, principessa. Niente più scherzi. Posso entrare?>.
Scuoto la testa.
< Ci tieni così tanto?>.
Blu annuisce, questa volta serio.
< Perché?>.
< Per controllare che nella tua famiglia non ci siano Occulti o altri demoni che stanno per prendere il controllo>.
< Se così fosse me ne sarei accorta> ribatto piccata.
< Una verifica di un professionista non guasta>.
Ci penso un attimo.
< Potrebbero esserci sul serio?>.
La sua espressione composta viene guastata da un ghigno divertito.
< Ci sarò io a proteggerti, non devi avere paura>.
Sbuffo, aprendo il portone.
te. Mia sorella ha rovinato l’autostima di ragazzi molto più intrepidi di te>.
Blu mi segue fischiettando. La sua mano scivola rapida sui miei capelli ma quando mi volto per fulminarlo con lo sguardo fa finta di niente.
< Infantile> sibilo mentre entriamo in ascensore.

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Capitolo 10
*** Ospiti non invitati ***


Sì, lo so... avevo detto che avevo finito di lavorare, invece no! (A proposito, sono animatrice in un centro estivo, perciò tremate all'idea che giovani menti vengano affidate alla mia supervisione!). Per fortuna sono stata richiamata sul campo di battaglia, quindi niente pubblicazioni per un po'... sono riuscita a trovare l'energia appena sufficiente per mettere questo nuovo capitolo (Ve lo dovevo, l'ultimo era appena uno scontrino).
Perciò: Buona lettura! Pensate a me mentre sono sotto il sole cocente a far correre bambini urlanti.






Arrivati sul pianerottolo mi accosto lentamente alla porta per sentire i rumori all’interno, inutilmente. La casa è immersa nel silenzio.
Giro la chiave trattenendo il respiro e pregando con tutte le forze che non ci sia mia madre in piedi nel corridoio con una padella in mano da tirarmi in testa. Quando la porta si apre sull’entrata buia e deserta non riesco a credere alla mia fortuna.
< Non c’è nessuno!>.
Blu si guarda attorno circospetto prima di entrare.
< Lo vedo anche io. Ma è normale?> chiede accendendo la luce del salotto e sparendo dalla mia visuale.
Ci devo pensare un attimo, mentre lo seguo e mi chiudo la porta alle spalle.
< Non lo so. Forse avevano un impegno di cui mi sono dimenticata>.
Blu comincia a curiosare nella stanza, ammobiliata in modo più severo rispetto al loro salotto. Qui la tv non è collegata a nessun videogioco e anche i film sugli scaffali sono decisamente più esigui.
Appoggio la giacca sul divano e lascio lo zaino in un angolo, osservando con la coda dell’occhio lo strano ragazzo che cammina sul mio tappeto e guarda i libri sullo scaffale.
< Forse è meglio se vai…> dico incrociando le braccia davanti al petto e senza guardarlo negli occhi.
< E’ meglio che i miei non mi trovino sola in casa con un ragazzo più grande>.
Blu scrolla le spalle senza nemmeno voltarsi.
< Se preferisci posso diventare invisibile>.
Sussulto e per poco non sbatto contro il mobiletto di vetro coi liquori.
< Puoi farlo davvero?> chiedo spalancando gli occhi.
Il sorrisetto di Blu è uno spettacolo di denti candidi e derisione.
< Beh, dipende da cosa intendi per invisibili>.
Si avvicina in due balzi e mi posa un dito sulla fronte, proprio come ha fatto Diego poco fa.
pensi di vedere. La tua mente registra un numero limitato di dettagli, spesso confusi. Siamo per natura influenzabili e noi Saltatori sappiamo come sfruttare tutto questo>.
< In pratica entrate nella testa delle persone per manipolarle> dico storcendo la bocca. Mi sento all’improvviso a disagio.
Blu allarga le braccia come per dire che non ci può far nulla.
< Sono i mezzi di cui disponiamo per combattere contro Occulti e compagnia. Ti ci abituerai anche tu>.
Sbatto le palpebre, per un attimo confusa.
< Che vorresti dire?> chiedo. Un brutto presentimento si è appena affacciato alla mia mente.
Blu sta per rispondere ma una voce alle nostre spalle lo interrompe.
< Ehi, allora anche tu conosci dei ragazzi>.
La voce di mia sorella.
Mi volto col volto paonazzo, anche se la situazione in cui ci ha sorpresi lei non è paragonabile a quella in cui l’ho beccata io.
Blu sfodera un sorriso da dieci e lode, mettendo un passo di distanza tra noi due.
< Tu devi essere Serena> dice affabile.
< Tua sorella mi ha parlato di te>.
Mia sorella sfoggia la sua espressione di finto stupore, condita con un tocco di civetteria che sul suo viso non stona mai.
< E tu saresti?> chiede porgendogli la mano.
< Puoi chiamarmi Blu> dice facendole l’occhiolino. Tutta la scena è così strana che vorrei fermare tutto e riguardarla dall’inizio per capire bene cosa sta succedendo.
< Dove sono mamma e papà?>.
Mia sorella mi scocca un’occhiata infastidita. Come se fossi io l’intrusa lì dentro.
< Avevano quella riunione di condominio… tra poco saranno qui> mi liquida per tornare a posare tutta la sua attenzione su Blu, che sembra godersela parecchio.
Forse dovrei lasciarli soli. Non sono sicura di come dovrei comportarmi. Ma un moto di orgoglio mi inchioda al pavimento.
Attorno a Serena vorticano diverse immagini, tra cui una scena molto vivida di lei tra le braccia di Blu. E tanti saluti al povero malcapitato che c’era sul nostro divano. Ma non ci penso proprio a lasciarle campo libero. Anche se Blu non mi interessa… insomma, forse… non è comunque giusto che sia io a farmi da parte.
Per fortuna, o sfortuna, i miei fanno la loro entrata in scena con tanto di cartoni di pizza e aria distrutta.
< Ciao, ragazze…> mio padre si blocca nel notare Blu.
E tanti saluti al potere dell’invisibilità.
< Ciao, non credo che ci siamo mai incontrati. Sei un compagno di Serena?>.
Mia sorella mi dedica un sorrisetto divertito prima di rispondere al mio posto, e quello del diretto interessato.
< No, papi, è un amico di Alice>.
Mia madre si blocca nell’atto di posare la borsa sul tavolo. Socchiude le labbra come per dire qualcosa, ma le parole devono sfuggirle di mente, perché resta in silenzio.
Cioè, avevano perso le speranze che potessi portare a casa un ragazzo?
E’ Blu a venire in mio soccorso.
< Mio fratello va nella stessa scuola di Alice. Si sono fermati per un laboratorio e ho pensato di riaccompagnarla a casa> dice con aria innocente.
Vorrei sapere raccontare bugie come fa lui. Avrei molti problemi in meno.
< Oh, che gentile!> cinguetta mia madre riprendendo a muoversi normalmente.
Mia sorella mi scocca un’occhiata scettica, mentre mio padre va in cucina per prendersi da bere.
< Ti fermi a mangiare con noi?>.
< Vi ringrazio, ma mi aspettano a casa… è stato un piacere conoscervi> dice Blu stringendo la mano ai miei. Se fosse davvero il mio ragazzo avrebbe appena ottenuto la piena approvazione da entrambi.
< Lo accompagno!> dico precedendolo nell’entrata, per evitare che sia Serena a offrirsi.
Mentre apro la porta lo tiro per la manica.
< Non dovevi controllare se c’erano Occulti?> bisbiglio.
Blu mi fa l’occhiolino.
< Già fatto, non ti preoccupare>.
Mi fa vedere l’aperio che aveva in tasca.
< La tua famiglia è pulita… in tutti i sensi>.
Sbuffo e lo lascio andare. La sua battuta non merita commenti.
< Come vanno gli orecchini?>.
Devo pensarci per un secondo prima di rendermi conto che da quando sono arrivata non ho sentito nemmeno un pensiero vagante. Niente di niente.
Le immagini sono rimaste, chiare e sberluccicanti come sempre. Ma suoni? Nada.
< Funzionano!> dico sbigottita.
Blu fa un ghigno difficilmente interpretabile. Potrebbe essere di soddisfazione, ma c’è un po’ troppo scherno.
< Ora te ne vai?> chiedo, dispiaciuta mio malgrado. Anche se sono munita di orecchini-filtro contro i pensieri molesti di mia sorella, restano comunque le immagini che le ondeggiano attorno.
< Devo andare. Ma non ti preoccupare. Più tardi verrà uno di noi a controllare che tutto vada bene…> dice uscendo sulle scale.
< Aspetta! Che vuol dire? Mica posso fare entrare uno sconosciuto in casa la sera tardi. Cosa diranno i miei?> gli urlo dietro, ma lui ha già sceso la prima rampa di scale.
< Mica lo vedranno!> mi risponde Blu dal piano di sotto.
Rientro in casa con l’impressione di essere stata presa in giro per l’ennesima volta.
Quando arrivo in cucina il tavolo è già apparecchiato e mio padre si è servito una grossa fetta di pizza ricoperta di peperoni.
< Ditemi che c’è una pizza commestibile> dico sedendomi al mio posto.
Tengo gli occhi bassi per evitare di vedere le immagini attorno ai miei. E’ più facile non dovendo concentrarmi per non sentire i pensieri.
Non avrei mai creduto che il silenzio potesse essere così riposante.
Mia sorella si mette di impegno per non farmi sentire la mancanza della sua voce. E’ come se avesse intuito che non posso più sentire i suoi pensieri e volesse stordirmi a forza di chiacchiere, per altro insulse.
Persino i miei sembrano caduti in uno stato di trance, concentrati su tutt’altro.
<… quindi ho pensato di darmi fuoco per protesta> conclude mia sorella.
Solo allora mi risveglio dal mio stato di torpore, dovuto in parte alle cinque fette di pizza che ho mangiato. I miei non hanno nemmeno notato cosa ha detto Serena.
< Sì, brava> commenta distrattamente mio padre.
Mi viene da ridere vedendo l’espressione acida sul volto di Serena.
< Sì, anche io penso sia un’ottima idea> dico.
La risposta è immediata e condita di veleno.
< Sta’ zitta tu! Se fossi te a farlo saremmo tutti più contenti> sibila. Giuro, mi ricorda il serpente nel cartone di Robin Hood.
< Serena, che stai dicendo?> chiede mia madre, ritornata dal mondo dei sogni a occhi aperti.
< Mi ha appena invitato a darmi fuoco> ribatto tranquilla. In realtà sento qualcosa di acuminato torcermi le budella. Sono abituata alle battutine acide di mia sorella, ma ogni volta riesce a sorprendermi per l’inventiva.
< Dai, ragazze, smettetela> taglia corto mia madre.
Mi alzo per sparecchiare, evitando così di andare avanti con la discussione. Mio padre non ha neanche commentato, si limita a finire anche le croste della pizza di mia madre.
< Lascia ci penso io!> dice Serena a voce alta, perché la possano sentire tutti. Anche i vicini dal tono che ha usato. Ovvio che voglia mettersi di nuovo in buona luce.
< No, faccio io> dico bruscamente.
Mia madre sospira e guarda mio padre, sperando che sia lui a intervenire questa volta. Ma come al solito non si accorge di nulla, oppure fa finta.
< Non c’è quasi niente da lavare, faccio io> dice mia madre alzandosi e ponendo così fine alla discussione. Penso sia l’unica casa sulla faccia del pianeta dove si litiga per lavare i piatti.
Mi dirigo in camera recuperando lo zaino in salotto e cercando di evitare mia sorella, ma lei mi segue come un segugio.
< Quindi l’hai conosciuto oggi?> mi chiede, marcandomi stretta.
< Chi?> chiedo cadendo dalle nuvole.
Quando mi rivolge il suo sorrisetto di superiorità capisco.
< Ah, Blu. Sì, oggi> rispondo telegraficamente.
Siamo davanti alla mia porta e non ho intenzione di aprirla per farle vedere il disastro che ho combinato. Aspetto che si levi dai piedi, cosa che ovviamente non ha intenzione di fare.
< E come si chiama il fratello?> chiede con aria innocente.
Per un attimo mi vedo chiaramente mentre le do una testata sul naso, rompendoglielo. Se lei fosse in grado di vedere gli schermi ultrapiatti delle persone, come me, sono sicura che si spaventerebbe abbastanza da sparire in camera sua. Ma dato che non ha idea di cosa mi sia appena passato per la testa, aspetta paziente la mia risposta.
< Uhm, lo chiamiamo Gost> dico.
E’ la prima risposta che mi viene in mente. E poi se per caso le saltasse in testa di controllare l’annuario non potrebbe prendersela perché non c’è il suo nome.
< Hai solo quattro ragazzi nella tua classe. Me lo ricorderei …> dice diventando pressante.
< Senza offesa, Sere, ma non ti ho mai parlato abbastanza della mia classe perché tu possa conoscere tutti i miei compagni. Anzi, per essere precisi, non ti ho mai parlato, punto. Cosa che, scusa tanto, mi sta benissimo!> dico entrando nella mia camera e sbattendomi la porta alle spalle.
Ho il fiatone come dopo il riscaldamento durante l’ora di ginnastica. Non riesco a credere di essere riuscita a parlare in quel modo a mia sorella. Ripercorro la scena nella mia mente più e più volte per convincermi di non aver sognato.
No, l’ho fatto davvero. Le ho tenuto testa. Beh, diciamo che non le ho dato il tempo di ribattere.
Accendo la luce e i cumuli di vestiti e oggetti vari mi accolgono con una risata di scherno. Potrei giurare di averli sentiti ridere di me.
Lascio cadere a terra lo zaino e mi rimbocco le maniche. Non vorrei farlo, ma non è che ho molta scelta. Mia madre non se ne starà fuori dalla mia stanza in eterno, e dopo la discussione con mia sorella non mi stupirebbe un’incursione notturna per smascherarmi.
Perché dovrei poi giustificarmi per come tengo la mia stanza? Potrei sempre dire che avevo voglia di cambiare la disposizione dei mobili.
Mi sembra già di poter vedere lo sguardo di mia madre, seguito da una chiamata a uno dei suoi amati dottori.
Comincio a dividere i mucchi di roba secondo un ordine: da una parte i vestiti, dall’altra i libri, poi i soprammobili, infine tutto l’irrecuperabile. Mi toccherà prendere un sacco della spazzatura per buttare i resti di una lampada e altri oggetti finiti in frantumi. Non credevo di aver tante cose.
Ho appena finito di sistemare una fila di libri sulla libreria che sento un movimento alle mie spalle e mi giro col cuore in gola per lo spavento. Un paio di gambe si agitano in mezzo al mucchio dei vestiti. Dopo essere rotolate di lato e aver recuperato la posizione eretta, vedo che si tratta di Morgana.
< Che ci fai qui? E come sei entrata?> sussurro per non farmi sentire dai miei, ma la mia voce ha una traccia di isteria latente difficile da nascondere.
Morgana si scuote di dosso un paio dei miei slip e si guarda intorno come se non fosse sicura di dove è finita.
< Questa è la tua camera?> chiede inarcando un sopracciglio.
Seduta in mezzo a tutto quel caos mi sento improvvisamente molto stupida e spaventata. Aspetto che Morgana mi guardi come farebbero i miei, o Serena. Aspetto di leggere nei suoi occhi l’incertezza e poi la paura di sapere cosa si nasconde nella mia testa. Aspetto l’accusa. Ma non arrivano. Non arriva nulla di ciò che potrei aspettarmi.
Morgana si accuccia al mio fianco. Prende uno dei libri che devo ancora sistemare.
< Diego, Gost e Blu si sono messi a litigare su chi doveva venire a trovarti> dice rigirandosi I tre moschettieri tra le mani.
< Marianna è stata d’accordo con me che non fosse il caso di far passare uno di quegli zoticoni nel tuo universum… perciò sono venuta io>.
Mette il libro sullo scaffale e mi sorride. Le pagliuzze nelle sue iridi luccicano allegre.
< Sai, quando l’ho fatto io…> indica la stanza con un cenno della testa.
< Non ho lasciato integri i mobili>.
Mi fa l’occhiolino e scoppio a ridere, un po’ per la sua smorfia un po’ per il sollievo.
Riprendo a respirare normalmente. Non mi ero nemmeno accorta di star trattenendo il fiato.
< Così hanno litigato per venire qui?> chiedo ricominciando a sistemare i libri.
Morgana me li passa uno alla volta, leggendo i titoli.
< Beh, Diego non ha aperto bocca, ma quando ti guarda male è come se dicesse un sacco di parole. E’ l’unico al mondo che riesce a farti capire quello che pensa con una semplice scrollata di spalle>.
Mi viene da ridere al pensiero di Diego che comunica scuotendo le spalle e sbuffando, come una specie di gorilla.
< Blu continuava a ripetere che essendo già stato qui poteva orientarsi meglio e Gost insisteva per venire perché è l’unico che non ti ha potuto parlare da solo…>.
Cerco di capire cosa pensa Morgana sbirciando il suo volto, ma senza le immagini rivelatrici intorno a lei è del tutto inutile. Mi sento come se fossi diventata improvvisamente cieca. Per quanto odi gli schermi ultrapiatti, spesso possono essere utili.
< Sembra che siano tutti incuriositi da te> continua Morgana.
Abbiamo finito di mettere a posto la libreria. Abbiamo fatto più in fretta di quanto potessi sperare.
Non so come risponderle.
< Non fraintendermi. Anche io sono curiosa. I tuoi poteri non sono una cosa comune, anzi, direi che sono unici. Nascere possedendo già un livello cinque … non riesco a immaginarlo>.
Si siede sul letto mentre io mi tengo occupata con la biancheria da rimettere nei cassetti.
< Non è una cosa che ho voluto> dico dandole le spalle.
< Nessuno di noi l’ha chiesto> è la flebile risposta di Morgana. Ha parlato così piano che potrei essermelo immaginato.
< Gost ha un sacco di domande. Blu… penso che lui sia semplicemente curioso di sapere cosa sei in grado di fare>.
Mi volto verso di lei. In mano ho una decina di magliette appallottolate che temo di non riuscire mai più a districare.
< Cosa sono in grado di fare?>.
< Forse non ci siamo capiti bene… anche Blu prima parlava di abituarmi a qualcosa. Ma io non voglio farlo. Non voglio essere una Saltatrice o come volete chiamarvi>.
Prendo un bel respiro. Morgana mi guarda senza tradire emozioni. Si limita a lasciarmi parlare. Le sono grata per questo, ma allo stesso tempo mi innervosisce. Capisco che mi sta prendendo sul serio. E capisco anche che sta prendendo in considerazione tutte le mia parole. Non si limita a ascoltarmi per poi tentare di farmi cambiare idea.
< Gabriele ha detto che può trovare un modo per bloccare le immagini che vedo. Gli orecchini che mi ha dato funzionano già. Non desidero altro. Se potete fermare le immagini… io…>.
Morgana inclina la testa di lato, osservandomi.
< Tu cosa? Potrai vivere una vita normale?> non c’è accusa o sarcasmo nella sua voce, ma c’è qualcosa che mi terrorizza. C’è compassione. E’ come se mi stesse dicendo che non importa quanto lo desideri, quello che voglio non potrà mai realizzarsi. Mai.
< Non si tratta solo di vedere e sentire. Si tratta di ciò che puoi fare alle persone. Tu apri brecce nelle coscienze, tra gli universum. Non cambierà solo perché non sarai più in grado di vederlo> dice dolcemente Morgana.
Si alza in piedi guardandosi intorno.
< Beh, sarà meglio che vada>.
Resto così spiazzata che lascio cadere le magliette.
< Ma… di già?>.
< Sì. Qui mi sembra tutto a posto, e forse è meglio che ti lasci da sola a riflettere>.
Vorrei fermarla, ma non so cosa dirle. Ed è vero che ho bisogno di riflettere.
< Buona notte, Alice> dice prima di sparire nel nulla. Non per modo di dire. Un attimo è qui davanti a me, l’attimo dopo ci sono solo io e due quintali di roba da sistemare.
Mi lascio cadere a terra, sul mucchio dei maglioni e delle felpe. Mi aspetta una lunga serata.

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Capitolo 11
*** Sei del mattino ***


Ciao a tutti!
Ho una buona notizia e una brutta... quella bella è che ho postato un nuovo capitolo (ma dai?), la brutta è che per circa tre mesi sarò latitante. No, la croce verde non è sulle mie tracce e non ho fatto nulla di illegale (mmmmh, credo), ma dopodomani partirò per un viaggio studio dall'altra parte del mondo (non è uno scherzo). Quindi, che dire? Grazie a tutti quelli che hanno seguito fin qui la storia! Probabilmente non riuscirò a postare nient'altro, ma cercherò di collegarmi per rispondere almeno alle recensioni.. 
Buon inizio scuola, per chi ancora ci va, e in bocca al lupo per gli esami, per quelli che fanno l'università. Per chi lavora... farò un minuto di silenzio in vostro onore.
Sayoonara!






Non è il suono stridulo della sveglia sul cellulare a strapparmi dal mondo dei sogni. Si tratta di un tonfo, seguito da un borbottio di protesta, e poi della consapevolezza che c’è qualcuno nella mia stanza. Qualcuno che non è mia sorella o i miei.
Mi metto a sedere di scatto sul letto, pronta a dar fondo ai polmoni in un urlo alla The ring quando nella penombra mi sembra di notare una sagoma famigliare.
< Blu?>.
Non riesco a trattenere l’incredulità, e nemmeno l’irritazione. Da quando la mia camera è diventata una stazione per tutti gli sciroccati del quartiere?
< Cha diavolo ci fai in camera mia?>.
Blu si alza in piedi con cautela, scavalcando un cumulo di vestiti.
< Morgana mi aveva detto che la tua camera sembra un accampamento profughi, ma credevo esagerasse come al solito> mi risponde, assolutamente fuori luogo. Deve essere un loro vizio di famiglia rispondere alle domande con cose che non c’entrano nulla.
< Ti ho chiesto che ci fai qui, non un parere sull’arredamento> ribatto.
< Ti manda Gabriele?>.
< Oh, no> dice Blu sollevando le mani al soffitto.
< Se lo sapesse si arrabbierebbe parecchio. Ha detto a tutti di lasciarti in pace>.
< E piombare nella mia camera alle…> guardo l’orologio e per poco non mi ingoio la lingua per l’impulso di mettermi a urlare.
< Sei di mattina! Questo sarebbe lasciarmi in pace? Potrei chiedere un’ordinanza restrittiva per una cosa del genere>.
Blu fa spallucce. Non mi prenderebbe sul serio nemmeno se avessi un bazooka da puntargli contro.
< Rilassati. Secondo me non sai nemmeno cos’è, un’ordinanza restrittiva>.
< Sì, che lo so> mi impunto.
< Va bene. Direi che non è la cosa più importante>.
< Giusto, perché deve esserci un buon motivo se ti sei scomodato a venire qui così presto, vero? Ti prego dimmi che c’è un buon motivo> cerco di mantenere un tono minaccioso, ma è difficile farlo mentre Blu mi guarda con il suo sorriso di superiorità.
Prima di andare a dormire mi sono dimenticata di oscurare le finestre, così nella stanza entra il debole chiarore dell’alba e dei lampioni ancora accesi. Riesco a vedere il suo viso immerso nel buio come se fluttuasse di fianco al mio letto. Un po’ inquietante in effetti. Accendo la lampada sul comodino. Va meglio. Indossa una tuta blu scuro, ed ecco spiegato perché prima vedevo solo la testa.
< Sì che c’è un buon motivo> dice sedendosi in fondo al mio letto. Vorrei fargli notare che non l’ho invitato  a mettersi comodo, ma ho la sensazione che sarebbe inutile.
< E quale sarebbe?>.
< Volevo fare un giro nel tuo universum> sorride.
Per un terribile momento ho il dubbio che si riferisca a qualcos’altro, poi mi ricordo che anche Morgana mi ha parlato del passare nel mio universum e tiro un sospiro di sollievo.
< Mi spieghi esattamente cosa significa?>.
< Beh, per venire fin qui sono dovuto passare per alcuni universum. E’ il modo più veloce che abbiamo per trovare qualcuno>.
< Continuo a non capire>.
Blu alza gli occhi al soffitto, come se non potesse credere che sia così stupida.
< Ci vorrebbe Gost> borbotta, prima di scrollare le spalle e ricominciare a spiegare.
< Sai già cos’è un universum, giusto?>.
Annuisco senza parlare. Non vorrei interrompere il filo del suo ragionamento. Non mi sembra incline all’insegnamento e spiegarmi una cosa tanto complicata sembra metterlo in difficoltà.
< Devi capire che ogni universum è collegato con diversi altri. Si tratta per lo più di quelli delle persone a noi più vicine, come parenti e amici. Gli universum sono legati come le persone nella vita reale, per questo si può passare da uno all’altro. Una volta entrati nell’universum della persona che cerchiamo ci basta uscire nel mondo reale, e voilà!> indica se stesso e poi la mia camera.
< Certo non è così facile, ma con un buon allenamento…>.
< Ferma tutto> lo interrompo.
< Quindi siete passati dentro di me? Come se fossi una specie di passerella?> non riesco a impedire alla mia voce di raggiungere acuti umanamente impossibili.
< Mi avete usato come una fottuta botola spazio-temporale?>.
Blu non ribatte finché non smetto di parlare per riprendere fiato.
< Uh, Gabriele l’ha detto che avresti potuto prendertela>.
< Lui l’ha detto, eh!>. 
< Sì, è per questo che ci ha proibito di venire da te>.
< Ma tu dovevi dare una sbirciatina al mio universum> dico sarcastica. Blu sembra non farci caso. Se gli avessi detto che era un piacere averlo nella mia stanza avrebbe avuto la stessa espressione di placida serenità.
< Non ti piacerebbe fare lo stesso?> chiede.
Sono già pronta a cacciarlo fuori a calci ma mi blocco.
< Che hai detto?>.
< Non ti piacerebbe vedere il tuo universum?>.
Proprio no! Non ne voglio sapere niente. E se assomiglia anche solo vagamente a quello di Silvia, preferisco restarmene al calduccio nel mio letto. Senza contare che tra poco più di mezz’ora devo prepararmi per andare a scuola.
< Non ci vorrà molto. Una sbirciatina veloce> mi punzecchia Blu.
Non mi interessa! Ho vissuto finora senza sapere dell’esistenza di universum e Occulti, posso andare avanti così. E che ci sarà mai di così interessante? Nell’unico che ho visto l’atmosfera non era per niente accogliente.
< Ogni universum è un mondo a parte. Non puoi giudicarli tutti in base a uno solo. Così come non puoi giudicare le persone basandoti su una sola>.
Va bene, forse un po’ sono curiosa, ma poco.
< E’ così facile entrarci?>.
Il viso di Blu si apre in un sorriso di vittoria. Lo sapeva dall’inizio che ce l’avrebbe fatta, ma non può fare a meno di sottolinearlo.
< Ehi, ci sono io. Con un professionista come me non corri rischi>.
Una parte di me desidera che qualcosa vada storto solo per poterglielo rinfacciare. Prende dalla tasca il suo aperio e poi una di quelle sfere argentate che ho già visto. Armeggia con entrambi per qualche secondo prima di rivolgersi di nuovo a me.
< Pronta?>.
< No. Fa qualche differenza?>.
Blu sorride e poi traccia un cerchio nell’aria con la sfera d’argento.
< Non molta>.
Sono le ultime parole che sento prima di essere risucchiata nel buio.

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Capitolo 12
*** Universum ***


Ebbene sì, non sono morta e non sono nemmeno stata rapita dagli alieni... per vostra sfortuna. Perciò eccomi qui, di nuovo a pubblicare cose di scarso, se non nullo, interesse solo per il gusto di infastidirvi!
Buona lettura a tutti!




< Alice?>.

< Mmm?>.

< Alice!>.

< Che c’è?>.

< Guarda che puoi aprire gli occhi>.

La risata nella voce di Blu è irritante, ma non abbastanza perché gli obbedisca subito.

Mi prende per le spalle e mi rimette in piedi. Non mi ero accorta di essere seduta a terra, o sul pavimento, o ovunque sia finita. Non lo so. Ho ancora gli occhi chiusi.

< Fossi in te mi guarderei intorno>.

Vorrei davvero dargli ascolto. Ma qualcosa mi trattiene. Forse ho solo paura di restare delusa.

Qualcosa mi solletica il naso, sembra un insetto. Grido spaventata e spalanco gli occhi agitando le mani per scacciarlo, solo per scoprire che era Blu con un lungo filo d’erba in mano.

< Ma sei scemo?> gli urlo, paonazza.

Lui fa spallucce sogghignando.

Solo in quel momento realizzo dove sono.

< Ma io lo conosco questo posto!> dico girando in tondo come un cane che cerca di mordersi la coda. Mi rendo conto di essere ridicola, ma non riesco a smettere di guardarmi in giro per scoprire perché il sentiero in cui ci troviamo mi risulti così familiare.

< Credo di essere stata qui da piccola…> mormoro osservando gli alti pini che nascondono la luce del sole. Il sottobosco è un susseguirsi di fiorellini gialli e rosa. E’ tutto talmente reale che non posso fare a meno di passare una mano sull’erba per sentire il solletico sui polpastrelli. E mentre sfioro una piantina dai fiori rosa mi viene in mente che posto è questo.

< Mia nonna ha una casa da queste parti. Da piccole venivamo qui in estate> dico alzandomi di scatto.

Blu sorride, le mani nelle tasche della tuta.

Mi guardo i piedi, scalzi, e scopro di essere ancora in pigiama. Non faccio in tempo a pensare che sarebbe meglio indossare abiti adatti alla montagna, che mi ritrovo in calzoncini e scarponi da trekking. Faccio un salto di lato cadendo a terra rovinosamente. Blu scoppia a ridere, per nulla d’aiuto.

< Che caz… sei stato tu?> chiedo fissando gli scarponcini come se fossero dei mastini bavosi pronti a sbranarmi.

Blu ci mette alcuni secondi per smettere di ridere e rispondermi, cosa che fa con gli occhi lucidi per le risate trattenute a stento.

< E’ il tuo universum. Hai il controllo su ciò che ci circonda, almeno in una certa misura. Ma devi ancora imparare a usarlo>.

Molto utile. E dirmelo prima?

< Bene> dico a denti stretti rimettendomi in piedi.

Mi spolvero i pantaloncini lanciando occhiate cariche di veleno a Blu, che le ignora senza scomporsi.

< E’ un bell’universum> dice Blu, appoggiandosi al tronco di un pino.

< Tranquillo e sereno. Anche se, ovviamente, è solo un angolo di questo mondo. Non mi capita spesso di visitarne di simili>.

Non so che rispondergli. A parte le Terre di Mordor dove sono stata ieri non ne ho mai visti altri. E questo non mi sembra nemmeno uno di quelli. Insomma, è così normale…

Mi viene in mente che la casa di mia nonna era proprio pochi metri più a valle. Sono passati anni, ma in qualche modo la strada da fare per tornare indietro mi è rimasta impressa nella mente.

< Devo controllare una cosa> dico partendo di corsa verso valle.

< Aspetta!> mi urla dietro Blu, ma io sono già partita a razzo.

Seguire il sentiero è più facile di quanto ricordassi. Mi sembrava che le pietre fossero più grandi e la terra più scivolosa. Mi muovo come se non sentissi la fatica. In pochi minuti sono arrivata al margine del bosco. Non ho nemmeno il fiatone, anche se ho l’impressione di non essere del tutto salda sulle gambe.

E’ incredibile come ogni dettaglio mi sembri perfetto. Ricordo persino il nido di gazze ladre sulla cima di un abete a lato del sentiero. Anche i suoni sono quelli che ricordo. Il lieve cinguettio degli uccelli e il ronzio delle api in qualche modo fanno sembrare il silenzio del bosco ancora più profondo.

Blu non si vede. Non credevo di averlo distanziato così tanto. Scrollo le spalle, senza curarmene, e supero l’ultima svolta. Ma invece di trovare le ultime case del paese, mi trovo davanti a una enorme radura, al cui centro si trova la casa di mia nonna. E’ diversa dai miei ricordi, ma allo stesso tempo è esattamente uguale.

Il tetto è fatto di pietre piatte, grigie e lucide, che brillano sotto i raggi di sole, mentre le pareti sono intonacate di bianco con le travi in vista. Sul balcone del primo piano ci sono dei vasi di gerani rossi e alle finestre tendine bianche di pizzo. Il giardino intorno è recintato da un muretto di pietre con un cancelletto di legno.

Quando faccio per avvicinarmi, però, vado a sbattere contro qualcosa. Porto le mani davanti al viso e provo a spingere l’aria solida che mi trovo davanti, senza risultato. Comincio a prendere a pugni la parete invisibile che mi impedisce di proseguire. La casa è a pochi metri di distanza, ma non posso arrivarci. Non so perché, ma all’improvviso mi sembra importantissimo raggiungerla. Qualcosa mi spinge a provare con tutte le mie forze a superare la barriera. Continuo a colpire l’aria mettendoci tutta l’energia che riesco a trovare, ma è inutile.

< Smettila, Alice. Adesso basta> è Blu, che mi posa una mano sulla spalla, allontanandomi dalla parete invisibile.

< Ma devo passare!> protesto, senza degnarlo di un’occhiata. Non riesco a fare a meno di divincolarmi. Blu è costretto ad afferrarmi per le braccia e portarmi via di peso, lontano dalla casa. Gli do del filo da torcere.

< Vuoi smettere di agitarti per un attimo?> chiede col fiato corto.

Quando la casa sparisce dalla mia vista riesco a recuperare un minimo di controllo, giusto il necessario per smetterla di agitarmi come un’anguilla.

Blu continua a tenermi saldamente con una mano sola e con l’altra tira fuori una sfera argentata.

< Cosa…> non ho il tempo di chiedere che precipito nel buio.

Ci metto qualche secondo per rendermi conto che sono di nuovo sdraiata nel mio letto. Sopra le coperte attorcigliate. Blu è accanto a me, guarda il soffitto con una mano posata sulla fronte.

Cerco di alzarmi ma mi fanno male tutti i muscoli. Molto male.

< Che diamine è successo?> chiedo tenendo a stento la voce bassa per non farmi scoprire dai miei. Posso sentire l’acqua scorrere in bagno e le tazze posate sulla tavola in cucina. Tra pochi minuti mia madre verrà a bussare alla porta e allora tanti saluti alle spiegazioni.

< Blu, perché mi hai portato via di lì?> gli sto praticamente addosso, le gambe intrecciate alle sue in mezzo al letto disfatto. Se entrasse mia sorella si farebbe venire un infarto. Anche mia madre in effetti. E mio padre. Insomma, potrei fare fuori tutta la mia famiglia in un colpo solo.

< E’ meglio che vada …> mormora Blu, sempre fissando il soffitto ed evitando accuratamente di guardarmi negli occhi.

< Non ci provare!> lo prendo a pugni sulla spalla, ma scivolo e gli cado addosso.

< Ouf> mi lamento rimettendomi seduta.

< Sei tu che ci provi> ironizza.

Arrossisco fino alla punta dei capelli, sono sicura di essere diventata fosforescente nella penombra della camera. Ma non faccio in tempo a ribattere che lui ha già tirato fuori la sua sfera argentata. Cerco di prendergliela ma è troppo tardi: è già sparito.

Mi sono lanciata in avanti con troppa foga e mi ritrovo sul pavimento, le gambe ancora aggrovigliate alle coperte che cercano inutilmente di liberarsi scalciando per aria. Mi sento un merluzzo preso nella rete dei pescatori. Mia sorella sceglie quel momento per entrare in camera a chiamarmi. Mi guarda per alcuni secondi senza dire una parola, poi esce senza commentare. Due minuti. Non poteva arrivare due minuti prima e cogliermi in flagrante con Blu? Sarebbe stato meno imbarazzante.

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Capitolo 13
*** Nuovo compagno ***


Soooonooo tooornaaataaa!!! 
Lo so, vi mancavo tantissimo, non potevate più vivere senza di me e stavate già pensando come fare per dare un nuovo senso alla vostra vita. Invece, eccomi qui! Ok, la smetto ed evito il linciaggio. Meglio che non perda altro tempo e vi lasci leggere^^
Volevo solo farvi sapere che finalmente potrò ricominciare a pubblicare con una frequenza quasi decente, lezioni permettendo...
Buona lettura a tutti, aspetto i vostri commenti!




Il tragitto verso scuola è così tranquillo che mi sembra di sognare. Nessun pensiero.
Solo silenzio. Beh, sì, a parte i clacson, le macchine, gli urli e gli schiamazzi degli studenti che si avviano in aula. Mi sento in paradiso. Non credevo che avrei apprezzato pure gli strombazzamenti incalliti degli automobilisti.
Quando una macchina quasi mi investe mentre attraverso davanti scuola saluto l’autista perplesso con la mano e con un sorriso. Intorno alla testa gli volteggiano degli strani aeroplanini di carta. Mi ricorda un cartone animato.
Raggiungo la classe incolume e, stranamente, in perfetto orario. Persino la prof di latino mi guarda sbalordita.
< Oh, bene, bene, molto bene>.
< Già> mi sembra scortese non dirle niente.
< Visto che puoi arrivare in orario?>.
Però lei i fatti suoi non se li può fare…
Sorrido a labbra strette. Se le mostrassi anche i denti penso che finirei per assomigliare a un mastino pronto a sbranare qualcuno.
Mi siedo al mio posto, nell’angolo contro il muro. Ci sono quasi tutti ma non vedo Eleonora. Mi viene in mente solo in quel momento che ieri non ho risposto al suo messaggio. Mi toccherà scusarmi.
Ma pochi secondi prima della campanella non è lei a entrare in classe. Spalanco gli occhi e balzo sulla sedia facendo tremare i banchi a fianco. Stefano, seduto dietro di me, mi guarda con disapprovazione.
< Ti serve qualcosa?> sta chiedendo intanto la prof al nuovo arrivato.
Gost.
E’ proprio lui. Lo guardo per un minuto buono prima di arrendermi all’evidenza che non me lo sto immaginando. Un paio di ragazze hanno drizzato la testa e ascoltano interessate. In effetti nella nostra classe c’è una tale penuria maschile che non è strano che un nuovo soggetto dell’altro sesso attiri tanta attenzione.
< Mi sono appena iscritto. Mi hanno messo in questa classe>.
Vedo le immagini che brillano sulla testa di alcune ragazze e sospiro. Neanche cinque secondi e già è diventato l’interesse numero uno di metà della popolazione femminile della classe. E dire che è un ragazzo piuttosto ordinario, almeno per l’aspetto. Di certo loro non possono sapere che nel tempo libero caccia demoni assetati di sangue negli universum di altre persone ed è un mezzo genio.
All’improvviso mi sembra molto più interessante.
Lui si gira verso la classe e mi individua subito. Mi fa l’occhiolino prima di tornare a dedicare tutta la sua attenzione alla prof. Mi guardo intorno per capire se qualcuno l’ha notato, ma le ragazze sono ancora concentrate su di lui, mentre i ragazzi si fanno allegramente i fatti propri. Intorno alla testa di Andrea ruotano diversi palloni di dimensioni diverse. Non saprei dire perché e cerco di non farmi troppe domande.
< Bene, Agostino, puoi sederti…> sta dicendo intanto l’insegnante.
Lui incassa leggermente la testa nelle spalle al suono del suo nome e io devo trattenere la risata che mi è salita alle labbra. Così è questo il suo oscuro segreto.
Ma non ho il tempo di riprendermi che Gost è già arrivato al mio fianco e si è seduto accanto a me. Posso leggere il disappunto su un paio di volti, forse anche quattro o cinque. Mi sento lusingata e un po’ in ansia. Era diverso tempo che non attiravo tanta attenzione.
< Ciao! Puoi chiamarmi Gost> dice porgendomi la mano e parlando abbastanza forte perché tutti lo sentano. Ricambio il sorriso senza bisogno di sforzarmi. E’ facile trovarsi bene con lui.
< Sono Alice> dico stringendogli la mano.
Mi fa di nuovo l’occhiolino e quasi scoppio a ridere.
< Bene, non perdiamo tempo> dice la prof stringendo ansiosamente i foglietti con i suoi appunti, terrorizzata dall’idea di perdere momenti utili per spiegare, dato che la campanella è appena suonata.
< Spero che non ti dispiaccia> mi sussurra Gost prendendo un quaderno nuovo e una penna dal suo zaino.
Scuoto la testa prendendo il libro e mettendolo in mezzo perché anche lui possa vederlo.
< Al contrario. Sono davvero contenta che tu sia qui> dico.
Il suo sorriso è così sincero che non posso fare a meno di ricambiare.
< Immagino l’abbiate fatto per tenermi d’occhio> sussurro. Non mi preoccupa molto essere sentita. Si stanno facendo tutti gli affari propri, ascoltando la musica o facendo i cruciverba del giornale. Le probabilità di essere ascoltati sono le stesse della prof, che parla agitando le mani e magnificando le doti di qualche poeta di cui ho già dimenticato il nome.
< Per proteggerti> dice Gost come se fosse la cosa più naturale del mondo. Se non ci fossero venti testimoni potrei dargli un bacio in fronte.
< Quindi sei qui sotto copertura? Come Clark Kent?> lo stuzzico.
< Se arriva il demone cattivo corri in bagno  e torni con la tua uniforme pronto all’attacco?>.
Forse sto esagerando, ma è troppo divertente. E lui mi da corda.
< Non ho bisogno della tuta aderente, e nemmeno del mantello. Noi Saltatori siamo pronti all’azione in qualsiasi momento> ribatte con aria seria.
< E poi non abbiamo bisogno di uniformi, in realtà i vestiti che hai visto ieri hanno un utilizzo pratico ma non indispensabile>.
Dovevo aspettarmelo che sarebbe partito con le spiegazioni.
< Il grigio è un colore che non attira l’attenzione e quindi è più facile passare inosservati, poi sono abiti comodi che negli universum tornano utili>.
Si blocca notando il mio sguardo vacuo.
< Tutto bene?> chiede preoccupato. E’ davvero molto dolce con quell’aria imbronciata. Ripenso al comportamento di Blu e mi viene voglia di chiedergli se ne sa qualcosa. Blu ha detto che non doveva venire da me, perciò se ne parlassi con Gost potrei metterlo nei guai. Anche se la tentazione è forte non mi sembra una mossa saggia inimicarsi subito uno di quelli che potrebbe aiutarmi. Senza contare che così ho un ottimo argomento di ricatto.
< E’ solo che mi piacerebbe capirne di più> ammetto.
Il viso di Gost si illumina come un bambino il giorno di Natale davanti a una montagna di pacchetti da scartare.
< Ti spiegherò tutto!> annuncia felice, così entusiasta che anche la prof lo sente.
< Bravo, spiegale la lezione. La nostra Alice ha qualche difficoltà, non è vero?>.
Francesca e Giorgia, in prima fila, nascondono le risate dietro una mano. La prof mi guarda innocentemente. Non l’ha fatto apposta a mettermi in imbarazzo, ma questo non lo rende meno penoso.
Gost sposta lo sguardo imbarazzato da me alla prof, senza sapere che dire.
< Hai già trattato questi autori?> chiede ancora, senza dargli scampo.
Gost annuisce seccamente.
< Sì, li conosco> dice a disagio.
Posso sentire i sospiri ammirati di alcune ragazze, come se fosse una specie di star del cinema o qualcosa del genere. Insomma, ha solo studiato dei libri!
La prof riprende la lezione con rinnovata foga, come se scoprire di non essere l’unica nella classe a sapere di cosa si sta parlando le avesse donato dieci anni di vita. E forse è proprio così.
< Non l’ho mai vista così contenta> bisbiglio.
< Trovare qualcuno che ti ascolta fa questo effetto> dice Gost, leggermente enigmatico.
Mi fermo un attimo a pensare prima di dargli ragione. È come mi sento io in questo momento. Felice che ci sia qualcuno a cui non devo nascondere ciò che sono. Qualcuno con cui posso parlare, parlare davvero.
Passiamo il resto della lezione in silenzio. Gost scrive ordinatamente gli appunti sul quaderno, ma mi accorgo che aggiunge anche cose che la prof non ha detto. Sembra che stia facendo un riassunto, con tanto di schema finale. I miei appunti invece sono un’accozzaglia di frasi disordinate, nella mia solita grafia schizofrenica. Guardo il quaderno di Gost invidiosa.
La campanella suona, lasciandoci liberi per i pochi secondi che l’insegnante di inglese impiegherà ad arrivare. Non faccio in tempo a posare la penna che Gost è già attorniato dalle nostre compagne di classe. Gli altri ragazzi non si fanno avanti per paura di essere investiti dalla furia omicida delle ragazze. Giorgia sorride a Gost, il rossetto le disegna le labbra come una diva del cinema e la sua risata è un po’ troppo acuta. Mi metto comoda per godermi lo spettacolo.
Ma Gost non sembra troppo a disagio. Risponde educatamente alle domande, chiacchierando. Mi rendo conto del suo nervosismo solo quando noto le spalle contratte e i muscoli della mascella un po’ troppo pronunciati. Sento uno strano impulso protettivo nei suoi confronti. Le ragazze della classe sanno essere più aggressive di un branco di pitbull affamati.
Sto per intervenire in suo soccorso quando entra la bidella. Si bloccano tutti, carichi di aspettativa.
< L’insegnante di inglese non c’è. Avete due ore buca> dice tra i gli applausi generali.
Lancio un’occhiata a Gost per augurargli buona fortuna con le sue ammiratrici, ma lui è già scattato in piedi.
< Torno subito> dice con un mezzo sorriso di scusa.
Immagino che non sia molto virile dire di dover andare in bagno.
La folla intorno ai nostri banchi si dissolve come un banco di nebbia a mezzogiorno. Mi appoggio con un sospiro al muro. Neanche due secondi e il cellulare vibra nella tasca dei jeans.
Ingresso, subito
Vorrei sapere come ha avuto il mio numero. Un altro trucco da Saltatori?
Esco dalla classe. Sento un paio di sguardi seguirmi, incuriositi. Scendo all’entrata prendendo le scale deserte. In questo momento sono tutti nelle proprie aule, almeno quasi. Qualche gruppetto si muove silenziosamente per i corridoi, come agenti segreti in missione. Mi immagino la scena con la musica della pantera rosa in sottofondo. Devo trattenermi dalla tentazione di mettermi a strisciare lungo i muri canticchiando. Se mi beccassero non potrei più evitare l’internamento coatto.
Arrivata all’ingresso trovo Gost a aspettarmi vicino agli ascensori.
< Che succede?> chiedo.
< Come hai avuto il mio numero?>.
< Con l’aperio> dice facendo spallucce.
Ne voglio uno anche io! Ho come l’impressione che mi renderebbe la vita molto più facile.
< Allora, cosa ci facciamo qui?> chiedo.
Gost indica fuori dalle vetrate. In strada ci sono Morgana e Diego che ci aspettano.
< Non possiamo uscire!> dico esasperata.
< Non posso saltare altre lezioni e …>.
Gost mi interrompe allegramente, come se non mi avesse sentito.
< Solo quest’ora buca, torniamo per la fine dell’intervallo, nessuno se ne accorgerà> dice tranquillo.
Mi prende per mano e mi trascina all’uscita, passando davanti al banco dei bidelli. Maria tiene lo sguardo fisso sul bancone come se lo stesse passando ai raggi X.
< Non fermarti, muoviti normalmente> dice Gost aprendo la porta a vetri che dà verso l’uscita. Il busto in bronzo dell’onorevole letterato che ha dato il nome al nostro liceo ci fissa arcigno, sfidandoci a uscire di soppiatto. Gli faccio un cenno di scusa mentre Gost mi strattona festosamente in strada.
Morgana ci viene incontro, seguita da Diego. Ci guardiamo per un secondo prima che lui distolga lo sguardo.
< Ciao!> ci saluta Morgana.
< Andiamo al camper, Gabri vuole parlarti>.
Annuisco, all’improvviso nervosa. Cerco gli occhi di Diego, sperando di trovare un po’ di rassicurazione, ma lui fissa il marciapiede. Sto per voltarmi, delusa, ma lui solleva lo sguardo, come se avesse percepito il mio. Mi sorride brevemente, in un incoraggiamento silenzioso.
Seguo Morgana sollevata, mentre Gost mi trotterella a fianco.
Passiamo dall’armadio del camper e ci troviamo di nuovo nella cucina dove abbiamo mangiato ieri. Gabriele ci aspetta al tavolo insieme a Marianna. Si alza in piedi per salutarmi.
< Funzionano?> chiede indicando gli orecchini.
< A meraviglia> sorrido.
< Grazie>.
China il capo, come per evitare i ringraziamenti.
< Siediti> mi invita indicando una sedia.
Ci mettiamo tutti intorno al tavolo. Manca solo Blu che non tarda a comparire.
Mi lancia un’occhiata nervosa, prima di aggiungersi alla comitiva. Cerco di comunicargli con un cenno del capo che non ho intenzione di smascherarlo, ma che mi deve parecchie spiegazioni. Devo riuscirci, perché lui si irrigidisce leggermente, annuendo.
< Non sono ancora riuscito a trovare un modo per bloccare le immagini che vedi> inizia subito Gabriele con tono di scusa.
< Non fa niente …> cerco di rassicurarlo.
La sua aria contrita si rilassa un po’.
< Purtroppo ho altre brutte notizie per te> dice con tono grave.
Sposto lo sguardo sugli altri, valutandone le espressioni. Sembrano tutti parecchio seri. Non mi piace per nulla.
< Non siamo riusciti a trovare l’Occulto che ti ha attaccato. Sappiamo che è rimasto vicino, ma non sappiamo quanto. Inoltre c’è il rischio che possa aver avvertito qualcun altro riguardo … riguardo i tuoi poteri>. Sembra che l’ammissione gli costi un notevole sforzo.
< Sono in pericolo?> chiedo col cuore in gola. Lo sento battere così forte che mi sembra stia per uscirmi dal petto. Non una bella immagine.
Nessuno risponde e i miei dubbi diventano certezze.
< Quanto in pericolo?> chiedo.
< Abbastanza>.
Cioè sono fottuta. Potrebbero anche dirlo ad alta voce. Insomma, non deve essere così difficile. Alice, sei morta, fattene un ragione. In fondo prima o poi tocca a tutti, coraggio! Non ti verranno le rughe e non dovrai preoccuparti della menopausa o dell’artrite. Nemmeno di trovarti un lavoro, in effetti. Poteva andarti peggio!
Il panico deve essere evidente sul mio viso perché Blu e Gost intervengono in contemporanea.
< Non ti preoccupare …> dice Blu.
< Siamo preparati ad affrontare situazioni peggiori. Le probabilità di successo sono decisamente a nostro favore> dice invece Gost.
Non so perché, ma sentirlo parlare di probabilità favorevoli non fa che aumentare il mio nervosismo. Forse perché il solo accenno a qualcosa che riguardi la matematica ha questo effetto su di me.
< Stai tranquilla, ci siamo noi>.
Mi giro verso Diego, sorpresa dalle sue parole. Non mi aspettavo che intervenisse, e a giudicare dalle espressioni degli altri, non se lo aspettavano nemmeno loro. Nei suoi occhi verdi leggo una fiera determinazione.
< Possiamo proteggerti> dice Gabriele, interrompendo quel momento.
< Ma è necessario insegnarti a controllare il tuo potere>.
Mi sento sprofondare. Il cuore che prima mi batteva furiosamente in gola sembra essersi arrestato. Sono tentata di posarmi una mano sul petto per controllare se ho avuto un infarto. La tentazione di urlare “chiamate un medico, ho un arresto cardiaco!” è davvero forte.
Poi mi rendo conto che se avessi avuto un infarto non potrei starci a pensare così tranquillamente, perciò decido di lasciare perdere.
< Non è così terribile…> sorride Morgana, conciliante.
< E’ un po’ come giocare a Zombie III, solo che qui devi far fuori dei demoni>.
< E il game over vuol dire che sei morta> dice Gost. Mi volto a guardarlo, pallida come uno straccio. Blu gli dà una gomitata nelle costole e lui si piega con un gemito di dolore.
< Ma non volevo dire che …> mugugna.
< Lascia stare, Gost. Le tue capacità di essere delicato si aggirano attorno allo zero assoluto> dice Blu, prendendogli la testa sotto il braccio e tappandogli a forza la bocca.
La scenetta ha il potere di farmi sorridere, almeno un po’.
< Possiamo davvero proteggerti> dice Gabriele, guardandomi intensamente.
< Devi fidarti di me. Non permetteremo che ti accada nulla di male e presto tornerai alla tua vita di sempre>.
< Spero proprio di no!> mi lascio scappare, scatenando un serie di risatine intorno al tavolo. Anche Gabriele sorride.
< Allora diciamo che tornerai a una vita normale>.
< Mi sta bene>.
Gabriele annuisce e tira fuori da una tasca dei jeans una catenina a cui è appeso un ciondolo.
< Per cominciare dovresti indossare questa> dice porgendomela .
Allungo il braccio prendendo il ciondolo tra due dita per osservarlo bene. Si tratta di un sottile disco di metallo grosso come una monetina, lavorato come gli orecchini che porto, con linee in rilievo o incise. A giudicare da come luccica direi che si tratta di conversio.
< Dovrebbe nascondere le tue capacità ai demoni di livello inferiore e rendergli più difficile entrare nel tuo universum> mi spiega Gabriele mentre mi infilo la collana.
< Ma devi restare sempre allerta. Non ti protegge dagli attacchi, si limita a celarti ai loro occhi>.
Annuisco, troppo nervosa per trovare qualcosa da dire.
< Quando cominciamo?> chiedo dopo alcuni secondi di silenzio.
< Oggi, dopo la scuola>.
< Devo studiare> faccio presente con una voce così sottile che sembra un pigolio. Oh, fantastico, mi sono trasformata in un pulcino adesso?
< Ti aiuterà Gost per quello> dice Gabriele con un cenno verso il ragazzo, ancora nella stretta di Blu. Agita una mano nella mia direzione, la bocca sempre chiusa dalla mano dell’altro. Mi fa un po’ pena, ma preferisco che non aggiunga i suoi commenti poco rassicuranti per il momento.
< Ma i miei si preoccuperanno se non torno a casa>.
< A quello ci penserà Gabri> dice Marianna, prendendogli affettuosamente la mano.
< Sa come convincere le persone>.
Non voglio sapere altro. Basta che i miei non mi facciano il terzo grado su dove sono stata, poi tutti i mezzi sono leciti. Possono anche legarli a una sedia e minacciarli di fargli il solletico fino alla morte, per quanto mi riguarda.
< Quindi dovrò venire qui tutti i giorni dopo la scuola?> chiedo per avere conferma di aver capito bene.
< Hai di meglio da fare?> chiede Blu, un sorrisetto storto di provocazione.
< Meglio che stare con te?> ribatto facendo finta di pensarci un minuto.
< Un sacco di cose!>.
Morgana e Marianna scoppiano a ridere mentre Gost riesce a liberarsi e si rimette dritto sulla sedia.
Negli occhi di Diego passa qualcosa di troppo veloce perché possa dargli un nome.
< Intendevo dire qualcosa di meglio che imparare a non farti ammazzare prima dei vent’anni> ribatte piccato.
Nella stanza piomba un gelo percepibile sulla pelle. Blu si accorge delle occhiate che gli lanciano gli altri e si fa piccolo sulla sedia. Vederlo così è una vendetta sufficiente. Scrollo le spalle.
< In effetti non ho niente da fare meglio di quello>.
Blu si affloscia sulla sedia per lo scampato pericolo. Gost cerca di rendergli la gomitata di prima ma manca il bersaglio e colpisce lo schienale della sedia. Dal rumore deve essersi fatto piuttosto male. Lo guardo mentre si piega tenendosi il braccio, chiudendo gli occhi in una smorfia. Mi mordo le labbra per non ridere e mi concentro su quello che sta dicendo Gabriele.
< Inizieremo dalle basi: come proteggere il tuo universum e come individuare i demoni… ovviamente dovrai avere un aperio e imparare a usarlo>.
Alzo le braccia in segno di vittoria, bloccandomi a mezz’aria e rendendomi conto che non era la reazione che si aspettavano. Cerco di assumere un’aria posata e matura. Cosa che non sono abituata a fare. Infatti il risultato è pessimo.
< Che espressione è quella?> chiede Blu senza tanti giri di parole.
< Hai ingoiato un moscerino?>.
< Zitto, non vedi che le viene da starnutire?>.
Chiudo gli occhi e scuoto la testa, sperando che quando li riaprirò tutto questo sia solo stato un sogno. Ma niente da fare. Sono tutti lì che aspettano la mia risposta.
< Possiamo andare avanti?> chiedo.
< Credo che possa bastare. Ti spiegheremo tutto dopo. Dovete tornare in classe> dice Gabriele facendo un cenno a Gost.
< A proposito … tu non frequenti già una scuola? Come hai fatto a iscriverti da noi?> chiedo rimettendomi in piedi.
< Ho già il diploma, l’ho preso da privato l’anno scorso. Abbiamo solo convinto il preside a iscrivermi temporaneamente sotto falso nome> dice come se fosse la cosa più naturale del mondo.
< Ovviamente tutto questo lui non lo sa. E non c’è bisogno che altri ne siano informati>.
< Ma … non è, tipo, illegale?> chiedo. Subito dopo vorrei prendermi a pugni. Certo, perché scorrazzare per universum e manipolare la gente è perfettamente legale.
Blu mi agguanta con un braccio attorno alle spalle e mi trascina fuori dalla cucina prima di tutti.
< Vuoi davvero un risposta?> dice a voce alta mentre mi porta di peso fuori dalla stanza.
< Non dire niente a Gabri, per favore!> mi bisbiglia prima che ci raggiungano gli altri.
< L’accompagno io in classe> si offre.
Gost ci raggiunge mentre usciamo dal camper.
< Devo andare con lei. Sono io quello iscritto nella sua classe> fa notare.
Blu mi lascia andare con una pacca sulla spalla che rischia di farmi perdere l’uso del braccio per il resto della giornata.
< A dopo> il suo saluto suona come una minaccia.
Ci avviamo verso la scuola mentre lui rientra nel camper.
< Fa sempre così?> chiedo massaggiandomi la spalla.
< Solo quando ha qualcosa da nascondere> risponde Gost.
Lo guardo per capire se ha intuito qualcosa, ma il suo viso è sereno e perfettamente inconsapevole.
< Cosa abbiamo dopo inglese?> chiede mentre rientriamo nella scuola e ci fermiamo davanti l’ascensore.
Devo pensarci un attimo prima di ricordarmi.
< Greco. Due ore> dico con tono da funerale.
< Bello, cosa state studiando?>.
Sospiro, salendo in ascensore. Gost non è normale. Date retta a me. Non è normale per niente.
Ma proprio il secchione mi dovevo beccare?

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Capitolo 14
*** Mens sana in corpore sano (parte 1) ***


 

Ecco qui un nuovo capitolo!^^
Ok, è di nuovo spezzato a metà perchè era un po' lungo, ma prometto di postare il prossimo prima di Natale, così non vi lascerò in attesa per tutte le feste, ok? ^^ E parlando di feste... per Natale abbiamo organizzato una piccola sorpresa sul blog che tengo con delle amiche. Se avete voglia di ricevere un bel libro in regalo, date un'occhiata!
http://labellaeilcavaliere.blogspot.it/2012/11/christmas-is-coming.html





Non avevo considerato che avere un secchione come vicino di banco può avere molti risvolti positivi. A cominciare dal ricevere continui suggerimenti mentre la prof mi fa correggere la versione di compito a casa, che non avevo fatto. Ma dato che nelle ultime ore hanno tentato di uccidermi e ho scoperto cose piuttosto inquietanti sul mio futuro prossimo, mi sento giustificata.
< Puoi ripetermi come hai tradotto l’ultima frase?> chiede la prof, la stessa di latino. Sempre lei. Abbiamo il piacere di averla per nove ore la settimana. Una media di quasi due ore al giorno oppure, come oggi, addirittura tre.
Non ho tradotto nulla, ero troppo impegnata a non farmi esplodere la testa mentre mi raccontavano cose senza senso in un camper allargato. Ma non posso rispondere così. Gost ha già scritto la frase nella sua calligrafia ordinata sul quaderno. La leggo ad alta voce. Non ha senso nemmeno in italiano.
< Bene, giusto> dice la prof.
< Si vede che Alice ha capito la traduzione>.
A dire il vero … beh, non c’è bisogno che sappia la verità.
Per fortuna subito dopo passa a torchiare qualcun altro.
< Grazie> bisbiglio a Gost.
< Figurati> risponde lui.
< Greco mi è sempre piaciuto>.
< Temo che su questo non andremo mai d’accordo> borbotto, cercando di sparire all’interno del banco per non essere vista dall’insegnante.
< Perché no?> chiede lui, gli occhi spalancati, innocentemente curioso.
< Pensi che mi possa piacere il greco?> chiedo scettica.
< Non vedo perché non potrebbe>.
Lancio un’occhiata alla prof che continua a correggere la versione con i pochi che l’ascoltano.
< Perché è noioso? Perché è difficile? Perché sono qui solo a causa dei miei che non potevano sopportare l’onta di una figlia in un istituto tecnico?> chiedo sarcastica.
< Non può essere così difficile per te> dice inclinando la testa di lato, come davanti a uno strano puzzle che non riesce a risolvere.
< Ah, no?>.
< Avere le stigma si accompagna anche a una certa dose di intelligenza, e di attitudine per le lingue> mi spiega.
Schiocco la lingua, scettica.
< Si vede che io sono l’eccezione>.
Gost scuote la testa.
< Poter viaggiare negli universum richiede molta forza di volontà e capacità di adattamento. Le tue stigma indicano che hai queste doti. Senza eccezioni> dice serio.
< Se lo dici tu> borbotto fingendo di interessarmi alla lezione per evitare il discorso.
Quindi avrei un’attitudine per le lingue. Si vede che non ha mai visto i miei voti di latino e greco.
Durante il resto delle lezioni cerco di tenere gli occhi bassi per non vedere le immagini intorno ai miei compagni. Le luci intermittenti che li avvolgono si stanno facendo sempre più intense e sento il mal di testa premere sulla nuca, come in attesa di un attimo di distrazione per afferrarmi.
Quando suona l’ultima campanella non posso crederci. Ho passato le ultime ore senza neanche ascoltare, muovendo la penna a caso sui fogli bianchi fingendo di prendere appunti. Non sono nemmeno sicura di che materia abbiamo fatto.
Aspetto che siano usciti tutti e Gost mi aspetta, fingendo di dover riordinare lo zaino, dove in realtà non ha altro che un quaderno e un portapenne. Un paio di nostre compagne fa per fermarsi ad aspettarlo, ma lui le saluta con la mano e loro se ne vanno, deluse.
< Potevi anche parlarci un po’> dico alzandomi in piedi.
La classe sembra all’improvviso enorme e buia senza nessuno a riempirla di luci multicolore.
< Perché avrei dovuto?> chiede, onestamente perplesso.
E’ il mio turno di guardarlo come uno strano puzzle che non so come rimontare.
< Per fare conoscenza … perché sei un ragazzo in una classe di femmine in astinenza!> dico prima di rendermene conto. Subito dopo mi do uno schiaffo sulla fronte, senza incrociare il suo sguardo.
Dopo alcuni secondi mi faccio forza e lo guardo. Ha sempre un’espressione perplessa e sembra in attesa che dica qualcos’altro.
< Mmmm …> mugugno.
< Andiamo?> chiede lui, graziandomi dal cercare qualcosa di sensato da dire.
Annuisco ed esco dalla classe a passo di marcia. Gost deve rincorrermi per non perdermi tra la massa di studenti in uscita. Mi prende per un braccio, restando al mio fianco come una guardia del corpo. Gli mancano un paio di occhiali scuri e un auricolare. Cerco di immaginarmelo in tenuta da Man in Black, ma è una pessima idea. L’immagine che ottengo rischia di farmi scoppiare e ridere e devo mordermi le labbra per trattenermi.
Gost tiene in una mano l’aperio, fissando lo schermo con attenzione. Mi viene in mente che non ho ancora sentito Eleonora. Non le ho nemmeno mandato un messaggio per sapere perché non è venuta a scuola. Prendo il cellulare per rimediare, lasciando che sia Gost a guidarmi tra gli altri studenti che scendono le scale. Riesce a non farmi sbattere contro la ringhiera e a evitare gli spintoni dei più impazienti. Meglio di quello che avrei fatto da sola, con tutti i sensi vigili e i riflessi pronti.
Le mie performance disastrose in campo ginnico non sono limitate alla palestra.

Tutto bene? Xchè oggi nn sei venuta?

Invio il messaggio e rimetto il cellulare in tasca, accorgendomi di essere quasi fuori. Gost è riuscito a farmi superare indenne l’ingresso. Manca solo più l’ostacolo del cancello e saremo liberi. Riusciamo a sgusciare tra un gruppetto di ragazzine sghignazzanti e due emo con i capelli tinti di nero e il piercing al naso. Gost non ha smesso di lanciare sguardi all’aperio, senza apparentemente usarlo.
Morgana e Blu ci aspettano all’angolo, dove la folla si dirada e si può ricominciare a respirare.
< Pronta per il tuo primo allenamento?> chiede Blu con un sogghigno che non mi piace per niente.
Lo farà apposta a essere così sinistro?
< Cosa racconto ai miei?> chiedo seguendoli verso il camper.
Gost ha messo via l’aperio, ma si guardano tutti intorno in cerca di qualcosa.
< Gabriele ha preparato un modulo da far firmare ai tuoi genitori> dice Morgana.
Si è legata i lucidi capelli castani in una mezza coda, mettendo in risalto il viso pallido. Mi sembra molto adulta e matura, mentre io mi sento una ragazzina alla sua prima uscita di nascosto. Il che, in effetti, è la realtà.
< Che modulo?>.
< Per un gruppo di studio di preparazione agli esami. Ti impegnerà tutti i pomeriggi fino alla fine della scuola>.
Considerato che siamo a fine novembre, direi che è un bel po’ di tempo.
< Non ci cascheranno mai. Il mio impegno nella scuola si limita allo stretto necessario per sopravvivere, non crederanno che abbia deciso di iscrivermi a un corso di recupero>.
< Oh, ma saranno loro a farti iscrivere> risponde Morgana.
Credo che sulla mia fronte sia comparso un enorme punto interrogativo, ma gli altri tre lo ignorano lasciando che mi crogioli nelle mie domande senza risposta.
Arriviamo al camper e Blu entra per primo mentre gli altri si fanno da parte per farmi passare, restando in retroguardia. Come se stessero facendo da scorta a una star del cinema che ha appena ricevuto lettere deliranti da un maniaco.
Quando sento un rumore improvviso alle spalle mi volto di scatto, aspettandomi di vedere un uomo con un passamontagna e un impermeabile pronto ad aggredirmi, invece è solo Gost che ha chiuso la porta del camper.
< Nervosa?> mi chiede Blu facendomi l’occhiolino.
Il mio ringhio di risposta lo fa scoppiare a ridere, mentre Morgana mi lancia uno sguardo di comprensione.
Gli altri ci stanno aspettando in salotto, seduti tranquilli sul divano. Diego è seduto per terra e sta lavorando a qualcosa di elettronico sul tavolino. Non riesco a capire di che si tratti, troppi fili e parti metalliche di cui non riesco a indovinare la provenienza.
Il sorriso di benvenuto di Marianna è sufficiente per tranquillizzarmi.
Diego solleva per un istante gli occhi dal suo lavoro e sento il cuore martellarmi in petto. Il verde delle iridi risplende anche nella luce artificiale della stanza. Un soffio d’aria gelata mi accarezza il viso, per poi sparire rapido appena Diego torna a concentrarsi sul suo lavoro.
Mi appoggio al tavolo, le gambe molli; nessuno sembra farci caso.
Marianna mi fa segno di accomodarmi sulla poltrona di fianco a lei. Obbedisco meccanicamente, mentre gli altri si dispongono intorno per assistere.
< Vorremmo spiegarti meglio in cosa consiste l’allenamento di cui ti abbiamo parlato…> comincia Marianna, sporgendosi verso di me e posandomi una mano rassicurante sulla spalla.
< Abbiamo deciso che ognuno di noi ti insegnerà una parte di quello che ti occorre sapere sugli universum e su come controllare i tuoi poteri>.
Per ora niente di così tremendo.
< Gost ti aiuterà nello studio>.
Un cenno di assenso da parte dell’interessato mi conferma di aver capito bene. Dovrò studiare sul serio, dannazione.
< Blu si occuperà di farti da guida nei primi viaggi negli universum, ma solo quando sarai pronta…> continua Marianna.
Quindi il giretto di stamattina non era contemplato nel programma. Buono a sapersi. Materiale da ricatto in più.
Blu fa finta di niente, giocherellando con un filo della maglietta.
< Morgana ti preparerà nell’uso delle armi a distanza e nella preparazione fisica insieme a…>.
< Armi??>.
La mia voce è così acuta che se ci fossero stati bicchieri di cristallo nelle vicinanze sarebbero esplosi in mille pezzi. Diego sussulta e alcune minuscole viti cadono sul tappeto. Si china a raccoglierle pazientemente, aguzzando la vista. Gli altri mi fissano, per lo più divertiti o perplessi.
Alzo le mani agitandole davanti al viso.
< No, no, niente armi. Lo dico per voi. La cosa più pericolosa che ho maneggiato finora è stata un paio di forbici con le punte arrotondate , e anche con quelle sono in grado di fare parecchi danni, perciò vi consiglio di lasciare perdere>.
Un balenare di sorrisi subito nascosti sulle loro facce mi dice che non mi hanno preso sul serio. Beh, peggio per loro.
< Ti insegnerò a non fare del male a nessuno, a meno che tu non voglia farlo> ribatte Morgana pacata.
Borbotto qualcosa in risposta, per nulla convinta.
< Anche Diego ti aiuterà con le tecniche di combattimento. E’ il migliore in questo campo>.
Un lieve scrollare di spalle, non solleva nemmeno gli occhi dal suo lavoro, troppo preso dal collegare fili. A poco a poco sul tavolino sta prendendo forma qualcosa. Ancora non riesco a capire di che si tratti.
A sentir parlare di combattimento vengo presa dallo sconforto. Marianna fa per aggiungere qualcosa, ma la precedo.
< Volete farmi combattere. Volete insegnarmi a usare calci e pugni. A combattere!>.
Mi prendo la testa tra le mani, scuotendola desolatamente.
< Prima dovrete insegnarmi a camminare in linea retta senza sbattere contro nessuno>.
Questa volta i sorrisi impiegano più tempo a essere nascosti. A qualcuno scappa un risata, ma tengo la testa bassa e non so chi sia.
La mano di Marianna si posa sulla mia testa, accarezzandomi i capelli.
< Allora ti insegneremo anche quello>.
Annuisco rassegnata.
< E’ proprio necessario?> provo ancora a chiedere, giusto per essere sicura.
Questa volta è Gabriele a rispondere.
< Purtroppo sì. Se vuoi vivere normalmente, devi essere pronta anche ad affrontare situazioni pericolose. Non possiamo cancellare il tuo potere, ma possiamo insegnarti a gestirlo>.
< E passerai un sacco di tempo in nostra compagnia!> dice Blu con un sorrisetto malizioso.
Non cancella la preoccupazione, ma mi fa sentire meglio.
< Direi che possiamo metterci subito all’opera> dice Morgana.
< Subito?> chiedo.
Per qualche motivo le mie gambe non vogliono saperne di farmi alzare. Se ne stanno lì, immobili sulla poltrona, sfidandomi ad alzarmi.
Morgana non si fa intenerire e mi tira in piedi senza tante cerimonie.
< Per oggi ti presto una tuta, ma domani ricordati di portarla> dice trascinandomi fuori dal salotto.
< Cioè… ma stai facendo sul serio. Mi stai portando a fare ginnastica?>.
Mi viene la nausea solo a pensarci.
< Ma l’ho già fatta ieri!> protesto.
< Per quanto?> ribatte Morgana, senza pietà.
< Per circa dieci minuti?>.
Non mi ero accorta che le piacesse infierire.
< Sì, e in quella manciata di secondi sono riuscita a farmi mandare in infermeria. Questo non ti dice niente?>.
< Solo che dovremo lavorare molto>.
Non mi piace come suona questa frase. Promette sudore, un lago di sudore.
Mi trascina sulla sinistra, all’ultima porta che si apre su una stanzetta in ordine e profumata di vaniglia. Su un tavolino alla mia destra c’è un contenitore in ceramica dove si vedono le ceneri di incenso bruciato. La stanza è piccola e Morgana ci si muove con sicurezza e padronanza, su un terreno famigliare. Apre l’armadio, di fronte al letto perfettamente rifatto e la scrivania linda e stranamente vuota. Fruga velocemente all’interno mentre io mi lascio cadere sul copriletto blu scuro. Affondo le mani nella coperta morbida. Mi sembra di galleggiare in un cielo notturno, derubato delle sue stelle.
Sì, a volte divento poetica. Quando devo distrarmi da un disastro imminente.
Morgana posa sul letto dei pantaloni di una tuta grigio scuro, con delle righe bianche sui lati, e una canotta viola elasticizzata. Beh, se non altro è meglio di quello che indosso di solito per fare ginnastica.
< Esco, così puoi cambiarti tranquilla> dice con tatto.
Mi lascia da sola con i vestiti da mettere e una brutta sensazione alla bocca dello stomaco.
Guardo la canotta con sospetto, come se temessi un attacco improvviso.
< Bene, parliamoci chiaro> dico togliendomi la giacca e cominciando a spogliarmi.
< Voi non piacete a me e probabilmente io non piacerò a voi … ma se mi fate sembrare più goffa del normale questa sarà la fine della nostra collaborazione!>.
Quando mi rendo conto di aver parlato a dei vestiti capisco di aver raggiunto il fondo.

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Capitolo 15
*** Mens sana in corpore sano (parte 2) ***


E come avevo promesso... ecco la seconda parte del capitolo prima delle feste^^ 

*agita le mani vittoriosa, ignorata dalle persone di buon senso*

Ah, ehm, ok. Vi lascio al capitolo ed evito altre situazioni imbarazzanti.
Auguro a tutti Buon Natale, Buon Anno e, soprattutto, Buone Abbuffate!





Mi cambio in fretta, cercando di lasciare i vestiti in ordine, anche se nella camera restano fuori posto. Un’aggiunta estranea in un angolo dove non sono desiderata.
Scuoto la testa per scacciare pensieri inutili.
« Quello di cui avrei bisogno …»borbotto legandomi i capelli in una coda alta: « Sarebbe una bella iniezione di ottimismo».
Esco in corridoio, dove Morgana mi aspetta appoggiata alla parete.
«Tutto a posto? ».
Annuisco e lei mi fa strada tornando verso il salotto, ma invece di entrarci gira nel corridoio a sinistra, superiamo l’infermeria e ci troviamo davanti un’altra porta.
Appena la apre capisco di essere finita in uno dei miei incubi peggiori.
Una palestra. Una palestra vera.
Dalla sala sono stati ricavati due ambienti diversi, rivestiti di pannelli di legno alle pareti. La parte in cui ci troviamo è piena di macchine e sul fondo ci sono delle panche con una rastrelliera piena di pesi. Sulla destra è stata ricavata una stanza con dei tappetini sul pavimento e dei sacchi da boxe su un lato.
Mi giro e cerco di uscire ma Morgana mi agguanta per una spalla non lasciandomi scampo.
« Dove vai? Il tapis roulant e da questa parte».
«Infatti è per quello che stavo andando nella direzione opposta».
Mi trascina davanti a un macchinario enorme, dall’aria malevola. Sì, malevola. Quest’affare vuole mangiarmi e ridurre le mie ossa in briciole. E Morgana vuole aiutarlo!
« Non morirai per una mezz’oretta di corsa».
«Mezz’ora? » urlo mentre mi fa salire a forza sul tappeto e comincia a pigiare tasti sul pannello di fronte.
«Solo perché sei all’inizio» ci tiene a precisare.
«Vuol dire che più avanti ne farò di meno? » chiedo speranzosa.
La sua occhiata non mi lascia dubbi su cosa mi aspetterà.
« Credimi, quando dovrai scappare da un Occulto che vuole ucciderti ripenserai a questo momento e mi ringrazierai».
Oh, sì, certo. Sempre che non muoia prima per attacco cardiaco.
Uno scossone. La macchina trema e mi trovo aggrappata agli appoggi laterali mentre il tappetino sotto di me comincia a scivolare.
« Si muove» dico presa dal panico.
Morgana sospira alzando gli occhi al cielo. Temo che sia un’espressione che le vedrò fare spesso.
« Sì, funziona così. Se continui a muovere i piedi non succede nulla di male».
Non ne sono così sicura.
« Vado anche io a cambiarmi. Sarò qui in pochi minuti».
Mi vuole abbandonare?
Mi indica il monitor.
« Vedi qui? » chiede.
Annuisco mentre cerco di mantenere il ritmo. Non va troppo veloce ma ho la sensazione che presto mi mancherà il fiato.
« Ti dice quanti minuti ti mancano. E qui ti dice la velocità e la pendenza. Non toccare nulla, io sarò qui tra poco, ok? ».
Annuisco di nuovo senza parlare, nella speranza di risparmiare fiato.
Il timer segna ancora ventinove minuti e trentasei secondi.
Morgana esce dalla palestra, lasciandomi aggrappata alla macchina come un naufrago in mezzo a una tempesta che si tiene a un galleggiante per pescare. Resisto un minuto e tredici secondi prima di arrendermi e cominciare a pigiare tasti a caso per ridurre il tempo. Sento dei rumori allarmanti e all’improvviso faccio più fatica a camminare, anche se la velocità è rimasta uguale.
Sbaglio o sto camminando in pendenza?
Riprovo con altri tasti e questa volta il tappetino comincia a girare sempre più veloce. Sono costretta a mettermi a correre per non finire a terra. Muovo i piedi così veloce che mi sembra di essere Beep Beep inseguito da Willy il coyote. Solo che dietro di me non c’è niente, a parte la parete e un tonfo colossale.
Cerco un modo per bloccare tutto, tipo un allarme antincendio o un pulsante di espulsione.
« Fermati, fermati! » lo imploro.
Ancora pochi secondi e finirò a terra. Spero di sbattere forte la testa e svenire, risparmiandomi il resto del pomeriggio.
Vengo sollevata da due braccia, che non sono decisamente quelle di Morgana, e rimessa a terra sana e salva.
Alzo la testa e trovo due enormi occhi verdi che mi fissano. Sbatto le palpebre, cercando di riprendermi dalla sorpresa.
« Ho pensato che avessi bisogno di aiuto» dice Diego sereno.
Schiaccia un paio di pulsanti e la macchina smette di muoversi.
« Mi hai salvato» ammetto prendendo un respiro profondo. Non ho fatto nemmeno tre minuti di esercizio e ho già bisogno di una doccia.
« Come mai sei venuto qui? Credevo fosse il turno di Morgana».
Diego si stringe nelle spalle, appoggiandosi al tapis roulant, miracolosamente fermo.
« Ero venuto per dare un’occhiata al tuo livello, per decidere da dove partire».
« Dalle basi» rispondo.
Sul suo viso saetta un sorriso, che nasconde per riguardo nei miei confronti.
« Sì, l’avevo intuito».
«Bene. Perché anche così prevedo molte ossa rotte …» mormoro fissandomi i piedi. Non oso guardarlo in faccia. I suoi occhi verdi hanno la strana capacità di farmi dimenticare cosa voglio dire, o di farmi straparlare.
«Farò molta attenzione» promette Diego, serio.
Le sue parole mi fanno aumentare i battiti cardiaci, come se stessi ancora correndo. All’improvviso mi sento molto a disagio. Vorrei rispondergli, ma ho la mente desolatamente vuota.
In quel momento arriva Morgana a interromperci. Si è messa in tuta anche lei, un divisa simile alla mia, tranne per il fatto che la sua canotta è blu e lei sembra una qualche atleta professionista alle olimpiadi. Anche se siamo vestite uguali, o forse proprio per quello, mi sento sciatta e insulsa.
«Perché ti sei fermata? » chiede con tono marziale. Anche i suoi lineamenti dolci si sono induriti in un’espressione da comandante dell’esercito.
« Ah, fai attenzione. Quando si allena non ammette distrazioni» sussurra Diego, l’avvertimento velato dal divertimento.
« Ecco, non sapevo come fare …» cerco di spiegarmi, ma lei scuote la testa indicandomi la macchina da cui sono appena scesa.
«Sali di nuovo. Non ci fermeremo finché non lo dirò io».
Diego si fa da parte assistendo alla scena senza intervenire. Morgana si volta verso di lui, mentre io obbedisco al suo ordine, per nulla entusiasta.
« Vuoi pensarci tu? » chiede indicandomi.
Diego solleva le mani, come a mostrare di essere disarmato.
«Volevo solo vedere a che livello è. Oggi è tutta tua» dice con un sorriso disarmante. Morgana annuisce, tornando a dedicare tutta la sua attenzione su di me.
«Va bene. Possiamo cominciare».
E’ l’inizio dell’inferno.
Non ci avevo mai pensato seriamente prima, ma se un inferno esiste, deve essere pieno di tapis roulant e pesi da sollevare. Oh, e di tappetini su cui fare stretching.
«Cerca di rilassarti» ripete per l’ennesima volta Morgana mentre con le mani posate sulle mie spalle cerca di spingermi a toccare la punta dei piedi con le dita.
E’ difficile farlo quando tutti i tuoi muscoli ti insultano, vorrei dirle. Ma stringo i denti e cerco di obbedire.
Per fortuna Diego se ne è andato almeno un’ora fa, quando è diventato chiaro che sono senza speranza. Ha avuto il tempo di assistere alla mia performance sul tapis roulant, che Morgana è stata costretta a fermare prima della mezz’ora per evitarmi un infarto, e a quella con i pesi, che sono riuscita a far cadere tre volte, più delle volte che sono riuscita a sollevarli. E sto parlando di pesi da due chili.
«Ok, basta così».
La voce di Morgana arriva come il canto degli angeli a liberarmi. Non riesco a credere alle mie orecchie.
« Davvero? Nel senso che posso uscire di qui? » non riesco a dissimulare la speranza nella voce. Sorride comprensiva.
« Sì, non ha senso fare tutto in una volta sola. Dovremo lavorarci giorno dopo giorno».
Nemmeno la promessa di future sofferenze riesce ad attenuare il sollievo.
« Ho bisogno di una doccia» dico rimettendomi in piedi a fatica. I muscoli mi fanno male in punti che non credevo possibile.
« Una doccia calda. Scioglie i muscoli e domani ti faranno meno male» annuisce Morgana.
« Ti presto un asciugamano e un cambio pulito di biancheria. Poi mangiamo».
Solo ora mi rendo conto di aver saltato il pranzo. E di star morendo di fame. Ho l’impressione che il mio stomaco stia cercando di auto digerirsi per la disperazione.
«Sono avanzate delle lasagne? » chiedo seguendo Morgana nella sua camera. Nonostante mi abbia fatto da allenatrice per quasi due ore sembra fresca come se avesse appena indossato la tuta. Io sono così sudata che sembra che mi abbiano rovesciato addosso un secchio d’acqua.
Mentre la aspetto nel corridoio, dal salotto spunta Blu. Mi viene incontro con un sorriso smagliante di derisione.
« Sei in condizioni pessime» ride.
« Se sentissi ancora i muscoli del braccio di avrei già preso a schiaffi» rispondo, cercando di mantenere un contegno.
Sento una goccia di sudore colarmi dalla nuca sulla schiena, accarezzandomi umida le prime vertebre. Mi passo una mano sulla fronte, anche quella madida di sudore. Probabilmente puzzo anche come un barbone che non si lava da due settimane.
«Coraggio, la prima settimana è la peggiore».
«Grazie tante» cerco di infonderci tutto il sarcasmo possibile.
Blu non ci fa caso.
«Quando allena, Morgana sa essere una vera s… schiavista> si corregge mentre l’oggetto della discussione esce dalla camera con in mano il mio cambio e gli asciugamani.
Blu si congela sul posto, mentre lei lo fulmina con lo sguardo. Sento un brivido sulla schiena e l’impulso di correre il più lontano possibile.
« Gabriele non aveva bisogno di te? » gli chiede gelida.
Lui scatta sull’attenti e annuisce. Quando si rende conto di aver risposto al suo tono autoritario rilassa le spalle e si appoggia al muro, fingendo indifferenza.
« Adesso vado, non c’è fretta».
Lo fa apposta per irritarla, ma lei non gli dà la soddisfazione di vederla infastidita.
« Il bagno è qui» mi dice, ignorandolo totalmente.
Mi mostra la porta di fronte alla sua camera.
« Usa pure tutti i prodotti che ci sono nella doccia. Se ti serve qualcosa lancia un urlo, io sono qui in camera».
Detto questo sparisce dietro la porta, chiudendola con tutta la calma del mondo, non prima di aver lanciato un’occhiata velenosa a Blu, che le fa una smorfia, ma solo quando non lo può più vedere.
«Che c’è? » chiede.
« Niente» scuoto la testa, nascondendo il sorriso dietro la maschera della stanchezza, cosa che non mi chiede molti sforzi.
«Vado a lavarmi. Se tra mezz’ora non arrivo è perché sono svenuta sotto l’acqua calda».
«E’ un invito a venire a soccorrerti? » chiede Blu, malizioso.
« Se non temi le conseguenze» rispondo cercando di non far notare l’imbarazzo.
Ma devo essere arrossita comunque, perché Blu se ne va ammiccando.
Entro nel bagno, pulito e ordinato come tutto il resto. La doccia è enorme. Avrei potuto fare stretching lì dentro invece che in palestra. Mi spoglio e mi butto sotto l’acqua calda con un sospiro di sollievo. Resto immobile per un minuto buono prima di mettermi a esaminare gli shampoo sui ripiani. Ce ne sono almeno di quattro tipi diversi. Immagino che ognuno lì dentro ne abbia uno personale. Dopo qualche indecisione prendo uno shampoo alla vaniglia e il balsamo alla fragola. E col bagnoschiuma agli agrumi posso fare una bella macedonia.
Esco dalla doccia avvolta in una nuvola di profumo e comincio ad asciugarmi pazientemente i capelli. Sono così lunghi che ci metterei delle ore, così lascio perdere. In questo momento non riesco a pensare ad altro che al pranzo.
Mentre sto per uscire mi accorgo del ciondolo posato sul bordo del lavandino. L’ho tolto prima di fare la doccia e me ne sono dimenticata. Lo rimetto al collo, rabbrividendo al tocco freddo del metallo sulla pelle.
Esco dal bagno e vado subito a sbattere contro qualcuno. Dovrei mettermi al collo un campanello per avvertire del mio arrivo, visto la frequenza con cui mi scontro con le persone.
Prima ancora di guardare chi è il malcapitato che ho investito, noto la macchia bagnata sulla maglietta dove sono finita con i capelli ancora umidi.
« Scusa» dico rassegnata. Non ho più nemmeno la forza per mostrarmi dispiaciuta.
«Stavo venendo a chiamarti» dice Diego.
«E’ pronto da mangiare».
Resto di nuovo senza parole. Non so perché. C’è qualcosa che mi mette a disagio a stargli così vicino. Ripenso all’oscurità che ho avvertito guardandolo. Devo farmi forza per non rabbrividire. I suoi occhi verdi brillano alla luce artificiale del corridoio.
Lui si volta per farmi strada e io riprendo fiato. Lo seguo in cucina, dove ci aspettano Blu, Morgana e Gost. La tavola è apparecchiata per cinque.
« Non ci sono Gabriele e Marianna? » chiedo sedendomi di fianco a Gost che mi saluta con un largo sorriso. Alla mia sinistra si siede Diego, mantenendo la sua espressione di placida imperturbabilità.
In mezzo al tavolo c’è un’enorme teglia di patate al forno con sopra formaggio filante. Il mio stomaco gorgoglia la sua approvazione, rendendone partecipi tutti i presenti.
Morgana prende il mio piatto mettendoci una generosa dose di patate e una coscia di pollo da un’altra pentola, mentre gli altri ridono di me senza farsi troppi problemi.
« Sono usciti» risponde Gost.
«Come è andata la prima sessione di allenamento?» chiede Blu non appena riesce a riprendere fiato.
Lo ignoro. Non merita una risposta.
«Deve lavorare molto, ma ha una buona base» dice con mia sorpresa Morgana. Ha già finito di riempire i piatti di tutti e si è messa seduta di fronte a me.
«Davvero? » chiedo con la forchetta sospesa davanti alla bocca.
« Ho visto in che condizioni è uscita dalla palestra. Sembrava che fosse appena stata investita da una mandria di bufali …» ridacchia Blu riempiendosi la bocca.
Gost cerca di parlare, ma deve interrompersi per masticare e deglutire. Aspetto che infierisca anche lui, ma non succede.
« E’ normale che sia così. In fondo non si è mai allenata come facciamo noi» mi viene in aiuto.
Blu lo guarda interdetto, come se non si aspettasse un voltafaccia del genere.
« Diego, tu che ne pensi? » chiede.
Ci voltiamo tutti verso di lui, in attesa della risposta.
Si limita a scrollare le spalle, continuando a mangiare.
«Vi farò sapere dopo il nostro primo allenamento».
Ho un brutto presentimento in proposito.
Blu sbuffa, per niente contento della piega che ha preso la conversazione. Forse sperava di trovare degli alleati nel prendersela un po’ con la  nuova arrivata.
«Lascialo perdere» dice Morgana, come leggendomi nei pensieri.
«E’ solo che vuole vendicarsi per tutte le prese in giro che ha subito lui quando è entrato nella squadra».
Blu rischia di soffocarsi con un boccone.
«Non è vero! ».
« Invece sì. Due anni fa, quando è arrivato» racconta rivolgendosi a me: « Sapeva appena tenere in mano una clavis. La prima volta che è entrato in un universum è finito in un burrone e ci abbiamo messo tre ore per tirarlo fuori».
Gost scoppia a ridere, mentre sul viso di Diego compare un sorriso divertito, malgrado la solita neutralità. Blu è diventato paonazzo.
« Era la prima volta …» si giustifica.
«Anche per lei» ribatte Morgana, senza pietà.
«Perciò smettila» conclude.
Vorrei alzarmi e abbracciarla.
« Era solo per scherzare» mormora Blu, dedicandosi con rinnovato impegno al suo piatto.
« Non volevo offendere. Non sapete stare agli scherzi» si lamenta.
Morgana sospira.
«Oppure sei tu che non li sai fare».
Aspetto alcuni minuti prima di fare la mia domanda.
«Perché dovete allenarvi così tanto? Ho visto tutti i macchinari della palestra, sembra che dobbiate prepararvi come degli atleti professionisti».
«Lo capirai presto» dice Morgana, incupendosi improvvisamente.
«Dobbiamo essere pronti a tutto. Ma non è solo il corpo che va rinforzato».
Gost si lancia in una delle sue spiegazioni.
«Gli Occulti possono danneggiarci in molti modi e hanno molti vantaggi. Dobbiamo essere sempre preparati allo scontro, non solo fisicamente ma anche mentalmente. Mens sana in corpore sano! » dice trionfante.
Il mio sguardo vacuo è abbastanza eloquente.
«Sai cosa intendo, no? ».
« Mmmh» mormoro mordendo il pollo, ed evitando così di dover rispondere in modo più approfondito.
«Vuol dire che è appena iniziato il tuo peggior incubo! » esclama Blu agitando le mani per imitare uno zombie o qualche mostro del genere che cerca di afferrarmi.
Morgana gli tira una gomitata nelle costole che lo fa piegare in due.
«Non ascoltarlo, Alice. Continua pure a mangiare» dice senza degnare di un’occhiata Blu, che si contorce sulla sedia con smorfie plateali.
«E’ una scena che vediamo spesso» sussurra Diego al mio orecchio.
«Una volta gli ha tirato un piatto in testa» conferma Gost.

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Capitolo 16
*** Piccole Bugie ***


Non ci speravate più, dite la verità! E invece... signori e signore... Habemus Capitolum \^O^/
*finge di essere sana di mente*
*fallisce miseramente*
Va bene, tornando a noi... è solo un capitoletto, ma spero vi piaccia ;) i prossimi arriveranno^^ 
Notare che non ho detto quando... perché non ne ho idea. Preferisco non darvi false speranze...
Nel frattempo, Enjoy!


«Compiti!» annuncia Gost, seduto al tavolo del salotto.
Ha tirato fuori il suo quaderno dallo zaino e l’ha aperto alla pagina dove ha segnato i compiti per domani. Non mi ricordo più quale delle nostre compagne si è gentilmente offerta di darglieli. In ogni caso devo ringraziare lei se ora Gost sa esattamente cosa farmi fare.
«Li ho già fatti quasi tutti» provo a mentire.
Lui mi guarda, il viso sereno ma fermo. Non se l’è bevuta. Non capisco come abbia fatto, ma so che ha capito che non ho aperto libro.
Diego è seduto a gambe incrociate al tavolino davanti il divano, dove l’avevo visto prima. Continua a lavorare su strani elementi elettronici per me privi di senso. C’è anche Morgana seduta su una poltrona che legge concentrata un libro dall’aria difficile. Il titolo è in inglese e non ho idea di cosa significhi.
«Dobbiamo proprio? » chiedo con tono lamentoso. Mi gioco la carta della vittima innocente, stanca e desiderosa di affetto. Potrei metterci gli occhi lucidi e un labbro tremulo, ma così sarebbe esagerato.
In ogni caso non funziona.
«Sì, domani correggiamo i compiti, certo che li dobbiamo fare» dice Gost, irremovibile.
Perché? Vorrei chiedere ancora. Ma ho la netta impressione che servirebbe solo a perdere tempo.
Non mi faranno uscire di lì finché non avrò fatto tutti quei dannati esercizi di matematica e latino. O erano inglese e scienze? Non ricordo nemmeno i compiti da fare, il che è esplicativo di quanto tempo ci perda di solito.
«Cominciamo con fisica» dice Gost allegramente.
Ecco appunto. Fisica. E chi si ricordava della sua esistenza?
Tira fuori il libro dallo scaffale e lo apre sul tavolo, in mezzo a noi due.
«Come fai ad avere già il libro?» chiedo indicandoglielo come se fosse la prova di un terribile delitto.
«E’ il tuo primo giorno di scuola. Non puoi avere il manuale! Non puoi e basta, è innaturale» dico con tono accusatorio. Gost mi restituisce uno sguardo perplesso, ma per nulla offeso. Sembra solo incuriosito dalla mia reazione.
«Ieri sera ho controllato la lista dei libri che usate e oggi Morgana e Diego sono andati a comprarli» mi spiega.
Scuoto la testa, poi mi affloscio sul tavolo, priva di ogni forza di ribattere.
«Sono tre mesi che è iniziata la scuola…» dico, la voce soffocata dalla tovaglia.
«E io non ho ancora tutti i libri. Tu sei nella mia classe da dieci ore e li hai già tutti. Questo non ti fa pensare?».
«Cosa?».
«Che ci troviamo di fronte a posizioni metodologiche assolutamente inconciliabili!».
Sento una risata soffocata alle mie spalle e sorprendo Diego a mordersi le labbra, trattenendosi a stento. Gost si stringe nelle spalle, per nulla turbato.
«Vuoi che ti aiutiamo con i tuoi poteri?».
«Sì» rispondo subodorando già dove vuole andare a parare.
«Vuoi essere in grado di gestire la tua vita da sola?».
«Sì» il sospetto sta diventando un certezza.
«Vuoi essere in grado di combattere gli Occulti?».
«Certo che sì! Allora?».
«Allora farai i compiti, ti allenerai e seguirai le nostre istruzioni. Anche se ritieni che siamo dei pazzi, magari affiliati a qualche strana setta. Noi possiamo aiutarti per il semplice motivo che abbiamo passato le stesse cose che hai vissuto te e adesso siamo in grado di difenderci e di combattere contro gli Occulti. Non ti deve piacere, ma è necessario».
Mi sento in parte umiliata per avere ricevuto una ramanzina da un ragazzo che dimostra meno dei miei anni. Sono abbastanza sicura che non sia nemmeno maggiorenne.
«Non le stesse cose…» sussurro, solo per non dargliela del tutto vinta.
La sua espressione si addolcisce, ma non perde fermezza.
«Forse no, ma ce la farai anche tu, come tutti noi».
Sento gli sguardi di Diego e Morgana perforarmi la nuca.
Mi sporgo sul tavolo a vedere il libro.
«Mmm, fisica eh?» chiedo rassegnata.
Gost prende una matita con aria trionfante. La fa scorrere sulla pagina alla ricerca degli esercizi da eseguire e li segna con un crocetta, poi prende il quaderno con un entusiasmo che non può essere definito se non come eccessivo. Una persona dovrebbe avere quell’espressione solo davanti al biglietto vincente della lotteria.
L’unica cosa positiva di tutto il pomeriggio è che riesco a far rimpiangere a Gost l’idea di fare i compiti. Impieghiamo due ore per fare fisica, perché è costretto a rispiegarmi tre volte il capitolo. Quando si accorge che non capisco perché non so praticamente nulla del capitolo precedente, comincia a spiegarmi anche quello.
In suo onore posso solo dire che è dotato di una determinazione incrollabile. Dall’impegno che mette nel svelarmi i misteri della fisica posso solo desumere che sia una materia che gli piace molto, o che ha deciso che la sua missione nella vita sarà salvarmi dal baratro di ignoranza in cui sono precipitata. O forse entrambe le cose.
Quando l’orologio segna le sei di sera mi sento autorizzata a entrare in sciopero. Poso la penna sul tavolo, lasciando a metà la traduzione di latino, a cui siamo passati per “rinfrescarci le idee” a sentire lui. Sono sempre più convinta che siano tutti dei pazzi furiosi e che Gost sia il loro capo.
«Devo tornare a casa» dico.
Lo uso come scusa per smettere di scrivere, ma è vero. Con ogni probabilità i miei saranno già tornati e saranno preoccupati. E non ho ancora trovato una scusa che possa reggere.
Gost guarda i libri aperti sul tavolo con aria dispiaciuta. Come se dovessimo interrompere un gioco avvincente. La cosa preoccupante è che probabilmente per lui è così.
Morgana si alza, sollevando le braccia sopra la testa per sciogliersi i muscoli.
«Ti accompagno io» si offre.
«Così ti spiego del modulo per i tuoi genitori».
Lasciamo Diego, ancora concentrato sul suo lavoro, e Gost nel salotto e usciamo dall’armadio nel camper. Nessuna traccia degli altri in giro.
«Dove sono Gabriele e Marianna?» chiedo.
«Credevo che fossero loro i capi».
Morgana sorride mentre usciamo in strada.
Mi stringo nella giacca. La temperatura è scesa e il buio è interrotto dalle luci regolari dei lampioni. Soffio in aria, guardando il fiato caldo condensarsi in una nuvoletta densa di vapore. E’ un gioco che faccio spesso. Mi sembra che possa nascondermi al mondo, e cancellare le immagini che ruotano attorno alle altre persone. Come una muraglia di nebbia a escludermi dal mondo anche se dura solo pochi istanti.
«Loro sono le nostre guide» dice Morgana. Si è presa alcuni secondi per rispondere, tanto che credevo non l’avrebbe fatto.
«Siamo una squadra. Ma ognuno di noi ha una vita indipendente».
«Un po’ come in una famiglia» sorrido mentre la seguo.
Ha ignorato la moto nascosta nel camper e ci dirigiamo alla fermata dell’autobus. La strada è quasi deserta a parte qualche raro passante che si muove ingobbito per ripararsi dal freddo. Metto le mani in tasca per riscaldarle, cercando di non battere i denti.
Alla fermata siamo da sole. Morgana tira fuori un foglio piegato dalla tasca.
«Per quanto riguarda il modulo che i tuoi devono leggere …» comincia.
L’ascolto attentamente e, mentre lei parla, divento sempre più scettica.
 
Apro la porta di casa cercando di fare meno rumore possibile, ma quella traditrice mi scopre subito con un lungo cigolio che sembra il verso di un animale morente.
«Alice? Sei tu? Dove sei stata?» è la voce acuta di mia madre che viene dalla cucina. Non è arrabbiata, non sul serio.
Entro in cucina dove la trovo insieme a mio padre, seduto al tavolo con una tazza fumante davanti.
Prendo un bel respiro. Poso sul tavolo lo zaino, quando si inclina dalla tasca esterna scivola un foglio piegato in quattro.
«Questo cos’è? » chiede mia madre. Non ha nemmeno aspettato che rispondessi alle altre domande. Beh, meglio per me.
Apre il foglio e legge le prime righe.
«E’ un modulo per un corso di recupero» mi stringo nelle spalle, fingendo indifferenza. Sento il cuore in gola che rischia di farmi soffocare. Una sensazione spiacevole.
Mia madre perde altri due minuti per leggere il foglio. Spero con tutto il cuore che Gabriele sappia scrivere in modo convincente. Ma a giudicare dalla facilità con cui è stato ammesso Gost posso stare tranquilla.
«Ti impegnerebbe tutti i pomeriggi fino alle sei …» mormora mia madre, pensierosa.
Mette il modulo sotto il naso di mio padre, costringendolo a leggere.
«Che ne pensi?» chiede secca.
Non aspetta la sua risposta, così come non aveva aspettato la mia.
«Mi sembra una buona idea un aiuto in più» dice annuendo tra sé.
Possibile che sia così facile?
«Quanto costa? ».
A-ah, domanda classica.
«Niente, è offerto dalla scuola» rispondo.
Lei sembra ancora dubbiosa, guarda alternativamente me e il modulo.
«Non mi interessa, ma’. Posso farcela da sola».
Sollevamento di un sopracciglio, labbra storte e naso arricciato. La sua espressione è offensivamente scettica.
«Per me è una buona idea! » dice firmando il modulo davanti ai miei occhi, come una sfida.
Ce l’ho fatta davvero.
Non ci posso credere.
«Consegnalo all’insegnante, mi raccomando! » mi ammonisce.
Il contributo di mio padre è nullo. Si limita ad annuire. Secondo me non sa nemmeno di cosa stiamo parlando. Finge di ascoltare agitando ogni tanto la testa per farci credere di essere partecipe.
«Voglio vedere dei miglioramenti» mi congeda mia madre.
Prendo il modulo firmato e filo in camera, dove trovo qualcuno ad aspettarmi.
« Blu. Non ti sei ancora stancato di entrare senza essere invitato? » chiedo sospirando.
Lascio cadere lo zaino sotto la scrivania e mi butto sul letto, distrutta.
Blu è appoggiato alla finestra. Deve avere acceso la luce sul comodino prima che arrivassi.
«Li hai convinti?» chiede, senza curarsi delle mie proteste.
Sbuffo rotolando sul letto per poterlo guardare.
«Ha fatto tutto da sola. Appena ha sentito “corso di recupero” ha cominciato a fare le fusa. A saperlo prima che bastava questo per essere lasciata in pace …».
Chiudo gli occhi e lascio cadere la testa sul copriletto. Mi sento sfinita.
Due dita leggere mi sfiorano la fronte, scivolando sulla tempia per finire la loro corsa sul mento, dove si fermano per un istante, indecise se accarezzare anche le labbra.
Mugugno qualcosa di incomprensibile. Un brivido mi scuote, ma tengo gli occhi chiusi.
«Se pensi che verrai lasciata in pace … allora non hai capito in che guaio ti sei cacciata» sussurra Blu. Il suo fiato caldo sul viso mi spaventa e mi rassicura allo stesso tempo.
Quando apro gli occhi lui è già sparito. Sospiro allungando una mano per spegnere la luce sul comodino. Resto al buio a fissare la luce dei lampioni che entra dalla finestra. Sento il rumore delle macchine che passano nella strada di sotto, l’acciottolio delle pentole in cucina, la tv accesa in salotto. Eppure ho l’impressione di essere immersa nel silenzio. Per la prima volta, incapace di sentire i pensieri di tutti quelli che mi circondano, sono davvero sola. Nessun estraneo nella testa che mi urla frasi che non posso comprendere.
Non mi accorgo di scivolare nel sonno.
Andrà tutto bene, mi ripeto mentre le palpebre si abbassano.
Sono le piccole bugie che ci raccontiamo a farci andare avanti.

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Capitolo 17
*** Allenamento (ancora?) ***


Questa volta sono sparita per mesi, lo so. Vi chiedo scusa!
Per farmi perdonare, ho lasciato il capitolo più lungo del solito, invece di spezzarlo. Spero che compensi l'attesa. 
Buona lettura a tutti e, se avete voglia, fatemi sapere cosa ne pensate^^


Ci sono giorni belli e giorni brutti. Non tutti sono uguali nella loro bruttezza e non tutti hanno lo stesso livello di bellezza. Ma quando una giornata inizia male, non c’è verso che le cose possano migliorare. Certe volte, semplicemente, non bisognerebbe alzarsi dal letto, non importa cosa può succedere.
Ovviamente questa mattina non ho avuto scelta e sono dovuta uscire lo stesso.
Mentre entro nell’atrio della scuola mi chiedo perché non sono tornata a casa, una volta che i miei erano usciti. Ripenso a mia sorella che entra in camera come un tornado, chiedendomi dove ho nascosto la sua camicetta gialla. Come se io potessi indossare una cosa del genere. Al massimo avrei potuto bruciarla. Non che l’idea non mi sia mai passata per la testa.
In ogni caso, io la sua camicetta non l’ho proprio vista, ma non ho potuto far valere la mia innocenza. Mia sorella ha rimesso a soqquadro la mia camera per trovarla. Ieri sera potevo risparmiarmi la fatica di rimettere tutto a posto.
«Alice!».
Vedo arrivare Eleonora mentre sto per salire in ascensore. Mi sposto per farle spazio.
«Ciao, come stai?» le chiedo. «Ieri non sei venuta a scuola».
«Non sono stata molto bene» dice con un sorriso tutto fossette.
Sulla sua testa svolazza un nugolo di farfalle multicolore. Cerco di non guardarla troppo a bocca aperta.
«Scusa se non ho risposto al tuo messaggio. Sono senza soldi sul cellulare».
«Non c’è bisogno che ti scusi. Non importa» rispondo.
Nel frattempo l’ascensore è arrivato al nostro piano e usciamo.
«Abbiamo un nuovo compagno» dico, non sapendo come altro portare avanti la conversazione.
«Davvero?». Eleonora spalanca gli occhi e mi afferra un braccio. «Ti prego, dimmi che almeno è carino… e che non è gay!».
«Uhm, ecco, sì. No».
Lei mi guarda piena di aspettative.
«Sì, penso sia carino. No, non penso che sia gay».
Le farfalle intorno alla sua testa cominciano a girarle intorno vorticosamente. Mi viene la nausea a guardarle così da vicino.
«Ieri si è seduto al tuo posto».
Entriamo in classe e troviamo solo Stefano già seduto.
Ci salutiamo con un cenno della testa. Sta leggendo il giornale, come tutte la mattine. Non ce n’è uno normale nella nostra classe.
«Quindi oggi si siederà di fianco a me?» chiede facendomi l’occhiolino.
Poi si blocca mentre mi siedo al mio solito posto vicino al muro.
«Non è che tu…» dice abbassando la voce perché Stefano non senta.
«Cosa?» chiedo togliendomi la giacca e buttandola sullo schienale della sedia.
«Non è che ti interessa?» chiede col tono di una spia russa durante la guerra fredda.
Scoppio a ridere. Non riesco a trattenermi, è più forte di me. Con tutto quello che è successo negli ultimi giorni, il mio ultimo pensiero è stato fare gli occhi dolci a Gost. O a chiunque altro.
Stefano mi lancia un’occhiataccia, prima di profondare di nuovo nella lettura del suo giornale.
«Non ti preoccupare, hai il via libera. Ma dovrai lottare con le unghie… e altre lo hanno già puntato» la metto in guardia.
Eleonora ammicca, per nulla preoccupata.
«Oh, tirerò fuori gli artigli!».
È l’ultima persona al mondo che potrebbe farlo. Penso sia la ragazza più dolce e sensibile che abbia mai incontrato. La sola idea che possa lottare con le unghie e coi denti basta a farmi scoppiare di nuovo a ridere.
In quel momento entra Gost.
Punta dritto verso di me, ma si ferma quando si accorge che Eleonora è seduta al suo posto.
«Ciao!» lo saluta lei con uno dei suoi sorrisi disarmanti.
Gost si blocca a metà di un passo. Mi sembra di potergli vedere le rotelle del cervello che si bloccano cercando di registrare la sua presenza. Spalanca la bocca, poi la richiude, riprendendosi. Per un attimo ho temuto che sarebbe rovinato a terra. Invece riesce a concludere il passo, appoggiandosi al banco.
«Ciao» risponde.
Restano tutti e due in silenzio per alcuni secondi. Gost guarda alternativamente Eleonora, poi me, poi di nuovo lei.
Decido di fare le presentazioni, prima che si trasformino in due statue di sale e ci tocchi farle portare via dai bidelli.
«Eleonora, lui è il nostro nuovo compagno, si fa chiamare Gost» dico.
Nuovo sorriso condito da fossette da un lato, bocca aperta dall’altro.
«Piacere, siediti pure qui» dice Eleonora indicando il posto accanto a lei.
Gost si siede meccanicamente, lanciandomi una breve occhiata.
«Sei un’amica di Alice?».
Finalmente ha parlato! Mi disinteresso educatamente, immergendomi nei miei pensieri. Lascio che portino avanti la conversazione da soli.
Nel frattempo arriva il resto della classe, a gruppetti di due o tre. L’unica che sembra essersi data alla macchia è la prof di scienze. Non che qualcuno la rimpianga.
Arriva con dieci minuti di ritardo nel suo abito svolazzante, la voce sottile e gli occhi cisposi. Uno spettacolo idilliaco.
Disattivo il cervello dopo cinque minuti di spiegazione. Gost, prende furiosamente appunti, anche se immagino che questi argomenti li saprebbe recitare a testa in giù.
Intorno alla testa dell’insegnante vorticano foglie autunnali trasportate dal vento e un paio di sfere non bene identificate che sembrano asteroidi in miniatura. Nulla di più strambo del solito. Una volta l’ho vista con l’intero sistema solare intorno alla testa. Certe volte mi dispiace davvero di essere l’unica a poter vedere certe cose.
Suona l’intervallo e mi rendo conto di aver passato due ore a fissare il vuoto senza fare niente. Eleonora esce per andare a prendere la merenda, ma i miei muscoli mi diffidano dal seguirla. Penso che le mie gambe non mi rivolgeranno mai più la parola. La fiducia che c’era tra di noi è andata perduta ieri, quando le ho torturate per due lunghissime ore. Anche io non mi rivolgerei più la parole, fossi al posto loro.
«Come va?».
Sussulto, accorgendomi che Gost sta parlando con me.
Elisa e Carlotta stanno cercando di uccidermi con lo sguardo. Come se avessi bisogno anche di loro.
Cerco di concentrarmi su Gost.
«Potrebbe andare meglio. I miei muscoli sono entrati in sciopero».
«Non ti devi scoraggiare, vedrai che andrà meglio» cerca di consolarmi, con scarsi risultati.
«Oggi posso darmi malata?» chiedo speranzosa.
Gost scuote la testa.
«Non ci pensare nemmeno. E poi dobbiamo studiare letteratura inglese, la prossima settimana c’è la verifica» dice entusiasta.
«Evviva».
Lui non coglie l’ironia nel mio tono.
Eleonora ritorna, la campanella suona, io riprendo a fissare il vuoto. Il mondo è tornato a girare nel verso giusto.
Quando finiscono le lezioni e tutti escono dall’aula, all’improvviso recupero la lucidità. Ci sono solo più Eleonora e Gost. Lui continua a lanciarmi delle occhiate per dirmi di muovermi. Afferro la giacca con calma e faccio molta attenzione a infilarla, stirando le pieghe con le dita e sistemandomi i capelli. Sembra così sulle spine che mi fa quasi tenerezza.
«Così sei stato per un certo tempo in Svizzera?» sta chiedendo Eleonora.
Gost risponde qualcosa. Sono troppo concentrata a infilare i libri nello zaino più lentamente possibile per sentire la risposta. La faccia irrequieta di Gost è una ricompensa sufficiente a tutti i miei sforzi.
Mi metto lo zaino in spalla e mi sembra di sentire il sospiro di sollievo di Gost. Ma quando mi giro sembra concentrato nella conversazione con Ele, forse un po’ impacciato. Solo dopo qualche secondo noto la preoccupazione nel suo sguardo, e non è dovuta a lei. Mi fa un cenno deciso verso l’uscita e io annuisco, il cuore in gola.
Scendiamo le scale in fretta, ormai la folla si è diradata. Gost continua a guardarsi intorno. Noto che in mano tiene l’aperio e ogni tanto gli dà un’occhiata. Eleonora chiacchiera tranquillamente, non si è accorta di nulla. Vorrei dirle di andare avanti, salutarla e dirle che siamo in ritardo, ma non posso. Cerco negli studenti che incontriamo qualche traccia di Occulti, ma non vedo bolle marroni. Solo le solite caotiche immagini di sempre, prive di senso e relativamente innocue.
Usciamo in strada e vedendo che ci sono Diego e Blu mi sento sollevata. Gost fa due segnali. Solleva l’aperio e se lo picchietta sulla tempia, poi si posa l’indice e il medio sulle labbra. È così veloce che a stento seguo i suoi movimenti, ma gli altri due scattano come se avesse urlato a squarciagola “Allarme bomba!”.
Pessimo segnale. Davvero pessimo.
«C’è tua madre!» urlo a Eleonora, forse con un po’ troppa foga.
Sono così nervosa che a stento evito di mettermi a saltellare sul posto.
Lei mi guarda per un attimo corrucciata. L’ho interrotta a metà di una frase senza spiegazione. Per fortuna non è il tipo da portare rancore.
«Ci vediamo domani?» chiedo, facendo finta di non averle appena detto, in modo velato, di togliersi dai piedi.
La sua espressione sfiora l’irritazione, l’emozione più vicina alla rabbia che sia in grado di mostrare, poi si scioglie in uno dei suoi sorrisi. Al posto delle farfalle adesso ha una lumachina rosa sulla testa.
«A domani» ci saluta, correndo da sua madre.
Non ha fatto neanche due metri che Diego e Blu mi affiancano, uno per lato, e mi afferrano per le braccia, cominciando a trascinarmi lontano di lì. Gost è subito dietro di me, che continua a fissare il suo dannato aperio.
«Ehm, sapete… so camminare da sola. Giuro che è vero! Forse vi ho dato l’impressione sbagliata, ma è proprio così» dico cercando di divincolarmi.
Blu mi fa l’occhiolino, ma continua a trascinarmi ad una velocità folle. Se qualcuno ci stesse osservando potrebbe concludere che stanno tentando di rapirmi, il che non si discosta molto dal vero.
Diego non si volta verso di me ma sento una tensione diversa provenire da lui, è come se fosse arrabbiato per qualcosa. Ha un’aria così determinata che non vorrei per nulla al mondo essere quella contro cui è diretta tutta la sua aggressività. E spero di essere molto lontana quando si scatenerà.
Siamo quasi arrivati al camper, due isolati fatti senza quasi toccare terra con i piedi, quando Gost decide di interrompere quella sceneggiata.
«Ho perso il segnale. Non vedo più niente» dice.
Gli altri due si rilassano leggermente, ma non mi lasciano comunque andare finché non mi depositano davanti all’armadio del camper. Mi hanno issato a bordo come fossi una valigia molto pesante. Vorrei avere la forza per offendermi almeno un po’, ma la verità che mi tremano ancora le gambe per la paura.
«C’era un Occulto?» chiedo col fiato corto, nonostante non abbia quasi camminato.
Gost armeggia per un po’ con l’aperio prima di rispondermi.
«Ho captato qualcosa, ma poi ho perso il segnale. Nulla di molto forte in ogni caso. Se era un Occulto era molto debole, oppure molto lontano».
«Meglio riferire a Gabri» dice Blu passando dall’altra parte dell’armadio.
Diego annuisce e lo segue.
Non mi resta che imitarli, seguita da Gost.
«Questa volta possiamo mangiare prima della sessione di tortura? Anzi, meglio, possiamo mangiare e basta?».
Blu si volta verso di me mentre apre la porta della cucina. «Te ne do atto: ci hai provato».
«Ma almeno una cosa te la concediamo» aggiunge. «Prima si mangia».
Temo che sarà l’unica cosa positiva del pomeriggio.
Questa volta il tavolo è apparecchiato solo per quattro.
«Ci siamo solo noi?».
Blu si mette comodo, lasciando agli altri il compito di mettere il cibo in tavola. Mi tolgo la giacca e poso lo zaino in un angolo.
«Morgana aiuta Marianna per una missione di ricognizione. Sono dovute tornare alla base per un po’. Gabri continua a lavorare in laboratorio per trovare un sistema che blocchi gli schermi ultrapiatti» elenca Gost, prendendo il termine che uso io per definire le immagini attorno alle persone.
«Mi spiace che debba lavorare così tanto… non è necessario che lo faccia».
Mi sento in colpa per averlo costretto a saltare tanti pasti e rinchiudersi in laboratorio.
«Lascia stare» dice Gost mettendo in tavola insalata mista e polpette al sugo. «Oggi ha cucinato Diego» aggiunge come fosse una notizia di una certa importanza.
Il profumo in effetti è ottimo.
«Tra noi è il cuoco migliore» spiega.
Gost cerca di prendere l’insalata con dei grossi cucchiai di plastica rossa per metterla nel piatto, ma rischia di farla cadere tutta sulla tovaglia. Decido di prendere in mano la situazione e servo gli altri tre prima di servirmi una generosa porzione.
«Questo è uno dei motivi per cui devono esserci donne nel nostro gruppo» esclama Blu, abbuffandosi come se temesse di non poter più toccar cibo per settimane.
«Perché non sei in grado di metterti l’insalata nel piatto?» chiedo sarcastica.
«Certo che sì. Ma voi donne lo fate con più stile».
Come posso ribattere a un’osservazione del genere?
Assaggio le polpette. Sono ottime.
«Complimenti al cuoco» dico divorandone una in un sol boccone.
Gost annuisce mentre Blu continua a ingozzarsi. Diego fa spallucce, ma si vede che la lode gli ha fatto piacere.
Finiamo di mangiare in fretta, con Gost e Blu che discutono del segnale che hanno captato prima.
«Non ho idea di che livello fosse, la traccia era troppo debole» dice Gost, pulendo la pentola con del pane. Blu cerca di fare lo stesso, ma più in fretta per non lasciarne all’altro.
«Dovevi risalire alla fonte» gli dice raccogliendo una generosa porzione di sugo e mettendosela in bocca con gusto.
Io e Diego li guardiamo mentre lustrano i piatti e la pentola.
«Perfetto, direi che non c’è bisogno di lavarli» dico.
Gost si pulisce il mento con il tovagliolo. Ha del sugo che gli arriva fin sul naso. E dovrebbe essere un terribile assassino di demoni? Topo Gigio mette più paura di lui.
Gli altri tre mi guardano, pieni di aspettativa.
«Fatemi indovinare… devo lavare i piatti?» chiedo, conoscendo già la risposta.
«Saresti così gentile?» chiede Blu con un sorrisone. Mi fa venire voglia di rispondergli di lavarseli da solo. Ma è giusto che anche io faccia qualcosa.
«Bene, allora io vado in camera. Se avete bisogno di me, urlate».
Mi alzo per mettere a posto, ma Gost mi precede.
«Ci penso io a mettere a posto, tu puoi lavare i piatti. Per quello sono negato».
«Mi sembra un patto equo».
Mi metto i guanti di gomma che avevo visto usare a Morgana e cerco il detersivo. Non faccio in tempo a guardare sotto il lavandino che Diego è al mio fianco con il flacone in mano.
«Grazie» dico prendendolo e versandone un po’ sulla spugna.
«A casa abbiamo la lavastoviglie, nemmeno io sono molto brava a lavare i piatti» ammetto mentre Gost si muove attorno a noi per rimettere tutto in ordine.
Guardo la pila di piatti e pentole alla mia sinistra aspettando che spariscano da sole. Se mi concentrassi abbastanza potrebbe funzionare?
«Ti aiuto ad asciugare» si offre Diego. È già pronto con uno strofinaccio in mano e aspetta tranquillo che gli passi i primi piatti.
Siamo così vicini che la sua felpa mi sfiora il braccio. Ho la gola secca e cerco di schiarirmela senza che se ne accorga.
Prima di iniziare mi rimbocco le maniche del golfino blu, anche questo un tempo era di mia sorella. Se lo rovinassi potrebbe farsi venire un colpo.
«Era di puro cachemere!» mi sembra di poter sentire la sua voce.
Lavo i bicchieri uno alla volta passandoli a Diego che li asciuga e li rimette a posto nella credenza di fianco a lui. I suoi movimenti sono fluidi e perfettamente naturali. Io devo usare ogni briciolo di concentrazione per non tagliarmi le dita coi coltelli o farmi cadere una pentola sul piede. Mi trovo a guardarlo con invidia.
«Tutto bene?» chiede Diego, così all’improvviso che sussulto e il piatto che stavo lavando scivola di nuovo sul fondo del lavandino pieno di acqua.
«Certo, perché?» chiedo nervosa.
Cerco di lanciarli un’occhiata indagatrice. Lui sembra calmo, nessun atteggiamento strano.
«È solo che di solito parli di più. Con gli altri» dice.
Non so come ribattere.
«Più che parlare, dico un sacco di stupidaggini» rispondo cautamente.
Con la coda dell’occhio vedo che sorride. Mi giro e il suo volto mi fa saltare un battito di cuore. Torno a concentrarmi sulle posate.
Pessima idea guardarlo. Ho perso il filo del discorso.
«È divertente per quello».
Ci metto un po’ a capire la risposta, poi arrossisco ammutolendomi.
Mi mancano solo un paio di pentole, poi potrò andare a seppellirmi da qualche parte. Questo posto è enorme, sono sicura che troverò un angolo abbastanza appartato per passarci il resto del pomeriggio.
«Non volevo offenderti» dice Diego. La sua voce rattristata ha il potere di riscuotermi dai miei pensieri.
«No» dico voltandomi di nuovo, però faccio attenzione a non guardarlo direttamente. «Non sono offesa, davvero» dico cercando di essere più convincente possibile.
L’espressione di Diego non è molto convinta, ma non ribatte.
Sospiro, passandogli l’ultima padella e togliendomi i guanti mentre lui l’asciuga.
«È solo che non mi sento del tutto a mio agio, e quando sono imbarazzata il mio cervello perde totalmente il controllo della bocca. Perciò, ecco, non farci troppo caso quando succede».
Non penso di essermi spiegata, ma lui annuisce e sembra più rilassato.
«Adesso cosa facciamo?» chiedo.
«Puoi iniziare a fare i compiti con Gost, di sicuro lui non vede l’ora».
Cerco di capire se sta scherzando, ma mantiene la solita neutralità. Sospiro andando a prendere lo zaino. Stamattina mi sono pure ricordata di portarmi la tuta e un cambio di biancheria.
«Quindi oggi pomeriggio lo passo sui libri?» chiedo mettendomi lo zaino in spalla. Rischio di cadere all’indietro per il peso, ma mi riprendo all’ultimo.
«No, ovviamente. Dopo ti alleni con me».
Ok, sta scherzando. Questa volta non può dire sul serio.
«Ma ho fatto un solo allenamento con Morgana. Non sono pronta!» dico, gli occhi spalancati dalla paura. Le spalle larghe e l’altezza di Diego mi sembrano improvvisamente molto minacciose. Mi farà a pezzi!
«Non devi essere particolarmente allenata per imparare le mosse base» ribatte Diego. Incrocia le braccia sul petto e si appoggia al lavandino, fissandomi.
«Non dirmi che hai paura».
Guardo i muscoli delle sue braccia che si flettono e li immagino mentre mi stritolano in una morsa letale.
«No, direi piuttosto che nutro una prudente preoccupazione».
«Sei spaventata a morte» sorride Diego.
«Sono cauta!».
«Terrorizzata, quindi».
Apro la bocca per ribattere, ma la richiudo a corto di parole. Il sorriso di trionfo sul viso di Diego minaccia di farmi perdere di nuovo l’equilibrio.
«Vado a studiare con Gost» dico puntando al salotto. «Ci metterò un sacco di tempo a fare tutti i compiti. Non so se avremo tempo per l’allenamento».
«Tra due ore vengo a prenderti». Il suo tono non ammette repliche.
Mi siedo al tavolo del salotto, pensando febbrilmente a cosa posso fare in queste due ore per farmi rispedire a casa. Se fingessi uno svenimento? Troppo banale, non ci cascherebbero.
Gost è già pronto alla partenza, con il libro di letteratura inglese e fogli bianchi su cui scrivere.
«Cominciamo?».
Annuisco e prendo il mio libro, mentre il mio cervello continua a lavorare febbrilmente.
Potrei fingere di inciampare e di slogarmi una caviglia. Dopo un secondo scarto l’idea. Con la mia goffaggine finirei per rompermela davvero.
Continuo con i miei piani per altri dieci minuti, finché Gost non si accorge che non lo sto seguendo e richiama la mia attenzione. Mi costringe a rileggere ogni dannatissima pagina due volte e me le fa pure ripetere!
«Visto che non era così difficile?» chiede alla fine, dopo quaranta pagine di autori inglesi. Sento il cervello in fiamme, ma stranamente ho capito tutto. Ricordo persino tutti i nomi.
Mi rendo conto che sono già passate due ore quando arriva Diego.
«Tocca a te?» chiede Gost. Lui annuisce mentre io sono tentata di scivolare sotto al tavolo e aggrapparmi a una gamba per non essere portata via. Lo sguardo di Diego minaccia di trascinarmi a forza in palestra se opporrò resistenza.
Guardo speranzosa Gost, in cerca di sostegno. Ma ovviamente la mia fiducia è mal riposta.
«Buon allenamento».
«A-aspetta… credo che dovremmo rivedere l’ultima parte. Non sono sicura di…».
«Bel tentativo» dice Diego posandomi la mano sulla spalla. Non stringe, ma ho come l’impressione di essere stata afferrata da un rapace che vuole divorarmi.
«Ma non sarebbe meglio che una lezione del genere la facessi con Gabriele?».
«Credi che io non sia capace di insegnarti?» chiede Diego, il suo tono è diventato pericolosamente irritato.
«No, non è questo. È solo che, magari, mmmh…» non so più cosa dire, ma l’idea di dover affrontare Diego su un tappetino da arti marziali mi rende un tantino agitata.
«Dovrai cominciare prima o poi» dice Gost. «E poi non ti preoccupare. Diego studia arti marziali da quando era bambino. È il più adatto a insegnarti».
Il fatto che siano anni che sa come picchiare la gente non mi tranquillizza affatto.
«Ok, dove mi cambio?» dico con la voce di un condannato al patibolo.
Diego fa un cenno con la testa.
«Puoi usare di nuovo la stanza di Morgana. Io ti aspetto in palestra. Non metterci troppo o vengo a prenderti e ti ci porto come sei».
«Di solito non fa certe minacce» dice Gost mentre Diego esce dal salotto.
«A dire la verità di solito non parla e basta».
«E secondo te è un buon segno?» chiedo.
«Lo scoprirai presto».
Mi avvio con andatura mogia nella stanza di Morgana, dove metto i pantaloni neri della tuta che ho recuperato a casa – miracolosamente mi stanno bene – e una maglietta lilla un po’ stretta. Provo a fare qualche movimento con le braccia per controllare che non mi ostacoli troppo. Per ultimi lego i capelli in una coda e infilo le scarpe da ginnastica. Controllo due volte come sono vestita e apro l’armadio di Morgana in cerca di uno specchio. Ne trovo uno abbastanza grande su un’anta e mi guardo con occhio critico. Meglio dell’ultima volta che ho fatto ginnastica, ma continuo a sentirmi informe e sciatta. Mi scopro a pensare che avrei dovuto mettermi qualcosa di più carino per allenarmi con Diego.
Un momento! Qualcosa di carino, io? Perché?
Che senso ha vestirsi bene per sudare?
Ora che ci penso, nella nostra classe metà delle ragazze fa  ginnastica con magliette aderenti e pantaloni di marca. Ma ho sempre pensato che lo facessero per mettersi in mostra coi ragazzi delle altre classi.
Mi giro per controllare come mi stanno i pantaloni. Come mi aspettavo il mio didietro non ha nessuna forma. Provo a tirarli un po’ su, senza risultato.
Quando mi rendo conto di cosa sto facendo chiudo di colpo l’armadio dandomi della stupida.
Si può sapere che mi prende? Da quando mi preoccupo di come sto in tuta da ginnastica?
Faccio un respiro profondo e sbircio in corridoio.
Via libera.
Esco dalla camera di Morgana e mi muovo velocemente per raggiungere la palestra. Non sento passi o altri rumori. Prendo di nuovo un respiro profondo ed entro in palestra.
Diego mi aspetta vicino al tapis roulant. Si è cambiato e indossa anche lui una tuta nera e una maglietta grigia. La perfetta incarnazione dell’istruttore sportivo.
«Stavo per venirti a prendere» sorride Diego.
Mi avvicino guardinga, come aspettandomi un agguato.
Diego indica la macchina dietro di lui.
«Prima devi fare riscaldamento».
Se possibile, il mio entusiasmo diminuisce ancora. La mia voglia di fare sport è scesa a temperature polari.
Salgo sul tapis roulant aggrappandomi ai sostegni laterali. La bassa risata di Diego mi fa sollevare gli occhi. La sua espressione è così diversa dalla solita neutralità che resto per un attimo interdetta.
«Perché ridi?».
«Sembra che tu voglia dargli fuoco».
Magari…
«Se solo ne fossi capace».
La risata di Diego si fa di nuovo sentire mentre comincia a schiacciare i pulsanti per farmi partire.
«Venti minuti di riscaldamento. Poi addominali e braccia» mi annuncia.
«Credevo dovessi insegnarmi delle mosse di arti marziali, o autodifesa, qualsiasi cosa che includa pestare a sangue qualcuno».
«Ma prima devi fare riscaldamento».
Mi sento truffata. Alla fine si tratta comunque di fare un sacco di esercizi.
Il tapis roulant parte con uno scossone e mi trovo quasi a correre.
«Non potresti farlo rallentare?» chiedo tenendomi saldamente ai sostegni.
«Ce la puoi fare» ribatte Diego salendo sulla macchina a fianco e facendo partire anche quella.
«Non è meglio se resti qui vicino? Sai, nel caso perdessi la presa e finissi a terra».
«Alice, risparmia il fiato e corri. Non morirai».
Questo è ancora tutto da vedere.
«Ti resterò sulla coscienza, preparati» borbotto con l’ultimo soffio d’aria nei polmoni, poi decido che è meglio seguire il suo consiglio e risparmiare fiato.
Diego comincia a correre al doppio della mia velocità senza apparente sforzo fisico.
«Sbruffone» gli sibilo.
Non sono sicura che mi abbia sentito, ma sul suo viso compare un rapido sorriso.
Dopo cinque minuti e quindici secondi non sento più le gambe e respirare è diventato molto doloroso. Ansimo e sbuffo come una vecchia locomotiva a vapore.
A dieci minuti ho compilato mentalmente il mio testamento, con le lettere di accompagnamento per tutti i famigliari. Molto belle e piene di sentimento, peccato che non farò in tempo a scriverle. Mi chiedo come si regoleranno i miei per la paghetta. Una volta morta daranno la mia parte a mia sorella? Se così, non posso mollare. È una questione di principio.
Mi viene in mente che mia sorella frequenta la palestra da quasi tre anni. Venti minuti di corsa non la spettinano nemmeno. Io invece sento ciocche umide di capelli attorcigliarsi intorno al collo dopo essere fuggite dall’elastico. Non oso staccare le mani dai sostegni per rifarmi la coda. Potrebbe essere l’ultima cosa che faccio.
Immersa in queste riflessioni non mi sono accorta che ho appena raggiunto la quota dei quindici minuti.
«Come va?» chiede Diego, nessuna traccia di affaticamento nella voce.
L’unica risposta che riesco a dare è uno sbuffo appena più forte degli altri.
Quattro minuti.
Se sopravvivo a questo, non lascerò più dire a Serena che sono una pappamolle.
«Riesco a correre per venti minuti, che ti credi!» sarà la mia risposta.
Stringo i denti. E continuo col conto alla rovescia. Fisso i numeri come se potessi farli andare più veloci con la forza del pensiero.
Due minuti.
Sto per mollare. La mancanza di ossigeno comincerà a farmi delirare. Più del solito.
Se solo ricordassi qual è il pulsante per fermare tutto. Cerco di leggere le scritte in piccolo, ma col sudore che mi cola sulla fronte riesco appena a distinguere i contorni.
All’improvviso la macchina rallenta e mi ritrovo a camminare a passo di lumaca. Un lieve bip e poi si ferma del tutto. Resto immobile, ancora aggrappata ai supporti laterali.
Non riesco a credere di avercela fatta.
Faccio per scendere ma mi gira la testa e per poco non finisco sdraiata sul parquet. Diego è già lì a sostenermi. Devo avere l’aria di una moribonda, perché è così che mi sento.
«Respira» dice.
Mi fa spostare al centro della stanza.
«Alza le braccia e inspira, poi espira lentamente».
Ci provo, ma è difficile. Il primo impulso è cercare di incamerare più aria il più in fretta possibile.
«Lentamente» ripete Diego.
Poco a poco riesco a tornare a respirare normalmente. Mi lascio cadere a terra.
«Volevi farmi fuori, almeno ammettilo» esclamo non appena riesco a parlare.
Diego si siede a gambe incrociate di fianco a me.
«Come ti senti?».
«Come se mi avessero investito, e poi avessero fatto retromarcia».
«Intendevo dire: come ti senti per avercela fatta?».
Ci devo pensare un attimo.
«Bene» devo ammettere.
«Ma ne avrei fatto anche a meno».
Diego si rialza in piedi e mi costringe a fare lo stesso tirandomi da un braccio. Mi rimette in posizione eretta come se fossi un pupazzo senza spina dorsale.
«Ti sbagli».
«Come?». Non capisco cosa intende.
«L’autostima. Non è una cosa di cui si può fare a meno».
Mi fa cenno di seguirlo nella stanza coi tappetini e i sacchi da boxe.
«L’autostima» ripeto come un pappagallo, senza capire ancora. «La mia autostima non aumenterà perché sono riuscita a correre per venti minuti e non ho subito danni permanenti».
«Invece è proprio quello che succederà» ribatte Diego, incrociando le braccia davanti al petto, sornione.
«Che vuoi dire?».
«Sei stata cresciuta nella convinzione di non valere niente. Ti guardi allo specchio e pensi che sarebbe meglio non essere mai nata. Pensi di essere una persona priva di interesse».
Sì, beh, non l’avrei detta proprio così.
Sentirlo parlare mi provoca una fitta al petto.
«Tu che ne puoi sapere?» gli urlo contro.
Non mi ero accorta di stringere i pugni per la rabbia.
«Perché è esattamente quello che abbiamo provato tutti. Perché è quello che provo io, da sempre».
Mi giro per poter nascondere gli occhi lucidi. Quando sono sicura di aver ricacciato indietro le lacrime chiedo: «E correre aiuta?».
«Non sai quanto».


 

Chi mi segue anche su fb sa già che sto partecipando a un concorso indetto dalla Giunti Y.
Al link qui sotto potrete leggere le prime 50 pagine di una mia storia e votarla. Le cinque storie più votate potrebbero essere pubblicate, perciò fateci un pensierino e aiutate questa povera anima in pena (sì, sto parlando di me!).
La mia storia si intitola "Io sono Vera" e spero che, anche se non vorrete votarla, mi direte cosa ne pensate ;)


http://www.concorsogiuntishift.it/vota-la-storia/

 

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