Betulla

di kenjina
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 01. ***
Capitolo 2: *** 02. ***
Capitolo 3: *** 03. ***
Capitolo 4: *** 04. ***
Capitolo 5: *** 05. ***
Capitolo 6: *** 06. ***
Capitolo 7: *** 07. ***
Capitolo 8: *** 08. ***
Capitolo 9: *** 09. ***
Capitolo 10: *** 10. ***
Capitolo 11: *** 11. ***
Capitolo 12: *** 12. ***
Capitolo 13: *** 13. ***
Capitolo 14: *** 14. ***
Capitolo 15: *** 15. ***
Capitolo 16: *** 16. Epilogo ***



Capitolo 1
*** 01. ***


Scrivere sul libro che mi ha fatta crescere e che mi affascina ogni anno (cioè, ogni volta che lo riprendo in mano) è qualcosa che mi imbarazza, perché è una storia così perfetta e così ben scritta che sicuramente rovinerò tutta la magia che l'impregna. Però eccomi qui, umile e devota ammiratrice di sir Tolkien, per togliermi lo sfizio di vivere nella Terra di Mezzo e rimediare ad un piccolo dettaglio - che tanto piccolo non è - per cui ho versato lacrime a fiumi - libro e film compreso.

E a proposito, la seguente fanfiction farà riferimento principalmente ai fatti narrati dal libro, dalle appendici e da quant'altro Tolkien abbia scritto, ma ci saranno anche piccoli avvenimenti ripresi dal film, perché saranno più congeniali per il corso della storia.

Spero di non fare un completo disastro.

Un'ultimissima cosa: ho già scritto 80 pagine, per nove capitoli. Mi rendo conto che saranno lunghissimi, ma non potevo fare altrimenti.

La storia non è ancora conclusa e scriverla mi prende tempo e dedizione, ma, come il resto delle mie storie, avrà una fine. Promesso.

Buona lettura!

 

Betulla

01.

26 Febbraio 3019 T. E.

 

Non fu il dolore fisico che gli procurò quello strazio assordante, né la carezzevole consapevolezza che sarebbe morto in pochi minuti. Morire significava liberarsi dal peso opprimente di un fardello che non era riuscito a sopportare e che ora lo stava schiacciando, per lasciarlo finalmente libero dalle angosce e dai tormenti. Aveva sempre immaginato la sua morte e sapeva che sarebbe stato in battaglia. Sarebbe caduto da soldato, davanti le mura della sua amata città, per difendere con onore il suo popolo dalle armate nemiche che giungevano come un'ombra da Est. La sua morte sarebbe servita per salvare le terre che lo avevano visto crescere, per dare una possibilità alle future generazioni di vivere una vita lontana dalle tenebre e dalle paure.

Ma che onore poteva esserci in lui, dopo quello che aveva fatto? Aveva infangato il suo nome, calpestato quello di suo padre e della famiglia intera. Non c'era onore in lui. Solo tradimento, vergogna, arroganza.

Sarebbe morto lì, contro quell'albero anonimo, lontano dalla sua terra che aveva servito per quaranta lunghi anni con amore, orgoglio e forza. Nessuno avrebbe narrato la storia di Boromir il Traditore, se non per maledirlo oltre la morte, poiché la rovina della Terra di Mezzo era sulle sue stanche spalle e la speranza che i suoi consanguinei potessero rivedere la luce di un'alba senza più terrore e sangue svaniva di minuto in minuto.

Chiuse gli occhi, Boromir. E ripensò alla sua Città di Pietra, che gli era sempre parsa come un'antica e altera regina bianca, ritta e fiera davanti al crescere dell'Ombra, inflessibile nonostante le innumerevoli cadute, eppure buona con chiunque fosse un amico in cerca del conforto di un luogo familiare. Avrebbe voluto rivedere la magnificenza di Minas Tirith quando il suo legittimo Re fosse salito su quel trono che troppo a lungo era stato vuoto, e lo avrebbe servito come il primo dei suoi alleati, come fratello e amico; avrebbe voluto mostrare a Merry e Pipino i luoghi della sua infanzia e condividere con loro le gioie e le pene che quella sua città gli aveva regalato; avrebbe voluto riabbracciare il suo amato fratello e subire le ire del suo severo padre quando gli avrebbe raccontato del suo fallimento.

Eppure, ora l'unica sua speranza era che se ne andasse in fretta, che nessuno dei suoi amici lo trovasse ancora cosciente, per non dover sopportare i loro sguardi di disprezzo e odio. L'unico rammarico era che non fosse riuscito a salvare gli Hobbit. Aveva tentato di difenderli, in quell'ultimo e disperato gesto, perché si era realmente affezionato a quei piccoli con l'animo forte di un vecchio saggio. Aveva tentato, eppure aveva fallito, ancora una volta. Aveva richiesto aiuto suonando per tre volte il Corno di Gondor, eppure nessuno era giunto. E ora il clamore terribile degli Uruk-hai si era allontanato così com'era giunto e aveva lasciato i due piccoletti nelle mani di chissà quale tormento Saruman gli avrebbe inflitto per il suo sollazzo.

La sgradevole sensazione degli occhi brucianti dalle lacrime lo fece singhiozzare e un rivolo di sangue gli bagnò le labbra e il mento. Strinse le palpebre e si concentrò sul suono delle trombe d'argento che segnavano l'inizio di una battaglia, o quelle festanti per la vittoria. Rivide lo stendardo di Gondor sventolare impazzito al fresco vento dell'Ovest quando conficcò il legno della bandiera tra le pietre di una riconquistata Osgiliath e gli parve di poter contare le piccole gemme preziose che disegnavano l'Albero Bianco. Boromir sorrise. Sentì le grida dei suoi uomini che osannavano il suo nome con un orgoglio e una gioia che gli riempì il cuore di fierezza. Non rimpiangeva un singolo istante della sua vita, ma avrebbe voluto essere più forte di spirito piuttosto che di fisico per superare quell'ardua prova che era stata gettata sul suo cammino.

Tentò di prendere un respiro profondo, ma un dolore lancinante al polmone perforato lo fece gemere a denti stretti. Se solo l'avessero finito avrebbe riposato in pace, finalmente.

Sentì il leggero fruscio di passi sulle foglie secche di quel pavimento naturale e pensò fosse Legolas, giunto silenzioso a vedere la sua fine. Così temette che anche Aragorn fosse con lui e che sentisse le sue parole di condanna prima di lasciare la Terra di Mezzo. Eppure nessuna voce gli parlò con risentimento né nessuno pose fine alle sue sofferenze come inconsciamente aveva sperato. Avvertì una mano sulla fronte e l'altra che tastava il petto spostando il tessuto impregnato del suo stesso sangue per controllare forse l'entità delle ferite. La sua voce fu più bassa di un sibilo per l'assenza di fiato e forze.

«Aragorn...»

Ma l'Uomo non gli rispose. Non fu neanche tanto sicuro che si trattasse di lui. Aprì a stento gli occhi e non vide altro che una sagoma sfuocata china sul suo corpo. Il sangue che aveva perduto gli stava annebbiando la vista, così come gli provocava fastidiose vertigini, nonostante avesse la schiena poggiata contro l'albero.

Il rumore di passi più pesanti e di più persone giunse ovattato alle sue orecchie e gli sembrò che qualcuno richiamasse il suo nome.

«Boromir!»

Aragorn arrivò di corsa, seguito da Legolas e Gimli che si fermarono a qualche metro di distanza, addolorati e sgomenti per la vista del valoroso soldato di Gondor in fin di vita. Il Ramingo si chinò sul suo compagno e amico, gli occhi grigi lucidi per le lacrime. Fu solo in quel momento che si accorse della persona giunta prima di lui e nel suo sguardo gli amici videro passare stupore, tristezza e rabbia.

«Aragorn... mi dispiace.»

Il Dùnadan rivolse la sua attenzione nuovamente all'Uomo morente e scosse il capo. «Non sprecare le tue poche energie per dispiacerti, Boromir. Conservale finché il tuo corpo te lo consente.»

Boromir scosse il capo, tossendo sangue. «Per cosa dovrei preservare energie? Hanno preso i piccoletti... Frodo, dov'è Frodo?»

«L'ho lasciato andare... Sam è con lui.»

Le mani di Aragorn vennero bloccate da quelle dell'Uomo di Gondor, in un gesto repentino e incredibilmente forte per le condizioni in cui verteva.

«Lasciami morire. Non merito di vivere. Ho tentato di prendergli l'Anello, Aragorn... ho tradito la Compagnia, ho tradito tutti voi. Minas Tirith cadrà e l'Ombra invaderà la nostra terra. Ho pagato per il mio errore. Non merito la vita, né la tua pietà.»

«E non sarà la mia pietà che avrai, ma solo l'amore che provo nei confronti di un amico.»

«Un amico...»

Boromir tossì ancora, l'ombra di un sorriso sulle labbra sporche di sangue, e l'estraneo incappucciato tenne ferme le mani dell'Uomo, mentre faceva un gesto eloquente con il capo, indicando le frecce che ancora martoriavano quel corpo.

«Ti avrei seguito ovunque, fratello mio.» sussurrò. «Ti avrei seguito come amico... e suddito, mio Re.»

Lacrime bagnarono il viso di Aragorn, ma rimase freddo e calmo quando estrasse una delle frecce, sordo al gemito di dolore e frustrazione del ferito. Boromir si lamentò e tentò con le poche forze rimaste di sottrarsi a quella tortura. Perché non lo lasciavano semplicemente morire? Non poteva sopportare il peso di quelle angosce che non lo avrebbero abbandonato fino alla fine dei suoi giorni, né la compassione di chi aveva tradito.

Voleva solo riposare.

«Gli Hobbit, Aragorn. Salvali, te ne prego. Non perdere il tuo tempo qui.»

Il Ramingo, aiutato dallo straniero, fece cadere le altre frecce e spogliò della tunica e della cotta di maglia il suo amico. Sollevò lo sguardo sull'incappucciato e con poco del suo garbo parlò. «Hai foglie di athelas con te?»

Quello annuì, prendendo un sacchetto appeso alla cinghia che stringeva il mantello alla vita. «Ne porto sempre con me, Aragorn.»

Legolas e Gimli si stupirono nel sentire quella voce sottile come quella di una donna. Poiché si accorsero che proprio di una donna si trattasse quando il cappuccio le scivolò sulle spalle e poterono vedere il suo volto, deturpato tra quattro profonde cicatrici. Tuttavia non capirono chi fosse, né il motivo per cui Aragorn sembrava tanto in collera con lei.

«Aragorn, promettimi che salverai i piccoletti...»

Grampasso tornò a guardare il suo amico, mentre la donna preparava la medicina e le bende. Prese le mani del suo amico e gliele strinse. Boromir si sentì riscaldare da quel contatto confortante.

«Ti giuro sul sangue di Elendil e Isildur che scorre nelle mie vene che troverò Merry e Pipino. Non lascerò che il tuo sacrificio sia vano, né che i nostri amici patiscano le sofferenze più atroci. E ti giuro, fratello mio, che non lascerò che Minas Tirith cada, né che il nostro popolo muoia con essa. Tu vivrai per vedere la gloria di Gondor e sarai al mio fianco quando attraverserò le porte della Città Bianca per prendere il trono che mi spetta.»

Boromir ricambiò la stretta del compagno e provò sollievo nel sentire il suono di quel giuramento e il profumo delle foglie terapeutiche che gli inebriò i sensi. «Va', dunque. Saranno già lontani.»

La consapevolezza che dovesse correre più velocemente degli Uruk-hai per salvare gli Hobbit gli diede la forza di alzarsi, ma Aragorn non riuscì a muoversi subito verso Legolas e Gimli. Guardava quell'Uomo distrutto dal dolore fisico e interiore, e sapeva che non avrebbe potuto lasciarlo solo nei suoi tormenti. L'Ombra lo aveva quasi preso una volta e non era sicuro che fosse del tutto in salvo, neanche una volta che si fosse ripreso dalle ferite del corpo.

Ma Boromir non era solo, almeno non completamente. Osservò la donna con risentimento e un nodo alla gola gli si chiuse per un vecchio ricordo che sembrava lontano come il tempo della sua felicità. Guardandola si domandò se potesse fidarsi e lasciare il suo amico nelle sue mani. Poi convenne che non potesse fare altrimenti. «Prenditi cura di lui, mentre starò via. Se dovesse succedergli qualcosa per una tua mancanza, ti prometto che porterò a termine ciò che non fece Halbarad.»

La donna chinò il capo, senza guardarlo negli occhi se non per un breve istante. «Lo farò, mio signore.»

Aragorn strinse involontariamente la mascella, infastidito da quell'appellativo. Ma non aggiunse altro. Salutò con un ultimo sguardo Boromir, poi voltò le spalle ai due e diede inizio alla caccia. L'Elfo e il Nano lo seguirono senza esitazione, eccitati dall'inseguimento.

La medicina che la donna aveva velocemente preparato rilassò l'Uomo e i suoi muscoli tesi. Bevve fino all'ultima goccia, aiutato da lei perché le braccia erano troppo intorpidite per trovare la forza di muoversi. In religioso silenzio si fece medicare e fasciare, nonostante fosse contrario a quel gesto di pietà. Non aveva chiesto di continuare a vivere, invocava invece la morte! Ma forse le Aule di Mandos non accoglievano i traditori, neanche per poco tempo, cosicché il Valar avesse deciso di ritardare la sua ora.

Cadde in un sonno senza sogni, grazie alla bevanda lenitiva e alla sua incredibile stanchezza, e non seppe quantificare le ore che trascorsero dal suo risveglio. Ricordò solo alcuni momenti di veglia, quando sentiva qualcuno scuoterlo e risvegliarlo per fargli bere ancora quella tisana rilassante, ma nient'altro. Il primo pensiero che ebbe appena aprì gli occhi fu piuttosto confuso. Non seppe dire se fosse vivo o morto, perché non sentiva niente che gli facesse capire se provasse dolore o insensibilità. Il suo sguardo incontrò le chiome mosse da un leggero venticello e qualche raggio di sole, prima del tramonto, che a fatica riusciva a baciare il terreno di foglie su cui era steso. Gli vennero in mente gli alberi di Bosco Grigio, alle pendici del Monte Mindolluin, che spesso visitava nei momenti di pace con il fratello, a cavallo e a piedi. Faramir amava raccontargli storie su quei posti magici come le foreste, canzoni lette nei pomeriggi spesi in biblioteca, o ascoltate dalla bocca di Gandalf; lui lo interrompeva spesso, perché mai si era interessato ai racconti elfici, né riusciva a memorizzare tutti quei nomi stranieri, cosicché perdesse facilmente il filo del discorso. Ah, quale pazienza aveva suo fratello nel ripetere nuovamente tutto!

Sorrise nel pensare a Faramir e si domandò come stesse. Gli mancava il suo fratellino.

Poi, con la velocità e il frastuono di un fulmine, tutti gli avvenimenti di quel giorno gli rivennero alla mente e si sentì ancora una volta sprofondare nelle colpe e nella vergogna. Era una sensazione orribile, che lo frustrava e lo soffocava. Si sarebbe mai liberato di quel peso, o almeno alleggerito un poco?

Un movimento alla sua sinistra attirò la sua attenzione e pensò che non sarebbe sopravvissuto quella volta a un altro attacco degli Orchi. Aveva a mala pena la forza per sollevare un braccio, ma non certo quella per brandire una spada e difendersi. Eppure non udì grida terrificanti, né il frastuono di quei piedi pesanti che battevano il terreno sotto il loro cammino. Vide invece quella figura sconosciuta che ricordava prima di svenire; ricordava quella sagoma sfuocata e quattro graffi cicatrizzati che martoriavano il viso. Non gli aveva parlato in quei momenti di dormiveglia, né prima che si addormentasse dopo che Aragorn se ne fu andato. Aveva compiuto veloci e pratici gesti curativi, aveva bendato le ferite e lo aveva coperto con il suo mantello per non fargli prendere freddo. Prima che si addormentasse ricordava che si fosse seduta a pochi metri da lui, su una radice sporgente e scomoda, e lì era rimasta a rimuginare su qualcosa. Ignorava la sua identità, ma era probabile che conoscesse il Ramingo.

La donna si accorse del suo risveglio e si chinò su di lui per tastargli la fronte. La febbre era calata, ma non del tutto. «Come ti senti? Riesci a respirare senza problemi?»

Boromir annuì. Era incredibile pensare che fino a qualche ora prima avesse in corpo una freccia che aveva rischiato di perforargli un polmone e ora potesse inspirare senza gemere dal dolore ogni volta. Era ancora indolenzito, ma niente era paragonabile a ciò che aveva provato in quei momenti. Inoltre non aveva intenzione di lamentarsi con una donna.

Una donna!

Aveva perso l'onore con il gesto di follia nei confronti di Frodo, e ora quel poco di dignità rimasta veniva calpestata dal fatto che una donna gli avesse salvato la vita. Lui, che aveva sempre rifiutato le cure dei Guaritori, che aveva medicato le sue stesse ferite da solo, era ora in balia di una donna.

«Muovi le gambe e le braccia.»

Una donna, che ora gli impartiva persino degli ordini.

Ma non aveva la forza fisica né mentale di farle notare che fosse lui l'uomo della situazione, non viceversa; per di più gli aveva salvato la vita. Non sapeva se essere felice di poter continuare a camminare sul mondo o maledirla per non averlo lasciato al suo destino, ma per il momento poteva unicamente ringraziarla.

Fece come gli aveva detto e anche lui si accorse che potesse muovere gli arti senza particolari problemi. Si sentiva solo infinitamente stanco per la battaglia e per il sangue perso, ma non aveva ferite così gravi da compromettere i suoi movimenti.

Lei si chinò e rimase in ascolto per qualche minuto, con l'orecchia premuta sul terreno, senza quasi fiatare. Poi tornò a guardarlo. Aveva penetranti occhi grigi.

«Devo chiederti lo sforzo di spostarci da qui.» gli disse. «Le rovine del Seggio della Vista non sono molto distanti e offrono un riparo migliore di questo. Non sento la presenza di altri Orchi in questa sponda del fiume, ma è meglio allontanarsi per la notte. Chiunque abbia l'ardire di avvicinarsi, lì, sarebbe scorto con preavviso.»

L'Uomo le fu grato che avesse dato per scontato che si sarebbe alzato e per non avergli chiesto se se la sentisse di muoversi, sebbene quella mancanza di tatto potesse sembrare una scortesia. Non voleva sentirsi un peso da trasportare come un sacco di patate, né avrebbe ingoiato facilmente il fatto che avrebbe potuto esserlo realmente. Accettò comunque la mano che gli offrì e senza aggiungere una parola la donna si portò il braccio sulle spalle. Boromir si chiese quanti passi avrebbero potuto fare prima di cadere, lui senza forze e lei sopraffatta dal peso dell'Uomo. Ma la donna era più temeraria e ostinata di quanto non pensasse e, con lentezza, s'incamminarono verso l'antica torre di guardia. Il viaggio, seppur breve, non fu affatto semplice, perché il terreno in salita e dismesso da pietre e radici rallentava molto ogni loro passo. Ma Boromir non si lamentò, se non per imprecare a denti stretti quando inciampò e rischiò di cadere. Ripercorrere quel tratto di foresta gli ricordò la lotta con Frodo e non riuscì a trattenere una lacrima di pentimento con la stessa forza con cui camminava.

«Coraggio, siamo quasi arrivati.»

L'Uomo sollevò lo sguardo e vide il grande Seggio, maestoso nonostante ormai fosse inutilizzato e sopraffatto dalla corrosione del tempo e della natura. Superarono il cerchio di pietre che recintava l'area, e dopo aver scartato un blocco intagliato caduto durante qualche tormenta, si ritrovarono sotto il Seggio, sorretto da quattro imponenti colonne. Boromir si stese contro una di queste e lì rimase, finché la donna non tornò con il suo scudo, la spada e il Corno di Gondor, ormai diviso in due.

«Mi dispiace che sia rotto.» disse lei, consegnandoglielo con cautela.

Boromir si lasciò sfuggire un sospiro addolorato, e accarezzò quello strumento di gloria e guerra che riempiva di gioia il suo cuore e di timore il nemico. «Mio padre me lo consegnò quando raggiunsi la maggiore età. Ed egli a sua volta lo ebbe in eredità da mio nonno, Ecthelion II. E così via per secoli, da Vorondil il Cacciatore in poi, per vent'otto generazioni. Ahimè, mai più le mie genti udranno il suo suono. Anche di questa disgrazia mi sono sporcato le mani.»

«Non disperarti per meri oggetti che possono essere ricostruiti o riparati.»

«Questo mero oggetto racconta la storia di Gondor, nessun altro può sostituirlo.» rispose seccato.

«Anche Narsil, la lama che fu spezzata, ha visto nuova vita in Andúril e ora è anche più tagliente, da quanto so.»

Non c'era un vero e proprio rimprovero in quelle parole, ma Boromir ne fu colpito comunque. Osservò la donna con più attenzione e notò che somigliasse molto ad Aragorn. E non per i suoi corti capelli scuri e gli occhi grigi, piuttosto per la fierezza che tradiva le parole rispettose pronunciate poco prima. Pareva saggia seppur giovane, e vestita alla maniera dei Dúnedain, con un mantello grigio trattenuto da una spilla a forma di stella sulla spalla sinistra. E poi c'era il mistero e l'orrore di quelle cicatrici sul volto che un tempo doveva essere stato bello; quattro graffi profondi, che partivano dall'occhio sinistro e affondavano fino alla guancia opposta, rossi quasi come se si fossero appena rimarginati. Quale creatura avrebbe potuto infliggere un tale colpo, sciupando la sua bellezza?

«Chi sei?» le chiese.

La donna afferrò l'arco che tendeva sulle spalle e incoccò una freccia. Immobile fissò qualcosa oltre il cerchio di pietre. Poi lasciò andare il dardo, che uccise una lepre. Gli rispose solo quando tornò con l'animale sanguinante in una mano. «Il mio nome è Brethil figlia di Aeglos, al tuo servizio.»

«Boromir figlio di Denethor, Capitano della Torre Bianca, al tuo. Ti devo la vita, dama Brethil, anche se per certi versi avrei preferito che mi lasciassi morire.»

«Non sono una dama. E non avrei potuto lasciarti morire neanche se mi avessi supplicato. Ho un codice da onorare, Capitano della Torre Bianca, come tu hai il tuo. E gli amici di Aragorn sono anche amici miei.»

«Dunque lo conosci.»

«Sì, anche se lui ormai non conosce più me.» disse in un sussurro che quasi l'Uomo non udì. «Abbiamo combattuto numerose battaglie insieme, al nord.»

«Sei una discendente di Númenor?»

Brethil annuì.

Boromir si sistemò meglio contro la colonna, ormai deciso a conoscere qualcosa di più sulla sua salvatrice, mentre lei scuoiava la loro cena con un coltello di fattura elfica. Notò che fosse ben armata, ma la faretra sulle spalle era per metà vuota, segno che anche lei aveva dovuto combattere prima di raggiungerlo. La domanda gli sorse genuina alle labbra. «Non sei capitata su questi colli per sbaglio, né il suono del corno ha permesso al villaggio più vicino di inviare soccorsi. Come hai fatto a trovarci?»

«La volontà dei Valar mi ha condotta qui, nient'altro. Mi trovavo nell'Emnet Orientale e ho udito il tuo richiamo. I cavalli di Rohan sanno essere molto lesti quando necessiti di urgenza.»

Boromir non seppe capire se le sue parole fossero veritiere o se avesse omesso qualcosa. Non poteva essere solo pura coincidenza, né voleva credere alla storia dei Valar, poiché era fermamente convinto che nessun Uomo fosse un burattino nelle mani di quelle divinità. «Perché una donna avrebbe dovuto trovarsi sola in una landa desolata come quella? Un tempo vi pascolavano le mandrie dei Rohirrim, ora non vi sono più neanche quei pochi e temporanei villaggi di allevatori.»

«Non ti chiederò perché tu e Aragorn e quella strana coppia di amici vi trovaste lì. Desidererei che anche tu facessi ugualmente.»

«Perdonami, non era mia intenzione offenderti.»

«Nessuna offesa.»

Brethil si alzò per cercare un po' di legna da ardere. Erano in alto, nel mezzo degli alberi, non vi era pericolo alcuno che potessero scorgere le fiamme di un piccolo falò per cuocere una lepre magra come quella. Mentre la carne arrostiva, inebriando i sensi di un affamatissimo Boromir, la donna preparò ancora quella saporita tisana e degli impacchi per le lesioni. Con molta delicatezza aiutò l'Uomo a spogliarsi degli abiti superiori, disinfettò le ferite con l'athelas e le bendò nuovamente.

«Si cicatrizzeranno in fretta, con quest'erba, ma non compiere movimenti bruschi in questi primi giorni, o si riapriranno.» disse Brethil. «Sei un uomo forte, Boromir, figlio di Gondor. Molti sarebbero caduti dopo la prima freccia.»

«Non potevo arrendermi all'inizio. Non senza aver prima tentato.»

Brethil lo osservò con attenzione. «Tentare cosa?»

«Di salvare i piccoletti.»

Boromir chiuse gli occhi e ripensò agli sguardi sconcertati di Merry e Pipino quando era caduto in ginocchio, proprio davanti a loro. Vedeva la disperazione nei loro occhi, la paura di non potercela fare e di vederlo morire ai loro piedi. Ma lui non doveva cadere; e non per salvare la sua vita, ma per salvare la loro. Doveva difenderli a qualsiasi costo, andando contro Orchi, frecce e la Morte stessa, finché ne avesse avuto la forza, finché avesse avuto un filo di aria nei polmoni.

«Il tuo è stato un atto onorevole.»

«Ma non cancellerà l'orrendo gesto che commisi solo qualche momento prima. Se solo non avessi aggredito Frodo...»

«Frodo?»

Riaprì gli occhi lucidi e si ricordò di avere un'estranea come interlocutrice. Fu costretto a tacere per non raccontare oltre, poiché non sapeva se fosse a conoscenza dell'Anello e della loro missione, sebbene sembrasse all'oscuro di tutto. «Un amico... un Hobbit. Ho tentato di prendere con la forza qualcosa che non mi apparteneva. E che continuo a desiderare ardentemente, nonostante tutto.»

«Ma non ti sei spinto oltre.»

«No, mai.»

«Anche questo ti rende onore, se può consolarti. Sei riuscito a fermarti prima che fosse tardi.»

Boromir scosse il capo. «Mi sono fermato perché sono stato colto alla sprovvista. Non credo sarei riuscito ad arretrare la mano, una volta tesa.»

«Ti sei comportato come un Umano, che ha le sue debolezze e le sue forze. E le hai dimostrate entrambe.»

 «Tu non capisci, non sai cosa ho provato! Avrei potuto... sì, avrei potuto uccidere pur di averlo per qualche istante.»

Un tremendo dolore al petto gli fece capire la nefandezza di quelle parole. E la vergogna lo assalì nuovamente, portandolo a nascondere il viso tra le mani, come se potesse occultare tutta l'oscurità che aveva invaso il suo cuore. Provava un tale ribrezzo per se stesso, per quel mostro che era diventato, da nausearlo. Con che coraggio avrebbe potuto far ritorno alla sua città? Come avrebbe potuto vivere con un rimorso così grande, quando il mondo intero sarebbe crollato per causa sua? Se non fosse stato accecato dalla bramosia di difendere il suo popolo con ogni mezzo, forse Frodo non sarebbe partito da solo; avrebbe avuto ancora la guida di Aragorn e il suo scudo a proteggerlo, verso una terra in cui la morte e il terrore erano invocati in ogni suo angolo; Merry e Pipino avrebbero ancora allietato le loro pesanti giornate con i loro modi paciosi e allegri; e, a discapito di quello che continuava a ripetere dal momento della loro partenza, avrebbe accompagnato il Portatore fino al Monte Fato, perché distruggere l'Anello avrebbe significato anche difendere l'amata Gondor. Che persona orribile era diventato?

Brethil non poté dire cosa stesse pensando, ma vide il tormento nei suoi occhi e gli afferrò un braccio. «Non torturarti per le tue colpe. Non puoi cancellare ciò che è stato, ma devi prenderne atto e imparare dai tuoi errori. Morire, se è questo che desidereresti in momenti come questi, non ti libererà da ciò che hai fatto, anzi. Il tuo è un desiderio egoista.»

«Cosa ne puoi sapere tu, ragazzina? Cosa ne sai degli errori che potrebbero cambiare le esistenze di tutti? Cosa ne sai del tradimento di persone che hai imparato ad amare come amici e fratelli, che si fidavano di te al punto di mettere le loro vite nelle tue mani?»

«Purtroppo so molto di sbagli del genere, Uomo di Gondor, più di quanto non abbia mai desiderato. Non sono senza peccato, e anzi, forse ciò che feci una volta fu una follia che ci condannerà tutti, proprio come hai rischiato tu. E so bene cosa significhi tradire un amico, tradirlo fino in fondo tanto da accettare anche il suo rifiuto pur di non doverlo guardare negli occhi.»

Boromir rimuginò su quelle parole in silenzio, osservando la carne ormai quasi pronta. «Come hai superato i tuoi sensi di colpa, qualunque sia stato il crimine che hai commesso?»

La freddezza nella risposta di lei venne tradita dai gesti turbati che seguirono quella domanda. La vide morsicarsi più volte le labbra, in preda a chissà quali ricordi, e Boromir provò pietà per quella creatura che, a discapito di quanto avesse immaginato, aveva sofferto e soffriva quanto lui.

«Non li ho mai superati.» ammise, chinando il capo. «Dovrei dirti che un giorni dimenticherai questo momento buio della tua vita e che vivrai senza pensieri di sorta, perché solo il tempo guarisce certe ferite. Eppure non me la sento di mentirti, perché so quello che stai provando. Non dimenticherai, ma convivrai con i sensi di colpa, tanto che diverranno una scomoda abitudine. Non so se svaniranno una volta che tutto sarà sistemato, se mai dovesse accadere, ma so solo che il tempo non cancella, bensì cicatrizza. Una ferita può non dolerti più da anni, ma le tracce rimangono e ti porteranno inesorabilmente a ricordare. Devi solo trovare la forza di convivere con essi. È questa la parte più difficile. Ma tu sei forte e non ti sei macchiato di qualcosa di irreparabile. L'ho visto in queste poche ore, e saprai quale strada percorrere senza imboccare quella errata. Non fare come me, non fuggire da tutto. Non è questo il modo migliore di affrontare il problema, ma è una scorciatoia per i codardi. Tu non lo sei.»

«Le cicatrici di cui parli sono...» tentò l'Uomo, osservandole il volto martoriato.

Brethil portò una mano al viso, sfiorando uno di quei solchi indelebili, e un sorriso amaro le distorse le labbra. «C'è chi può mascherare le proprie colpe con l'abitudine e il tempo. Io invece devo mostrarle al sole, per sentirmi meno colpevole. È una piccola condanna che non è niente in confronto alla perdita di fiducia di chi ami, e sono pronta a sopportarla per il resto dei miei giorni. Nascondermi dietro un cappuccio e un pezzo di tessuto calato sul volto servirebbe solo a farmi strisciare nell'ombra, come un'ombra.»

Doveva esserci un segreto terribile dietro quelle cicatrici, qualcosa di così doloroso che lo faceva rabbrividire. Eppure cosa mai avrebbe potuto commettere una donna come lei per addossarsi tutto quel danno? Avrebbe voluto sapere da dove provenissero quelle ferite, ma così come lui non avrebbe confessato facilmente ciò che aveva fatto a Frodo, così non immaginava che lei avrebbe trovato il coraggio di parlarne, se fosse stata forzata.

 

Era la prima pausa che si concedevano da quando erano partiti dai Colli di Amon Hen per inseguire gli Orchi e gli Uruk-hai che avevano preso in prigionia gli Hobbit, e la Luna era sorta già da parecchie ore in cielo. Non avevano molto tempo a disposizione per riposarsi, perché sapevano bene che i rapitori non si fermavano che per pochi momenti per consumare un pasto veloce - e il più delle volte si rivelava essere la carne di uno di loro, che aveva osato sfidare gli ordini e la frusta del capo. Inoltre era probabile che avessero fiutato la loro presenza alle calcagna, così da accelerare la loro già rapida marcia.

Legolas fu il primo a montare la guardia, poiché era il Ramingo che doveva mantenersi lucido e attivo per ricercare le tracce e possibili indizi sul loro cammino, che facessero ben sperare sulla sorte dei loro due piccoli amici. Si accordarono per un'ora di sonno ciascuno e fu il Nano a russare per primo appena toccò terra con il capo. Aragorn nonostante la stanchezza fisica, aveva troppi pensieri che gli impedivano di riposare. Quella era stata la giornata più pesante e difficile che aveva dovuto affrontare dopo la caduta di Gandalf a Khazad-Dûm. Da quel momento in poi aveva dovuto prendere lui il comando della Compagnia, lui aveva dovuto guidarli attraverso i pericoli che quel cammino nascondeva, ma non aveva idea di cosa Gandalf avesse in mente una volta lasciate le miniere di Moria, né lui aveva ben chiaro quale strada avrebbe dovuto affrontare. I giorni trascorsi a Lothlórien erano serviti per trovare pace mentale e ragionare in un luogo familiare e protetto, ma nonostante l'accoglienza degli Elfi e i consigli enigmatici di Dama Galadriel, aveva ancora seri dubbi su come si sarebbe dovuto comportare. Da un lato voleva seguire Boromir verso Minas Tirith per preparare l'imminente guerra e difendere la sua città; dall'altro lato non poteva lasciare a Frodo l'arduo compito di portare quel fardello da solo e senza la sua guida, sebbene nessun vincolo di giuramento lo legasse al destino dello Hobbit. Quando la situazione era precipitata Aragorn non aveva avuto il tempo di esitare ulteriormente. Aveva lasciato andare Frodo per la sua strada, che aveva deciso di lasciare la Compagnia dopo il tentato tradimento di Boromir, e l'unico pensiero che lo rassicurava era che Sam fosse con lui. Caro Sam, non poteva trovare guida migliore di un amico fedele e devoto come lui. Poi Meriadoc e Peregrino erano stati catturati dagli Orchi di Saruman, probabilmente pensando che uno o l'altro avesse l'Anello del Potere, e Boromir aveva rischiato la sua stessa vita pur di difenderli, recuperando il suo onore.

Boromir. Era il pensiero dell'Uomo a tormentarlo, ora. Non Frodo e l'Anello, non Merry e Pipino che avrebbero raggiunto a costo di non camminare più per il resto della vita, ma Boromir. L'aveva visto torturarsi in pensieri oscuri da quando l'Unico aveva iniziato a parlargli, infondendo quelle voci malvagie nella sua testa già troppo affollata di preoccupazioni; aveva combattuto con coraggio fino a quel momento di debolezza ed era rimasto quasi ucciso per aver teso la mano.

Non avrebbe voluto lasciarlo indietro, non in quel momento delicato come il filo teso al limite della resistenza. Aveva bisogno di un amico con cui confidarsi, a cui raccontare le sue paure per togliersi il peso della sofferenza e delle colpe che avrebbe deciso di addossarsi. Ma Aragorn sapeva che il suo compito ora era concentrarsi sugli Hobbit, che tanto erano cari ad entrambi, e gli aveva promesso che li avrebbe ritrovati vivi. Non poteva diventare uno spergiuro, anche a costo di morire nell'impresa.

E poi era accaduto l'inaspettato, ancora più sorprendente dei guai di quel lungo e stancante giorno. Era stato in grado di combattere orde di Orchi, di scegliere finalmente che direzione seguire da quel momento in avanti, ma non era ancora pronto per affrontare lei. Quella donna riportava alla mente parte del suo passato, parte della vita di Ramingo che aveva vissuto nell'ombra prima di rivelarsi per quello che era realmente. E gli ricordava eventi lieti eppure spiacevoli, così lontani nel tempo eppure così vividi da fargli ancora del male.

Aragorn si girò sull'altro fianco, insofferente.

«Questo dovrebbe essere il momento del riposo, Aragorn. Non del cruccio.»

L'Uomo si mise a sedere, in un sospiro pesante. «Non troverò riposo né pace fintanto che le mie preoccupazioni non saranno dissipate almeno in parte.»

«Sei in pena per Boromir, vero? Non temere, mi pare che l'abbia lasciato in buone condizioni.» chiese Legolas. «Ma mi domando chi sia quella donna, Aragorn? Mi è sembrato di vedere ostilità nei tuoi modi, eppure non hai esitato a lasciare nelle sue mani la vita del nostro amico, che tanto ti è caro.»

«È vero, temo per la sua vita, ma non temo le frecce che lo hanno colpito. Quella donna sa curare ferite anche ben più gravi e io stesso le ho insegnato come fare.»

«L'Anello è lontano da noi e da lui, non rappresenta più un pericolo.»

«Ma seppur distante il suo effetto non svanirà facilmente. Lui più di tutti noi è stato contagiato dal Male e dovranno passare molti anni prima che possa liberarsi dalla tentazione e dalla speranza di poterlo rivedere, un giorno.»

«Comprendo i tuoi timori, ma non evadere le mie domande, Aragorn.» disse l'Elfo, sorridendo.

Il Ramingo diede una veloce occhiata a Gimli, profondamente addormentato e apparentemente noncurante delle loro chiacchiere.

«Mi chiedi chi sia, eppure dovresti ricordarti di lei.» disse Aragorn. «Tuttavia forse solo tuo padre e qualche altro della tua stirpe la conosce. Era un'amica fidata, seconda solo a Halbarad per affetto.»

«Era?»

Aragorn strinse gli occhi, riportando alla memoria avvenimenti che pensava di aver rimosso con leggerezza, seppur all'inizio con grande difficoltà. «Credimi, Legolas, quando ti dico che difficilmente riusciresti a riconoscere una persona quando questa ti ha deluso oltre misura.»

«C'è dolore nelle tue parole e nel tuo sguardo, così come ho visto vergogna nei suoi occhi. Di quale torto e delusione parli affinché non si meriti più la tua fiducia?»

«Si è macchiata di tradimento. Ancora oggi mi chiedo che cosa la spinse a fare ciò che fece, ma non trovo risposta.» disse Aragorn. «Più di dodici mesi sono trascorsi dal nostro addio e mai più la rividi. Non so per quale strano scherzo del destino sia tornata, proprio quando ne avevo più bisogno.»

Legolas sorrise. «Forse ha udito le tue angosce, perché ancora c'è un filo che vi lega e che le ha permesso di trovarti.»

Sì, forse era così. Rivederla era stato un grande conforto eppure un dolore immenso. Aveva dovuto combattere tra l'istinto di abbracciarla come faceva un tempo e quello di cacciarla lontano. Lei era lì, davanti ai suoi occhi, per aiutarlo, come sempre faceva comparendo al suo fianco senza che lui avesse il bisogno di chiamarla. Ma non poteva dimenticare, né perdonarla così facilmente, neppure dopo tutto quel tempo; poiché le conseguenze di ciò che fece avevano ancora ritorsioni sulla Terra di Mezzo e, soprattutto, sul destino del Portatore dell'Anello.

«Aragorn, riposa ora.» disse Legolas. «E non angustiarti anche per la sua storia. Boromir ugualmente ha sbagliato, eppure noi tutti siamo decisi a perdonarlo, perché non ha colpe per ciò che ha fatto. Oppure bisogna rimproverarlo di essere troppo Umano? Avrai il tempo e il modo di capire le sue ragioni e solo allora potrai condannarla o dimenticare i suoi sbagli.»

Il Ramingo annuì, stendendosi e osservando le stelle. Poi chiuse gli occhi e finalmente si addormentò.

 

*

Note: il titolo è la semplice traduzione del nome Brethil. Brethil era anche il nome di una foresta della Prima Era, nella regione del Beleriand dell'Ovest, un tempo (forse) parte del Doriath, con cui confinava a Nord.

Spero che i personaggi rimangano quanto più IC e che la mia creatura femminile vi piaccia. Secondo voi che ha combinato di così grave da deludere persino Aragorn?

A presto!

Marta

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Capitolo 2
*** 02. ***


Torno dopo pochi giorni per regalarvi un nuovo capitolo, visto che ho finito di scriverne un altro.

Ringrazio immensamente chiunque abbia avuto il coraggio e la voglia di leggere il primo capitolo e chi, soprattutto, si ritrova qui per il secondo.

Grazie anche a chi ha inserito Betulla tra i preferiti e le seguite, davvero grazie.

E ovviamente grazie a nini superga che ha commentato.

Buona lettura!

 

Betulla

02.

27 Febbraio 3019 T. E.

 

La notte aveva portato riposo ad entrambi, ma non aveva alleviato gli incubi di Boromir. Continuava a rivivere quel momento che aveva cambiato tutto e, nell'istante in cui Frodo spariva dalla sua vista, si sentiva trafiggere da innumerevoli frecce. Quando si voltava per incontrare gli Orchi e la sua morte rimaneva paralizzato. Aragorn e Legolas avevano gli archi puntati contro di lui, e non vi era pena né compassione nei loro sguardi. Solo la rabbia di chi si sentiva tradito da un amico. Puntualmente si svegliava in un sobbalzo, senza respiro, gli occhi sbarrati e bagnati dalle lacrime che, nel sonno, gli erano scivolate sul viso. Si portava la mano sul petto, all'altezza della ferita della prima freccia, per rendersi conto che fosse ancora vivo e che nessuno stesse vendicando la propria ira sul suo corpo. Sentiva solo il battere incessante e veloce del suo cuore, ormai spezzato dalla consapevolezza che non avrebbe potuto sistemare niente di ciò che aveva distrutto.

Riprese fiato con precauzione, temendo che i polmoni gli dolessero ancora. Ma non avvertì alcuna fitta di fastidio, se non quel pressante peso al petto che non era certo dovuto dalle ferite fisiche.

Quando cercò con lo sguardo la donna di nome Brethil e non la trovò fu assalito da uno strano senso di inquietudine. Non avvertiva movimenti intorno a lui, né vaghi e lontani rumori di passi che le sue orecchie da umano fossero in grado di udire. L'idea di ritrovarsi solo lo turbò più di quanto potesse sopportare, ma non perché debilitato com'era non poteva andare molto lontano né difendersi in caso di pericolo; piuttosto sentiva quell'ombra minacciosa farsi più densa e vicina, insinuandosi nei suoi pensieri, in ogni fibra del suo essere.

E questo lo terrorizzava.

Non voleva perdersi, non voleva rischiare di cadere definitivamente in quel baratro nero e senza via d'uscita. Aveva il forte bisogno di avere qualcuno accanto, che dissipasse le sue paure e lo facesse ragionare, sputandogli in viso la cruda realtà, proprio come aveva fatto quella donna la sera prima. Ma ora lei non c'era e quel vago supporto che sperava di trovare una volta sveglio era da qualche parte in quelle terre, lontano da lui.

Si rese conto di chiamare il suo nome con urgenza solo quando finì di pronunciarlo. Rimase in perfetto silenzio, immobile, finché non riprese a respirare nel vederla scendere le scale che portavano all'alto Seggio, sopra la sua testa. Lo sguardo spaventato e preoccupato di lei quasi lo commosse.

«Boromir! Ti senti male?» gli chiese, precipitandosi verso di lui e controllando le sue condizioni.

L'Uomo scosse il capo, voltando lo sguardo e capendo, con imbarazzo, di aver agito come uno sciocco. Che gli era saltato in mente? Richiamarla come un povero disperato!

«Perdonami, non volevo farti preoccupare.» disse Boromir, a disagio. «Mi sono svegliato e non ti ho trovata. Era tutto così calmo che pensavo te ne fossi andata.»

Sentì la calda mano di lei stringere la sua e per un attimo tutte le paure svanirono in quel gesto amichevole. «Sono qui. Non vado da nessuna parte senza prima avvertirti.» Gli passò un fazzoletto sulla fronte sudata e quello che Boromir vide fu il primo, lieve sorriso su quelle labbra strette in una linea severa. «Ero andata a vedere il panorama sulla torre. Il Seggio è un po' troppo grande anche per un uomo come te, ma è comodissimo.»

Una breve occhiata alle scale, che giravano intorno alla torre fino alla cima, e Boromir parlò. «Quanti gradini sono?»

«Un numero che riuscirai a superare, non prima di aver mangiato qualcosa.»

Brethil rovistò in uno zaino che aveva recuperato dalle barche il giorno prima, e gli porse del lembas e qualche frutto, con dell'acqua. Poi servì la colazione anche per sé e mangiarono in silenzio, finché quest'ultimo divenne insostenibile. Non era mai stato un tipo loquace, soprattutto con le nuove conoscenze e con le persone che sembravano così diverse da lui per cultura e modi di fare, ma non sopportava più i pensieri che lo coglievano ogni qual volta desse loro la possibilità di affollargli la mente. Ricordava quel lungo periodo di sosta a Lothlórien, che gli parve infinito, solo con la sua mente e con la voce della Dama Bianca che gli penetrava nel cervello, sussurrandogli parole sconfortanti se la missione fosse fallita.

«Mi domando come stiano i piccoletti.»

Non ottenne risposta, Boromir. Non c'erano parole che potessero aiutare l'Uomo a non preoccuparsi per la sorte dei suoi amici, poiché avrebbe mentito nel rassicurarlo della buona riuscita della missione di Aragorn. Così parlò Brethil. «Gli Hobbit sono creature più forti e determinate di alcuni Uomini ed Elfi, sebbene la loro preoccupazione maggiore sia quella di trovare cibo per le loro innumerevoli colazioni e della buona erba pipa da fumare tra una chiacchiera e l'altra. E Aragorn ha prestato un giuramento, difficilmente verrà a meno, a costo della sua stessa vita. Niente è sicuro, nemmeno la nostra salvezza, ma è un pensiero rassicurante.»

«Lo so, ma vivere nell'ignoranza non mi aiuta. Se fossi con loro, ad inseguire le tracce degli Uruk-hai, forse starei meglio.» disse Boromir. «E se fossero scappati al momento del mio ordine magari ora sarebbero salvi.»

«Non servono i "se" e i "ma". Pensa invece che non sono fuggiti per non lasciare indietro un amico.»

«È stata follia, cosa credevano di fare? Due Hobbit contro un esercito di Orchi e Uruk-hai!»

Brethil non si lasciò scoraggiare dal tono alterato dell'Uomo. Invece sorrise. «Lo hanno fatto perché ti amano.»

Il Capitano della Torre Bianca non rispose, chinando il capo e borbottando qualcosa d'incomprensibile tra sé e sé. E rimasero in silenzio per parecchio tempo, come se fossero in quel colle isolato in compagnia solo dei loro fantasmi. Finirono di fare colazione e passarono subito a controllare lo stato delle ferite, che stavano guarendo velocemente. Boromir era rimasto nella stessa posizione da quando avevano raggiunto il Seggio della Vista per non rischiare di rovinare il lavoro della donna, a discapito delle sue articolazioni che chiedevano pietà. Non era un uomo abituato a stare seduto, ed essere costretto contro quella colonna scomoda era umiliante, oltre che più faticoso di una giornata di cammino. Voleva alzarsi, voleva andare a cavallo, combattere e seguire Aragorn; non voleva marcire per i seguenti giorni come un malato qualsiasi.

Come se avesse capito i suoi pensieri, la Dùnadan gli mise una mano sulla spalla, rassicurandolo. «Domani ci metteremo in cammino. Devi solo avere un po' di pazienza.»

Pazienza. Come se lui ne avesse mai avuta.

«Potremmo partire anche oggi. Posso camminare, se solo tu me lo permettessi.»

«Non lo metto in dubbio, ma la distanza che dovremo coprire a piedi non è molta. Proseguiremo a cavallo e non voglio rischiare che andando al galoppo le ferite si riaprano.»

«Dove siamo diretti?»

«Non saprei. Siamo quasi a metà strada tra Edoras e la tua città. Dove vuoi che ti porti?»

Messa in quel modo sembrava dovessero fare una scampagnata. Ma quella apparentemente semplice domanda sollevò parecchi dubbi sulle sue priorità. Da un lato c'erano gli Hobbit, portati sicuramente verso Isengard, la stessa direzione di Aragorn, Legolas e Gimli, e desiderava ardentemente seguirli per unirsi a loro con la ricerca; dall'altra c'era il suo paese, messo a ferro e fuoco da anni, c'era suo fratello che attendeva il suo ritorno, e come lui anche suo padre, i suoi soldati, il suo popolo. Quale ardua scelta doveva compiere!

«Pensaci, hai tutto il giorno di tempo.» disse Brethil.

«Non dovrei essere io a decidere. Hai detto che proseguiremo a cavallo, giusto? Il destriero è tuo, fai ciò che più ti aggrada. Ovunque decida di andare c'è comunque bisogno di me e il mio cuore andrebbe da entrambi i fronti. Ma non possiedo, purtroppo, la possibilità di dividermi in due.»

«Il destriero non è mio, ma delle genti di Rohan. Servo sire Théoden e suo figlio da qualche mese, ormai. Anche se ultimamente il Re si è... ammalato. Devo spesso rivolgermi a Théodred e al cugino Éomer, poiché lui non è in grado di darmi risposte, né ordini.»

Boromir sembrò stupito. «Re Théoden sta morendo?»

«No, ma è come se fosse già deceduto.» disse Brethil, ritirando le foglie di athelas. «Saruman ha esteso le sue dita anche su Rohan, paese confinante e temuto dallo stregone. Ha avvelenato la mente di Théoden ed egli fa qualsiasi cosa lui voglia, o gli dica di compiere il suo consigliere, Vermilinguo. Così, ha la possibilità di attraversare la regione dei Rohirrim senza che questi abbiano l'ordine di difendersi. Solo Théodred e Éomer prendono l'iniziativa, di quando in quando, e attaccano gli Orchi che vengono dalle fornaci di Isengard.»

«È orribile. Non c'è niente che si possa fare per fermare Saruman?»

Brethil scosse il capo. «Solo uno stregone potente come lui potrebbe, ma è lui il Capo del Consiglio. Neppure Gandalf il Grigio potrebbe dissipare il potere che lo soggioga.»

«Eppure Gandalf saprebbe come reagire, ora me ne rendo conto.» sussurrò l'Uomo, ripensando al vecchio saggio che aveva sempre osservato con un po' di riserve. Non gli era piaciuto al primo incontro, né ai seguenti, quando Faramir correva da lui e spendevano ore chiusi in biblioteca a parlare di argomenti per lui incomprensibili come l'Elfico. In realtà non gli piacevano gli Stregoni in genere, e se in più questi erano burberi e delle volte senza tatto, ancora meglio. Aveva capito la vera forza d'animo del vecchio solo quando ormai non c'era più. «Ma, ahimè, sono trascorse settimane da quando cadde nel buio mortale di Moria.»

La donna fece cadere di mano la ciotola contenente la tisana e osservò con occhi spalancati il Capitano della Torre Bianca. «Gandalf è caduto?» Ad un cenno affermativo dell'Uomo, Brethil si passò una mano sul viso sfregiato. «È una notizia orribile quella che mi hai appena dato.»

«Mi dispiace. Fu un duro colpo per tutti noi. Avevamo perso la nostra guida, e un fidato amico.»

La vide alzare gli occhi al cielo e osservare un paio di uccelli volteggiare sulle loro teste. «È da un mese, circa, che non ricevo sue notizie.» disse la donna. «Lui fu l'unico a perdonarmi per ciò che feci. Perché vide nel mio gesto del buono. Sapere della sua dipartita mi fa sentire completamente sola, ora.»

«Non sei sola. Aragorn è tuo amico.»

«Lo era.»

Brethil si alzò e gli diede le spalle, forse per nascondere il dolore e il rammarico nel suo viso. E lui provò pena per quell'anima che come lui cercava il supporto degli amici.

«Non ti farebbe bene parlarne?»

Lei rispose con un'altra domanda, che lo fece sorridere. «E tu non sei stanco di sentirmi parlare?»

«No, se odo racconti di battaglie e guerre. Anche se, ultimamente, sto imparando ad apprezzare addirittura le favole.»

La risata di lei, un suono rauco come quello di una persona che non si divertiva da tempo, gli procurò sollievo.

Era vero, stava lentamente cambiando. Se ne era accorto una volta partito da Gran Burrone, quando la compagnia di Aragorn non diventò l'unica, e si appassionò agli Hobbit e alla loro vita, un mondo così differente e distante dal suo che pareva davvero una favola. E poi c'erano l'Elfo e il Nano, che più di tutti si odiavano e che, con il tempo, erano diventati inseparabili amici, emblema di come la diversità non sempre fosse un ostacolo.

Brethil gli porse una mano, accennandogli il Seggio con un gesto del capo. «Andiamo, ti faccio sedere comodamente, se proprio vuoi stancare la tua mente ascoltando la mia storia.»

Con un po' di fatica Boromir si ritrovò in piedi e si poggiò per qualche secondo contro la colonna. Piegò le gambe per sgranchirle, poi portò una mano sulla spalla di lei e insieme s'incamminarono per la scala a chiocciola che portava all'alto trono. Non si rese conto, l'Uomo, della pressione che esercitava sulla spalla di Brethil, quando qualche movimento gli procurava dolore; né lei fiatò parole di fastidio, per evitare che mollasse la presa e rischiasse, così, di cadere senza un appiglio a cui aggrapparsi. Giunsero sulla cima della torre più velocemente di quanto Boromir si fosse aspettato, anche se capì che salire tutti quei gradini dopo un giorno di fermo fu l'idea peggiore che potesse venirgli in mente.

La vista da lassù era sensazionale. Poteva vedere il grande letto dell'Anduin scorrere placidamente dopo le Cascate di Rauros, il cui rombo giungeva nitido fin lì, così come le grandi vallate collinose di Rohan, che si estendevano a perdita d'occhio, con i Monti Bianchi in lontananza, un gigante impressionante anche da quella distanza. Più lontano verso destra le Montagne Nebbiose, che da quel lato offrivano la vista di una massa scura e compatta alle pendici - la foresta di Fangorn. In quelle terre, da qualche parte, Aragorn, Legolas e Gimli correvano contro il tempo e contro le loro forze, e lui era lì, impotente, che poteva solo tentare di indovinare dove si trovassero.

Si sedette fiaccamente sull'enorme Seggio scolpito sulla pietra, un lavoro di ottima fattura rovinato solo dalle intemperie e dal tempo. Come aveva detto Brethil, era molto ampio e si sentì minuto su quel trono, come un Hobbit che si accomoda sulla sedia di un Uomo.

«Quel posto da la sensazione di essere il Re che guarda alle sue terre.»

Boromir accarezzò i poggia-gomiti e sospirò. «Ma io non sarò mai Re, né avrò una terra da governare.»

Brethil non parlò, ma si limitò a sedersi sul bordo della torre, lasciando le gambe a penzoloni, e continuò ad ascoltarlo.

«Fino a poco tempo fa immaginavo la mia vita futura e mi vedevo con il bastone bianco in una mano e lo stendardo dei Sovrintendenti nell'altra. Ho sempre pensato che sarei stato un buon governatore, anche se non al pari di mio padre. Lui è un uomo che ha a cuore la sua terra più della sua stessa vita, e in cambio è amato tra la sua gente.» Tacque per qualche istante, ripensando a come le cose fossero precipitate da qualche anno a quella parte. Il padre sembrava diventare più inquieto e drammatico giorno dopo giorno, e lo mostrava nelle sue parole e nei suoi gesti. Arrivavano, poi, momenti in cui Boromir riconosceva a stento il genitore, avvelenato da qualche ombra che gravava sulla sua persona. Ma lui lo amava e confidava nella sua competenza, e si faceva carico di qualsiasi compito lui gli ordinasse di eseguire. E Faramir con lui, sebbene suo padre sembrava considerarlo inferiore rispetto al fratello. «Qualche mese fa avrei detto che Gondor non avrebbe avuto bisogno di un Re. Un Re atteso per generazioni e che mai giunse quando più ne avevamo bisogno. Il mio popolo ha da sempre difeso l'intera Terra di Mezzo dall'oscurità di Mordor e tutti sembrano dimenticarlo, a volte. E ci siamo riusciti con il sacrificio di tanti soldati e con la guida di Sovrintendenti capaci e temerari, senza l'aiuto di alcun Re. Eppure ora mi rendo conto che su quel trono che da troppo tempo è rimasto vacante, potrebbe sedere Aragorn, che sarebbe la nostra guida migliore. Non io, né mio padre.»

«Ma saresti comunque un buon Sovrintendente.»

Boromir rispose seccato. «E a cosa servirebbe un Sovrintendente con un Re? Quella carica nacque per consigliare il Re, ma si tramutò in una guida del popolo nell'attesa che il regnante tornasse. Quando questo riapparirà, i Sovrintendenti svaniranno.»

«L'hai detto, potresti essere il Consigliere del Re. Aragorn ti considera un amico e un fratello, a quanto ho visto.»

L'Uomo chinò il capo e sospirò. Se Aragorn glielo avesse chiesto sarebbe stato più che onorato di essere il suo Consigliere e lo avrebbe servito in qualunque modo potesse. Per il suo Re. Per un amico.

Poi Boromir si destò dai suoi pensieri e sorrise. «Ma parlami di ciò che vuoi. Altrimenti rischiamo che s'invertano i ruoli e dovrai sederti tu qui, per ascoltare me.»

«Io sì che non sarò mai una regina, neanche sedendomi su un trono!» scherzò la Dùnadan, rabbuiandosi poco dopo.

Boromir rimase in silenzio e ascoltò la sua storia.

 

27 Febbraio 3019 T. E.

 

Éomer sbatté frustrato un pugno sul tavolo e il boccale di birra vacillò pericolosamente nel contraccolpo. Non avrebbe mai creduto che le cose sarebbero peggiorate così velocemente, come un masso in caduta libera da un monte. Era follia, pura follia che i confini della sua terra non potessero essere controllati per il divertimento di un verme e le volontà di uno Stregone che non avrebbe dovuto avere voce in capitolo nelle decisioni del Re!

In piedi, alle sue spalle, stava Grimbold, comandante che si era distinto nella Battaglia dei Guadi dell'Isen, combattuta pochi giorni prima con onore e gravi perdite, che pesavano come macigni nei cuori di tutti. «Mio signore, con il dovuto rispetto, vostro nipote ha ragione. Non possiamo permettere che gli Orchi vaghino per il nostro territorio liberamente. Inoltre siamo stati avvertiti che numerosi villaggi hanno subito i saccheggi dei Dunlandiani. Hanno incendiato, depredato e ucciso. Per quanto ancora questa situazione dovrà proseguire?»

A parlare fu un uomo pallido, curvo sulla figura del Re, e ricoperto di una pelliccia nera, così come neri erano i capelli lunghi. Gli occhi chiari scintillarono nel guardare il comandante e si mise in piedi, sollevando il mento, provocatorio. «E cosa può sapere di cosa sia giusto o sbagliato un uomo che, per la sua mancanza di ingegno e per l'assenza di competenza in battaglia, ha aggiunto l'angoscia della morte di un figlio ad una mente già colma di preoccupazioni come quella del nostro Re?»

«Théodred, pace all'anima sua, è morto ucciso da una falange di Uomini e Orchi che si è infranta sulla sua éored con la stessa forza di un'onda contro la roccia! Io stesso stavo per soccombere, ma ho tentato di difendere il mio signore con tutte le mie forze! Non ti permetto di incolparmi con simili menzogne!»

Éomer calmò il suo compagno e amico sollevando una mano, e lo sguardo che rivolse a Vermilinguo, l'infame Consigliere di suo zio, fu così penetrante che quello s'intimorì. «Pace, Grimbold, non lasciarti intossicare dalla sua lingua velenosa.»

E avrebbe voluto aggiungere che sarebbe arrivato il momento in cui gliel'avrebbe tagliata con le sue stesse mani; allora sarebbe stato chiaro a tutti che l'unica cosa che gli riusciva meglio fosse corrompere la mente di chi gli stava intorno.

Si alzò, poggiando le mani sul tavolo in legno, la cui resistenza quella sera fu messa a dura prova dalla sua rabbia. «Mio signore... zio, ascoltami. Gli Orchi e gli Uomini che stanno attraversando le nostre terre portano il simbolo della Mano Bianca. Saruman è stato nostro alleato, ma i giorni della pace sono trascorsi da tempo. Dobbiamo fermarli.»

«Insinui che il nostro vicino e alleato stia muovendo un esercito contro il suo amico, il Re Théoden?» domandò Grima, spalancando gli occhi chiari.

Ma Éomer non si preoccupò molto di rispondergli, poiché sapeva bene che lo stesso Saruman l'aveva corrotto con la promessa di dargli sua sorella - un altro buon motivo per strappargli anche quei suoi sudici occhi, che troppo spesso si posavano avidamente sulla figura di Éowyn. «Un alleato non invia spie e massacratori ad uccidere e distruggere ciò che abbiamo costruito con fatica negli anni.» disse, duramente. «Mio signore, abbiamo avuto notizia che un numeroso gruppo di Orchi abbia attraversato il versante nord di Rohan, discendendo dall'Emyn Muil e diretto verso Isengard. Dammi il permesso di riunire la mia éored, in modo che possa fermarli.»

Il Re mormorò qualcosa d'incomprensibile, tanto che lo stesso Grima dovette chinarsi nuovamente per ascoltare cosa il suo signore avesse da dirgli. Quello che un tempo era un Re alto e fiero, dalla voce tuonante,  pronta ad incoraggiare i suoi Uomini nei momenti di difficoltà, ora era un vecchio debole e incupito, che trascorreva intere giornate seduto sul suo trono, immobile come una statua. Con lo sguardo vacuo e la mente altrove, era quello il Re che Rohan si ritrovava in quei tempi bui.

«Saggia scelta, sire, la migliore che potessi prendere.» gli disse, sorridendo. Poi alzò la voce, affinché tutti udissero le sue parole. «Il Re ha deciso. Nessun soldato lascerà Edoras senza la sua autorizzazione, perché Saruman è nostro alleato e non gli negherà il permesso di passeggiare per le nostre terre. Chiunque osi infrangere la sua parola verrà punito con la prigione. E, in caso di rivolta, con la morte.»

Con queste ultime parole, Grima guardò Éomer, quasi come se stesse assaporando la vicina vendetta nei confronti di quel giovane intraprendente e combattivo, che gli aveva procurato non poche grane.

«Non sarà la tua voce a dettare un ordine. Voglio un documento scritto di pugno e firmato dal Re, che mi provi la veridicità delle sue parole.»

Il Consigliere ghignò e annuì, chinandosi servizievole. «E un documento avrai, se lo desideri.»

«Dopo averlo costretto, con la poca forza che ti serve per manipolarlo a piacimento, certo.»

«Non osare parlare in questo modo del tuo Re!» esclamò Grima, sollevando un dito e puntandoglielo contro. «Egli ha una mente per pensare e non ha bisogno di essere costretto in alcun modo nelle sue decisioni. Troppe volte ho dovuto ascoltare i tuoi commenti denigratori, e ti avviso, Éomer figlio di Éomund, che molto presto ne pagherai care le conseguenze.»

Il Terzo Maresciallo del Mark strinse i denti e lasciò la Sala del Trono con rabbia. Grimbold e altri due soldati lo seguirono. Si rintanarono insieme nella Sala della Guerra, dove spesso si riunivano intorno ad un tavolo, per decidere le prossime mosse in battaglia. Gamling il Vecchio, un anziano ma saggio e forte comandante, controllò che non vi fossero ascoltatori indesiderati, e richiuse le porte.

Éomer prese posto in una sedia qualunque e lì rimase silenzioso e pensoso.

In quel momento giunse Éowyn, vestita di blu scuro, segno di lutto per la recente perdita del cugino. Il viso pallido, incorniciato dai lunghi capelli dorati, era bello, eppure segnato da malinconia e preoccupazioni, crescenti giorno dopo giorno. Si avvicinò al fratello e gli posò una mano sul braccio, riscuotendolo dai suoi pensieri.

«Non vi darà il permesso, vero?» gli domandò, conoscendo già la risposta.

«No, lo ha già negato.» fece lui, coprendo la mano della sorella con la sua. «Quel verme ha nuovamente infangato la sua mente e si ostina a difendere Saruman, appellandosi in nome della nostra vecchia alleanza. Ma quale alleanza può esserci dopo tutto il male che ci sta causando?»

«Saruman ha ingrandito notevolmente i suoi poteri, e in peggio. È evidente che ci sia una coalizione con Mordor.» commentò Elfhelm, Maresciallo del Re.

«Mithrandir stesso ne parlò, quando giunse a chiedere rifugio. Ci raccontò che fosse stato tenuto prigioniero nella torre di Orthanc.» proseguì Grimbold.

«Ma già da allora la mente del Re era offuscata dai subdoli piani di quello Stregone, così che nessuno gli diede ascolto.»

Éowyn osservò con preoccupazione il fratello. E capì che il suo silenzio significasse l'elaborazione di qualche piano per sbarazzarsi di Vermilinguo o di aggirare le sue parole.

«Gamling, quanti soldati sono dalla nostra parte?»

Il Rohirrim ci pensò un poco prima di rispondere. «La maggior parte, mio signore. Le éored dei presenti sono sicuramente con te, ma i cavalieri della Guardia Reale temono che lo Stregone possa far loro del male.»

«Cosa pensi di fare, Éomer?» domandò Éowyn.

Lui si alzò, guardando i suoi con determinazione. «Non posso permettere che il nemico scorrazzi liberamente per la nostra terra, né che un infimo servitore di Saruman detti ordini e sentenze sulle nostre teste. Non temo le sue minacce, né quelle dello Stregone Bianco. Noi tutti abbiamo degli obblighi nei confronti di Rohan, è la nostra terra! Ed è nostro dovere difenderla dagli invasori e da chi osa allungare un solo dito sulle nostre case. Io dico di radunare quanti più Rohirrim possibili e di cavalcare verso quegli Orchi che battono le nostre lande. Dico di fermarli e di trucidare qualsiasi essere respiri! Poiché esseri come quelli non hanno il diritto di respirare la nostra stessa aria, né di calpestare le nostre praterie!»

I soldati annuirono e sorrisero, rinforzati dalle parole di onore e coraggio del loro Terzo Maresciallo, nonché ora unico erede al trono; e avrebbero gridato per caricarsi in vista della battaglia, se non avessero dovuto abbassare i toni per evitare che qualcuno li sentisse e scoprisse le loro intenzioni belliche.

Poi si voltò verso la sorella. «Sei d'accordo con me, Éowyn? Ho bisogno anche del tuo saggio consiglio, in momenti come questi.»

Lei annuì, alzandosi e prendendogli con forza le mani grandi tra le sue. «Se fossi al tuo posto farei la stessa cosa. E se mi permettessi di armarmi, cavalcherei al tuo fianco.»

«Non dubito che lo faresti, sorella mia. Ma ho bisogno che tu resti, qui. Non posso rischiare di perdere anche te.»

«Riponi così poca fiducia nelle mie capacità.» commentò amaramente la donna. «Io posso combattere, Éomer. Dammi solo la possibilità di provarti che dico il vero.»

La determinazione e la testardaggine di quelle parole riempirono il cuore di Éomer di orgoglio, ma non cambiò idea. Per lui la guerra era di competenza degli uomini, e per quanto le donne di Rohan imparassero da piccole a saper maneggiare un'arma in caso di difesa, era sicuro che non avrebbero retto agli orrori del sangue e della morte, presente in ogni angolo della battaglia. «Conosco una sola donna che combatte come un uomo, e non è certo la nipote di alcun Re. Il tuo posto è qui. Prenditi cura di nostro zio, in mia assenza, e bada a Vermilinguo. Ordinerò a qualche soldato fidato di controllarlo, mentre starò via. E se dovesse osare avvicinarsi troppo a te...»

«Lo ucciderò senza batter ciglio, Éomer.»

Il Terzo Maresciallo abbozzò un sorriso, e le depositò un bacio sulla fronte, prima di richiamare a sé i suoi Uomini con un cenno del capo. «Convocate i vostri soldati e preparatevi a partire. Voglio che entro mezz'ora i cavalli siano pronti. Partiremo a mezzanotte.»

E nel silenzio della notte, i quattro soldati più influenti di Edoras si recarono verso gli alloggi dei Rohirrim. Ognuno si premurò di sellare il proprio destriero, caricandolo con pochi viveri, poiché non pensavano che l'azione sarebbe durata più di qualche giorno. Sarebbero rimasti leggeri, per non stancare gli animali, e per non avere seccature in battaglia. Nessuno di loro era intimidito dall'ordinanza del Re, perché sapevano che quella fosse la cosa giusta; e avrebbero seguito il loro signore Éomer ovunque, pur di onorare il loro codice e difendere ciò che era di loro proprietà. Nessuna condanna di prigionia e di morte avrebbe potuto fermarli, quella notte.

Così vennero radunati duecentocinquanta cavalieri, avvolti nelle loro lucide armature e in sella ai propri veloci cavalli. Lance e spade vennero alzate alla luna, fuori dai recinti di Edoras, quando Éomer parlò. «Rohirrim! Troppo a lungo la nostra terra è stata violata, e con essa la nostra anima! Andiamo in battaglia, annientiamo il nemico, e facciamo regnare nuovamente la pace che con il sangue di migliaia di uomini siamo riusciti a stabilire! Avanti, Eorlingas!»

E il rumore di centinaia di zoccoli, misto alle grida di incoraggiamento dei soldati, fece tremare nelle proprie brande chiunque li udì. E Grima Vermilinguo maledì Éomer e tutti quegli infami che lo seguirono, ripromettendosi che gliel'avrebbe fatta pagare.

Cavalcarono sotto il cielo stellato, lungo i dolci pendii di Rohan, e si avviarono verso nord-est, seguendo il corso dell'Entalluvio e tenendolo alla loro destra, nella speranza di intercettare la direzione che gli Orchi avrebbero preso per raggiungere Isengard. Fu un viaggio allietato da canti di guerra e poesie sulla loro città, interrotto di quando in quando dal silenzio più assoluto. Non potevano sperare di cogliere impreparati gli Orchi, ma dovevano leggere qualsiasi indizio trovassero lungo la loro strada e interpretarlo al meglio. Più volte Éomer scese dal suo cavallo, Zoccofuoco, per controllare il terreno e cercare tracce del passaggio della numerosa carovana di ospiti indesiderati; finché non trovarono ciò che cercavano. A circa centocinquanta miglia dalla loro partenza, infatti, i segni evidenti del transito di un numeroso gruppo di persone, dai piedi pesanti e borchiati di ferro stando alle impronte, erano passati lì da meno di un giorno. Éomer, che cavalcava in avanscoperta, accese una torcia, e così fecero anche altri soldati, e da quel momento il silenzio si fece tombale. Con uno sguardo avanti e uno rivolto verso terra, i Rohirrim cavalcarono velocemente fino all'alba. Fu solo quando trascorsero due ore dal sorgere del sole che decisero di accamparsi per sonnecchiare un poco e mettere qualcosa sotto i denti. Éomer era fiducioso, poiché sapeva che, per quanta fretta quegli animali avessero e per quanto fiutassero l'odore della loro carne, non avrebbero potuto scappare molto lontano da centinaia di soldati che montavano i cavalli più veloci della Terra di Mezzo. E guardando quegli stessi Uomini nobili e severi che si riposavano e chiacchieravano, non poté non provare un senso di fierezza. Si rimisero in marcia con l'animo entusiasta per la caccia, e cavalcarono veloci come solo i figli di quelle terre sapevano fare. E dopo tre ore di galoppo videro una macchia scura che si muoveva di gran carriera, tra le colline ingiallite. Finalmente il nemico era in vista.

«Forza, Rohirrim! Cavalchiamo!» gridò Éomer, alzando la sua lancia.

E come una marea inondarono il terreno che li separava dagli Orchi, che diventavano man mano sempre più vicini, nonostante si accorsero che avessero accelerato l'andatura.

Il sole stava per tramontare dietro le Montagne Nebbiose e le ombre iniziarono ad incupire il cielo, e così la nera foresta di Fangorn, ormai visibile ai loro occhi, quando finalmente raggiunsero gli Orchetti. Éomer ordinò di serrare i ranghi, di modo che si disperdessero e li conducessero lungo il corso del fiume, e diede il via agli arcieri di scagliare le loro frecce sulle ultime file, più a portata di tiro. Ma la notte giunse velocemente e prima che riuscissero ad accerchiarli, si fermarono.

Grimbold affiancò Éomer e osservarono gli Orchi accamparsi su un piccolo colle, vicino alla foresta. «Non andranno verso Fangorn, a meno che non si trovino costretti. Quella foresta è maledetta.» disse il Comandante.

«Sì, ma non confido nelle loro superstizioni. Preferisco finirli in campo aperto, piuttosto che rischiare che trovino una via d'uscita da quel labirinto.» rispose Éomer. «Soldati, preparatevi alla battaglia. Evitate di diventare un facile bersaglio e state lontano dai tiri delle loro frecce e dai falò che stanno accendendo. Tenteremo di coglierli di sorpresa, questa notte. Fate silenzio.»

Il cielo si oscurò velocemente e poche stelle illuminavano quell'oscurità, causa anche di una foschia bassa che calò su di loro. Un calma irreale s'innalzò nella collina e ai suoi piedi, come se un gigante avesse trattenuto il fiato e stesse per riprendere a soffiare con forza. La nebbia si abbassò fitta e densa, impedendo di vedere a pochi metri di distanza. Éomer sussurrò i suoi ordini, e alcuni soldati si mossero a piedi, silenziosi come ombre. Così gli Orchi posti a guardia vicino ai falò vennero uccisi e i Rohirrim scomparvero velocemente com'erano giunti, mentre dall'altro lato il nemico dava l'allarme e il panico dilagava.

E mentre gli Orchi tentavano di riordinarsi e organizzarsi, i cavalieri giunsero al galoppo, impavidi di fronte alle frecce che gli venivano tirate contro, pur di accerchiarli. Ed Éomer gridò, e la sua imponente stazza fece tremare le vene ai polsi del nemico. «Gamling, serra le fila a sinistra! Grimbold, blocca i fuggiaschi verso il fiume!»

Il clangore del ferro contro ferro, di urla di battaglia e dolore, il sibilo delle frecce nella nebbia, invasero il colle, poco prima immerso nel silenzio più assoluto. Molti degli Orchi vennero uccisi o messi in fuga, ma una nuova onda di loro alleati giunse dalla foresta; eppure i cavalieri di Rohan non indietreggiavano. I loro occhi terribili, a dire degli Orchi, raccontavano di uno spirito combattivo che non si sarebbe arreso facilmente.

Poi Éomer ordinò di tornare indietro, nuovamente lontano dal cerchio di fuoco eretto dagli Orchetti. «Aspetteremo l'alba, non manca molto ancora. Caricheremo da est, cosicché la luce del sole possa infastidire i loro occhi. Al mio segnale aggireremo il colle, e torneremo sul lato opposto all'assalto. Si disperderanno e allora li finiremo.»

«O lo farà la foresta per noi.» aggiunse Elfhelm.

Il sole sorse due ore dopo e con la luce giunse anche la speranza per gli Uomini. Suonarono i loro corni di guerra e intonarono canzoni per salutare il nuovo giorno. E gli Orchi temettero per la loro sorte. Udirono le grida di battaglia, terribili alle loro orecchie, e i Cavalieri di Rohan s'infransero su di loro al galoppo. Come previsto da Éomer molti Orchi tirarono frecce al nulla, accecati dalla forte luce dell'alba e dai riflessi sulle lance e sugli elmi dei Rohirrim. Éomer gridò di mantenere fermamente chiusa la formazione e gli Orchi, che videro giungere quella barriera indistruttibile di cavalli e lance, abbandonarono i loro posti di combattimento, sparpagliandosi e gridando. Alcuni Cavalieri caddero dai loro cavalli, altri scesero per combattere corpo a corpo. Tra questi Éomer ingaggiò una feroce lotta con quello che doveva essere il capo, poiché era forte e grosso, e impartiva ordini a destra e a manca.

Quando il sole fu alto in cielo i Rohirrim gridarono vittoria e i loro canti di gioia fecero fuggire i pochi sopravvissuti verso la morte, nella foresta di Fangorn.

 

*

Note: piccola precisazione: l'inizio del capitolo è ambientato il 27, mentre l'ultima metà, quella sui Rohirrim, è compresa tra la notte del 27 e le prime ore dell'alba del 29. Nel prossimo capitolo torneremo al 27, dove abbiamo lasciato Boromir e Brethil.

Chiedo scusa se questi passaggi da un ambiente all'altro possano sembrarvi ostici e inutili, ma mi piace scrivere di qualcosa che magari non è stato approfondito nel libro ma solo accennato nelle Appendici - oltre al fatto che scrivere di battaglie mi diverte un mondo.

A presto!

Marta

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Capitolo 3
*** 03. ***


Buona domenica a tutti!

In questo nuovo capitolo scoprirete di quale errore si sia macchiata Brethil in passato. Spero che la sua storia, compatibilmente a quella narrata dal Professore, possa piacervi.

Buona lettura!

 

Betulla

03.

27 Febbraio 3019 T. E.

 

«Dimmi, cosa sai di Gollum?»

Boromir non si aspettava una domanda simile e corrugò la fronte. Aveva sentito parlare di quell'essere solo durante il Consiglio di Elrond, a Gran Burrone, e affrontare quel discorso avrebbe portato all'Anello; lei avrebbe potuto chiedere perché ne avessero parlato con gli Elfi e lui non avrebbe saputo che rispondere per salvare la situazione. «Non molto, in realtà.»

Accolse lo sguardo canzonatorio della donna con impassibilità. Non poteva rischiare di mandare a monte l'assoluta segretezza della missione di Frodo.

«Sei un pessimo bugiardo, Boromir di Gondor.» disse Brethil. «Ma farò finta che tu ignori davvero la sua storia e quella dell'Anello, così che ti racconterò in dettaglio cosa accadde.» Gli diede nuovamente le spalle, guardando verso le colline di Rohan, come se proteggere il suo viso durante quel racconto potesse aiutarla a parlare liberamente. «Quando incontrai Gandalf per la prima volta fu diciotto anni fa. Ero una ragazzina, a quel tempo, che seguiva il padre ovunque andasse. Non erano molte le donne tra i Raminghi, che viaggiassero e combattessero per difendere le lontane terre del nord, ma ero stata educata con la convinzione che io stessa avrei potuto cambiare le sorti della Terra di Mezzo, con il mio aiuto. Fu durante quell'incontro che venni mandata con mio padre a sorvegliare i confini della Contea, laddove vivono gli Hobbit. Non sapevamo perché, Gandalf si era confidato solo con Aragorn; ma per gli anni successivi difendemmo le frontiere e alcuni di noi morirono per non lasciar passare il male in quelle terre incontaminate dall'ombra. Mio padre fu tra coloro che diedero la vita. Sette anni sono trascorsi. Ed è grazie a noi che la Contea è rimasto il luogo sicuro che è tutt'ora.

«Ma accadde che mia madre, rimasta a Dale, nell'estremo nord, oltre Bosco Atro, morì uccisa durante un incursione degli Orchi e io mi recai lì, con il permesso di Halbarad, grande amico e fedele compagno. Gandalf tornò l'anno dopo e partì insieme ad Aragorn per cercare Gollum, un essere che un tempo doveva essere stato un Hobbit, o qualcosa di simile. E quando Re Thranduil spiegò a me e a pochi altri chi fosse, mi fu chiaro il motivo per cui la Contea, sperduta e sconosciuta regione dei Arda, fosse diventata così importante; così come mi fu chiaro un sogno che mi raccontò mio padre. Ma di questo parlerò dopo.

«Gollum era stato derubato di qualcosa da un Hobbit, qualcosa che gli aveva avvelenato la mente e il corpo, rendendolo l'essere che è ora. Tu sai di cosa parlo, non è vero? Tu stesso hai sentito il suo potere e ne sei stato quasi sopraffatto.»

Boromir socchiuse le labbra, come per dire qualcosa. Ma lei lo precedette.

«Non darti pena per ciò che so. Il segreto è al sicuro, con me. Gandalf me ne parlò quando giunse a Edoras, dopo che riuscì a fuggire dalla torre di Orthanc e da quel momento, poiché mi ero confidata con lui, mi spedì messaggeri alati, bestie piccole e impercettibili come libellule, che mi aggiornavano sullo stato di cose lì, a Gran Burrone. Per un breve periodo ebbi vostre notizie, le ultime dicevano che foste alle pendici del Caradhras. Poi più nulla.»

«È così che mi hai trovato? Con le spie?»

«No, non così. Avevo visto un lontano gruppo di Orchi attraversare le terre di Rohan quando ero in esplorazione con i Rohirrim, e li inseguii. I cavalieri non mi impedirono di andare, ma loro non potevano accompagnarmi, perché Théoden non aveva dato loro nessun ordine. Ai margini dei colli di Amon Hen ho sentito tre volte il suono del corno e ti ho raggiunto seguendo i rumori della battaglia.»

L'Uomo osservò la giovane combattente e ne fu colpito. Neanche metà della storia era stata raccontata, eppure non riusciva ad indovinare cosa avesse potuto compiere dopo una vita di sacrifici e battaglie.

«Ma torniamo indietro, ho divagato troppo! Ti stavo parlando di Gollum e della caccia che Aragorn e Gandalf gli diedero. Spesero otto anni a cercarlo, ma quando avevano quasi perso le speranze e lo Stregone se n'era andato, Aragorn lo trovò e con non poche difficoltà riuscì a catturarlo e a portarlo a Bosco Atro. Lì venne rinchiuso in prigione e interrogato più volte. Io stessa mi trovavo nei pressi del regno di Re Thranduil e fu in quel momento che ebbi in sogno la stessa immagine che ebbe mio padre.

 

Nelle segrete degli Elfi Silvani

Lo Sturoi ha legate le mani.

La sua libertà è il prezzo da pagare,

Se il Mezzuomo la via oscura vuole attraversare.

Poiché debole è la luce della speranza,

eppur essa dimora ancora nell'Alleanza.

E tutte le genti s'uniranno sotto un'unica bandiera,

e l'Erede dell'Albero Bianco inizierà una nuova Era.

 

«Mi trovai davanti ad una scelta: ignorare quelle parole, del tutto simili a quelle udite dal mio genitore, o prestare loro ascolto e vanificare le fatiche di Aragorn e Gandalf, nella vana speranza che la salvezza giungesse realmente, se avessi liberato Gollum. Non sapevo come questo sarebbe potuto accadere, perché quell'essere tanto piccolo e apparentemente innocuo ha portato e porterà sempre male ovunque andrà. Ma non ebbi altra scelta. Quelle parole mi tormentarono ogni volta che chiudevo gli occhi. Non potevo lasciarle scivolare via.»

Boromir cominciò a capire e ne fu turbato. «Legolas disse che ci fu un attacco di Orchi a Bosco Atro, il giorno in cui Gollum fuggì.»

«Sì, è così. Erano giunti da Dol Guldur, a sud del Bosco, dove il male sembrava svanito per sempre. La prigione di Gollum era sorvegliata giorno e notte, come Gandalf aveva raccomandato, e io non sapevo come fare per prestar fede al sogno, che di notte in notte continuava ad ossessionarmi, senza darmi riposo. Quando gli Elfi di vedetta ai confini diedero l'allarme, molti vennero chiamati alle armi. Con me c'erano Halbarad e pochi altri Raminghi, e combattemmo per ore contro gli Orchi. Poi riconobbi le guardie delle prigioni, richiamate anch'esse per difendere la propria terra e capii che quella era l'unica occasione che avessi. Riuscii ad allontanarmi senza destare sospetti, continuando a combattere qualsiasi nemico mi sbarrasse il cammino e giunsi alle segrete. Lì Gollum, accovacciato su se stesso, blaterava qualcosa sul suo tesoro e provai pena. Ma non avevo le chiavi della cella, che era ben sicura poiché l'anima delle sbarre di ferro era di mithril. Così tornai indietro e catturai un Orco, il più possente possibile. Ci volle qualche tempo prima che riuscissi a costringerlo a seguirmi e ad addomesticarlo. Gli ordinai di usare tutta la forza di cui disponeva per allargare lo spazio tra una sbarra e l'altra. Non riuscì a piegare di molto il ferro, ma era sufficiente perché sia io che Gollum potessimo attraversare la cella. Mi sbarazzai dell'Orco e controllai che non ci fosse nessuno nei dintorni. La battaglia era ancora rovente, sulle nostre teste. Presi un respiro profondo e tenni ben salda la spada nella mano, quando entrai nella cella. Gollum si ritirò in un angolo, temendo forse che fossi andata ad ucciderlo, e mi studiò con i suoi occhi grandi e acquosi, sibilando e sputando. Tagliai la corda elfica che lo teneva bloccato e gli feci cenno di uscire. Ma non si mosse. Così mi avvicinai, per trascinarlo fuori, ma lui mi temette ancora e mi aggredì. I segni che ho in viso sono il ricordo che mi lasciò per ringraziarmi.» Brethil sospirò e chiuse gli occhi, come se si fosse appena liberata di un peso schiacciante che le opprimeva i polmoni. «Ora capisci il perché della rabbia di Aragorn. Capisci le mie ferite. Capisci cosa accadde veramente.»

«Lui come lo scoprì? Che fosti tu a liberarlo, intendo.»

«Halbarad mi vide poco dopo. Notò il mio volto insanguinato, ma non domandò come mi procurai le ferite, perché pensava avessi combattuto altrove. Poi, alla fine della battaglia, quando anche gli ultimi invasori furono uccisi o catturati, giunsero gli Elfi, che con terrore raccontarono della fuga di Gollum. Fu opinione di tutti che quell'attacco fosse stato organizzato per liberarlo, ma Halbarad mi guardò negli occhi e non riuscii a nascondergli niente. Capì tutto e io ebbi vergogna per ciò che avevo fatto. Ma lui mi amava come una figlia e sorella, e non parlò a nessuno di ciò che venne a sapere. Non capisco ancora le ragioni del suo silenzio, ma è probabile che abbia avvertito Aragorn del mio gesto.

«Così me ne andai, perché non c'era più niente che mi legasse alla mia gente. Temevo i loro sguardi, e mi pentivo. Ma non ho mai perso la speranza che sia io che mio padre fossimo nel giusto; che forse quel Gollum possa davvero avere una parte importante in questa storia. Gandalf mi comprese e non mi condannò, poiché anche lui era convinto che quell'essere disperato abbia ancora un ruolo da svolgere, prima della fine di tutto.»

Boromir non riuscì a trovare le parole per parlare. Ciò che quella donna aveva fatto era senz'altro grave, eppure non ebbe la forza di rimproverarla. Aveva provato sulla sua pelle, e il fratello con lui, il potere dei sogni premonitori e, dato che anche nelle sue vene scorreva il sangue di Númenor, era altamente probabile che il suo racconto fosse veritiero. La richiamò e si accorse con pena che stesse piangendo.

«Sono una persona orribile, Boromir. Ho vanificato otto lunghi anni della sua vita con un unico e semplice gesto, e per questo giustamente mi odia.»

«Perché Gandalf non gli ha spiegato tutto?» fu l'unica cosa che Boromir riuscì a chiederle.

«Perché l'ho pregato di non dirglielo. Non voglio il suo perdono, non lo merito.»

«Neanche io merito il suo perdono, né quello di tutta la Compagnia. Ho tentato di rubare l'Anello a Frodo, un gesto ben più spregevole che nessun sogno mi ha mai consigliato di fare. Eppure lui me lo ha dato, mi ha perdonato. Mi considera ancora un amico, addirittura! Non è folle, questo?»

Brethil asciugò le lacrime con il dorso della mano, e si alzò. «Forse hai ragione tu, forse dovrei pentirmi con lui e accettare qualsiasi sua condanna. Ma ho paura di leggergli negli occhi tutto il suo disprezzo e la sua amarezza. Preferirei che mi uccidesse, piuttosto che sopportare il suo odio.» Poi si voltò, e si strinse nelle spalle. «Questa è la mia storia, Boromir. Ora anche tu hai un segreto che deve rimanere al sicuro. Mi sono fidata di te.»

Lui annuì, portandosi una mano al cuore. «Puoi fidarti di me, Brethil figlia di Aeglos. Forse un giorno le tue gesta verranno raccontate nelle canzoni e tutti ringrazieranno il tuo nome quando lo udranno.»

La Dùnadan rise, senza allegria. «E cosa chiederanno i figli ai loro padri? "Raccontami la storia di Brethil, la Sfregiata"?»

«O magari la storia di Brethil, la Liberatrice.»

Quella sbuffò, agitando con una mano quel pensiero sciocco, come per scacciare un fastidioso insetto. «Vado a procacciare un po' di cibo per il pranzo. Intanto pensa al viaggio di domani. Ho già sottratto troppo del tuo prezioso tempo con i miei racconti. E se hai bisogno di qualcosa chiamami, non starò molto lontano.»

Boromir la seguì con lo sguardo finché non scese la scala e la intravide nella radura del Seggio, prima di sparire tra gli alberi. Rimase con il capo poggiato alla fredda pietra, ripensando alla storia che aveva appena sentito. Quella donna aveva avuto coraggio a sfidare le leggi degli Elfi e i loro controlli, così come era stata coraggiosa a mettere da parte il forte legame che la univa ai suoi consanguinei per il bene della Terra di Mezzo, o almeno, per quello che lei credeva e sperava.

E lui? Lui cosa avrebbe dovuto fare per riparare gli errori che aveva commesso? La Compagnia aveva fallito per causa sua, eppure non si era del tutto sciolta. Forse poteva, doveva ancora dare il suo contributo per aiutare i suoi amici. Avrebbe potuto ringraziare Aragorn della sua fiducia e della sua amicizia standogli accanto, dandogli il supporto per vincere la guerra, per spianargli la strada verso il trono di Gondor. Più passava il tempo e più si rendeva conto che quello era il suo compito, ora. Avrebbe seguito il suo Re ovunque, anche al Nero Cancello, se fosse stata la sua volontà. Avrebbe combattuto al suo fianco, sarebbe morto per lui. Solo così poteva redimersi, solo così poteva meritare il perdono di tutti. E in cuor suo fu grato a quella donna che gli aveva confidato le sue paure e le sue colpe, che gli aveva aperto gli occhi ed era stata sincera fin dall'inizio. Perché ora anche lui aveva un obiettivo da centrare.

Passò quasi un'ora prima che Brethil tornasse e quando la vide sbucare dal bosco si sentì sollevato. Per quanto avesse capito che fosse in parte come un uomo, per la vita che aveva vissuto fino a quel momento, non poteva risparmiarsi di pensare che fosse pur sempre una donna, e non gli garbava l'idea che fosse lei a prendersi cura di lui, e non viceversa, e che andasse a cacciare da sola in un luogo potenzialmente pericoloso.

«Ti piace la carne di volpe?» gli domandò, dal basso.

Boromir si sporse, spalancando gli occhi. «Molto! Ne hai presa una?»

«No, mi dispiace, di nuovo lepre. Una a testa.»

L'Uomo si lasciò andare ad una risata, stanca ma divertita, e lei sorrise con innocenza.

Brethil lo raggiunse subito dopo per aiutarlo a scendere. «In realtà una volpe c'era, ma mi è scappata.»

«Le lepri andranno benissimo, non preoccuparti. Sempre meglio che mangiare il pane degli Elfi. Utile, quando il cibo scarseggia, ma il mio stomaco non è abituato a simili pasti.»

Tornarono sotto il portico e lì si sedettero. Boromir protestò, perché avrebbe voluto rimanere in piedi per un po', ma lei fu irremovibile.

«Domani camminerai quanto vuoi, ma per oggi rimarrai seduto qui. Te lo chiedo per favore.» aggiunse poi, vedendo l'espressione contrariata dell'Uomo, che non poté far altro che annuire.

Pulirono insieme la coppia di animali e Boromir tornò a sentirsi utile, finalmente. Era ancora debilitato dal sangue perso, ma grazie alle cure della donna, stava lentamente riprendendo le energie e se ne accorse dalla forza con cui riuscì a stringere il coltello tra le mani. Aveva voglia di riprendersi del tutto per combattere, per ritrovare i piccoletti e mantener fede alla propria promessa. Aveva voglia di vivere, come mai in vita sua.

«Parlami di Minas Tirith.»

Se qualcuno delle guardie di suo padre, o Denethor stesso, avessero sentito quella richiesta le avrebbero tagliato la lingua. E probabilmente, se fosse stato più giovane e non la conoscesse un poco, lui stesso l'avrebbe rimproverata - come fece poco dopo, sebbene fosse tutto fuorché serio. «Bada a come parli, ragazza. È per caso un ordine?»

Si accorse con stupore che quella arrossì e chinò il capo, servizievole. «Perdonami, non volevo essere maleducata.» s'affrettò a dire.

Lui, inaspettatamente, sorrise. «Scusami tu, non ho saputo resistere.» le disse, puntandole il coltello contro e agitandolo come se fosse il dito di un anziano tutore che rimproverava il proprio studente. «Ti prendo in giro.»

Brethil divenne ancora più rossa e lui, quella volta, rise di cuore.

«Non vedo cosa ci sia di divertente.» borbottò la donna.

«Ti ho per caso offesa?» domandò, accigliato. Non era abituato a trattare con il sesso opposto, cresciuto in un ambiente di soli soldati, sebbene la madre, quando era molto piccolo, gli avesse dato qualche lezione a proposito delle buone maniere. Pensandoci bene, forse avrebbe dovuto prestarle maggiore ascolto, anche se lui, fin da bambino, aveva sempre rifiutato l'idea di prendere moglie.

«Certo che no! Sono io che ti ho praticamente ordinato di parlare. Ma...»

«Ma?»

«Mi sento una perfetta stupida.» disse Brethil, imbarazzata. «Non ho molta esperienza con i figli dei Sovrintendenti. La personalità più in vista con cui ho parlato è stato Re Thranduil. E Théodred e Éomer mi considerano un uomo al loro pari, figurati. Ricominciamo, che ne dici?»

Boromir acconsentì, incuriosito da quel lato più femminile della Dùnadan che ancora non aveva mostrato. E le parlò della sua città, che lei non aveva mai visitato. L'entusiasmo era palpabile nei suoi occhi chiari, tanto che le parve di vedere quella maestosa città di pietra bianca splendere davanti a sé. «Ogni volta che rientro dalle spedizioni o dalle passeggiate con Faramir, e mi appare dietro una collina mi lascia senza fiato. Risplende come la luna nelle sue notti più luminose, fiera e altera guarda al nemico con orgoglio e disprezzo, come la chiglia di una nave che taglia in due le onde. E non c'è esercito che possa farla crollare, possente e regale come è. Quando eravamo piccoli, io e mio fratello facevamo a gara a chi giungesse per primo alla cittadella, passando per i vari anelli. Rischiavamo sempre di essere investiti da qualche cavallo o carro.»

«E chi vinceva, di solito?»

«Lui.»

Dall'occhiata divertita, perso nei ricordi, Brethil intuì che forse era anche merito suo, e si divertì ad immaginarlo da bambino.

«E la Bianca Torre di Ecthelion, che troneggia sui Campi del Pelennor e risplende di luce propria, contro l'ombra della Torre di Barad-dûr. Da quell'altezza puoi guardare ovunque la città sotto i tuoi piedi, che pullula di vita, di bellezza, di musica.»

«Sei innamorato così tanto della tua città.»

«Sì, lo sono. E un giorno, quando vi farai ritorno insieme al Re, l'amerai anche tu, poiché è anche la tua città.»

Lei si strinse nelle spalle. «È strano. Non ho un posto che possa chiamare casa. Il Nord mi ha vista crescere, eppure sento di non appartenervi. Forse, se mai accadrà, quando mi trasferirò a Gondor le cose cambieranno. Forse anche io avrò una casa che potrò considerare tale.»

L'Uomo annuì. Gli fu difficile immaginare una vita trascorsa a vagabondare da una landa all'altra, senza fermarsi mai nello stesso posto, se non per pochi mesi. Quando stava troppo tempo lontano dalla sua città, un forte senso di nostalgia lo pervadeva, e non riusciva a placarlo se non con l'idea dell'imminente ritorno. E allora, solo allora, si sentiva completo e in pace con se stesso. Non c'era niente che potesse renderlo più orgoglioso della sua terra e dei suoi abitanti. E l'idea di Mordor che incalzava e metteva a rischio la sopravvivenza della città e del suo popolo lo faceva ribollire di rabbia e di determinazione.

Nessun esercito avrebbe dissacrato Minas Tirith, finché lui e i suoi soldati avessero avuto energie in corpo.

 

 Quella notte, come la precedente, Brethil non dormì, se non un paio d'ore dopo l'alba, quando la luce del sole li proteggeva dalle creature notturne. Era rimasta poggiata contro la colonna diagonalmente opposta a quella sotto la quale Boromir si era addormentato. Avvolta nel suo mantello e con il cappuccio calato sugli occhi, stringeva l'arco tra le braccia e le gambe incrociate, guardando senza realmente vederle le ultime scintille del piccolo focolare che aveva acceso. La sua mente era, infatti, densa di pensieri e ricordi, che il racconto di quel giorno le aveva fatto rivivere.

L'aveva sorpresa la semplicità con cui aveva parlato del suo segreto più buio, delle sue memorie più dolorose; era stato difficile trovare il coraggio di iniziare, ma quando aveva cominciato non era riuscita a fermarsi. Aiutata forse anche dal fatto che non guardasse in viso il suo interlocutore, dandogli le spalle per sentirsi più protetta e non vedere lo sguardo di rancore dell'altro, si era tolta un pesante fardello che le opprimeva l'anima. E lui l'aveva ascoltata quasi senza interromperla.

Aveva dovuto fare numerose scelte difficili nella sua vita ancora giovane, e si era sempre chiesta quali altre prove i Valar avessero seminato sul suo cammino. Ma quella che aveva dovuto affrontare a Bosco Atro era stata la più dura. Con un solo gesto aveva tradito tutti: gli Elfi e Re Thranduil, che a quel tempo serviva, e che avevano preso in custodia Gollum; i suoi consanguinei e compagni, Raminghi da una vita, la sua stessa famiglia; e Gandalf, che aveva inseguito quell'essere per otto lunghi anni, e Aragorn con lui.

L'Erede di Isildur le aveva raccontato di quanti perigli avesse dovuto affrontare nel viaggio di ritorno, quando Gollum si rifiutava di seguirlo e non perdeva occasione di morderlo e ferirlo per farlo desistere. "In più puzzava terribilmente!", aggiungeva, ora con più sollievo e divertimento, rassicurato dal fatto che non avrebbe dovuto avvicinarsi più a lui. E allora lei e Halbarad, quando andavano in esplorazione e riposavano un poco, lo ascoltavano mentre descriveva le terre di Gondor, che in cuor suo amava più di se stesso, e della malvagità che si era risvegliata ad Est, con il Monte Fato nuovamente in piena attività. E domandava loro cosa avessero fatto in quei lunghi anni di assenza, dispiacendosi per la morte di persone conosciute e amiche e rallegrandosi delle loro vittorie. E lei, lei aveva distrutto tutto il suo lavoro per un sogno e una fioca speranza.

Brethil amava Aragorn e Halbarad come se fossero insieme padri e fratelli, oltre che gli amici più fidati; in particolare quest'ultimo, che si era affezionato a lei quando era rimasta sola, senza il conforto del padre deceduto. Aveva deciso di prenderla sotto la sua ala, e insieme avevano affrontato molte battaglie, gioie e dolori. Aragorn sapeva del legame che univa i due e quando chiamava il suo braccio destro lontano da lei, Brethil s'incupiva e riusciva, in un modo o nell'altro, a seguirli e ad unirsi a loro. Molte volte il Capitano dei Raminghi del Nord l'aveva rimproverata per aver curiosato in faccende che non la riguardavano, ma non riusciva a rimanere adirato troppo a lungo, perché sapeva che avesse agito in buona fede e per amore. E soprattutto, si fidava di lei. Lei, che l'aveva tradito!

Più volte fu tentata dal raccontare il suo sogno ad Halbarad, quando Aragorn era lontano, ma mai trovò il coraggio, perché lei stessa reputava folle l'idea, frutto dell'influenza del padre. Magari, se quest'ultimo non le avesse mai parlato del suo sogno, lei non avrebbe dovuto affrontare niente di tutto quello. Ma ormai il più era fatto e non sarebbe potuta tornare indietro. L'unica via d'uscita era l'attesa, che la stava lentamente consumando.

Brethil alzò il capo, sentendo un mormorio roco. Si avvicinò a Boromir silenziosamente e si accorse che stesse parlando nel sonno. Non riusciva a capire cosa dicesse, ma era evidentemente un sogno agitato, quello dell'Uomo, poiché era sudato e la fronte era corrugata da preoccupazioni e timori.

«Boromir.» Si chinò su di lui, accarezzandogli un braccio e scuotendolo un poco.

«Non sono un ladro...»

«Boromir, svegliati.» disse, ora con più vigore, scostandogli i capelli sudati dalla fronte.

«No, no! Frodo, mi dispiace. Frodo! Frodo!»

L'Uomo spalancò gli occhi e bloccò con forza il polso di lei. Gli ci vollero parecchi secondi prima di rendersi conto di dove fosse.

«Boromir, mi spezzi il braccio, così.»

«Perdonami, io... ti chiedo scusa.» mormorò, lasciandola andare, atterrito.

Si mise a sedere a fatica e prese respiri profondi per calmarsi. Accettò con mani tremanti la borraccia d'acqua che lei gli porse e bevette qualche sorso per rinfrescare la gola secca. Rimase in silenzio, cercando di riprendersi e di non badare, con scarsi risultati, all'imbarazzo che lo assalì. Rare erano state le volte che aveva parlato nel sonno da bambino, e tutte a causa della morte precoce della madre; e ora doveva accadere con quella donna nelle vicinanze!

Brethil lasciò passare qualche minuto, inginocchiata accanto a lui, prima di chiedergli come si sentisse.

«Bene, sto bene.» disse Boromir, poco convinto. «Era solo un incubo.»

«Sì, ho visto. Per questo ti ho svegliato.»

«Grazie per averlo fatto.» Chinò lo sguardo sulle sue mani. Le mani di un ladro. Mani che stavano per fare del male alla sua ancora di salvezza. «Ti ho ferita?»

La Dùnadan mosse il polso, scuotendo il capo. «Tranquillo, nessun male. Sono fiera di me stessa, piuttosto. Con la forza che hai usato per stringermi il braccio posso dire con certezza che ti stia riprendendo.»

«Perdonami, non ero in me.» mormorò.

E neanche quella volta era se stesso. Quando aveva aggredito il Mezzuomo. Quando aveva decretato la sua condanna.

«Boromir.» lo richiamò lei, stringendogli una mano.

«Temo di perdermi, Brethil. Non riesco più a riconoscere me stesso.»

Lei sospirò, sollevando lo sguardo al cielo. «Come posso aiutarti?»

«Fai tacere queste voci, ti prego.» sussurrò, portando le mani sul viso. «Non le sopporto più. Giungono con la notte, sussurrano al mio orecchio e mi sconvolgono, sempre di più.»

«Che cosa senti?»

«Insulti. Mi chiamano ladro, e traditore. Sono le voci di Frodo, di Aragorn, di Gandalf... di tutta la Compagnia. E poi arriva lui, strisciando come un serpente s'insinua nei miei pensieri, e mi chiama. L'Anello mi perseguita, Brethil. Aiutami a farli tacere.»

La donna si morse un labbro nel vederlo così ridotto. Ma cosa avrebbe potuto fare lei per farlo stare meglio? «Boromir, non posso scacciare i tuoi incubi. Devi essere tu a farlo.»

«Ma non riesco.»

«Riuscirai.» Gli scostò le mani dal viso e lo guardò negli occhi, con pazienza. «Riuscirai quando capirai che nessuno ti considera un ladro e traditore. Riuscirai quando capirai che l'Anello non è più un pericolo per te. È lontano, con Frodo. Non può nuocerti più.»

«Sì, è lontano.» Boromir sospirò pesantemente e lei ritirò le mani sulle gambe.

Avrebbe voluto dirgli quanto lo comprendesse, in parte, e quanto stesse soffrendo per lui; ma sapeva che sarebbero state parole inutili, in momenti come quelli. E sapeva anche che la compassione era l'ultima delle cose che lui avrebbe voluto. «Presto avrai altri pensieri che affolleranno i tuoi sogni. Hai un popolo da difendere, e conta su di te. Devi solo stringere i denti e andare avanti.»

«Come hai fatto tu.»

Lei annuì. «Ora riposa, se riesci. Io sono qui.»

Quasi Boromir non si rese conto della proposta che le fece, né si accorse del rossore che le imporporò il viso. «Stenditi accanto a me, per favore. Dormirò meglio sapendo che sei qui.»

E lei, riluttante, fece come le aveva chiesto. Boromir si addormentò qualche minuto dopo, una mano di lei stretta nella propria. Brethil, invece, non chiuse occhio, se non alle prime luci dell'alba.

Quella volta le voci non disturbarono il suo sonno e Boromir si svegliò di buona lena verso le otto, vista la posizione del sole in cielo. La prima cosa che vide appena aprì gli occhi fu il volto addormentato di Brethil. Sembrava riposare tranquillamente, perché la sua espressione era serena. Solo quei quattro graffi indelebili deturpavano quel quadro di quiete, riportando alla mente il suo triste racconto. I capelli neri erano scarmigliati, come il primo giorno che l'aveva vista, ed erano corti - mai aveva incontrato una donna con i capelli della sua lunghezza; eppure guardarla gli mise buon umore. Era una sensazione nuova, per lui, quella di trovare conforto in qualcuno che non fosse se stesso, poiché era lui, solitamente, che infondeva forza e coraggio negli altri. Però gli piaceva, e decise che l'avrebbe ringraziata a modo suo.

Si alzò lentamente, sciogliendo la presa sulla mano di lei, e si mise a sedere. Non aveva problemi di respirazione, se non qualche fitta passeggera, e ormai le ferite gli prudevano per la cicatrizzazione. Poteva considerarsi guarito, e in tempo così celere, poi. Solo un giramento di testa lo colse appena si alzò, ma tentò di non pensarci. Aveva un compito da svolgere, prima di essere fermato dalle vertigini della debolezza.

Brethil si svegliò mezzora dopo, con il braccio indolenzito per averci dormito sopra. Sbatté le palpebre più volte quando si accorse che Boromir non era più accanto a lei, temendo che avesse ancora gli occhi appannati dal sonno. Ma quando si rese conto che l'Uomo fosse sparito sul serio pensò al peggio. Forse erano stati attaccati? Eppure non udiva i rumori di una battaglia, niente ferro contro ferro, nessun grido. No, la collina era deserta. Allora dove era andato?

La Dùnadan si alzò velocemente, guardandosi intorno. Lo scudo era ancora poggiato in un angolo, ma mancava la spada e il pugnale. E l'arco che le aveva regalato il padre.

«Boromir di Gondor, se ti succede qualcosa giuro che ti finisco con le mie mani.» mormorò, correndo tra gli alberi per cercarlo.

Ma venne fermata dalla sua voce, alle sue spalle.

«Dove vai? Ho qualcosa che ti appartiene... e che ti riempirà lo stomaco.»

Non credette ai suoi occhi quando, voltata verso l'Uomo, lo vide con un piccolo cervo in spalla e un'espressione vittoriosa in volto.

«Ti piace la carne di cervo?» le domandò, ridendo del suo sguardo stupito. «Non sono mai stato bravo con l'arco; ma dammi un pugnale e una preda a venti piedi di distanza, e ti assicuro che posso colpirla in fronte.»

E dicendo quelle parole gettò l'animale ai suoi piedi, cosicché vedesse il pugnale conficcato tra gli occhi della bestia.

Brethil incrociò le braccia, scuotendo il capo. «Questo dovrebbe essere il momento esatto in cui dovrei iniziare un rimprovero degno di una madre contrariata.»

Lui allargò le braccia, poggiandosi con nonchalance contro una colonna, per non perdere l'equilibrio. «Sono in forze, madre. E ti ho portato la colazione. Sono un figlio modello, direi.» disse, porgendole l'arco e la faretra, che non aveva utilizzato. Si sedette subito, però, perché si era affaticato troppo e non voleva che la donna se ne accorgesse.

Sorridendo divertiti, scuoiarono il cervo e prepararono da mangiare. Il buon profumo di carne arrostita fece brontolare i loro stomachi e mangiarono a volontà, rendendosi conto di essere affamati.

«Hai deciso cosa fare?»

Boromir sollevò lo sguardo sulla donna, e annuì. «Sì, ci ho pensato bene. Voglio seguire le orme degli Orchi e rintracciare Aragorn. Il mio posto è accanto a lui.»

«Sono trascorsi tre giorni da quando sono partiti, e sebbene siano a piedi saranno molto lontani.» gli fece notare Brethil. «Non vuoi andare a Minas Tirith?»

«Solo io so quanto desideri farlo. E sì, mi recherò alla mia città. Ma non ora.»

«D'accordo.» La donna sorrise. «Raggiungeremo Aragorn e gli altri. Le tracce degli Orchi saranno ben evidenti.»

«Piuttosto, avanzerà del cibo.» fece Boromir, guardando con dispiacere la carne. «È un vero peccato buttare una così bella preda.»

«Lo credo, dopo che l'hai cacciata ferito e debilitato, Uomo testardo! Ma non temere, ti darò l'ultima dose di Athelas e useremo le foglie che la proteggono dalle intemperie per conservare la carne. Così ne avremo anche pranzo, cena e forse anche colazione.»

«Riponi troppa fiducia nella capienza del tuo piccolo stomaco. Non metterne nel mio.» l'ammonì lui.

«Ma non sei un Hobbit, il che è buona cosa. Altrimenti sì che sarebbe finita!»

Con il cuore leggero dai racconti pesanti del giorno prima e l'umore sollevato dalla colazione, i due raccolsero le loro poche cose - armi, più che altro - e lasciarono il Seggio della Vista, verso l'uscita da quei colli che li avevano ospitati. Camminarono  tra la foresta e le colline di Amon Hen per mezza giornata, fortunatamente senza perdersi. Brethil sembrava conoscere bene quegli alberi e quei sentieri invisibili che percorrevano, con lentezza, per permettere al ferito di riposare e non stancarsi troppo, nonostante lui si rifiutasse di interrompere il cammino e non accettasse il suo aiuto. Per tre volte la donna aveva fermato il passo, rimanendo in silenzio con una mano poggiata sul tronco di un albero, o con l'orecchio teso contro una roccia, per ascoltare ciò che il terreno aveva da raccontarle. Boromir non fece domande a riguardo, poiché aveva visto che anche Aragorn sapesse leggere l'ambiente circostante per orientarsi, come stava facendo lei. Quando raggiunsero la fine delle colline, Boromir rimase senza fiato. Aveva cavalcato alcune volte per le vaste praterie di Rohan, l'ultima volta proprio qualche mese prima, ma non si era mai soffermato a godere della loro bellezza: immense distese di colline e valli di erba, con macchie di verde e giallo a seconda delle specie e della presenza di acqua; stagni e piccoli laghi s'intravvedevano a perdita d'occhio e una striscia argentata, che pareva uno specchio di luce, indicava il corso del fiume più importante della zona, l'Entalluvio.

Brethil si guardò intorno, per cercare qualcosa che però non trovò. Allora mise due dita tra le labbra e fischiò con quanto più fiato avesse in corpo. Un nitrito provenne da nord e poco dopo la sagoma di un cavallo, bruno come la terra e bardato degli emblemi di Rohan, giunse al galoppo.

«Boromir, lui è Nerian, il mio compagno di viaggi da qualche mese.» disse Brethil, accarezzando la criniera del destriero, che non si sottrasse nemmeno alle attenzioni dell'Uomo.

«Raggiunsi Edoras perché il mio scappò a una notte dalla città, lasciandomi a piedi. Mi chiedo se quello che mi prestarono abbia mai fatto ritorno a casa.»

La Dùnadan annuì. «I cavalli dei Rohirrim sono veloci e intelligenti; sanno ritrovare la strada del loro paese. E soprattutto, non lasciano a piedi il proprio cavaliere.»

Tra le risate dell'Uomo, Brethil salì in sella e lasciò una staffa libera, affinché anche lui potesse raggiungerla. Fu solo quando lo sentì dietro di lei, che le stringeva la vita per non perdere l'equilibrio, che spronò Nerian al galoppo, e si misero alla ricerca degli Orchi. Non impiegarono troppo a trovare le tracce evidenti del loro passaggio, poco più a sud-ovest: pesanti piedi avevano pestato l'erba, verso Isengard. Esseri che avevano una fretta tremenda, accelerati da fruste e minacce. Boromir sentiva ancora nelle orecchie lo scalpitio di quei piedi rivestiti di ferro, mentre correvano con gli Hobbit, fuori da quei colli, ignorando il suo corpo straziato dalle frecce, aggirandolo e gridando in quell'orribile linguaggio.

Scosse il capo, scacciando con rabbia quei momenti. Li avrebbe uccisi con tutta la forza di cui disponeva. Avrebbe trucidato chiunque avesse osato solo posare gli occhi sui piccoletti. Si sistemò un poco sulla sella, che sebbene fosse larga e comoda per una persona, difficilmente conteneva un uomo e una donna; non voleva disturbare la cavalcata di Brethil, tantomeno metterla a disagio per la sua vicinanza, ma lei non sembrava badarvi. E neanche Nerian sembrò badare al suo carico, dato che non cedette l'andatura neppure un momento. Non parlarono molto per tutto il viaggio, se non le poche volte che si fermarono per controllare il territorio con più attenzione.

«Hanno accelerato di molto il passo.» disse Brethil, controllando le tracce e sfiorando il terreno. «Più di tre giorni di vantaggio ci separano da loro.»

«Muoviamoci, dunque.» Le porse una mano. «Sali dietro, ti do il cambio.»

«Boromir...»

«Sali, non lo ripeterò.» e aggiunse, meno duramente. «Cavalcherò io, finché il mio corpo non mi chiederà pietà.»

E così fece, fino a metà pomeriggio. Boromir non volle fermarsi per riposare, se non il tempo di rifocillarsi; e nonostante le proteste della donna, che temeva un suo collasso da un momento all'altro, proseguì il galoppo fino a notte tarda. Tra i dolci pendii di Rohan, giunsero in un piccolo anfratto scavato dal vento nella roccia, al riparo dalle correnti d'aria ma non da occhi indiscreti.

Boromir poggiò lo scudo contro la pietra e si sedette, esausto. Aveva esagerato, testardo com'era, e rimanere quasi tutto il giorno rigido sulla sella non aveva aiutato il suo busto in via di guarigione. Ma non ne fece parola con Brethil, che comunque gli lesse la sua stanchezza in viso.

«Hai poco rispetto per te stesso, Boromir. O sei troppo orgoglioso per ammettere i tuoi limiti.» gli disse, mentre quello si lasciava cadere sull'erba. «Non servi a nessuno spossato.»

Quello non rispose, intimamente seccato dalla sua debolezza. Aveva visto che le ferite si fossero rimarginate in fretta, quindi non doveva temere di compiere sforzi di qualunque tipo; e invece ecco che avvertiva nuovamente dolore ad ogni movimento che il cavallo faceva durante la marcia. Non sopportava l'immagine di se stesso stanco e debole, era inconcepibile. «Ci metteremo in viaggio tra tre ore.»

«No.» disse lei, osservando distrattamente il terreno. Quasi non sentì la protesta dell'Uomo contro quel no secco, perché si era già accovacciata a controllare delle tracce. «Qualcuno si è accampato, qui. E deve aver anche acceso un piccolo falò.» Spostò lo sguardo verso destra, inchinata sul terreno. «Erano in tre, due hanno dormito qui, accanto alla tua posizione. Il terzo era di guardia, accanto al fuoco.»

Gli occhi di Boromir brillarono. «Dici che si tratta di Aragorn, Legolas e Gimli?»

«Sì, credo di sì. Le impronte risalgono al massimo alla scorsa notte.»

«Bene. Molto bene.» disse l'Uomo, con un sorriso. «Li stiamo raggiungendo.»

Lei annuì. «Proprio per questo possiamo fermarci qualche ora in più. Ti ricordo che stavi per morire fino a tre giorni fa, Boromir. Non giocare troppo con la sorte.»

«Ma non sono morto, e riprendo le forze velocemente. Non mi attarderò più del necessario, sapendo che due miei amici sono diretti verso l'ombra e la tortura di uno Stregone, e che altri tre sono sulle loro tracce.»

Sentendo con quel tono, Brethil capì che la discussione fosse finita.

 

 

 

 

*

Note: dal racconto di Legolas, Gollum fuggì da Bosco Atro aiutato dagli Orchetti, mentre gli Elfi lo avevano portato a spasso per gli alberi. Nella mia storia Gollum era chiuso in prigione, e gli Elfi di guardia si allontanarono per difendere il loro regno, così che Brethil poté liberarlo senza essere vista. Spero che questo piccolo cambiamento non vi stravolga troppo. Di seguito una piccola cronologia che vi chiarisca i vari passaggi, per chi non ricordasse bene la storia.

2956 - Aragorn incontra Gandalf e inizia così la loro amicizia.

2984 - nascita di Brethil. (*)

3000 - la Contea è rigorosamente custodita dai Raminghi.

3001 - vigilanza raddoppiata, Gandalf cerca notizie di Gollum e chiede l'aiuto di Aragorn.

3009 - Gandalf e Aragorn cercano Gollum per gli otto anni successivi.

3017 - Aragorn trova Gollum e lo porta a Bosco Atro.

3018 - Gollum fugge.

(*) Mi sembra superfluo precisarlo, ma questo ovviamente è una mia aggiunta.

 

Grazie a tutti i lettori!

A presto,

Marta

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Capitolo 4
*** 04. ***


Buona Pasquetta a tutti!

Dopo un'indigestione di cioccolata nonostante i miei 23 anni suonati, torno a fare la persona seria (?!) regalandovi un altro macigno capitolo.

Prima di iniziare vorrei ringraziare dal cuore ancora una volta i pochi affezionati che seguono questa cosa. Grazie, davvero, mi riempite di gggioia.

Buona lettura!

 

Betulla

04.

29 Febbraio 3019 T. E.

 

Quando Boromir aprì occhi e mise a fuoco la vista, si rese conto con un certo fastidio che le prime luci dell'alba stessero colorando il cielo di sfumature rosa e arancioni. Eppure non era che mezzanotte passata quando aveva deciso di appisolarsi un poco. Aveva dormito sei ore e Brethil non lo aveva svegliato?

Si mise a sedere, cercando la donna, ma non la trovò. Nerian brucava l'erba poco più avanti e si rilassò; non poteva essere andata molto lontano senza il suo cavallo.

«Ben svegliato.»

Boromir corrugò la fronte, udendo la sua voce. Veniva sopra la sua testa. Si mosse fuori dalla piccola rientranza dove aveva riposato e allora la vide. Era in piedi, con le mani sui fianchi e lo sguardo fisso verso Ovest. Sembrava assorta in chissà quali pensieri, lontana migliaia di leghe da lì. Ma Boromir, per una volta, non si preoccupò di destarla dalla sua mente, e anzi parlò con irritazione. «Ci siamo fermati molto più di quanto avevo previsto.»

«Lo so.» disse lei, con semplicità disarmante. «Dormivi così profondamente che non ho avuto cuore di svegliarti.»

«Tre ore in più di sonno non mi aiuteranno certo a raggiungere più velocemente Aragorn!»

«Oh, lo faranno, invece.» Brethil finalmente lo guardò. «Ti senti più in forze di ieri?»

Boromir sospirò pesantemente, capendo dove volesse andare a finire con il suo ragionamento. Se fosse stato più riposato, non avrebbe avuto bisogno di più pause durante il viaggio. «Lo potrò dire solo dopo aver fatto colazione.»

Lei tornò a scrutare le ombre della lontana Fangorn e fu allora che l'Uomo seguì il suo sguardo, ma non vide molto.

«Cosa c'è?»

«Non ne sono sicura, poiché non ho la vista di un Elfo. Ma si muove qualcosa.» Brethil acuì lo sguardo e, seppur debole, una colonna di fumo, giovane di qualche ora, si disperdeva nell'aria, a meno di 80 miglia dai loro occhi. Boromir immaginò che le forze di Saruman avessero messo a ferro e fuoco qualche villaggio nei pressi della foresta, ma Brethil scosse il capo.

«Non ci sono villaggi verso Fangorn. Nessuno osa avvicinarsi più del necessario alla casa del Pastore degli Alberi.» Colse subito l'occhiata di perplessità dell'Uomo, e aggiunse: «Fangorn non è solo il nome della foresta. Egli è la foresta. Un Ent

«Un Ent! Stai dicendo che quelle che circolano non sono solo invenzioni di racconti lontani, che narrano di alberi che camminano?»

«No, non lo sono. Gli alberi sono più vivi di quanto tu non creda, Boromir di Gondor.» gli disse, bonariamente. «E sanno essere molto pericolosi, se destati.»

Lui sospirò, impressionato. «Sono veramente tempi strani, questi che viviamo. Mi sembrano trascorse ere da quando ridevo delle storielle elfiche che Faramir mi raccontava, nei nostri pomeriggi di svago. Ho sempre creduto alle cose tangibili, a quelle che posso vedere e toccare. E ora mi ritrovo io stesso dentro uno di questi racconti elfici.»

«E la cosa ti turba?»

«Tutto ciò che non posso combattere con la spada mi turba, Brethil. Ma dopo aver vissuto per qualche tempo tra gli Elfi, dopo aver visto la morte sotto le sembianze di un Balrog e dopo averla scampata per la tua venuta provvidenziale, no. Nulla mi stupisce più.»

Brethil gli sorrise, ma l'espressione serena durò poco. «Se quello è davvero fumo e se conosco le usanze dei Rohirrim, si tratta del risultato di una battaglia. Sono soliti dare fuoco alle carcasse dei nemici, per poi spargere le loro ceneri al vento. Possiamo raggiungere la foresta entro domani mattina, per esserne sicuri; le tracce degli Orchi portano verso quella direzione, ma non sappiamo se devino più avanti. Se così fosse il falò - se di un falò si tratta - non sarebbe più una nostra preoccupazione.»

Boromir rimase in silenzio, con il cuore fattosi improvvisamente pesante. Se la donna diceva il vero, allora per i piccoletti c'era poca speranza. Come avrebbero potuto evitare un combattimento con i Signori dei Cavalli? Probabilmente avevano mani e piedi legati per non fuggire, e, scambiati per due Orchi più mingherlini e pallidi, li avevano uccisi e bruciati con il resto delle carcasse. Aveva rischiato di morire per difenderli, e ora tutto gli parve vano.

«Boromir.» Brethil era scesa dal suo piccolo avamposto ed era d'innanzi a lui, preoccupata. «Non sappiamo niente di ciò che è successo. Non sappiamo neanche se la mia supposizione sia veritiera. Non farti assalire dai dubbi prima ancora di vedere la realtà con i tuoi occhi.»

L'Uomo sospirò. «Sì, hai ragione. Facciamo colazione e partiamo prima possibile, però. Non mi piace che abbia dormito così tanto.»

«Non sentirti in colpa anche per questo, ora.» fece la Dùnadan. «Hai bisogno di riposare, tu più di me. O vuoi che la febbre ti inchiodi nuovamente a terra? Inoltre, prima di rimetterci in viaggio voglio controllare le ferite. E non accetto rifiuti.»

Boromir dovette arrendersi davanti alla sua ostinatezza, anche se avrebbe preferito prenderla di peso, caricarla su Nerian e partire al galoppo verso quel fumo. E lo avrebbe fatto, se non fosse stato per la gratitudine che le doveva, sia per avergli salvato la vita e che per avergli tenuto compagnia, quei giorni. Non amava prendere ordini se non da suo padre, e avere al proprio fianco una donna che gli teneva testa lo disorientava e l'irritava; eppure non riusciva ad essere troppo duro nei suoi confronti. Se aveva accettato il fatto di essere vivo e di aver più di un motivo per continuare a calpestare la terra di Arda, era solo grazie alla forza che lei, con le sue parole, gli aveva infuso. Ma la donna avrebbe fatto bene a non mettere a dura prova la sua pazienza, poiché essa aveva un limite e non era rinomato per essere infinito.

Mangiarono la carne di cervo avanzata dal giorno prima e Boromir rimase stupito nel constatare che non fosse né troppo dura né aveva perso il suo sapore; quelle foglie che la proteggevano erano sorprendenti. Ricordava quelle date dagli Elfi di Lothlórien per conservare il lembas: quei biscotti rimanevano croccanti e saporiti nonostante fossero trascorse settimane dalla loro cottura.

«Hai sentito ancora le voci, questa notte?» gli chiese Brethil, destandolo dai suoi ricordi.

Il volto dell'Uomo venne attraversato da un'ombra di angoscia. «Sì, le ho udite ancora. Ma parevano un poco più lontane, questa volta.»

«È già un primo passo.»

Boromir annuì, ma non aggiunse altro. Le aveva sentite ancora sì, ma non erano le voci dei suoi amici che lo incolpavano per il suo gesto. No, era stato un sogno peggiore. Aveva sentito nuovamente quella voce, e si era mostrato ripercorrendo quegli attimi di perdizione, quando aveva quasi sfiorato l'Anello appeso al collo di Frodo; quella voce distorta, possente che lo chiamava, che lo turbava.

Boromir...

La sentiva ancora, frusciare e sibilare come un serpente nelle sue orecchie. Ogni singola e velenosa parola che gli sussurrava era la risposta che usciva dalle sue labbra, con cattiveria, con ostilità. E non poteva fare niente per impedirglielo.

Tu non sei un ladro... tu hai bisogno di Lui.

Sì, ne aveva bisogno. Non era un ladro, né un predone.

Prendilo, Boromir figlio della Torre Bianca. Prendilo!

Ne aveva bisogno per la salvezza di tutti. L'arma del nemico a portata di mano... doveva solo stendere il braccio e sarebbe stato suo. Denethor, suo padre, sarebbe stato fiero di lui, e così anche il suo popolo!

Il Mezzuomo indietreggia. Vi tradirà tutti. Per colpa della sua follia porterà la rovina a Gondor. È suo per un malaugurato caso. Avrebbe potuto essere tuo, Boromir. Doveva essere tu! Prendilo!

Boromir...

Allunga la mano, per la salvezza della tua amata terra! Afferralo, strappaglielo e indossalo! Uccidi il Mezzuomo se osa porsi tra la salvezza della tua città e te! Sei più forte di lui! Uccidi il Mezzuomo e afferra l'Anello!

E fu quello il momento di debolezza totale, quando le voci si erano fatte più forti e i sussurri erano diventati grida che invocavano il suo nome.

«Boromir!»

L'Uomo sgranò gli occhi, rendendosi conto di essere un completo fascio di nervi. E lo sguardo di apprensione e paura che vide nella donna lo fece vergognare di se stesso. Si mise le mani tra i capelli, disperato. «La sento ancora, Brethil. Sento ancora quell'odiosa voce e so che non mi abbandonerà mai. Sento ancora il richiamo dell'Anello.»

La Dùnadan gli si inginocchiò accanto, costringendolo a guardarla negli occhi. Aveva visto lo sguardo di un pazzo solo qualche istante prima e aveva temuto che l'Ombra lo prendesse nuovamente. Ma non poteva tollerare che si rovinasse con le sue stesse mani. «Non permettergli di sopraffarti, Boromir. Ricorda quello che ti dissi: sei un Uomo buono e forte. E non parlo solo della prestanza fisica. La tua forza sta anche nella tua debolezza. Altri, al tuo posto, avrebbero ceduto alle tentazioni molto prima, tanti non sarebbero andati avanti dopo la tua caduta. E sai amare, lo vedo giorno dopo giorno. Lo vedo quando parli di tuo fratello, o di tuo padre; lo vedo quando i tuoi pensieri volano agli Hobbit, perché immagino quale amicizia vi lega. E lo vedo quando difendi la tua città e il tuo popolo, nonostante le centinaia di leghe che vi separano. L'Anello non è mai stato una soluzione, lo sai bene. Non permettergli di sporcare la tua anima, Boromir.»

«Vorrei poterci riuscire.» Sospirò, scuotendo il capo. «Ahimè, non sono forte come tu credi e come pensavo di essere, prima di giungere a Gran Burrone e caricarmi questo peso sulle spalle. Partii al posto di Faramir per proteggerlo dai mille pericoli che lo avrebbero atteso, convinto di poter tener testa a qualsiasi situazione; ma se fosse stato lui a prendere parte alla Compagnia, allora questa forse sarebbe ancora unita. Partii per proteggerlo, ma non pensai come avrei fatto a proteggermi da me stesso.»

Brethil rimase in silenzio, spostando le mani da quel viso segnato dalla stanchezza e dalle preoccupazioni, per prendere le sue mani e stringergliele con forza. Poi sorrise. «Puoi ancora salvarti, Boromir. Sei ancora in tempo e sulla buona strada.»

E lui non poté far altro che crederle. C'era così tanta passione e sincerità in quello che gli diceva, da farlo capitolare. E in quei pochi istanti riusciva a placare l'oscurità e fargli nascere il germoglio della speranza, in fondo a quell'abisso in cui rischiava di precipitare.

«Aragorn e il suo amico devono essere stati ciechi per allontanarti dai loro cuori, Brethil figlia di Aeglos.» le disse, con un lieve sorriso. Ma lei ricambiò senza felicità. E si rese conto di aver detto un'idiozia. «Perdonami, non volevo rattristarti.»

«Nessun problema, Boromir. Ma non li biasimo per come hanno reagito, e anche tu, se mi avessi conosciuta come loro, mi avresti allontanata e ripudiata. Però, ti ringrazio per le tue parole.»

«Sono io che devo ringraziarti per le tue, non viceversa. Sarei davvero perduto senza il tuo sostegno.»

Quella volta Brethil sorrise sinceramente. Dopo mesi, sapere che qualcuno potesse star bene grazie alla sua presenza la faceva sentir in pace con se stessa.

«Odio la notte, odio i silenzi, perché mi portano a rimuginare sul passato e sul futuro, e non mi permettono di concentrarmi sul presente. Io che desidero parlare per riempire i vuoti che mi angosciano, ah! Se fossi stata tu ad incontrarmi qualche anno fa, stenteresti a riconoscermi.»

«Certe esperienze ti segnano per tutta la vita, questo lo sai. Ma non sempre i cambiamenti sono malvagi, né la tua indole viene cancellata in via definitiva. Ci sarà sempre parte del vecchio uomo che eri.»

Boromir sospirò. «Non so se sia una buona cosa o meno.»

«Lo capirai con il tempo.»

Finirono di fare colazione, e parlarono di Rohan e delle sue terre, poiché Boromir le aveva detto chiaramente di non voler rimanere troppo a lungo in silenzio; e gli raccontò di tutti i posti che aveva visitato, dal reame di Re Thranduil fino alla Contea, che era la terra che più le era rimasta nel cuore; eppure le colline dei figli di Eorl erano selvagge e fresche, e le adorava.

«Mi piacerebbe visitare la Contea, un giorno. Pipino e Merry sarebbero due grandi guide.» disse Boromir, e il suo volto si distese pensando ai piccoletti. «Credo che la prima cosa che farebbero sarebbe costringermi a provare l'erba pipa del Decumano Sud, ancorché io non fumo!»

«Ah, la Foglia di Pianilungone! Qualsiasi Hobbit che si rispetti ne ha una scorta, nella dispensa, insieme a qualche barile di birra.»

Boromir rise. «È incredibile quanto quei due piccoletti mi manchino. Sono piccoli di aspetto, eppure riuscirebbero a rallegrare anche le giornate più difficili con la sola presenza.» L'Uomo sospirò. «Vorrei che li conoscessi, saprebbero farti ridere più di me. Non sono mai stato di compagnia.»

«Sarò ben felice di incontrarli. E sono sicura che anche tu, presto, tornerai a sorridere, con loro nei paraggi.»

Boromir annuì, come se credesse veramente di rivederli vivi, dopo tutto quello che stavano passando. Acconsentì alla visita veloce della donna alle ferite, ormai in via di cicatrizzazione, e l'occhiata eloquente che le riservò le fece capire che da quel momento in poi non avrebbe potuto fermare un suo passo neanche puntandogli una spada alla gola.

«Ho fatto una promessa, Boromir.»

«Hai promesso di curarmi, non di farmi da balia. Non ne ho bisogno, Brethil.»

La donna sospirò. «Come desideri, mio signore

Boromir corrugò la fronte dal disappunto nel vedere il suo inchino, ma non rispose alla provocazione. La cosa che più gli premeva, ora, era salire sul cavallo e volare verso Fangorn. L'incapacità di sapere cosa stesse accadendo e come stessero i suoi amici era come camminare sui carboni ardenti, doloroso e umiliante. Si misero in viaggio cinque minuti dopo aver cancellato le tracce del loro transito, e da quel momento in poi entrambi si concentrarono sulla loro pista. C'erano punti in cui il passaggio degli Orchi era più evidente, poiché l'erba era piegata e calpestata a più riprese; altri in cui fu difficile capire dove fossero andati, perché il terreno era più roccioso. Brethil dovette scendere più volte da Nerian per controllare l'integrità della pietra e poter così proseguire verso una direzione piuttosto che un'altra.

Cavalcarono spediti per il resto della mattinata e quando si fermarono per il pranzo, a mezzodì passato, la colonna di fumo si era fatta più nitida ai loro occhi. E le tracce degli Orchi portavano proprio verso quella collina. Nel pomeriggio Brethil scoprì altre tracce, estranee a quelle del nemico, e numerose come essi: cavalli. Un esercito di duecento uomini o più era comparso d'un tratto dietro i rapitori, coprendo il loro passaggio.

«I Rohirrim devono averli intercettati.»

«Dunque avevi ragione.» sussurrò Boromir, osservando il fumo, ancora lontano ma perfettamente visibile. «Sono stati uccisi.»

«Gli Orchi sì, è probabile. Continuiamo a viaggiare, magari scopriremo qualcosa in più.»

E così fecero per tutto il pomeriggio. Parecchie volte interruppero il cammino, gli occhi fissi sul terreno per trovare segni che potessero far capire loro che gli Hobbit fossero vivi, ma non trovarono niente.

Fu quando Brethil si chinò sul terreno, ascoltando le vibrazioni che esso le restituiva, che qualcosa cambiò. «Sento il rumore di centinaia di zoccoli che si spostano. Sono lontani, ma sembra che si avvicinino.» Si alzò, controllando le colline, ma erano in un'ansa e la visibilità non era delle migliori. «Saliamo un poco, così da individuarli, se dovessero essere nei dintorni.»

Quando raggiunsero la sommità della collina più vicina, entrambi videro uno sciame di cavalli che si spostava velocemente e all'unisono. Provenivano dalla foresta ed erano ancora molto distanti, ma erano rapidi.

«Sarebbe un bene che l'intercettassimo e li raggiungessimo. Se anche dovessimo giungere al falò, sarebbe al calare delle ombre e non riusciremo a scorgere poi molto; dovremmo quindi attendere la luce del giorno dopo, il che significherebbe perdere ulteriore tempo, e non possiamo permettercelo.» disse Brethil. «Ma sono lontani e il sole sta calando. Dovremo comunque attendere che la notte passi, perché anche loro si fermeranno per riposare. Soprattutto se sono reduci da una battaglia.»

«Aspetta, guarda.» C'era eccitazione nella voce di Boromir, e Brethil non trovò subito l'oggetto di tanto entusiasmo. Poi li vide. Tre punti, un po' distanziati gli uni dagli altri, che correvano tra i dolci pendii di Rohan. «Sono loro! Aragorn, Legolas e Gimli!»

Una strana fitta di disagio colpì Brethil, ma fortunatamente Boromir non diede segno di essersene accorto, troppo felice per badare a lei.

«Possiamo raggiungerli in poco tempo, sono a piedi e sicuramente stanchi.» disse l'Uomo.

Brethil trattenne a stento un sospiro. «Bene. Nerian, mostraci ora la prova che sei discendente dei Mearas, corri!» esclamò la donna al cavallo, che partì al galoppo appena lei finì di parlare, quasi che comprendesse l'urgenza nella sua voce. I tre inseguitori erano a meno di tre miglia di distanza e li raggiunsero velocemente.

Fu Legolas il primo ad accorgersi di loro. Si fermò in bilico su una sporgenza rocciosa e riconobbe subito gli stemmi di Rohan. «Un cavallo con due Cavalieri si avvicina verso di noi, Aragorn.»

Il Ramingo fermò la sua corsa e osservò quella sagoma diventare sempre più nitida e vicina. Sgranò gli occhi quando li riconobbe. «Boromir!»

Il sollievo nella sua voce fu udibile a tutti e, appena il Capitano della Torre Bianca smontò da cavallo, i due si riabbracciarono come due vecchi amici che non si vedevano da tempo immemore, o come chi non aveva la certezza di rivedersi.

«Questo è sicuramente uno dei giorni più lieti della mia vita!» disse Aragorn. «Ti lasciai morente non sapendo se ti avrei più rivisto, e ora ti ritrovo in forze sulle tue gambe! Ben ritrovato, amico mio.»

«In forze è una gran bella parola, ma sto meglio. E non sarei vivo se non fosse stato per quella donna.» rispose l'altro, guardando Brethil, ancora su Nerian.

Aragorn la osservò e gli parve paralizzata sul cavallo, lo sguardo fisso in un punto imprecisato del terreno; eppure quelle spalle ritte e fiere tradivano il suo comportamento intimidito. Non sembrava cambiata poi tanto, se non fosse stato per quei graffi che le deturpavano il viso. Le si avvicinò, con una mano sul cuore. «Ti ringrazio per averlo salvato. È una delle persone più care che ho.»

Brethil scosse il capo. «Ho eseguito un tuo ordine, nient'altro.»

Rimasero ad osservarsi per interminabili secondi, senza saper bene cosa fare o cosa dire. Aragorn sentiva ancora bruciante la rabbia e la tristezza che quella donna gli aveva causato, eppure qualcosa nel suo cuore gli diceva di non lasciarsi accecare dall'astio. Era difficile, tremendamente difficile perdonare ciò che aveva fatto, e non era sicuro che ci sarebbe mai riuscito. Ma Brethil aveva salvato la vita di Boromir quando lui non poteva farlo, e doveva esserle grato.

L'Uomo di Gondor, intanto, salutò Legolas e Gimli, che lo benedì per la forza e l'immensa fortuna che aveva avuto, e domandò subito se avessero notizie dei piccoletti.

«Probabilmente sono ancora vivi.» disse Legolas, rassicurandolo. «Trovammo una spilla di Lórien due giorni fa. Uno dei due Hobbit deve averla fatta cadere, affinché la trovassimo. Non credo succederà niente di male, finché non raggiungeranno Isengard.»

Boromir annuì, passandosi una mano sul mento. «È ovvio, Saruman crede che uno dei due abbia l'Anello, li vuole vivi.» Poi sospirò. «Ma ahimè, temo che le nostre speranze si affievoliscano. Non avete scorto il falò?»

Gimli lanciò un'occhiata perplessa a Legolas. «Di che falò stai parlando? L'Elfo ha per caso perso la vista?»

«Brethil lo scorse in un punto alto, alle prime luci del giorno. Probabilmente voi eravate in fondo alla valle e con il capo chino sul terreno.» rispose Boromir. «Dalla nostra posizione, ora, non è visibile; e anzi, forse il fumo è anche diminuito.»

«Di cosa pensi si tratti?» chiese Legolas.

«Carcasse di Orchi, forse. Brethil, che conosce le usanze dei Rohirrim, mi ha spiegato che bruciano i corpi dei nemici, una volta sconfitti.»

«Stai dicendo che stiamo inseguendo quegli Orchi per tornare a casa con due cadaveri carbonizzati?» esclamò il Nano, sbarrando gli occhi.

«Non parlare così!» fece Aragorn, avvicinandosi. Mise una mano sulla spalla dell'amico. «Non perderemo le speranze proprio ora che siamo vicini ai nostri amici. Hanno bisogno del nostro aiuto, non del nostro elogio funebre.»

«Io vado avanti.» fece Brethil, non sopportando più di stare in presenza di Aragorn, senza che lui la guardasse con risentimento.

Il Ramingò capì cosa le stesse passando per la testa, e annuì con un cenno del capo. Anche lui trovava assurdo e imbarazzante quella strana rimpatriata, e aveva bisogno di più tempo per accettare quella situazione.

Boromir le si avvicinò, una mano sulle redini di Nerian. «E io verrò con te.» Il suo tono, così come lo sguardo penetrante che le riservò, non ammettevano repliche. «Lo hai detto tu, meno camminerò e prima mi riprenderò.»

La donna avrebbe voluto ribattere che lui stesso, quell'identica mattina, aveva fatto intendere chiaramente che avesse recuperato le forze, nonostante lei non fosse convinta, ma non replicò. Spostò un piede dalla staffa e Boromir salì in groppa al cavallo, stringendo le mani alla sella per un improvviso capogiro.

«Ci ritroviamo dopo il tramonto, Aragorn. Non sciuparti troppo.» gli disse l'Uomo, facendolo sorridere.

Brethil partì al trotto, tornando a respirare. Non voleva neanche immaginare quali pensieri avessero affollato la mente del Ramingo in quei pochi minuti, né cosa avrebbe detto ora che si stava allontanando. Far finta che non le importasse era difficile, se non impossibile. E Boromir si accorse del caos che aveva in testa, perché fu costretto a scuoterla un poco affinché lo ascoltasse.

«Brethil.»

Lei si ridestò. «Perché non sei rimasto con lui?»

«Perché pensavo di farti un favore. Mi sembri scossa.»

«E se avessi preferito solitudine?»

 Boromir rimase interdetto. Pensava che le avrebbe fatto piacere un po' di compagnia dopo quell'incontro; pensava che lui potesse essere la spalla migliore, oltre che unica, affinché potesse sfogare tutti i suoi dispiaceri e le sue paure, proprio come lui aveva fatto in quei giorni. E la consapevolezza di non avere alcuna speranza di esserle amico lo ferì più di quanto si fosse aspettato. «Puoi fermare il cavallo e farmi scendere, se non ti aggrada la mia presenza.» Neanche si accorse del tono gelido con cui aveva parlato.

 Brethil sospirò, portando una mano dietro la schiena, per cercare quella dell'Uomo. «Perdonami, non volevo essere sgradevole.»

L'ombra di un sorriso apparve sulle labbra di lui e strinse quella mano più piccola della sua. «Lo capisco se desideri stare sola. Devi solo dirmelo.»

«No, Boromir, va bene così. Sono contenta che ci sia tu, ora. Ho trascorso troppo tempo isolata da tutti.»

Proseguirono il viaggio in silenzio, senza sentire il bisogno di parlare. Per Brethil la presenza di Boromir era rassicurante, ed era sollevata dal fatto di aver trovato un amico in lui - o qualcosa del genere. Era sempre stata restia ad affezionarsi a qualcuno in così poco tempo, ma quell'Uomo la capiva, perché entrambi avevano sofferto per la perdita di amici fidati, anche se in modi diversi, e non l'aveva condannata per le sue azioni. Aveva messo la propria vita nelle sue mani, e con essa anche parte della sua anima. Non poteva pensare ad un gesto più forte e coraggioso di quello.

«Come ti è sembrato?» chiese, in un sussurro, temendo il suono di quella domanda, ma ancor più quello della risposta.

Boromir non esitò a replicare. «Sollevato. È evidente che non immaginava di rivederci così presto e vivi.»

«Allora era sollevato per te. Non ero io quella con il corpo puntellato di frecce, Boromir.»

L'uomo non parlò, ripensando al suo amico. Aveva imparato a leggere il suo viso e ormai conosceva ogni piccola espressione che gli attraversava gli occhi. E quella volta aveva visto felicità e malinconia. Non rabbia, né odio. Lo aveva stretto tra le braccia con impeto e gioia e sapeva che avrebbe fatto altrettanto anche con la donna, se avesse potuto.

«Ti vuole bene, Brethil.» le disse, con sincerità. «Arriverà il momento che entrambi temete, ma ti capirà e ti perdonerà, se solo tu glielo permetterai.»

La Dùnadan rimuginò in silenzio, sollevando lo sguardo al cielo, ormai più scuro, mentre il sole calava all'orizzonte. Arrestò il cavallo e smontò, per osservare il terreno con finto interesse. «Non posso farlo, ora. Non ci riesco.»

«Invece puoi.» ribatté l'Uomo, smontando ma rimanendo accanto al cavallo per avere un sostegno. «Devi solo trovare il coraggio.»

«Boromir, tu non sei scappato per un anno come un codardo!» esclamò Brethil, con gli occhi lucidi. «Semplicemente non me la sento.»

L'Uomo colse qualcosa che lei non gli stava dicendo e strinse i pugni, in un gesto di contrarietà fin troppo evidente. «Te ne andrai ancora.» fece, duramente. «Scapperai di nuovo.»

C'era risentimento in quelle parole, così forte che lei ne fu addolorata. Annuì e chinò il capo quando lui le diede le spalle. «Non posso fare altrimenti.»

«No, tu non vuoi, è diverso. Sei stata tu a dirmi che non ci si deve nascondere, che bisogna continuare a vivere e trovare la forza per riparare i propri errori. Erano per caso tutte false parole, le tue?»

«No, Boromir. Non ti ho mai mentito. Sono solo brava a consigliare e ad analizzare i problemi altrui, ma non riesco a gestire i miei.»

Lui si voltò nuovamente, quasi di slancio, e l'afferrò per le spalle. «E allora dammi la possibilità di aiutarti, di ricambiare ciò che hai fatto per me. Possiamo superare i nostri ostacoli insieme, se ognuno supporta l'altro. Non siamo forse amici?» Le asciugò le lacrime con le mani guantate e tentò di sorridere. «Ho bisogno di te, Brethil, alla stessa maniera di cui ho bisogno di Aragorn. Non mettermi davanti l'obbligo di scegliere.»

«Non avresti dubbi su chi seguire, Boromir.» Allontanò le mani dell'Uomo con le sue. «E non ti permetterei di lasciare indietro il tuo amico e futuro Re per seguire una codarda sfregiata.»

Il Capitano della Torre Bianca strinse la mascella, ma non obiettò. La donna aveva ragione, non avrebbe avuto difficoltà a scegliere tra lei e il Ramingo, ma avrebbe lasciato nelle sue mani una parte del suo cuore, sapendo che avrebbe sofferto della sua mancanza. Brethil era libera di andarsene, se fosse stato quello il suo desiderio, lo capiva e non aveva alcun diritto di fermarla; ma la parte più egoista della sua anima gli diceva che lei non si fosse affezionata a lui, che non lo considerasse così importante da mettere da parte il disagio di vedere Aragorn ogni giorno per stare in sua compagnia e riempire i silenzi della notte con le loro chiacchierate. Aveva sentito quella frase distaccata rivolta al Ramingo, quando questo l'aveva ringraziata per avergli salvato la vita: lei aveva solo eseguito un suo ordine, nient'altro.

«Fai come vuoi, non ti fermerò.» le disse, freddamente. «Ora torniamo indietro, non c'è niente da vedere ora che il sole cala.»

«Boromir.»

L'Uomo si fermò davanti al cavallo, le mani sulla sella, pronto a montare.

«Non pensare che non mi importi di te.»

«Non lo penso, infatti. Sali.»

Brethil accettò quel tono freddo e si sforzò di fidarsi delle sue parole e di credere che avrebbe capito, anche lui.

Nel completo silenzio, tornarono indietro, verso i tre, che non si erano ancora accampati. Aragorn chiese subito se avessero trovato qualcosa, ma la risposta negativa dell'altro Uomo non lo scoraggiò.

«Ci fermeremo qui per la notte, non vedo ripari né altri luoghi migliori. Prima dell'alba ci rimetteremo in viaggio, sperando di incontrare i Signori di Rohan.» disse il Ramingo. Osservò Boromir, che nel frattempo era sceso da cavallo e stava andando a recuperare un poco di combustibile per la notte, e notò subito che il suo sguardo fosse cambiato in quel poco tempo che era stato lontano.

«Via, Boromir, non stancarti e lascia a noi la legna.» fece Legolas.

L'Uomo abbozzò un sorriso. «A differenza vostra ho cavalcato comodamente per due giorni, signori.»

Gimli corrugò la fronte, contrariato. «Stai per caso insinuando che siamo stanchi?»

«È risaputo che gli Elfi abbiano più resistenza di un Uomo. Tu sei stanco, messer Nano?» domandò, Legolas, rivolgendosi all'amico con un sorriso derisorio che mandò l'altro su tutte le furie.

«Stanco? Stanco? Ah! Quando io sarò stanco le montagne saranno sparite dalla faccia della terra, signorino dalle orecchie a punta! Io stanco, ah!»

Boromir e Legolas si scambiarono un'occhiata che parlava da sola, mentre Gimli si allontanava borbottando e barcollando. La donna non scese da cavallo, ma non fece in tempo a muovere le redini che Aragorn la fermò.

«Dove vai?»

Riuscì a guardarlo negli occhi per una manciata di secondi, poi sviò lo sguardo verso un punto imprecisato della campagna. «Non rimarrò oltre, vado verso i Guadi, dove c'è più bisogno della mia spada. Non voglio disturbare le vostre chiacchiere con la mia presenza. Avrete molte cose da dirvi, immagino.»

Il Ramingo sospirò e annuì.

«Prenditi cura di Boromir, per favore. Ha bisogno di te, ora.» gli disse, guardando l'Uomo, distante qualche metro, fermo ad osservarla. Vide amarezza nel suo sguardo, ma non bastò per farle cambiare idea. «Addio, Aragorn.»

Boromir le si avvicinò prima che partisse definitivamente. «Non puoi scappare per sempre.»

Lei sorrise e chinò il capo, porgendogli la carne avanzata. «Ti auguro tutto il bene di questa terra, Boromir di Gondor, perché lo meriti. E pregherò affinché ritrovi il sorriso, e con esso i tuoi amici Hobbit. Addio!»

«Arrivederci...» sussurrò invece lui, sentendo già la sua presenza confortante svanire su quel cavallo. Sentì la mano di Aragorn sulla spalla e si voltò verso l'amico.

«Andiamo, Boromir, sediamoci accanto al fuoco e mangiamo qualcosa.»

Raggiunsero gli altri due e si sedettero accanto a loro, mentre Aragorn accendeva il focolare in pochi istanti. Divisero la carne di Boromir e mangiarono lembas, informandosi sulle sue condizioni fisiche. Gli domandarono di quei giorni difficili e lui fu ben felice di raccontar loro come avesse ripreso in fretta le forze, grazie a quella donna dal volto sfregiato. Aragorn ascoltava in silenzio, riconoscendo nelle parole di Boromir la mano di Brethil, e non poté trattenere un sospiro alla fine del racconto. Poi Boromir chiese loro nuove, ma i tre inseguitori non ebbero molto da raccontare sulla loro caccia; quasi tre giorni spesi a correre, a cercare tracce e a riposare poco non erano il massimo dell'avventura.

«E a quanto pare non potrò nemmeno spezzare la schiena di un dannato Orco o Uruk-hai che sia!» inveì Gimli, stringendo convulsivamente la sua ascia, che bruciava nelle sue mani inattive.

«Credo, purtroppo, che avremo sufficiente tempo per uccidere quelle creature.» disse Aragorn. «La guerra è vicina, ormai.»

«Che venga, allora! Sono pronto a farle gli onori di casa!» ribatté il Nano, ostinatamente.

«Accoglierla, per mandarla via con poco garbo, immagino.» fece Boromir. «Quale inganno il tuo, messer Gimli!»

Aragorn sorrise, accendendo la sua pipa e fumando in silenzio per un po'. Gimli, nel frattempo, si era steso e dormiva già profondamente, a discapito di quanto avesse detto poco prima riguardo la sua freschezza dopo giorni di corsa, mentre Legolas si era allontanato, con la scusa di mirare le stelle e quel paesaggio pacifico, pur di lasciare i due Uomini, soli con le loro chiacchiere.

«Aragorn, io... voglio chiederti scusa, anche se so bene che le mie parole non serviranno a cancellare ciò che ho fatto.» Boromir accarezzò il Corno di Gondor spezzato in due, ricordo di quella battaglia persa prima ancora di essere iniziata.

«È vero, le scuse non cancellano gli errori. Sono i gesti a farlo. E tu, amico mio, hai dimostrato più onore di tutti.» disse Aragorn, indicando il simbolo della sua caduta. «Hai rischiato di morire per Merry e Pipino, non potevi compiere atto più coraggioso e dignitoso. Non darti pena per le tue debolezze.»

«Ma tu non hai ceduto al suo richiamo, Aragorn.»

«No, non l'ho fatto, pur sentendo il sibilo del mio nome ogni volta che posavo gli occhi su di esso. Ma io non ho visto né vissuto gli orrori e gli anni di assedio del tuo popolo, e sapevo che l'Anello non sarebbe stato d'aiuto, se non portatore di disgrazie. È comprensibile che, invece, tu l'abbia visto come un dono dal cielo.»

Boromir si passò una mano tra i capelli, scuotendo il capo, affranto. «Troppo sangue è stato versato, troppe case distrutte, troppe speranze spezzate da quelle nuvole nere e da quel fuoco infernale. Pensavo veramente che mio padre fosse nel giusto, e che avremmo potuto usarlo per far tornare la pace nelle nostre terre. Che pensiero sciocco e pericoloso.» Guardò verso l'ipotetica direzione di Isengard, e domandò in un sussurro:  «Dimmi, Aragorn, secondo te troveremo Merry e Pipino?»

Il Ramingo sbuffò il fumo con lentezza, fissando le fiammelle del focolare. «Il mio cuore mi dice che siano ancora vivi.» Vide il suo bel volto, segnato dalle preoccupazioni, distendersi in un'espressione rilassata.

«E allora mi fido di ciò che esso ti dice. Poiché anche io nutro la speranza di rivederli, presto o tardi. Voglio mostrar loro la nostra città, Aragorn. E voglio farlo quando il sole tornerà ad illuminare la bianca pietra di Minas Tirith, mentre brilla come una stella, e nell'aria non risuoneranno più i tuoni provenienti da Est, ma solo le chiare trombe d'argento e i canti di gioia del nostro popolo. E voglio che loro danzino e cantino con noi le loro belle ballate, con un boccale di birra in mano e la loro amata pipa nell'altra.»

Aragorn sorrise. «Sei cambiato, amico mio.»

«Cambiato?»

«Sì. Parli ancora di Minas Tirith come se fosse la donna più splendente e incantevole che abbia mai incontrato, e questo non è strano. Ma ti ho visto rinchiuderti in te stesso negli ultimi mesi; ho visto come ti stavi consumando e come rifiutavi persino di parlare. Ma per fortuna ora sei tornato ad essere il Boromir che ho incontrato tanti mesi fa a Gran Burrone. Anche se ora gli Elfi non ti scoraggiano più di tanto.»

«Oh, lo fanno, invece. Ma non dirlo a Legolas, ne approfitterebbe.» I due risero piano, poi Boromir tornò serio. «Se sono tornato l'Uomo di un tempo, e ben più consapevole dei miei limiti, lo devo solo ad una persona. Se Brethil non mi fosse stata accanto probabilmente non sarei riuscito a risalire dalle ombre. È una donna d'onore e sincera, Aragorn. Anche se ora vorrei tanto maledirla per essersene andata.»

«Non puoi sapere se sia davvero sincera, neppure la conosci.»

«Ho avuto modo di comprenderla in questi pochi giorni. Mi ha detto di cosa successe a Bosco Atro e mi ha spiegato le sue ragioni.»

Il Ramingo strinse la pipa con più forza. «Sembra che si sia confidata con uno sconosciuto, piuttosto che con quello che considerava un fratello.» Una mano dell'amico si posò sul suo braccio e si rilassò.

«Non biasimarla per il suo comportamento. Aveva paura e ne ha ancora. Teme che non creda alle sue parole.»

«Boromir, per favore, se sai qualcosa parlamene. Troppo a lungo ho atteso una spiegazione, e questa non è mai giunta.»

«Non spetta a me parlartene, Aragorn, e lo sai bene. Le ho promesso di mantenere il suo segreto, e quando lei sarà pronta ne parlerà anche con te. A volte è più semplice confidarsi con qualcuno che non conosci e che non puoi ferire, piuttosto che con una persona che ami e temi di perdere.»

Aragorn ripensò alle sue parole, così come alla sua ennesima fuga. Aveva paura di parlare. Con lui. «È stata l'amica e compagna più fidata che abbia mai avuto, Boromir. Non ho mai avuto bisogno di mandarla a chiamare, poiché giungeva al mio fianco prima ancora che avessi bisogno di lei. Halbarad alla destra e lei alla sinistra. E dopo più di un anno non riesco ancora ad abituarmi alla sua assenza.»

«Ti capisco, fratello mio. Poche sono le persone che vorrei al mio fianco, in questo momento, ma solo io so quanto mi manchino. Ma sono tornato dalla morte e sento che niente, ora, mi possa fermare. Non le frecce degli Orchi, né la minaccia che viene dall'Est. Sono pronto a lottare per riaverli accanto, e se tu combatterai con me allora la speranza non ci abbandonerà mai. Rivedremo finalmente la luce insieme, e con essa giungerà anche il tempo dei chiarimenti.»

Aragorn gli strinse una spalla. «Che le tue parole diventino realtà, Boromir, proprio come io e te siamo vivi ora!»

 

 

 

 

*

Note:

Dunque Brethil scappa ancora una volta da Aragorn... del resto il lupo perde il pelo ma non il vizio!

A presto,

Marta

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Capitolo 5
*** 05. ***


Dopo una splendida settimana in Provenza con i miei splendidi colleghi di corso, torno ad aggiornare!

Chiedo perdono per non aver trovato il tempo di rispondere ancora alle vostre gentilissime recensioni, ma sabato ho un esame e sono in alto mare! Promesso che entro stasera recupero. :)

Intanto grazie infinite, davvero. Grazie!
Buona lettura!

 

Betulla

05.

1 Marzo 3019 T. E.

 

Il tramonto calò velocemente e infuocò il cielo di sfumature e luci rosse. Dalla finestra rivolta ad Occidente, nello Henneth Annûn, i raggi del sole filtravano come in un caleidoscopio, rifratti dall'acqua della cascata che nascondeva il rifugio dei Raminghi dell'Ithilien.

C'era un movimento di persone, vestite di verde e marrone, per l'avamposto, ma nonostante il viavai di spie ed esploratori, gli Uomini erano calmi e concentrati. Il loro Capitano era giunto quel pomeriggio da Minas Tirith, ma sembrava avere la testa altrove, lontano dai confini di Gondor, verso nord, lungo le Montagne Nebbiose, fino a Imladris. Era lì che stavano i suoi maggiori dubbi e paure, lì che suo fratello era diretto, sei mesi prima, e più aveva fatto ritorno. Due giorni prima il suo cuore aveva tremato, nell'udire il fioco suono del Corno di Gondor: la speranza di rivedere Boromir si era fatta palpabile, poiché era vicino, più vicino di quanto avesse immaginato, ma con essa era giunto anche il timore, poiché per tre volte il corno aveva suonato, e probabilmente Boromir si trovava in difficoltà - e lui non era lì, per dargli il suo aiuto. Quale periglioso viaggio aveva deciso di intraprendere, per salvare il suo amato fratello minore!

Che ne fosse di lui non poteva saperlo, ma nel suo cuore covava ancora la possibilità che fosse vivo. Un senso di inquietudine l'aveva assalito, durante le notti precedenti, ma lentamente si era affievolito, fino quasi a sparire. Nei suoi sogni continuava a guardare verso nord, nella vana speranza di rivederlo tornare, sorridente e orgoglioso, ma nella realtà questo non era ancora avvenuto.

Ora, i problemi provenienti dall'Est erano più pressanti della sorte del fratello, se ne rendeva conto, e la salvezza di Gondor precedeva d'un passo quella di Boromir; eppure non riusciva a tenere la mente troppo lontana dal fratello. Perché sebbene non fosse partito con lui, Faramir gli era costantemente accanto con il pensiero.

«Faramir, un esploratore deve fare rapporto.»

Il Capitano dei Raminghi del Sud si destò dalle sue riflessioni e seguì Damrod, suo braccio destro, verso una caverna scavata dal lavoro incessante dell'acqua e ora adibita a scarna sala delle riunioni. Lì, con un tavolo al centro e una mappa del territorio, veniva esaminata la situazione del regno e, di conseguenza, venivano prese decisioni sulla difesa e sull'attacco ai confini. Dopo aver riconquistato Osgiliath con le prodezze di Boromir, la vecchia capitale di Gondor aveva resistito fino ad allora alle incursioni sempre maggiori di Mordor, ma le difese stavano nuovamente vacillando. Se Osgiliath fosse stata conquistata dal Nemico, allora il destino di Minas Tirith sarebbe stato in precario equilibrio su una corda tesa su un baratro.

L'esploratore, accompagnato da altri tre, si fece avanti, salutando con un lieve inchino il suo Capitano.

«Mio signore, porto notizie dal sud. Un esercito di Haradrim ha passato Minas Morgul una notte fa. Sono divisi in cinque grandi gruppi, a distanza di due giorni l'uno dall'altro. E hanno mûmakil con loro, numerosi e corazzati. Hanno costruito alte torri sui loro dorsi e arcieri sono appostati su di esse.»

Faramir si accarezzò il mento, pensieroso. «Quanti sono?»

L'esploratore esitò un poco, intimorito dall'idea di quell'esercito. «In tutto almeno cinquemila, mio signore. Mille per ogni gruppo.»

Damrod si mosse nervosamente dietro la schiena di Faramir. «Ogni giorno aumentano le schiere di Mordor. Ogni giorno la nostra terra viene calpestata e deturpata dai loro sudici piedi. Non possiamo permetterlo.»

«Capisco la tua rabbia, amico mio, ma non possiamo fermarli. Non tutti. Sono troppo numerosi e noi troppo pochi.» disse il Capitano dei Raminghi, alzandosi e chinandosi sulla carta della regione. «Viaggiano lungo la Via di Harad, protetti dall'incombenza delle Montagne dell'Ombra. Ma se non possiamo fermarli, possiamo disperderli e diminuire il loro numero.» Indicò la loro posizione con un dito. «Ci nasconderemo lungo il cammino, in quest'area lontana dalle montagne; la vegetazione sarà la nostra migliore alleata per celarci ai loro occhi. Dovranno forzatamente attraversarla, se sono diretti al Morannon. Inizieremo dalla parte più a nord, e nei prossimi giorni scenderemo, per evitare che scorgano le carcasse dei loro compagni e stiano in allerta. Li coglieremo tutti di sorpresa.»

Damrod si rivolse a Anborn e Mablung, buoni condottieri e guide per i loro uomini. «Radunate i vostri arcieri, ci mettiamo in marcia tra mezzora.» I due annuirono e si diressero ad organizzare le loro truppe. «Faramir, fermeremo gli Haradrim, ma non possiamo abbattere i mûmakil con così pochi uomini.»

«Non li abbatteremo, infatti. Mireremo alle loro torri.» rispose il Capitano, con un sorriso rassicurante. «Il disordine farà il resto.»

Durante la mezzora successiva ci fu un gran movimento nella caverna: Uomini che rifornivano la loro faretra di frecce, che affilavano le lame delle spade e delle lance, che ascoltavano gli ordini dei propri comandanti, che riempivano le bisacce di cibi e acqua necessari per i giorni seguenti. Quando furono pronti a partire, quattrocento Uomini, ricoperti da un mantello verde come la vegetazione e da abiti marroni, si mossero verso nord-ovest, tra quelle terre un tempo brulicanti di vita e luminosità, e ora costantemente minacciate dall'ombra proveniente da est. Il viaggio non durò a lungo, poiché il primo appostamento non era distante più di dieci miglia da Henneth Annûn. Si muovevano in silenzio, e in silenzio si scambiavano ordini. L'unico strumento di segnalazione che avrebbero usato al momento giusto era un piccolo ramo cavo, lavorato affinché producesse un suono simile a quello di un uccello, se soffiato come un corno.

Faramir e Damrod fecero schierare gli arcieri da una parte all'altra della Via e attesero, nascosti tra le fronde dei cespugli alti. In lontananza sentirono il ritmico rumore dei passi in marcia, che si faceva via via più vicino. Non dovettero attendere molto per individuare con lo sguardo il primo, numeroso gruppo di Haradrim. Erano Uomini molto alti e robusti, scuri e forti; nelle mani guantate tenevano salde lance puntute, scimitarre lucenti o archi lunghi, e alcuni - probabilmente i loro comandanti - reggevano anche scudi, decorati con zanne di mûmakil, simbolo d'onore e rispetto; molti dei loro volti erano coperti da fazzoletti scuri come la loro pelle, che tenevano liberi solo gli occhi neri, e i capelli dello stesso colore erano intrecciati di fili d'oro, dove era possibile vederli; le loro vesti erano scarlatte e dorate, rivestite di pelle sulle spalle e sul petto, così come sugli stinchi, per proteggersi dalla forza di frecce e lame nemiche.

I Raminghi non capirono le loro grida, ma non sbagliarono a pensare che fossero canzoni in vista della vicina guerra. E quando i mûmakil fecero la loro comparsa, i Raminghi sussultarono davanti a tale maestosità. Erano animali altissimi ed enormi, resi ancora più imponenti dalle torri di legno costruite sulla loro schiena; e le zanne bianche, lunghe e ricurve fin quasi a toccare il terreno, erano state armate di speroni e lance, di modo che fosse pressoché impossibile avvicinarli a piedi o a cavallo.

Faramir alzò una mano dal pugno chiuso, per intimare ai suoi di attendere ancora qualche istante. Erano fuori dalla gittata delle loro frecce per il momento. Scambiò una rapida occhiata con Damrod, che era posizionato non lontano da lui, e questo annuì. Sollevò il pugno sinistro e così fecero anche Anborn e Mablung, dall'altra parte del cammino, che avevano gli occhi ben puntati verso i loro compagni.

Attesero in perfetto silenzio e immobili come statue che gli Haradrim iniziassero a scorrere sotto i loro occhi. E allora Faramir portò alla bocca il piccolo fischietto e diede il segnale. Nel giro di pochi secondi altri gli risposero, e notarono che alcuni degli Uomini del Sud si guardarono intorno, nel sentire quei strani suoni. Ma nessuno fece in tempo a dare l'allarme, perché una pioggia di frecce cadde sulle loro teste, improvvisa come un lampo a ciel sereno. Il caos tra il nemico si diffuse velocemente e gli Haradrim iniziarono a difendersi rispondendo al fuoco, senza saper bene che bersaglio colpire. I Raminghi erano ben nascosti per essere avvistati, anche se gli Uomini del Sud potevano indovinare la traiettoria delle loro frecce e, quindi, la loro posizione. Molti caddero, presi alla sprovvista, ma molti si armarono per difendersi.

Faramir incoccò una freccia e puntò ad una delle corde che sostenevano le torri sui mûmakil. La colpì con precisione, e subito ne tagliò altre tre. La torre vacillò sotto il suo peso e per il movimento dell'animale, per poi piegarsi su un lato e trascinarsi giù tutti gli Uomini a bordo. Il mûmak venne trascinato dalle corde strette intorno al suo largo collo e perse il controllo, andando a calpestare qualunque cosa e chiunque si trovasse sulla sua traiettoria. Colpì con le zanne armate alcuni Uomini e un altro mûmak al suo fianco, prima di cadere sulle zampe, incapace di risollevarsi. I Raminghi proseguirono con l'attacco, uccidendo un buon numero di Haradrim; i superstiti pensarono bene di scappare più velocemente possibile, sperando che gli assalitori non li seguissero. E così fu.

Faramir non voleva decimarli, perché erano numericamente inferiori, e se si fossero esposti in campo aperto avrebbero perso per certo. L'attacco durò finché tutti gli Haradrim sopravvissuti non fossero fuori dal loro campo di tiro, e attesero che si allontanassero per uscire allo scoperto e tornare ad Henneth Annûn.

«Quasi la metà sono caduti.» disse Damrod a Faramir. «Se anche i prossimi appostamenti daranno questi frutti dimezzeremo le loro truppe.»

«È vero. Ma non dimentichiamo che dobbiamo coglierli di sorpresa. Oggi sembravano molto spauriti, e probabilmente perché era il gruppo in testa e non sapevano bene che tipo di resistenza avrebbero incontrato. Domani potrebbe essere più difficile.»

«Per questo dobbiamo agire come oggi. Silenziosi e letali.» proseguì Anborn, affiancandosi. «Ottimo lavoro, Capitano.»

Faramir sorrise, rincuorato dalla mano dell'Uomo che si congratulò con lui. Non aveva mai amato combattere; non provava piacere nel togliere la vita al nemico, ma solo la soddisfazione di proteggere la sua amata terra. Se avesse potuto avrebbe trovato altre vie più diplomatiche, ma era ovvio che di quei tempi non era possibile. Eppure sapeva tirare di arco con la precisione di un Elfo ed era anche era un ottimo stratega. I Raminghi dell'Ithilien avevano trovato in lui un ottimo Capitano e ne andavano orgogliosi, poiché era buono e rispettoso di chiunque, persino dei suoi prigionieri più sgradevoli. Faramir pensò che se Boromir fosse stato presente, quel giorno e i seguenti, sarebbe stato fiero del suo fratellino.

 

2 Marzo 3019 T. E.

 

Non poteva credere a ciò che sentiva. Dopo essersi ripromesso di averlo seguito ovunque, per combattere al suo fianco fino alla morte, dopo aver depositato la sua spada ai suoi piedi per giurargli eterna fedeltà, ora Aragorn lo stava allontanando. Aveva preso l'argomento con molta delicatezza, parlando del periglioso viaggio che avrebbero intrapreso con Re Théoden verso i Guadi, poi gli aveva domandato che intenzioni avesse di fare e, quando aveva risposto che avrebbe volentieri affiancato il Re del Mark in battaglia, gli aveva chiesto con gentilezza di riconsiderare le sue priorità. Inizialmente Boromir non aveva capito dove volesse andare a finire con quel discorso, ma appena aveva sentito "Il tuo posto non è qui", tutto era diventato più chiaro e lo aveva fatto ribollire di frustrazione.

Ora era davanti al suo amico, con i pugni stretti lungo i fianchi e lo sguardo contrariato di uno che non accettava una sconfitta come quella - perché era evidentemente una sconfitta, per lui.

«Boromir.» gli stava dicendo, il viso che tentava di rassicurarlo con un sorriso. «Vorrei averti accanto in questa battaglia, come amico e come uno dei migliori soldati che abbia mai conosciuto. Ma Gondor ha bisogno di te. Sei stato troppo a lungo lontano dalla tua amata terra, e ora più che mai devi farvi finalmente ritorno.»

Boromir scosse il capo, senza capire. «Hai già dimenticato le tue parole? Proprio ieri mi dicesti che avremmo varcato il cancello di Minas Tirith insieme, come Re e Sovrintendente! Ho giurato di servirti fino alla morte!»

«E lo faremo, te lo prometto. Ma non posso tornare ora, amico mio, lo sai bene. Non ho il diritto di sconvolgere Gondor e le sue genti comparendo dal nulla e dichiarandomi erede al trono.»

«Lo faresti con il pieno diritto, invece!»

«Sì, è vero. Ma voglio guadagnarmi la fiducia del mio popolo e aiutarlo a risollevarsi da questo periodo di oscurità, prima ancora di avere una corona sul capo. Voglio essere degno del titolo che porterò per il resto della vita.» Aragorn sperò vivamente che il Capitano della Torre Bianca comprendesse le sue ragioni.

«Il ritorno del Re porterebbe speranza.»

Il Ramingo gli mise le mani sulle spalle, stringendogliele. «Ho fatto una promessa, Boromir, e intendo rispettarla. Attraverseremo Minas Tirith fianco a fianco, tra le bianche strade di pietra e la musica di benvenuto delle chiare trombe d'argento. L'ho promesso. Ma spetta a me scegliere come e quando tornare a Gondor. Vorrei solo che mi appoggiassi: te lo domando come amico.»

L'altro annuì, una mano sul braccio del Dùnadan. «Lo sai che lo farò sempre, Aragorn, a meno che non mi chieda di rimanere rinchiuso tra le mura della mia città mentre tu vai in guerra.» L'Uomo sospirò. «E sia! Tornerò a Minas Tirith, perché non posso negare che una gran parte del mio cuore lo desideri ardentemente; infine il mio viaggio sarà davvero in solitudine, come avevo temuto prima ancora di partire da Imladris. Ma accetto la tua richiesta, perché ha buoni fondamenti. Solo, non farti ammazzare, nel frattempo.»

L'erede di Isildur rise, abbracciandolo. «La cosa deve essere reciproca, amico mio. Sei ancora indebolito, non sfruttare troppo il tuo corpo.»

L'altro annuì. «Arrivederci, Aragorn. Abbi cura di te, e dei piccoletti, se dovessi rincontrarli.» Boromir esitò un poco. «Porta i miei saluti anche a Brethil, ti prego. Non sarei qui se non fosse stato per lei.»

«La ringrazierai ancora una volta di persona, quando vi rincontrerete. Ricorda una cosa, Boromir: non perdere mai la speranza, anche se sembra che abbia abbandonato questo mondo.»

L'Uomo di Gondor annuì. Poi salutò Legolas, Gimli e per ultimo Gandalf, che gli sorrise con fare paterno. «Bada alla tua vita, amico mio. Ci rivedremo molto presto.»

«Arrivederci, Gandalf.»

Li osservò partire poco dopo, accompagnando il Re e suo nipote Éomer verso la battaglia. Fu quando non riuscì a distinguerli più tra tutti quei cavalli e corazze, che montò sul suo cavallo, lo stesso che lo aveva accompagnato in quel lungo viaggio verso Nord, e fece rotta verso Gondor, verso la sua casa; e lo fece con qualche preoccupazione in meno e qualche nuova. Quando aveva rivisto Gandalf, incorniciato da quel candore, era caduto in ginocchio, con gli occhi lucidi per la commozione; ma quando aveva raccontato loro di Merry e Pipino, al sicuro da qualche parte in quella foresta inquietante, il suo cuore pareva essersi sollevato da un peso che gli gravava sulle spalle e lo appesantiva. Avrebbe voluto vederli con i suoi occhi, assicurarsi che stessero veramente bene, sentire la loro voce e le loro risate, il calore dei loro corpi tra le braccia. Ma per il momento si accontentava della parola dello Stregone.

Eppure, se quelle notizie gli avevano portato gioia, provava ancora irritazione per essere stato abbandonato anche da Brethil, anche se l'idea che fosse in mezzo ad una battaglia gli faceva dimenticare ogni astio e non lo tranquillizzava affatto. Aveva capito che sapesse difendersi, perché da una vita non faceva altro, ma continuava a chiedersi: sarà viva? Starà ancora combattendo? È ferita? Chi la curerà?

Erano tutte domande che non potevano avere ancora risposta e che lo preoccupavano; ma si rese conto che pensando a lei e al destino di Aragorn e dei suoi amici, la sua mente risultava abbastanza occupata da non essere disturbata da pensieri più cupi. Nonostante fosse lontano dalle persone che più l'avevano capito in quel buio periodo della sua vita, sentiva che fossero vicino a lui, accanto a lui, in ogni istante, nella sua testa, nei suoi ricordi. Era un pensiero confortante, del resto, alzare lo sguardo al cielo stellato e pensare che probabilmente, ovunque fossero, anche loro stessero osservando lo stesso spettacolo.

 

3 Marzo 3019 T. E.

 

Si trovava nel buio totale, a galleggiare nel vuoto di quel nero abissale e spaventoso. Tentava di rimettersi in piedi, per trovare un equilibrio che non c'era, ma non trovò alcun appiglio, né terreno che i suoi piedi potessero toccare.

E non riusciva a respirare, perché in quel vuoto non c'era ossigeno. Sentiva solo la pressante presenza della paura invaderle la mente come un miasma, che la stordiva e le impediva di muoversi.

Poi qualcosa, da quel buio infinito, apparve. Qualche piccolo luccichio, come dell'argento sotto la luce flebile della luna. Un imponente massa, in quel nero come la pece, che la fece sentire piccola come un Hobbit nel castello del più grande Re di sempre.

E d'improvviso sentì grida, grida da ogni dove, possenti e terrificanti come il suono di tanti corni, che le fecero vibrare le vene ai polsi. Il clangore di una battaglia, il cozzare di spade contro altre spade, il sibilo di frecce che le sfioravano le orecchie.

Lentamente la visione si fece più nitida. Un esercito infinito la circondava. Nere montagne sovrastavano quel luogo, dove la battaglia si combatteva aspramente, ma la sagoma di quella che pareva la chiglia di una nave, chiara e splendente, si stagliava sul campo di guerra.

E poi ci fu il gelo mortale che la vista di tanto sangue le provocò. Era sulle vesti di qualcuno, davanti a lei, ma non riuscì a vedere di chi si trattasse, perché le dava le spalle. Reggeva qualcosa in mano, ma quando tentò di gridare per richiamarlo all'attenzione, alcun suono uscì dalle sue labbra.

Brethil si ritrovò a respirare con affanno, la schiena poggiata sul dorso di Nerian, placidamente sdraiato dietro di lei. Sbarrò gli occhi, per rendersi conto che non si trovava nel vuoto nero, né una battaglia si stava combattendo nelle vicinanze, né quella figura era stata colpita da un'ascia sul petto. E, più importante, non c'era sangue intorno a lei, né addosso a lei. Tentò di riprendersi dallo spavento, guardando le nuvole cariche di pioggia, e rimase immobile, con una mano sul petto, come a calmare il battito impazzito del suo cuore.

Era stata in viaggio da sola per due giorni e aveva combattuto per una notte contro gli Isengardiani, provenienti da nord. Erano arrivati dalla riva occidentale, che ormai era quasi del tutto sguarnita di protezione, e si erano riversati sui Rohirrim, schierati sull'altra sponda, con la stessa forza dell'Isen dopo una cascata. Ora si trovava all'accampamento di Erkenbrand, Comandante del Mark Occidentale, situato poco più a sud dalla battaglia sui Guadi, stanca e spossata; ma ogni volta che aveva arrischiato a chiudere gli occhi quel sogno prendeva immediatamente possesso della sua mente, tormentandola e lasciandola senza fiato. Si risvegliava con le lacrime agli occhi, sudata e paralizzata dal terrore. Eppure non sapeva cosa avesse potuto provocarle tanta paura; forse quel buio, forse quel sangue... ma il sangue di chi?

Bevve un sorso d'acqua, per rinfrescare la bocca arsa, e attese qualche minuto prima di mettersi a sedere. Il pensiero volò subito ai quattro compagni in cerca dei loro piccoli amici, e si domandò se li avessero trovati. Avevano sicuramente incontrato Éomer e la sua éored, e sperò vivamente che avesse dato loro delle notizie rassicuranti. E inevitabilmente il viso di Boromir si affacciò davanti ai suoi occhi grigi, triste e amareggiato dalla sua scelta di partire. Eppure lui non era solo, poiché Aragorn era con lui, e così gli altri suoi due strani amici. Per quanto si fosse affezionata a quell'Uomo, lui non aveva bisogno di lei, ora che aveva ritrovato il Ramingo. In realtà lei non serviva a nessuno, perché qualsiasi cosa di bello avesse tra le mani finiva per rovinarla e non voleva più macchiarsi di simili errori. Ora la sua via era verso una battaglia dura, da cui difficilmente sarebbe uscita viva. Gli Isengardiani erano forti e risoluti, e giungevano contro gli scudi dei Rohirrim con la stessa forza di una mareggiata, e sebbene i Cavalieri resistessero, molti dei soldati e dei loro capitani erano consapevoli che non avrebbero retto oltre.

Guardò i soldati dell'Ovestfalda ancora in piedi, perché non riuscivano a dormire, incuranti della pioggia scrosciante che quella notte inzuppava tutte le terre e le loro teste; c'era inquietudine nell'aria, era palpabile. Brethil, che restava più in disparte, con il cappuccio calato sul viso, strinse la spada di fattura elfica tra le dita, accarezzando la fodera con riverenza. Ripensò a quando Aragorn, di ritorno da Lothlórien, gliel'aveva data, accompagnando il gesto con le parole che ricordava perfettamente: "Questa è una spada dei Noldor, una lhang' *, e si chiama Celeboglinn**. Mi è stata data dalla Bianca Dama di Lórien, da donare a te, con la speranza che il suo suono limpido possa essere una luce di destrezza e forza contro le armi del nemico". Era stato un vero onore per lei ricevere un simile dono e, pur non abbandonando la spada del padre, posta sulla schiena insieme all'arco e le frecce, da quel giorno Celeboglinn pendeva sul suo fianco sinistro, fida compagna di ogni battaglia. Era una spada a due mani, con l'impugnatura molto lunga e ricurva, di un legno argentato come gli alberi di Lothlórien, intarsiato delle preghiere dei Noldor, così come la lama, incisa con i lineari caratteri elfici che ne narravano la storia. E nonostante i colpi e il sangue che aveva visto, era luminosa e liscia come se fosse stata appena forgiata, e grazie agli allenamenti dei gemelli Elladan ed Elrohir, amici e compagni dei Raminghi del Nord, ora sapeva combattere alla maniera degli Elfi, con la loro grazia e la loro spietatezza.

Stava ripensando ai suoi allenamenti, quando un soldato anziano, ma ancora alto e possente, le si avvicinò, cautamente. L'armatura lucente era rigata da innumerevoli gocce, ma nonostante l'assenza di luna, quella notte, splendeva ugualmente.

«Mia signora Ceorfan, non riesci a dormire neppure tu?» disse Erkenbrand, in piedi a pochi passi da lei. Era l'unico, tra i Rohirrim, che usasse quell'appellativo rispettoso nei suoi confronti, perché non poteva non badare al fatto che fosse una donna, sebbene in battaglia tutti la scambiassero per un uomo. Ceorfan, d'altronde, era un nome in Rohirric che aveva imparato ad accettare, sebbene richiamasse ai tagli sul suo viso.

Brethil scosse il capo. «Cupe sono queste notti, per sperare di trovare riposo.»

«Eppure dovresti, non sappiamo con certezza se Saruman attaccherà nuovamente e con quante forze. Dobbiamo tutti riprendere le energie, tu specialmente.» Il vecchio Comandante sorrise, percependo uno sguardo inceneritore sotto quel cappuccio. «Hai combattuto valorosamente, la scorsa notte, sarai stanca.»

«Lo sono, davvero. Ma vorrei cadere in un sonno così profondo da non aver la possibilità di sognare.»

Erkenbrand annuì, comprendendo le sue parole. «Gli incubi afferrano tutti i nostri animi, perché vivono delle nostre paure. Ma i sogni sono fatti anche per avere una fine, come tutte le cose, prima o poi. Non lasciare che ti turbino.»

L'Uomo si allontanò poco dopo e lei sperò che le sue parole potessero avere un fondo di verità. I sogni terminavano nel momento in cui si svegliava, non doveva averne timore. Eppure l'idea di rivedere ancora una volta quel vuoto e quel sangue la terrorizzava.

Un esploratore giunse trafelato dal suo superiore, ridestandola dai suoi pensieri turbolenti. «Mio signore, Comandante! Un cavaliere bianco si avvicina al campo!»

Brethil si alzò, per sgranchirsi le gambe, e allacciò la cintura della fodera di Celeboglinn alla vita, stringendola sul mantello grigio. Posò una mano sull'elsa e una sulla criniera di Nerian, che sonnecchiava ancora. L'agitazione e l'eccitazione si diffuse per tutto l'accampamento, ma non si avvicinò ad Erkenbrand e ai suoi uomini finché non vide con i suoi occhi il cavaliere in arrivo. Bianco come la prima neve di dicembre era il suo mantello, così come candidi erano capelli e barba lunga, e il manto del suo destriero, che pareva risplendere nonostante l'assenza delle stelle; teneva un lungo bastone nella mano destra, anch'esso bianco, e una spada sul fianco sinistro. Si accorse di aver gridato il suo nome solo quando iniziò a correre verso di lui.

«Gandalf!»

Il vecchio Stregone si voltò verso il suono della sua voce e, nel riconoscerla, i suoi occhi penetranti si rallegrarono e brillarono sotto le folte sopracciglia. «Ben incontrata, Brethil.»

«Gandalf... notizie orribili mi dicevano che fossi morto!»

Lui ammiccò. «Lo ero, infatti. Ma non è questo il momento né il luogo per parlarne. Sono qui per avvisarti, Erkenbrand, che urge l'aiuto dei tuoi uomini al Fosso di Helm. Isengard è completamente svuotata e il suo esercito lo assedia.»

Immediata fu la reazione del Comandante del Mark Occidentale, che gridò ai suoi Rohirrim di sellare i cavalli e prepararsi alla battaglia. Il via vai di soldati che correvano da una tenda ai loro destrieri fu intenso, ma né Gandalf né Brethil se ne curarono.

«Vieni, amica mia, cavalca al mio fianco.» le disse lo Stregone. «Potremo discorrere nel breve viaggio che ci separa dalla battaglia.»

Brethil corse a destare Nerian e lo montò con velocità, raggiungendo Gandalf pochi istanti dopo.

«Lesti, cavalieri di Rohan! Il Re ha bisogno delle vostre lance!» gridò lo Stregone.

Mille uomini sui loro destrieri seguirono i tre di testa, Gandalf, Erkenbrand e Brethil, e marciarono al galoppo verso lo scontro. La prima mezzora di viaggio fu silenziosa, tra Brethil e lo Stregone, quest'ultimo più preoccupato di dire a Erkenbrand della grandezza dell'esercito di Saruman. «Non so se le mura del Fosso di Helm siano ancora ben difese, ma ho visto con i miei occhi quale esercito si sia mosso da Isengard. Orchi, Uruk-hai e Dunlandiani, armati delle più nere intenzioni, oltre che di metallo e di tanta forza fisica.»

«Le Mura Fossato sono ben resistenti e sono in piedi da centinaia di anni. Deve essere un esercito immenso se Saruman spera di conquistare il Trombatorrione

«E lo è, credimi. Per questo è importante muoversi. Giungeremo all'alba e caricheremo il nemico dalla cresta orientale, se tu sei d'accordo.»

Il Comandante annuì, stringendo tra le dita il suo scudo rosso. «Per il Re! Per Rohan!»

In risposta ricevette grida e canti di guerra, e sotto i rapidi lampi che illuminavano di quando in quando il loro cammino, galopparono il più velocemente possibile, accompagnati da tuoni e dal sibilare del vento.

Gandalf si affiancò alla donna e a lei parve che i raggi della luna si fossero spostati sulla sua veste candida e sui suoi capelli bagnati.

«Aragorn è in battaglia accanto a Re Théoden.» le disse, spiando la sua reazione con la coda degli occhi.

«Perché si trova lì? Era alla ricerca di due Hobbit.»

«Ha trovato me, invece!» fece Gandalf, calmo. «I nostri piccoli amici sono più che al sicuro. Molto più di quanto non lo siamo noi.»

Un senso di sollievo la tranquillizzò. «Boromir sarà felice di saperli vivi.»

«Ah, Boromir!» esclamò lo Stregone, come se si fosse appena ricordato qualcosa. «Aragorn mi ha detto di come gli hai salvato la vita, sono fiero di te, Brethil. Ma mi è sembrato piuttosto contrariato dal fatto che te ne sia andata.»

«Aragorn?»

«No, no, Boromir. Aragorn, nei pochi istanti che ci siamo potuti concedere, mi ha detto che ha accettato la tua scelta e non ti ha fermato. Anche lui ha bisogno del tuo stesso tempo, bambina mia.»

«Sì, lo capisco.» rispose in un sospiro. «Boromir è con lui, dunque?»

Gandalf scosse il capo. «No, lui si è diretto ieri verso la sua città. Aragorn lo ha pregato di raggiungere Minas Tirith prima possibile, perché di lui ha bisogno. E quando dico che lo ha pregato, intendo che ha dovuto insistere parecchio prima di riuscire a convincerlo.»

Brethil non poté trattenere un sorriso. «Il suo desiderio più grande è quello di combattere accanto al suo Re.»

«Ma se la sua città cade non ci sarà alcun re.» notò Gandalf. «È un miracolo che Boromir sia ancora vivo, dopo quello che è successo. Dama Galadriel mi ha confidato di aver visto oscurità davanti al suo cammino, e io stesso continuo a vederla ancora ora. Ma non può permettersi di temporeggiare in una battaglia che non è la sua. Gondor ha bisogno del suo Capitano.»

«Mi spiace che sia dovuto partire da solo.» sussurrò la donna, asciugandosi gli occhi dalla pioggia battente. «Il silenzio non è un buon compagno di viaggio.»

«No, non lo è, specialmente per lui.» Gandalf abbandonò il suo sguardo preoccupato, per rivolgerle un caloroso sorriso. «Ma deve compiere questa parte del suo percorso con le sue forze. Tu e Aragorn sarete i suoi sostenitori, ma non per ora. Quindi non preoccuparti di lui, per il momento.»

La cavalcata proseguì per le ore successive, e Brethil apprese come Gandalf fosse riuscito a lasciare il buio e le fiamme di Moria, rinascendo a nuova vita. Gli parve più saggio ma anche più ringiovanito; agile cavalcava senza sella Ombromanto, il capo dei Mearas, che da lui si era lasciato domare, ma nonostante la nuova veste, rimaneva pur sempre il Gandalf che aveva conosciuto, e saperlo al suo fianco, a calpestare la terra come lei, la tranquillizzava parecchio e la faceva sentire meno sola. Lui, che non aveva mai dubitato né dei suoi buoni propositi né delle sue parole. Doveva molto a quello Stregone.

Raggiunsero i declivi che circondavano la fortezza di Helm prima dell'alba e udirono distintamente i clamori della battaglia, dall'altra parte. Nessuno sapeva cosa aspettarsi una volta superata la barriera dei colli, ma mai immaginarono la distruzione che videro con i loro occhi. C'erano ancora migliaia di Orchi, Uomini Selvaggi e Uruk-hai, che continuavano a combattere, oltre una marea di cadaveri. Parevano tante formiche che prendevano d'assedio un formicaio nemico. Ma ciò che più li lasciò sgomenti furono i detriti enormi di roccia sparpagliati per il campo di battaglia: le mura del Fossato erano state fatte saltare in aria, con quale diavoleria nessuno seppe dirlo.

E allora Erkenbrand, non sopportando oltre la vista di quella rovina, portò alle labbra un corno nero e lo fece suonare con tutto il fiato di cui disponeva. Dai loro alleati fino alle schiere nemiche, si voltarono occhiate di sorpresa, gioia e nuovo terrore. E Aragorn riconobbe Gandalf, sul suo bianco destriero, e Brethil al suo fianco, che aveva sfoderato Celeboglinn e scintillava alla luce dell'alba come una stella d'argento. Il nemico vacillò e tremò quando Gandalf e il Comandante spronarono i loro destrieri alla carica, e il migliaio di soldati alle loro spalle faceva lo stesso. La loro carica fu devastante e s'infransero sul nemico come le onde sulle rocce. E altri corni di vittoria risposero a quello di Erkenbrand, quando i pochi superstiti di Saruman abbandonarono i loro posti e le armi per trovare rifugio in quella foresta apparsa dal nulla dietro le loro spalle. Nessuno di quelli che vi entrarono fecero più ritorno.

Brethil portò la sua attenzione verso quel bosco che non ricordava di aver mai visto, e ne rimase impressionata. Le chiome degli alberi si muovevano, nonostante la mancanza di vento, e qualche urlo soffocato proveniva dal suo interno, per poi svanire nel nulla. Sentiva i Rohirrim domandarsi che nuova diavoleria fosse, e molti si rivolsero a Gandalf come se fosse opera sua. Ma, enigmatico come sempre, lo Stregone rinviò ogni spiegazione ad un altro momento, quando avrebbero raggiunto Isengard. A tempo debito, disse, tutto sarebbe stato più chiaro.

«Brethil, ben ritrovata!» la salutò Éomer, dopo essere rimasto parecchi giorni senza vederla. «Mi domandavo che fine avessi fatto.»

«Sono stata un poco occupata.» replicò lei, stanca ma appagata dal risultato della battaglia. «Ma ora sono qui, nuovamente al servizio del Re.»

Théoden, che era nei paraggi con Aragorn, si avvicinò. «Allora lascia che ti ordini di andare a riposarti, amica mia. Perché questa non è la prima battaglia che combatti, in questi giorni. Dico il vero, Erkenbrand

«Assolutamente, sire! Senza contare il fatto che non abbia chiuso occhio per quasi tutta la notte.»

«Suvvia, non trattiamola come una ragazzina, miei signori.» disse Éomer, mentre lei lo ringraziava con lo sguardo. «Ella combatte con la grazia appresa dagli Elfi, ma ha il coraggio e la forza di un Uomo. Ognuno di noi dovrebbe prendere esempio da lei.»

Brethil chinò il viso, nascondendo il rossore di quelle guance sfregiate. Quando sollevò lo sguardo si accorse che Aragorn la stava osservando con quello che pareva orgoglio. La salutò con un cenno del capo e lei non poté frenare un timido sorriso.

«Andiamo, Re Théoden!» disse Gandalf. «Tu e la tua scorta necessitate di riposare, così la mia. Andiamo a desinare e a rilassarci, così da essere freschi per la partenza di questo pomeriggio.»

Così, mentre il Re e i suoi uomini si ritiravano per riposare prima della partenza, Éomer e Erkenbrand si occuparono degli ultimi sopravvissuti nemici. I soldati di Rohan catturarono Uomini del Dunland in particolare, che vennero spogliati delle loro armi e costretti a scavare fosse per seppellire i caduti e per spostare le carcasse dei nemici.

Aragorn, Legolas e Gimli aiutarono per un poco i soldati di Rohan a rimuovere i cadaveri dei caduti, un numero spaventosamente alto, tra cui parecchi ragazzini e uomini che avevano veduto troppi inverni o troppo pochi.

«Se non fosse giunto l'aiuto di Gandalf le difese non avrebbero retto oltre.» disse il Ramingo.

«Quella diavoleria esplosiva... non avevo mai visto niente di simile prima d'ora.» fece Gimli, ancora scosso. «Disintegrare con così tanta facilità pietra solida come questa su cui ho ben saldi i piedi! Solo uno Stregone come Saruman poteva compiere una cosa simile.»

«Nessuno di noi aveva mai visto una cosa simile, amico mio.» disse Aragorn. «Ma d'altronde non ci si poteva aspettare onestà da un uomo infido come lui, soprattutto in battaglia.»

«Per questo dovremo stare in guardia quando andremo ad Isengard.» disse Gandalf, avvicinandosi a loro e poggiandosi sul suo bastone. «Saruman si sentirà alle strette, ora più che mai; non ha solo perso la battaglia al Fosso di Helm, ma sta per perderne anche quella contro la natura che lui stesso ha risvegliato. Sarà pronto a tutto pur di risollevarsi.» Poi lo Stregone sorrise, gli occhi limpidi che s'illuminarono di sollievo. «Ma ora mettiamo da parte le preoccupazioni imminenti e lasciamo riposare la nostra stanca mente per un'ora. È quasi tempo di pranzo!»

 

 

 

 

*

Note: *La lhang' è un tipo di spada che non viene menzionato nei libri del Professore, ma è stata inventata appositamente dalla Weta Workshop per il film. Mi piacciono troppo, quindi ho deciso di ficcarcele dentro!

Ceorfan è un nome inventato da me, in Rohirric significa taglio.

**  Glinn o Celeb, significa Suono d'argento.

 

 

Grazie a tutti i lettori!

A presto,

Marta.

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Capitolo 6
*** 06. ***


Buona domenica, lettori miei!

Ci avviciniamo ad un punto cruciale della storia e ammetto che non mi soddisfi molto il modo in cui l'ho reso.

Ho provato a riscrivere la prima parte di questo capitolo innumerevoli volte e, dopo innumerevoli tentativi, mi sembra di aver miseramente fallito.

Sperando che questa ultima versione vi piaccia, banale e scialba che sia, non esitate a bastonarmi, davvero.

Ogni vostra critica mi servirà per riscriverlo ancora una volta - sperando che sia l'ultima. :D

Buona lettura!

 

Betulla


06.

5 Marzo 3019 T. E.

 

"E tu, sciocca errante del Nord! Porti addosso il ricordo di un gesto vile, che recherà solo dolore e distruzione in animi già corrotti dall'ombra. Come puoi vivere con un tale fardello, nato dalla sciocchezza di un sogno? Tenti di recuperare ciò che hai perduto, di sistemare ciò che hai distrutto, ma non riuscirai a salvare niente, nessuno."

Quella voce penetrante aveva continuato a perseguitarla per il resto della giornata, incutendole timore, rabbia e vergogna. Sapeva che non avrebbe dovuto badare alle parole di Saruman, poiché proprio attraverso la sua voce riusciva a far capitolare chiunque non fosse munito di ingegno e forza di spirito; ma a lei quest'ultima dote mancava da tempo e non poté evitare di ripensare a quello che aveva sentito e fatto, e di maledirsi. Non aveva mai del tutto perso la speranza di recuperare la fiducia dei suoi più cari amici, ma ora non riusciva più a trovarla in quel mare di dubbi e timori.

E come se non bastasse, quel sogno che la stava tormentando era tornato a disturbare nuovamente la sua quiete instabile, mentre sonnecchiava prima della partenza. C'era sempre quel vuoto, quella battaglia di cui vedeva solo i contorni sfuocati, il riflesso di un cancello lucente e alto, da cui provenivano urla e orrore. E quel sangue, tutto quel sangue addosso a quella misteriosa figura, e su di lei. Il soldato ferito teneva in mano uno stendardo, che sventolava al vento: l'albero bianco era bello, lucente in tutto quel buio, e le sette stelle parevano gemme che brillavano di luce propria.

Aveva sbarrato gli occhi.

Lo stemma di Gondor!

Ma c'era un particolare che non si vedeva da anni: una corona alata.

Il Re era tornato!

Come le altre volte, si era svegliata sudata e lacrimante, ma con la consapevolezza di sapere che il pericolo risiedeva nel vicino e alleato regno del sud. Ma chi fosse il soldato non riusciva a comprenderlo.

Aveva fuggito qualsiasi sguardo, quel pomeriggio, così come aveva parlato poco. Neanche aver conosciuto quei due piccoli Hobbit, che banchettavano tra le rovine delle mura di Isengard come se fosse la normalità, l'aveva aiutata a risollevare il morale. Aragorn l'aveva controllata, notando quell'ombra sul suo viso stanco, e nella notte calata su Edoras, decise di avvicinarla, per la prima volta dopo mesi.

Brethil era seduta sul pendio sud del colle di Dol Baran, nella cui valle si erano accampati. Un vento gelido soffiava da nord e si avvolse nel suo manto grigio, rabbrividendo. Avvertì la presenza di qualcuno sentendo odore di tabacco. Pensò fosse Gandalf, o addirittura uno dei due Hobbit, ma mai avrebbe creduto di incontrare lo sguardo di Aragorn appena si voltò.

«Posso sedermi un po' accanto a te?» le domandò, in attesa. Lei annuì, ma non parlò.

Restarono in silenzio per parecchi minuti, come se fossero soli con i loro pensieri, e nessun'altro attorno. Gli amici e i soldati della scorta di Re Théoden dormivano, tranne qualche curioso che stava irrequieto sul suo letto di felci secche, pensando di giocare con la fortuna e con un oggetto che avrebbe fatto bene a tenere lontano da mani e occhi.

Poi il Ramingo spezzò il silenzio e non indugiò in inutili giri di parole. «Ho tentato di capire le ragioni di quel gesto che apparentemente non ne aveva. Ho tentato davvero, eppure non ci sono riuscito.» esordì l'Uomo, inspirando un po' di fumo, per soffiarlo poco dopo con calma. «È passato un anno. Perché torni ora?»

Brethil prese un respiro più profondo degli altri, prima di parlare. «Non sono tornata. Evidentemente era destino che ci rincontrassimo.»

«Strano destino, questo.» commentò lui, senza ironia. «Sei stata tu a decidere di scappare senza spiegazioni.»

«Dimmi Aragorn.» fece lei, tentennando un poco, la voce tremante. «Dimmi, cambierebbe qualcosa se ti dicessi il motivo per cui liberai Gollum?»

Il Dùnadan si voltò a guardarla. «Cambierebbe tutto. E le cose sarebbero andate diversamente se me ne avessi parlato prima.»

«Aragorn, non cambierebbe niente, e tu lo sai. Non merito il tuo perdono.»

«Spetta a me decidere se lo meriti o meno. Mettiti alla prova.» Aragorn era sincero quando parlava. Desiderava davvero sapere le ragioni di quella che un tempo era una sua amica fidata, capire i suoi motivi e magari sostenerli, oppure condannarli. Ma aveva bisogno di sapere, per placare la sua curiosità e il suo rancore, che da troppo tempo ormai lo stavano consumando.

«Io... ho paura di mettermi in gioco.» confessò la donna, chinando il capo. «Mi hai dato così tanto nella vita e io ho rovinato tutto in pochi minuti. È una colpa troppo grande per metterla da parte e raccontarti ogni cosa, Aragorn. Non so neanche quale forza mi stia trattenendo dal muovere le gambe e scappare di nuovo.»

Il Ramingo l'afferrò per un braccio. «Basta scappare, Brethil. Non te lo permetto più.» La vide sospirare con stanchezza e si domandò quale fardello portasse dentro, come aveva detto anche lo Stregone traditore. Gli vennero in mente le parole che aveva sentito e chiese: «"...un tale fardello, nato dalla sciocchezza di un sogno". Che cosa voleva dire?»

Brethil si morsicò nervosamente l'interno del labbro inferiore. Sarebbe stato quello il momento in cui gli avrebbe rivelato tutto? Quello il momento in cui Aragorn le avrebbe voltato le spalle definitivamente? O sarebbe stato il momento del perdono e del ritrovo di due vecchi amici che troppo a lungo erano stati separati? Non sapeva trovare risposte, perché qualsiasi previsione tentasse di fare in quei brevi istanti di ragionamento finivano catastroficamente.

Si rese conto di stringere tra le dita un innocente ciuffo d'erba solo quando sentì dolore sul palmo della mano.

Non puoi scappare per sempre.

Così le aveva detto Boromir, giustamente. Non avrebbe potuto continuare a farlo. Non se Aragorn la fissava con decisione e non aveva intenzione di mollare la stretta al suo braccio. Brethil osservò la luna, ancora troppo alta in cielo. Nemmeno l'arrivo del nuovo giorno, che era ancora molto distante, avrebbe potuto salvarla quella volta.

«Molto bene, allora.» disse infine, con una fatica tale che pareva stesse trasportando sulle spalle le rovine delle Mura Fossato saltate in aria durante la battaglia. Fu così che gli raccontò dal principio l'intera faccenda, dal primo momento in cui il padre le aveva raccontato del suo sogno, fino a quando lei stessa lo aveva avuto, al limite della sopportazione. Ma, sebbene parlò con dovizia di dettagli proprio come aveva fatto con Boromir, quella volta decise di guardare il suo interlocutore in viso, occhi contro occhi, per dimostrargli tutta la sincerità di cui disponeva. Non avrebbe abbassato lo sguardo, non gli avrebbe dato un singolo motivo per dubitare della sua buona fede.

E Aragorn la ascoltò in silenzio, senza interromperla un solo istante, mentre la sua mente ricostruiva tutto quel mosaico di notizie apprese e celate che per mesi aveva tentato di ricomporre, senza riuscirci. Al termine del racconto continuò a tacere, fumando la sua pipa con lo sguardo perso sui cespugli neri che si disperdevano nella vallata. Quel momento di attesa fu massacrante per la donna, perché non riusciva a capire cosa gli stesse passando per la mente.

«Gandalf sapeva, dunque?» le domandò, atono. Brethil annuì e lui sollevò lo sguardo al cielo, incontrando la luce di Eärendil, la più luminosa delle stelle. «Ti ricordi cosa ti dissi quando tuo padre morì?»

«Sì. Saresti stato la mia stella guida, qualunque cosa fosse accaduta.»

«E allora dimmi, amica mia, ti sembrai un bugiardo quando feci quella promessa? Non mi hai parlato del tuo sogno perché non ti fidavi di me?»

La donna lo guardò con stupore, non solo per quelle parole che le sembravano senza senso, ma anche per come si era rivolto a lei. Amica mia. «Aragorn, questa è la sciocchezza più grande che abbia mai sentito venir fuori dalle tue labbra! Come puoi pensare che non mi fidassi di te? È solo che capii che non potevo chiederti di liberare Gollum dopo tutta la fatica che facesti per catturarlo. E io non potevo lasciar parlare quel sogno come se non mi turbasse ogni notte.»

«Avresti dovuto parlarmene comunque.» le disse, risentito.

Brethil chinò il capo. «Lo so. In ritardo, ma ora lo so. Mi dispiace, Aragorn, sebbene le mie scuse non possano cambiare il passato. Gollum è libero di scorrazzare ovunque, e così anche la mia stupidità.»

L'ombra di un sorriso apparve sul volto dell'Uomo, ma qualsiasi cosa stesse per dire Brethil non poté ascoltarla, perché la sensazione di gelo che provarono in quel momento li zittì entrambi. Poi udirono un urlo stridulo e un gran movimento provenire dall'accampamento, e non persero tempo a correre per controllare cosa stesse accadendo. Trovarono Gandalf chino su Pipino, gli occhi sbarrati e il tono imperioso che gli ordinava di confessare ciò che aveva visto nel palantír. Il sollievo di scoprire che lo Hobbit non avesse detto niente dei loro piani all'Oscuro Signore, ma avesse carpito invece un po' delle sue intenzioni, svanì nel terrore che li paralizzò sul posto quando un'ombra alata passò sopra le loro teste, oscurando le stelle e la luna. Il grido del Nazgûl soffocò quello dei soldati in panico, che si chinarono e si portarono le mani alle orecchie. La bestia roteò verso Orthanc, poi velocemente sparì verso nord.

Gandalf prese con sé Pipino e lo caricò su Ombromanto, pregando che gli altri lo seguissero più velocemente possibile, al riparo verso il Fosso di Helm. Brethil fu tentata di seguirlo, sperando di riuscire a stare al passo del suo destriero, ma lo Stregone era già lontano. Avrebbe voluto averlo accanto, ora che era nuovamente tornato, per consigliarla e rassicurarla con la sua saggezza. Chissà se lo avrebbe mai più rivisto?

Si misero in marcia poco dopo, Gimli dietro Legolas e Merry con Aragorn, e cavalcarono velocemente, per non perdere tempo. Ma un esploratore giunse dalle retrovie, avvisando il Re che fossero seguiti da un gruppo di cavalieri, così veloci che stavano per raggiungerli.

Aragorn e Brethil smontarono, estraendo le spade, pronti a combattere se ve ne fosse stato il bisogno, mentre i Rohirrim impugnarono le lance, in allerta. Le figure si avvicinavano velocemente, ora illuminati dalla luna, e parevano in numero eguale ai Cavalieri di Rohan, se non anche più numerosi. E allora Éomer gridò, affinché lo udissero e capissero dal suo tono ostile che non avessero voglia di perdere ulteriore tempo. E con stupore e gioia, si scoprì che quelli erano Raminghi del Nord, giunti da lontano in aiuto del loro Capitano Aragorn.

Brethil vide Halbarad abbracciare l'amico e chinò lo sguardo, nascondendo il viso sotto il cappuccio. Non era pronta ad affrontare anche lui, e tutti in una volta!

«Mae govannen, thêl.»

La donna si voltò verso uno dei due gemelli, senza riuscire a sopprimere un gemito di stupore nel vedere anche loro. Si trattava di Elladan, l'unico tra i due che la chiamava in quel modo. Sorella. E sorrise di gioia. «Mae govannen, mellonamin!»

Elrohir le si affiancò dalla parte opposta. «E così abbiamo dovuto viaggiare lungo tutta la Terra di Mezzo, per trovarti infine a Rohan.» L'occhiata che le regalò le fece capire che sapeva tutto e non aveva bisogno di giustificarsi in alcun modo. «Andiamo, cavalca accanto a noi, poiché molti sono i racconti che vorremo ascoltare e riferire.»

La donna annuì, improvvisamente più sollevata dalla loro presenza. Ma prima che potesse voltare le spalle ai Raminghi per mettersi in marcia, Halbarad la vide e la riconobbe. Rimasero a guardarsi per secondi che parvero ore, poi Aragorn gli mormorò qualcosa e l'altro parve sorridere tristemente, salutandola con un cenno del capo.

Cavalcarono per il resto della notte e i tre parlarono molto di ciò che avevano fatto in quel lungo periodo di lontananza. Elladan si preoccupò subito dei suoi allenamenti, temendo che senza le loro lezioni potesse aver perso la tecnica, ma Elrohir lo rimproverò bonariamente, perché sapeva per certo che la loro allieva prediletta non avrebbe mai dimenticato i loro consigli - ed effettivamente così era stato.

«Se avremo tempo a nostra disposizione sarò ben lieta di mostrarvi quanto ho dimenticato e quanto, invece, ricordo.» disse Brethil.

«Ahimè, temo che non avremo modo di rilassarci con gli allenamenti, ma ti prometto che appena le acque si calmeranno saremo a tua disposizione.» rispose Elrohir.

Proseguirono in silenzio per qualche tempo, ma i gemelli non avevano bisogno di parlare per capire che qualcosa in lei non andasse.

«C'è qualcosa che ti turba, thêl.» disse Elladan. «Me ne accorgo solo guardandoti negli occhi.»

Brethil sospirò. «In realtà molte cose mi turbano, ultimamente. Ma un pensiero che ricorre ogni notte mi sta spaventando. Avrei voluto chiedere consiglio a Gandalf, ma ahimè è partito chissà dove. E non voglio aggiungere preoccupazioni ad altre preoccupazioni nella mente di Aragorn.»

Elrohir le sorrise. «Non hai ancora compreso che non puoi nascondere i tuoi pensieri a quell'uomo? Saprà sempre quando avrai paura, o sarai felice, proprio come noi possiamo leggere il tuo cuore.»

«Per questo se necessiti di consiglio non esitare a parlarcene, thêl.» continuò Elladan.

La Dùnadan non poté far altro che confidarsi con loro. Halbarad, che cavalcava qualche metro più avanti, udì tutto e posò lo sguardo sullo stendardo che la Dama di Gran Burrone gli aveva affidato, ricamato dalle sue mani per l'Uomo che amava. E s'incupì.

«Dunque, la tua visione è a Gondor e avverrà presto, poiché lì la guerra giungerà per prima.» commentò Elrohir. «Temi per la vita di qualcuno?»

«Temo per la vita di molti, in tempi come questi.» sospirò Brethil. Il pensiero volò subito a Boromir, che entro quel giorno sarebbe dovuto giungere alla sua città, sperando che non avesse incontrato contrattempi lungo il cammino. Si chiese come stesse, se l'Ombra avesse ancora oscurato i suoi pensieri o se stesse lentamente tornando l'Uomo di sempre, in attesa del suo Re. Poi l'idea che potesse essere lui l'Uomo del sogno giunse improvvisamente e la spaventò. Chi altri poteva portare lo stendardo del Re di Gondor, se non il futuro Sovrintendente?

Elladan fece avvicinare il cavallo, osservandola bene. «Lle tyava quel, thêl? Naa rashwe?»

«No, nessun problema, sto bene. Pensavo ad un amico.» rispose Brethil, sorridendo per rassicurare il Mezzelfo. «L'ho salutato qualche giorno fa e mi chiedo come stia.»

«Si trova a Gondor?» domandò Elrohir, indovinando.

«Sì, credo di sì. Diretto finalmente verso la sua città.» La donna scacciò quel brutto presentimento, rivolgendosi ai suoi compagni di viaggio per domandare loro qualche altro racconto delle loro avventure al nord.

Quando raggiunsero i rilievi che proteggevano il Fosso di Helm mancava poco all'alba. Avevano il tempo di dormire fino all'ora di pranzo e riprendere le forze; poi sarebbe stata l'ora delle decisioni. Erkenbrand li accolse appena misero piede nel Trombatorrione. C'era ancora molto da fare - la voragine nelle mura era terrificante e un lavoro che avrebbe occupato molto tempo - ma i cadaveri del nemico erano stati bruciati, mentre quelli dei loro fratelli tumulati poco più avanti, nella Conca Fossato. I viaggiatori si distesero immediatamente sulle loro brande, stanchi e spossati, ma Brethil tardò un poco a prendere sonno. Lo Hobbit Merry era sdraiato accanto a lei e dormiva già profondamente, così come il russare del Nano rimbombava per tutta la stanza di pietra. Più volte Aragorn gli aveva tirato qualche gomitata per farlo smettere, ma riusciva a placarlo solo per qualche secondo.

Brethil osservò il soffitto, rigirandosi su un fianco e osservando Halbarad, poco più avanti. Aveva paura di chiudere gli occhi, perché temeva che quel buio tornasse a turbarla. E aveva bisogno di riposarsi e di tranquillizzarsi. Ma alla fine la stanchezza ebbe la meglio e neanche si rese conto di quando chiuse gli occhi.

Le sue paure divennero fondate ed ecco nuovamente quella furiosa battaglia, le grida, i rumori metallici di spade che cozzavano contro altre spade, scudi e armature. Rivide il soldato di spalle e lo stendardo che teneva in mano, mentre con l'altra reggeva la spada per difendersi. Quella che le era parsa come la chiglia di una nave, si rivelò essere una città bianca, di pietra, su più livelli.

Minas Tirith.

Qualcuno combatté contro il soldato e lo mantenne distratto, finché un'altra figura non calò un'ascia contro di lui. Prima che potesse vedere la morte dell'uomo l'immagine cambiò e tutto divenne nuovamente nero. Vide la sagoma di qualcuno giacere in terra, ricoperto del suo stesso sangue, ma non riuscì a scorgere il volto, né gli indumenti. E sbarrò gli occhi quando il viso di Boromir comparve disperato e in lacrime, sporco e con qualche ferita da taglio sulle guance.

«Boromir!»

Brethil si mise a sedere, allungando una mano verso il vuoto, come se potesse sperare di salvarlo. Ma l'Uomo non si trovava lì con lei, né quella era Minas Tirith. Si guardò intorno, con il fiato corto, temendo di aver svegliato qualcuno, ma fortunatamente i presenti erano troppo stanchi per badare ai suoi incubi. Incontrò subito lo sguardo di un Dùnadan, Elegost, che doveva aver dormito poco, in piedi sull'uscio della porta.

«Brethil, va tutto bene?» le chiese in un sussurro, avvicinandosi.

Lei scosse il capo. Sembrava terrorizzata.

«Vieni, ti faccio portare la colazione.» le disse, porgendole una mano per alzarsi.

«È tardi?»

«Mancano ancora un paio d'ore a mezzodì, non preoccuparti.»

Elegost la portò gentilmente nella sala principale, divisa da due file di colonne laterali, in cui erano stati allestiti dei tavoli in legno. Vi trovò alcuni Raminghi, tra cui Aragorn, Halbarad, Elladan ed Elrohir, che non avevano dormito se non poche ore. Elegost le portò delle mele, pane, burro e acqua, e si sedette accanto a lei, allo stesso tavolo dei quattro. Brethil mangiò in silenzio, mentre i gemelli discorrevano tra loro in elfico e i Raminghi rispondessero di quando in quando.

Aragorn osservò l'amica e si accorse che qualcosa non andasse. «Cosa ha turbato il tuo sonno?» le domandò.

La donna soppesò le parole, prima di parlare. Scambiò una veloce occhiata con i due Mezzelfi, che la incoraggiarono con un sorriso. «Temo che Boromir sia in pericolo.»

«Tutti noi lo siamo, lui compreso. La guerra è alle porte, Brethil.»

«Ho visto la sua morte.» disse in un sussurro, come se il solo pronunciare quella frase potesse oscurare il sole.

«Un sogno premonitore?» domandò Halbarad, parlando per la prima volta dal loro incontro.

Brethil annuì, chiedendosi se avesse udito la discussione di quella notte con i gemelli. E se soprattutto Aragorn gli avesse raccontato la sua versione dei fatti. Fu esortata da entrambi a raccontare del suo sogno, e lei lo fece, sebbene riluttante. Non potevano prendere sul serio quello che stava dicendo, soprattutto dopo quello che aveva fatto: non c'erano prove, infatti, che i suoi sogni fossero realmente collegati con avvenimenti che prima o poi sarebbero accaduti. Alla fine del racconto si sentì infinitamente stupida e chinò lo sguardo sulla sua colazione.

«Hai visto Minas Tirith, eppure non ricordo che ci sia mai andata.» commentò Halbarad.

«Infatti è così. Boromir me la descrisse. Solo vedendola con i miei occhi potrei dire se la mia visione sia veritiera o meno.» Brethil si mordicchiò un labbro, nervosamente, e Halbarad le sorrise, portando una mano sulla sua.

«Non temere il mio giudizio. So tutto. In realtà, l'ho sempre sospettato.» le disse.

Aragorn si strinse nelle spalle vedendo gli occhi sbarrati di lei. «Abbiamo avuto molto di cui discutere, questa notte. E il tempo stringe, non potevo lasciarlo all'oscuro.»

«Conoscendoti, thêl, avresti atteso un altro anno per confidarti anche con lui.» disse Elladan, sereno.

«Tuo padre mi aveva parlato del suo sogno.» le confessò Halbarad. «E avevo capito da tempo che anche tu fossi turbata da qualcosa. Quando quel giorno ti vidi ferita sul viso capii che avevi portato a termine ciò che ti aveva raccontato Aeglos, o che magari anche tu avessi avuto la stessa premonizione. Non ne feci parola con nessuno, neanche con Aragorn, sebbene mi facesse male vedere come avesse accolto la notizia del tuo gesto. Ma non potevo tradire la segretezza promessa a tuo padre.»

Brethil prese un respiro profondo, cercando di calmare il battito impazzito del suo cuore. «Allora voi... voi  mi perdonate?»

«Non c'è niente da perdonare.» Halbarad chinò lo sguardo, cercando le parole migliori. «Tranne il fatto che te ne sia andata. Quello non posso dimenticarlo facilmente. Ho atteso di rivederti ogni giorno e non ho mai perso la speranza che tornassi, prima o poi. Ho atteso inutilmente, ma alla fine ti ho trovata comunque.»

La donna trattenne a stento uno singhiozzo, ma le lacrime le bagnarono comunque gli occhi e il viso. «Mi dispiace così tanto, io...» disse, nascondendosi il volto tra le mani. «Io vorrei poter rimediare, davvero, io...»

«Basta lacrime, basta colpe.» la interruppe Aragorn, cingendole le spalle con un braccio. «Che tutto questo ti serva da lezione, è la punizione migliore che possa meritarti. Che ti serva per farti capire che non devi temere i nostri pensieri, né i tuoi.»

E così Brethil pianse tutte quelle lacrime che non aveva versato in quel lungo anno e fu come liberarsi definitivamente da quelle catene che la tenevano imprigionata tra le paure e gli errori. Fu come rivedere la luce del sole dopo mesi di oscurità, come riprendere a camminare dopo troppo tempo chiusi in una cella troppo piccola per muoversi. Mai aveva osato sperare una simile reazione e avere il loro appoggiò le diede l'illusione che avesse fatto la cosa giusta.

Si alzò, guardando i quattro con gli occhi rossi, ma con un sorriso sulle labbra. «Permettetemi di servirvi ancora una volta. Permettetemi di cavalcare al vostro fianco, fino alla morte. Voglio rinnovare il mio giuramento, su tutto ciò che ho di più caro al mondo.» Tolse Celeboglinn dalla fodera e, inginocchiandosi, la porse al Capitano dei Raminghi del Nord. «Se con la vita o con la morte posso servire te e la Stella di Arnor, allora io, Brethil figlia di Aeglos, lo farò.»

Aragorn sorrise, chinandosi per prenderla per un braccio e farla sollevare. «È un diritto che non ti ho mai sottratto, Brethil; ma sono felice che tu lo abbia rinnovato. Eppure sento che le nostre strade si dovranno dividere ancora una volta, forse l'ultima, chissà! Temi per Boromir e io, dopo aver ascoltato il tuo racconto, mi preoccupo con te. Ahimè, se solo Gandalf avesse atteso qualche ora prima di partire, forse lui avrebbe potuto portargli l'avvertimento.»

Brethil capì dove volesse giungere con le parole. E sebbene lei volesse recarsi a Minas Tirith per metterlo in guardia, non poteva ora lasciare la sua famiglia, i Dúnedain, in un momento come quello. Lo avrebbe rimpianto per il resto dei suoi giorni.

«La nostra strada porta verso la Città Bianca di Gondor, ma per un altro percorso, più lungo e pericoloso.» disse Halbarad.

«Vi seguirei anche tra il fuoco di un drago.»

«Lo so, non ne dubito.» fece Aragorn, posando le mani sulle sue spalle. «Ma mi hai promesso di badare a Boromir, ricordi? I tempi bui non sono terminati, per lui, e sarei più tranquillo se fossi accanto a lui.»

«Aragorn, non puoi chiedermi di andarmene proprio ora.» tentò la donna, con voce roca per il pianto.

«Non ti chiedo di andartene, infatti. Ti chiedo di prendere un cammino diverso dal mio. Ci incontreremo nuovamente in guerra, amica mia. E allora gioirò nel vedere due delle persone più importanti della mia vita combattere al mio fianco.»

Brethil guardò i gemelli e Halbarad, per trovare il consenso nei loro occhi, e infine annuì. «Se è questo il tuo volere, lo farò. Partirò oggi stesso.»

«Molto bene.» Aragorn sorrise, abbracciandola. «Buona fortuna, amica mia.»

«Ci rivedremo presto, thêl.» fece Elladan, che la strinse tra le braccia dopo il gemello.

La donna salutò per ultimo Halbarad, che le sussurrò poche parole all'orecchio. Sembrava tanto un addio, piuttosto che un arrivederci, ma Brethil evitò di pensarlo, altrimenti non sarebbe riuscita a partire. Elegost cercò lo sguardo della giovane Dùnadan, per salutarla un'ultima volta, ma non lo trovò. Senza voltarsi, Brethil andò a cercare Éomer, poiché il Re era ancora nei suoi alloggi a riposare, e lo trovò con Gamling e l'Hobbit di nome Merry, mentre chiacchieravano un po' in tranquillità prima della tempesta.

«Brethil, già in piedi?» le domandò l'Uomo. Si accorse subito che avesse qualcosa di importante da comunicargli e la esortò a parlare.

«Devo partire per Minas Tirith il prima possibile, Éomer. Ti prego di darmi il permesso e di avvisare il tuo Re.»

Éomer corrugò la fronte. «Nessun giuramento ti lega alla corona di Rohan.»

«Lo so, ma trovo corretto chiedere il consenso, prima di sparire nel nulla, senza lasciar detto niente.» rispose lei. «Non partirei se non fosse strettamente necessario, ora più che mai vorrei rimanere con la mia gente. Ma ho un urgente affare da compiere, a Gondor.»

«Ebbene, allora vai e non perdere ulteriore tempo in spiegazioni, amica mia.» Éomer si chinò per salutarla. «Numerosi e grandi sono stati i tuoi servigi, non lo dimenticheremo. Spero di rivederti presto e in circostanze migliori.»

«Così spero anche io, Éomer.» Brethil abbracciò anche lui e salutò con un cenno del capo l'altro Uomo e lo Hobbit, che la fermò prima che si potesse recare al suo cavallo.

«Mia signora, scusami se rubo il tuo prezioso tempo, ma... vorrei domandarti un favore, se fosse possibile.» esordì Merry, sollevando lo sguardo verso la donna.

«Chiedi pure, mastro Meriadoc, e vedrò se potrò aiutarti.»

«Ecco, io non so dove siano andati Gandalf e Pipino, ma se dovessi rivedere mio cugino prima di me potresti mandargli un mio messaggio?» Brethil sorrise e annuì. «Digli che non deve aver paura e che sono sicuro che renderà onore all'avventatezza dei Tuc. E che gli voglio bene.»

«Riferirò parola per parola, puoi starne certo. Buona fortuna, messer Hobbit! Magari un giorno tornerò nella tua bella Contea e tu e tuo cugino mi farete da guida.»

«Lo spero, mia signora!»

Brethil corse ora alle stalle, trovando subito Nerian che la salutò con uno sbuffo. «Amico mio, devi volare per i prossimi quattro giorni. Ci fermeremo solo per farti riposare un poco.»

Lasciò il Fosso di Helm a tutta velocità, sotto lo sguardo di Aragorn e Halbarad che non la lasciarono andare finché non divenne un puntino nero disperso nella vegetazione.

 

6 Marzo 3019 T. E.

 

La muraglia del Rammas Echor fu ben visibile ai suoi occhi alle prime luci del mattino e Boromir sentì un rassicurante calore al cuore nel rivedere le mura più esterne della sua città. C'erano molti Uomini al lavoro sulla parete nord, intenti a riparare una parte del muro, in vista dell'imminente guerra, ma fermarono tutte le loro attività quando scorsero il cavaliere giungere a gran velocità verso di loro. Il capo di quel gruppo di persone si fece avanti, alzando una mano per intimargli di fermarsi. Ingold, così si chiamava l'Uomo, scrutò il viaggiatore, stentando a riconoscerlo, d'un primo momento.

«Salute, mio buon Uomo. Permetti ad uno stanco soldato di raggiungere la sua città?» chiese Boromir.

Ingold sgranò gli occhi appena vide il corno spezzato in due pendere su un fianco e la sua lama possente nella fodera. «Mio signore, Boromir! Perdonami, ma oscure notizie circa la tua morte sono giunte in città. Troppo tempo passò dalla tua partenza e nessuna notizia circa la tua avventura è mai giunta.»

«Eppure sono qui, vivo e desideroso di rivedere la mia famiglia e di aiutare il mio popolo. Non ti biasimo per non avermi riconosciuto: cavalco un destriero di Rohan, mi ricopro con un mantello di fattura elfica e devo avere un viso invecchiato di dieci anni, ormai! Suvvia, fammi passare, cosicché possa riposarmi e tu possa continuare il tuo lavoro.»

Ingold chinò il capo e portò una mano sul petto per salutarlo, dando ordine di aprire il cancello. Boromir attraversò il Pelennor velocemente, notando con desolazione che i campi coltivati non fossero più animati dai mandriani e dai fattori come un tempo, segno che molti preferissero rimanere al sicuro dietro le mura della città, piuttosto che fuori, quando il male giungeva da ogni direzione. Circa dieci miglia dovette percorrere prima di giungere al Grande Cancello di Minas Tirith, dove incontrò sorpresa e gioia. Lo salutarono con tutti gli onori del caso, ringraziando la sorte che gli aveva permesso di tornare a casa e rallegrati dalla speranza che la sua vista portò. Con Boromir nuovamente a capo della Torre Bianca c'era ancora il miraggio della salvezza. Ripercorrere i sette livelli della città fu emozionante e doloroso, poiché poche erano le persone e i canti che si vedevano e udivano lungo le strade di pietra. Capì che l'ombra era ormai sopra le loro teste e la tempesta stava per giungere e liberare tutta la sua forza contro di essi. Giunse alla Cittadella, dopo aver recitato le parole d'ordine di ogni cancello, e lasciò il cavallo ad un soldato, mentre un altro lo accolse immediatamente.

«Mio Capitano, quale gioia poterti rivedere in giorni così funesti!» esclamò Beregond, della Terza Compagnia della Cittadella. «Temevamo che le terre del nord ti avessero rapito e che mai più avresti fatto ritorno a casa. Poi udimmo il flebile suono del tuo corno e il nostro cuore raggelò dalla paura.»

«Non nego di aver incontrato in più occasioni la morte, l'ultima volta essa mi aveva quasi braccato. Ma sono tornato, perché avevo promesso che non avrei lasciato la mia città in preda alla disperazione e ai supplizi. Molte cose saranno cambiate, dalla mia partenza, e ho bisogno di ricevere tutti gli aggiornamenti possibili. Dove è Faramir?»

«Si trova nell'Ithilien del Nord, mio signore. Sire Denethor lo ha mandato per bloccare le incursioni degli Haradrim. È partito cinque giorni fa. Un messaggero ha riferito che i loro avamposti stiano indebolendo il nemico, ma sono gruppi troppo numerosi e ben equipaggiati per poterli disperdere tutti.»

Boromir annuì, mentre camminavano frettolosamente nel Cortile della Fontana, verso la Casa del Re. Diede una breve occhiata all'Albero Bianco ormai morto da secoli e si chiese se, con l'arrivo di Aragorn, sarebbe rifiorito come un tempo.

«Mio padre?»

«Sire Denethor è stato avvisato del tuo arrivo, ti attende nella Sala del Trono, mio signore.»

Boromir entrò nell'imponente e scarno salone, diviso da alte colonne nere in tre ampie navate. Gli unici elementi di decoro che raccontavano la storia di quel luogo erano le alte e silenziose figure dei Re, poste in fila lungo il cammino ad osservare i passanti. Al centro della stanza, sull'estremità opposta al portone d'ingresso, stava il Trono del Re, sollevato da numerosi scalini, mentre accanto, più in basso, c'era quello nero e disadorno del Sovrintendente, che stava seduto a capo chino. Appena sentì i passi riecheggiare per il salone, Denethor sollevò lo sguardo e incontrò quello felice del primogenito.

«Mio figlio! Mio figlio è tornato!» esclamò, alzandosi in piedi e allargando le braccia, in attesa che Boromir lo raggiungesse. Si abbracciarono con forza, ridendo sollevati. «Sapevo che saresti tornato, sapevo che non avresti deluso tuo padre.»

Il volto di Boromir si rabbuiò. «Sarei ben felice di dirti che saresti fiero di me, padre, ma ci sono molte cose che dovrò raccontarti e, ahimè, credo che rimarrai scontento del tuo debole figlio.»

«Debole? Non dire sciocchezze, Boromir. Di quali crimini ti sei macchiato, per parlare così? Suvvia, sediamoci dietro un tavolo e facciamo colazione insieme. Molte sono le notizie che voglio che mi racconti, così come molte sono quelle che io devo raccontare a te. Ma ora vieni, figlio mio. Ah, figlio mio!»

Erano mesi che Denethor non sorrideva così gioviale. Cattivi presagi e la tempesta proveniente da est erano tutti buoni motivi per incupirlo di giorno in giorno; vedeva lontano, lui, cose che gli altri non potevano immaginare, cose che avrebbero turbato anche il più temerario degli Uomini. Ma ritrovare il figlio favorito, che temeva di incontrare solo dopo la morte, fu una luce contro qualsiasi oscurità. E Boromir si dispiacque ripensando a ciò che aveva fatto, perché era più che sicuro che suo padre lo avrebbe disprezzato come mai in vita sua, quando avrebbe scoperto del suo momento di debolezza. Così, tra una coppa di vino rosso, verdure e carne, Denethor esortò il primogenito a parlargli del suo lungo e periglioso viaggio, dal momento in cui aveva lasciato Gondor fino all'arrivo a Imladris. E Boromir gli raccontò dei tre, infiniti mesi a cavallo, solo con i suoi dubbi; gli parlò degli Elfi e di ciò che aveva appreso riguardo il sogno di Faramir, del Mezzuomo che portava il Flagello di Isildur, ma senza rivelargli la decisione del Consiglio, poiché un giuramento di segretezza lo legava; ma quando parlò di un altro Uomo, alto e fiero, un Ramingo!, presente a Imladris, il Sovrintendente interruppe il racconto, poiché aveva capito di chi stesse parlando.

«Thorongil, si faceva chiamare, ai tempi di mio padre, Ecthelion II. Diceva di essergli devoto, e grande si faceva nel ricordare che avesse servito anche Thengel, Re di Rohan, pur non essendo un Rohirrim, e che avesse viaggiato a lungo nella sua tetra vita. Ma io ho sempre sospettato su di lui e sulla sua vera identità, e indovinai anche! Lui e Mithrandir hanno sempre tentato di soppiantarmi, oscurandomi anche a mio padre. Come può essere quel Ramingo l'erede di Isildur? C'è più sangue dell'Ovesturia nelle mie vene, che in quelle di quell'Uomo.»

«Permettimi di dissentire, padre, poiché ho potuto conoscere l'Uomo di cui parli e lo tengo in grande considerazione. È un amico fidato e più nobile di quanto il suo aspetto possa raccontare. E non credo che abbia mai voluto rivaleggiare con te, né con nessun altro. Egli ha rispetto per la Casa dei Sovrintendenti e, sebbene io stesso gli abbia chiesto di tornare immediatamente a Gondor, per prendere il trono che gli spetta di diritto, ha rifiutato. Prima di rivendicare ciò che è suo vuole aiutarci, padre. Un Uomo che desidera solo una corona sul capo non avrebbe atteso così tanto a lungo, e anzi! Non avresti potuto toccare lo scettro bianco del Sovrintendente, se avesse voluto.»

Denethor rimase in silenzio, dubbioso eppure colpito dalle parole del figlio. Boromir sembrava fidarsi di quell'Uomo, più di quanto non facesse con le parole del padre. Forse c'era del vero in tutta quella storia, oppure Mithrandir aveva soggiogato al suo volere anche il suo primogenito, dopo avergli rubato la mente di Faramir?

Boromir continuò il racconto, parlando del viaggio di ritorno compiuto con altri otto compagni. Non si riferì mai alla Compagnia dell'Anello, né alla loro destinazione; e ancor meno gli parlò di ciò che aveva fatto ad Amon Hen. Così saltò a piè pari l'accaduto, raccontandogli dell'attacco degli Uruk-hai e del suo vano tentativo di salvare i suoi piccoli amici.

«Figlio mio, il cuore mi dice che mi nascondi qualcosa. Ma non voglio tediarti con le domande di un vecchio, se queste ti portano dolore. Magari nei giorni seguenti soddisferai tutte le mie curiosità. Mi parlasti di vergogna e disonore, eppure per ora ho sentito solo di coraggio e dignità. Ma vai pure avanti e raccontami di come hai ucciso tutti quei nemici con la tua sola forza!»

Boromir sorrise, senza allegria. «Mi sopravvaluti, padre. Più frecce mi colpirono e nonostante tentai di non soccombere, alla fine caddi e la vista mi si annebbiò. Non potevo fare più niente per i miei amici, niente per la mia anima. Poi arrivò lei, la mia salvezza. È grazie a lei che sono qui, padre.»

«Chi? Di chi parli?»

«Brethil, figlia di Aeglos, cara amica di Aragorn, e ora anche mia. Mi salvò dalla morte e dalle tenebre. Pensai che fosse vergognoso essere guarito e protetto da una donna, ma lei è diversa. Ha combattuto per tutta la vita, e serve Re Théoden da qualche tempo. Ha difeso le terre al Nord dal male, insieme ai Raminghi, poiché anche ella è una discendente di Númenor. Avrei voluto presentarti la donna che ha salvato tuo figlio, ma la guerra l'ha chiamata verso Isengard e non so se sia ancora su questa terra.»

Denethor chinò il capo. «Non vi è disonore nell'essere caduti dopo una battaglia come la tua, figliolo. Non temere il mio rimprovero. E non vi è disonore neanche nell'essere accuditi da qualcuno, sia esso uomo o donna.» Gli sorrise benevolo, e Boromir vide in quel viso stanco più rughe di quante ne ricordasse. Il Male dell'Est lo stava consumando così velocemente che lo spaventò. «Ora sei tornato a casa, è ciò che più conta. Gondor ha bisogno di te.»

«E io sono pronto a dare il mio aiuto, padre. Non aspettavo altro. Ora raccontami tutto quello che è successo in mia assenza, cosicché possa aggiornarmi e iniziare oggi stesso con il mio lavoro.»

Padre e figlio discussero per le due ore successive, con l'ordine che nessuno osasse interromperli.

«Ho inviato un messaggero a Rohan affinché si muova velocemente per rendere onore all'antica amicizia che ci lega, e darò ordine di accendere i fuochi su Amon Dîn. Il tempo stringe, Boromir, la guerra incalza. Sauron sta preparando un esercito senza pari: Orchi, Uruk-hai, Haradrim e Uomini delle Terre Selvagge, mannari e mûmakil attraverseranno il Nero Cancello. Abbiamo bisogno di tutto l'aiuto possibile. Tra due giorni arriveranno anche i nostri vicini, Forlong di Lossarnach e il nostro amico e parente Imrahil, Principe di Dol Amroth. E altri arriveranno  dal Morthond, dall'Anfalas e dal Lamedon. Ma temo che non saranno sufficienti.»

«Il coraggio è l'arma migliore, in momenti come questi.» disse Boromir. «Saremo in numero inferiore, ma la nostra forza sarà triplicata dalla voglia di difendere il mondo che conosciamo.»

Denethor sorrise. «Ben detto, figlio mio. Ora terminiamo la nostra colazione. Una lunga giornata ci attende.»

 

 

 

 

*

 

Grazie a tutti i lettori!

A presto,

Marta.

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Capitolo 7
*** 07. ***


Buona domenica, lettori miei!

Inizio col scusarmi per il piccolo ritardo, ma numerosi contrattempi mi hanno tenuta lontana da Word - leggasi esame di progettazione che si avvicina inesorabilmente e calcoli strutturali a non finire.

I prossimi aggiornamenti saranno un pochino più lenti, di una settimana al massimo, perché voglio concludere almeno altri due capitoli prima di proseguire con la pubblicazione.

(per la serie: stiamo lavorando per voi.)

 A presto, e grazie a tutti i fedeli lettori e a chi si prende la briga di recensire ogni capitolo! Siete una gggioia. :)

Buona lettura!

 

Betulla


07.

10 Marzo 3019 T. E.

 

Pipino sbuffò per l'ennesima volta, annoiato a morte e oppresso da quell'aria pesante che giungeva da Est. Sembrava in arrivo un'enorme tempesta, ma come gli aveva spiegato Beregond, non c'era niente di naturale in quel tempo. Il Signore di Mordor si divertiva così, prima di muovere le sue pedine: spediva quelle esalazioni calde e scure, per togliere loro anche la piacevole visuale delle stelle durante la notte e dei raggi del sole nella mattina. Pipino avrebbe dato anche una gamba pur di rivedere il cielo limpido della Contea, la luce che faceva brillare intensamente l'erba fresca della Terra di Tuc, sdraiato sulle morbide colline con Merry, a fumare la miglior erba pipa del Decumano Sud, a ridere e a scherzare, senza lugubri pensieri sulla fine del mondo. Rimpiangeva quei giorni come mai prima di allora. La vista di quelle nere montagne, che nascondevano gli orrori di Mordor, gli opprimeva il cuore. Come potevano sperare di vincere contro quel male così intenzionato a distruggere tutto?

Sospirò nuovamente, poggiato contro il freddo parapetto in pietra, e si chiese che ore fossero. Aveva una fame tremenda e gli sembravano trascorsi giorni da quando aveva messo qualcosa sullo stomaco. Ma il cibo era razionato, in vista della guerra, e non poteva tediare il buon Targon, magazziniere e dispensiere della Compagnia delle Guardie. Un altro buon motivo per rimpiangere le innumerevoli colazioni e i pranzi della Contea, pensò tristemente sentendo lo stomaco brontolare senza ritegno. Si mosse verso la Cittadella, annoiato e abbattuto. Gandalf era sparito chissà dove, Beregond aveva iniziato il suo turno di guardia e sire Denethor, a cui aveva offerto i suoi servigi fino a qualche ora prima, era occupato in riunione con Boromir e i nuovi aiuti giunti dalle regioni vicine. Si sentiva terribilmente solo. Chissà come se la stava cavando Merry?

Attraversò il Cortile della Fontana, ma si fermò appena sentì le voci concitate di qualcuno, più in basso. Si mise in punta di piedi, per sbirciare da una feritoia il livello inferiore, là dove Beregond gli aveva mostrato le Case di Guarigione. Vide due Uomini trasportare qualcuno su una barella, di cui uno gli parve Ingold, l'Uomo che aveva fermato Gandalf al cancello nord del Rammas Echor. Si disse che, non avendo altro da fare, avrebbe potuto avvicinarsi e vedere se avesse potuto rendersi utile in qualche modo. Non voleva continuare a girarsi i pollici, era troppo stancante anche per lui!

Scese una profonda scalinata a chiocciola, situata sotto la bianca Torre di Ecthelion, e attraversò un lungo corridoio illuminato da torce. Fu quasi tentato di svoltare nella porticina laterale che portava alla dispensa, ma prese coraggio e vi passò dritto. Sbucò all'aria aperta in un grazioso giardino, con numerosi alberi e fiori. Pipino, inspirando il profumo dell'erba, capì come fosse possibile guarire almeno nello spirito in un luogo come quello. Gli Uomini con la barella erano spariti nel complesso di pietra, e si diresse verso la porta d'ingresso. C'era un via vai di donne, dai copricapo bianchi e abiti beige e dai grembiuli candidi, che portavano catini d'acqua e panni puliti. Pipino si appiattì contro il muro quando una guaritrice gli passò accanto, senza vederlo e rischiando di calpestarlo.

«E tu chi sei? Levati dai piedi e lasciami lavorare in pace! Non è un luogo per venire a giocare, giovanotto!» sbraitò la donna anziana, che non si preoccupò troppo di spintonarlo senza grazia.

Pipino non seppe se ridere per la situazione o se offendersi per l'affronto di essere scambiato per un bambino. Ma prima che potesse parlare, un Uomo lo riconobbe e gli restituì un po' della dignità perduta.

«Vecchia Ioreth, la prossima volta che parlerai al Mezzuomo riservagli un po' più di rispetto! Egli è Peregrino Tuc, un Hobbit della Contea al servizio del tuo signore!» esclamò Ingold.

Ioreth sgranò impercettibilmente gli occhi piccoli e neri, notando solo in quel momento la divisa dello Hobbit, ma non accennò a nessuna scusa. «Avrebbe potuto essere anche il Re in persona, ma mi intralciava comunque! Voglio solo fare il mio lavoro, soldato. E ora, spostati anche tu, sei sulla mia strada!»

Ingold scosse il capo, mestamente; poi si rivolse allo Hobbit, sorridendo. «Devi perdonarla, è una brava donna che non sa tenere a freno la lingua, purtroppo. Ma è la migliore, qui.»

Pipino scrollò le spalle. «Non importa, davvero. Un Hobbit in una città di Uomini: era il minimo che potesse succedere! Piuttosto, cosa sta accadendo?»

«Ho soccorso una donna al cancello della muraglia; è giunta al galoppo, stremata. Temo che abbia cavalcato per giorni senza fermarsi. L'unica cosa che ha detto prima di svenire è stata: Boromir, dove è Boromir? Poi ha perso i sensi ed è caduta dal cavallo.» spiegò l'Uomo. «Ma temo che dovrà attendere, almeno finché il Sovrintendente e suo figlio terminano di discutere con i Dignitari giunti da lontano per aiutarci. La donna, chiunque essa sia, può aspettare.»

Uno strano senso di inquietudine colpì Pipino. «Questa donna aveva delle cicatrici in viso?»

Ingold annuì, perplesso. «Sì, quattro brutti graffi. La conosci? Chi è?»

Ma lo Hobbit era già corso dentro le Case, seguendo le voci di Ioreth e sbucando nella stanza della Dùnadan. La vecchia, vedendolo, riprese a sbraitargli contro, ma non poté far nulla per fermarlo. Pipino guardò il volto pallido di Brethil e le prese una mano tra le sue.

«Giovanotto, ti ho detto di andartene!»

Pipino mostrò tutta la sua risolutezza, ed esclamò: «È una mia amica, lascia che le stia accanto!» In realtà non poteva dire realmente che lo fosse, perché poco aveva parlato con quella donna schiva che sembrava essere molto unita a Grampasso, ma visto che lui non aveva niente da fare avrebbe volentieri atteso che si risvegliasse, e magari si sarebbe potuto prendere cura di lei. Del resto, doveva a quella donna la vita di Boromir.

Con le mani sui fianchi, Ioreth lo fissò duramente, poi si arrese. «D'accordo, giovanotto, vedi almeno di renderti utile. Fatti portare del cibo, temo che questa donna non mangi niente da giorni.»

«Agli ordini, mia signora!» fece d'impeto il Mezzuomo, che al solo sentir parlare di cibo si era già fiondato da Targon. Questo gli preparò un vassoio con pane, burro, qualche mela e funghi - funghi freschi, per la Contea! Sperò vivamente che Brethil non amasse i funghi, l'avrebbe volentieri aiutata a terminarli per non lasciare vergognosi avanzi.

«Potresti mettere qualche altro po' di pane, per favore? O una mela... a Brethil piacciono molto entrambi.»

Targon lo guardò scettico, ma non obiettò. Pipino, così, tornò traballante ma soddisfatto con quel vassoio carico di cibo e lo poggiò sul comodino accanto al letto.

Ioreth aveva nel frattempo spogliato la donna di quegli abiti sporchi, infilandole una tunica bianca, e borbottando qualcosa sulla sua inesistente femminilità. «Porta addirittura delle armi, che razza di donna è?»

Pipino si avvicinò alla sedia su cui la vecchia aveva messo arco, faretra, spada e quant'altro avesse trovato. «A quanto ho capito, è stato grazie a questa donna che Boromir è vivo. Ed è grazie anche a lei che la mia terra è rimasta libera dal male che voi conoscete bene.»

Sentendo quelle parole Ioreth sussultò. «È lei la donna di cui parlano tutti? La salvatrice del figlio del Sovrintendente?» Ad un cenno affermativo Ioreth strillò. «Allora bisogna avvisarlo subito!»

«Me ne occuperò io, appena ne avrò l'occasione.» rispose Pipino, sedando i suoi animi. «Ora l'importante è che si riprenda, Boromir ha molte cose da pianificare per essere distratto.»

«Molto bene.» disse la vecchia. «Ora aiutami a metterle un cuscino dietro la nuca. Tenteremo di farle bere una tisana calda per farla svegliare; la preparava sempre la mia bis-bisnonna, o così mi raccontava mia madre. Ora, sia io che le mie sorelle abbiamo ricevuto in eredità i suoi insegnamenti, ma come immagino tu sappia, molte cose si perdono e si modificano con gli anni. Così ho deciso di aggiungere un ingrediente segreto, che la rende più gradevole al gusto e all'olfatto...» E continuò a parlare senza interrompersi per altri dieci minuti.

Pipino smise di ascoltarla dopo le prime venti parole. Gli stava venendo un terribile mal di testa. Quando la vecchia se ne andò, raccomandandogli di farla mangiare subito appena si fosse svegliata, e di chiamarla quando fosse accaduto, Pipino tirò un sospiro di sollievo. Prese uno sgabello troppo alto per lui, e si sedette accanto al letto con qualche difficoltà. Tenendole una mano tra le sue, Pipino rimase a vegliare su di lei, finché non la vide sbattere le palpebre.

«Mia signora, Brethil? Mi senti?» le chiese, sporgendosi e passandole una mano sulla fronte. Prese un bicchiere e lo riempì di acqua, porgendoglielo. «Bevi, ti aiuto.»

Brethil socchiuse le labbra e bevve grandi sorsi, assetata. Aguzzò la vista, per mettere a fuoco il suo guaritore, e le parve di riconoscere quel viso simpatico dai capelli riccioluti e castani. «Messer Peregrino?»

Lo Hobbit annuì, sorridendo gioioso. «In persona, mia signora! È una fortuna che ti abbia trovata, altrimenti saresti nelle grinfie di una vecchia pettegola. Sarai affamata, immagino: ho giusto qui qualcosa che potrebbe piacerti!» disse, balzando giù dallo sgabello e prendendo il vassoio.

Brethil tentò di mettersi a sedere e, nonostante fosse fiacca, ci riuscì. Guardò lo Hobbit allegro e zampettante porgerle il pranzo, e lo ringraziò con un luminoso sorriso.

«Avrei voluto che ti portassero anche un po' di carne, ma purtroppo con questo brutto affare della guerra il cibo è contato.» le stava dicendo, dispiaciuto.

«Non preoccuparti, va bene ciò che vedo.» gli disse, accarezzandogli il capo. «Sono così affamata che non guarderò certo se la frutta sia fresca o se il pane sia troppo duro. E se conosco la pancia di un Hobbit, immagino che anche tu sia affamato, quindi non avere problemi a servirti.» Aiutata dal Mezzuomo, che le spalmò il burro sul pane, mangiò con lentezza; non voleva rischiare che le rimanesse tutto sullo stomaco, se avesse ingoiato quel cibo senza masticarlo.

«Posso chiederti come sei potuta giungere in queste condizioni?» le chiese Pipino, che si era imburrato una fetta senza quasi accorgersene. «Insomma, devi aver avuto urgenti motivi per non fermarti nemmeno a mangiare. Il cibo è un ottima ragione per riposarsi. E dopo viene una bella dormita.»

Brethil si ricordò del sogno e s'inquietò. «Boromir è in città? Ho bisogno di parlargli.»

«Boromir è in riunione con tante persone importanti. Appena si libererà andrò a chiamarlo personalmente. Sono lo scudiero del Sovrintendente, ora.» disse, ammiccando alla sua lucente tenuta.

«Lo vedo, mio piccolo amico! È un grande onore, quello che hai ricevuto.»

«Sì, immagino di sì. Ma mi chiedo cosa possa fare per rendermi utile a un così grande signore, oltre a cantare le poesie inadatte della mia terra?» si domandò Pipino, sconsolato.

Brethil trovò la forza di sorridere. «Arriverà anche il momento in cui dimostrerai la tua forza, messer Peregrino. E quasi dimenticavo, ho promesso al tuo amico e cugino di riferirti le sue parole. "Digli che non deve aver paura e che sono sicuro che renderà onore all'avventatezza dei Tuc. E che gli voglio bene".»

Gli occhi di Pipino diventarono lucidi e la ringraziò a più riprese. «Come sta? Bene? Non siamo mai stati così lontani, io e lui. Mi manca tanto.»

«Lo so. Capisco cosa intendi, ma non disperare, giovane Hobbit. Questi brutti giorni finiranno, prima o poi.»

Lui annuì, sorridendole di rimando. La trovò bella, bella e severa come Aragorn, nonostante quelle cicatrici. Avrebbe voluto chiederle come se le fosse procurate, ma temeva che fosse un argomento spinoso, quindi evitò. In cambio fu lui che parlò per quasi tutto il tempo, ascoltato con interesse dalla donna. Le raccontò delle disavventure con gli Uruk-hai e della paura che lui e Merry provarono; della fuga e dell'incontro con gli Ent e poi con Gandalf. E improvvisò anche un paio di poesie, su Fangorn e i suoi abitanti, che tanto piacquero a Brethil.

«Potrei cantare questo, a sire Denethor!» ipotizzò Pipino, ridendo con lei. Poi qualcuno bussò alla porta e lo Hobbit corse ad aprire. Ioreth si precipitò dalla donna, rimproverando il Mezzuomo di non averla chiamata, e subito dopo entrò anche Gandalf.

«Peregrino Tuc, ecco dov'eri finito! Un'ora per cercarti e dove ti trovo? Ad importunare una stanca ospite!» Il tono contrariato dello Stregone fu subito dimenticato da un suo sorriso luminoso. «Brethil, amica mia, come ti senti?» le chiese, fermandosi ai piedi del letto e poggiandosi sul suo bastone bianco.

«Ora meglio, Gandalf. Devo ringraziare soprattutto messer Peregrino, mi ha tenuto compagnia e mi ha sfamata.»

«Ma non mi ha chiamata immediatamente! Hai bisogno di ricostituenti, ragazza mia.» sbottò la vecchia Ioreth.

Pipino e Gandalf si scambiarono un'occhiata mesta, ma non commentarono. Appena la guaritrice tolse il disturbo, dopo averle fatto bere uno strano intruglio che le aveva fatto storcere il naso e intimando loro di non stancare la sua paziente più del dovuto, lo Stregone le si avvicinò, sedendosi sul bordo del letto. «Che cosa ti porta qui, Brethil? Il tuo posto non è accanto ad Aragorn, per caso?»

«Lo è, e lo è sempre stato.» Brethil sospirò. «Ma ho avuto una visione. In realtà, più volte. Temo per Boromir, l'ho veduto morire.»

Pipino spalancò la bocca. «Come?»

«Tieni le tue domande per te, Peregrino Tuc, e lasciala parlare.» lo ammonì Gandalf. «Risponderà alle tue curiosità più tardi, se ne avrà voglia.»

Brethil raccontò del suo sogno e lo Stregone la ascoltò con attenzione. «Ahimè.» disse. «Non è la prima volta che mostri di avere doti di preveggenza, amica mia, sebbene non sappiamo quanto lontano si possa spingere la tua mente. Eppure anche io ho veduto un'ombra sul futuro di Boromir, già te lo dissi sulla via per il Fosso di Helm.»

«Devo stargli accanto, Gandalf. L'ho promesso ad Aragorn... e a me stessa. Se dovesse succedergli qualcosa non me lo perdonerei mai.»

Gandalf le sorrise, benevolo. «Bambina mia, Boromir è un soldato, anzi il soldato! È un Capitano e sa bene che potrebbe non tornare dalla guerra. Cosa hai intenzione di fare? Stargli dietro in ogni momento in battaglia? Posso dire di conoscerlo bene, ormai, e non credo che te lo permetterebbe.»

«Non lo intralcerei, se è questo che vuoi dirmi. Gli guarderei le spalle, quando lui non sarebbe in grado di farlo.» mormorò Brethil chinando il capo. Improvvisamente si sentì una perfetta stupida. Era corsa per quattro giorni verso quella città, sapendo che avrebbe dovuto fare qualcosa per aiutarlo e proteggerlo. Ma cosa avrebbe potuto dirgli per non farlo sentire un ragazzino che aveva bisogno della bambinaia? Boromir non avrebbe accettato alcun aiuto, tanto meno il suo. Era un soldato - il soldato, come aveva giustamente sottolineato Gandalf; e lei non era che una donna che aveva intenzione di mettere il bastone tra le ruote alla volontà dei Valar, solo perché così pensava fosse giusto. E se avesse dovuto lasciar correre quel sogno e far sì che le cose si compissero come scritto all'origine di tutto? E se quel sogno fosse semplicemente l'immagine delle sue paure più profonde e fosse rimasto solo tale?

«Brethil.» la risvegliò Gandalf, posandole una mano sul braccio. «Non ti sto dicendo di non stargli accanto, poiché sei la persona migliore ora che possa aiutarlo e consigliarlo. Ti chiedo solo di pensarci bene, prima di agire. Non fare niente che possa offendere il suo orgoglio.»

La donna poggiò la nuca contro la pila di cuscini, sospirando e chiudendo gli occhi. «Forse sarebbe stato meglio se fossi rimasta con Aragorn e Halbarad.»

«Halbarad? I Raminghi lo hanno raggiunto?» chiese Gandalf, sorpreso e lieto della notizia. «Questa è un'ottima novella, bene. Molto bene!»

Brethil annuì. «Anche Elladan e Elrohir erano con loro.»

«Benissimo.» Gandalf sorrise e fece l'occhiolino a Pipino, che pur non capendo la bellezza di quelle nuove, venne contagiato dal suo buon umore. «Ma ora andiamo, Peregrino. La nostra amica ha bisogno di riposare e noi la stiamo stancando con le nostre chiacchiere.»

«Non starò chiusa qui dentro con una guerra alle porte, Gandalf.»

Pipino si mise le mani sui fianchi. «E invece starai finché non avrai ripreso le tue energie!» esclamò, in una buffa imitazione di Ioreth - che era entrata in stanza senza che se ne accorgesse e ora stava sbraitando qualcosa contro tutti i Mezzuomini della terra.

 

Boromir guardò i Signori delle terre vicine uscire dalla Sala, incupito e preoccupato. Suo padre sedeva sul suo seggio, ai piedi del trono, con lo scettro bianco del Sovrintendente stretto convulsamente tra le dita; solo Imrahil, Principe di Dol Amroth, restò con loro. Nonostante i suoi sessantaquattro anni, era un Uomo ancora giovane nello spirito e bello, come tutte le genti che avevano sangue elfico nelle vene, dai capelli scuri e gli occhi vispi e grigi.

«Meno di tremila lance sono arrivate.» disse il Capitano della Torre Bianca, muovendo qualche passo e guardando il pavimento. «Meno della metà che speravamo. E molti di loro non sono nemmeno soldati! Allevatori, contadini... cosa possono contro un esercito di Orchi, Uruk-hai e Haradrim?»

Imrahil prese parola. «Sarebbero giunti in molti altri, se solo le città della costa non fossero sotto assedio dai Corsari. Rohan arriverà?»

Boromir annuì. «Sì, Re Théoden è un Uomo che tiene fede alle alleanze e alle amicizie. Verrà. Ma ha molti Uomini sparsi per la regione, a difesa dei confini sotto attacco. Ci vorrà del tempo prima che riesca a riunire tutti i soldati di cui dispone.»

«Tempo che noi non abbiamo.» disse Denethor. «Non possiamo più prenderci la libertà di attendere. La guerra è fuori dalle nostre mura.»

«E cosa suggerisci di fare, padre?»

Il Sovrintendente cadde in un silenzio profondo e Imrahil e Boromir si scambiarono una veloce occhiata. Poi un bambino di dieci anni comparve timidamente davanti a loro, chinandosi rispettoso delle regole.

«Bergil! Cosa ci fai qui?» domandò Boromir.

«Perdonatemi, miei signori, ma... ho visto che la Sala si stava svuotando e ho... ho pensato che la riunione fosse finita.» balbettò il ragazzo, tenendo ostinatamente gli occhi puntati sui suoi piedi. «Mithrandir mi manda a chiamarti, mio signore Boromir. Dice di recarti alle Case di Guarigione, ti aspetta nel giardino.»

«E cosa potrebbe mai volere Gandalf alle Case?» chiese Boromir. Si voltò verso Denethor, che aveva alzato uno sguardo pungente verso il ragazzino, come se fosse colpa sua se Gandalf chiedesse del figlio. «Padre, con il tuo permesso mi congedo.»

«E io con lui, Sovrintendente. Ti lasciamo ai tuoi pensieri.» fece Imrahil, seguendo Boromir e il piccolo Bergil.

Il Principe di Dol Amroth si voltò verso il nipote e gli mise una mano sulla spalla, rassicurandolo. «È una situazione peggiore di quanto non avessi mai immaginato, ma confido nei nostri amici di Rohan. E mi hai parlato di quel Aragorn, figlio di Arathorn, in cui riponi molta fiducia. Non tutto è perduto.»

Boromir annuì, sospirando, e si salutarono. Seguì Bergil alle Case di Guarigione, domandando: «Gandalf ti ha detto qualcos'altro?»

Quello scosse il capo. «So solo che c'è qualcuno sotto le cure della vecchia Ioreth, ho sentito la sua voce fin fuori.»

L'Uomo scese al sesto livello e trovò lo Stregone seduto su una panca con lo Hobbit, entrambi intenti a fumare, e quest'ultimo lo salutò con un sorriso radioso. «Boromir, finalmente! Da due giorni mi trovo qui ma ti avrò visto solo tre volte in tutto.»

«Troppi affari mi tengono lontano da te, Pipino. Ma ti promisi di mostrarti la mia città e manterrò fede alla mia parola, quando le cose miglioreranno. E devi ancora raccontarmi degli Ent!» rispose, accarezzandogli la testa riccioluta. «Ma dimmi Gandalf, c'è qualche problema?»

«Sì e no, lo vedrai da solo.» disse lo Stregone, sbuffando un po' di fumo e sorridendo enigmatico. Pipino prese per mano l'Uomo, che si fece trascinare dentro l'edificio. Gli intimò di fare piano, portandosi un dito alle labbra e aprendo la porta di una stanza. Boromir si domandò cosa potesse esserci di così importante e non si rese subito conto di ciò che i suoi occhi videro. Era un sogno o Brethil era davvero sdraiata su quel letto? Lanciò un'occhiata indagatrice all'Hobbit, ma questo si limitò a sussurrargli che avrebbe ricevuto tutte le spiegazioni del caso in un altro momento.

Si avvicinò al letto della donna, prendendole una mano tra le sue. Era pallida ma il calore del suo corpo non era svanito. Stava semplicemente riposando. Pipino lo lasciò poco dopo, e Boromir rimase accanto a lei, a guardarla dormire. Si chiese cosa fosse venuta a fare a Minas Tirith, quando gli aveva fatto intendere che non sarebbe venuta con lui; il ricordo del suo abbandono, proprio quando sentiva di aver bisogno di lei, bruciava ancora nella mente, ma in quel momento lo scartò lontano. Ciò che più gli premeva, ora, era rivederla sveglia e in forze, perché non immaginava cosa potesse esserle accaduto in quei giorni. D'un tratto l'espressione rilassata del suo viso si tramutò in qualcosa di turbato e Boromir le strinse la mano. Il sonno sereno della donna divenne angoscioso e la vide corrugare la fronte, agitarsi con debolezza, le labbra che si socchiudevano per dire qualcosa. Boromir le accarezzò il viso, richiamandola per destarla, proprio come lei aveva fatto con lui solo poco tempo prima. Ma quell'incubo era forte e restio a lasciarla andare alla realtà. Cosa si stava muovendo in quella mente già piena di preoccupazioni? Non seppe dirlo, ma immaginò che fosse qualcosa di spiacevole quando vide una lacrima scenderle lungo una guancia.

«Brethil, amica mia, svegliati.» le disse, con più forza.

La Dùnadan sbarrò gli occhi e gridò il suo nome. Poi lo guardò, come se lo vedesse ancora nel sogno, e si buttò tra le sue braccia, piangendo. Boromir rimase scioccato da quella reazione, e la strinse forte, consolandola e sussurrandole che andasse tutto bene. Brethil sembrava ancora scossa dall'incubo e non si rese subito conto che l'Uomo fosse reale e non parte della sua immaginazione. Eppure il profumo della sua pelle sembrava vero, così come il calore del suo corpo, troppo tangibile per essere illusorio. Si allontanò un poco e riconobbe la stanza dove si era svegliata qualche ora prima; poi tornò a guardare l'Uomo e sorrise, grata che fosse reale così come quel sogno fosse fittizio.

«Pare che i ruoli si siano invertiti.» le disse, mentre lei si sistemava nuovamente contro i cuscini, cercando di rilassarsi.

«Oh non credo che tu saresti petulante come Ioreth.» rispose Brethil, facendolo ridere.

«Non ti invidio, infatti. Mi ha costretto a passare qui, al mio rientro, per controllare il mio stato di salute. Ricordo che quando ero piccolo adorava tirarmi le orecchie, quando tentavo di scappare dalla finestra.»

«E non nego di aver avuto la tua stessa idea, Boromir. Odio dover rimanere bloccata su un letto.»

L'Uomo si fece serio. «Come ti sei ridotta così? Pensavo fossi a Rohan, con Aragorn.»

«Non ti sbagliavi. Dopo avervi lasciati ho raggiunto il Comandante Erkenbrand, ai Guadi dell'Isen, dove le forze di Saruman colpivano con grande intensità. Gandalf giunse una notte, per richiedere l'aiuto dell'esercito, diretti al Fosso di Helm. È lì che le truppe di Isengard hanno attaccato con tutta la loro forza. Vincemmo la battaglia e parlai con Aragorn, finalmente. Ma c'era un pensiero che continuava a turbarmi, nonostante la gioia di tutte queste piccole cose.» Brethil esitò, guardando l'Uomo, che ricambiò il suo sguardo con curiosità. «Continuavo a pensare alla guerra, alle persone care che mi avrebbe potuto portar via. Insomma, ti ho visto, Boromir. Ho visto che cadevi e l'idea mi ha terrorizzata.»

Lui rimase in silenzio, il viso indurito da chissà quale pensiero. «Hai visto la mia morte?»

«Credo di sì. Io...» Inspirò profondamente, nascondendo il viso tra le mani; poi prese coraggio e gli raccontò del sogno, senza omettere alcun particolare.

Boromir ascoltava, gli occhi fissi sui suoi, mentre dentro di lui si muovevano timore, orgoglio e molte altre emozioni. Quando la donna terminò, lui sorrise e le strinse le mani. «Non devi aver paura, Brethil. Morire in guerra non è un disonore, né mi spaventa. Se serve per restituire a Gondor la sua pace, allora sono pronto.»

«Continui ad essere egoista, se pensi che morire non sia un male.» ribatté lei. «C'è chi ti ama, Boromir. Non pensi a loro?»

«Costantemente.» Le accarezzò una guancia, rassicurandola. «Ma sono maturi abbastanza da capire il pericolo che corro. Nessuno andrebbe in guerra per difendere la propria patria se si pensasse alla famiglia che si lascia a casa. Hai mai avuto paura che Aragorn, o qualcuno dei Raminghi morisse? Tuo padre, per esempio?»

«Ho temuto ogni giorno per la loro vita, oltre che per la mia. Non sono una donna che non teme la morte, Boromir, e so bene cosa significhi mettere in pericolo la propria salvezza per quella degli altri. Lo capii anche quando mio padre morì. Ma ciò non implica che l'abbia accettato con leggerezza, né che non abbia mai sentito la sua mancanza.»

L'Uomo sospirò e scosse il capo, senza capire. «Allora dimmi, perché sei venuta qui? Per darmi il tempo di salutare i miei cari, con la consapevolezza che probabilmente non tornerò a casa? O che rimanga tra la sicurezza della Cittadella, sperando che la guerra non la raggiunga?»

«Voglio starti accanto, Boromir. Come ho fatto in quei giorni, come ho promesso ad Aragorn e a me stessa. Non mi sono perdonata facilmente di averti lasciato, solo perché sono stata troppo codarda da non riuscire ad affrontare i miei problemi. Voglio combattere al tuo fianco e sostenerti, Boromir. Permettimi di farlo.»

«Non ho bisogno di una bambinaia, Brethil.»

«Non è questo che voglio essere, infatti.»

«Ma è ciò che farai. Perché tu sai quando accadrà, come e dove. E vorrai essere lì per tentare di salvarmi, ancora una volta.» Boromir si alzò dal letto, contrariato. «Questo sarebbe disonorevole, per me, Brethil. Se è il mio destino soccombere innanzi alle mura della mia città lo accetto. Non c'è nessuna profezia che parli della mia salvezza, niente che mi possa impedire di morire. E non sarai tu a ridicolizzarmi davanti ai miei soldati.»

La donna non riuscì a credere a quelle parole. Limitava tutto davvero ad una mera questione di orgoglio? «Ma non capisci?» esclamò, le lacrime che tornavano a bagnarle gli occhi e il viso sfregiato. «Voglio starti accanto quando accadrà, se mai accadrà! Voglio che abbia una persona vicino, non l'alito di un Orco che non aspetta altro se non strapparti la pelle dal corpo per il piacere della sua gola!»

Boromir raggelò sul posto. E poi capì, rabbrividendo di raccapriccio. «Tuo padre...»

«Mio padre morì da solo, senza che gli fossi accanto.» disse atona, asciugandosi le lacrime con rabbia. «Trovarono il suo corpo mutilato dai morsi due giorni dopo. Non era rimasto altro che ossa e vestiti. E io non ero con lui, né io né nessun altro.»

«Mi dispiace.» sussurrò, avvicinandosi nuovamente a lei e comprendendo ora cosa la preoccupasse maggiormente. «Brethil, mi dispiace davvero.»

«Smettila di dispiacerti.» sbottò lei. «Dammi solo il permesso di combattere al tuo fianco. Se non vorrai, lo accetterò.»

«Così sia, se è ciò che desideri. Perché anche io vorrei averti accanto, Brethil. La tua presenza è di grande conforto per me, dovresti saperlo, ormai. E sono felice che tu sia qui.»

Quelle parole e quella voce ebbero il potere di tranquillizzarla e un sorriso disteso apparve sul suo viso martoriato. «Grazie, Boromir.»

Lui scosse il capo. «Non sei tu quella che deve ringraziare nessuno. Ora però riposa, ti ho stancata fin troppo, e ti chiedo perdono. Magari questa notte cenerai qui, se non ti senti in forze per unirti al mio tavolo, ma vorrei che domani ti rimettessi un poco. Vorrei presentare a mio padre la donna che ha salvato la vita di suo figlio.»

«Ne sarei onorata, ma non credo di avere gli abiti né il portamento per pranzare con un Uomo importante come tuo padre.» rispose lei, sentendosi in imbarazzo. Aveva pranzato molte volte con Re Théoden, ma egli era una persona benevola e gentile, che non badava all'abbigliamento né ai modi dei suoi commensali. Ma sire Denethor, per quanto sapesse poco di lui, era di tutt'altra famiglia: era amato, rispettato e temuto anche, Uomo saggio e abile stratega, furbo e sveglio nonostante l'età che avanzava. Cosa avrebbe pensato di una donna con quel volto orribile, che al solo pensare di indossare un abito inciampava sui propri piedi e temeva di aprire bocca per non risultare scortese?

«Mio padre può sembrare severo e incutere timore, ma non metterà a disagio la mia salvatrice.» E aggiunse con un sorriso: «E poi, ci sarò io a proteggerti dalla sua lingua. E anche Gandalf.»

«Il Mezzuomo?»

«Lui solitamente si reca alla mensa della Terza Compagnia della Cittadella, dove mi ha detto si sia fatto alcune amicizie. Non credo si unirà con noi, parleremo prevalentemente di guerra e non voglio abbassare ulteriormente il suo morale con piani di difesa e quant'altro. Ora riposa, anche se non mi hai ancora spiegato come ti sia ridotta in questo stato.»

Brethil arrossì. «Ho cavalcato tanto e mangiato poco.»

«Ottima ricetta dopo aver combattuto due battaglie.» commentò con ironia l'Uomo. Si chinò su di lei, dandole un bacio sulla fronte. «Dormi ora, e mangia appena senti il bisogno. Mandami a chiamare per qualsiasi motivo, d'accordo?»

Lei annuì, coprendosi fin sopra le spalle con la calda coperta in lana. Lo guardò uscire dalla stanza e chiuse gli occhi, ora più serena.

Quando Boromir lasciò l'edificio, notò che Pipino fosse rimasto da solo e si sedette accanto a lui. Lo trovò incredibilmente tenero, con quel viso perso e triste e le corte gambe che dondolavano nel vuoto, sebbene quella panca fosse bassa anche per un Uomo.

Appena lo Hobbit lo scorse lo salutò con un gran sorriso. «Boromir! Come sta la nostra amica?»

«Bene, direi; ma è molto stanca, ancora. Mi ha chiesto se cenerai con lei, questa notte. Ne sarebbe felice.»

«Davvero?» domandò, stupito e contento lo Hobbit.

In realtà no, non era vero. Ma Boromir voleva che Brethil avesse un po' di compagnia, e non immaginava nessuno migliore di Pipino per metterla un poco di buon umore. «Sì, messer Hobbit. Questa notte la affido a te, mi raccomando.»

«Sono lo scudiero di sire Denethor, non dimenticartelo.» ammiccò lo Hobbit, facendolo sorridere. Ma ogni riso fu interrotto dal gelo improvviso che li pietrificò sui loro posti. Conoscevano bene quel grido, Pipino soprattutto. Non aveva dimenticato il terrore che si diffondeva per tutto il suo corpo e che lo portava solo ad accasciarsi in terra, coprendosi le orecchie.

«I Nazgûl! È già giunta l'ora?» si domandò Boromir, paralizzato da quelle grida acute. Erano in cinque e sui loro giganteschi destrieri alati roteavano sui Campi del Pelennor, come avvoltoi attratti dalle carcasse. Vide dei puntini neri che si muovevano velocemente e capì che fossero dei cavalli. Il sangue gli si gelò nelle vene. «Faramir!» gridò, dopo aver udito il suono della sua tromba richiamare aiuto.

«Gandalf! Dove è Gandalf?» esclamò Pipino, terrorizzato. E come se invocandolo avesse avuto il potere di comparire, una figura bianca e splendente si avvicinò di gran carriera ai cavalieri, e una luce si sprigionò contro quelle ombre di morte. Udirono un ultimo grido straziato e la voce del Cavaliere Bianco riecheggiare potente per tutti i campi. Gandalf era riuscito ad allontanarli.

Quando Pipino si voltò per cercare Boromir, l'Uomo era già sparito, diretto verso la Cittadella in attesa del ritorno del fratello.

 

 

 

 

*

 

Grazie a tutti i lettori!

A presto,

Marta.

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Capitolo 8
*** 08. ***


Salve a tutti, miei cari lettori e care lettrici!

Qui scrive una febbricitante e varicellosa Marta - ebbene sì, mi son beccata all'università la malattia che avrei dovuto prendermi all'asilo... sto impazzendo e sono anche in periodo di esami, qualcuno fermi il tempo!

Anyway, maledizioni a parte, ecco il nuovo capitolo di questa cosa, spero vi piaccia come i precedenti. :)

Grazie di cuore a tutti coloro che continuano a seguirmi, vi stritolerei di coccole uno ad uno - ma dato che non posso accontentatevi della mia profonda gratitudine e di bacini virtuali! :P

Buona lettura,

Marta.

 

Betulla


08.

11 Marzo 3019 T. E.

 

Boromir non aveva chiuso occhio quella notte. Non aveva potuto godere del rientro di suo fratello, della gioia di riabbracciarlo e di assaporare nuovamente il suono della sua voce. E non solo perché Faramir fosse troppo stanco per reggersi in piedi, dopo la battaglia e il terrore di avere i Nazgûl sopra il capo, ma perché il resoconto della sua spedizione aveva fatto emergere qualcosa che Boromir aveva tenuto nascosto con abilità e che sperava non venisse rivelato con così tanto anticipo. L'idea che avesse visto Frodo e Sam, tre giorni prima, l'aveva rincuorato tantissimo, così come gli aveva fatto capire quanto fosse stato debole in confronto al fratello, che non aveva pensato di sottrargli l'Anello per portarlo al padre. Ed era stato proprio Denethor a sollevare critiche e rabbia, contro il figlio minore per la sua stupida volontà di apparire nobile e benevolo, ma soprattutto contro il prediletto, che lo aveva deluso profondamente.

Sei sempre stato leale con me, figlio mio, né uno Stregone ti ha mai fatto da maestro, da bambino. Credevo che avresti ricordato tuo padre bisognoso di aiuto, ma ancor prima la tua terra, e non avresti rifiutato ciò che la fortuna ti dava. Saresti dovuto tornare con un meraviglioso dono, Boromir!

 Così, frustrato e adirato con se stesso e con il genitore, l'Uomo aveva detto che sì, avrebbe teso la mano come aveva tentato di fare, ma se lo sarebbe tenuto per sé, soggiogato da quelle voci e da quel male che avevano già iniziato ad avvelenargli la mente. Oh, se solo Denethor avesse saputo cosa aveva provato a desiderarlo giorno dopo giorno, con un ardore tale da portarlo alla follia, mentre c'era ancora un briciolo di umanità nel suo animo corrotto che lo ammoniva e lo metteva in guardia! Se solo lo avesse visto, in quel momento, non avrebbe riconosciuto suo figlio e lo avrebbe ripudiato, spaventato e deluso ancor di più dal suo egoismo e dalla sua avidità.

E Gandalf, che aveva ascoltato il suo racconto con attenzione, aveva sorriso e aveva assecondato le sue parole, poiché solo ora Boromir comprendeva il suo pensiero. Poi, temendo ciò che avrebbe potuto vedere, l'uomo aveva voltato con lentezza gli occhi verso Pipino, immobile dietro il seggio del Sovrintendente, che lo osservava attonito e scioccato per quella rivelazione di cui non sospettava minimamente. Non lo avrebbe biasimato certo se avesse deciso di rifiutare la sua amicizia, dopo che lui aveva messo a repentaglio la vita di uno dei suoi migliori amici. Ma non vi era rabbia negli occhi di Pipino, bensì pena e comprensione. Perché aveva visto in quei pochi giorni l'oscurità che attanagliava Gondor e non poteva rimproverare l'Uomo di aver creduto che l'Anello avrebbe potuto fare la differenza.

Si era commosso quando lo Hobbit gli aveva confidato i suoi pensieri e si chiese cosa avesse fatto di così bello da non meritarsi le ire dei suoi amici. L'aveva abbracciato con tutte le forze e Gandalf aveva riso, sollevato anche lui dalla saggezza di Pipino, per aver capito cosa fosse accaduto nella mente dell'Uomo.

Quella mattina Denethor aveva convocato prestissimo il Consiglio di Gondor e sia lui che i capitani ritenevano troppo grave la minaccia dal Sud, decidendo di presiedere le difese sul Rammas e sul Fiume, poiché se fossero crollate anche quelle Minas Tirith sarebbe stata assediata dalla marea nera di Mordor. A niente erano valse le proteste e le ragioni di Faramir, tanto meno quelle di Boromir, che solitamente veniva ascoltato. Denethor era troppo deluso dal suo primogenito per prestargli ascolto; così il fratello si era visto costretto a rimediare tutti i soldati che avevano intenzione di seguirlo e che potevano lasciare la città, e Boromir temette che quella sarebbe stata davvero l'ultima volta che avrebbe rivisto Faramir sulle sue gambe.

Si ritrovò davanti alla porta delle Case di Guarigione, dietro la quale Brethil probabilmente dormiva profondamente, ancora stanca per la lunga cavalcata. Poggiò la fronte contro il legno, sentendosi improvvisamente debole; poi aprì con lentezza la porta, tentando di non farla cigolare, ed entrò. Brethil riposava su un fianco, avvolta nelle coperte come un salame, e Boromir trovò la forza di sorridere. Avvicinò una sedia al letto e si sedette, osservandola per un poco. I corti capelli neri erano disordinati e un po' sporchi - probabilmente non aveva avuto la forza di farsi un bagno, il giorno prima, così si appuntò di avvertire Ioreth o chi per lei di prepararle la vasca appena si fosse svegliata. Controllò che il suo viso fosse rilassato, e non teso per qualche altro incubo riguardante la sua morte; ma era tranquilla e respirava con calma. Così si prese il permesso di chiudere gli occhi, solo per qualche minuto; incrociò le braccia al petto e sentì subito la testa farsi pesante. Neanche si rese conto che si addormentò pochi minuti dopo che ebbe poggiato il capo tra le braccia, sul bordo del letto. Era semplicemente distrutto.

Brethil si svegliò un'ora dopo, percependo forse la sua presenza e il respiro pesante, troppo debole per osare muovere un muscolo, tranne che le palpebre. La luce bassa del mattino, oscurata dalle nuvole ormai onnipresenti, non le diede la possibilità di capire che ore fossero. Ma c'era calma tutto intorno, e Ioreth non era piombata nella sua stanza, svegliandola con la sua parlantina, quindi dedusse che non dovessero essere neanche le nove. Si accorse di una figura profondamente addormentata sul bordo del letto e impiegò qualche secondo per metterla a fuoco. Riconobbe i capelli castani chiari, lisci e tagliati poco sopra le spalle, la divisa blu ed elegante che portava anche la notte scorsa, in cui l'Albero Bianco brillava per il contrasto sulla schiena.

Corrugò la fronte, più che perplessa. Cosa faceva Boromir nella sua stanza, addormentato sul suo letto? Non ricordava che si fosse avvicinato dopo averla salutata, prima di cena, né che l'avesse avvisata di una visita quella notte.

Sospirò e sorrise, reprimendo la voglia di stiracchiare i muscoli indolenziti per non svegliarlo. Volgeva metà del viso verso il suo e si ritrovò ad osservarne i lineamenti virili forse per la prima volta. Non si era mai soffermata a guardarlo con gli occhi di una donna, forse perché era stata troppo occupata a preoccuparsi per se stessa e per la salute del ferito, piuttosto che perdersi in sciocchezze del genere. Non aveva la bellezza e la regalità di Aragorn, ma c'era qualcosa in lui che lo rendeva affascinante. Forse era la cura con cui si rifiniva la barba; o forse era il suo modo di camminare, fiero e prestante; o il suo sorriso, così raro, eppure così dolce come quello di un bambino; o forse l'intensità di quegli occhi grigi che poteva immaginare nonostante fossero chiusi. Poteva leggervi di tutto in quelle iridi, come un libro aperto. Aveva capito lui stesso che non potesse tenerle nascosto niente di ciò che lo turbava, perché lei lo avrebbe capito comunque, anche solo osservando il movimento involontario delle sue narici, che si dilatavano quando era contrariato da qualcosa o da qualcuno.

Brethil si rese conto, non senza un certo timore, che si sarebbe potuta innamorare facilmente di uno come lui, che voleva proteggerla ed essere protetto a sua volta, che ricercava la sua presenza e il suo consiglio costantemente da quando si erano incontrati. Sì, sarebbe potuto accadere, se non fossero stati amici, se lui non fosse stato il figlio di un Sovrintendente, se lei non fosse stata una traditrice dal volto sfregiato e che non aveva niente di femminile se non il corpo. Quasi scoppiò a ridere a quell'idea bizzarra eppure tentatrice. Forse amava già Boromir, ma era l'amore che nutriva per Aragorn e per Halbarad, probabilmente. L'amore di un'amica. E lì si sarebbe dovuta fermare.

«Per tutti i Valar, mio signore! Cosa stai facendo?» esclamò Ioreth, entrata senza che lei neanche si accorgesse della porta che veniva aperta. Brethil osservò la vecchia, braccia sui fianchi e cipiglio severo in viso, mentre Boromir saltava sulla sedia e rischiava di capottarsi per lo spavento.

La Dùnadan quasi scoppiò a ridere nel vedergli il viso ancora scioccato dal sonno e dal repentino risveglio. «Buon giorno, mio signore.» gli disse, ricordando un po' delle buone maniere che avrebbe dovuto usare in quei giorni.

Boromir le lanciò un'occhiataccia, ma non obiettò. «Ioreth, amica mia, temo che il tuo risveglio sia stato udito per tutte le cerchie della città.» borbottò l'Uomo, alzandosi e riponendo la sedia al suo posto.

Quella, d'altro canto, non si lasciò intimidire. «Mio signore, non è decoroso che io ti trovi nella stanza della nostra ospite, scompostamente addormentato sul suo letto! Hai una stanza anche tu, sire, e sarebbe bene che la usassi.»

Incassando il colpo, Boromir annuì e si voltò verso la Dùnadan, che aveva ancora un delizioso sorriso sulle labbra. «Dama Brethil, ti chiedo scusa se ti ho offesa in qualche modo. Ma stavo...» Non ebbe il tempo di finire la frase, che la vecchia guaritrice lo aveva spinto non troppo gentilmente verso la porta e si era ritrovato fuori dalla stanza senza che se ne accorgesse. «Sono questi i modi in cui tratti il figlio del Sovrintendente?» chiese Boromir. Sentì Ioreth rispondere qualcosa sull'uguaglianza tra gli indisciplinati e se ne andò ridendo. Forse avrebbe avuto qualche altra ora per riposarsi prima che il padre lo mandasse a chiamare per un altro Consiglio.

Brethil si ritrovò nelle grinfie di Ioreth, che la controllò per bene e la fece camminare per tutta la stanza, assicurandosi che non ondeggiasse troppo per le vertigini della stanchezza. Poi sparì per ordinare di prepararle una colazione sostanziosa, e tornò con una ragazzetta di massimo diciassette anni, dai capelli bruni e ritirati in una crocchia, nascosta da un copricapo bianco.

«Lei è Rainiel, si occuperà del tuo bagno e di tutto ciò di cui avrai bisogno. Ho preso la libertà di rubarti per un poco i tuoi indumenti per capire che misure hai, così da poter trovare un abito per quest'oggi.»

La Dùnadan osservò la vecchia, perplessa. «Abito?»

«Ragazza mia, non penserai di presentarti a sire Denethor con quegli stracci vecchi, per caso?» esclamò Ioreth.

«Preferirei di sì, mi troverei più a mio agio con quelli.» ribatté Brethil. «Con una ripulita posso essere presentabile.»

La guaritrice scambiò un'occhiata sbalordita con la ragazzina di nome Rainiel, che non osava intromettersi. «Non ti lascerò uscire da questa stanza finché non vedo che sia veramente presentabile. E quando dico presentabile intendo con i capelli acconciati - in qualche modo, visto che sono più corti di quelli di sire Faramir, per Eru! - e con un abito femminile, ragazza mia. Non sarebbe opportuno che sire Boromir venisse ad accompagnarti per il pranzo e prendesse sotto braccio una che pare un uomo! Che cosa si racconterebbe per la città?»

Brethil tentò di protestare, ma la vecchia se n'era già andata, così da rimanere sola con Rainiel, che teneva ostinatamente il capo chino, timida e forse intimidita dalla donna che aveva di fronte.

«Mia signora, se volessi seguirmi ti mostrerei la vasca. L'ho riempita di acqua calda, spero che la temperatura vada bene.»

«Aspetta.» La donna le poggiò una mano sulla spalla, per reggersi e per bloccarla. «Non chiamarmi in quel modo. Non sono la signora di nessuno, né sono una persona importante. Chiamami solo Brethil.»

Rainiel ci pensò un po'. «Hai salvato sire Boromir, mia signora Brethil?»

«Sì, mi sono presa cura di lui per qualche tempo.»

«Allora meriti tutto il rispetto che conosca, mia signora.» disse l'ancella, seriamente convinta di ciò che diceva. «Ora, se vuoi seguirmi, non è molto lontano.»

Brethil rinunciò a qualsiasi replica e si fece accompagnare alla vasca. La stanza era ampia e una trifora bucava elegantemente il muro per farvi entrare luce e aria. La tinozza era al centro, mentre intorno c'erano pochi mobili. Su uno di questi Rainiel le indicò il telo per asciugarsi e una sottoveste pulita e bianca, molto simile a quella che già indossava.

«Se necessiti di qualcosa, qualsiasi cosa, io sono proprio fuori dalla porta, mia signora.»

Brethil annuì, attendendo che se ne andasse; poi lasciò cadere la vestaglia e si immerse nell'acqua calda, sentendo immediatamente tutti i muscoli del corpo distendersi sotto quella piacevole sensazione. Da quanto non faceva un bagno così rilassante? Quasi non ricordava l'ultimo. Forse era qualche mese prima, di ritorno da una spedizione con Éomer e la sua éored. Erano stanchi e deperiti, perché si erano dovuti attardare troppo tempo lontano da Edoras e le scorte scarseggiavano. Quando avevano raggiunto la città la prima cosa che avevano fatto fu di imbandire un sontuoso banchetto e di festeggiare le loro gesta ai confini della regione; poi, mentre i soldati tornavano alle loro abitazioni e dalle loro famiglie, Éomer e Brethil si erano recati ai bagni, dove le ancelle avevano già preparato le loro vasche, rimanendo ammollo finché l'acqua non era diventata troppo tiepida da farli intirizzire.

La Dùnadan pensò all'Uomo e si chiese dove fosse e come stesse. Avrebbe voluto continuare a servirlo e a prestargli il suo aiuto ancora per qualche tempo, così come avrebbe seguito Aragorn verso i Sentieri dei Morti, ovunque questi la portassero. Ma sapeva che il luogo più agognato dal suo cuore era quello dove stava in quel momento, accanto a Boromir.

Si lavò con calma, poi uscì dalla vasca rabbrividendo e si strinse contro il telo per cercare un po' di calore. Quando fu coperta dalla sottoveste, Brethil aprì la porta e trovò subito Rainiel pronta a riaccompagnarla alla sua stanza nelle Case di Guarigione.

«Appena ti rimetterai, abbiamo già pronta una stanza più adatta a te, mia signora. Sire Boromir l'ha scelta di persona.» le spiegò l'ancella. «Si trova nella Cittadella, vicino agli appartamenti di Mithrandir e del Mezzuomo Peregrino.»

Brethil non rispose, ma si limitò ad annuire. Quando tornarono alla sua camera e vide l'abito piegato e pulito poggiato sul letto rimase interdetta. Lo prese tra le mani, meravigliandosi di quanto morbido fosse il tessuto blu, e ne osservò i ricami dorati che incorniciavano lo scollo e le maniche, strette solo fino al gomito. «Non posso indossarlo.»

L'altra la guardò con tanto d'occhi. «Dovete, mia signora. Starete d'incanto.»

«No, sarò ridicola.» sospirò la Dùnadan, riponendolo sul letto e sedendosi accanto. «Non sono abituata a vestire così, Rainiel, né ho il portamento per indossare un abito del genere.» E in quel momento pensò ad Éowyn, sorella di Éomer, battagliera e dal cuore impavido, eppure così bella e fragile. Avrebbe voluto essere come lei, in quel momento.

«Mia signora, non c'è niente in te che non vada.» tentò Rainiel, per persuaderla. «Non so che vita abbia fatto, ma ho visto le armi che porti e la durezza nei tuoi occhi che forse hanno visto troppo per una donna. Ma sei anche altera e regale, sebbene non te ne renda conto; sei stanca eppure continui a camminare con la schiena ritta. Sembrerai una regina se solo mi permetterai di aiutarti.»

«Ho altra scelta?» chiese più a se stessa e divertendo la ragazza. Suo malgrado sorrise anche lei e, dopo aver mangiato, si lasciò alle cure di Rainiel, che le fece infilare l'abito. Osservò le maniche larghe, così come la gonna che sfiorava il pavimento, e si chiese quanti passi avrebbe potuto fare prima di inciampare sul tessuto.

«Hai già un altro aspetto, mia signora. Guardati.» Rainiel le avvicinò uno specchio e Brethil si guardò riflessa dopo un'infinità di tempo. Rimase senza parole nel rivedere quel suo orribile viso dopo mesi, segnato dalle battaglie, dalla stanchezza e da quel ricordo lacerante come le unghie di Gollum che affondavano nella sua carne. Sicuramente aveva un altro aspetto, sembrava invecchiata terribilmente in quell'ultimo anno.

Rainiel la fece sedere davanti allo specchio e le pettinò i corti capelli neri con dolcezza, per non tirarglieli quando incontrava nodi. «Perché li tieni così, mia signora?» le domandò, incuriosita.

«Perché spendo la mia vita tra i soldati e a volte è meglio sembrare un uomo, piuttosto che mostrare la mia vera identità.» rispose. «E poi i capelli lunghi sono fastidiosi in battaglia.»

«Hai combattuto molto, mia signora?»

Brethil rise, senza allegria. «Più di qualche uomo, forse.»

«Perché?»

«Quanto a lungo dovrai interrogarmi?» domandò la Dùnadan, ora ridendo sul serio.

Vide la ragazzina riflessa sullo specchio arrossire velocemente. «Chiedo perdono se ti ho recato fastidio, mia signora.»

«Risponderò alle tue domande solo se smetti di chiamarmi in quel modo. Almeno in privato.»

«Ma, mia signora...»

«Rainiel...»

Le due si osservarono per qualche secondo sul riflesso, poi l'ancella vide un sorriso benevolo sul volto della sua signora, e annuì, sconfitta. Così Brethil le raccontò chi fosse e cosa avesse fatto per tutta la vita, prima di andare a Rohan. Non le disse, ovviamente, il motivo per cui aveva lasciato i suoi più cari compagni al Nord, né dovette inventare qualche storia, perché Rainiel non fece domande in proposito. Era troppo incuriosita e stupita da quel racconto che non riusciva a smettere di immaginare quella donna combattere con Uomini ed Elfi. Elfi, per Eru! Non ne aveva mai visto neppure uno!

«Sei giovane, Rainiel, se supereremo questo momento è probabile che ne vedrai più di quanti ne abbia mai sognato.» le disse Brethil. La sua mente volò subito verso Elladan e Elrohir. Avrebbe tanto voluto averli accanto per consolarla e consigliarla. La saggezza e la spensieratezza dei gemelli sarebbero stati preziosi in momenti come quelli.

«Ecco, ora sei presentabile.» disse Rainiel, risvegliandola dai suoi pensieri.

Brethil si osservò allo specchio e, nonostante fosse restia ad ammetterlo, l'ancella diceva il vero. I capelli pettinati e puliti sembravano avere un altro aspetto - Rainiel aveva tentato di metterle un leggero diadema in mithril ma per lei era veramente troppo - e l'abito era bellissimo, troppo bello per essere indossato da una come lei. Oh, quanto ringraziava il fatto che Aragorn, Halbarad o i gemelli non potessero vederla così acconciata!

La mattinata proseguì lentamente, troppo lentamente per i tempi di Brethil. Non era mai stata troppo tempo con le mani in mano e odiava non potersi rendere utile in qualche modo; avrebbe voluto esplorare la città, allenarsi con la sua spada o con l'arco per tenersi in forma, o informarsi della situazione ad

«E tu, sei sposata?» domandò Rainiel, che con tanta fatica riusciva ad evitare di aggiungere quel mia signora alla fine di ogni frase.

«Sposata? Oh, no.» Brethil quasi scoppiò a ridere. «Non ho mai avuto il tempo per trovare un marito... né qualcuno che volesse diventarlo.»

«Ma ti sposerai un giorno?»

L'altra scosse il capo. «È una domanda che non mi sono mai posta, tanto meno me lo domando ora. Non con questo viso.»

«Il tuo viso non ha niente di brutto.» Rainiel la guardò quasi con durezza, sebbene non osasse approfittare così tanto di quello strano momento di confidenze. «Non ci si ferma all'aspetto esteriore. Insomma, ammetto di essere rimasta... spaventata da quelle cicatrici, ma non perché mi impressionano i tagli. Piuttosto mi sono chiesta quale orribile storia ci sia dietro e ho provato paura e pena per te, qualunque cosa abbia vissuto. Non so se mi spiego, mia... Brethil.» si corresse all'ultimo momento, ridacchiando e arrossendo.

«Ti sei spiegata perfettamente, amica mia.» le rispose la donna, sorridendo.

Qualcuno diede tre colpi di nocche alla porta, interrompendo il loro discorso. Rainiel si alzò velocemente, controllando di chi si trattasse, e s'inchinò appena riconobbe Boromir. «Mio signore, dama Brethil non ti aspettava prima di un'ora, ma è pronta.» Si mise in un lato dell'uscio per permettere all'Uomo di entrare.

Quando Brethil si voltò a guardarlo e si alzò per salutarlo, Boromir rimase senza parole. E per la prima volta, da quando la conosceva, vide in lei una donna. Non una combattente, non una Raminga abituata a vivere all'aperto. Ma una donna. Che aveva orribili capelli corti, cicatrici sul viso stanco e combattuto e le mani callose di una che non faceva altro nella vita che brandire una spada. Ma pur sempre una donna. E gli piacque.

«Ti prego, non dire niente. È già imbarazzante così.» fece lei, lisciandosi il tessuto dell'abito e tenendo ostinatamente lo sguardo verso il basso, temendo di trovare gli occhi divertiti dell'Uomo.

Ma Boromir non rideva di lei, né aveva intenzione di farlo. Rimase semplicemente fermo ad osservarla, poi sorrise. «Sei bella, invece. Non devi vergognartene.» Le si avvicinò, sollevandole il capo e accorgendosi del rossore sulle guance martoriate. Poi, ricordandosi della presenza dell'ancella, si schiarì la voce, ritirò la mano e le porse un braccio. «Sarei onorato se passeggiassi con me per un po', prima del pranzo. A meno che non ti senta ancora stanca, dama Brethil

«No, ti seguo volentieri, mio signore. Ho bisogno di camminare un po'.» Posò riluttante una mano sul braccio di lui, che le sorrise. Poi si voltò verso Rainiel e la ringraziò della compagnia. Quella s'inchinò e attese che i due uscissero per lasciare la stanza.

L'aria calda e opprimente che giungeva da Est ricordò loro della minaccia perenne proveniente da quelle nere montagne, ma in quel momento Brethil si sentiva terribilmente a disagio per altri motivi. Era rigida e, nonostante la presa sul braccio di Boromir, temeva di cadere da un momento all'altro, sia per le vertigini che per l'abito. E, come se non bastasse, sembrava che tutti gli occhi che incontrasse fossero puntati su di lei.

Boromir si accorse del suo imbarazzo e si voltò a guardarla, mentre passeggiavano per il giardino tranquillo delle Case di Guarigione. «C'è qualcosa che posso fare per farti sentire meglio?»

«No, niente, stai tranquillo. Solo che non sono abituata.»

«È solo per poche ore, resisti.» disse l'Uomo, portando una mano su quella di lei, che gli stringeva la manica del completo nero con forza. «E non c'è niente imbarazzante, Brethil. Ti osservano solo perché nessuno ti conosce.»

«Non perché temo di inciampare un passo dopo l'altro?» domandò la donna, con malcelata ironia.

Boromir rise. «Stai pure tranquilla, se dovessi inciampare sarò pronto a sorreggerti.»

Rimasero in silenzio per un poco, poi lei volle togliersi una curiosità. «Stamattina sei venuto nella mia stanza e ti sei addormentato sul letto, in quella scomoda posizione. Non hai per caso una stanza dove riposare, mio signore?»

Il tono sarcastico con cui lo chiamò in quel modo lo fece sorridere. «In realtà sì, ho una camera piuttosto accogliente e un letto altrettanto comodo, nel Sesto Cerchio.»

«Dunque?»

«Speravo inutilmente di trovarti sveglia.» le confessò Boromir. «Ho avuto una lunga serata ieri, e non sono riuscito a dormire. Mio padre ha scoperto dell'Anello e del mio comportamento inglorioso; Faramir gli ha raccontato di aver incontrato Frodo e Sam e di averli lasciati andare, e puoi immaginare come abbia preso una simile notizia. Era infuriato, persino con me, tanto da non ascoltarmi questa mattina e da spedire Faramir verso il Rammas. Le mie preoccupazioni sono aumentate con la sua partenza. Non ho avuto quasi il tempo di chiedergli come si sentiva. Era distrutto, molto più di me, e non ha potuto trovare il riposo che cercava. Avrei voluto prendere il suo posto, ma egli è il Capitano dei Raminghi dell'Ithilien, spettava a lui partire. E mio padre non mi avrebbe permesso di proteggerlo ulteriormente.»

«Neanche tu puoi stancarti più di quanto il tuo corpo possa sopportare, Boromir. Sei ancora indebolito, sebbene forse non te ne renda conto e voglia renderti utile per la tua città da non farti pesare la fatica. E credo che tuo fratello, se ti somiglia un poco, non si farà sopraffare dalla stanchezza, non prima di terminare la sua missione.»

«Egli è molto più simile a nostro padre di quanto entrambi credano. È nobile e regale, astuto e amato. Io sono sempre stato il soldatino.»

«Ugualmente amato, immagino.»

«Sì, hai ragione.» Un sorriso apparve sulle sue labbra. «Ma avrei preferito avere parte della loro forza interiore in altre situazioni.»

Brethil sospirò pesantemente, facendogli capire che quel discorso sarebbe dovuto essere chiuso e sepolto da parecchio, ormai. «Ti stupisce che tuo padre si sia adirato?»

L'Uomo si fermò davanti ad una panca, incassata sul bastione, e che dava verso sud, verso il lontano mare. Brethil si sedette e lo guardò, attendendo che parlasse. Vide un'espressione accigliata e, nel contempo, spaventata sul suo bel volto, e temette di aver posto la domanda sbagliata.

Poi Boromir si accomodò accanto a lei, guardando la città sotto di sé. «In realtà mi ha stupito il fatto che si sia adirato per non aver preso l'Anello, non per la mia debolezza.» Brethil spalancò gli occhi, ma lui si affrettò a prendere le difese del padre. «Non lo biasimo, Brethil, anche lui crede che possa aiutare le sorti di Gondor a volgere verso la vittoria. Anche lui ha dovuto sopportare la morte di centinaia di Uomini del suo popolo. Non gli addosso la colpa di desiderare la pace che nessuno di noi ha conosciuto. Il suo desiderio era di tenerlo al sicuro, non spedirlo verso la disfatta. Avrebbe voluto nasconderlo, utilizzarlo solo nei momenti di massima necessità. Ma sono felice che così non sia. Né lui, né tanto meno io avremmo potuto resistere al suo richiamo. Persino celandolo nei meandri della terra ci avrebbe chiamati e portati alla follia. Denethor se ne farà una ragione, prima o poi.»

Brethil sorrise. «Sono fiera di te, Boromir. Dici di non avere la forza interiore come tuo fratello, eppure le tue parole dicono il contrario. Un Uomo che fosse corrotto nel profondo dell'anima non parlerebbe così.»

«Ma continuo ad anelarlo...»

«Nei remoti angoli della tua mente. Ora il tuo desiderio più grande è combattere per difendere la tua città, e sai che l'Anello non è l'arma da usare. Solo tu, con tuo fratello e i tuoi uomini potete salvare Minas Tirith. Astuzia, spade, frecce e catapulte, nient'altro.»

«E non dimentichiamoci che noi abbiamo il Cavaliere Bianco!» fece una voce squillante, interrompendoli. Pipino comparve davanti ai loro occhi, chinandosi per salutarli rispettosamente come si confà ad un importante membro della Cittadella. «Miei signori, sire Denethor e i suoi ospiti vi attendono per il pranzo. Sono passato davanti alle cucine e ho dato una sbirciatina: carne di pollo arrosto e bistecche di vitello in umido, una vera delizia!»

Boromir rise e si alzò, scompigliandogli i capelli riccioluti. «Farò in modo che ne venga lasciato un poco per te, amico mio. Il banchetto della mensa, purtroppo, non è sontuoso come quello di mio padre, se ben ricordo.» Poi porse una mano alla donna, che l'accettò e si alzò, e insieme andarono verso la Casa del Re.

Pipino si accorse solo in quel momento di Brethil e di quanto quell'abito la rendesse graziosa, e non mancò di farglielo notare, con incredibile candore. «Se Merry fosse con me mi tirerebbe una gomitata per farmi tacere, ma sembri veramente una signora di corte.» le disse, camminando accanto a lei. «Sì, insomma, con questo non voglio dire che non sembrassi una donna anche prima, ma ecco... sei meno inquietante.»

Con una risata divertita, Brethil prese per mano lo Hobbit, che rise con lei sollevato di non averla offesa in alcun modo, e strizzò l'occhio a Boromir, che scuoteva mestamente il capo e, probabilmente, si chiedeva come avesse potuto esprimere a voce alta un pensiero simile.

Ma se Pipino e l'uomo fossero tranquilli, Oscurità a parte, così non era per Brethil: ogni singolo passo che portava la donna verso la sala dove avrebbero pranzato la faceva sentire sempre più pesante e il pressante istinto di tornare indietro nella sicurezza della sua stanza alle Case di Guarigione diventò insostenibile. Si sentiva inadeguata per un palazzo simile, per persone importanti come Denethor e i suoi ospiti, fuori luogo per quei suoi modi rozzi di chi aveva sempre vissuto all'ombra degli alberi. E se avesse detto o fatto qualcosa di sconveniente? La presenza di Boromir e, sperò, di Gandalf sarebbe bastata a farla sentire al riparo da qualsiasi problema?

Venne risvegliata dalle sue preoccupazioni quando non avvertì più la piccola mano di Pipino nella sua, poiché aveva accelerato il passo per precederli e annunciare il loro arrivo in sala, come il miglior paggio del re. Avvertì immediatamente nove paia d'occhi su di sé, ma due iridi in particolare la fecero rabbrividire di rispetto e timore. Denethor era del tutto simile a Boromir, fiero nello sguardo e nel portamento, seppur ricurvo dagli anni che avanzavano e dalle preoccupazioni. Sul suo viso altero si leggeva saggezza e per un attimo Brethil temette che riuscisse a comprendere la sua anima solo osservandola; percepì quegli occhi chiari e sottili sulle sue cicatrici e si domandò cosa stesse pensando il Sovrintendente di quelle piaghe. Poi si alzò dal suo piccolo trono a capo tavola, accanto ad uno più grande e vuoto riservato al Re, ed allargò le braccia, in un sorriso che pareva più un ghigno tra le rughe del viso.

«Sia benvenuta nella mia dimora la donna che salvò mio figlio dalla morte! Io, Denethor figlio di Ecthelion II e Sovrintendente di Gondor, ti porgo i miei omaggi e i miei più sentiti ringraziamenti, Brethil figlia di Aeglos.» disse l'Uomo. «Ti prego di sederti nelle vicinanze della mia sedia, cosicché possiamo discorrere durante il pasto, tra una tattica di guerra e l'altra, se ciò ti aggrada.»

Brethil accennò un goffo inchino, che non sfuggì all'occhio attento dell'Uomo. «Ne sarei onorata. Parlerò con te volentieri, mio signore.»

La presenza rassicurante di Boromir al suo fianco sparì quando prese posto, ma lui non si allontanò troppo, sedendosi tra il padre e Gandalf, pensieroso e silenzioso. Fu solo dopo essersi accomodata e dopo aver abbandonato momentaneamente lo sguardo di Denethor, che si accorse delle altre persone presenti intorno alla tavola. Erano importanti signori e sovrani di terre alleate, infagottati nei loro migliori completi, dagli stemmi delle proprie case ben visibili sui petti; non ne riconobbe uno, poiché non era molto informata sulle alleanze e sulle regioni di Gondor, ma Denethor non tardò a presentarle ogni singolo ospite. Fu così che fece la conoscenza di Duinhir e dei suoi figli Duilin e Derufin, dalla terra di Morthond, coetanei di Boromir ma dal viso più giovane e rilassato - in un certo senso le ricordavano i gemelli di Gran Burrone; e c'era il signore di Golasgil, Anfalas, forse l'Uomo più rustico tra i presenti, vestito di un completo in pelle marrone, a ricordare le origini campestri della sua terra; c'era Dervorin, della Valle del Ringló, e il famoso Forlong il Grasso, signore di Lossarnach, un uomo robusto e dalla lunga barba curata che rendeva il suo viso ancora più rotondo di quanto non fosse; Hirluin il Bello, delle Verdi Colline di Pin-nath Gelin, forse il più giovane tra i presenti; e infine Imrahil, Principe di Dol Amroth e zio di Boromir, nonché fratello della sua defunta madre: egli era anziano, eppure bello e vigoroso come Aragorn, poiché nel suo sangue scorreva parte dell'antico sangue elfico che, generazioni prima, si era mischiato a quello mortale degli Uomini.

Fu proprio Imrahil ad alzarsi in suo onore, prendendo un bicchiere e sollevandolo per un brindisi. «Si dice che gli Uomini siano nati per la guerra e per proteggere i più deboli dalle angherie dei nemici, eppure sono sorpreso e felice di vedere con i miei occhi che questo non sempre si rivela essere veritiero. Meriti tutto il mio rispetto e la mia gratitudine, dama Brethil. Mio nipote non sarebbe qui con noi oggi, se non fosse stato per te.»

La donna arrossì visibilmente e chinò il capo. «Tuo nipote è un uomo forte e caparbio. È soprattutto grazie a questo che cammina ancora sulle sue gambe.»

«Fosse stato forte come speravo, avrebbe portato a termine la missione che gli affidai, mesi addietro.» sussurrò quasi a se stesso e con risentimento Denethor, regalando un'occhiata delusa e irata nel contempo al figlio, che chinò il capo.

«Non dubito della tua parola, poiché conosco Boromir e immagino che ti avrà dato parecchi problemi in via di guarigione.» disse Imrahil, sorridendo al nipote e fingendo di non aver sentito le parole del Sovrintendente. «Ma non sentirti a disagio. La modestia, qui, non serve se hai compiuto gesta che verranno ricordate per sempre. Un brindisi a Brethil, figlia di Aeglos!»

La Dùnadan incontrò lo sguardo di Boromir e lui le sorrise dietro la coppa di vino. Poi l'Uomo tornò assorto nei suoi pensieri, volando con la mente accanto al fratello e alla guerra imminente.

Il pranzo proseguì tra i discorsi di guerra e strategie militari. Denethor domandò ad ognuno dei dignitari quali fossero le loro idee su come agire, quali postazioni avrebbero preso e come avrebbero diretto la difesa, e lui ascoltò ogni loro parola, studiando la loro gestualità e i loro sguardi per meglio comprendere le loro intenzioni. Brethil notò che quando il Sovrintendente era seccato la mascella gli si contraeva, così come le narici si dilatavano, perfetta copia del figlio; ma quando ciò che udiva fosse stato di suo gradimento, allora i suoi occhi brillavano e un sorriso ghignante gli increspava le labbra. A prima vista poteva sembrare inquietante, ma Denethor era un uomo saggio e calcolatore, e l'espressione contrita del suo volto era solo segnata dalle numerose preoccupazioni che l'avevano afflitto durante gli anni. La Dùnadan aveva inoltre notato, non senza un certo timore, che troppo spesso l'Uomo si voltava ad osservarla con insistenza, come a volerle scrutare l'anima con quei suoi profondi occhi chiari. Era evidente che fosse incuriosito da lei e probabilmente si chiedeva morbosamente chi fosse in realtà, da dove venisse e come si fosse procurata quelle ferite in viso. Sperò vivamente che non avesse il tempo sufficiente per sottoporla ad un interrogatorio, ma purtroppo il pranzo durò abbastanza da soddisfare la sua curiosità.

E così, cortese come si raccontava per le strade della Città Bianca, Denethor posò il bicchiere di vino e incrociò lo sguardo della donna con un sorriso. «Pare che anche tu sia una guerriera, dama Brethil. Sarei curioso e interessato di sapere quali siano le tue opinioni riguardo la difesa della città.»

Brethil si schiarì la voce, tentando di sostenere lo sguardo dell'Uomo. Nessuno mai prima di allora era riuscito a metterla in così tanta soggezione. «Mi dispiace doverti deludere, mio signore, ma non conosco così bene il territorio di Gondor, né la vostra bella città, per azzardare ipotesi difensive. Se conoscessi le distanze da qui ad Osgiliath, o i pendii e i corsi d'acqua che percorrono queste terre, allora forse potrei tentare di  supporre qualcosa.»

«Ti verrà data una carta, dunque, che potrai studiare dopo il pranzo, così da poterne discutere insieme più tardi.» disse Denethor, con quello che sembrava più un ordine piuttosto che un favore. «Ma ora dimmi, mia signora, perché mai una donna dovrebbe imparare a brandire una spada, mi domando?»

Brethil scambiò una rapida occhiata con Boromir e Gandalf; quest'ultimo chinò lievemente la testa per incoraggiarla a parlare e a non farsi intimidire. Così tornò a guardare il Sovrintendente, e disse con voce ferma: «Non riesco a vedere il motivo per cui non dovrebbe imparare a difendere la sua terra.»

L'altro sembrò colpito e si poggiò contro lo schienale del suo piccolo seggio. «Ma da quanto mi ha raccontato Boromir tu non hai difeso solo la tua terra. O sei di Rohan?»

«Boromir ha detto il vero, mio signore. No, non sono di Rohan, ma ho servito Re Théoden per qualche tempo.»

«Sei dunque una mercenaria?» domandò Anfalas, facendola voltare.

«No, non lo sono. La mia terra si trova al Nord, nello scomparso reame di Arnor.» disse Brethil, non nascondendo la fierezza delle sue origini. «Ma la mia vita mi ha portato anche lontano dalle mie terre, e poiché sono cresciuta in un ambiente in cui bisogna sopravvivere e difendersi, sopra ogni cosa, e aiutare i propri alleati se ne hanno necessità, ho dato la mia spada in servizio di Re Théoden, così come a Re Thranduril, di Bosco Atro.»

Un lieve vociferare sorpreso si levò tra i commensali, stupiti del fatto che avesse conosciuto e addirittura servito il Re degli Elfi Silvani. «Devi avere incredibili doti, mia signora, se due così importanti personalità abbiano accettato la tua presenza tra le loro legioni.» fece Duilin, figlio di Duinhir.

Brethil chinò il capo in segno di ringraziamento, ma non disse niente in suo favore o discapito. L'ambiente prettamente maschilista di quella stanza la faceva soffocare e sentire inadeguata, e non vedeva l'ora che Denethor dichiarasse concluso il pranzo. Non le era mai pesato il fatto di essere una donna in un ambiente di soli uomini, almeno non così tanto. Tutti i soldati che aveva incontrato e con cui aveva scambiato due parole erano sufficientemente intelligenti da capire che una spada in più, se ben usata, era sempre meglio che una in meno, sia che fosse brandita da una donna o da un ragazzetto. Eppure pareva che a Gondor questo fosse considerato strano, forse anche offensivo. Una donna non doveva, infatti, badare solo alla famiglia e alla casa? Una smorfia sfuggì al suo controllo e Denethor la colse immediatamente.

«Mi dispiace se le nostre domande ti recano disturbo, dama Brethil.» disse l'Uomo. «Ma qui, come avrai ben capito, la guerra è un'arte di soli uomini.»

«Sì, l'avevo notato e comprendo il vostro stupore, sebbene non ne condivida le ragioni.» Brethil scosse il capo. «Una donna non può combattere come un uomo? Una donna non ha forse le stesse braccia, le stesse gambe e la stessa forza di volontà di un uomo? Perché privarci di un aiuto in più?»

«Perché le donne sono deboli, con il dovuto rispetto.» fece Forlong il Grasso, addentando un pezzo di carne. «Possono avere una mente astuta, questo è vero, ma il loro corpo non potrà sostenere giorni interi di battaglie. Questo è un dato di fatto.»

«No, è un dato errato.» Brethil sorrise alla vista delle guance paffute e rosse dell'Uomo. «A Rohan le donne vengono addestrate come gli uomini, poiché il loro compito è quello di difendere la propria famiglia, prima della loro terra. E vi assicuro che molte di loro hanno visto numerose albe prima di smettere di combattere. E tra gli Elfi non vi è addirittura alcuna distinzione di sesso, quando ci si reca in guerra. Non giudicate un guerriero dal fatto che porti calzari o gonnelle, signori. Non credo che sia un metro di giudizio corretto, il vostro.»

Boromir trattenne un sorriso di fronte all'ostinatezza e alla risolutezza con cui si difendeva Brethil da quei piccoli attacchi di orgoglio maschile. Guardò il padre e si rese conto che anche lui fosse rimasto piacevolmente impressionato dalla donna, nonostante sembrasse che stesse facendo di tutto per farla inciampare sulle proprie parole. Ma Boromir conosceva Denethor e sapeva per certo che quello fosse un piccolo test per conoscere la loro ospite e metterla alla prova. Probabilmente, nei loro prossimi incontri avrebbe dato libero sfogo alla sua curiosità senza malizia alcuna.

«Molto bene, dunque.» disse il Sovrintendente. «Parlaci di Rohan e del tuo servizio ai nostri cari alleati, dama Brethil. Gandalf mi ha parlato della battaglia al Fosso di Helm, eri presente anche tu?»

«Solo per una breve parte, poiché ero impegnata sul fronte occidentale, ai Guadi dell'Isen.» spiegò la donna. Denethor la esortò a parlare e lei, dopo un breve respiro di conforto, iniziò a raccontare di quei lunghi giorni.

 

 

 

*

 

Grazie a tutti i lettori!

A presto,

Marta.

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Capitolo 9
*** 09. ***


Finalmente posso dirmi un po' più libera dagli esami - ho finito gli ordinari, ora mi mancano un paio di recuperi, ma ho più tempo per dedicarmi alla scrittura.

Era ora!

Corro subito a rispondere alle ultime recensioni!

Buona lettura,

Marta.

 

Betulla


09.

11 Marzo 3019 T. E.

 

«Ho superato la prova?»

«Brillantemente.»

Brethil sospirò, lasciandosi cadere su una panca in pietra, nel giardino delle Case di Guarigione. Si sentiva esausta per l'estenuante viaggio, ma ancor di più stanca da quell'infinito pranzo. Aveva dovuto far ricorso a tutte le sue buone maniere, le poche che conosceva, per rispondere educatamente a tutti i quesiti che le venivano posti, anche quelli più eccentrici. Le frecce più pericolose erano quelle che provenivano dalla sua destra e il timore di non essere piaciuta al Sovrintendente le mozzava il respiro. Il perché volesse fare una buona figura agli occhi dell'Uomo, poi, rimaneva un mistero che non aveva intenzione di approfondire.

«Perdona mio padre, non vuole essere cattivo e non si diverte a mettere a disagio i suoi ospiti, anzi.» disse Boromir, sedendosi accanto a lei. «È solo che vuole studiare chi ha di fronte, per capire se si tratti di un nemico o di un amico... per capire se può concedergli la sua stima o meno.»

«Non accuso tuo padre, né il resto dei presenti. Immagino sia lecito, da parte loro, conoscere le motivazioni di tanto femminismo che è ovvio non condividano.» Brethil abbozzò un sorriso stanco. «Sai, anche Éomer la pensava esattamente come loro. Molto spesso abbiamo avuto lunghe conversazioni, anche accese, sul ruolo della donna in battaglia. Ma alla fine si sono sempre concluse pacificamente con risate e battute.»

«Devo ammettere che anche io sono dalla loro parte, Brethil.» confessò Boromir. «Sono stato educato con questa mentalità, non farmene una colpa.»

«Non è mia intenzione. Ma ciò non vuol dire che, sebbene ti abbiano educato così, tu non possa decidere da solo cosa pensare.»

«È vero, nessuno mi vieta di cambiare idea. E dopo aver ascoltato i tuoi racconti credo di essere su quella strada, ormai. Eppure rimango del parere che possano esserci delle eccezioni, ma non interi eserciti di donne. Non sarebbe normale.» Boromir si accorse troppo tardi dell'occhiata risentita della donna, e si affrettò ad aggiungere: «Le città non possono rimanere sguarnite del tutto di difesa, del resto, non trovi?»

Qualunque cosa Brethil avesse avuto intenzione di dire non gli fu concesso saperlo. Brethil era troppo divertita dal salvataggio ortodosso dell'uomo per ribattere. Stettero in silenzio e, nell'osservare quelle nuvole innaturalmente nere che velocemente si avvicinavano sopra le loro teste, tornò anche la preoccupazione.

«Mi domando come stiano gli altri.» disse l'Uomo, sospirando. L'espressione del suo viso divenne grave, nel guardare le montagne oscure davanti ai suoi occhi. «Chissà se Frodo... chissà se è ancora vivo? Faramir ha detto di averlo incontrato con Sam, tre giorni fa... ma non sono più sicuro che possa riuscire ad andare avanti.»

«Sapevi che il compito che gli è stato affidato è un fardello talmente pesante che difficilmente sarebbe andato in porto, Boromir. Lo sapevi tu, e ne era cosciente anche il Consiglio di Elrond. Il luogo dove è diretto non è adatto a nessuno di noi, ma conosco gli Hobbit e so quanto siano tenaci. Non disperare.»

«Non è della loro temerarietà che mi preoccupo, bensì della via che hanno imboccato. Faramir ha detto che Gollum li stava conducendo presso il valico di Cirith Ungol e...»

«Gollum, hai detto? Sono guidati da Gollum?» esclamò Brethil impallidendo e scattando in piedi. Vacillò subito dopo per un capogiro e Boromir la sostenne prima che crollasse in terra.

«Stai bene? Non dovresti affaticarti, amica mia.» le domandò, aiutandola a sedersi. Sentì la mano di lei stringersi con forza nella sua.

«Rispondimi, Boromir. Gollum è con loro?»

L'Uomo annuì, e lei si nascose il viso tra le mani. «Che cosa ho fatto? È per questo che quell'essere doveva essere liberato? Per portare alla morte gli Hobbit? Oh, Boromir, voglio morire!»

«Non dire sciocchezze. La profezia che udisti in sogno non diceva forse che doveva essere liberato se il Mezzuomo voleva percorrere la via oscura?»

«Sì, ma niente parlava della sua guida!» Brethil era un fascio di nervi tesi e aveva gli occhi grigi sbarrati e lucidi. Il suo viso sfregiato pareva ancora più martoriato da quell'espressione terrorizzata. «Boromir, quell'essere è meschino, brama una cosa soltanto e sappiamo entrambi di cosa si tratti. Farebbe qualunque cosa, qualunque!, pur di riavere l'Anello per sé. Lo ha tenuto per cinquecento anni, gli ha avvelenato la mente e finché non morirà continuerà a volerlo. Neanche tra un'era riuscirà a disfarsi di questo suo morboso desiderio.»

Boromir rimase in silenzio per qualche istante, poi parlò, sottovoce. «Diventerò anche io come lui? Continuerò a sognare di tenerlo tra le dita per sempre?»

Brethil sollevò lo sguardo su di lui e per un attimo la sua espressione tesa si addolcì. «L'influsso che hai subìto non è stato così forte da corrompere il tuo animo, Boromir. Nemmeno lo hai mai toccato, da quanto mi hai detto. Non diventerai come Gollum, puoi stare tranquillo.»

L'Uomo socchiuse gli occhi e poggiò la fronte contro quella della donna, sospirando. «Mi chiedo come avrei fatto se non ti avessi incontrata, Brethil. Se fossi sopravvissuto, quel giorno, senza il tuo soccorso, sarei comunque morto per i sensi di colpa e la paura.»

Quella vicinanza improvvisa ebbe lo strano effetto di farla arrossire. Brethil trattenne il fiato, per paura di muoversi e di rompere quel piccolo momento di perfezione, e abbassò lo sguardo, per evitare di incontrare gli occhi dell'Uomo. Non c'era niente di sbagliato in quel gesto di amicizia e gratitudine, eppure sentiva che fosse una situazione inopportuna e imbarazzante. Era certa che con Aragorn, o Halbarad, o i gemelli non avrebbe provato nessun senso di fastidio, e la cosa la spaventò. Aprì nuovamente gli occhi e gli accarezzò il viso un po' ispido per la barba che ricresceva, approfittando del sorriso di lui per allontanarsi un poco senza insospettirlo.

«È meglio che vada a studiare le carte che tuo padre mi ha dato, Boromir. Ho il sospetto che questa sera voglia davvero chiedermi consiglio e non vorrei farmi trovare impreparata.»

L'Uomo sembrò accigliarsi, ma il suo tono di voce non cambiò. «Oh, te lo chiederà sicuramente. Gli piace avere una visuale più ampia, se gli è concesso, e approfitterà della tua presenza e della tua esperienza finché gli servirà. Se vuoi possiamo vederle insieme, cosicché possa spiegarti da che parte è probabile che proverranno le forze nemiche e di quanti uomini disponiamo.»

Brethil annuì e insieme tornarono alla sua stanza. Ma prima che giungessero alla porta, la donna lo fermò. «Devo chiederti il favore di attendere fuori, per qualche minuto. Ho il bisogno di togliermi questo abito.»

L'Uomo rise e annuì. «Sì, non ti biasimo certo! Fai pure, chiamami appena finisci.»

La Dùnadan si richiuse la porta alle spalle e sospirò. Doveva darsi una calmata, oltre che una sistemata. Non voleva provare imbarazzo con Boromir, non voleva incrinare quella preziosa amicizia che si era saldata tra loro. Forse era quell'abito che l'aveva fatta apparire un poco più appetibile e Boromir, essendo un uomo, se n'era accorto. Ma lei non era una donna come le altre: non le importava imbellettarsi per qualcuno, non amava sfoggiare vestiti riccamente decorati, né acconciarsi i capelli o indossare gioielli. La sua seconda pelle era quella logora divisa dei Raminghi del Nord, grigia e scarna, eppure regale con quella spilla stellata che fermava il mantello sulla spalla destra. Era così che si sentiva ancora viva, così che poteva aggrapparsi a qualcosa in cui poteva riconoscersi, così da sentirsi protetta dagli sguardi di chiunque, anche di Boromir. Magari, tornando in quelle vesti, quella strana sensazione che aveva avvertito mentre lui la guardava sarebbe sparita.

Si cambiò con lentezza, ancora stanca nonostante l'abbondante pranzo; indossò gli stretti pantaloni color fumo e gli stivali più chiari sopra; una leggera casacca grigia e poi una più pesante e spessa, da allacciare sul torso, stretta intorno alla vita dalla cintura, dove avrebbe dovuto pendere la sua fedele Celeboglinn, ora riposta con cura nel suo fodero sulla cassapanca. Ripiegò l'abito con poca grazia e lo lasciò sul letto, sperando che qualcuno lo facesse sparire al più presto. Non lo avrebbe rindossato per la cena, non ne aveva la minima intenzione. Avrebbe sopportato lo sguardo perforante del Sovrintendente, quella sera, piuttosto che sentirsi nuovamente costretta in un ruolo che non le apparteneva.

Quando riaprì la porta, trovò Boromir poggiato contro il muro esterno dell'edificio, mentre discuteva con un soldato, che venne congedato immediatamente appena Brethil comparve.

«Sei l'unica donna che conosco che rifiuta un abito come quello per ciò che indossi ora.» disse Boromir guardando il vestito abbandonato sul letto, con una nota di ironia nella voce.

«Non fa per me, semplicemente.» fece lei, stringendosi nelle spalle. «Piuttosto, dovremmo andare in un luogo più adatto, anziché nella mia stanza. Non vorrei che la tua reputazione venisse macchiata da strane dicerie.»

«Oh, non preoccuparti di quello. Non mi curo dei pettegolezzi di nessuno, Brethil. Sto semplicemente studiando delle strategie di guerra con un soldato.»

La Dùnadan si strinse nelle spalle e si sedettero attorno al tavolo, stendendo le carte di Gondor sotto i loro occhi. Boromir le spiegò velocemente da dove venissero i Dignitari che aveva conosciuto quella mattina, e le indicò quali fossero le loro ultime roccaforti ancora in piedi, Osgiliath in primo luogo.

«Era la capitale del nostro regno, tanto tempo fa. Cadde in rovina durante la Lotta delle Stirpi e, successivamente, dopo la Grande Epidemia. Doveva essere bellissima nel suo periodo di splendore, già ora è commovente. Oggi è un avamposto sul fiume molto importante per Minas Tirith. Se gli eserciti da Est decidessero di attaccare, noi lo sapremmo con largo anticipo e potremmo preparare le difese. Ahimè, questa volta il nemico era dieci volte superiore della nostra difesa ed è stata presa. Faramir difficilmente riuscirà a riconquistarla.» aggiunse, preoccupato per le sorti di suo fratello. «Dopo Osgiliath c'è il Rammas Echor, la grande muraglia che protegge Minas Tirith. Circonda tutti i campi del Pelennor per più di dieci leghe. Questo è uno dei cancelli più lontani dalla Città, dista quattro leghe e c'è un fronte elevato che permette una buona vista sui campi e sul fiume. Questo, invece, è il punto più critico, perché è quello più vicino alla città e quello da cui temiamo più rappresaglie, qui a sud-est: dalla muraglia alla fortezza c'è poco più di una lega di distanza. È da questa parte che arriverà l'esercito proveniente da Minas Morgul, ma abbiamo notizia anche di corsari provenienti dal Sud.» Seguitò a parlare per altri minuti e Brethil lo ascoltò con attenzione, memorizzando distanze, nomi e tutte le informazioni che riusciva ad assimilare.

«L'unico fianco che pare coperto è quello nord, dove arriverà Rohan. Saruman non è più un problema, dopo la sconfitta al Fosso di Helm.» disse la donna, pensierosa. «Quanti uomini avete lì?»

«Duecento, pronti a spostarsi in caso di bisogno verso la porta ad Est. Sei sicura che Rohan risponderà alla nostra richiesta di aiuto?»

«Lo farà, sì. Ha subìto numerose perdite, ma non si tirerà indietro. Questa guerra interessa tutta la Terra di Mezzo, non solo Gondor. Quando sono partita Re Théoden stava radunando tutto il suo esercito a Dunclivo. Sarebbero partiti in un paio di giorni.»

«Bene, molto bene.» Boromir prese un'altra carta, quella di Minas Tirith, e le indicò i vari livelli e la posizione delle sette Porte. «Quella d'ingresso è robusta e indistruttibile. Ha resistito per secoli agli attacchi del nemico e del tempo, compresa la prima cerchia di mura. Se dovesse cadere dovremmo spostarci al Secondo Cerchio e difendere l'unica entrata da qualsiasi cosa ci sia fuori.»

«Donne e bambini verranno evacuati prima della battaglia?»

«Sì, i primi quattro cerchi sono già svuotati di civili. Chi rimane sono fabbri e carpentieri, al sesto livello. Si stanno recando verso Sud-Ovest, scortati da trecento soldati.»

«Chi è invece rimasto dove può rifugiarsi? Non esiste una via per la montagna?»

«Esiste un sentiero molto antico, ma porta verso la cima del Mindolluin e non è una via facile da percorrere. Nel malaugurato caso che neanche il Quinto Cerchio sia usufruibile chiederò a mio padre il permesso di far entrare quanti più civili possibile nelle Tombe dei Re. Vengono aperte solo nel caso di un funerale, ma niente è stato precisato nel caso di assedio. I corridoi dove riposano gli antichi sovrani di Gondor sono ampi e si snodano per parecchio nel ventre del monte. Vi è un'unica entrata per le cripte e rimane ben protetta.»

Brethil annuì, sperando in cuor suo che non dovessero arrivare a tanto. Non aveva idea di quanto grande sarebbe stato l'esercito di Mordor, diretto come un'onda contro Minas Tirith, ma da ciò che le era stato riferito non era quantificabile. Avrebbero superato quella guerra o sarebbero caduti sotto il potere delle ombre?

Discussero a lungo sulle possibili strategie da utilizzare e le ore trascorsero velocemente. Boromir attendeva da un momento all'altro che il padre lo convocasse, ma ciò non avvenne. Probabilmente, pensò, Denethor era ancora troppo adirato con il primogenito per parlare con lui di guerre e tattiche, tanto da non aver voglia di ascoltarlo. Ciò che invece non lo sorprese fu la convocazione di Brethil, peraltro già annunciata.

Pipino giunse con il fiatone sulla soglia della porta, avvisando la donna che il Sovrintendente desiderava vederla, e lei trattenne il fiato. Si voltò verso l'Uomo, chiedendogli tacitamente di accompagnarla, ma lui scosse il capo.

«Mio padre ha chiesto di te, Brethil, non di suo figlio. Credo che non sia ancora pronto per parlarmi, e anzi, vorrà porti delle domande su quello che successe ad Amon Hen.»

«Non è quello che temo.»

Boromir sospirò pesantemente, capendo le sue paure. «Non sentirti in dovere di raccontargli la storia della tua vita. Non è un interrogatorio e tu non sei l'interrogata. Proverà a carpire qualcosa di ciò che tieni nascosto e tenterà di farti parlare con la sua abile dialettica.» Poi sorrise. «Ma tu hai la lingua lunga, come mi hai dato prova di vedere, non avrai problemi a tenergli testa.»

La Dùnadan non fu molto convinta di quelle parole, eppure ebbero il potere di incoraggiarla. Seguì Pipino in silenzio, chiudendo le mani a pugno, dato che non poteva stringere l'elsa della sua spada. Forse con quella al suo fianco si sarebbe sentita un po' più al sicuro dalle parole taglienti dell'uomo, ma non poteva presentarsi armata al suo cospetto. A meno che non volesse finire dietro le sbarre di un carcere.

La pesante porta d'ingresso alla Sala del Trono venne aperta da due guardie e Brethil camminò con la testa alta e la schiena dritta verso il seggio del Sovrintendente, che l'attendeva in silenzio, scrutandola. Pipino, che le camminava velocemente accanto, le strinse una mano.

I loro passi riecheggiarono leggeri contro i muri scarni dell'ampio salone e, mentre lei si fermò a qualche metro di distanza dall'uomo, Pipino proseguì, avvicinandosi e attendendo ordini al suo fianco.

Fu solo allora che Denethor sorrise e le diede il benvenuto. «Sono lieto che abbia accettato di parlare con un povero vecchio come me.»

La voce le tremò un attimo all'inizio, ma riuscì a mantenerla ferma poco dopo, tentando di non inciampare sulle proprie parole. «È per me un onore avere la possibilità di discorrere con il Sovrintendente di Gondor, mio signore. Ma permettimi di dissentire dalle tue ultime parole, poiché ho conosciuto molti uomini che dicevano di essere vecchi e poveri, e in realtà erano potenti e vigorosi, nonostante l'età avanzata.»

Denethor sembrò apprezzare quella risposta e annuì. «Immagino ti riferisca al nostro amico e alleato Re Théoden, o al saggio Mithrandir.»

«Loro sono solo l'apice degli esempi che potrei elencare, mio signore. Anche chi non ha una corona sul capo o un bastone magico tra le mani, ma solo una spada per difendere la propria terra può essere ritenuto ugualmente saggio e potente.»

 «E lo sono anche le donne guerriere, a quanto pare.» fece lui, notando con piacere il delizioso colorito rosso sulle guance sfregiate di lei. Non fece commenti sul suo abbigliamento, ma Brethil sentiva gli occhi dell'Uomo osservare con interesse ogni centimetro di quegli indumenti, soffermandosi sulla spilla a forma di stella sulla sua spalla. «Mio figlio mi ha raccontato chi sei, ma mi piacerebbe udire la tua storia di persona. Non tutti i giorni mi capita di avere il privilegio di ascoltare una discendente di Númenor.»

«E cosa potrei raccontare per non annoiarti, mio signore?»

«Non credo che mi annoierò. A quanto ho capito la tua vita non è stata così monotona.» disse, ora guardando insistentemente le cicatrici su quello che un tempo era un bel viso.

Brethil si umettò le labbra prima di parlare. «No, non lo è stata. Mio padre faceva parte dei Raminghi del Nord, così come mia madre e tutta la nostra famiglia. Sono cresciuta con il solo pensiero di difendere i popoli della mia terra e ho ricevuto gli allenamenti di Elfi e Uomini. Mi capitava spesso, infatti, di recarmi a Imladris, dove i figli di Re Elrond sono diventati miei amici e maestri di spada e arco.»

«Un onore immenso, il tuo. Sai parlare anche l'Elfico, quindi?»

«Sì, lo parlo e lo comprendo, mio signore.»

«Notevole, davvero notevole. E quali luoghi hai difeso, se posso saperlo?»

«L'Eriador del Nord, principalmente, e Bosco Atro.»

«Difendevi anche la terra del mio piccolo scudiero?»

«Sì, mio signore. Per anni i Raminghi del Nord hanno difeso la Contea.»

«E per quale motivo una landa dimenticata e sconosciuta ai più ha dovuto circondarsi di Raminghi?»

Brethil rabbrividì notando lo scintillio sinistro negli occhi del suo interlocutore. Scambiò una rapida occhiata con Pipino, che tratteneva il fiato, poi riportò la sua attenzione sul Sovrintendente, sorridendo. «Se fosse possibile descrivere la bellezza e l'integrità della Contea e dei suoi abitanti sarebbe più facile per me spiegarlo, mio signore.»

Lo Hobbit riprese a respirare, ricambiando il sorriso amaramente nel ripensare alla sua terra che tanto gli mancava. Erano mesi che non metteva i suoi grandi piedi pelosi sulla soffice erba di Hobbiville, ma quel luogo era così profondamente fissato nel suo cuore e nella sua memoria che poteva benissimo sentire il profumo dell'aria pulita o il sapore dei funghi appena raccolti.

Pipino cacciò indietro le lacrime di nostalgia, per concentrarsi nuovamente sulla discussione, che ora era volata repentinamente sul giorno in cui Brethil aveva salvato la vita di Boromir. Il Sovrintendente ascoltava con attenzione il racconto della donna, senza osare interromperla, e lei non esitò un istante. Sapeva che Denethor fosse a conoscenza della debolezza del figlio, così come della missione di Frodo e Sam, ma evitò abilmente di nominare l'uno e l'altro. Lei, del resto, sarebbe dovuta rimanere all'oscuro di tutto, estranea alla Compagnia dell'Anello. Denethor capì che sapesse qualcosa, ma non le chiese altro. Quello per lui era un segno di rispetto nei confronti del Consiglio di Elrond e, sebbene non ne condividesse i fini, apprezzò l'abilità di Brethil nel raccontare la sua personale storia, senza accennare all'Anello.

«Boromir mi parlò di un Uomo, suo compagno di viaggio... un Ramingo, come te. Mi ha detto che è un uomo d'onore e un grande capo. Sai di chi sto parlando?»

Lei abbozzò un sorriso mesto, capendo finalmente il filo del discorso. Boromir non sbagliava nel dire che suo padre avrebbe potuto ottenere qualsiasi informazione con l'arte della dialettica. Denethor voleva informazioni sul futuro Re di Gondor, era ovvio. Così come fosse chiaro come il sole che ci fosse una sottile linea di veleno nelle sue parole. «Sì, credo di sì. Grampasso si fa chiamare nel Nord, Aragorn è il suo nome, conosciuto come Estel tra gli Elfi. Che cosa vuoi sapere di lui, mio signore?»

Gli occhi piccoli e penetranti dell'Uomo si assottigliarono. «Una voce mi è giunta, una voce che dice che egli sia discendente di Isildur, unico erede al trono di Gondor.»

«Sapete tutto quello che c'è da sapere, dunque.»

«So che è anziano a sufficienza per aver avuto numerose occasioni di tornare nella sua terra, eppure il trono accanto al mio è ancora vuoto.»

«Non serve una corona per fare di un uomo un Re, mio signore.» rispose Brethil, cortesemente, ma con fermezza. «Come sicuramente Boromir ti avrà riferito, Aragorn attende il momento migliore per prendere ciò che gli spetta di diritto. In un momento critico come questo è bene per Gondor non essere sconvolti dalla notizia del ritorno del Re, per quanto lieta sarebbe, ma bisogna concentrarsi sulla difesa. Cosa che lui stesso sta portando avanti con caparbietà e coraggio.»

«Parli come se lo conoscessi bene.»

«E così è, mio signore. Aragorn è sempre stato una guida per me e per tutti noi. Lo sarà anche per il tuo popolo.»

«Se mai farà ritorno a Minas Tirith.» sussurrò Denethor, chinando lo sguardo sul suo scettro bianco, quasi con risentimento. Poi l'ombra sul suo volto anziano sparì, lasciando spazio ad un sorriso sincero. «Brethil, figlia di Aeglos, è mio dovere ringraziarti ancora una volta per aver salvato la vita di mio figlio. Neanche un'Era di omaggi basterebbe a colmare tutta la mia gratitudine nei tuoi confronti. Quindi, se c'è qualcosa, qualsiasi cosa che desideri, io vedrò di esaudirla.»

Lei si chinò. «Sono io a ringraziarvi per la vostra offerta, ma il soggiorno e le cure che mi state dando sono sufficienti. L'unica cosa che desidero ora è rivedere la luce del sole e visitare la tua bella città splendente sotto i suoi raggi e udire le musiche delle trombe d'argento che tanto Boromir ha elogiato.»

«Ahimè, non posso darti quello che chiedi, non senza un'arma nelle mie mani.»

«Il coraggio e l'amore per questa terra sono le armi migliori che abbiamo ora, mio signore.» lo interruppe bruscamente lei, forse troppo bruscamente, si accorse in ritardo, quando sentì l'occhiata irritata dell'uomo.

Denethor fece per parlare, ma rinunciò a qualsiasi controbattuta tagliente. «Sì, hai ragione. Speriamo solo che i nostri vicini alleati di Rohan ci raggiungano per tempo.»

«Lo faranno.»

«Un'ultima domanda, prima di congedarti.»

Brethil si sentì avvolgere da uno strano senso di inquietudine. Perché sentiva che quell'ultima richiesta, prima della liberazione da quell'interrogatorio, sarebbe stata ben più pesante di tutte le domande precedenti.

«Con quale urgenza sei giunta a Minas Tirith, rischiando di perire per fame e stanchezza? Il tuo posto non è forse accanto a Théoden?»

«Il mio posto è accanto ad Aragorn, mio signore. Ma c'erano delle questioni importanti che dovevo riferire a tuo figlio.»

«Questioni di che genere?»

Lei scosse il capo. «Preferirei mantenerle per me, con il dovuto rispetto, mio signore.»

«Riguardano la guerra? I piani del nemico? Perché se così fosse, il mio sarebbe un ordine.»

Brethil scosse il capo, ancora una volta. «Niente di tutto questo, ma altrettanto importanti. Ti prego solo di non domandare oltre.»

Il Sovrintendente allargò le braccia, distendendosi in un sorriso. «Così sia. Va', ora, e riposati. Ti attendo per la cena, dama Brethil. Sarebbe un piacere averti nuovamente accanto. E potremo parlare ampiamente di guerra, se hai studiato le carte che ti ho fatto portare.»

Lei si chinò ancora una volta e salutò Pipino con un lieve increspamento delle labbra. Si voltò e percorse quasi con urgenza la distanza che la separava dall'uscita. Non seppe dire se provò sollievo nel vedere quel cielo innaturalmente plumbeo o se cadde nuovamente nello sconforto, ma quando sentì la porta richiudersi alle sue spalle tirò un sospiro di sollievo. Denethor non era stato poi così crudele nel porle le domande: era cortese ma acuto e sapeva fin dall'inizio quali domande porre per avere le risposte giuste; ma detestava quando gli occhi di qualcuno, soprattutto un estraneo, indugiavano troppo sulle sue ferite, interrogandola silenziosamente, supponendo e immaginando le possibili cause. Eppure lei era pienamente cosciente che avrebbe dovuto sopportare anche quello, nella vita: gli sguardi dei curiosi erano il minimo pegno che doveva pagare per risarcire la Terra di Mezzo del suo gesto.

Si guardò intorno per cercare gli unici volti familiari della zona, ma purtroppo non vide né Boromir tantomeno Gandalf nelle vicinanze. Tornò alle Case di Guarigione, sperando di non incrociare la vecchia e petulante Ioreth, e per una volta la fortuna le fu accanto. Si ritrovò nella sua stanza in pochi minuti e guardò avidamente le sue armi ancora abbandonate sulla cassapanca. Prese Celeboglinn con riverenza e la osservò, riportando alla mente il momento in cui l'aveva toccata per la prima volta. Anche protetta dal fodero poteva percepire la forza della fattura elfica. Legò in vita la cintura della spada e uscì in giardino, un luogo ben riparato dagli sguardi dei curiosi e silenzioso - ottimo per una veloce esercitazione. Se avesse seguito Aragorn magari avrebbe potuto riprendere gli allenamenti con i gemelli di Elrond, ma purtroppo essi erano ben lunghi da Minas Tirith, e lungo un percorso ben più periglioso del suo.

Sospirò mentre estraeva Celeboglinn e l'afferrava con entrambe le mani, assaporando la piacevole sensazione degli intagli sui polpastrelli. Poi chiuse gli occhi e diede inizio alla danza di routine che soleva fare in allenamento. E in quei momenti tutto spariva, per lasciarla in balia di quei movimenti che aveva imparato a compiere meccanicamente ma con grazia, mentre combatteva contro nemici immaginari, fendendo l'aria con forza e spietatezza.

Boromir, che l'aveva notata mentre tornava alle Case e l'aveva seguita senza che lei se ne accorgesse, rimase piacevolmente  impressionato da quello strano stile di battaglia che la caratterizzava, poiché mai l'aveva veduta combattere prima di allora. Una donna che sapeva impugnare un'arma era di per sé una novità, ma se a questo sommava l'eleganza elfica che impregnava ogni suo gesto il risultato era stupefacente. Aveva visto la grazia dei movimenti di Legolas nello scoccare una freccia o nell'usare quei suoi pugnali sinuosi e letali, e non pensava certo che un Mortale potesse eguagliarle l'abilità di un Elfo. Eppure in ogni fendente di Brethil, in ogni passo e in ogni giravolta c'era più del sangue di un Uomo: c'era l'abilità forgiata dagli anni, allenata probabilmente dagli Elfi stessi fino allo sfinimento; e non poteva sapere che si fosse avvicinato alla realtà più di quanto avesse ipotizzato.

Brethil mosse due passi veloci, spostando repentinamente la lama prima a destra poi a sinistra, con un affondo. Scartò un invisibile colpo, chinandosi in avanti, facendo leva su un piede e scattando all'indietro. Nella realtà il suo invisibile avversario sarebbe dovuto perire sotto un fendente contro la schiena, ma la sua spada ne incontrò un'altra, facendole sbarrare gli occhi. Boromir aveva estratto la sua e la osservava con curiosità e interesse. La spada dell'uomo, che aveva ritrovato la lucentezza di un tempo dopo una visita dal fabbro, era ben più pesante e grossa rispetto a quella della donna, perfetta per un uomo possente come lui. Brethil liberò la sua lama e fece un passo indietro, portando Celeboglinn dritta all'altezza della sua spalla destra e mettendosi in posizione di attacco. Il suono del ferro contro altro ferro risuonò per l'intero giardino e molti, tra guardie e guaritrici accorsero in preda al panico, temendo che qualche nemico fosse riuscito ad eludere l'estrema sorveglianza della città. In pochi minuti la notizia di una donna guerriera che combatteva contro il figlio del Sovrintendente si diffuse tra il quinto e il sesto livello e presto i due si ritrovarono circondati da una piccola folla di curiosi che aveva momentaneamente abbandonato le proprie mansioni per spiare il loro piccolo spettacolo.

Brethil, sebbene abituata a combattere contro gli Orchi, trovò non poca difficoltà a tener testa ad un uomo come Boromir, ancora debilitata per il suo viaggio e sopraffatta dalla sua forza. Ma era orgogliosa e determinata a farsi valere comunque, nonostante si scoprisse più volte ad arretrare e a difendersi, piuttosto che ad attaccare. Si ritrovò con la schiena contro un albero, la spada puntata verso il basso, obbligata dalla lama di Boromir che la bloccava, e l'uomo che sorrideva. «Dovresti riposarti, Brethil, anziché stancarti inutilmente prima della guerra.»

«Siamo già in guerra. Non è un lavoro inutile il mio.» rispose lei. «E togliti quel sorriso dalle labbra, non hai ancora vinto.»

«Sei spalle al muro.»

«Posso recuperare.»

«Vuoi riprendere un po' di fiato?»

Brethil strinse i denti e, con le poche forze rimaste, lo fece arretrare, più per la sorpresa che per l'effettiva riuscita del suo gesto. I curiosi, intorno a loro, rimasero stupiti e un mormorio modesto iniziò a sollevarsi dalle loro bocche. C'era chi sottolineava la caparbietà della donna, chi la sua maleducazione nel rivolgersi al Capitano della Torre Bianca in quel modo, chi indicava le piaghe che aveva in viso. Ma Brethil non udì una sola parola. Nella sua mente c'era spazio solo per quel piccolo duello che stava portando avanti. Non avrebbe vinto una guerra, ne era consapevole, ma sarebbe stato un grande passo per la sua battaglia personale a favore delle donne che, come lei, impugnavano una spada con la stessa determinazione di un uomo. Ma la sua voglia di vincere non ebbe la meglio sulle forze che scemavano velocemente e Boromir le puntò la spada alla gola.

La ritirò poco dopo, chinandosi e portandosi una mano al cuore, in segno di profondo rispetto. «Mai avrei pensato di alzare la mia lama contro una donna. E così abile, per giunta!»

«Ti ho lasciato vincere.» gli disse, con il fiato corto, guardando il gruppo di spettatori. «Non volevo mettere a dura prova il tuo orgoglio maschile.»

Boromir corrugò la fronte, in un'espressione vagamente divertita e stupita. «Devo ringraziarti, dunque?»

«Sarebbe gentile da parte tua, mio signore

L'Uomo si lasciò andare ad una roca risata, rinfoderando la spada e avvicinandosi alla donna, una mano sulla sua spalla. «Devo congratularmi con te, Brethil, poiché se non ti avessi visto con i miei occhi non avrei creduto neanche alle parole di Aragorn.»

«Sa essere molto convincente, a volte.»

«Non lo dubito, ma sono una persona diffidente, ormai dovresti averlo capito.» Boromir si voltò verso i curiosi e li salutò con un cenno del capo. «Potete anche tornare alle vostre mansioni, gente. Lo spettacolo è concluso.»

Brethil ritirò la sua Celeboglinn, non senza notare il particolare interesse dell'uomo verso la sua arma.

«Sembra difficile da maneggiare.» fece Boromir.

Lei scosse il capo. «È solo questione di abitudine. Ho avuto dei buoni maestri.»

«Chi ti ha insegnato?» le domandò, mentre s'incamminavano verso una panchina, per permetterle di riprendere le energie.

«Mio padre fu il primo ad addestrarmi, alla maniera degli Uomini. Quando Aragorn mi consegnò questo dono, subentrarono due amici che forse hai veduto durante il tuo soggiorno a Rivendell. Elladan ed Elrohir, figli di Re Elrond. Essi sono molto amici e compagni di viaggio dei Dùnadan.»

«Sì credo di ricordarli, belli e giovani. Ma si fermarono per pochi giorni, occupati con Aragorn a Nord.»

Il viso di Brethil si addolcì al pensiero dei gemelli. Erano due persone che avevano l'incredibile potere di rilassarla con il solo suono della voce, il loro sorriso e le parole confortanti che riuscivano sempre a reperire nei momenti più difficili. Erano sempre stati una luce nella sua buia vita fatta di battaglie e sangue e le mancavano terribilmente, soprattutto in una città straniera come Minas Tirith.

«Sarei dovuta essere al loro fianco, ora.»

Una fitta di fastidioso dolore colpì Boromir. «Ti penti di avermi raggiunto?»

«No!» esclamò lei, rendendosi conto dell'equivocabile interpretazione della sua frase. «Non intendevo questo, Boromir. Sono felice di essere qui, al tuo fianco. Ma come te, qualche settimana fa, avresti voluto essere in due luoghi contemporaneamente, così è ora il mio cuore. Probabilmente se fosse stata con loro il mio pensiero sarebbe andato a te.»

L'Uomo voltò il capo verso nord, non del tutto convinto delle sue parole. «Non saresti dovuta venire fin qui.»

«Ti chiedo perdono per la mia apprensione.» replicò sarcasticamente lei.

«Brethil.» la riprese Boromir, tornando a guardarla. «Ho già avuto modo di spiegarti che la morte non mi spaventa, non se questa giunge nel momento in cui sto difendendo la mia terra. Non c'è niente che tu possa fare per fermarmi e salvarmi.»

«Abbiamo già affrontato questo argomento.»

«Lo so, ma non capisco perché tu sia qui, al di là del racconto su tuo padre. Preferisci stare accanto ad uno sconosciuto piuttosto che alle persone che ti hanno insegnato a vivere?»

«Preferisco stare accanto ad un amico che ho imparato ad amare, così come avrei preferito percorrere i Sentieri dei Morti con Aragorn, Halbarad e i gemelli.»

Lo sguardo di Boromir s'incupì, senza quasi sentire le sue prime parole. «I Sentieri dei Morti, dici? Aragorn percorrerà quella via? Andrà incontro alla morte!»

Brethil tentò di calmare l'uomo invano. «Non giungere a conclusioni affrettate, lui---»

«Non lo sono, infatti.» L'interruppe Boromir, scioccato dalla notizia appena ricevuta. I Sentieri dei Morti! Aragorn era forse impazzito? Abbandonarli in un momento come quello, quando la sua presenza avrebbe potuto giovare gli animi di numerosi soldati, il suo in primo luogo! Gli aveva promesso che sarebbe giunto a Minas Tirith e come Re avrebbe varcato il cancello d'ingresso insieme a lui, eppure ora quell'immagine idilliaca sembrava svanire davanti ai suoi occhi chiari.

«Boromir, non pensare un singolo momento che Aragorn ti abbia tradito o che voglia scappare per trovare la morte prima di tutti. Nelle sue vene scorre il sangue di Isildur, lo stesso che sconfisse Sauron, lo stesso che maledì i suoi soldati codardi. Lui impugna Andúril, figlia di Narsil, e si farà ascoltare. Solo lui può permettere a quelle anime inquiete di trovare finalmente la pace dopo millenni di limbo, nessun altro.»

L'Uomo rimuginò un poco. Non vi era ragione per cui il Ramingo avesse preso quella strada, se non per la disperazione di trovare un aiuto insperato, proprio come lui aveva visto nell'Anello la soluzione ai loro problemi. Ma in cuor suo si fidava ciecamente di ogni gesto e parola di Aragorn, e non poté far altro che annuire ed incassare il colpo. «Dunque ora si trova avvolto dalle tenebre e dai Morti. Che la sua anima e quella dei suoi compagni non si uniscano a quelle di quei traditori.»

Brethil sospirò ma non parlò a voce alta. Pregò in silenzio per i suoi amici, affinché avesse la possibilità di rivederli, almeno un'ultima volta.

 

 

 

*

 

Grazie a tutti i lettori!

A presto,

Marta.

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Capitolo 10
*** 10. ***


E dopo quattro intensi giorni passati a calcolare strutture in calcestruzzo armato, rieccomi qui a respirare un poco di libertà.

Vi avviso che questo capitolo è parecchio pesante - la guerra è infine giunta. È stato difficile scriverlo e ho ancora il magone di tristezza.

Grazie, grazie a tutti coloro che stanno seguendo, preferendo e ricordando, o anche solo leggendo. Lo apprezzo tantissimo, davvero.

Buona lettura,

Marta.

 

Betulla


10.

13 Marzo 3019 T. E. - Minas Tirith

 

Quando Pipino era corso da loro per avvisarli della partenza improvvisa di Gandalf verso i Campi del Pelennor, Boromir e Brethil capirono che quello fosse solo l'inizio delle cattive notizie. Si diceva che il passaggio sull'Anduin fosse sotto il controllo di Mordor e Faramir avesse ordinato la ritirata verso la muraglia, inseguiti da un'orda di nemici di gran lunga superiore al suo numero di soldati. E il messaggero giunto trafelato dalla battaglia e dagli orrori che aveva veduto solo qualche ora prima aveva parlato del Capitano Nero, che conduceva le armate dell'Oscuro Signore preceduto dalla paura. Era ovvio che non fosse un nemico da sconfiggere con la spada o le frecce, ma che ci fosse bisogno di una forza superiore come quella di Gandalf. La sua sola rassicurante presenza regalava un senso di sicurezza e l'idea di averlo lontano, sul fronte della battaglia, gettava un po' tutti nella demoralizzazione totale.

Ma quando altre nuove giunsero il giorno dopo, con informazioni ben peggiori, il silenzio e lo sconforto regnarono per la città. Lo Stregone aveva infatti fatto ritorno e ciò che aveva raccontato a Denethor ebbe l'effetto di farli rabbrividire tutti, lo Hobbit in particolar modo. Il primo dei Nove, infatti, a capo degli eserciti di Sauron, aveva spinto le armate fino alle mura del Rammas, distruggendole e sorpassandole come un'onda su un castello di sabbia. Quelle che erano le ultime difese di Minas Tirith erano ora in mano al Nemico e non c'era speranza di rallentare quella violenta marcia che seminava morte e distruzione di ora in ora.

Ma ciò che più premeva Boromir era sapere come stesse Faramir e quando ebbe conferma che fosse ancora vivo si tranquillizzò non poco. Poteva ancora rimanere lucido per organizzare le difese della città, sapendolo sulle proprie gambe. I suoi soldati, infatti, stavano avanzando ordinati e uniti, ma non solo l'esercito da Osgiliath stava marciando verso la sua città, tanti punti rossi che brillavano nella sera, luci di abitazioni e campi in fuoco alle loro spalle, bensì un gruppo corposo da Cair Andros, isola che era caduta in mano al nemico, e un altro esercito proveniente dal Cancello Nero, da nord-est. Erano accerchiati e la loro unica speranza di aiuto non era ancora giunta.

Ma quando dalle tenebre improvvisamente arrivarono grida violente e terribili e le fiaccole degli Orchetti si duplicarono a vista d'occhio, la ritirata si trasformò in una corsa disordinata, resa ancor più caotica dall'arrivo dei Nazgûl, che terrorizzarono chiunque li vide e li udì nel raggio di miglia. I selvaggi Sudroni attaccarono da ogni parte, urlando e sventolando i loro stendardi, e gli Uomini di Gondor si diedero alla fuga, alla disperata ricerca della salvezza.

Brethil, nascosta sotto il suo mantello e cappuccio grigio, poteva solo immaginare ciò che stava accadendo oltre le mura di Minas Tirith, ferma sul suo cavallo accanto a tutti i cavalieri della Città e del Principe di Dol Amroth, in attesa di un segnale. Boromir, che era al fianco dello zio, scalpitava più del suo destriero pur di andare alla battaglia e far allontanare quei sudici piedi che sporcavano la sua terra. Fu solo quando la tromba della Cittadella risuonò, per volere di Denethor, che il Capitano della Torre Bianca sollevò la spada e gridò l'ordine di muoversi.

«Amroth per Gondor! Amroth per Faramir!» gridò Imrahil, sollevando lo stendardo, e imitato dai suoi soldati. Lanciarono al galoppo i loro cavalli e s'infransero sul Pelennor con forza e caparbietà. La difesa giunse da entrambi i lati e il Nemico fu preso alla sprovvista da quell'improvvisa apparizione. I Nazgûl si allontanarono velocemente quando la luce bianca di Gandalf, in sella al suo veloce Ombromanto, li raggiunse per sfidarli, e quel nuovo momento di sollievo si tramutò in gioia e grida di battaglia. La situazione venne ribaltata improvvisamente e i predatori si trasformarono in prede. La Celeboglinn di Brethil uccise numerosi nemici, sventurati che si trovavano davanti la furia del cavallo di Rohan e il suo cavaliere incappucciato e letale. Non vi era gioia nell'uccidere persino un Orco, per Brethil, ma solo la soddisfazione di sapere che stesse facendo la cosa giusta per il bene della Terra di Mezzo. In un momento di calma, quando il segnale della ritirata del nemico risuonò per il Pelennor, si guardò intorno, tra la desolazione di quel campo di battaglia, e cercò tra i cavalieri uno in particolare, che non trovò subito. Il cuore perse qualche battito finché non intravide l'armatura lucente di Boromir a qualche decina di metri più avanti. Spronò Nerian e si avvicinò all'Uomo, che stava impartendo l'ordine di ricompattarsi velocemente per tornare in sicurezza verso Minas Tirith.

Anche lui cercava qualcuno, ma ciò che vide non gli piacque. Boromir sbiancò e scese da cavallo, verso il corpo apparentemente senza vita del fratello, che giaceva accanto al suo destriero con una profonda ferita sulla spalla.

«Faramir!» gridò, infuriato e addolorato, prendendolo tra le braccia e scrollandolo per farlo rinvenire. «Faramir...» ripeté, ora più dolcemente, mentre un groppo al petto quasi gli strozzava il nome in gola. Il minore dei due perdeva molto sangue, ma respirava ancora e qualche lieve lamento fuoriusciva dalle labbra. Forse c'era ancora speranza. Del resto, lui stesso non era forse tornato alla vita dopo esser stato colpito da numerose frecce e dal duro schiaffo inferto dall'Anello? Così Faramir avrebbe continuato a vivere. Così sarebbe dovuto essere.

«Mio signore, Capitano, dobbiamo tornare alla Città e medicarlo immediatamente. E il Nemico, per quanto in fuga momentanea, potrebbe tornare presto sui suoi passi. È meglio non indugiare.» disse Imrahil, ridestando il nipote, che sollevò lo sguardo e annuì.

Boromir, aiutato dallo zio, prese il fratello in braccio, prestando molta attenzione a non procurargli più dolore di quanto già non provasse, e lo caricò sul suo cavallo, muovendosi e non guardando altro se non il Cancello di Minas Tirith, la sua prossima meta.

Brethil non voleva pensare a tutto ciò che stesse passando per la mente dell'Uomo in quel momento. Aveva provato troppe volte l'assurda e tremenda sensazione di essere in bilico lungo un baratro, la vita di qualcuno a lei fin troppo caro che poteva precipitare da un momento all'altro al minimo errore. Ci si sentiva fragili ed incapaci di fare qualsiasi cosa per la persona in pericolo di vita, eppure anche determinati a fare l'impossibile, se necessario.

Nonostante le numerose perdite subite dai cavalieri di Gondor, i soldati rientrarono in Città a testa alta e fieri nelle loro armature ormai sporche di sangue e della battaglia. Ricevettero i canti e le ovazioni della loro gente, che li applaudiva e li salutava, omaggiando sia i vivi che i caduti. Eppure quello non era che l'inizio della guerra e molte vite ancora sarebbero state spezzate prima che tutto potesse finire, un giorno.

Quando Boromir portò il fratello fin sulla Torre Bianca, dove sire Denethor attendeva inquieto, Imrahil prese la parola, interrompendo il pesante silenzio angoscioso che si era levato nella sala, spiegando cosa fosse successo sul campo di battaglia e come Faramir fosse rimasto ferito da una freccia.

Denethor osservò il volto del figlio minore, come se lo vedesse per la prima volta, e ne rimase impressionato.

«Padre...»

«Fai preparare un letto di sopra e lasciami solo con lui.»

«Ha bisogno di cure, padre.» tentò Boromir, ma l'uomo non lo ascoltava già più. Chinò il capo, stringendo le labbra in una sottile linea di contrarietà, ma annuì e fece come richiesto. Quando uscì dalla stanza era livido di rabbia e frustrazione. Conosceva suo padre e sapeva alla perfezione che se anche avesse ordinato alla vecchia Ioreth di curare suo fratello, l'Uomo l'avrebbe cacciata senza troppi problemi. Ma valeva la pena tentare e sperava che la saggia e petulante donna riuscisse ad avere la meglio su un uomo corroso dalle preoccupazioni. Trovò Pipino in attesa di ordini in un angolo, e gli si avvicinò a grandi passi. Gli posò una mano sulla spalla, che pareva così grande rispetto allo Hobbit da poterlo sollevare con due dita, e puntò i suoi occhi chiari in quelli del piccolo amico. «Devo chiederti un favore, piccoletto.»

Quello annuì, indovinando già la richiesta dell'Uomo.

«Devi correre alle Case di Guarigione, cercare Ioreth e spiegarle la situazione. Voglio che la faccia entrare per medicare mio fratello, accerchiata dalle guardie se necessario.»

Pipino sembrò confuso. «Ma se sire Denethor si accorge della mia assenza...»

«Non se ne accorgerà. Guardalo.»

Lo Hobbit seguì il consiglio dell'amico e davvero sembrava che il Sovrintendente di Gondor stesse combattendo contro il demone più pericoloso. Era più chino del solito e l'espressione vacua e rugosa lo rendevano ancor più vecchio di quanto non fosse. Provò pena per quell'uomo sopraffatto dalle preoccupazioni e annuì con vigore. «Lo farò, Boromir. Anche se lui dovesse rifiutare qualsiasi aiuto. Lo farò per te, per tuo fratello e per tuo padre.»

«E anche io darò il mio contributo, mio signore.» fece Beregond, della Terza Compagnia della Cittadella.

Il Capitano della Torre Bianca annuì e sorrise, regalando un bacio tra i capelli riccioluti dello Hobbit. «Ora andate, non c'è tempo da perdere. Non so se ci rivedremo ancora, perché ormai la guerra è alle porte. Ma sappi, Peregrino Tuc, che ti devo molto e che se supereremo anche questo momento farò di tutto per ripagare te e la tua gente. Dovrebbero esserci molti più Hobbit per la Terra di Mezzo se tutti sono come i quattro che ho avuto la fortuna di conoscere.»

Pipino sorrise tra le lacrime e lo abbracciò con forza, piangendo per la commozione e per la tristezza. Mai avrebbe pensato di trovarsi nel bel mezzo di una guerra, né mai avrebbe pensato di poter perdere qualcuno di così importante a causa di quel Male remoto di cui non giungevano che leggende tra le verdi colline della Contea. Frodo e Sam erano dispersi nella Terra Nera, vivi o morti che fossero; aveva lasciato Merry a Rohan e probabilmente ora era in marcia verso la più grande battaglia di tutti i tempi; e ora aveva davanti a sé un uomo che aveva imparato ad apprezzare ed amare con il tempo, probabilmente in piedi per l'ultima volta. Come poteva il cuore di una persona sopportare tutto quel disastro?

Ma non ebbe tempo di indugiare ulteriormente in lacrime e disperazione. Boromir lo seguì correre verso le Case di Guarigione e appena sparì dalla sua vista si recò immediatamente al Primo Livello dai suoi uomini, per impartire i primi ordini di difesa. Con essi trovò anche Brethil, sebbene fosse in disparte e con il cappuccio ancora sul capo. Nessuno osava avvicinarla, non per via delle cicatrici sul suo volto, né per il fatto che fosse una donna; ma chiunque vedesse un Ramingo del Nord avvolto nel proprio mantello grigio pensava bene di stargli alla larga. Persino Boromir si rese conto della particolare aura di profondo rispetto e timore riverenziale che i suoi uomini avevano nei confronti della sua Salvezza, e ricordò di quando aveva veduto per le prime volte Aragorn, che si faceva chiamare Grampasso, quasi sempre lontano dal resto dei presenti, perso nelle sue profonde riflessioni e in chissà quali ricordi. In quelle occasioni ricordava solo di aver visto gli occhi grigi del Ramingo scintillare sotto il cappuccio, e mai aveva avuto l'ardire di avvicinarlo.

Boromir interrogò i soldati di rientro dall'ultima retroguardia che aveva fatto in tempo a rientrare in Città, prima che il Cancello venisse sprangato, ma ciò che udì non furono buone notizie. Non vi era infatti alcuna traccia che potesse dar loro la vaga speranza dell'arrivo dei Rohirrim. I Campi del Pelennor erano completamente in mano nemica, trincee infuocate e canti di guerra s'innalzavano in quelle terre fino a poco tempo fa immacolate e coltivate, e il Rammas era distrutto e inutilizzabile. Ordinò a tutti gli arcieri della città e di Duinhir di posizionarsi lungo le mura del Primo Cerchio e di colpire chiunque si avvicinasse.

«Stanno erigendo torri d'assedio ben corazzate.» stava spiegando. «Trovate il punto debole tra il ferro e bruciate il legno che sta sotto. L'esercito del Nemico sarà illimitato, ma nessuno varcherà le nostre mura finché saremo vivi.»

«Ma quanto a lungo potremo resistere all'assedio, Capitano?» domandò Ingold. «Non vi è possibilità di entrare e uscire dai nostri confini, finché l'esercito di Mordor ci circonda, e abbiamo scorte di cibo per un mese al massimo, razionandolo con dovizia.»

«In un mese saremo già morti, amico mio.» commentò con scetticismo Derufin, uno dei due figli di Duinhir. «Rohan non arriverà per tempo e se anche dovesse riuscire a raggiungerci sarà troppo tardi. Non sono giunte notizie di numerose battaglie combattute entro i suoi confini? Re Théoden sarà stanco e i suoi uomini dimezzati. Nessun esercito è in grado di sottomettere quello che ci assedia.»

«Bada a come parli, fratello.» s'intromise Duilin. «Non nego che anche io nutro ben poche speranze di riuscire a sopravvivere, questa volta, ma non siamo forse stati tra i primi a rispondere alla richiesta di aiuto di sire Denethor? Non siamo giunti per combattere fino alla fame e alla morte per salvare la nostra bella terra? Ebbene, se anche Rohan ha subìto delle perdite, come dama Brethil ci ha informato, così penso che non si tirerà indietro davanti all'amicizia che lo lega a Gondor. Non avremo un esercito pari a quello del Nemico, ma la speranza e la sorpresa sono dalla nostra parte.»

«Parli bene, figlio mio, ma dobbiamo agire, ora.» esclamò Duinhir, sollevando l'arco al cielo. «Uomini di Morthond, prestate fede ai vostri giuramenti e mostrate al Nemico cosa significhino precisione e spietatezza!»

Un coro di Morthond per Gondor! fu udibile per quasi tutti i livelli della Città Bianca e Brethil si avvicinò a Boromir, una volta che tutti gli arcieri si fossero allontanati verso le loro postazioni di difesa.

«Cosa comandi, mio signore?» gli domandò, una mano fermamente stretta sull'elsa della sua spada.

L'Uomo parve ricordarsi di lei in quel momento e un'espressione angosciata gli attraversò il volto. «Non è un luogo sicuro, questo, Brethil.»

Lei corrugò la fronte e la pelle le si raggrinzì vistosamente attorno alle cicatrici. «Lo so bene, siamo in guerra.»

Boromir mosse qualche passo, fermandosi ad una spanna dalla donna. «Non posso permetterti di morire così, Brethil.» disse gravemente. «Sei giovane, e bella, e---»

«Aragorn è in guerra. Halbarad è in guerra. Elladan ed Elrohir sono in guerra. Tutte le persone più importanti della mia vita rischiano di morire, oggi, tu compreso. Dovrei forse rintanarmi in un angolo nascosto dalla visuale dei Nazgûl o dalle asce degli Orchi? Sono stata una codarda con i fantasmi del mio passato, ma non mi tirerò indietro se c'è bisogno anche della mia spada.»

Boromir sospirò pesantemente. «Non c'è proprio niente che io possa fare per farti cambiare idea?»

Lei scosse il capo, risoluta. «Solo la Morte stessa può fermarmi, ora.»

«Allora seguimi, dato che è questo il motivo per cui sei giunta qualche giorno fa. Stai al mio fianco e combatti con me. Verso la morte o verso la vittoria.»

«Ti ringrazio.» gli disse, abbozzando un sorriso. Abbassò lo sguardo verso la mano di Boromir, che stringeva con forza la sua, ma prima che potesse dire o fare qualsiasi cosa lui la precedette in parola.

«Quando quest'Ombra sarà passata, tornerai a sorridere, Brethil figlia di Aeglos?»

La Dùnadan strinse le labbra, senza accorgersene. «Dipende se sarà rimasto qualcosa o qualcuno per cui valga la pena provare sollievo e gioia.»

Boromir scosse il capo. «Promettimi che tornerai a sorridere. Giuralo sull'amicizia che ci lega.»

«Lo giuro sulla mia vita. Lo farò, solo se anche tu supererai con me questa guerra. Non vi sarà pace per il mio cuore se Mordor mi porterà via te, o Aragorn.»

Non ottenne risposta dall'Uomo, che era ben consapevole del fatto che non sarebbe sopravvissuto, non se il sogno della donna avesse avuto un minimo di fondamento. Tuttavia sorrise e si chinò per darle un leggero bacio sulla fronte. Fu per pochi secondi, in cui Brethil chiuse gli occhi ed assaporò ogni singolo istante di quel momento, prima che le labbra dell'uomo lasciassero la sua pelle martoriata.

Quando li riaprì, Boromir le dava le spalle e si avviava verso le mura, per impartire ordini. Lei, d'altro canto, raggiunse una postazione libera, accanto a lui ed estrasse una freccia, incoccata sull'arco finemente intagliato dagli Elfi. Quando la scoccò, diretta verso un enorme troll che spingeva una torre d'assedio, la sua guerra iniziò ufficialmente.

 

 

13 Marzo 3019 T. E. - Pelargir

 

Sopra la città portuale di Pelargir, a circa ottanta miglia dalla foce dell'Anduin, galleggiavano molteplici colonne di fumo. I Corsari di Umbar avevano messo a ferro e fuoco l'intero centro abitato, punto fondamentale per i traffici marittimi e per la difesa del fiume di Gondor, e i pochi sfortunati che erano sopravvissuti all'attacco difendevano ora le loro case e i loro averi con le ultime forze rimaste. Ma il Nemico era troppo numeroso e agguerrito per riuscire a cacciarlo indietro. Una cinquantina di Navi Nere era attraccata al porto, in attesa della prossima partenza verso Harlond, seguite da altri numerosi e piccoli vascelli carichi di uomini in assetto di guerra.

Nessun esercito sarebbe stato numeroso abbastanza, in quel momento, da fermare la loro corsa, e Aragorn questo lo sapeva bene. Né lui né la Grigia Compagnia che lo accompagnava avrebbero potuto farlo. Ma l'erede di Elendil non era solo, fortunatamente. Dopo aver attraversato il tanto temuto e periglioso Sentiero dei Morti ora aveva un'arma in più a suo favore: dalla sua parte c'era la sorpresa e il terrore di un'armata di rinnegati che avrebbero prestato fede al giuramento che tempo addietro non portarono a termine.

La città, circondata da un doppio cerchio di mura, uno sulla terra ferma che proteggeva la zona commerciale e uno sull'isola triangolare, cuore pulsante dell'attività portuale e delle residenze private, era oscura e solo i fuochi degli incendi la illuminavano sporadicamente. I soldati e i marinai di Pelargir avevano lasciato il centro abitato, per rifugiarsi sui margini della città, al riparo dagli occhi del Nemico e dalle sue frecce, per riposarsi e riunire le forze rimaste. La Grigia Compagnia raggiunse un manipolo di uomini, spossati e feriti, ma ancora determinati a non abbandonare la fermezza. Appena riconobbero in Aragorn l'erede al trono di Gondor i loro animi s'accesero di speranza e accolsero il gruppo di viaggiatori con gioia.

«Mai avremmo sperato di incrociare le nostre strade con il tuo cammino, mio signore.» fece un soldato, che si presentò come Berethor, che si chinò e portò un pugno al cuore, in segno di saluto e di rispetto.

«E io speravo di incontrarvi in circostanze diverse, amici miei.» ricambiò Aragorn, gravemente. «Sembra che giungiamo tardi, ormai, ma forse c'è ancora il tempo di agire. Sediamoci e spiegatemi com'è la situazione in città.»

«Mio signore.» disse un altro soldato, perplesso. «Pelargir è caduta in mano nemica sotto un numero incredibile di Haradrim. Noi siamo pochi e stanchi, ma voi siete davvero un numero tale che farebbe ridere il Signore Oscuro in persona!»

Gimli si fece avanti, i piedi ben piantati in terra e l'ascia fermamente stretta tra le mani. «E dimmi, Uomo di Gondor, cosa sai tu di quanti Uomini un Nano possa sostituire in battaglia?»

«Sicuramente meno di un esercito che possa far fronte a quello che si nasconde in città e in quelle navi nere.» replicò il soldato.

«Basta, per favore.» li interruppe Aragorn, sollevando il tono di voce. Halbarad sorrise, riconoscendo anche in quel piccolo momento il comportamento autoritario di un Re. «Non è tempo per i litigi, questo. È vero, siamo pochi, ma le nostre spade e i nostri archi possono fare la differenza. Eppure è ciò che non vedete ancora che sarà la nostra salvezza. Abbiate solo fiducia nelle mie parole e rispondete alla mia richiesta. Non c'è tempo da perdere.»

Berethor annuì, calmando con lo sguardo i suoi uomini, e illustrò la situazione delle truppe nemiche nella loro città, accompagnando la spiegazione con una mappa dell'abitato. «I Corsari sono giunti dal Sud, e si sono attraccati lungo la sponda sud-est. Hanno lanciato frecce infuocate contro le torri di vedetta e i solai in legno sono bruciati insieme a chi le difendeva. Il triangolo residenziale è completamente in mano nemica, ma ora hanno preso anche il semi-cerchio ovest, saccheggiando i mercati per rifornirsi di viveri. »

«Quanti uomini sono rimasti?» domandò il Capo dei Dúnedain.

«Siamo sui trecento, tra soldati e marinai. Alcuni si trovano ancora nella città settentrionale, ma sono solo una cinquantina. Ci avvisano della posizione del Nemico e danno l'allarme nel caso questo esca dai confini delle mura.»

«I civili?» domandò Elladan, preoccupato per le sorti di donne e bambini.

«Siamo riusciti a farli evacuare verso l'entroterra prima dell'arrivo dei Corsari. Una flotta così numerosa era ben visibile da miglia, così come la scia di fumo che si lasciava alle spalle.»

Aragorn strinse le labbra, nel pensare con stizza e tristezza alle vite perse in quei giorni. «Ascoltatemi, amici miei. Dobbiamo impedire alle Navi Nere di partire verso Minas Tirith.» Un brusio di perplessità si sollevò dalle bocche dei presenti, ma l'Uomo li mise a tacere con una mano. «Siamo spossati e pochi, nessuno si aspetta che possiamo ritrovare le forze di un contrattacco. La sorpresa è la nostra miglior alleata, ora.»

«E anche la nostra condanna a morte, mio signore.» commentò un marinaio, facendosi avanti. Ma ogni replica e ogni rimprovero vennero sedati da qualcosa di molto più spettacolare e terribile di una mano sollevata in segno di silenzio. Un'ombra di morte si avvicinò velocemente all'accampamento di Uomini, terrorizzandoli e congelandoli sul posto. Solo la presenza dei Nazgûl era paragonabile al panico che serrò il cuore dei soldati, che si sentirono come animali in gabbia, desiderosi di fuggire quel gelo mortale che li circondò. Fu come udire il rumore di centinaia di piedi che calpestavano il terreno, figure invisibili che si avvicinavano celermente, che sguainavano spade arrugginite e sibilavano nella notte.

Aragorn sollevò la voce, tentando di rassicurare gli animi. «Amici miei, non abbiate timore, poiché non vi è niente da temere. Quasi una settimana è trascorsa da quando ho intrapreso la Via dei Morti e i Morti ci seguono per prestar fede alla parola data tempo addietro. Io mi fido di loro. Voi vi fidate del vostro Re?» Trascorsero parecchi secondi e nessuna risposta fu data. «Vi fidate del vostro Re?» ripeté il futuro Elessar, estraendo Andúril e sollevando la lama verso il cielo oscuro.

«Fino alla morte!» gridò Berethor, seguito poi dal resto dei soldati.

«Allora marciamo verso la vostra bella città e riprendiamoci ciò che è nostro!»

«Per Pelargir! Per Elessar! Fino alla morte!» fu il coro che si estese per i campi, mentre il plotone di soldati si mise in movimento verso la città portuale, spaventati da ciò che li seguiva, ma speranzosi di vincere. Cos'era una guerra, del resto, senza la speranza? E loro, loro erano guidati dalla Speranza in persona, l'Elessar!

L'attacco fu pianificato strada facendo, poiché era semplice ma efficace. Erano in campo aperto e quindi facilmente visibili agli occhi del Nemico; inoltre avrebbero dovuto attraversare i ponti sorvegliati per raggiungere le sponde occupate dagli Haradrim e non sarebbe stato possibile farlo senza che venissero avvistati. Non c'era nebbia a coprire i loro movimenti, ma neppure la luce della luna a far scintillare le loro metalliche cotte di maglia. Si sarebbero dovuti dividere in tre gruppi, uno diretto ad un ponte diverso. Gli arcieri nelle prime file, per uccidere velocemente e in silenzio le sentinelle presenti, la fanteria subito dopo, per correre al riparo dietro la mole di qualche edificio in pietra. Come aveva detto Berethor, la milizia nemica in città non era numerosa e Aragorn capì che avrebbero potuto combatterla facilmente. Ciò che più gli premeva era l'equipaggio delle navi, ma per fortuna non si sarebbe dovuto occupare in prima persona dei vascelli e dei suoi marinai.

La paura che li precedeva fu lesta a sorpassarli, facendo tremare le vene ai polsi di chiunque, nemico o amico che fosse. Gimli, sentendo quella sensazione scivolare via dalle sue spalle, tirò un sospiro di sollievo e strinse la sua ascia, che andò a ficcarsi con precisione e ferocia in mezzo alla fronte di un Corsaro.

Presto il panico tra i Corsari di Umbar fu palpabile e la loro agitazione si mosse per tutta la città. Tremavano e mormoravano maledizioni contro quella scia di terrore; alcuni abbandonavano le armi in terra e scappavano, gridando ed implorando pietà, altri si gettavano in acqua nella speranza di trovare un po' di pace. I tre gruppi di soldati, capeggiati da Aragorn, Halbarad e Berethor si sparpagliarono per il centro residenziale, uccidendo chiunque avesse l'Occhio rosso sull'elmo o sulla corazza opaca, e presto conquistarono il controllo del triangolo di terra, tra urla e canti di gioia. Gli ultimi superstiti degli Haradrim, sulla sponda occidentale, si diedero alla fuga o si arresero davanti alle lame taglienti e spietate della Grigia Compagnia e degli uomini di Pelargir, mentre le navi furono totalmente ripulite da qualsiasi anima viva. Solo i Morti, ora, le comandavano.

«Uomini del Lebennin, del Lamedon e dei Feudi del Sud! Che questo sia un giorno da ricordare, quando persino l'ombra più scura è stata spazzata via!» gridò Aragorn, alzando ancora una volta Andúril, ora ricoperta del sangue di decine di Haradrim.

Le grida vittoriose del piccolo esercito si innalzarono per tutta la città e quella piccola ma importante battaglia fu ricordata da numerose canzoni, negli anni a seguire.

Poi il Dùnadan continuò, guardando nel vuoto attorno a sé. «Infine io vi libero, poiché avete mantenuto la parola data. Possiate trovare la pace che da anni agognate.» disse Aragorn ai Morti, la cui presenza parve affievolirsi poco dopo, fino a sparire del tutto. Molti furono i sospiri di sollievo che gli Uomini sbuffarono nel rendersi conto che quelle anime inquiete, soffocanti e terribili, fossero svanite per sempre, e persino le nuvole nere provenienti da Est parvero loro più chiare di quanto non fossero.

«Dunque il Re di Gondor è davvero tornato! Forse c'è ancora la speranza di vedere una nuova alba!» gridò un uomo.

Aragorn ripose Andúril nel fodero e si voltò nel sentire la mano di qualcuno sulla sua spalla. Legolas gli sorrideva bonariamente.

«Cosa comandi, mio signore?»

Quello si voltò per osservare l'esercito determinato a seguire ogni suo comando e ordinò di salpare immediatamente verso Harlond, il porto di Minas Tirith. «Chi vuole mi segua, per amore di questa terra e della propria famiglia!»

Nessuno rimase a Pelargir. Tutti gli uomini che Aragorn aveva reclutato in quei giorni si misero al lavoro per far muovere le navi con i pesanti remi, poiché non vi era un soffio di vento nell'aria che potesse dare una spinta alle vele nere. Fu un viaggio che durò poco più di un giorno, silenzioso e in attesa. Nessuno osava immaginare quali orrori si stessero consumando ai piedi e dentro la Città Bianca, né l'entità dell'esercito di Mordor, che andava ben oltre ogni fantasia; davanti ai loro occhi erano solo ben visibili le alte colonne di fumo provenienti dalla capitale e da Osgiliath.

Aragorn era seduto a prua, una pipa tra le labbra e i pensieri lontani da quella nave. Halbarad gli si avvicinò in silenzio, stringendo il fagotto che Arwen Undómiel gli aveva affidato, qualche tempo addietro.

«Dovresti riposare, fratello mio.» gli disse il Ramingo, sedendosi accanto a lui. «Raggiungeremo Harlond in mattinata.»

«Potrei dirti la stessa cosa, Halbarad. O forse tu non necessiti di qualche ora di sonno?»

«Non troverò riposo, stanotte.» replicò l'altro, criptico. «Avrò molto tempo per dormire, dopo domani.»

L'attenzione di Aragorn fu completamente concentrata sull'amico, non capendo cosa ci fosse dietro quelle parole. «La guerra non finirà domani, a meno di un miracolo da parte di Frodo.»

«Non finirà per te, ma finirà per me.» Halbarad sorrise tristemente, chinando lo sguardo sul vessillo arrotolato tra le mani. «Il mio unico rimpianto è di non poterla vedere un'ultima volta.»

Fu solo in quel momento che l'Uomo che un tempo si faceva chiamare Grampasso capì. E si sentì quasi mancare. «Non parlare così, amico mio. Non è questo il tempo dei saluti.»

«Sai che invece è infine giunto il mio momento. Ma non ho paura di morire, Aragorn. Perché combatterò per te, come ho sempre fatto. Combatterò per l'amore che provo per Gondor e per la Terra di Mezzo. E combatterò per tenere alto il simbolo del tuo ritorno. Il ritorno del Re. Molti di coloro che abbiamo perso in questi anni avrebbero voluto assistere a questo momento.»

Gli occhi grigi di Aragorn divennero improvvisamente lucidi. «Un sogno non può sempre indicare la via della vita o della morte.»

«No, ma accade sovente che invece lo faccia. Promettimi solo una cosa, Aragorn.» La sua espressione divenne seria e tutti gli anni di preoccupazioni e battaglie vissute furono ben visibili sul viso stanco e provato. «Veglia su di lei fino alla fine dei tuoi giorni.»

Aragorn gli strinse con forza un braccio. «Lo faremo insieme, come sempre. Una vittoria contro Mordor non sarà lieta se mi abbandonerai.»

L'altro gli rispose con un sorriso mesto, ma non aggiunse altro.

Rimasero entrambi svegli, in silenzio, seduti sulla prua della nave, attendendo quel mattino che non arrivò se non troppo tardi, rispetto all'urgenza che vibrava nei loro animi. E quando finalmente i Campi del Pelennor, con la rovina e la distruzione, furono davanti ai loro occhi niente poté fermarli dal correre alla guerra. Così, il Re di Gondor, con la Stella di Elendil sulla fronte, seguito dai suoi più fedeli compagni e dall'esercito del Sud marciò in guerra, Andúril lucente tra le sue mani. Halbarad reggeva alto il vessillo del Re, ricamato dalle sapienti mani della Stella del Vespro per il suo amore immortale e tutti gridarono di gioia, suonarono i propri corni e inneggiarono canzoni in suo onore, mentre il Nemico veniva assalito da una nuova paura.

La scorta di Éomer cavalcò verso i nuovi arrivati, salutandoli e ringraziando la loro provvidenziale venuta. Boromir e Brethil, in groppa ai rispettivi destrieri, combattevano da ore intere senza sosta, fianco a fianco; nell'udire le trombe in festa, si voltarono e sorrisero nel riconoscere il simbolo del Re. Ma il tempo della letizia non durò a lungo, perché intorno a loro la battaglia imperversava. I due vennero separati da una nuova ondata di Sudroni e Brethil venne circondata. Un Uomo colpì Nerian su una zampa posteriore e quello si accasciò sul terreno, facendola sbalzare dalla sella. Brethil atterrò qualche metro più avanti, dolorante; accanto a lei gli innumerevoli corpi senza vita di Orchi e Uomini, un cimitero che l'avrebbe presto accolta a braccia aperte se non avesse trovato le energie per rialzarsi e difendersi.

Boromir, scalzato anch'esso da cavallo, evitò per un soffio l'ascia di un Uomo delle Terre Selvagge e gli affondò la possente spada sul torso. Cercò con lo sguardo la donna in tutto quel caos ma non la trovò; uno senso di inquietudine lo assalì, ma la sua mente tornò presto alla battaglia - voleva ancora sentirsi la testa attaccata al collo. Uccise altri due nemici, avvicinandosi lentamente al punto in cui erano stati divisi, e la vide.

Brethil tentò di ritrovare a tastoni la spada, caduta da qualche parte in quell'orrore, e quando riuscì a toccare l'elsa intarsiata si sentì meglio. Si voltò con cautela sulla schiena, temendo di avere qualche osso rotto, ma qualsiasi movimento fu vano nel momento in cui venne paralizzata dalla paura. Davanti a lei, mosso da un alito di corrente calda, sventolava il vessillo del Re, le cui gemme brillavano, come a farsi beffa  dell'oscurità che aveva avvolto quella giornata infausta. Capì di chi si trattasse quando vide il corpo cadere a peso morto sul terreno insanguinato, un'ascia conficcata sulla schiena. E in quel momento fu come se fosse morta anche lei.

Éomer e Boromir, che combattevano a pochi metri da lei, la scorsero gattonare verso il cadavere e le andarono incontro, uccidendo gli ultimi Sudroni che tentarono di darle il colpo di grazia. Éomer le s'inginocchiò accanto, stringendole con forza la spalla, nel vano tentativo di confortarla. Ma ogni sforzo di smuovere l'espressione sgomenta dell'amica fu inutile. Non capì subito se il sangue che le macchiava il mantello fosse suo o dell'uomo che teneva tra le braccia e le domandò se fosse ferita.

Ma non ottenne una parola in cambio della sua preoccupazione.

Brethil non ebbe la forza di rispondere, perché lui non lo avrebbe più fatto.

Quasi non ebbe la forza di respirare, perché lui non respirava più.

Che senso aveva continuare a vivere, quando lui non viveva più?

Halbarad era morto.

Morto.

Continuava a cullare il corpo senza vita tra le sue stanche braccia, sussurrando mentalmente il suo nome come una ninna nanna per farlo addormentare. Ma lui non si sarebbe più risvegliato da quel pesante sonno.

Aragorn udì i gemelli di Rivendell dire qualcosa in elfico e si voltò per seguire il loro sguardo; appena si accorse di chi Brethil tenesse contro il petto, si lasciò cadere in ginocchio, senza più forze in corpo. E non solo a causa della stanchezza per la battaglia, ma perché sapeva che quel giorno infausto se n'era andato un suo fratello.

 

 

 

*

 

Un capitolo sofferto, questo. Ma è ovvio, scrivendo di guerra e morte. Ho voluto rendere la battaglia di Minas Tirith come lo sfondo delle vicende perché mi sembrava inutile e superfluo raccontare qualcosa che il Professore già fece splendidamente. La morte di Halbarad mi colpì parecchio già dalla prima lettura del libro, sebbene non fosse un personaggio principale; ma la grandezza di Tolkien era anche questa: rendere splendidi ed importanti anche quelli secondari. Un vero peccato che zio Peter non abbia incluso la Grigia Compagnia e lui nel film - ma forse è meglio così: mi ha risparmiato l'ennesimo pianto di commozione!

A presto e buona domenica a tutti!

Marta.

 

 

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Capitolo 11
*** 11. ***


Sono finalmente in vacanza.

SONO FINALMENTE IN VACANZA.

Quindi, miei buoni lettori e mie care lettrici, avrò più tempo e più testa per portare a termine questa storia - prima che parta sei mesi in Svezia a metà agosto. XD

Non ho ancora fatto bene i calcoli, ma non credo che supererò i 15 capitoli, vista anche la lunghezza di ogni capitolo.

(A proposito, questo è decisamente lungo. Pardon!)

Vorrei, però, ringraziarvi di cuore per il supporto che mi state dando. Significa tanto per me.

Soprattutto grazie a Johnny Nicotine, perché mai nella mia vita di scribacchina qualcuno ha avuto la voglia e l'ispirazione di disegnare uno dei miei personaggi. È stato qualcosa di così inaspettato e piacevole che mi ha commossa!

Quindi... GRAZIE, di cuore a tutti.

Buona lettura e buon fine settimana,

Marta.

 

Betulla


11.

16 Marzo 3019 T. E. - prima dell'alba.

 

Boromir era stato via per quasi l'intera notte, accanto al fratello febbricitante. Solo quando aveva avuto la certezza che Faramir sarebbe sopravvissuto, tornato dall'ombra grazie al richiamo e alle parole del suo Re, poté concedersi un po' di meritato riposo, mentale e fisico. Tornò all'accampamento che era quasi l'alba, con Aragorn e i gemelli di Elrond, silenziosi e tristi, nonostante la caduta del Signore dei Nazgûl. Ah, quante nobili vite erano state spezzate quel giorno per raggiungere solo una punta di sollievo!

Ripensò al racconto di Pipino e della follia di suo padre, che non aveva visto più la speranza in quel caos di fuoco e sangue; gli era giunta voce di aver perduto anche il suo primogenito e si era dato alle fiamme, rischiando di trascinare nella sua pazzia anche Faramir. Non riusciva a capacitarsi di quanto fosse accaduto, che suo padre, Denethor, non calpestasse più quella stessa terra che invece lui attraversava sulle sue gambe, né il fatto che non potesse rendergli l'onore meritato piangendo su un corpo ormai ridotto in cenere. Il braccio di Mordor era assai più lungo di quanto nessuno di loro immaginava, dato che era riuscito ad ingannare la mente di un Uomo accorto e sveglio come suo padre e a portare l'oscurità anche tra i cuori dei cittadini di Minas Tirith.

E ora lui era il nuovo Sovrintendente, in attesa della fine della guerra, in attesa di una decisione di Aragorn, che aveva preferito accamparsi fuori le mura della Città Bianca piuttosto che portare altro sgomento ad un popolo già sconcertato.

Raggiunsero le tende sui Campi ancora fumanti e maleodoranti, per riposare finalmente le loro stanche membra. Ma Boromir non aveva ancora intenzione di stendersi; almeno, non prima di aver cercato qualcuno. La vide seduta su una sporgenza rocciosa, le gambe strette contro il petto e lo sguardo cieco di chi non osservava realmente ciò che la circondava. Anche al buio vide la candida fascia che le avvolgeva la spalla lussata dalla caduta da cavallo. Fece per avvicinarla, ma la mano risoluta di qualcuno lo fermò prima che potesse muoversi. Boromir si voltò ed incontrò gli occhi chiari di un Ramingo avvolto nel consueto mantello grigio.

«Fossi in te non lo farei.» lo ammonì, lanciando un'occhiata preoccupata alla donna. «Quando morì suo padre non parlò per settimane intere e mangiò ancora meno.»

Bastò solo un rapido sguardo alla mano che lo fermava per un braccio, affinché Elegost il Dúnedain, lo lasciasse andare. «E immagino che sia giusto lasciarla cadere nello sconforto in completa solitudine?»

Il Ramingo strinse le labbra, portando istintivamente una mano all'elsa della spada, pendente sul fianco sinistro. «Dico che ho tentato di rincuorarla, mentre Aragorn era via quest'oggi, ma niente è servito a smuoverla da quella roccia.»

«Allora lascia che perda il mio tempo e la mia voce con una persona che preferisce tacere per il dolore, e che ha a sua volta perso il suo tempo e la sua voce per me, quando più ne necessitavo.» replicò Boromir, non riuscendo a nascondere una lieve punta di orgoglio.

Elegost fece un passo indietro, colpito da quel tono autorevole e dalla medesima preoccupazione che gli leggeva negli occhi. «Tu sei Boromir.» Non era una domanda, ma quasi un'osservazione di resa, come se quel giovane Ramingo capisse il significato di quel nome e si tirasse indietro davanti all'evidenza dei fatti. Era lui, dunque, il motivo per cui Brethil aveva lasciato la Grigia Compagnia e il suo capo più autorevole.

Il Capitano della Torre Bianca annuì. «Sei un suo amico?»

«Il mio nome è Elegost, signore, e conosco Brethil da quando eravamo bambini. Ma forse ha più bisogno di Aragorn, o di te, che di me.»

L'espressione dura di Boromir parve addolcirsi. «In momenti come questi ognuno deve dare il suo contributo. Anche se tenterà di allontanarvi, in futuro capirà quanto fondamentale sia stata la presenza di tutti. Ora va' e riposa. Domani sarà ancora più pesante di oggi.»

Elegost osservò il nuovo Sovrintendente di Gondor recarsi verso l'amica e chinò il capo, mentre tornava dal resto dei Raminghi, silenzioso e pensieroso.

Boromir lasciò pochi passi di distanza dal punto in cui Brethil sedeva, immobile come una statua. Alle sue spalle si ergeva Minas Tirith, rovinata dalle pietre lanciate dalle catapulte, fumante in alcuni punti, ma ancora in piedi nonostante il brutto colpo subìto quel giorno. E la donna gli parve come la sua bella città: era ferita profondamente nell'animo, sanguinava copiosamente e perdeva ogni energia, ma non cedeva alla disfatta, ritta e fiera su quella roccia. Rimase in piedi accanto a lei, a mirare il vuoto, per minuti interi, senza che l'uno o l'altra facesse o dicesse qualcosa per spezzare quel brutto momento di silenzio. Cosa avrebbe potuto dire senza cadere nella banalità?

Poi, quando anche l'Uomo stava per desistere e tornare alla sua tenda, la voce spezzata di lei lo fermò.

«Rimani, ti prego.» gli sussurrò, senza voltarsi.

E lui rimase. Le si sedette accanto, ai piedi di quella sporgenza naturale, e guardò il cielo plumbeo. La vaga sensazione di una lieve brezza dal mare parve rinfrescargli il viso accaldato, ma fu solo un istante che svanì poco dopo.

«Ho saputo di tuo padre, mi dispiace.»

Boromir scosse il capo, incredulo. Piangeva in silenzio per la perdita di un suo caro amico e si dispiaceva anche per la morte di suo padre. Eppure il fatto che parlasse, a discapito di quanto detto dal Ramingo poco prima, lo sollevò un poco. «Una morte poco onorevole, la sua, ma ahimè, Minas Tirith ha perso una grande guida e io un padre che ho amato sempre.»

La sentì sospirare profondamente, per poi chiedergli: «Tuo fratello?»

«È vivo.» rispose in un sorriso. «Aragorn ha davvero le mani di un re guaritore.»

«Finalmente una buona notizia.»

Trascorsero altri infiniti minuti di silenzio, ma lo sforzo con cui Brethil tentava di trattenere le lacrime svanì poco a poco. «Ho visto lui, non te... nel sogno c'era lui.»

Il cuore di Boromir si fece pesante nell'udire quella voce spezzata dai singhiozzi. Non sopportava la vista di qualcuno piangere e ancor meno se questo qualcuno fosse Brethil. Lei, che gli aveva dato la forza di continuare a vivere, non meritava tutto quel dolore; meritava solo di sorridere dopo una vita di sacrifici, di fughe, di perdite. «Non potevi salvarlo.»

Lei annuì, quasi con rabbia. «Sì, avrei potuto, ma non l'ho capito. Non ce l'ho fatta.»

«Non puoi avere la pretesa di salvare tutti.»

Fu solo in quel momento che lei si voltò a guardarlo, gli occhi grigi colmi di lacrime. «Se non posso salvare le persone che amo, che cos'altro mi rimane?»

«Saresti morta oggi per salvare chi ami.» replicò lui, duramente. Si alzò, fermandosi davanti  a lei, e le asciugò le guance dalle lacrime. Indugiò con le dita sulle cicatrici e la sentì rabbrividire, forse perché nessuno aveva mai osato sfiorargliele. «È tutta la vita che tenti di proteggere chi ti circonda, Brethil. Queste sono un esempio. Anche io ho perso mio padre, oggi. La follia gli ha fatto compiere qualcosa che difficilmente gli perdonerò. Capisco quello che stai provando, perché anche se non conoscevo Halbarad, lo consideravi come un padre. Ma non pensi che non ci sia bisogno di aggiungere al dolore altro dolore? Smetti di addossarti tutte le colpe del mondo, smetti di compatirti. Ho visto fin troppa tristezza nel tuo viso nel breve periodo che ti ho veduta.»

Lei scosse il capo, stringendo le mani callose dell'Uomo e allontanandole dal suo viso. «È evidente che la mia vita non debba essere spensierata, Boromir. Nessuna vittoria, un domani, potrà essere gioiosa ora che lui non c'è più. Ma ti ringrazio, amico mio, ti ringrazio davvero. Sono felice di averti accanto.»

Boromir le si sedette accanto e le cinse le spalle con un braccio, un leggero bacio tra i corti capelli scuri, stando attento a non stringerla troppo per evitare di causarle dolore. «Perché non riposi qualche ora, prima che sorga il sole?»

Non ottenne subito una risposta, perché Brethil era indecisa su cosa rispondere. Non avrebbe chiuso occhio neanche volendo, questo lo sapeva bene; eppure, per una volta nella vita, sentì di non voler rimanere sola con i suoi pensieri. «Starai con me?»

«Se è ciò che desideri.» annuì. «Ma ti avrei fatto la stessa domanda, Brethil, poiché anche io vorrei averti vicina questa notte.»

Brethil ringraziò l'assenza della luce lunare e delle stelle, e la fida oscurità le nascose il rossore sulle guance. Posò il capo sulla spalla di lui e chiuse gli occhi umidi per le lacrime. Si sentiva così stanca e sfiancata da non riuscire ad alzare un dito; ma non per le energie perdute durante la battaglia. Era spossata dentro, da quel dolore che la stava lacerando lentamente e da troppo tempo, ormai. A volte avrebbe voluto chiudere gli occhi e addormentarsi per anni, nella vana speranza di potersi risvegliare, un giorno, e ritrovare ciò che aveva perduto.

Quella volta Brethil non ebbe l'incubo che l'aveva tormentata nei sonni precedenti, poiché ormai non vi era rimasto più niente da proteggere di quell'uomo senza volto e coperto del suo sangue. Eppure non riuscì comunque a chiudere occhio, neppure tra le braccia rassicuranti di Boromir, neppure con il suo respiro pesante sul viso. Non c'era più un soldato che si frapponeva tra lei e l'Orco, che veniva colpito al suo posto lasciandola raggelata sul mare di cadaveri e sangue che la circondava. Quel soldato era ormai molto lontano da quella terra, mentre lei era ancora lì, a calcare quel suolo intriso del sangue di migliaia, ad attendere il giorno in cui l'alba avrebbe nuovamente rischiarato la giornata e avrebbe regalato la speranza della nascita di una nuova Era, senza guerre logoranti e lotte per la supremazia. Ma come poteva esservi speranza, se il destino di tutta la Terra di Mezzo era nelle mani di due giovani Hobbit, lasciati a vagare per la terra desolata di Mordor e guidati dall'essere più meschino e avido che potesse esserci? Un essere che era libero solo ed esclusivamente a causa sua. Come avrebbe potuto vivere con il peso di quel fardello, se la situazione fosse precipitata nel baratro che vedeva crescerle accanto, sempre più nero e profondo? Non il perdono di Aragorn o quello di Boromir, né di tutte le genti che popolavano Arda sarebbero bastate per risollevarla dai sensi di colpa. Come avrebbe potuto, d'altronde?

«Brethil.»

La donna sollevò lo sguardo sul Sovrintendente di Gondor, ridestandosi dai suoi pensieri.

«Cerca di dormire.» le sussurrò, stringendola più forte. «Riesco a sentire il rumore dei tuoi pensieri anche se non parli.»

«Scusami.» mormorò lei, sentendosi in colpa. «Ti ho svegliato?»

Boromir accennò un sorriso. «No, non ho neppure chiuso gli occhi. Ti ho osservata un paio di volte, ma tu non hai dato cenni di notarmi.»

Niente poté impedirle di arrossire, quella volta, e lui si accorse del suo imbarazzo, poiché la vide chinare gli occhi, mentre una lacrima scivolava senza controllo sul suo viso martoriato.

«Brethil...» ripeté l'uomo, sospirando.

Ma lei si divincolò dalle sue braccia, asciugandosi gli occhi e alzandosi repentinamente. Strinse i pugni per la rabbia e l'inadeguatezza e, dopo aver sussurrato qualche scusa, scappò dall'accampamento, diretta lontano da tutti. Boromir si sentiva troppo stanco e troppo impotente per correrle dietro, così rimase a guardarla finché non scomparve nell'oscurità.

 

La Dùnadan si ritrovò senza quasi accorgersene laddove una lancia con uno stendardo che ben conosceva svolazzava sotto il lieve venticello che si era alzato da ovest. S'inginocchiò davanti al monticello di terra sotto il quale riposava Halbarad e vi posò sopra le mani, nella vana speranza di poter percepire la sua presenza, un'ultima volta. Ma la fredda terra non le diede ciò che cercava. Alzò lo sguardo al cielo plumbeo e chiuse gli occhi, stringendo il terreno tra le dita.

Avrebbe dovuto capirlo, avrebbe potuto salvarlo.

Era questo che continuava a ripetersi come un mantra, anche se era ben consapevole del fatto che, riconoscendo le sue ennesime colpe, Halbarad non sarebbe tornato dal mondo dei morti.

«Lui non se n'è andato, thêl. Non ti lascerebbe mai sola.» fece la voce di Elladan alle sue spalle.

Sentì la presenza dell'Elfo chinarsi accanto a lei e cercò la sua mano, stringendogliela per ritrovare un po' di quel calore che aveva perso. «Non riesco più a vederlo.»

Lui sorrise, ricambiando gentilmente la stretta. «No, ancora non puoi. Ma lo senti, nel tuo cuore. E se ti concentrerai riuscirai anche a scorgerlo, un giorno.» Fece una pausa e lei chinò il capo sul cumulo di terra. Poi riprese a parlare, con la sua voce calma e rilassante. «Credo che lui sapesse a cosa stesse andando incontro. Quando udì il tuo racconto del sogno lui portava già il Vessillo del Re, dono di mia sorella Arwen al suo amato. Ma non ne fece parola con nessuno, specialmente con te. Perché aveva capito, in cuor suo, che tu avessi il bisogno di tornare qui, a Gondor, per stare accanto al tuo amico.»

Brethil sorrise, senza allegria. «Lui capiva sempre tutto...»

«Era un Uomo intelligente e sveglio, di gran lunga più arguto di molti altri. E ti conosceva meglio di chiunque.»

«Mi manca già terribilmente, Elladan. Rimpiango quell'anno di silenzi, quell'anno che avrei potuto spendere insieme a lui, a tutti voi.»

«Lo so, thêl. Ci sono molti avvenimenti nella vita di ognuno di noi che vorremmo eliminare, errori imperdonabili e altri trascurabili. Ma non puoi crogiolarti nei sensi di colpa, o nei se e nei ma. Ciò che è stato non è possibile cancellarlo o modificarlo. C'è bisogno del tuo temperamento, in questi giorni funesti. Non lasciare che il dolore annebbi la tua mente, né oggi, né in futuro.»

Brethil prese un respiro profondo e annuì. Tornarono insieme all'accampamento, ma non trovò l'Uomo dove l'aveva lasciato, vicino alla roccia solitaria su cui si era abbandonata quella sera. Così si avvicinò alla tenda dove riposava Boromir. Non vi era nessuno che la spiava, così vi entrò e lo trovò profondamente addormentato. Sospirò stancamente e si stese accanto a lui, provando a dormire.

Quella volta ci riuscì.

 

La decisione venne presa in una mattinata densa di riunioni e tattiche di guerra. Molti, se non la maggior parte, erano fermamente convinti che la loro fosse una mossa avventata e stupida, presa da un disperato futuro Re che non sapeva come arginare la situazione. Ed effettivamente così era: recarsi con settemila lance davanti al Cancello Nero di Mordor era una mossa suicida, da cui probabilmente nessuno di loro avrebbe fatto ritorno.

Eppure Boromir, che ben si fidava del suo amico, non vide soluzione migliore per occupare l'Occhio verso lidi ben lontani dal cammino periglioso di Frodo e Sam. Non sapevano dove i due Hobbit fossero, né se camminassero ancora per quelle terre desolate ed oscure; ma potevano solo sperare che il loro sacrificio potesse servire a qualcosa per le generazioni future. D'altronde, per Boromir quello era il minimo che potesse fare. Se non avesse attaccato Frodo, quel funesto giorno ad Amon Hen, la Compagnia sarebbe probabilmente ancora unita e la fiamma della speranza forse più viva.

L'uomo osservò con attenzione i presenti e non vide segni di incertezze o ripensamenti nei loro volti provati dalla guerra e dalle preoccupazioni. Aragorn era stato chiaro e sicuro, durante l'esposizione del suo piano, e soprattutto convincente. Tutti erano pronti a servire il proprio Re senza batter ciglio, poiché in lui credevano ciecamente. Incrociò lo sguardo di Brethil, seduta accanto ai gemelli di Imladris, e notò la luce di determinazione e la sete di vendetta che le brillava negli occhi. Un nodo gli chiuse la gola e uno strano senso di ansia gli serrò lo stomaco. Ripensò a quella mattina, quando si era svegliato da quelle poche ore di sonno e la prima cosa che aveva visto era stata lei, accoccolata contro di lui. Era stato sorprendente e piacevole rendersi conto che fosse voluta tornare da lui, quella notte, nonostante la sua piccola fuga; così come gli era sembrato normale potersi svegliare e incontrare subito quel viso sfregiato a pochi centimetri dal suo.

L'ansia si fece più acuta quando, sciolto il Consiglio, Brethil si avvicinò al Ramingo e s'inginocchiò, porgendogli Celeboglinn. Sapeva cosa significasse quel gesto, sapeva che avrebbe voluto combattere con lui, con loro, mettendo a repentaglio la sua vita solo per vendicare la morte di quell'uomo che tanto aveva amato. Ma avrebbe potuto permetterle che buttasse al vento la sua travagliata esistenza? Lui era il Sovrintendente di Gondor, nonché amico fidato di Aragorn, e aveva il diritto e il dovere di seguirlo ovunque lui comandasse. Ma lei? Lei era solo una donna che aveva imparato ad ammirare sopra ogni cosa, devota alla sua gente e alle persone che amava. Ed era troppo giovane per gettarsi tra le braccia della morte.

Allungò una mano verso il braccio di Aragorn, approfittando del fatto che lei tenesse la testa china, e scosse il capo. L'altro sospirò, voltandosi verso l'amica.

«Se tu lo vorrai, mio signore, combatterò ancora una volta per te. Fino alla morte.» disse la donna.

Aragorn si sentì orgoglioso della creatura che aveva di fronte e non poté frenare un sorriso spontaneo, in tutta quell'ombra e quella disperazione. Le mise una mano sulla spalla sana, intimandole di alzarsi, e così fece lei. «Brethil, amica mia, vorrei tanto che le nostre spade s'incontrassero ancora una volta sul campo di battaglia. Ma non sei in condizioni di combattere e non posso rischiare di perdere anche te.»

Gli occhi della donna sgranarono per la sorpresa. «Aragorn, posso combattere, non sarà il dolore a fermarmi. Ho impugnato una spada con ferite ben più gravi di una lussazione alla spalla.» continuò Brethil, sorda al rifiuto del futuro Re di Gondor. «Non negarmi questo onore, ti prego... non lasciarmi in una città sconosciuta a tormentarmi nei pensieri e nelle preoccupazioni, sapendo che probabilmente non rivedrò più nessuno di voi.»

«È follia, Brethil.»

L'espressione di lei s'indurì visibilmente. «Non è forse anche follia cavalcare verso la morte dell'Est?»

«Sì, lo è, ma è l'unica via da seguire in questo momento. Minas Tirith non reggerebbe ad un altro attacco massiccio come quello ricevuto solo pochi giorni fa. Il Nemico si muove velocemente e deve mantenere viva l'attenzione sulla guerra.»

Brethil cercò lo sguardo di Boromir, sperando di trovare in lui un valido alleato che appoggiasse le sue volontà, ma lui voltò il capo pur di non doverla guardare negli occhi e confermare le parole del suo amico. «Dunque, avete già preso una decisione al mio posto.» disse atona, le labbra strette per l'affronto, così come le mani, chiuse a pugno sulla lunga elsa della spada elfica.

Aragorn le accarezzò il viso. «Vivi, Brethil. Vivi per me, per Boromir, per Halbarad e per tutto ciò di più caro che hai su questa terra. Sei giovane, e forte, e...»

«Ciò che di più caro ho al mondo sta andando contro la morte. E sono una Dùnadan che ha giurato di servirti, Aragorn. È la mia vita da sempre, ed è una mia scelta.»

«Non posso permettertelo.» ribatté l'altro, con l'intenzione di chiudere il discorso. «Non hai la lucidità e le capacità fisiche per combattere.»

«In due giorni posso recuperare i problemi alla spalla, Aragorn.» continuò Brethil, con le lacrime agli occhi. S'inginocchiò, stringendo la terra tra le mani. «Ti prego, non mi rimane nient'altro se non combattere. Non togliermi anche questo.»

Trascorse qualche secondo prima che il Ramingo tornasse a parlare. «Partiremo tra tre giorni, all'alba. Fatti trovare pronta.» Il sorriso di Brethil lo fece sentire in colpa per quella piccola bugia, ma si ritrovò a ricambiare il gesto, abbracciandola e baciandola sulla fronte. «Va', ora, e riposa la mente e il corpo.»

La donna si allontanò e Aragorn scambiò una profonda occhiata con Boromir, rimasto in silenzio a pochi passi da loro. «Ti detesterà per quello che stai per farle, Aragorn.»

«Lo so bene, amico mio, ma non ho scelta.» Il Ramingo si lasciò cadere su uno sgabello di legno, stanco. Tutte le responsabilità che lo attendevano come Re erano niente al confronto con il temperamento ottuso di Brethil. «Ma non è la ferita alla spalla che mi preoccupa, poiché quella guarirebbe per tempo se glielo permettessi. È ciò che si sta sedimentando nel suo cuore a lasciarmi inquieto. Non posso permetterle di vedere la morte di uno di noi. Non di nuovo, non così presto.»

Boromir guardò verso Est, le nuvole nere dense di fumi e cenere gli serrarono le parole in gola. Il dolore che stava provando per la perdita del padre era qualcosa di così intenso che non avrebbe saputo descriverlo e capiva Aragorn quando temeva per Brethil. Anche lei aveva perso qualcuno che amava come un genitore e, peggio ancora, le era morto tra le braccia. Una persona non avrebbe dovuto vivere tutto quel dolore, non una come lei, che aveva già sofferto abbastanza. Non sapeva se sarebbe riuscito a tornare a Minas Tirith dopo quell'ultima, disperata missione, né se con lui avrebbero cavalcato Aragorn, o Legolas e Gimli, o chiunque dei suoi soldati. Ma la sola idea di lasciarla da sola nel suo dolore gli fece capire di non voler morire, non ancora. Sarebbe caduto con gloria, accanto al suo Re, di questo non aveva dubbi né paure; ma non si sarebbe mai perdonato di abbandonarla nel peggiore dei modi: prendendosi gioco di lei e lasciandola indietro senza un addio.

«Faremo ritorno insieme, come mi hai promesso, e lei capirà il tuo gesto.» lo rassicurò, stringendogli la spalla con una mano. «Una volta che attraverseremo il cancello di Minas Tirith lei sarà lì ad attenderci e ad accoglierci, come Re e Sovrintendente.»

Aragorn sorrise, perdendosi un attimo in quel pensiero allettante che però pareva solo un vago sogno. «Ora capisco perché i tuoi soldati ripongano così tanta fiducia nei tuoi confronti, Boromir. Sai sempre usare le parole migliori nei momenti peggiori.»

L'Uomo di Gondor si lasciò sfuggire una roca risata. «Approfitta del momento, perché solitamente le orazioni  migliori le pronuncio in battaglia.»

«Spero di non udirti più parlare, allora. Con tutto il rispetto, amico mio.»

Boromir scosse il capo, sorridendo, e insieme si avviarono verso le loro importanti faccende. Aragorn doveva preparare l'esercito che li avrebbe accompagnati verso il Cancello Nero, impartire le ultime direttive a quelli che rimanevano e contare quante lance avessero a disposizione, mentre Boromir, come nuovo Sovrintendente di Gondor, doveva pensare a meglio governare la sua città prima della partenza.

Sarebbero stati due giorni intensi, quelli.

E sperò vivamente che Brethil rimanesse all'oscuro delle loro vere intenzioni, o la guerra contro Mordor sarebbe sembrata un semplice diluvio prima della vera tempesta.

 

 

17 Marzo 3019 T. E.

 

Era sera inoltrata quando Brethil concluse il suo allenamento in solitaria. La spalla le doleva ancora, ma Aragorn le aveva insegnato come curarsi con le proprie mani e, sebbene non riuscisse a muoverla senza qualche difficoltà, era conscia che durante il viaggio verso Mordor si sarebbe rimessa completamente, pronta ad affrontare la loro ultima, gloriosa battaglia. Tornò alla sua stanza e notò lo Hobbit seduto accanto ad un pensieroso Gandalf, che fumava lentamente e in silenzio. Si avvicinò ai due senza una parola, perché anche lei aveva i suoi pensieri da lasciar vagare nella mente. Il dolore per la perdita di Halbarad diventava ogni ora più insopportabile e non vedeva l'ora di avere la concentrazione completamente rivolta verso la guerra, per non ritrovarsi costretta a divorarsi dai sensi di colpa e dalla sofferenza.

Strinse la mano tremante di Pipino, che si voltò a guardarla come se la vedesse per la prima volta. Era visibilmente spaventato e non poteva biasimarlo. Uno Hobbit non conosceva il reale significato di una guerra, né avrebbe mai affrontato un discorso così angoscioso nelle taverne allegre e spensierate della Contea. Eppure eccolo lì, terrorizzato e stanco, incredulo ed incapace di reagire di fronte a tutto quel male.

«Dovresti andare a dormire, amica mia.» fece Gandalf, con voce baritonale. «Tra poco più di un giorno partirai in guerra e sei ancora molto debole.»

Pipino abbassò il capo, sospirando pesantemente. Sapeva della piccola bugia che le era stata detta e che l'esercito avrebbe preso il via l'alba seguente, tra poche ore; sperava solo di non lasciarsi scappare alcuna parola che avrebbe potuto far vacillare la menzogna. "Bada bene a come utilizzi la tua lunga lingua, Peregrino Tuc. Brethil non deve sapere delle reali intenzioni di Aragorn", lo aveva avvertito lo Stregone. "Trascorrerà la gran parte del suo tempo in solitudine e non avrà modo di scoprirlo, se non da uno di noi."

«Non troverò riposo tra le lenzuola, Gandalf.» fece Brethil, ridestando lo Hobbit dai suoi pensieri. «Oramai mi sono abituata a dormire poco e male.»

«La spalla?»

«Guarirà.»

Passarono lunghi minuti di silenzio, interrotti solo dai lievi sbuffi di fumo dello Stregone. Pipino strinse la mano della donna, chiudendo gli occhi. «Mia signora, tu non hai paura?»

Gli occhi grigi di Brethil si posarono sul piccolo amico e annuì. «Sono terrorizzata, messer Peregrino. Come te. Come tutti.»

«Ma non sembra che tu lo sia...» fece Pipino, incerto su cosa dire successivamente. «Insomma, sei silenziosa e ferma. Mentre io non riesco a smettere di tremare come una foglia. Non ho memoria di aver provato un tale terrore in tutta la mia vita, se non con uno di quei Cavalieri Neri alle calcagna. Mi mozza il fiato.»

Brethil gli passò un braccio dietro la schiena e se lo avvicinò contro il petto, dandogli un leggero bacio tra i capelli riccioluti. «La vita che ho trascorso mi ha insegnato a non mostrare molto di ciò che provo. Ma ho paura, una terrificante paura di perdere tutto ciò che di più caro ho. È normale che ti senta così, amico mio, e ti capisco. Persino il Nemico ha paura, perché la fiamma della speranza arde ancora e non sa cosa quale pericolo cammina sul suo territorio. Non è forse un po' rassicurante, questo?»

Lo Hobbit annuì, rinfrancato dalle sue parole di conforto e da quel caldo abbraccio, e la strinse con forza, reprimendo a stento qualche lacrima. La Dùnadan e Gandalf si scambiarono un'occhiata significativa, ma lui scosse il capo. Pipino avrebbe dovuto affrontare quell'ennesima prova di coraggio e avrebbe mantenuto alto l'onore degli Hobbit, come aveva fatto suo cugino Merry e come stavano facendo Frodo e Sam. Non sarebbe rimasto indietro, sebbene la via per il Cancello Nero fosse l'ultima che avrebbe voluto percorrere.

«Quando ero alle prime armi qualcuno mi disse che il coraggio di un uomo sta nell'ammettere di avere paura. E se tu trovi questo coraggio, Peregrino Tuc, troverai anche la forza di combattere.» proseguì Brethil. Cacciò indietro le lacrime nel ripensare a quel giorno in cui Halbarad, in vista della sua prima battaglia, le aveva fatto forza con quelle poche e semplici parole. Quello era stato il primo di molti insegnamenti che l'Uomo le avrebbe regalato e che avrebbe tenuto nel cuore e nella mente fino al giorno della sua morte. Ma quello stesso Uomo ora non c'era più e Brethil non aveva la minima idea di come affrontare il resto della sua vita senza una guida come la sua. Aveva già sofferto la morte di suo padre quando necessitava di così tanti insegnamenti; perché i Vanir avevano deciso di accanirsi contro la sua famiglia? Era forse quello un modo per punirla debitamente delle sue azioni?

Pipino alzò lo sguardo sulla donna e si sforzò di sorridere, attirando la sua attenzione con un lieve colpo di tosse. «Lascia che ti dica, dama Brethil, quanto io sia stato fortunato ad incontrarti, nonostante tutta questa oscurità. Ora capisco perché Aragorn e Boromir provano così tanto amore per te. Riesci a trovare le parole giuste per tutti, tranne che per te.» Si sporse per baciarle una guancia sfregiata e lei sorrise tra le lacrime, osservandolo mentre si metteva in piedi e s'inchinava solennemente. «Ti auguro tutto il bene di questa bella terra, Brethil la Dùnadan.»

Sembrava quasi un addio, quel saluto, ma Brethil non vi badò. Seguì con lo sguardo Pipino, che si ritirò nella stanza che condivideva con lo Stregone. Questo non lo seguì, preferendo rimanere ancora qualche minuto in silenzio, lo sguardo rivolto verso le nuvole scure e tempestose di Mordor, nella speranza di poter allungare lo sguardo oltre quelle nere montagne e scorgere i due piccoli esseri che aveva spedito nella follia qualche mese addietro.

«Mi ritiro anche io, Gandalf. A domani, e buona notte.»

Lo Stregone annuì e le sorrise. «A domani, Brethil.»

La donna s'incamminò verso il suo alloggio, muovendo un poco la spalla indolenzita e trattenendo a stento una smorfia di dolore. Arrivata davanti alla porta della stanza, allungò una mano verso la maniglia, ma fermò ogni suo gesto appena si accorse di qualcuno alla sua sinistra. Si voltò e vide un Boromir segnato dalla stanchezza e dalla preoccupazione.

Le sorrise, avvicinandosi lentamente. «Perdona l'ora tarda, amica mia, ma troppi pensieri ingombrano la mia mente per permettermi di chiudere occhio.»

«Non preoccuparti, neanche io riuscirò a dormire stanotte, né quelle a venire.» gli rispose, ritirando la mano e stringendosi nelle spalle. «Volevi parlarmi?»

L'uomo si passò una mano sul collo e sospirò. Sì, aveva bisogno di parlarle, di udire il suono della sua voce, di averla accanto solo per qualche istante eterno, affinché potesse portare con sé la sua immagine fino al momento della morte. Ma come fare per non darle l'impressione che quello non sarebbe stato un arrivederci al mattino seguente?

«Vieni, camminiamo un po'.» le disse, porgendole un braccio che lei accettò riluttante, arrossendo un poco.

Brethil aveva capito, ormai, che le buone maniere di corte obbligassero chiunque a seguire determinate regole, ma era notte fonda e non vi era nessuno che potesse badare ai loro modi, se non le solite guardie della Cittadella; eppure Boromir questo parve scordarlo. Il calore della sua vicinanza la mise in imbarazzo e chinò lo sguardo verso i suoi piedi, trovandoli di gran lunga più interessanti della città devastata che le si apriva intorno.

Camminarono in silenzio per parecchi minuti

«Come stai, amica mia?»

«La spalla è ancora dolorante, ma sopravvivrò.»

«Sì, lo farai.» mormorò lui e catturando l'attenzione della donna. Boromir sorrise. «Ma confido nelle tue doti di guaritrice e non mi riferivo alla spalla.»

«Oh.» Brethil prese un respiro profondo appena si rese conto che la gola si stava chiudendo per l'angoscia. Erano quei momenti in cui il dolore si faceva così forte da non permetterle nemmeno di respirare adeguatamente. Si schiarì la voce, temendo di averla persa. «Elladan dice che supererò tutto, prima o poi. Ma non credo di riuscirci, non da sola.»

Boromir si fermò, portando le mani callose sul viso di lei. Persino nella penombra si accorse che fosse arrossita. Ma perché mai avrebbe dovuto sentirsi in imbarazzo con lui? Non erano forse amici? Scacciò quelle strane domande, concentrandosi su ciò che avrebbe voluto dirle prima di salutarla per sempre. Era andato da lei con un proposito, uno sciocco proposito, ma dopo tutto quello che Brethil aveva fatto per lui, dopo tutte belle ed incoraggianti parole spese per riportarlo indietro lontano dall'Ombra, per lui era il minimo che potesse fare. «Brethil, amica mia, non sarai mai sola. Hai così tante persone pronte ad amarti che questo dovrebbe essere l'ultimo dei tuoi pensieri.»

«Sì, forse hai ragione, ma...» Lui non sarebbe più tornato. «... ma la guerra porta sempre via pezzi della tua vita, quando non decide di sottrartela direttamente.»

«Brethil.» L'uomo le asciugò le guance dalle lacrime e si chinò su di lei, poggiando la fronte contro la sua. «Ha sacrificato la sua vita per salvare la tua. Lo avresti fatto anche tu, come me, o Aragorn. Solo che tutto questo dovrà finire, prima o poi.»

La donna si allontanò un poco, confusa. «Quando? Con la mia morte, forse? O con quella di qualcun altro? Boromir, spiegami il motivo per cui sei venuto a parlarmi, perché ho il sentore che sia qui per una ragione precisa e voglio sperare che non sia come sospetto.»

Boromir quasi rise della perspicacia della donna. Ma avrebbe dovuto immaginarlo, poiché ella era incredibilmente sveglia ed intelligente. «Sono qui per chiederti con tutto l'amore che provo per te di abbandonare le armi, una volta che tutto questo sia finito.» Non le diede il tempo di stupirsi, perché la zittì riprendendo a parlare. «Brethil, sei giovane e hai visto fin troppi orrori. Risparmiateli e vivi gli anni più floridi della tua vita lontano dalle battaglie. Non potrei sopportare anche la tua perdita. Una volta che Aragorn diventerà Re i Raminghi non avranno più senso di esistere e potrai vivere una vita normale con qualcuno normale che...»

«Basta, non voglio ascoltare oltre.» fece Brethil, portandosi a qualche passo di distanza. «Che cosa ho fatto per meritarmi il vostro risentimento? Ho forse dato prova di debolezza in battaglia? Non ho forse onorato a sufficienza il mio ruolo? Perché vi ostinate tutti a considerarmi solo una donna cocciuta che desidera morire? Credi davvero che impugnare un'arma sia un piacere, per me? Credi che sia così ingenua che non preferirei stare tra la familiarità di un focolare, nella mia casa? Purtroppo non ho una casa, da molto tempo, e combattere è tutto ciò che ho, che ho sempre avuto e che riesco a fare. È la mia vita, Boromir, che ti piaccia o no.»

L'Uomo rimase piacevolmente impressionato da quel piccolo scatto d'ira. Ai suoi occhi Brethil era sempre stata calma e garbata, anche nelle situazioni peggiori, e mai avrebbe pensato di vederle quella scintilla di rabbia nello sguardo. Pur non alzando il tono di voce gli parve che avesse gridato. Era evidente che poche persone nella sua giovane vita le avessero intimato di smettere con quell'attività pericolosa e ingrata per una donna, perché rispettavano cosa faceva. Ma anche lui provava orgoglio e rispetto per la sua determinazione. Era unicamente preoccupato per la sorte della sua cara amica e al solo pensiero di lei privata delle persone che più amava lo accecava dalla rabbia e dallo sconforto. Perché sembrava non volerlo capire?

Era evidente che lui avesse oltrepassato il limite della sua pazienza. Ma non voleva che ricercasse la vendetta nella guerra, né che si sentisse sola. Avrebbe potuto sopportare l'eventuale morte di tutti i suoi amici, dopo quella loro folle mossa suicida? Certamente no.

«Brethil...»

«No, Boromir, quelle erano le mie ultime parole in proposito.»

L'Uomo strinse le labbra, maledicendo la testardaggine di lei. Non era quello il modo in cui sperava di salutarla; non voleva partire avendo il suo rancore, né voleva lasciarla senza un sorriso come ricordo da tenere nel cuore. Eppure avrebbe dovuto immaginare che una donna cocciuta come lei non avrebbe acconsentito facilmente ad una così gentile richiesta. «Molto bene, buona notte, allora.» Fece per andarsene, affranto dallo sguardo arrabbiato di lei. Ma sentì una presa forte al suo polso e fu costretto a voltarsi.

Brethil tenne lo sguardo ostinatamente basso. «Ti ringrazio per le tue paure, Boromir, davvero. Ma se lasciassi la strada che imboccai da piccola mi sentirei perduta e non mi rimarrebbe altro.»

«Avresti me.» L'uomo notò nuovamente il disagio crescere in quegli occhi grigi a causa di due semplici parole e, dopo una rapida carezza al volto, si allontanò, turbato, augurandole una veloce buona notte. Non era tempo per porsi scomode domande, né per analizzare a mente lucida cosa fosse quell'imbarazzo da parte dell'amica - né il disagio che lui stesso stava provando. Era troppo stanco e inquieto per la partenza del giorno dopo, per potersi permettere di aggiungere altre preoccupazioni alla sua mente spossata.

Perché era sicuro che qualsiasi pensiero del genere gli avrebbe portato unicamente preoccupazioni.

 

 

 

*

 

Questo capitolo mi ha fatta soffrire più del precedente - perché è normale per la scrittrice commuoversi nel rileggerlo, quando dovrebbe avere la lucidità di correggere eventuali errori, no? -.-

Dannata Brethil e dannati sentimentalismi!

Vi do appuntamento alla prossima settimana, anche se non vi lascio un giorno esatto. Il capitolo successivo è in fase di stesura, ma come sapete vorrei iniziare ad imbastire anche quello dopo, per non lasciarvi troppo tempo senza un aggiornamento. Confido nel mio tempo libero - l'ispirazione, per fortuna, è ancora qui. :)

A presto!

Marta.

 

 

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Capitolo 12
*** 12. ***


Questo capitolo è leggermente più corto degli altri, ma non meno sostanzioso.

Sono felice dei vostri commenti e dei vostri pareri, è sempre interessante leggere cosa vi aspettate dalla storia e le vostre analisi sempre puntuali! Grazie davvero, state diventando un'abitudine di cui non mi stancherò mai!

Come al solito buona lettura e buon fine settimana a tutti,

Marta.

 

Betulla


12.

18 Marzo 3019 T. E.

 

Quando Brethil si svegliò, quella mattina, era stranamente euforica. Il sole era da poco sorto e, nonostante le insufficienti ore di sonno, si sentiva energica e pronta per affrontare una nuova giornata di allenamento con i gemelli, come aveva fatto per i due giorni precedenti. La spalla doleva ancora, bloccata dall'immobilità del sonno, ma sebbene si rendesse conto che alcuni movimenti fossero altamente forzati e rigidi, era più che convinta che si sarebbe ripresa presto. Niente avrebbe potuto fermare le sue intenzioni né la volontà di combattere ancora una volta per la sua stella guida.

Sarebbe morta, per lui.

Proprio come Halbarad aveva fatto per lei.

Il ricordo del corpo del Ramingo tra le sue braccia le strinse la gola e represse con forza le lacrime che minacciavano di bagnarle le guance. Si sciacquò il viso con acqua fredda e si vestì velocemente, appendendo Celeboglinn al fianco e dirigendosi verso la piccola arena dove i figli di Elrond l'attendevano. Ma quando mise i piedi fuori dalla sua stanza, accanto a quella di Gandalf e Pipino, si accorse subito che mancasse qualcosa. O qualcuno.

La città era irrealmente silenziosa e svuotata. I cittadini mancavano già da qualche giorno, evacuati verso terre più sicure, ma persino i numerosi soldati presenti sembravano spariti. Si recò verso le camere dei suoi vicini ma non trovò né lo Stregone né lo Hobbit. Uscì rapidamente e si diresse verso una terrazza, per meglio osservare la città sotto i suoi piedi. Ma quando spostò lo sguardo verso i campi del Pelennor si sentì mancare. Le tende degli accampamenti erano state smantellate e solo i numerosi monticelli dei falò erano visibili. A numerose miglia di distanza vide una massa scura muoversi rapidamente verso Osgiliath e le mancò il fiato. Per un attimo il timore di aver perso la conta dei giorni le serrò la gola, ma capì subito che non fosse possibile - l'avrebbero certo richiamata al suo posto. E la consapevolezza che giunse appena capì ciò che era successo fu più dolorosa di una lama conficcata nel petto.

Aragorn era partito.

Si era preso gioco di lei, mentendole sulla data della partenza.

L'aveva lasciata da sola.

L'aveva tradita.

E con lui Boromir. I gemelli. I Raminghi. Éomer. Gandalf. Persino Pipino!

Si lasciò cadere sul pavimento in pietra, incapace anche di piangere. Ormai non aveva più neanche le lacrime sufficienti per farlo. Credeva di aver sognato lo squillo delle trombe quella mattina, all'alba, ma era troppo stanca per svegliarsi e curarsene. E ora, ora si ritrovava da sola in una città sconosciuta, senza più neanche la possibilità di poter combattere per il suo Re e amico. Strinse con forza i pugni fino a farsi male e fece per alzarsi, diretta alle stalle, con la chiara intenzione di sellare Nerian e raggiungerli il prima possibile - se per ucciderli o per evitare che venissero uccisi non seppe dirlo con certezza. Niente avrebbe potuto tenerla lontana dalle sue decisioni, non lo stupido orgoglio maschile né le paure di chi l'amava. Ma qualcosa bloccò i suoi movimenti. Sentì le dita piccole di qualcuno che tentavano di afferrare le sue e vide Merry, fasciato e debole al suo fianco, che le sorrideva tristemente.

«Hanno deciso di lasciare indietro anche me, mia signora.» fece lo Hobbit, chinando lo sguardo e pensando al povero Pipino, in mezzo a tutti quei grandi soldati. Si sentiva sicuramente disorientato e fuori posto, proprio come lui nel momento della partenza da Rohan. «Ma lo hanno fatto per il mio bene e lo comprendo. Ci faremo compagnia a vicenda, se ciò ti aggrada.»

Lei non rispose, almeno non subito. L'idea di corrergli dietro, arrabbiata e frustrata, iniziò ad insinuarsi nella sua mente con più forza; ma Merry indovinò i suoi pensieri solo osservando quella fronte corrucciata dalla rabbia e scosse il capo. «Non lo pensare, mia signora. Sei spossata, fisicamente e non; non sottoporti a quest'ulteriore fatica.»

«Mi stancherei ugualmente, qui, pur non facendo niente.» ribatté, parlando per la prima volta. Non seppe neanche lei dove trovò le forze per farlo.

«Oh, ma potremo fare molte cose, invece! Colazione, per iniziare.»

Lei si limitò a sospirare pesantemente, cacciando indietro un singhiozzo di affronto. «È il suo modo di farmi pagare la liberazione di Gollum... Aragorn mi sta punendo così.»

Merry scosse il capo, convinto, sebbene non capisse cosa intendesse con la liberazione di Gollum. «No, è il suo modo di proteggerti, mia signora. Inoltre, porto un messaggio da parte di Boromir.» Lo Hobbit ottenne tutta la sua attenzione e si sforzò di sorridere ancora una volta. «Venne nella mia stanza la notte scorsa per assicurarsi che stessi bene e che avessi tutto ciò di cui necessito; ma giunse soprattutto per pregarmi di farti compagnia, in questi giorni e di convincerti a rimanere in città, conoscendo bene le tue intenzioni. E non sbagliava, a quanto pare!» Prese un bel respiro, prima di iniziare a recitare le parole dell'Uomo. «Così mi disse: "È una donna taciturna, all'inizio, e sta soffrendo molto. Temo che mi odierà, dopo domani, e che vorrà seguirci; ma credimi quando ti confesso che vorrei poterle stare accanto, con tutto il cuore. Eppure non posso, Merry. Quindi ti chiedo, in nome della nostra amicizia, di accudirla tu, come solo un Hobbit è in grado di fare. Falla sorridere, Merry, perché il suo sorriso è così raro quanto incredibile". Ebbene, non so se riuscirò a farti sorridere, dama Brethil, perché non ho lo stesso spirito di mio cugino, né è il tempo migliore per raccontare barzellette, ma ti prometto che mi impegnerò. Per Boromir e per te.»

Brethil scosse il capo, incapace di credere alle parole dello Hobbit e a quelle dette dal nuovo Sovrintendente di Gondor. «Quasi non ricordo come si sorride, messer Meriadoc.»

«Oh, no. Una persona non dovrebbe dimenticarsi come sorridere. Persino gli animi malvagi come quelli che stiamo combattendo, tanto tempo fa, lo sapevano fare. Lottano e distruggono solo perché non gli è rimasto più niente per cui valga la pena sorridere. Ma noi, noi abbiamo più di un motivo, no?»

Brethil si asciugò gli occhi con i palmi delle mani, commossa da quelle parole così sincere e belle che solo un Hobbit poteva pronunciare.

«Ora andiamo, mia signora.» le fece, stringendole la mano e intimandole di alzarsi dal pavimento. «Mi hanno appena servito la colazione, come ti ho detto, e sebbene il mio stomaco sia abituato a pasti ben più sostanziosi, non me la sento di finire tutto da solo. Non con una graziosa presenza come la tua.»

La Dùnadan sciolse il pugno e accarezzò distrattamente la mano che il giovane Brandybuck le tendeva. Guardò un'ultima volta verso l'esercito in marcia con risentimento. Avrebbe potuto facilmente lasciarsi alle spalle lo Hobbit, decisamente più debole di lei, eppure non lo fece. Almeno, non per il momento. Diede le spalle al Pelennor, alzandosi e guardando lo Hobbit. «E sia.»

Si recarono insieme alle Case di Guarigione, verso la stanza occupata dallo Hobbit, che aprì la finestra sul giardino interno e così la porta. «L'aria è meno opprimente fuori, dopo la vittoria di qualche giorno fa.» le disse. Trotterellò verso il tavolo, su cui Rainiel aveva poggiato un vassoio pieno di buon cibo, e lo portò sul letto, dove Brethil si era seduta. Imburrò una fetta di pane e gliela passò, gentilmente.

«Noi Hobbit amiamo i funghi.» esordì, addentandone uno, fresco e saporito. «È una cosa che abbiamo nel sangue, credo.»

«Lo so. E lo sospettavo, visto come tuo cugino li divora.»

«Ah, lui ne mangia fin troppi. Così come fuma troppo. In realtà, Pipino è spropositatamente un po' troppo.» Merry sbuffò, quasi divertito al ricordo del suo migliore amico e compagno di avventure. «Una volta andammo a cercare funghi con due ceste enormi. Le riempimmo tutte fino all'orlo, ma non facemmo in tempo a tornare a casa che metà del bottino lui l'aveva già digerita.»

Le labbra di Brethil s'incresparono lievemente in un sorriso. Non era poi così difficile immaginarsi una scena simile. «Mia madre m'insegnò a preparare una zuppa di funghi deliziosa.»

Lo Hobbit rizzò la schiena immediatamente. «Davvero?»

«Sì, ma non mi riesce così buona come la faceva lei.» Morsicò una fetta di pane, pensierosa. «Quando non avremo più problemi di cibi razionati prometto che ve ne preparerò una pentola.»

«Anche più d'una, mia signora!» esclamò Merry, facendola ridacchiare. «Non ne lasceremo neanche un po'. Abbiamo una ferrea regola nella Contea: niente si butta via, se è commestibile.»

«Anche se non è buono?»

«Ecco... in quel caso si ringrazia e si cerca di buttar giù tutto in un'unica mandata, magari aiutati da un bel sorso di birra. Anche se la donna che ti prepara da mangiare con amore è bella e battagliera, ma non certo una grande cuoca.»

Brethil strinse gli occhi, ora un po' più rilassati. «Oh, immagino di aver capito di chi tu stia parlando, poiché anche io ho avuto modo di provare le sue doti culinarie. E tu l'hai conosciuta bene, da quanto so.» disse, in un sussurro, per evitare che orecchie indiscrete l'ascoltassero.

Merry arrossì visibilmente, chinando il capo. «Dama Éowyn è stata sempre molto disponibile a preparare i pranzi, durante il nostro spostamento.» fece lo Hobbit. «Ma le sue zuppe erano davvero immangiabili. E lo dice una botte senza fondo! Persino Pipino non avrebbe saputo resistere oltre. E ho veduto Grampasso gettarne via qualche cucchiaio, quando ella non guardava!»

Il loro breve discorso fu interrotto da un movimento nei giardini ed entrambi si voltarono a curiosare. Il soggetto del loro pettegolezzo camminava lentamente e con fare stanco, ma era il suo viso che li preoccupò. Dama Éowyn era sempre stata una donna forte e seria, dedita al suo posto e alla sua terra; ma quella volta, spossata e distrutta, notò che ci fosse così tanta tristezza che Brethil non ricordava di averla mai veduta in quelle condizioni. Aveva perso suo zio, che l'aveva allevata come una figlia dopo la morte dei genitori; e ora suo fratello era in marcia verso la Morte stessa. Anche Éowyn, come lei, aveva dovuto sopportare troppe morti e troppo dolore, e ne ebbe compassione.

Merry, quasi sentendosi in colpa per le parole dette poco prima, fece per alzarsi ed invitarla a desinare con loro, ma un'altra figura s'intromise in giardino. Brethil non l'aveva mai incontrato personalmente, se non in quei brevi istanti della battaglia sul Pelennor, ma la somiglianza era tale da poter affermare che quello fosse Faramir, fratello di Boromir. Si reggeva in piedi a stento, ma aveva ancora le energie necessarie per muovere qualche passo e poggiarsi contro una colonna in pietra.

«S'incontrano tutti i giorni, ormai.» mormorò Merry. «A volte parlano della guerra, altre volte preferiscono rimanere in silenzio. Non sono un esperto in materia, ma credo che lui sia innamorato.»

Brethil osservò i due con una certa nostalgia e voltò lo sguardo verso lo Hobbit. «Voi Mezzuomini sapete vedere ben oltre gli occhi, messer Meriadoc.»

Lui si strinse nelle spalle. «Chiunque saprebbe interpretare lo sguardo di un uomo innamorato. Tranne la bella fanciulla che è il soggetto delle attenzioni.»

«A volte è difficile capire se stessi, figurarsi gli altri.» sussurrò la donna, corrugando la fronte.

Trascorsero minuti interi di silenzio, sia all'interno della stanza che fuori. Brethil prese un respiro profondo, prima di bere qualche sorso d'acqua. I suoi pensieri erano quanto di più complicato potesse immaginare. Quando sarebbe finalmente giunta la fine di ogni cosa, e con essa le sue preoccupazioni? Quando avrebbe finito di sentirsi così oppressa da quella tensione e dalle brutte riflessioni?

«Lo ami?»

Brethil si voltò verso lo Hobbit, rigida come una tavola di legno. Eppure le guance sfregiate che divennero visibilmente rosse tradirono le sue parole. Perché anche se fece finta di non capire di chi stesse parlando, sapeva bene chi fosse il soggetto della domanda. «Chi?»

«Boromir, chi altro?» Merry non aveva avuto modo di conoscere a fondo la donna, se non qualche breve discussione quando ancora erano a Rohan, ma aveva udito i racconti di suo cugino e di Boromir sul suo conto e gli era bastato poco per unire tutti i pezzi mancanti. Del resto, lui era un Brandybuck, una famiglia intelligente e sveglia.

La risposta della donna arrivò troppo velocemente e con una visibile nota di nervosismo. «Come un fratello, certo.»

«Non devi aver paura di ammetterlo.» l'ammonì il piccoletto, abbozzando un lieve sorriso di complicità.

«Io non...» La donna fermò la sua protesta, scuotendo poi il capo. Sì, aveva paura ad ammetterlo a voce alta. Non era pronta nemmeno a pensare una cosa simile, perché era convinta che se lo avesse fatto non sarebbe potuta tornare indietro; la consapevolezza di amarlo sarebbe stata così forte che avrebbe segnato qualsiasi suo gesto e parola e lei non avrebbe saputo come affrontare la situazione. Poiché mai aveva amato un uomo in quel senso. Né Boromir aveva mai dato segno di ricambiare più dell'affetto che nutriva nei suoi confronti.

Ma si ritrovò facilmente a pensare all'uomo e al suo sorriso; a quegli occhi chiari e limpidi come le acque dell'Anduin, alla sua voce vibrante e fiera, al suo carattere orgoglioso e infuocato. E capì che se non avesse fatto più ritorno da quella guerra non avrebbe potuto sopportare oltre, perché parte del suo cuore era partita con lui. Per lei Boromir non era stato solo un grande condottiero. Prima di conoscerlo come futuro Sovrintendente di Gondor, a capo di uno degli eserciti più potenti della Terra di Mezzo, era un uomo con le sue debolezze e i suoi difetti, e aveva imparato ad amare quella sua parte che lui tanto disprezzava. Era forse quello amore o semplicemente una profonda amicizia?

Eppure, quello stesso uomo che credeva di amare come un fratello l'aveva tradita, lasciandola indietro. Lo avrebbe perdonato, certo, così come lei era stata perdonata per i suoi sbagli. Ma al dolore che provava per la morte di Halbarad si sommava l'impossibilità di vendicarlo e questo le faceva male, dannatamente male. Dopo tutto quello che aveva fatto per lui, per salvarlo dalla morte fisica e dalla sua personale guerra psicologica lui la ripagava abbandonandola.

«Comunque, queste mele sono deliziose.» esclamò lo Hobbit, riscuotendola dai suoi pensieri. «Per concludere in bellezza ci vorrebbe un bel barile di erba-pipa e sarei a posto!»

Brethil sorrise e gli fu grata sopra ogni cosa per aver cambiato repentinamente discorso. Non era pronta per affrontarne uno simile. E, ad essere sincera, non sapeva se sarebbe mai stata in grado di farlo.

 

 

Faramir osservò la bianca dama di Rohan tornare alle sue stanze con una punta di malinconia. La tristezza di quella donna era in grado di debilitarlo più di quanto non fosse, eppure in quegli occhi infinitamente infelici poteva leggervi un'antica forza che faticava ad abbandonarla. La stessa forza che le aveva permesso di cavalcare in incognito accanto al suo Re e di proteggerlo a rischio della sua stessa vita da un nemico che andava ben oltre le energie di un soldato. Per Faramir, Éowyn di Rohan era bella e fragile e il desiderio di poter vedere un giorno il sorriso su quelle labbra strette e sottili cresceva ogni ora che stava in sua compagnia.

Ora che era nuovamente solo con i suoi pensieri, però, volse lo sguardo verso Osgiliath, dove poteva ancora scorgere la massa scura di quelle settemila lance dirette verso la morte e il suo cuore non riuscì a reggere la pesantezza del pensiero che tra coloro che erano partiti vi fosse anche il suo caro fratello. Da quando l'erede di Isildur lo aveva riportato alla vita, Boromir non aveva perso occasione di andarlo a trovare, nonostante il suo ritorno lo chiamasse più volte ai doveri di un Sovrintendente. Ma lui, risoluto come lo ricordava, riusciva a conciliare entrambe le cose e non poteva che esserne lieto. Non si fermava che per poche decine di minuti, prima che un soldato arrivasse a portarlo via per annunciargli l'inizio di qualche importante riunione in vista della partenza.

Gli era sembrato profondamente cambiato, da quando lo aveva salutato l'ultima volta, prima che salisse sul suo cavallo in direzione di Imladris. Era invecchiato dalle preoccupazioni, eppure la sua voce non aveva perso lo smalto di un tempo, né gli occhi chiari avevano smesso di brillare quando parlava della sua città; eppure Faramir aveva colto qualcosa di simile quando egli gli aveva parlato di una donna, la stessa che gli aveva salvato la vita e che ancora non aveva avuto l'onore d'incontrare. C'era profondo rispetto in ogni sua parola e infinita gratitudine. Ma Faramir, che ben sapeva leggere gli animi dei suoi amici e dei suoi soldati, aveva visto qualcosa in più - la stessa scintilla che lui stesso provava in compagnia di dama Éowyn. Glielo aveva fatto notare con un certo divertimento, ma lui, cocciuto come sempre, aveva ribadito che la sua malattia lo stava portando a vedere l'invisibile.

Faramir si ritrovò a sorridere da solo nel ripensare al disagio negli occhi del fratello, così poco abituato a fare i conti con quei sentimenti che esulavano dall'arte della guerra, in cui tanto credeva. E pensò che questa donna, che combatteva come un uomo, che era più testarda e orgogliosa di suo fratello, dovesse essere davvero incredibile per aver attirato l'attenzione di Boromir - e persino quella di suo padre, a quanto gli era stato riferito.

Sciolse i pugni quando si rese conto che il pensiero di Denethor e di ciò che aveva fatto lo travolse come una diga dagli argini rotti. Non ricordava assolutamente niente dell'accaduto, ma Pipino gli aveva raccontato com'erano andate le cose, poiché era stato lui stesso ad informare Gandalf della follia del padre. Se non fosse stato per quel piccolo Hobbit che ora marciava verso la Morte lui stesso non si sarebbe trovato lì, nel giardino delle Case di Guarigione, a rimuginare sulla sua vita e sul suo possibile futuro.

Si voltò appena si accorse di un movimento alle sue spalle. Pensava fosse dama Éowyn, tornata da lui a causa della noia che la stava soffocando, ma non fu lei la donna che vide. Rimase immobile, incuriosito dalla figura che, con un po' di timidezza, gli si avvicinò. Era avvolta in un mantello grigio, fermato da una spilla a forma di stella sulla spalla sinistra, e il suo viso sfregiato era severo. Non ci fu bisogno di presentazioni per capire di chi si trattasse.

Brethil si fermò a pochi passi da lui, di fronte al muro di cinta del sesto livello, da cui poteva godere di un'ottima vista del Pelennor. Non sapeva cosa l'avesse spinta a raggiungere l'uomo, se la curiosità di conoscere il fratello di Boromir o la voglia di parlare con qualcuno che glielo ricordasse così tanto - né aveva idea di come iniziare un discorso. Perché non sarebbe certo potuta rimanere in silenzio, anche se l'idea le stava accarezzando la mente.

Nonostante la stanchezza, notò Faramir, era ritta e fiera, e teneva una mano sulla lunga elsa della spada - una fattura elfica che mai aveva visto in vita sua. E capì, semplicemente osservandola, il perché Boromir provasse così tanto rispetto nei suoi confronti. Nonostante la guerra, nonostante ciò che avesse passato, niente era riuscita a piegarla.

«Non fosse per il fumo e le carcasse, godresti di una visuale splendida, da qui.» fece il Capitano dei Raminghi dell'Ithilien, spezzando quell'imbarazzante silenzio. «Un tempo quei campi erano coltivati e pullulavano di vita.»

Brethil inspirò profondamente l'aria tiepida di quell'ennesima giornata. «Il Pelennor tornerà ad essere verde, mio signore.»

«Come fai ad esserne sicura?»

La donna si voltò per guardarlo, finalmente, e scosse il capo. «Non lo sono, tutt'altro. Ma ho avuto modo di imparare a non perdere mai la speranza, finché essa cammina ancora su questa bella terra.» Vide Faramir sorridere, accennando un lieve inchino del capo. Una morsa di tristezza e nostalgia le strinse la bocca dello stomaco, nel vedere quel sorriso che tanto somigliava a quello del fratello maggiore.

«Allora ti prego, mia signora, di convincere con le tue belle parole anche dama Éowyn, poiché ella purtroppo non riesce a vedere la luce in fondo alla galleria.» disse l'uomo, con preoccupazione.

«Conosco la donna di cui parli e so per certo che non riuscirà a vederla se non quando effettivamente ci sarà.» Brethil tornò a guardare oltre il Pelennor, non riuscendo più a vedere l'esercito, ormai arrivato ad Osgiliath. «Ma non disperare, tornerà a sorridere. È ciò che desidera da sempre.»

«E tu quando tornerai a sorridere, mia signora?»

La domanda giunse inaspettata e Brethil non riuscì a trattenere un'espressione di stupore. Boromir doveva avergli parlato molto di lei, se quell'uomo osava porle un simile quesito. Oppure aveva il dono dell'onniscienza, il che non l'avrebbe stupita, dopo tutto ciò che stava accadendo nel mondo. «La ferita come va, mio signore?» chiese, scartando abilmente il discorso. «Boromir mi ha spiegato che le tue condizioni non fossero delle migliori.»

«E ti disse bene, poiché ho passato parecchi giorni avvolto dall'oscurità e dai tormenti. Eppure il risveglio è stato quanto di più insperato potessi immaginare.» Sorrise, Faramir, ripensando al suo futuro Re. «Sire Aragorn sa fare uso sapiente delle erbe mediche, anche nei casi più disperati. Io, Dama Éowyn e il piccolo Hobbit siamo la prova vivente.»

«Sì, le mani di un Re guaritore, così dicono.»

«Eppure anche le tue lo sono. Boromir non sarebbe qui, se non fosse stato per te. E non smetterò mai di ringraziarti a dovere, per questo.»

Brethil non rispose, ma si limitò a chinare il capo. Le sembravano passate ere intere da quel giorno in cui era giunta trafelata alle colline di Amon Hen, per soccorrere un guerriero sconosciuto e ritrovarsi davanti il vecchio amico di una vita. Eppure non erano trascorse che poche settimane - ma quanto era cambiato, nel frattempo! Non solo aveva trovato un amico di cui fidarsi, di cui prendersi cura e da amare, ma aveva ritrovato anche quelli perduti. La presenza di Aragorn l'aveva spinta a dare tutta se stessa per aiutare il ferito, ma c'era stato anche qualcos'altro che l'aveva convinta a rimanere. Lei lo aveva visto. Mentre si sbarazzava degli Orchi che incontrava sulla sua strada, aveva potuto vedere con quanta dedizione e coraggio affrontasse le spade e le frecce del nemico, per salvare i suoi piccoletti. Era rimasta così colpita dalla forza d'animo che gli permetteva di difendersi che non avrebbe potuto lasciarlo morire neanche volendolo. Non gli aveva mai rivelato quel piccolo segreto e non seppe neanche spiegarsi il perché non lo avesse fatto. Ma lo raccontò a Faramir, che non si stupì delle sue parole. Conosceva la storia, così come conosceva suo fratello, e non faticava ad immaginarselo mentre rischiava la vita per salvare due suoi compagni di viaggio.

L'Uomo notò la nota di nervosismo e risentimento mentre ella parlava e non poté esimersi dal parlare per prendere le difese del fratello. «Sei profondamente arrabbiata, ma lui...»

Lei scosse il capo, interrompendolo. «No, la rabbia non esprime ciò che provo. Sono delusa.» replicò, stringendo i pugni. «Pare che nessuno si fidi più delle mie capacità in battaglia, come se non sapessi più difendermi.»

«Sono sicuro che tutti siano consapevoli del tuo onore, mia signora.» Faramir s'inumidì le labbra secche, cercando le parole migliori per farle capire quanto si sbagliasse. «Così come capisco ciò che stai provando, ora. Credi che le loro preoccupazioni siano infondate e avrebbero dovuto lasciare a te la scelta di cosa fare o meno della tua vita. È stato un gesto egoista il loro, poiché hanno dato la precedenza ai loro timori, piuttosto che al tuo volere. Ma cerca di capire che è l'amore che provano per te ad averli spinti a fare ciò che hanno fatto.»

«Non metto in dubbio il loro amore. Metto in dubbio le loro capacità di giudizio.»

Faramir quasi rise. «Sto iniziando a dubitarne anche io ogni istante che ti conosco, mia signora.» Poi il sorriso si spense a poco a poco e l'uomo tornò serio. «Dimmi, dama Brethil, vorresti raggiungerli?»

Non ci fu bisogno di parole, perché i suoi occhi risposero per lei.

«E cosa ti ferma?»

Brethil si morse un labbro.

Niente.

Non c'era niente che le impedisse di mettersi in viaggio - non la spalla dolorante, non le parole dello Hobbit, né tutte le Guardie della Cittadella. Neanche quell'uomo stanco e debilitato di fronte a lei, sebbene fosse massiccio abbastanza da superarla in altezza di parecchie spanne.

«Aragorn e Boromir non ne sarebbero felici.» rispose infine, con difficoltà.

Il viso di Faramir si distese, rilassato. «Oh, mia signora, non sai quanto tu sia in errore.»

 

 

 

*

 

E così quei due l'hanno davvero fatta in barba alla nostra donzella indifesa. Siete ancora del parere che rimarrà a Minas Tirith o cavalcherà verso l'esercito in marcia? Sono curiosa di conoscere le vostre supposizioni. *-*

Il prossimo capitolo è a metà scrittura, conto di finirlo questo fine settimana. Se tutto va bene venerdì prossimo arriva. :)

A presto!

Marta.

 

 

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Capitolo 13
*** 13. ***


Buona domenica a tutti, anche se sta lentamente volgendo al termine.

Vi avevo anticipato che avrei pubblicato venerdì, ma ho avuto qualche impegno di troppo che mi ha tenuta lontana da Word.

Ma almeno questo capitolo è decisamente più lungo e sostanzioso del precedente, spero di farmi perdonare così.

Lentamente risponderò anche alle vostre recensioni, non temete! Entro oggi mi metto in pari. :)

Intanto grazie a tutti coloro che continuano a seguirmi assiduamente! Siete una gioia immensa.

A presto!

Marta.

 

Betulla


13.

21 Marzo 3019 T. E.

 

Solo tre soli erano sorti dalla loro partenza da Minas Tirith, ma per Peregrino Tuc sembravano trascorse settimane. Le ore passavano lente ed era incredibilmente stancante starsene seduto sul possente cavallo di Boromir, dietro un Sovrintendente che non aveva voglia di parlare, se non sporadicamente. Pipino stesso non aveva voglia di proferir verbo di fronte a quella tensione opprimente, sebbene in quei giorni di marcia nessun nemico si fosse fatto vivo, e capiva il morale degli Uomini che lo circondavano, soprattutto dopo aver passato la desolazione della Valle di Morgul. Ma era anche sveglio abbastanza da capire che nello sguardo severo di Boromir ci fosse qualche preoccupazione in più, oltre la loro missione suicida.

Lo Hobbit rabbrividì, nel pensarla così. Stava andando davvero incontro alla morte? O il giorno dopo si sarebbe svegliato sul suo morbido letto, nello confortevole smial di Hobbiville, scoprendo finalmente che quello non era stato altro che un terribile ed infinito incubo? Peregrino non aveva avuto mai troppi tormenti durante le notti nella Contea, poiché non aveva mai avuto niente da temere. Solo la zappa e i cani del Fattore Maggot avevano oscurato qualche notte insonne, reduce da una corsa con le rape in mano, rubate insieme a suo cugino. Ora gli pareva di viverlo, l'incubo, e sicuramente così era.

Pipino si mosse sulla sella, insofferente ed indolenzito. Allora Boromir voltò il viso di tre quarti, lanciando una rapida occhiata alle sue spalle.

«Sei stanco, piccoletto?» gli chiese, nonostante tutto con un tono dolce e apprensivo.

L'altro non poté mentire, perché la sua irrequietezza era fin troppo evidente. «Un po', Boromir. Non avevo mai cavalcato così a lungo. Persino il viaggio con Gandalf per raggiungere Minas Tirith è stato meno stancante.»

Boromir abbozzò un sorriso. «Lo credo bene, era Ombromanto il destriero che vi portava.»

«Sì, e non c'era tutta questa tensione nell'aria.» annuì Pipino. «A momenti mi soffoca e non vedere alcun movimento mi terrorizza ancor più che essere attaccato da uno stuolo di Orchetti!»

«Desideri la battaglia, dunque?» fece Gimli, che sedeva dietro Legolas, ormai inseparabili compagni di viaggio. «Ne avrai più di quelle che potresti immaginare, tra qualche giorno, giovane Hobbit. E sarò ben felice anche io di far cantare nuovamente la mia ascia!»

Pipino si rabbuiò. Lui non moriva dalla voglia di combattere, e non voleva neanche combattere e morire. Ma non ebbe il coraggio di pronunciare i suoi pensieri a voce alta. Era lì per un motivo: elevare il nome e la reputazione degli Hobbit della Contea, e l'ultimo dei suoi desideri era quello di essere ricordato come Peregrino Tuc il Codardo.

L'uomo che lo portava in sella abbandonò le redini con una mano e gli strinse la sua, piccola e tremante. «Non temere, amico mio. Ancora qualche ora e ci fermeremo per riposare. Anche io, come te, sono molto stanco.»

«Oh, ne dubito! Un Uomo grande e grosso come te non riuscirebbe a stancarsi neanche se mangiasse dieci cinghiali di fila!» esclamò Pipino, ritrovando la forza di ridacchiare. E per un attimo chiunque lo avesse udito lo imitò. Aragorn, che conduceva l'avanguardia, sorrise e pensò che fosse anche quella la forza di Pipino. Riusciva a far risplendere un poco di luce anche dove pullulava l'oscurità.

Come previsto da Boromir, trascorsero altre tre ore prima che Gandalf ordinasse di fermarsi e accamparsi. Le vedette a cavallo erano tornate assicurando che nessun pericolo fosse in vista e così quelle a piedi, che coprivano il fianco est dell'esercito. L'immobilità di quelle lande era inquietante e, pur non vedendoli, tutti i soldati sentivano numerosi occhi addosso; ma per quanto la situazione fosse minacciosa e a tratti insostenibile, era esattamente quello il loro scopo. Attirare l'attenzione altrove. Eppure nessun nemico, Orco o Uomo che fosse, aveva ancora osato muovere un passo verso quell'esiguo esercito che le forze di Mordor avrebbero potuto spazzare via con facilità. Che fosse il terrore di udire gli araldi gridare "Re Elessar è giunto! Che tutti abbandonino questo territorio o si sottomettano!"? Aragorn stesso ne dubitava.

Quando finalmente i piedi pelosi di Pipino toccarono terra, sospirò di sollievo e si sgranchì le membra bloccate, sbadigliando per il sonno e la fame. «Il mio stomaco mi abbandonerà, un giorno di questi. Da troppo tempo lo sto trascurando.» mormorò affranto, accarezzandosi la pancia con affetto.

«E dovrai continuare a farlo, piccoletto.» disse Boromir, scompigliandogli i capelli. «Abbiamo portato con noi il necessario per riprendere le forze e proseguire nel nostro cammino.»

Come a voler ribattere seccato, un gorgoglio di disappunto provenne dallo stomaco dello Hobbit, che arrossì per l'imbarazzo, provocando l'ilarità di molti. Quella piccola creatura era una novità per i soldati di Gondor e Rohan, e Pipino si ritrovò ad essere la loro nuova attrazione. Éomer lo fece sedere tra sé e Imrahil, e nelle vicinanze di Gandalf, e per qualche tempo lo Hobbit ritrovò la voglia di raccontare storie ed alleggerire gli animi pesanti di timori. Elegost, che mangiava a capo chino come il resto della Grigia Compagnia, sollevò per un attimo lo sguardo su Aragorn, e lo vide allontanarsi con il suo migliore amico e Sovrintendente, così come aveva fatto anche le sere precedenti.

I due si sedettero sulla radice sporgente di un grosso albero secolare, intaccato solo da qualche orrendo scarabocchio rosso del Nemico. Cenarono con quel poco che avevano in completo silenzio, perché in momenti come quelli non servivano parole. Era chiaro che le loro menti fossero affollate dai medesimi pensieri e preoccupazioni.

Poi, quando anche l'ultima goccia di acqua fu bevuta, Boromir sospirò pesantemente e guardò la ciotola che reggeva in mano come se potesse leggervi qualcosa di importante. «Dove credi che saremo giunti, a quest'ora, se la Compagnia fosse stata ancora unita?»

Aragorn osservò l'amico con un'espressione accigliata. «La Compagnia che partì da Gran Burrone è ancora unita, Boromir. Non è forse il motivo per cui ci troviamo in questa situazione? Non è forse per aiutare Frodo e Sam?»

«Rispondi alla mia domanda, Aragorn. Sai a cosa mi riferisco.» lo supplicò l'altro. Era qualcosa che in quegli ultimi giorni si stava chiedendo troppo spesso. E avrebbe voluto avere la compagnia di Brethil, affinché lo rincuorasse come sempre aveva fatto dal primo giorno in cui si erano conosciuti.

«Molto di quello che abbiamo vissuto sarebbe cambiato, altro sarebbe rimasto intatto.» iniziò Aragorn. «Frodo avrebbe dovuto comunque percorrere quest'ultima parte del viaggio da solo, poiché uno Hobbit è dieci volte più silenzioso di un gruppo di nove persone; l'invisibilità è fondamentale per poter sperare di raggiungere il Monte Fato. E sappiamo entrambi che Sam lo avrebbe seguito, sordo a qualsiasi obiezione. Forse avremmo intrapreso subito il viaggio verso Minas Tirith, poiché Merry e Pipino sarebbero stati salvi con noi e non avremmo incontrato Gandalf per tempo né avremmo dato il nostro aiuto a Rohan.» Il Ramingo chinò lo sguardo, con quello che sembrava un triste sorriso sugli occhi grigi e stanchi. «E probabilmente non avremmo incrociato il cammino di Brethil e tutto ciò che esso ha comportato.»

Boromir strinse i denti nel pensare alla donna. La sola idea di una vita senza di lei, ora, gli sembrava assurda e un profondo senso di vuoto gli serrò la gola. Era diventata importante, per lui, ne era ben consapevole, e saperla alle sue spalle al sicuro ma profondamente ferita lo rassicurava e spaventava contemporaneamente. Era ancora certo della scelta che lui e Aragorn avevano preso per lei, ma aveva visto la rabbia e la frustrazione nei suoi occhi; era qualcosa che lui non riusciva a dimenticare facilmente, né tanto meno a sopportare. Lo avrebbe mai perdonato per non averla sostenuta abbastanza?

«Lo farà, col tempo.» lo rassicurò il Dúnedain, quando l'altro gli pose la stessa domanda a voce alta. «Mi addolora sapere del suo rancore e non la biasimo. Ho calpestato il suo orgoglio e di questo mi assumo le colpe. Ma capirà le nostre motivazioni, quando sarà l'ora.»

«Sai, Aragorn, ho sempre avuto un pilastro portante nella mia vita.» fece Boromir. «La mia famiglia. La amo con tutto me stesso, persino ora che Denethor è morto dopo ciò che ha tentato di fare. Amo la mia gente e il mio esercito, ma l'amore che ho provato e provo per mia madre, mio padre e mio fratello è qualcosa di indescrivibile. Non ho mai avuto veri amici al di fuori di Faramir, poiché mai ne ho avuto il bisogno. Poi sono giunto ad Imladris e ho conosciuto tutti voi... siete stati per me come una seconda famiglia, anche se spesso, forse, ho dato prova del contrario. Tu sei l'amico che cercavo, il mio mentore da cui attingere la forza necessaria per andare avanti e avere uno scopo nella vita. E i piccoletti, Aragorn, è una tale gioia averli intorno! E ho rovinato tutto...» Aragorn volle interromperlo per negare quell'ultima frase, ma l'altro proseguì senza dargli il tempo di parlare. «Quando ho incontrato Brethil credevo che la mia vita sarebbe finita quel giorno, che non ci sarebbe stato ritorno. Ma lei mi ha dato prova che avrei potuto continuare a lottare, per amore della mia terra e dei miei amici. Amici, capisci Aragorn? Io, il coraggioso Capitano della Torre Bianca che ha degli amici!» Boromir rise di se stesso. «Pensavo di essere cambiato dopo il viaggio con la Compagnia, in bene o in male che fosse, ma Brethil... lei mi ha sconvolto. Non solo non avevo mai sentito la necessità di persone che mi supportassero, perché il mio esercito ricopriva bene quel ruolo, ma che persino una donna potesse entrare a far parte della mia vita...» Boromir lasciò volutamente sospeso il discorso per passarsi una mano sul viso.

«Neanche lei può più fare a meno di te, amico mio.» Aragorn gli strinse affettuosamente una spalla, incoraggiandolo e ben capendo dove volesse arrivare. «Il fatto stesso che ti abbia raggiunto a Minas Tirith dovrebbe darti delle conferme.»

«Non ho bisogno di conferme, le ho sotto gli occhi. È che sono... spaventato.»

«Spaventato da chi? Da una donna?» Aragorn finse stupore. «Boromir, credevo che il mio Sovrintendente fosse un uomo più coraggioso.»

«Sono felice che trovi il tempo e l'umore per prenderti gioco di me, amico.» borbottò il Gondoriano, con una smorfia infastidita.

Il futuro Elessar tentò di riappacificarsi con un sorriso. «Dimmi, che cosa ti intimorisce?»

Boromir non rispose, perché non sapeva trovare le parole giuste. In quei giorni di marcia aveva avuto troppo tempo per pensare e l'esperienza, ultimamente, gli aveva insegnato che non fosse uno dei suoi passatempi preferiti.

 

 

Pipino sonnecchiava, avvolto nel suo mantello elfico, ma non riusciva a prendere completamente sonno. Era abituato a dormire all'aria aperta, anche quando trascorreva le lunghe nottate nelle campagne della Contea, ma come poteva riuscire a prendere sonno in quelle lande deserte e terrificanti, con la paura che il Nemico potesse piombargli contro in qualsiasi momento?

Eppure non era solo la sensazione di pericolo a tenerlo sveglio. Era da qualche tempo che si sentiva osservato, come quando durante il loro lungo viaggio da Moria in poi percepiva gli occhi di quell'essere strisciante e meschino ch'era Gollum. Ma ora, che era passata da un pezzo la mezzanotte, la sensazione si fece insostenibile e si mise a sedere, guardandosi intorno. Gandalf dormiva accanto a lui, con i suoi grandi occhi grigi spalancati ed inquietanti, e per quanto ormai fosse abituato a quella vista la sua presenza non lo rassicurò; il resto dell'accampamento era silenzioso, tranne per qualche soldato che russava troppo rumorosamente. Nessuno sembrava patire l'insonnia come lui, persino i più paurosi.

«Peregrino Tuc, ti ricorderanno davvero come lo Hobbit più codardo della Contea!» si disse a denti stretti, prendendo la sua piccola spada  - più un pugnale nella mano di un Uomo - e dirigendosi verso la cresta di cespugli che li proteggeva verso Sud. Non sapeva perché avesse lasciato la sicurezza del suo giaciglio, né perché i suoi piedi lo stessero portando proprio in quella direzione, ma quel sesto senso che lo aveva accompagnato in quegli ultimi giorni gli suggeriva di non porsi domande e di continuare. Per un attimo il petto gli si gonfiò di orgoglio: se davvero ci fosse stato qualcuno, dietro quei cespugli, che li osservava e tramava nell'ombra, e lui lo avesse scovato sarebbe diventato un eroe. L'idea gli piacque abbastanza per dargli la forza di proseguire. Si fermò solo di fronte alla barriera di vegetazione, che mai gli era sembrata così minacciosa e pronta a risucchiarlo. Rimase fermo e in ascolto, ma niente si muoveva oltre il suo cuore impazzito. Qualche soldato si voltò sull'altro fianco, profondamente addormentato, ma nessuno fece caso a lui, impietrito come un Troll colpito dalla luce del sole.

Prima che avesse il tempo di maledire la sua infinita curiosità e tornare indietro, due mani lo afferrarono per il mantello e si ritrovò tra i rami e le foglie, mentre il suo aguzzino gli tappava la bocca per non permettergli di gridare. Pipino si divincolò con incredibile tenacia, ma niente servì a liberarlo. La piccola spada gli era caduta per lo spavento e non poté niente contro... una donna? Spalancò gli occhi nel riconoscere quel viso celato dal cappuccio, ma Brethil fu più lesta nel stringere la presa sulle sue labbra ed evitargli di gridare per la sorpresa.

«Non una parola, piccolo traditore.» gli bisbigliò Brethil, distendendosi in un sorriso per fargli capire che non fosse realmente adirata con lui.

Quasi Pipino scoppiò a ridere per la comicità della situazione. Brethil era come un cavallo indomabile: nonostante avessero fatto di tutto per tenerla all'oscuro della loro partenza anticipata, per lasciarla indietro e lontano dal pericolo, eccola lì! E gli sembrava anche soddisfatta di averli raggiunti, inaudito! Si poteva essere felici di andare in guerra? Pipino ne dubitava, così come non pensava che lo fosse realmente. Probabilmente era elettrizzata dall'idea di averli presi in contropiede nonostante le precauzioni. E non riuscì ad evitarsi di abbracciarla con forza.

«Ho bisogno che non riveli a nessuno la mia presenza, Peregrino Tuc. Giuralo su tuo cugino.» sussurrò la donna in un orecchio, mentre ricambiata l'abbraccio con affetto.

Lo Hobbit sembrò contrariato. Giurarlo su Merry? Era un impegno troppo grande, per uno come lui. Ma la serietà negli occhi grigi della donna lo fece capitolare e annuì, portandosi una mano sul petto. «Giuro sul povero Meriadoc di non aprir bocca - che la testa gli rimanga sulle spalle!» aggiunse, con un sospiro quasi divertito.

Brethil sorrise e gli baciò la fronte. «Ho lasciato Merry in buone mani, non preoccuparti. Ora, però, torna a dormire. Nessuno deve accorgersi della tua scappatella, curioso di un Tuc.»

Pipino accusò il colpo incassando le spalle. «Tu cosa farai?»

Ma lei non gli rispose. Gli intimò con lo sguardo di tornare a dormire e lui, sconfortato, tornò silenziosamente accanto a Gandalf. Rimase fermo ad osservare quegli occhi spalancati, cercando di capire se fosse sveglio o meno; ma lo Stregone non diede segni di vita e fu solo allora che lo Hobbit si distese sul suo giaciglio con un sospiro di sollievo. Si era preso un bello spavento, ma ora che aveva capito cosa fosse quella sensazione di disagio che lo aveva colto in quei giorni, riuscì finalmente a chiudere gli occhi e a riposarsi per qualche ora. In un certo senso, la consapevolezza di avere Brethil a portata di braccio lo rassicurava non poco.

Brethil rimase nel suo nascondiglio per qualche tempo, controllando la situazione nell'accampamento. Le sentinelle le erano appena passate davanti ma nessuno diede alcun segno di allarme. Appena si furono allontanate uscì allo scoperto, raggiungendo il gruppo di Raminghi del Nord che sonnecchiava attorno ad un fuoco ormai spento. Avrebbe voluto dormire accanto alla sua vecchia famiglia, ma li superò, dirigendosi dai gemelli di Rivendell, che a differenza di tutti gli altri erano svegli insieme all'Elfo Legolas, mentre guardavano le stelle in una radura lontano dall'accampamento. Brethil si appiattì contro il tronco di un albero e rimase immobile, in attesa di capire cosa fare. Non aveva previsto che Legolas scoprisse la sua presenza, ma doveva parlare con i due fratelli prima che l'esercito si rimettesse in marcia.

Il figlio di Re Thranduril sorrise e voltò lievemente il capo verso la sua direzione. «Ai! Im gelir le mae, Brethil. An lema?

La donna arrossì, maledicendo l'udito degli Elfi, ma non si mosse. Almeno, non finché Elrohir non le fu di fronte, sorridendo. «Hai impiegato fin troppo tempo per raggiungerci, amica mia.» le disse, incrociando le braccia al petto, con tono contrariato.

«Stai perdendo il tuo smalto, thêl?» continuò l'altro gemello.

Brethil restituì ad entrambi un'occhiata supponente e i due Mezzelfi della casa di Elrond risero, musica per le sue orecchie. Guardò subito con aria preoccupata Legolas, che non accennò ad alzarsi per andare ad avvisare Aragorn di quell'inaspettata eppure prevedibile presenza.

«Non temere, non ho intenzione di fare la spia.» la rassicurò.

Elladan allungò una mano verso la donna. «Vieni, siedi e riposa accanto a noi, thêl. Avrai sicuramente qualcosa da raccontarci, immagino.»

E così fece. Si sedette tra i fratelli, massaggiandosi un po' la spalla indolenzita. Alzò lo sguardo al cielo stellato, proprio come stavano facendo gli altri poco prima che li interrompesse, e sospirò. «Prima che lo chiediate, non mi sono pentita di avervi raggiunti.»

«Né noi lo mettevamo in dubbio.» replicò Elrohir, divertito. «Ero certo che il tuo orgoglio avrebbe prevalso persino sopra gli ordini di Aragorn.»

Brethil strinse i pugni. «Non è stato corretto da parte sua mettermi da parte come se fossi una spada arrugginita.»

Prima che uno dei due gemelli potesse parlare, Legolas si alzò, osservando la via verso nord-est, dove erano diretti. «Al di là di quella valle c'è la Morte. Riesco a percepirla ovunque, ormai, e credo che anche tu possa farlo.» La osservò con uno sguardo calmo come il mare mattutino che lui tanto agognava, e continuò. «Non credere che Aragorn ti abbia lasciata indietro per paura che tu possa morire. È consapevole delle tue capacità e la prova risiede sul fatto che lo accompagni nelle sue avventure da tutta la tua vita.»

«E allora perché?» chiese la donna, frustrata dalla sensazione di inutilità che provava e dal fatto che ancora non riuscisse a capire quel gesto egoista.

«Hai perso qualcuno di importante, qualche giorno fa.» Il tono dell'Elfo si fece grave e lei si sentì stringere il cuore. «Ed è accaduto nel peggiore dei modi, perché eri lì. Non vuole che si ripeta ancora una volta.»

Fu in quel momento che Brethil capì le reali intenzioni di Aragorn e tutta la rabbia che provava sfumò via, come spazzata da una forte folata di vento. La morte di Halbarad avrebbe comunque segnato una ferita troppo profonda per sperare che potesse cicatrizzarsi un giorno, ma averlo avuto tra le braccia nei suoi ultimi istanti di vita era stato straziante. Era come se le avessero strappato il cuore dal petto nel momento esatto in cui lui aveva smesso di respirare e di vederla. Se fosse accaduto di nuovo, ad Aragorn, o Boromir, o ad uno di loro, lei probabilmente non avrebbe saputo resistere oltre e sarebbe stata ingoiata dalla furia della pazzia.

Brethil deglutì a fatica, la gola secca. Era stata così accecata dalla frustrazione da non aver capito subito quali fossero i chiari disegni dietro quel gesto che le era apparso tanto ingrato. «Quindi, anche il Sovrintendente ha agito per lo stesso motivo?»

Legolas rise. «Oh, no. Credo che Boromir abbia accettato perché teme per la tua vita, prima che per la propria. L'idea di Aragorn, però, gli è sembrata più ragionevole.»

La donna richiuse la bocca, dandosi mentalmente della stupida. «Certo, le donne devono stare a casa durante la guerra.» mormorò amaramente. Scosse il capo, dimenticando per un attimo l'Uomo e i suoi ideali. «Nessuno deve sapere che sono qui, per il momento. Posso fidarmi di voi, vero?»

Elrohir annuì, mostrandosi quasi offeso per quella domanda retorica. «Sarai tu a decidere quando mostrarti, se vorrai farlo. L'esercito è grande abbastanza da passare inosservati e sappiamo bene come i Raminghi siano dei maestri in quest'arte.»

«Vi ringrazio, amici miei.» fece lei, distendendosi in un caloroso sorriso. «Ho intenzione di fare loro una sorpresa.»

«E io non vedo l'ora di assistervi, thêl.» continuò l'altro Mezzelfo. «Ora vieni qui, riposa con noi. Ti avviseremo per tempo prima che l'accampamento si risvegli.»

Lei non se lo fece ripetere due volte e si rese conto solo in quel momento di quanto fosse stanca. Era abituata alle lunghe cavalcate, ma in quegli ultimi giorni aveva preso la brutta abitudine di lanciarsi in inseguimenti sfiancanti: prima la corsa verso Minas Tirith e ora quella verso la Morte. E tutto perché?

Brethil sospirò e si diede mentalmente uno schiaffo. Correva, sì, ed inseguiva sempre la stessa persona. Che cos'era quello, se non amore?

 

 

Quando Elladan la risvegliò con la sua melodica voce, Brethil pensò di aver dormito non più di pochi minuti. Era così stanca che, non appena aveva messo il capo contro la sua borsa, si era addormentata immediatamente, cadendo in un sonno senza sogni - fortunatamente. Sbatté per qualche istante le palpebre, mettendo a fuoco l'erba bagnata di rugiada che le solleticava l'olfatto, e si mise a sedere, reprimendo uno sbadiglio con una mano. Vide Legolas, in piedi a pochi metri da lei, che accarezzava il muso di Nerian e gli sussurrava qualcosa in elfico.

Brethil li raggiunse entrambi. «Vedo che avete fatto amicizia.»

«È inevitabile, con un destriero simile.» rispose l'Elfo, sorridendo. Come sempre. Brethil non poteva affermare di conoscerlo bene, anche se spesso aveva combattuto per suo padre a Bosco Atro, ma non ricordava di aver mai visto una nota di preoccupazione sul suo giovane e bel viso. Pareva che neppure la guerra potesse scalfire la sua gaiezza, e desiderò tanto essere come lui.

«Nerian è un buon amico di viaggio. Ci accompagniamo da più di un anno, ormai, e solo la morte potrebbe separarci.»

Il sorriso di Legolas si fece più luminoso. «Allora starete insieme ancora per parecchio tempo.» L'Elfo si congedò con un cenno del capo, per raggiungere le tende dei Capitani.

L'accampamento si stava lentamente svegliando e il sole non era ancora sorto; solo una striscia rossa iniziava a sfumare il cielo scuro e nuvoloso.

Brethil sistemò la sella del suo cavallo e vi agganciò la borsa dopo aver tolto un tozzo di pane e una mela, che mangiò velocemente, prima di montare. Tolse una fascia di grigio tessuto simile a quello del mantello che indossava e se lo avvolse sul viso, nascondendosi naso, labbra e collo; calò l'ampio cappuccio sulla fronte, cosicché solo gli occhi grigi fossero visibili ad uno sguardo attento, e spronò Nerian verso i gemelli di Rivendell, che le sorrisero.

«Hai per caso freddo, thêl?» le domandò Elladan, divertito da quel suo travestimento. Il Mezzelfo rise nel vedere l'occhiataccia che scorse sotto il cappuccio.

Appena tutti i Raminghi furono sui loro cavalli, Brethil si unì a loro, restando in coda al gruppo. Nessuno sembrava aver voglia di parlare e ciò la tranquillizzò non poco. Poteva fidarsi dei gemelli e di Legolas, persino di Pipino; ma non poteva rischiare che la voce della sua presenza si spargesse tra le fila dei suoi compagni. Aragorn e Boromir, con Éomer, Gandalf e Imrahil, cavalcavano in avanscoperta, a distanza di sicurezza. Tenne d'occhio Pipino, che nonostante la voglia di voltare il capo per cercarla con lo sguardo, teneva gli occhi assonnati puntati davanti a sé. La Dùnadan aveva capito che quel piccolo Hobbit avesse una lingua troppo veloce e temeva che potesse rivelare la sua presenza prima del momento che lei stessa aveva prefissato. Perché non voleva che si accorgessero di lei - almeno non subito.

Tra i Raminghi ne riconobbe uno, che le era sempre stato un caro amico, e gli si avvicinò silenziosamente dopo mezza giornata di viaggio. Elegost, avvertendo una presenza cavalcare al suo fianco, si voltò e quasi lasciò cadere le redini per la sorpresa. Avrebbe riconosciuto quegli occhi grigi che brillavano nell'ombra ovunque. Ma ogni parola fu fermata da un dito di lei, che si sollevò là dove c'erano le labbra, per intimargli di tacere. Elegost sorrise e annuì. Avrebbe dovuto aspettarsi una cosa simile da parte della donna; aveva sempre seguito gli ordini che le venivano impartiti, con senso del dovere e dedizione, ma la sua indole ribelle era proprio lì, sotto quella scorza fredda e orgogliosa, e non aspettava altro se non di uscire allo scoperto come in quel momento. Elegost avrebbe voluto chiederle come stesse, ma lei aveva già spronato il suo cavallo per allontanarsi nuovamente dal gruppo e confondersi tra gli altri Raminghi, alle sue spalle.

La lunga marcia verso il Morannon proseguì per i due giorni successivi senza troppi intoppi; perché né Brethil né il resto della comitiva ritenne che l'assalto degli Orchetti che li attaccarono con ben poca tenacia fosse un avvertimento di pericolo. Sapevano che il Nemico fosse ovunque intorno a loro - e sopra di loro, come aveva notato Legolas nello scorgere i Nazgûl che volavano alti sulle loro teste - e sapevano anche di aver attirato la sua attenzione. Ma non era forse quello il loro scopo? L'Occhio di Sauron era su di loro, ben lontano dai due piccoli Hobbit, che giorno dopo giorno si avvicinavano alla loro meta.

Aragorn, dal pieno della sua saggezza, aveva esortato i più timorosi a congedarsi e a correre verso Sud, alla volta di Cair Andros, nel caso il nemico vagasse ancora per quelle terre. Infine erano ripartiti in seimila, mille in meno del numero di soldati partiti da Minas Tirith. Le poche speranze di vincita svanirono completamente, spazzate dalla consapevolezza di quell'esiguo esercito che sarebbe stato schiacciato facilmente come una formica dallo stivale.

Quella notte nessuno di loro riuscì a dormire. Nonostante la presenza della luna, poterono solo immaginare e sentire il movimento intorno a loro; qualsiasi cosa strisciasse, facendoli rabbrividire, era nascosta dalle esalazioni e dai fumi che la terra emanava. Non vi era luogo più desolato e desolante di quello in cui si erano accampati. Il Morannon era ormai alle porte e l'aria che respiravano era pesante ed aspra; non faceva altro se non incupire ancora di più i loro animi.

Brethil era di vedetta con i gemelli, seduti intorno ad uno dei tanti fuochi sparsi attorno all'accampamento. Parlottavano piano e in elfico e la loro presenza confortante era sufficiente per farla sentire meglio. Era poggiata contro il tronco di un albero secco e morto, il capo sempre coperto dal cappuccio, ma i suoi sensi in allerta l'avvisarono comunque della presenza di qualcuno alle sue spalle. E capì di chi si trattasse appena riconobbe la voce bassa e roca di Boromir.

«Com'è la situazione, da queste parti?»

Elrohir scosse il capo. «Siamo circondati, questo è chiaro. Ma nessuno ha mosso più di un passo verso di noi.»

Brethil quasi trattenne il fiato nel rendersi conto che l'Uomo le era accanto.

«Ci stanno studiando, è chiaro.» continuò il Sovrintendente di Gondor. «Vogliono vedere fin dove ci spingeremo e, ahimè, rideranno di noi.»

«Non parlare con pessimismo.» lo ammonì Elladan, sorridendo. «Chissà che non saremo noi a ridere di lui?»

Boromir gettò un'occhiata al Ramingo seduto accanto a lui, che non aveva alzato lo sguardo né aveva aperto bocca per rispondere. Ma non ci badò più di tanto. Quei Dúnedain erano così silenziosi e tenebrosi che aveva ancora un timore riverenziale ad avvicinarli. «Mi piacerebbe pensarlo, ma dubito che accadrà. Non sono pessimista, guardo la realtà. E ciò che vedo non è roseo.»

«Niente di quello che stiamo vivendo lo è, sire Boromir.» disse Elrohir. «Eppure numerosi sono stati i momenti in cui la razza umana o quella elfica hanno dovuto far fronte a battaglie oscure come questa e hanno vinto, nonostante la possibilità di successo fosse legata ad un filo su cui camminava un Troll.»

Il Gondoriano si lasciò sfuggire un sorriso stanco e Brethil se ne accorse dal tono di voce con cui parlò. «È bello sapere che ci sia ancora qualcuno che crede nella vittoria.»

«Finché avremo le forze di camminare e combattere, e l'Elessar ci guiderà, la speranza non abbandonerà questa terra.»

Boromir rifletté per qualche secondo e si congedò con un cenno del capo. Solo in quel momento Brethil tornò a respirare.

 

 

25 Marzo 3019 T. E.

 

Il Morannon si apriva ai loro occhi, più desolante che mai. Il Cancello Nero e le sue tre, enormi porte arcuate sovrastavano la valle e chiudevano ogni via verso Mordor. Il silenzio era tombale e ogni cosa immobile. Gandalf avrebbe detto che quello era il profondo respiro della tempesta prima dello sfogo. Il Nemico era ovunque intorno a loro, in attesa di una loro mossa, e si sentirono in trappola in quella gola nera e fredda. I loro cuori raggiunsero l'apice del gelo quando i Nazgûl sorvolarono le loro teste e si appollaiarono sulle alte e nere Torri dei Denti, osservandoli come avvoltoi che pregustano una carcassa.

Nerian scalpitava irrequieto, così come irrequieta era la sua padrona. Brethil provò l'impulso di cavalcare accanto ad Aragorn e ai rappresentanti che l'accompagnavano verso quel folle cammino, ma Elegost le fu accanto e frenò ogni suo gesto afferrando il cavallo per le redini.

«Hai mantenuto segreta la tua presenza fino ad ora, amica mia.» le disse, comprensivo. «Continua a mantenerla tale ancora per poco. Non è il momento adatto per lasciar spazio alla sorpresa di averti accanto.»

La donna annuì, capendo che le parole del Ramingo fossero giudiziose, anche se l'istinto di spronare Nerian fu forte. Osservò la comitiva fermarsi a qualche centinaio di metri dal Nero Cancello e udì la voce ovattata di Aragorn, che riecheggiò per l'intera gola. L'orgoglio e la forza di un singolo uomo ebbe il potere di risollevare gli animi. Poi ci fu un rullare di tamburi così forte ed inaspettato che fece saltare sulle selle chiunque e quelle porte imponenti ed oscure si aprirono; e nuovamente l'oscurità fece da padrona nei cuori di tutti.

L'emissario di Sauron fece la sua comparsa insieme a qualche altro alleato e nessuno di loro poté udire le loro parole. Brethil vide qualcosa brillare nelle mani nere dell'emissario di Sauron, ma non seppe dire cosa fosse. Fu Elladan a spiegarglielo, poiché la sua vista elfica gli permetteva di vedere chiaramente cosa stesse accadendo.

«È una cotta di maglia, mithril se i miei occhi non m'ingannano.» le spiegò e lo vide rabbuiarsi.

Istintivamente Brethil rabbrividì. Cos'era quell'espressione angosciata?

«Ricordo che Messer Bilbo ne aveva una simile.» proseguì Elladan, gravemente. «È lo zio di Frodo.»

D'un tratto capì e si sentì mancare. Lo Hobbit era stato per caso ucciso? Sauron aveva recuperato forse l'Anello e tutto era perduto, dunque? Ma Brethil non ebbe tempo di riflettere, perché i tamburi rullarono ancora una volta, più forti di prima, e squillarono trombe. D'improvviso l'orda di nemici fuoriuscì dalle porte del Cancello ora completamente aperte e si riversò sugli Uomini come un fiume in piena. I Raminghi e gli Uomini del Principe Imrahil si trovavano sul fronte che avrebbe accolto per primo l'assalto degli Orchetti e Brethil  sfilò l'arco ed incoccò una freccia.

«Vi auguro di rivedere la prossima alba, amici miei.» disse la donna ai gemelli.

«La vedremo insieme, thêl.» replicò Elladan, che si mosse per impartire i primi ordini ai Dúnedain.

 

 

Boromir affondò la possente e lunga spada sul torace di un Orchetto e, dopo aver allontanato il cadavere con un calcio, si fermò per guardarsi intorno. Il suo cavallo, compagno di viaggio da parecchi mesi, era caduto sotto numerose frecce e lui stesso aveva rischiato di essere colpito se non fosse stato per lo scudo che lo aveva protetto. Nella caduta aveva preso un brutto colpo alla fronte, che ora sanguinava copiosamente e gli oscurava la vista, ma era ben determinato stringere i denti e a continuare a combattere, per morire con onore. Si difese da altri due attacchi come un indemoniato, e il nemico stesso che si ritrovò ad affrontare la sua lama sembrò impressionato da tanto ardore.

Vide Aragorn e Gandalf combattere poco distanti da lui, ancora sui loro destrieri, ma non vide Pipino. Una morsa di angoscia gli strinse lo stomaco e cercò lo Hobbit ovunque nei dintorni, mentre numerosi altri Orchetti si riversavano contro di lui. Era evidente che la sua sfrontatezza in battaglia e la sua forza fossero un motivo più che valido per il nemico affinché lo affrontasse.

Il piccoletto, però, non riuscì a scorgerlo da alcuna parte. Lo chiamò a gran voce ma non udì risposta in tutto quel fracasso di frecce, spade e tamburi. Dalla collina su cui combatteva osservò il campo di battaglia e si angosciò. Già numerosi dei loro soldati erano caduti sotto l'attacco del Nemico e molti altri continuavano a morire. Poi qualcosa attirò la sua attenzione e rimase immobile, incredulo. Si ritrovò a sbattere più volte le palpebre, convinto che l'immagine di Brethil che combatteva a poche decine di metri da lui fosse frutto della sua immaginazione e del sangue che stava perdendo dalla fronte. Eppure il luccichio e il suono melodico di Celeboglinn ogni qualvolta fendesse un nemico era così nitido da sembrargli vero.

Scosse il capo, risvegliandosi da quella fantasia. Non era quello il momento più adatto per sognare la presenza di lei al suo fianco. Brethil era parecchie leghe da quella terra di Morte, al sicuro. Eppure, ogni qualvolta finisse un Orchetto e volgesse lo sguardo verso quella figura incappucciata sul suo destriero, così simile a Nerian, gli parve di riconoscere la lama ricurva e quel suo stile di combattimento che apparteneva solo alla donna. E più si avvicinava al soldato più ogni dubbio svaniva. Quella era davvero Brethil, oppure la botta che aveva preso alla testa lo stava facendo impazzire prima della fine.

La Dùnadan tirò le redini, facendo impennare il cavallo e falciando un Uomo dell'Est sul petto e si fermò proprio davanti allo sguardo di Boromir. Sbarrò gli occhi e non osò muovere un muscolo, come se temesse che ogni suo gesto potesse costarle la vita. Rimasero immobili ad osservarsi, mentre la battaglia attorno a loro imperversava crudele. Non era esattamente quello il momento più adatto che avrebbe scelto per esclamare un sorpresa!, ma a quanto pareva avrebbe dovuto accontentarsi.

Lei, però, fu la prima a riprendersi. «Alle tue spalle!» gli gridò.

Boromir fece in tempo a voltarsi e a muovere la spada in posizione di difesa, evitando così che la lama sporca ed ammaccata di un Orchetto gli si conficcasse tra le costole. Una familiare sensazione di pace gli formicolò lo stomaco e si ritrovò a sorridere, quando uccise anche quell'ammasso puzzolente e sporco. Sentì la presenza della donna alle sue spalle ed impugnò con forza spada e scudo.

La loro battaglia poteva continuare.

 

 

 

*

 

Bene, bene, bene. Vedo che praticamente tutti avete indovinato cosa avrebbe fatto Brethil. Ma conoscendo l'indole della fanciulla sarebbe stato strano che rimanesse a Minas Tirith a maledire quei due omoni. È decisamente più gratificante prenderli a randellate di persona, no?

Prima di salutarvi e di darvi appuntamento al prossimo capitolo, questa è la traduzione della breve frase in Elfico:

*Ah! Sono contento che tu stia bene, Brethil. È stato un lungo viaggio?

Inoltre c'è una piccola citazione di Fabrizio de Andrè da qualche parte nel capitolo... stavo scrivendo la frase e mi è venuto spontaneo scriverla. Spero non abbia stonato troppo, per chi l'ha colta subito. Un abbraccio virtuale a chi la scova!

 

A presto!

Marta.

 

 

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Capitolo 14
*** 14. ***


Buona inizio di settimana a tutti, miei cari lettori e adorate lettrici.

Questo è, al 90%, il penultimo capitolo. Non nasconderò il fatto che sono un po' in ansia, sia per la paura di deludere le vostre aspettative sia perché questa storia sta volgendo al termine.

Ma lascerò le lacrime per il prossimo capitolo, per ora godetevi questo!

Ah, quasi dimenticavo! Complimenti a mamie per aver trovato la citazione di De Andrè! Per chi se la fosse persa la frase è questa: Quando ho incontrato Brethil credevo che la mia vita sarebbe finita quel giorno, che non ci sarebbe stato ritorno. La canzone è La Guerra di Piero.
A presto,
Marta.

                                                                                                                                                                                                   

 

Betulla


14.

25 Marzo 3019 T. E.

 

 

Era una gioia talmente intensa che quasi gli faceva male il petto. Intorno a lui le grida di felicità e sollievo si levavano con forza dalle gole arse dei soldati in festa.

Frodo ce l'aveva fatta.

Frodo aveva distrutto l'Unico Anello e Sauron era caduto.

Cosa c'era di più bello della sensazione dell'Ombra più grande che veniva sconfitta, una volta per tutte?

Boromir chiuse gli occhi ed inspirò l'aria di libertà che era ora finalmente respirabile ovunque, intorno a loro.  La sentì nei polmoni, nella mente, nel cuore e nelle vene. Provò la piacevole emozione di essere pace con se stesso e si ritrovò a ridere da solo, come un povero, vecchio pazzo. Si guardò intorno e vide Brethil, inginocchiata e stremata, mentre accanto a lei Nerian le accarezzava il viso con il muso. Sembrava incredula quanto lui e il resto dell'esercito. Ma lei, più di tutti, aveva temuto che quell'impresa non venisse portata a termine, per causa sua. Aveva vissuto l'ultimo anno della sua vita con l'angoscia di aver liberato l'essere che avrebbe distrutto ogni speranza, e invece ecco la prova tangibile che il sogno di suo padre, e poi il suo, era stato davvero profetico.

Boromir combatté contro l'impulso di abbracciarla e di ridere finché avesse perso le forze perché la vista delle sue lacrime lo bloccò. Brethil piangeva, piangeva quasi con disperazione. Non seppe dire se fosse per il sollievo o per la tristezza di non poter festeggiare con l'amico perso solo qualche giorno prima. Ma quei singhiozzi ebbero il potere di fermare ogni suo gesto. Rimase imbambolato, mentre la donna stringeva il collo del suo cavallo e affondava il viso sulla sua morbida criniera castana, e si voltò solo quando percepì una mano forte stringergli la spalla. Trovò il volto di Aragorn stanco e provato, ma sorridente come mai l'aveva veduto. Era il ritratto vivente della felicità. Si abbracciarono fraternamente e a loro si aggiunse Pipino, risvegliatosi dal brutto colpo che aveva subìto in battaglia e che lo aveva messo fuori gioco.

«Dov'è Gandalf?» chiese lo Hobbit, con le lacrime agli occhi.

«È andato a riportare a casa Frodo e Sam.» disse Aragorn, con la voce rotta dalla commozione. Era tutto talmente bello che pareva irreale. Pipino temette quasi di respirare, per paura che quella splendida sensazione di libertà potesse svanire da un momento all'altro. Poi, nonostante la fatica e il dolore, il piccoletto riuscì a trovare anche la forza di saltare e cantare dalla gioia e Boromir rise e cantò con lui.

 Poco più in là Legolas e Gimli, stanchi ma in piedi, camminavano tra i cadaveri, insieme ai gemelli di Rivendell, per contare i caduti e controllare se ci fossero superstiti. I Capitani partiti da Minas Tirith erano sopravvissuti, ma molti dei loro uomini giacevano senza vita nella desolazione del Morannon. Del Nemico, invece, non c'era più traccia. Gli Orchetti e gli Uomini ch'erano rimasti in vita avevano iniziato a disperdersi velocemente; alcuni riuscirono a scappare, in preda al panico, altri vennero catturati e resi prigionieri, affinché venissero usati per ripulire il sangue versato e dare una sepoltura decorosa ai caduti.

Aragorn aguzzò la vista e vide le Aquile tornare dal Monte Fato con due fardelli tra gli artigli. Non poté frenare l'ennesimo sorriso. Sollevò al cielo Andúril e gridò con tutto il fiato di cui disponeva. «Amici, fratelli miei! Che questo giorno sia ricordato e festeggiato come il più lieto della Terza Era! Il giorno in cui i popoli liberi della Terra di Mezzo hanno sconfitto il Signore delle Ombre grazie al coraggio di due Hobbit della Contea!» I soldati risposero con canti e squilli di trombe, osannando l'Elessar e tutti i Mezzuomini che calpestavano la loro bella terra.

Quando il futuro Re di Gondor si voltò verso Boromir, lo vide avvicinarsi ad una figura china su un cavallo e nel momento in cui la riconobbe non poté nascondere lo stupore che si fece largo tra la felicità. Era davvero Brethil quella piccola donna avvolta in un mantello sporco di sangue e fango?

Il Sovrintendente si fermò a pochi passi da lei, che alzò lo sguardo nel sentirsi osservata. Incontrò quegli occhi limpidi, lavati da ogni preoccupazione e ombra, così luminosi e fieri da farle rompere qualsiasi indugio. Boromir era lì, di fronte a lei.

Ed era vivo.

Si ritrovò tra le braccia dell'Uomo prima ancora che potesse rendersene conto. Lui lasciò cadere scudo e spada nel momento in cui lei gli si gettò contro, e la strinse a sé con forza, nascondendo il volto tra i suoi corti capelli neri e riassaporando la sensazione di averla nuovamente accanto. In quel momento non gli importò perché li avesse raggiunti, né come avesse fatto a non farsi scovare. C'era spazio solo per lei, nella sua mente.

«È finita?» mormorò lei, incredula. «È finita davvero?»

«Sì, lo è. Abbiamo vinto.» Boromir sorrise, asciugandole le lacrime dalle guance sfregiate e poggiò la fronte contro la sua. «Abbiamo vinto e non devi più preoccuparti di alcuna profezia, Brethil. Né io sentirò più quelle terribili voci, finalmente.»

Lei rise e pianse, non riuscendo a trattenere tutta quell'emozione che sembrava volerle lacerare l'anima. Gli circondò il collo con le braccia e lo abbracciò ancora, con la punta dei piedi che sfiorava appena il terreno. Rimasero fermi in quell'abbraccio per quelli che parvero minuti interminabili, mentre attorno a loro la festa continuava. Furono interrotti solo da Pipino, che s'infilò tra i due prendendoli per mano e ballando gioiosamente, suscitando l'ilarità di chiunque li vedesse ed udisse.

Nell'infinita gioia, Boromir prese lo Hobbit in braccio e lo sollevò un paio di volte, riprendendolo al volo e baciandolo tra i capelli riccioluti. Brethil rischiò anche di essere colpita da un piede peloso volante, se non fosse stato per la sua prontezza di riflessi. Sentì una mano sulla spalla e appena si voltò incontrò gli occhi grigi di Aragorn, che non le diede il tempo di parlare. Si abbracciarono in silenzio, perché non esistevano parole in quel momento che potessero esprimere ciò che stavano provando: la felicità di aver vinto una guerra così importante e la tristezza delle numerose ed importanti perdite di quei giorni funesti.

Dalle spalle di Aragorn, la donna si accorse della brutta ferita sul capo di Boromir e sciolse l'abbraccio, avvicinandosi all'uomo.

«Siedi un attimo e seda la tua gioia per qualche istante.» gli disse, con voce ferma, indicando con lo sguardo la tempia sanguinante. «È da medicare prima che s'infetti.»

Boromir tentò di replicare, ma Pipino si mise le mani sui fianchi, crucciando la fronte. «Non voglio sentire scuse, mio signore. Fai come ti è stato ordinato, o mi vedrò costretto a prenderti per un orecchio e farti sedere a forza!» esclamò lo Hobbit, sotto lo sguardo stralunato dei presenti.

L'unico che rise, poiché aveva capito chi stesse imitando, fu proprio il Gondoriano. «Ioreth maledirà te e la tua discendenza, se ti farai scappare qualcosa di simile nelle sue vicinanze.»

Pipino si strinse nelle spalle. «A meno che dama Brethil non l'abbia portata in viaggio con sé, per ora posso dirmi al riparo da qualsiasi ritorsione.» disse, strizzando un occhio.

«A proposito.» fece una voce, appartenente ad Éomer, nuovo Re di Rohan. «Tu non dovresti trovarti a Minas Tirith?»

Lei rizzò la schiena, assumendo la rigida espressione che aveva sempre indossato da quando aveva intrapreso quella vita. Chiamò Nerian con un fischio e il cavallo fu prontamente da lei. Slacciò la borsa dalla sella e si chinò su Boromir, che ora la fissava intensamente, in attesa di una spiegazione.

«Dovresti conoscermi, ormai, Éomer. Non mi si può ingannare tanto facilmente.» rispose Brethil, bagnando un fazzoletto con dell'acqua per pulire la ferita. Ricambiò lo sguardo contrariato dell'Uomo, ma non aggiunse altro.

«Oh, lo so bene, eccome. Tu e mia sorella dovreste essere legate ad un albero per sperare di tenervi a bada.» replicò Éomer, ora sorridendo. «Sono felice di vederti in piedi sulle tue gambe, amica mia. Anche se un po' ammaccata.»

«Neanche tu mi sembri tanto in forma.» Brethil ricambiò il sorriso. «E no, neanche legandoci con corda elfica potresti ammaestrarci, Re di Rohan.»

«Come hai fatto ad eludere la sorveglianza delle sentinelle?» domandò improvvisamente Boromir, mentre Pipino raccoglieva la sua spada e lo scudo e glielo porgeva accanto. Per quanto avesse cacciato dalla mente ogni spiegazione, ora che gli si presentava la possibilità di sapere voleva scoprire tutto: sia quale follia l'avesse spinta a seguirli e, soprattutto, come avesse fatto a passare inosservata.

La donna incrociò le braccia, sollevando le sopracciglia. «Boromir, il tuo scetticismo mi offende oltremodo. Quando voglio so essere un'ombra.» Catturò un veloce sguardo orgoglioso di Aragorn, ma si impose di non sorridergli. Avevano iniziato quella piccola battaglia di fierezza e non era ancora pronta per cedere.

«Ora ricordo... eri tu il Ramingo silenzioso della notte scorsa, insieme ai gemelli di Imladris.» Gli occhi di Boromir si strinsero in una linea sottile, puntandole un dito contro. Persino da seduto riuscì a sovrastarla con la sua mole «Ti sei presa gioco di me!»

Lei scosse il capo. «Fino a prova contraria voi vi siete presi gioco di me. O la mente m'inganna?» domandò, ora rivolgendosi ad Aragorn.

«Ricordi bene, amica mia.» fece l'Elessar, chinando il capo. «E spero sarai pronta a perdonarci, dopo che avrai udito le nostre motivazioni.»

«So già cosa ti abbia spinto a tenermi indietro, Aragorn. E lo apprezzo. Ma nonostante io sia qui, oggi, questa volta i Valar hanno deciso di risparmiarmi ulteriore dolore. Quanto a te...» Brethil premette più forte il fazzoletto sulla ferita dell'uomo, che gemette contrariato. «Tu mi avresti chiusa in una cella pur di non farmi cavalcare al tuo fianco, e non certo per cavalleria nei miei confronti.»

«Sei ingiusta.» borbottò Boromir, temendo la mano di lei quando la riavvicinò per completare la medicazione. «L'avrei fatto per il tuo bene.»

«Cosa puoi saperne di cosa sia bene o male, per me?» replicò lei. «Sono grande abbastanza da saper prendere le mie decisioni, Boromir. Persino mio padre, quando ero una bambina, mi lasciava libera di scegliere. E da quanto ricordo, non mi risulta che tu sia Aeglos, Dúnedain del Nord.»

Brethil non aveva alzato il tono di voce, ma a Boromir parve che stesse gridando. Aveva imparato, ormai, che quella donna perdesse raramente la pazienza, e le poche volte che ciò accadeva - stranamente sempre in sua presenza - riusciva a farlo rabbrividire. Era vero, non spettava a lui scegliere per lei. Ma possibile che fosse così ottusa da non capire che aveva agito solo per proteggerla? Ed era stata così stolta da mettersi in viaggio da sola, con una spalla lussata, nel mezzo di una guerra, quando il territorio che avevano attraversato in settemila pullulava di nemici! «Stupida ragazzina, mi preoccupo per la tua sorte e questo è il modo in cui ripaghi la mia apprensione? Me ne ricorderò, la prossima volta, stai pur certa.»

«Se ciò ti porta lontano dalle mie decisioni ben venga, Boromir.» sbottò lei.

Aragorn ed Éomer si scambiarono una rapida occhiata ed esortarono lo Hobbit a seguirli e a lasciare che quei due sfogassero il loro astio senza la presenza di spettatori. Peccato, pensò Pipino, si stava divertendo un mondo. E aveva anche in mente di fare il tifo per sostenere Brethil, tanto per vivacizzare la situazione.

«Grampasso disfa-giochi!» mormorò tra sé e sé, beccandosi l'occhiataccia del diretto interessato, che gli tirò un buffetto amichevole sulla nuca.

«Disfa-giochi, eh?» gli disse, con un ghigno per niente promettente. «Vieni con me, messer Peregrino, e servi il tuo Re come si addice ad un vero scudiero di Gondor.»

«Mi vuoi schiavizzare per punizione?» domandò lo Hobbit, preoccupato. «Perché nel caso mi aggrapperò alla tua infinita clemenza.»

«E cosa ti assicura che io sia clemente?»

Pipino rabbrividì sotto quello sguardo improvvisamente duro e serio. Poi udì la risata dei due Re solleticargli le orecchie e si rasserenò nuovamente.

«Non rilassarti troppo, Pipino. Mi serve davvero il tuo aiuto.» riprese Aragorn, ora più dolcemente. «Anzi, servirà di più a Frodo e Sam.»

Il viso dello Hobbit s'illuminò. «Andiamo da loro?»

«Certo. Avranno bisogno delle nostre cure; temo che questo viaggio li abbia portati al limite delle loro forze e dobbiamo affrettarci. Vieni, cavalca con me. Gli altri Capitani ci raggiungeranno presto.» Lo prese in braccio e lo fece sedere sull'ampia sella del suo destriero, raggiungendolo poco dopo.

Fu quello il momento migliore per confidare all'Uomo qualcosa d'importante - e non per altro, non poteva guardarlo negli occhi se non voltandosi. «Sai che ero a conoscenza della presenza di dama Brethil?»

Quello quasi tirò le redini per fermare il cavallo, dallo stupore. «Tu lo sapevi?» chiese, stupito. «Pipino, mi sorprendi.»

«Lo so, sono una delusione. Avrei dovuto dirtelo, ma...»

«Non travisare le mie parole. Mi sorprende che non ti sia fatto scappare neanche una parola per così tanto tempo.» L'Uomo rise e poté immaginare le sue guance andare a fuoco per l'affronto.

«Ho fatto un giuramento, sulla testa di Merry.» disse con orgoglio l'altro. «Non potevo certo rischiare che gli rotolasse giù per il Pelennor. Anche se non saprà mai di aver avuto la vita sull'orlo della mia lingua per ben quattro giorni! Non glielo dirai, vero?»

Aragorn sorrise. «No, non glielo dirò. E lo posso giurare sulla tua testa.»

Pipino non rise. Trovò lo scherzo davvero di cattivo gusto!

 

 

Salire nuovamente in sella di Nerian alle spalle della Dùnadan fu come tornare indietro nel tempo, a qualche settimana prima. Con la piccola differenza che avevano appena finito di discutere e Boromir si sentiva decisamente più a disagio nell'averla così vicina. Non che provasse fastidio, certo; del resto, quello strano formicolio di piacere che stava iniziando a solleticargli la pelle non era tanto male.

Boromir si maledì mentalmente. Certo che lo era, il male! Si trattava di Brethil, la sua ancora di salvezza, la donna che combatteva come un uomo, l'amica migliore che potesse desiderare. Non aveva certo il portamento né l'aspetto di una dama di corte, che neanche si sarebbe dovuta trovare in quel luogo insanguinato ed infestato dalla morte. A ben pensarci Brethil era tutto fuorché una donna appetibile, almeno a prima vista; e non solo per le brutte cicatrici che le deturpavano quello che un tempo era stato sicuramente un bel viso. Era una guerriera indomita come il vento, che aveva passato più tempo a brandire una spada piuttosto che a ricamare - e ciò era ben visibile non solo dai suoi modi di fare, ma anche dalle mani più callose delle sue.

Allora per quale assurdo motivo Boromir ne era attratto come una falena verso la luce di una candela? Perché non poteva negarlo, Brethil lo attraeva. Se fosse per amicizia o altro non voleva saperlo. Lui, che non aveva mai provato alcun tipo di interesse per alcuna donna, se non in giovane età, quando ancora aveva voglia di divertirsi e la guerra era un pensiero lontano; lui, che avrebbe saputo spiegare qualsiasi tattica di guerra anche al soldato più ottuso, ma non sapeva come maneggiare il carattere di una femmina né i sentimenti che provava per lei; lui che era il Sovrintendente di Gondor ed era quasi ovvio che la sua possibile compagna dovesse essere alla sua altezza, bella ed elegante. Eppure, perché non riusciva ad immaginare una figura più diversa da lei che potesse essere di suo gradimento?

Ora più che mai rimpiangeva l'assenza del fratello, a cui avrebbe potuto chiedere consiglio per far chiarezza in tutta quella confusione che gli albergava in mente, e magari lavare quelle stupide idee che lo stavano facendo sentire un perfetto idiota. La possibilità di rimpiazzare Faramir con Aragorn neppure gli passò davanti agli occhi: in qualche modo, trovava imbarazzante parlare di Brethil all'uomo che l'aveva vista crescere. Anche se in realtà trovava più imbarazzante parlare di una donna, in generale - che fosse con il fratello o il migliore amico non faceva differenza.

«Boromir.»

L'Uomo si ridestò dai suoi pensieri, concentrandosi su di lei e ringraziò la provvidenziale presenza della pesante armatura, che almeno gli evitava di saggiare il calore di quella schiena contro il suo petto.

«Se sei ancora adirato per la mia fuga, ti consiglio caldamente di metterci una pietra sopra e di smettere di parlottare. Abbiamo ancora molta strada da fare, prima di poterci fermare. Se continui ti disarciono da cavallo e ci raggiungerai a piedi.»

«Mi pare di averti avvertita, tempo addietro, di non osare darmi ordini.»

Brethil alzò gli occhi al cielo. «Scusami, tendo a scordare quanto poco serva per ferire il tuo orgoglio.»

«Se tu fossi rimasta a Minas Tirith non avremmo mai avuto questa discussione.» tagliò corto lui, stringendo involontariamente le mano contro i fianchi di lei. «Saresti potuta morire, oggi...»

«Sì, se non vi avessi seguito sarei rimasta in vita sicuramente; ma mi sarei sentita anche un animale in gabbia, Boromir. Perché non lo capisci?»

L'Uomo poggiò stancamente la fronte contro la spalla di lei, sospirando. «È così sfiancante farti ragionare.»

«Potrei dire lo stesso.» Brethil gli lanciò un'occhiata sbieca, voltandosi un poco per guardarlo. «Non provare mai più, mai più, a lasciarmi indietro, Boromir. Ho un orgoglio da difendere anche io, se non te ne fossi accorto.»

«Oh, lo avevo notato, amica mia.» borbottò lui, ora più rilassato. «Mi auguro che i nostri attriti finiscano qui, ora. Per quanto mi diverta battibeccare con te, mi mette anche incredibilmente a disagio. Sei una fanciulla, dopotutto.»

Brethil respirò a fondo prima di parlare. «Farò finta di non aver udito il modo in cui mi hai chiamata, soldatino.» Lui, d'altra parte, scoppiò a ridere.

Cavalcarono per il resto della giornata, parlando di quando in quando, ma preferendo godersi i canti di gioia e le risate dell'esercito sopravvissuto che tornava verso Gondor; alcuni di loro erano invece rimasti indietro per dare degna sepoltura ai caduti. Boromir avrebbe voluto tanto avere il suo corno al fianco, per suonarlo in risposta ai numerosi che festeggiavano durante il loro viaggio; ma ormai era andato distrutto settimane addietro e avrebbe dovuto mettersi l'animo in pace.

Si fermarono per la notte ai margini di una delle tante foreste di betulle del Nord dell'Ithilien, laddove Gandalf aveva portato i due Hobbit. Lo avrebbero raggiunto entro il pomeriggio successivo, tranne Aragorn e Pipino, che avevano proseguito la loro cavalcata come se avessero i Nazgûl alle calcagna. Il futuro Re, infatti, non sapeva in che condizioni di salute fossero Frodo e Sam e la sua rinomata arte curativa doveva raggiungerli il più presto possibile.

Mentre Elegost accendeva un fuoco per il gruppo di Raminghi, Brethil si avvicinò silenziosamente, sedendosi accanto ad Elladan, che le sorrise. «Finalmente tutti insieme, ancora una volta.»

Lei annuì, abbassando il cappuccio sulla schiena e poggiando il capo contro il tronco di un albero. «Mi sembrano trascorse Ere dall'ultima volta in cui ci siamo riuniti intorno ad un falò nel mezzo di una foresta.»

«Non è cambiato poi molto da allora.» fece Elegost, prendendo posto accanto a lei. «Eccetto che ad alcuni di noi sia cresciuta la barba nel frattempo.»

«E abbiamo perso qualcuno per strada.» mormorò Brethil, avvinghiandosi le gambe al petto ed abbassando lo sguardo. Il silenzio regnò sovrano per qualche istante e lei si affrettò a porre rimedio. «Scusatemi, non volevo rabbuiare questo giorno di festa.»

«No, non devi scusarti, Brethil.» Elrohir, in piedi accanto al fuoco, alzò lo sguardo al cielo stellato, verso il lontano Ovest. «È un nostro dovere e diritto ricordare il nome di Halbarad. Un amico e compagno degno del nostro più profondo rispetto e amore. Avrebbe dovuto festeggiare con noi, oggi, ma Mandos ha voluto richiamarlo a sé prima che potesse vedere l'alba di una nuova speranza. Namaarie, voronwer Halbarad, Taurohtar ar mellonamin, tennaento lye omenta.

«Tennaento lye omenta.» ripeté Brethil, con una mano sul cuore e gli occhi lucidi; e così gli altri Dúnedain.

Boromir era indeciso se unirsi al gruppo o starne fuori. Osservò la donna, che pareva essere persa in profondi pensieri, come il resto dei Raminghi, e optò per la seconda possibilità. Non voleva essere l'intruso di Gondor in un cerchio di esiliati, sebbene vi fossero profonda stima e rispetto tra loro. Così si avvicinò ai due membri della Compagnia che ancora lo accompagnavano e che ora discorrevano allegramente con Éomer.

«Beh, è ovvio che l'Orecchie a Punta qui presente non sappia contare.» stava dicendo Gimli, accarezzando con affetto la lama della sua ascia. «Avrà anche abbattuto un Troll, ma le gambe gliele ho falciate io.»

«Il colpo di grazia era mio, però.» ribatté con calma l'Elfo. «Ed equivale almeno a dieci Uruk-hai.»

«Ah! Dieci Uruk-hai!» esclamò il Nano, quasi scoppiando a ridere. «È facile prendersi il merito tutto da solo, quando altre venti persone hanno contribuito ad indebolirlo.» Gimli scosse il capo, profondamente offeso da quella dichiarazione inaudita e andò avanti per qualche minuto ripetendo e borbottando tra sé e sé "Dieci Uruk-hai, ah!".

Éomer scambiò un'occhiata divertita con l'altro Uomo, che gli si sedette accanto con pesantezza.

«Se solo avessimo un boccale di birra per festeggiare.» fece il Re di Rohan, addentando la sua cena con un morso famelico - una misera coscia di lepre del giorno prima. Era affamato, come tutto il resto della compagnia, e dopo aver trascorso un giorno intero tra combattimenti e cavalcate avrebbe mangiato volentieri un Olifante. E non era sicuro che neanche tutta quella carne lo avrebbe sfamato a sufficienza.

«Ringrazia di non averne.» fece Gimli, lisciandosi la folta barba. «Rischieresti di non trovarne neanche una goccia perché la berrei tutta.»

Legolas rise. «Oh, ne troverebbe anche più d'una, amico mio. Ma forse eri troppo ubriaco per ricordare quanti pochi boccali bevesti prima di addormentarti, solo qualche settimana fa, a Meduseld.»

«Ah! Ricordo solo che tu iniziasti a sentire strani formicolii alle dita, ben prima di me!» ribatté acido il l'altro. «E vai a capire come vi ubriacate, voi Elfi. Mai sentito di intorpidimenti per una sbornia!»

Éomer si voltò verso Boromir, che non capiva di cosa stessero parlando. «Tu eri già partito verso Minas Tirith quando questo accadde. Festeggiavamo la vittoria del Fosso di Helm e il Nano ebbe l'idea di sfidare l'Elfo ad una gara di bevute. Fu esilarante, credimi.»

«Devo essermi perso uno spettacolo, dunque. Che peccato!» Boromir sorrise, dando una pacca sulla spalla di Gimli. «Spero mi concederai un bis, amico mio. Farò il tifo per te.»

«E faresti bene! I Nani sono duri come le rocce che scavano, te lo posso assicurare!»

Legolas alzò gli occhi al cielo e scosse mestamente il capo. «Duri anche di boria, a ben vedere.»

I quattro continuarono a chiacchierare finché il Nano non iniziò a russare e anche Éomer diede segni di spossatezza. Boromir, invece, tardò ad appisolarsi. Ma non perché non avesse sonno, bensì perché troppi pensieri gli impedivano di rilassarsi. Ora che era tutto finito e le angosce sarebbero dovute sparire dal suo animo tormentato, si ritrovava ancora una volta in balia di nuove preoccupazioni. Una, più di tutte, si stava insinuando nella sua mente, terrorizzandolo.

Frodo.

Sapeva che l'avrebbe rincontrato, presto o tardi - si stavano dirigendo proprio verso di lui - ma non aveva ancora pensato a come affrontare la situazione. E soprattutto, come affrontarlo. Il loro ultimo commiato non era stato dei migliori e Boromir continuava a vergognarsi profondamente di se stesso e del suo comportamento. Aragorn e gli altri lo avevano capito e perdonato, ma Frodo sarebbe stato in grado di mettere una pietra sopra l'accaduto? Era uno Hobbit, ed in quanto tale saggio e comprensivo. Ma ciò che era successo sulle colline di Amon Hen andava ben oltre la tolleranza. Lo aveva aggredito e lo avrebbe persino colpito se non fosse svanito alla sua vista grazie al potere dell'Anello. Continuava a figurarsi quelle immagini come se fossero accadute solo poche ore prima, le riviveva con angoscia e non riusciva a trovare le parole più adatte da mettere insieme per chiedere il perdono di Frodo e riavere la sua fiducia.

«Dovresti riposare anche tu, Boromir. Rimarrò io di guardia, per qualche ora.» gli disse Legolas, risvegliandolo dai suoi pensieri. «Hai combattuto valorosamente anche oggi, sarai stanco.»

«Lo sono, ma non troverò riposo questa notte.»

L'Elfo lo scrutò per qualche istante, in totale silenzio, e Boromir si ritrovò costretto ad abbassare lo sguardo, a disagio. Per quanto fosse abituato, ormai, alla presenza di quelle strane e belle creature, non riusciva a non provare imbarazzo sotto quegli occhi penetranti che sembravano leggergli gli angoli più segreti della sua mente.

Poi Legolas annuì e sorrise. «Monteremo la guardia insieme, allora. E se ciò potesse alleggerirti il peso di troppi pensieri, potrai parlarmi apertamente.» L'Elfo evitò di aggiungere che sapeva bene che avrebbe preferito un altro interlocutore al suo posto, qualcuno più basso e minuto di lui, con quattro graffi sul viso; ma Boromir era un uomo così complesso e fragile che doveva stare ben attento a ponderare ogni singola parola, ed era certo che quell'azzardo lo avrebbe infastidito.

«Ti ringrazio, Legolas. Ma non voglio ottenebrare questa bella giornata con le mie preoccupazioni. Quando sarà il momento le affronterò da solo.»

Boromir capì di non essere credibile nel momento stesso in cui finì di pronunciare quella frase.

 

 

26 Marzo 3019 T. E., al calare del Sole

 

Pipino parve piuttosto preoccupato. Credeva e sperava di trovare il buon vecchio Frodo e il caro Sam svegli, seppur stanchi, e invece non accennavano a muovere un muscolo. Dovevano essere davvero esausti, questo lo capiva alla perfezione. Ricordava di quanto avesse dormito, dopo la fuga dagli Uruk-hai nella foresta di Fangorn. Sarebbe entrato volentieri in letargo! Ma lui non aveva certo attraversato l'inferno di Mordor, né aveva dovuto trascinarsi dietro un fardello come quello che il suo amico aveva portato al collo. E inoltre, pensò guardandosi le mani, aveva ancora tutte e dieci le dita al loro posto, il che non era qualcosa da sottovalutare.

Quindi si calmò un poco appena Gandalf gli posò una mano sulla testa e lo tranquillizzò con un sorriso. Lo Hobbit ricambiò e l'allegria per cui andava famoso si fece più acuta nel momento in cui udì lo scalpitio degli zoccoli di decine di cavalli, di ritorno dal Morannon. I suoi amici erano finalmente giunti!

Riconobbe per primo il cavallo bianco su cui sedeva comodamente la più stramba coppia di amici che la Terra di Mezzo avesse mai conosciuto. Accanto a Gimli e Legolas c'era Éomer, fiero e serio come sempre. Ma furono i due sul possente Nerian a fargli crescere il sorriso; era incredibile l'affetto che provava per loro. Più si soffermava a pensarci e più si sentiva scoppiare il cuore di felicità. Boromir fu il primo a smontare da cavallo e ricambiò volentieri l'abbraccio che lo Hobbit gli riservò. Alzò uno sguardo preoccupato verso Aragorn, ma quest'ultimo gli sorrise, per tranquillizzarlo. Frodo e Sam erano vivi, e ciò bastò a calmarlo un poco.

Brethil sussurrò qualche parola elfica a Nerian, che sembrò capirla come sempre e si allontanò per la foresta, forse per cercare qualcosa da mangiare. Accolse Pipino con un sorriso sincero, accarezzandogli i capelli indiavolati, e lo Hobbit si sentì così felice nel vederla serena per la prima volta dal loro incontro, tanto da iniziare a saltare e cantare tra i Raminghi e il resto dei soldati.

Legolas e Gimli si avviarono verso i giacigli su cui riposavano Frodo e Sam, e così fecero anche gli altri tre. Per Éomer e Brethil quella era la prima volta che vedevano gli Hobbit che avevano salvato le sorti della Terra di Mezzo, e pur non potendo parlare con loro provarono un profondo rispetto, soprattutto nel rendersi conto delle numerose ferite che entrambi riportavano; nonostante Pipino avesse ripulito con cura i loro corpi sporchi di fuliggine e sangue, sarebbero dovute passare intere settimane prima che quei visi smunti potessero riacquistare un colorito sano.

Brethil spostò lo sguardo dagli Hobbit all'Uomo accanto ad Éomer. Boromir era immobile come una statua, preoccupato per le sorti dei due Mezzuomini, talmente pallidi e sfiniti che a mala pena respiravano. Gandalf li aveva soccorsi per primo e Aragorn aveva fatto il resto al suo arrivo. Entrambi erano più che capaci e consapevoli di poterli salvare e, nonostante tutto, erano ottimisti.

Hanno solo bisogno di qualche tempo per riprendersi, aveva detto Gandalf con un sorriso rassicurante. Il che potrebbe richiedere anche dei giorni interi.

Ma la donna sapeva che quell'ombra di inquietudine negli occhi di Boromir non era dovuta solo per la precaria situazione di salute di Frodo e Sam. Aveva imparato a conoscerlo così bene, in quel lasso di tempo trascorso dal loro primo incontro, che poteva quasi anticipare i suoi cattivi pensieri. Ed infatti eccola lì, quell'occhiata tormentata che aveva visto spesso, mentre lasciava il capezzale degli Hobbit e si allontanava nervosamente verso una meta sconosciuta. Forse Boromir sperava che allontanandosi dalla fonte delle sue preoccupazioni queste sarebbero svanite con loro.

Brethil lo seguì silenziosamente e lui non diede segno di accorgersi di lei se non quando si sentì afferrare delicatamente la mano. Si voltò, quasi stralunato per essere stato strappato dalle sue riflessioni, ma si rilassò un poco appena si accorse di chi si trattasse.

Boromir si passò la mano libera sul viso stanco, inspirando profondamente l'aria della foresta. «Mi odierà, vero?»

«Certo che no.» gli disse lei, prontamente, aumentando la stretta, per fargli capire che lei era lì, al suo fianco, e ci sarebbe stata in ogni momento. «Lui per primo sa che potere potesse esercitare l'Anello, sull'animo di chiunque. Capirà che non eri in te, quel maledetto giorno. E se conosco bene gli Hobbit, l'avrà già capito da tempo.»

Il soldato di Gondor si sedette contro un albero, scuotendo il capo. «Avresti dovuto vedere i suoi occhi, Brethil. Erano spalancati dall'orrore. Di fronte a lui c'era un mostro, non un Uomo.»

La donna gli si chinò di fronte, poggiandosi sulle ginocchia di lui per non perdere l'equilibrio - ma forse più per stargli vicino e confortarlo con la sua presenza. «Abbiamo avuto questo discorso tempo addietro, lo hai già dimenticato?»

«No, certo che no. Ma...»

«Allora non c'è alcun bisogno di ripeterci, Boromir.» lo interruppe con decisione. Gli sorrise, accarezzandogli distrattamente le ginocchia con i pollici. «Quell'Ombra che ti controllò quel giorno è svanita per sempre. Non sei più quel mostro, amico mio. Sei semplicemente Boromir figlio di Denethor, Sovrintendente di Gondor, Capitano della Torre Bianca e fidato amico. Troverai il coraggio e le parole per affrontare Frodo, così come hai combattuto valorosamente durante queste settimane.»

Boromir la osservò per qualche tempo, incerto. «Starai al mio fianco?»

«Sarò sempre al tuo fianco.» gli confessò, con un sorriso e le guance leggermente arrossate. «Ma quando arriverà il momento dovrai camminare da solo, tu e lo Hobbit.»

L'uomo deglutì a fatica, con la gola secca. Ma annuì e trovò la forza di sorridere. «Grazie, Brethil. Davvero. Appena torneremo a Minas Tirith organizzerò una festa in tuo onore, e chiederò ad Aragorn di celebrare ogni anno il giorno del nostro incontro. Perché quel pomeriggio la mia vita è cambiata in meglio, ed è avvenuto solo grazie a te.»

La donna non trovò le parole per rispondere e nascose il suo imbarazzo chinando il capo. Gli si sedette accanto e poggiò una tempia sulla sua spalla, per celare il viso alla vista. Poi sorrise, tentando di spezzare il disagio. «Boromir, non credo che una ricorrenza del genere sia adatta a me. Non sono egocentrica come l'attuale Sovrintendente di Gondor.»

L'Uomo, d'altro canto, rise, abbracciandola e baciandola tra i capelli. E per la prima volta, dopo tanto tempo, Boromir si sentì quasi in pace con se stesso. E presto o tardi l'occasione e il tempo per completare quel suo stato di grazia sarebbero giunti, ormai ne era sicuro.

 

 

 

 

*

 

Come per il capitolo precedente, ecco la traduzione della frase in Elfico - siano ringraziati i frasari già pronti!

*Addio, leale Halbarad, Ramingo e amico mio, fino a che non ci rivedremo di nuovo.

Ci leggiamo presto con il nuovo - e immagino ultimo - capitolo.

Grazie per il supporto, davvero.

Marta.

 

 

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Capitolo 15
*** 15. ***


Eccoci con il penultimo capitolo. È lungo e corposo, spero davvero di non deluderti. Ho una paura pazzesca!

Vi annuncio che il prossimo sarà l'epilogo - e ho un magone in gola grande quanto un Troll a cavallo di un Olifante. Sarà un capitolo più corto degli altri e mi servirà per definire le ultime cose ancora lasciate in sospeso ed una piccola idea che avevo dall'inizio della storia, che devo inserire. Altrimenti inizierò a sbattere ripetutamente i piedi per terra.

Buona lettura, lettori e lettrici!

Marta.

 

 

 

Betulla

15.

28 Aprile 3019 T. E.

 

 

Erano in marcia da quattro giorni, da quando avevano lasciato l'accampamento in cui avevano vissuto per quasi un mese. Avevano salutato il Campo di Cormallen ed oltrepassato Cair Andros, diretti verso sud, verso Minas Tirith, seguendo senza timori il letto dell'Anduin, in direzione di Osgiliath.

Frodo e Sam si erano risvegliati dopo un'infinità di tempo, tanto che molti di loro non si erano rilassati finché non li avevano visti aprire gli occhi. E dopo quasi una settimana di profondo sonno i due Hobbit avevano anche trovato le forze di alzarsi sulle loro corte gambe e muovere i primi passi.

Brethil e i Raminghi, accompagnati anche da Legolas e Gimli, tuttavia, non avevano trascorso l'intero soggiorno con loro. C'era ancora del lavoro da svolgere, per ricacciare indietro gli ultimi Esterling e Sudroni sopravvissuti e che continuavano a tendere imboscate nonostante l'evidente sconfitta, e Boromir non ebbe neanche la possibilità di avere la sua fidata compagna al fianco per cercare un po' di conforto, né gli fu concessa la presenza di Aragorn, intento a curare i numerosi feriti. Per fortuna con lui c'era Pipino, e qualche giorno dopo il loro arrivo all'accampamento si era unito persino Merry, giunto da Minas Tirith dopo una settimana, con Beregond. Non c'era molto da fare, se non attendere che i due Hobbit provenienti da Mordor si risvegliassero, e Boromir fu ben felice di spendere il suo tempo con i due cugini della Contea. Lo aiutavano a non concentrarsi troppo sul futuro incontro con Frodo e a ciò che avrebbe dovuto e voluto dirgli per scusarsi. Avevano parlato a lungo, esplorando la foresta di betulle che li circondava, e l'Uomo gli aveva raccontato numerose storie che lo vedevano protagonista con il fratello, quando erano ragazzi e il padre li portava nei boschi per imparare a cacciare. Per Faramir l'Ithilien era sempre stata una terra magica e avrebbe tanto voluto avere il fratello al suo fianco, per fargli raccontare tutte quelle leggende elfiche che solo lui conosceva.

Boromir sorrise nel guardare i due Hobbit, uno seduto sulla sella di Éomer, l'altro su quella di Beregond, e si chiese per quanto tempo ancora avrebbe potuto godere della loro allegra presenza prima che decidessero di partire verso la lontana Contea. Scosse il capo, cacciando con forza quei pensieri. Non aveva alcuna intenzione di aggiungere ulteriori angosce a quelle che già aveva. Lanciò una veloce occhiata davanti a sé, verso il cavallo di Aragorn; alle sue spalle Frodo si reggeva sulla sella con precarietà, forse ancora troppo debole per mettersi in viaggio così presto, ma risoluto a rimanere in piedi finché ce l'avesse fatta.

Durante la sera di festa che avevano dedicato a Frodo e Sam, dopo un ricco banchetto e tante risate, Brethil lo aveva esortato a raggiungere il resto della Compagnia che si era riunita per chiacchierare e per raccontarsi tutto ciò che era avvenuto in quei mesi dopo la loro separazione; nonostante lui fosse apparso riluttante per il profondo senso di colpa che gli stringeva nuovamente il cuore, aveva acconsentito. Si era avvicinato al gruppo, che aveva già iniziato a discorrere e ad ascoltare le proprie storie, ma aveva preso posto in disparte, accanto ad Aragorn. Per tutta la serata non aveva avuto il cuore e il coraggio di guardare Frodo, nonostante avesse sentito su di sé il suo sguardo pesare come un macigno. Aveva invece scambiato numerose ed astiose occhiate con Sam, che evidentemente mai avrebbe digerito ciò che era successo tra il suo padron Frodo e l'Uomo di Gondor. Boromir, però, capì che non avrebbe potuto fuggire lo Hobbit ancora a lungo, ma fintanto che fosse stato possibile avrebbe atteso ancora qualche tempo, per raccogliere quel poco di coraggio morale che gli era rimasto.

Il Capitano della Torre Bianca sospirò, stringendo i denti. Da quando era diventato così codardo?

Abbassò lo sguardo sulla donna che cavalcava con lui e chiuse gli occhi, inspirando il profumo della sua pelle che gli inebriava i sensi da due giorni. La piacevole e confortante sensazione di averla vicino era diventata quasi insostenibile, ora che non indossava più la pesante armatura, ma semplicemente la cotta di maglia sotto la tunica blu. Si era imposto di tenere le mani sulle gambe, anziché stringerla per i fianchi quando accelerava l'andamento del galoppo di Nerian e lei doveva essersi accorta di quel piccolo cambiamento, ne era sicuro. Eppure nessuno dei due fece accenno a quella strana situazione che, da qualche tempo, si stava creando tra loro. Boromir era sempre stato convinto che l'amicizia tra uomo e donna non fosse possibile, perché o l'uno o l'altra avrebbe iniziato a provare qualcosa di più profondo del semplice rispetto; poi aveva dovuto cambiare idea quando aveva visto con che devozione Brethil trattasse con Aragorn, o con i gemelli di Gran Burrone. Persino con lui, all'inizio, sembrava ci fosse una profonda amicizia fraterna. Eppure perché sentiva che ora le cose stessero prendendo una piega diversa?

«Guardate, amici miei.» disse Aragorn, interrompendo il flusso sconclusionato dei suoi pensieri. «Oltre quella collina vedremo finalmente le bianche mura di Minas Tirith.»

I cori di felicità si elevarono per tutto l'esercito e Boromir sorrise, orgoglioso. Sarebbe finalmente tornato a casa, insieme ad Aragorn. Ma prima di perdersi in spensierate fantasie, aveva un compito da svolgere. Aveva promesso a Brethil di mostrarle la sua città in tutto il suo splendore, anche se l'ultima volta che l'aveva veduta le ferite della guerra erano ancora sanguinanti. Eppure la maestosità di Minas Tirith non sarebbe svanita neanche dopo la fine del mondo, di questo ne era sicuro.

«Brethil.» disse al suo orecchio. La sentì rabbrividire, ma non ci fece caso - o meglio, non volle farci caso. «Devo chiederti di chiudere gli occhi, prima di oltrepassare la collina. Voglio farti vedere qualcosa.» Lei gli lanciò un'occhiata scettica, ma lui sorrise. La circondò con le braccia per prenderle di mano le briglie. «Ti bendi da sola o devo farlo io?»

«Non vuoi farmi conoscere la via per raggiungere Minas Tirith, per caso?» gli domandò, con non troppo velato sarcasmo. «Perché credo che sia abbastanza evidente.»

«Bendati, non voglio ripetermi. O rovinerai la sorpresa.»

«Non mi piacciono le sorprese.» borbottò lei, eseguendo ugualmente l'ordine. Brethil si calò sul viso il profondo cappuccio e chiuse gli occhi, fortemente a disagio; e non certo perché non si fidasse di Boromir - l'Uomo sapeva cavalcare anche con un corpo tra lui e le redini. Ma con la vista momentaneamente inutilizzabile ogni suo altro senso s'acuì terribilmente e non fu semplice per lei sopportare il fiato di lui sul viso e la barba ispida che le graffiava il volto ad ogni scossone; così come fu una tortura l'odore della sua pelle, fresca di sali e acqua. Ma da quando aveva iniziato a percepire tutte quelle sensazioni?

Forse, Merry aveva ragione.

Forse, lei amava Boromir.

E l'aver preso coscienza di quel fatto la scosse, proprio come Nerian la sballottò per saltare un ostacolo.

«Dimmi, per quanto tempo devo rimanere cieca?» chiese, allontanando quel pericoloso ragionamento.

«Ancora pochi minuti, promesso.» le disse. Poté immaginarlo sorridere, nel sentire quel tono sicuro e quasi orgoglioso. «Fidati di me, sarà spettacolare.»

Brethil non osò chiedergli cosa sarebbe stato spettacolare, perché era più che certa che non le avrebbe detto niente di più. Così attese paziente, nel buio completo, concentrandosi sulle voci che udiva e non sulle braccia dell'uomo che la cingevano per reggere le briglie. Passarono davvero solo pochi minuti, quando sentì che la salita della collina era conclusa e ora iniziava la discesa.

Boromir le sfilò il cappuccio. «Puoi guardare, adesso.»

E meraviglia! L'imponente ed affilata figura di Minas Tirith che si stagliava contro la parete del Mindolluin, bella e fiera nonostante la rovina portata dalla guerra. La bianca pietra con cui era stata costruita risplendeva sotto i raggi del sole di mezzogiorno e l'alta e snella Torre di Ecthelion troneggiava sui campi del Pelennor, vertiginosamente. Brethil non ricordava di aver ammirato la Città dei Re mentre la raggiungeva stanca ed affamata, né ovviamente durante la battaglia nel Pelennor; ma ora che ne aveva la possibilità non riuscì a nascondere lo stupore di tanta bellezza. Era risaputo che fossero gli Elfi a creare ciò che di più bello vi fosse sulla Terra di Mezzo, e che i Nani sapessero costruire con la pietra meglio di chiunque altro. Ma quell'opera degli Uomini era davvero qualcosa di indescrivibile, così elegante e al tempo stesso spaventosa da commuoverla; la razza umana era mortale, ma con quell'opera di splendente architettura erano riusciti a rendersi eterni.

«È la città più bella che i miei occhi abbiano mai osservato, Boromir.» gli disse, in un sussurro. E pensava veramente ciò che aveva appena pronunciato. Così come capiva da dove provenisse l'ardore con cui l'Uomo parlava della sua città. Chi non si sarebbe innamorato di tanta bellezza?

«Sì, lo è.» Boromir sorrise apertamente nell'osservare l'imponente chiglia di pietra che sembrava farsi largo tra i campi, una nave nata dalla roccia del Mindolluin e che faceva rotta verso Osgiliath, quella che un tempo era la splendente capitale di Gondor che si distendeva sotto i loro occhi, alle pendici della collina. Proseguirono in silenzio, beandosi di quella vista spettacolare, finché le rovine di Osgiliath nascosero la stazza di Minas Tirith. L'esercito rincontrò quello lasciato giorni addietro e si fermò per un giorno a riposare, prima della penultima tappa di quel lungo ed insperato viaggio di ritorno.

Boromir sparì tra i soldati, che lo accolsero con gioia e rispetto, e Brethil lo seguì con lo sguardo finché le fu possibile. Le rovine di quella città erano così tristi ed affascinanti che per un attimo un senso di tristezza le strinse il cuore. Provò ad immaginarsi come potessero essere gli archi ora crollati, con i conci perfettamente squadrati e levigati; guardò le colonne abbattute sul pavimento lastricato, dai capitelli scolpiti da mani sapienti, così come tutte le costruzioni sventrate da catapulte ed incendi. Chissà se quella città fantasma, avamposto di vitale importanza per la difesa della capitale, un giorno sarebbe tornata a splendere come un tempo, con la musica e la bellezza che Boromir aveva tanto decantato?

La donna smontò dal suo Nerian, accarezzandogli il collo e baciandogli il muso; lo assicurò vicino ai destrieri degli altri Raminghi ed Elegost le si avvicinò, con una borraccia ormai svuotata. «Ho sentito dire che ci sia una fonte d'acqua, da queste parti. Andiamo in esplorazione?»

Brethil annuì, conscia che non avrebbe saputo che fare se non vagabondare alla ricerca di qualcosa per intrattenersi. Detestava quei momenti di calma, perché non vi era abituata. Per tutta la vita aveva dovuto imparare a rimanere guardinga, a nascondersi e a battersi nel mezzo di foreste, tra la natura incontaminata. Lei non era una persona da città, neanche se questa fosse stata desolante ed inabitata. Ora che le cose stavano cambiando si sarebbe mai abituata? Ne dubitava fortemente.

Seguì Elegost, passando inosservata tra i grandi soldati di Gondor, nonostante i capelli, in quell'ultimo mese, fossero cresciuti un po' troppo per i suoi gusti. Aveva tentato di accorciargli, nei giorni precedenti, ma Boromir, sostenuto dai petulanti Pipino e Merry, l'avevano dissuasa; e lei si ritrovava ora ad accarezzarsi quelle ciocche che le sfioravano le spalle con disagio, attendendo che, da un momento all'altro, qualcuno potesse realmente accorgersi di lei, una donna tra gli uomini. Ma dato che neanche le cicatrici che aveva in volto sembravano attirare più attenzioni del previsto - aveva notato molti visi sfregiati, in quei giorni - proseguì l'esplorazione alla ricerca di acqua. Trovarono una fontana non molto lontano dal luogo dove avevano lasciato i cavalli e si dissetarono avidamente.

Il Ramingo si sedette sul bordo in pietra, osservando l'amica, in piedi con le braccia incrociate. Si guardava intorno con circospezione, quasi temendo che da un momento all'altro potessero subire un attacco inaspettato dall'altra parte del fiume. Elegost quasi rise dal sollievo. «Amica mia, potresti anche rilassarti, sai?»

Lei gli riservò un'occhiata penetrante, stringendo le labbra. Poi sospirò, lasciandosi andare accanto all'uomo.

«Abbiamo vinto, siamo vivi. Lui è vivo.» aggiunse in un sussurro, quasi con rammarico. «Cosa ti preoccupa, ancora?»

Brethil si guardò intorno: il clima gioioso ed in festa aveva contagiato tutti, persino le pietre. Perché, allora, lei sentiva un nodo allo stomaco? Credeva di avere la risposta. Si sentiva insicura, incerta del futuro che l'attendeva. La guerra era finita, ma ci sarebbero state molte altre battaglie da combattere per riportare la pace sulla Terra di Mezzo. Eppure non ci sarebbero stati vagabondaggi, né nascondigli per i Raminghi. Aragorn avrebbe sciolto il loro ordine e ognuno avrebbe potuto scegliere cosa meglio fare dei propri ultimi anni di vita. Lei sapeva cosa avrebbe fatto: avrebbe continuato a servire il suo mentore ed il suo Re fino alla morte. Ma lui l'avrebbe accettata? E soprattutto, avrebbe trovato un posto in quella città?

Brethil si passò una mano tra i capelli, spostando un ciuffo scuro dal viso. L'adattamento non era mai stato un suo problema, di questo ne era consapevole; quando si era trasferita ad Edoras aveva la sua stanza, ma nessuno la serviva e riveriva come una dama di corte, perché così lei aveva espressamente chiesto; non c'erano Rainiel varie che le portavano abiti sontuosi da indossare e che le pettinavano i capelli. Senza contare che Rohan e le sue praterie erano principalmente la sua casa e trascorreva pochissimo del suo tempo negli alloggi riservati all'esercito. Ma Minas Tirith era differente: era raffinata e meno selvaggia, e il Re ed il Sovrintendente erano i suoi migliori amici; li conosceva bene e non le avrebbero permesso di dormire al Terzo Cerchio, neanche se avesse iniziato a pregare Ilùvatar e tutti i Valar. Boromir soprattutto non avrebbe accettato che una donna proseguisse in quel travestimento mascolino che lei tanto amava, perché la rendeva sicura e le garantiva un'identità.

Sì, era questo che temeva. Non voleva perdere la sua identità. Aveva lottato contro se stessa nell'ultimo anno, sovrastata dalla vergogna di ciò che aveva fatto, e combattendo contro l'impulso di tornare dalla sua gente in ginocchio, per chiedere perdono. Aveva agognato quella vita che aveva abbandonato come nient'altro al mondo e ora la possibilità di tornare tra i Raminghi si faceva più flebile di giorno in giorno. Cosa ne sarebbe stato di Brethil la Dùnadan?

Elegost si sporse verso di lei, una mano sul braccio per risvegliarla da quell'abisso di pensieri che sembrava averla risucchiata da minuti interi. Lei lo guardò quasi senza vederlo, inizialmente. Poi sorrise, ricordandosi la sua domanda, e scosse il capo. «Stai tranquillo, buon Elegost. Non c'è niente che mi preoccupi. Devo solo abituarmi al cambiamento.»

L'Uomo non parve tanto convinto da quella risposta, ma non obiettò. Sapeva di non chiamarsi Elladan o Elrohir per avere l'onore di conoscere i suoi pensieri. «Lo immagino. Aragorn Re di Gondor... è una bella novità!»

Brethil annuì, anche se non fosse realmente quel mutamento di appellativo a spaventarla. «Sarà un buon sovrano, ne sono sicura.»

«E noi i suoi servitori più fedeli. Questo niente potrà cambiarlo.»

La donna rifletté per qualche istante su quelle parole e pensò che Elegost avesse ragione. Forse tutto e niente sarebbe mutato. Ora doveva solo pensare a riposarsi, finalmente.

Riposarsi.

Non era neanche del tutto convinta di conoscere il significato di quella parola.

 

 

Vigilia di Maggio 3019 T. E., prima dell'alba

 

 

Si erano accampati sul Pelennor solo qualche ora prima, ma Brethil non riusciva a dormire. Guardava la sua tenda come se fosse una prigione, rigirandosi da un fianco all'altro. Aveva anche tentato di conciliarsi il sonno lucidando la spada del padre, ma neanche quello sembrò giovarle in alcun modo. Il giorno dopo avrebbero varcato le mura di Minas Tirith e allora la sua vita sarebbe cambiata definitivamente. Si era imposta un po' di calma, perché non sarebbe stata lei la Regina di Gondor e Aragorn sarebbe dovuto essere più teso di una Dùnadan in crisi d'identità. Eppure non vi era riuscita. Più volte aveva cacciato l'impulso di andare da Boromir per cercare un po' di quella tranquillità che solo lui riusciva ad infonderle, ma le scoperte che aveva fatto in quegli ultimi tempi su ciò che provava per l'Uomo l'avevano convinta a non muoversi. Il timore di poter vedere solo un profondo affetto e non l'amore che lei provava per lui era opprimente.

Osservò lo scrigno che Beregond le aveva consegnato il giorno prima e non riuscì a frenare un sorriso nell'immaginare l'espressione di Boromir quando avesse visto cosa conteneva.

Fu quando udì il movimento della tenda che si apriva che pensò di trovarsi il Sovrintendente davanti, anch'esso insonne. Eppure l'ospite inatteso non era Boromir. Aragorn non aveva un'ottima cera, sebbene le sorrise, anzi: sembrava che anche lui, per tutta la notte, non avesse chiuso occhio.

Brethil chinò rispettosamente il capo, nascondendo l'ironia di quel gesto. «Mio Signore.»

«Per favore, amica mia, non farlo.» la pregò l'uomo, sedendosi accanto a lei. Teneva in mano un fagotto ma non osò aprirlo, ancora. «Ho già il tuo rispetto, non vi è necessità alcuna per cui ti rivolga a me in quel modo. Anche se lo hai fatto con sarcasmo.»

La donna sorrise apertamente, ora. «Non riesci a dormire neppure tu.»

Aragorn inspirò ed espirò profondamente, cercando la forza di parlare e di trovare le parole giuste. «Sono spaventato. Mentirei se affermassi il contrario.»

«È normale che lo sia. Non si diventa Re tutti i giorni.»

«Questo dovrebbe confortarmi?» le domandò, aggrottando la fronte. Rise nel vedere il divertimento negli occhi grigi dell'altra.

«Sarai un buon Re, Aragorn. Ne hai già dato prova in questi giorni. Non vi è nulla che devi temere.» gli disse, stringendogli una mano. «E presto sarai affiancato dalla Regina più devota e bella che Terra di Mezzo abbia mai visto.»

L'Uomo sorrise, perdendosi nel ricordo del bel viso della Stella del Vespro. Ma non si attardò troppo nei suoi pensieri. Le porse il fagotto che teneva sulle gambe e lei lo osservò con curiosità. «È un dono che spero accetterai.»

Brethil non capì l'occhiata che le regalò finché non scoprì cosa l'Uomo le stesse porgendo. La tunica blu arrivava sopra le ginocchia, sagomata sulla forma di un corpo femminile, e faceva mostra di un Albero Bianco ricamato ed impreziosito da sette piccole gemme trasparenti e brillanti che lo coronavano, al di sopra di una corona alata. Un paio di pantaloni stretti e del medesimo colore completavano il quadro con una cinghia argentata e un mantello più scuro dai risvolti rossi, insieme a dei copri braccia in pelle decorati con il medesimo motivo di Gondor.

«Aragorn...» sussurrò Brethil, accarezzando la morbida stoffa tra le dita. «Perché?»

«Ciò che indossi ora fa parte del passato e devi lasciarlo alle spalle.»

«Mi rappresenta bene, però.»

L'Elessar sorrise, benevolo. «Amica mia, la Prima Guardia del Re deve mostrarsi in tutto il suo splendore; non voglio che sia ricoperta con un vecchio e logoro mantello.»

Gli occhi della donna sgranarono per la sorpresa. Lei la Prima Guardia del Re? Aragorn la stava davvero onorando con quel ruolo?

Quello che un tempo non troppo lontano si faceva chiamare Grampasso fece scattare la spilla argentata che le teneva fermo il manto sulla spalla sinistra e lo rigirò tra le mani per qualche tempo, osservando la stella argentata simbolo dei Raminghi del Nord. «Questa puoi tenerla ed indossarla, se lo desideri. Anche se i Dúnedain non esistono più, voglio che il loro ricordo sia tramandato negli anni. E tu, Brethil figlia di Aeglos, sei l'esempio migliore.»

Brethil sorrise tra le lacrime ed annuì, stringendo la spilla tra le mani e abbracciando l'amico e mentore di una vita. «Dopo tutto quello che ho fatto vuoi davvero premiarmi così? Non credo di meritarmi un simile posto al tuo fianco, Aragorn.»

«Sta a me decidere cosa sia meglio o no. E abbiamo a lungo discusso sul passato. Dimentica ciò che è stato, ma non dimenticare mai chi sei, Brethil.»

«No, non lo farò mai, mio Re.» fece la Dùnadan, ora seria e regale come la donna che era sempre stata.

 

Brethil e Aragorn, però non erano gli unici che non riuscivano a dormire. Anche Boromir, infatti, se ne stava seduto all'aria aperta, vicino alla sua tenda, per guardare quel cielo stellato da troppo tempo celato dietro le nuvole di Mordor. E se voltava il capo verso la sua sinistra avrebbe potuto vedere le luci di Minas Tirith, piccole fiaccole che illuminavano le strade durante la notte. Mancava ancora poco, ormai, al suo rientro accanto al Re ed era così entusiasta che difficilmente avrebbe chiuso occhio. Non avrebbe mai creduto che durante la sua vita avrebbe potuto assistere al ritorno del Re, né che sarebbe stato suo amico e Sovrintendente. Era una sensazione così bella che lo lasciava senza fiato.

Il sorriso che gli era nato sulle labbra sparì nello stesso momento in cui si accorse di una piccola presenza seduta al suo fianco. Frodo si era avvicinato silenzioso come solo un Hobbit sapeva fare e ora rimirava le stelle in silenzio, senza voltarsi per guardarlo. Boromir sentì i suoi muscoli tendersi per il nervosismo e abbassò lo sguardo. Il profondo e tremendo senso di colpa che aveva provato dal momento in cui lo Hobbit era scappato dalle sue grinfie ora si fece insopportabile e quando Frodo gli chiese come mai non riuscisse a dormire, l'Uomo non riuscì a parlare. Ci provò, ma dalla gola non fuoriuscì che un insieme incomprensibile di sillabe.

Non era ancora pronto ad affrontarlo; perché lo stava mettendo così a dura prova? Era forse quella la sua punizione? Oh, era più che sicuro che nessuna pena sarebbe bastata a sedare l'odio che provava per se stesso, né quello di Frodo.

«Boromir.»

La voce dello Hobbit riecheggiò nella mente dell'Uomo, facendolo rabbrividire. In tutte quelle settimane nessuno dei due aveva osato rivolgere la parola all'altro, e ora sentire il suo nome sulla bocca del Mezzuomo lo debilitò più d'ogni altra cosa: perché non riusciva a capire cosa significasse quel tono stanco, sereno, con un filo di bonario rimprovero. Non vi era astio nella voce di Frodo, ma forse solo il fastidio di non aver ricevuto una risposta alla sua semplice domanda.

Il Sovrintendente si schiarì infine la gola. «Conto le ore che mancano all'alba.» Boromir sospirò di sollievo. Non era poi stato tanto difficile mettere qualche parola in fila per creare una frase di senso compiuto, dopo tutto.

«Dovresti riposare, invece. Il Re avrà bisogno di un consigliere in forze, non dagli occhi cerchiati di nero.»

Boromir si voltò un minimo per spiare il viso rilassato dell'altro. «Potrei rimproverarti per lo stesso motivo. È tardi.»

«Ho dormito sufficientemente per una settimana e le notti successive sono state così liete e prive di incubi che posso dirmi soddisfatto. Non ho sonno.»

Boromir mosse le gambe, guardando i palmi delle mani che strinse a pugno. «Non è saggio da parte tua venire proprio da me, Frodo.»

Lo Hobbit lo guardò negli occhi chiari, finalmente. «Perché non dovrei? Abbiamo giocato a nascondino per troppo tempo, ormai. Non credi?»

«Non hai paura che io... che io possa farlo di nuovo?»

«L'Anello è andato distrutto, forse potresti recriminarmi questo. Ma non avresti niente da rubarmi.» Frodo sorrise, tristemente. «Le voci che ti spinsero sull'orlo della pazzia sono sparite. Neppure io le sento più, finalmente.»

«Sì, è... è una liberazione.» Boromir chinò il capo. Sembrava voler aggiungere qualcosa, eppure non riuscì a parlare.

«Continui a desiderarlo, nel tuo profondo, vero?» Frodo attese che lui annuisse, quasi con timidezza. «Capisco cosa stai provando, Boromir. Lo capisco più di chiunque altro. Sono oltremodo felice che sia andato distrutto, che la sua minaccia non oscuri più questa bella terra. Ma la consapevolezza di non poterlo più riavere al collo e di poterlo toccare è un dolore talmente lancinante che provo vergogna di me stesso. E questa sensazione non mi abbandonerà mai.»

«No! No, non devi vergognarti, Frodo.» esclamò l'uomo, con enfasi. «Portasti un fardello così pesante che non riesco ad immaginare neppure un briciolo della sofferenza che dovesti sopportare in questi mesi. La tua forza è talmente più grande della mia che ti ha permesso di andare avanti, di non lasciarti incantare dal suo potere e di distruggerlo. Hai fatto ciò che io e che nessuno di noi avrebbe saputo come affrontare. Dovresti essere fiero di te stesso.»

«Fiero, dici?» Frodo rise, senza allegria. «Oh, Boromir, se solo sapessi cosa feci e, soprattutto, cosa non feci, durante il mio viaggio. Quando mi presi l'onere dell'incarico, quel lontano giorno a Gran Burrone, ero davvero deciso a portare a termine la mia missione, perché non volevo che la mia bella Contea potesse correre il rischio di essere incenerita da quel pericolo immenso. Sapevo che non sarebbe stata una scampagnata, mi rendevo conto che non sarebbe stato facile. Non sarei stato solo, ma avevo portato io l'Anello fino a quel momento e solo io avrei potuto continuare a farlo; solo io avevo il potere di tenerlo e, di conseguenza di gettarlo tra le fiamme del Monte Fato. Ma già da allora il suo potere mi aveva ammaliato e unicamente alla fine mi son reso conto che non ci sarei riuscito. Avrei causato la distruzione della Terra di Mezzo, se non fosse stato per Sam... e per Gollum.»

Boromir lo interrogò con lo sguardo. «Gollum?»

«Gandalf aveva ragione, come sempre, quando mi disse che anche lui avrebbe avuto un ruolo in questa storia. Promettimi di non dirlo a nessuno: è un segreto che voglio portare con me nella tomba, anche se questo significa mentire a tutti coloro che ancora oggi elogiano Frodo dalle Nove Dita. Solo il buon caro Sam conosce la verità.»

L'Uomo annuì. «Non devi parlarmene, se non ti fidi di me. Lo capirei.»

«L'avrei tenuto per me.» disse Frodo velocemente, senza ulteriori esitazioni, per paura di non riuscire ad ammettere la sua colpa se avesse atteso oltre. «Non ebbi il coraggio di gettarlo nel fuoco. Feci ciò che fece anche Isildur, millenni fa: lo reclamai come mio e me lo misi al dito - quello che mi manca. Gollum mi aggredì e fece di tutto per riprendersi ciò che credeva suo. Morì con lui, poco dopo. Avrei fatto esattamente ciò che l'Anello desiderava, l'avrei tenuto per me.» Frodo sospirò e un lungo silenzio pesante calò tra i due. E in tutto quel racconto Boromir non riuscì a non pensare a Brethil, al suo sogno e alla sua liberazione di Gollum. Oh, se solo avesse saputo, sarebbe stata felice e magari parte di quella colpa che continuava ad addossarsi sarebbe sparita!

Fu lo Hobbit a spezzare quella lunga pausa. «Non esiste un eroe in questa storia, Boromir, né io lo sarò mai. Spero che questo possa consolarti, un poco. Abbiamo sbagliato entrambi, ma non è stata colpa nostra. Chi non ha subito il richiamo dell'Anello non potrà mai capire. Per questo non hai niente da recriminarti. Ti perdonai già quello stesso giorno. Ci lasciammo da amici... lo siamo ancora?»

Boromir sentì la tensione accumulata in quei mesi sciogliersi improvvisamente di fronte a quella semplice domanda che gli riempì il cuore di sollievo. «Non mi perdonerò mai quello che ho fatto, Frodo, anche se chiunque continuerà a dirmi che non fossi in me, quel maledetto giorno. Eppure se non fossi stato io, l'Uomo che ti aggredì, non ricorderei niente di quei momenti. Ma purtroppo li ho ben vivi nella mente e non riuscirò mai a dimenticarli. Hai sempre avuto il mio appoggio, Frodo, e la mia stima; e io ho rovinato tutto per la disperazione. Sei davvero sicuro di voler chiudere questa faccenda così semplicemente?»

«Fu già chiusa nel momento in cui vidi il tuo sguardo, Boromir. Ora rispondi alla mia domanda, per favore.» ripeté Frodo, sorridendo. Perché in cuor suo conosceva già la risposta dell'uomo: poteva leggergli il tormento ed il dispiacere in viso come un libro aperto.

«Sarò tuo amico finché la vita non abbandonerà questo corpo, Frodo della Contea. E anche quando non ci sarò più tu la mia stirpe e tutto il popolo di Gondor ti ricorderà come il migliore degli amici.» Boromir sospirò sollevato nel vedere la luce di felicità brillare negli occhi dello Hobbit e tornò a guardare nuovamente verso la Città Bianca. «Domani vedrai finalmente il luogo in cui nacqui, quarantuno anni fa. Ti mostrerò i luoghi della mia infanzia e le bellezze di Minas Tirith; e potrà accompagnarci anche Sam, se lui vorrà. Anche se temo che non sarà così comprensivo come te, e di questo non lo accuso.»

«Sam ti sembrerà scontroso, ma non offenderti. Non può capire cosa abbia significato per noi l'influsso dell'Anello. Ma sarà felice di visitare una così grande città degli Uomini, se glielo chiederò. Quante storie avrà da raccontare al suo Gaffiere!» Frodo si stiracchiò, alzandosi con un saltello. Lo guardò con un sorriso e gli strinse una mano sulla spalla. «Sono felice che tutto si sia risolto per il meglio, Boromir. In queste ultime settimane il nostro silenzio mi aveva quasi oppresso. Finalmente tutto ora è risolto e il mio animo ne gioisce.»

L'Uomo lo seguì, in piedi, e cacciò indietro le lacrime che gli pizzicavano insistentemente gli occhi. «Se tu sei felice allora io non saprei che nome dare alla gioia e al sollievo che provo in questo momento, perché è talmente grande ed insperata che non mi sembra neanche di meritarla.» Le parole di Boromir quasi vennero interrotte dall'abbraccio di Frodo, e qualsiasi cosa fu inutile per fermare il pianto liberatorio che aveva cercato di bloccare.

Si salutarono pochi istanti dopo, forse imbarazzati per quel gesto eppure con un peso in meno sul cuore. Lo Hobbit si congedò, intenzionato a camminare ancora un po' prima di tentare di dormire. Boromir, d'altro canto, non aveva nessuna voglia di chiudere occhio: prima era troppo eccitato dall'idea dell'incoronazione di Aragorn, ora doveva raccontare a qualcuno dell'immensa gioia che provava nell'aver chiarito ogni malinteso e ogni colpa con Frodo. Era più che sicuro che se avesse incontrato Pipino o Merry avrebbero iniziato a saltare e a ballare, facendo un gran chiasso e svegliando mezzo esercito. Ma per fortuna i due Hobbit russavano già da qualche ora, così Boromir si diresse a grandi passi verso la tenda di Brethil, da cui proveniva la tremula luce di una candela.

«È permesso?» domandò a bassa voce. Scostò la tenda appena lei gli rispose e qualsiasi cosa stesse per dire fu fermata da ciò che vide. Aragorn doveva averle consegnato la nuova divisa, era evidente; ma vederla piegata in un fagotto e poterla osservare sul corpo della legittima proprietaria erano due cose diverse. E Brethil gli apparve più bella che mai, anche senza i capelli acconciati e un abito sontuoso.

«Non è troppo... troppo

Boromir si crucciò. «Cosa vuol dire "troppo troppo"?»

«Per me, intendo. Non è troppo?» ripeté lei, indicando i suoi vecchi abiti. «Non ho mai indossato una divisa così bella. Anzi, non ho mai indossato una divisa, che è ben diverso. A parte il mantello e questa.» aggiunse, sfiorando la spilla che ora le teneva fermo il lungo e pulito mantello blu.

«È adatta al tuo valore, Brethil. E al ruolo che coprirai tra qualche ora.» le rispose, avvicinandosi ed accarezzandole le braccia per riscaldarla con un po' di conforto. «Gondor non vedrà Prima Guardia del Re più nobile di te, credimi.»

«Tu sapevi e non mi hai detto niente?» Brethil prese un respiro profondo, sorridendo mestamente. «Credo che mi ci dovrò abituare. Ma almeno è meglio di quell'orribile abito che mi costrinsi ad indossare.»

«Orribile? Lo scelsi di persona!»

«Allora lascia che ti dica che hai un pessimo gusto, Boromir. Aragorn dovrebbe darti qualche lezione in proposito.»

Si osservarono in cagnesco per qualche istante, ma non durò a lungo. Entrambi risero, trattenendo il volume della loro ilarità per non svegliare i vicini di tenda.

«Sei bellissima, Brethil. Davvero.»

Lei abbassò il capo, arrossendo, e gli diede le spalle con la scusa di dover recuperare qualcosa che gli apparteneva. Prese uno scrigno e glielo porse. «Un giorno ti dissi che qualsiasi oggetto rotto sarebbe potuto essere riparato, così come Andúril nacque dai frammenti di Narsil. Oggi vedrai che avevo ragione.»

Boromir prese il regalo con riverenza, sentendo distintamente il cuore iniziare a galoppare per l'emozione. Sì, ricordava bene quel giorno, così come tutti quelli che avevano trascorso insieme. Lui si era adirato, perché l'oggetto di cui stavano parlando non era un cimelio di poco conto, ma uno dei simboli della Casa dei Sovrintendenti. Eppure, eccolo lì, il Corno di Gondor! Un tempo spezzato in due dall'infuriare della battaglia sui colli di Amon Hen, ora nuovamente riportato all'antico splendore. Le giunture in cui si era rotto erano pressoché invisibili, segno dell'ottimo lavoro di artigianato, e sorrise come un bambino. Spostò lo sguardo dal corno alla donna, incredulo. «Quando...?»

«Durante la mia convalescenza mi son fatta degli amici a corte.» rispose lei, pensando al buon Beregond. «Sottovaluti troppo l'amore e la bravura del tuo popolo, Boromir. Elladan ed Elrohir hanno fatto il resto.»

Il sorriso dell'uomo s'ingrandì così tanto che si ritrovò a ridere per la felicità. Avrebbe voluto suonarlo per condividere la gioia, ma dovette rimandare. Accarezzò il viso della donna con riverenza e le baciò la fronte. «Dove ti tenevano nascosta, Brethil?» le chiese, abbracciandola. «Prima salvi la mia vita e la mia anima, e ora anche uno degli oggetti a cui tengo di più. Devi essere necessariamente un dono dei Valar.»

Lei scosse il capo, nascondendo a stento il piacevole malessere che provò nell'udire quelle parole e nello stare tra le sue braccia. «Faccio solo ciò che è in mio potere per rendere felici le persone che amo.»

Boromir sorrise e si allontanò un poco, per guardarla, assorto nei suoi pensieri. Si disse che quello che stava per fare non fosse razionale, che per quanto vi avesse rimuginato non era ancora giunto ad una conclusione. Eppure quelle ultime parole gli avevano dato quell'incentivo in più che gli diede la forza di parlare, di agire. Si schiarì la gola e s'inumidì le labbra, visibilmente nervoso. Non si era mai trovato in una situazione simile e per quanto fosse pronto ad affrontare qualsiasi tipo di battaglia - anche uno contro cento! - nessuno lo aveva addestrato ad un momento simile. Chi avrebbe dovuto farlo, purtroppo, aveva lasciato quelle terre troppo presto. Tuttavia si diede mentalmente la carica e finalmente parlò. «Ci sarebbe una cosa che desidererei chiederti, Brethil.»

Lei annuì. «Qualsiasi cosa per il Sovrintendente di Gondor.»

Boromir sorrise, sollevando una mano verso la guancia sfregiata di lei e accarezzandola un po' rozzamente. I polpastrelli callosi e ruvidi di lui la fecero rabbrividire, ma Brethil non osò muoversi, con il timore di compiere qualche sciocchezza o semplicemente di rovinare quell'assoluto momento di perfezione.

«Molto bene.» esordì lui, rizzando la schiena e assumendo un'espressione seria che, per un attimo, la fece vacillare nell'incertezza. «Hai ben detto, sono il Sovrintendente di Gondor, ed è un ruolo assai pesante.»

«Sono certa che saprai come compiere il tuo lavoro, Boromir.»

«Sì, non ne dubito nemmeno io.»

Brethil sorrise di fronte alla sua sfrontatezza, ma continuò ad ascoltarlo senza interromperlo ulteriormente; aveva la netta sensazione che stesse girando intorno ad una questione importante che lo innervosiva parecchio, e questo non faceva altro che alimentare la sua curiosità e la sua tensione.

«Eppure,» continuò l'Uomo «anche il più grande dei Re ha bisogno del suo consigliere più fidato. Io non sarò mai Re, ma avrò bisogno della mia coscienza per evitarmi di compiere sciocchezze in futuro.» Boromir sorrise nel vedere la perplessità in quegli occhi grigi. «Per questo motivo ti chiedo, Brethil figlia di Aeglos, di farmi l'onore di diventare mia moglie, cosicché possa avere la Coscienza che cerco sempre al mio fianco. Perché sei diventata importante quanto l'aria che respiro, e ti amo. Ma se questo sentimento non è ricambiato allora accetta le mie scuse.»

Brethil non assimilò subito il significato di quelle parole finché non si accorse che gli occhi dell'Uomo attendevano impazientemente una risposta. Strinse le labbra, contrariata dal fatto che le sue corde vocali non la stessero aiutando a dovere, né il suo cervello osasse formulare una risposta immediata. Perché era troppo scioccata dalla proposta di Boromir eppure lusingata che venne travolta da una profonda confusione. Non aveva mai preso in considerazione l'idea di sposarsi, un giorno, perché non credeva che la sua vita gliene avrebbe dato la possibilità. Non aveva abbandonato il sentiero che aveva iniziato a percorrere da piccola, ma stava semplicemente prendendo una via che lo affiancava e che a sua volta le apriva numerose possibilità. Il matrimonio, per la Prima Guardia de Re, era concesso?

Brethil socchiuse le labbra per parlare, ma quando si rese conto che non avrebbe avuto la forza di pronunciare neanche la sillaba più semplice che conoscesse, fece l'unica cosa che le riuscì. E il bacio che i due si scambiarono, quella notte di fine Aprile, fu solo il primo di una numerosa serie.

 

 

 

 

*

 

Spero vivamente che questo capitolo vi sia piaciuto. Io sono un po' spaventata, perché ci sono numerosi passaggi che mi hanno dato parecchie rogne - vi avevo avvisati di dare le colpe a Boromir e Frodo! Quattro giorni solo per scrivere la loro scena, non è normale.

Ci leggiamo la settimana prossima, con i ringraziamenti vari ed eventuali.

Grazie per tutto a tutti voi che siete la fuori!

Un abbraccio,

Marta.

 

 

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Capitolo 16
*** 16. Epilogo ***


Non credo che esistano parole nel linguaggio corrente, e neanche in Elfico – temo – per scusarmi dovutamente dell’imperdonabile ritardo. Voglio dire: è l’epilogo, che ci vuole a scrivere un dannato epilogo quando tutta la storia è ormai conclusa sia materialmente che nella mia testa?

Il fatto è che sono partita in Svezia ad Agosto e il tempo per scrivere, fino ad oggi, è risultato poco e niente. E, ad essere sincera, sono stata così bene che non ho avuto il bisogno di lanciarmi nella scrittura per fuggire alla vita di ogni giorno.

Purtroppo quest’esperienza sta volgendo al termine, e la mia malattia chiamata Tolkienite sta tornando a farsi strada nuovamente, quindi eccomi qui.

Lascerò i saluti alla fine, perché questi giorni sto dicendo troppi addii (che spero siano arrivederci, in realtà) e non posso farcela a salutare anche voi, assidui e gentilissimi lettori.

Quindi ci si legge a fine capitolo – che è veramente corto. Ma è un epilogo. E dovevo solo aggiungere un paio di scene e chiudere qualche cerchio rimasto aperto.

Buona lettura!

Marta.

 

 

 

Betulla

16. - Epilogo

1 Maggio 3019 T. E.

 

 

Quando, a poche centinaia di metri dalle mura, il chiaro suono delle Trombe d'Argento aveva accolto il Re e la sua scorta e Boromir si era ritrovato con gli occhi lucidi, mentre rispondeva con il Corno di Gondor, che risuonò per tre volte, affinché i cuori di tutti i popoli del regno potessero riempirsi di gioia. Aveva sognato così tante volte quel momento, durante quelle settimane, che non gli sembrava vero che ora fosse la pura realtà. Era una sensazione talmente bella da fargli male. Aveva ricordato quella notte a Lothlórien, tanto tempo addietro, quando aveva fatto una promessa al suo futuro reggente: sarebbero tornati insieme a Minas Tirith, un giorno, e la Cittadella li avrebbe accolti con musiche e stendardi al vento. Finalmente quel giorno era giunto e non era riuscito a contenere la sua gioia.

Aveva guardato la donna che cavalcava al fianco del Re e che reggeva lo Stendardo del Re, lo stesso che Halbarad aveva custodito prima della sua morte, rimanendone affascinato. Sapeva delle intenzioni di Aragorn di nominarla Prima Guardia e non avrebbe potuto fare scelta migliore, ne era certo. Eppure non aveva potuto frenare il moto di orgoglio nel vederla con la schiena ritta e fiera, quello sguardo serio e altero che le aveva sempre visto in viso, così elegantemente vestita. Perché Brethil non avrebbe saputo come portare un abito finemente ricamato dai migliori sarti di Gondor, ma sapeva come indossare un'armatura e non perdere comunque la sua bellezza.

Boromir la guardò, ora, di fronte a lui e sorrise. Presto sarebbe diventata sua moglie e non riusciva ad immaginare un uomo più fortunato di lui. Brethil ricambiò il suo sguardo e il gesto, ma non scompose la sua espressione. Era accanto al Re di Gondor, di fronte ai fratelli figli di Denethor, ai Dignitari, a Gandalf, Re Éomer, Legolas, Gimli, ai Raminghi del Nord e dell'Ithilien: non poteva permettersi debolezze che avrebbero potuto alimentare tutte quelle dicerie sulle donne e la guerra che, dopo la sua nomina a Prima Guardia, erano diventate ancora più rumorose. Eppure nessuno metteva più in dubbio le sue capacità in battaglia, perché tutti avevano potuto vedere con i propri occhi cosa fosse capace di fare; i soldati e tutta la milizia avrebbero solo avuto bisogno di un po' di tempo per abituarsi alla sua posizione.

Re Elessar, in piedi davanti a Boromir e Faramir, sorrise, posando le mani sulle spalle dei due. «Amici miei, vi ho qui riuniti perché ho delle importanti comunicazioni da darvi.» disse, allontanandosi di qualche passo. «Come vi dissi qualche giorno fa, i confini di Gondor non cambieranno, né i rapporti con i nostri vicini.» Éomer chinò il capo, una mano sul petto per ringraziare l'amico. «La mia incoronazione non porterà modifiche nell'amministrazione delle città e delle regioni che voi, miei amici, reggete da tempo immemore. Ma voglio fare un dono speciale a chi ha servito Minas Tirith e tutto il Regno di Gondor prima della mia venuta. La Casa dei Sovrintendenti non svanirà, perché un buon Re ha bisogno di occhi saggi che possano amministrare il territorio quando il Re non è in grado di farlo.»

Aragorn e Boromir si scambiarono una lunga e profonda occhiata, che riassumeva perfettamente il loro rapporto di profonda amicizia e fiducia. Ma il Re si voltò poco dopo verso il fratello minore. «A te, Faramir Capitano dei Raminghi dell'Ithilien, ti dono la terra florida che tanto ami e che sotto la tua custodia continuerà a fiorire, perché mi è stato detto quanto la tua infanzia sia stata segnata dalle sue foreste di betulle e dai profumi dei suoi frutti.

E a tutti coloro che si facevano chiamare Raminghi annuncio che ora sono liberi di unirsi alla sua scorta e di rispondere ai suoi ordini, se lo vorranno. Perché chi meglio di voi conosce la vita in una foresta?»

Faramir, seguito dai Dúnedain, si inchinò profondamente, sulle labbra il sorriso gioviale di un ragazzo che aveva appena ricevuto il regalo di compleanno più bello della sua vita.

Il Re fece scivolare lo sguardo sull'Uomo accanto e corrugò la fronte, indeciso. «Non è stata una scelta semplice, mio buon amico. Cosa avrei potuto donare al mio Sovrintendente e Capitano della Torre Bianca di così prezioso per ripagare adeguatamente la sua lealtà ed amicizia?»

«Ho già la tua amicizia, mio Re. E la mia posizione. Non ho bisogno d'altro per servirti.» rispose Boromir, sincero. E aveva la sua Coscienza al fianco, aggiunse mentalmente.

«Sì, ma sono un Re buono ed equo, quindi ho pensato a qualcosa anche per te.» replicò Aragorn, senza nascondere la punta di divertimento che gli increspò le labbra. «Nelle nostre lunghe chiacchierate mi parlasti a lungo delle bellezze di Gondor e di Minas Tirith, poiché tutto questo territorio rappresenta la tua vita, ciò per cui hai rischiato di morire innumerevoli volte nel tentativo di difenderlo. Ma notai fin da subito che vi fosse un luogo a te caro, come l'Ithilien per Faramir. Una città un tempo splendente, capitale del Regno, e che in futuro tornerà ad essere la meraviglia di Gondor. A te, Boromir figlio di Denethor II, dono la città di Osgiliath, che giurerai di reggere come il degno Signore che mi aspetto tu sia.»

Boromir non riuscì a nascondere lo stupore che s'impossessò di lui e ricambiò con un'occhiata stralunata quella serena di Aragorn. «Mi doni Osgiliath?» chiese, quasi senza fiato.

«So che ci sarà tanto lavoro, prima di rivederla viva e probabilmente non faremo in tempo a godercela. Ma sono sicuro che tu, insieme al nostro popolo, sarete in grado di far trionfare nuovamente la musica e la bellezza di cui tanto mi hai parlato, in passato.»

Boromir si chinò su un ginocchio, la mano sul cuore e un sorriso genuino e commosso sul viso. Aveva sognato sin da piccolo come potesse essere Osgiliath durante il suo periodo più glorioso e il desiderio di poterla vedere, un giorno, come nel suo immaginario era cresciuto con lui, di anno in anno. E ora, ora aveva la possibilità di rendere quel sogno realtà! «Il Re mi ha benedetto con un dono simile e io non posso che invocare tutti i Valar affinché proteggano lui e la sua progenie fino alla fine del mondo. Ti ringrazio, Aragorn, perché non avrei potuto ricevere regalo migliore.»

Il Re lo fece alzare, abbracciandolo con affetto, e Brethil non poté non sorridere come il resto dei presenti, di fronte a quella profonda dimostrazione di amicizia e fedeltà.

L’incontro durò ancora a lungo, poiché Aragorn aveva necessità di parlare con i suoi vicini e alleati, che vennero congedati solo due ore dopo aver a lungo discusso sull’amministrazione delle terre e sul destino dei prigionieri di guerra. Poiché Elessar era un Re clemente e giusto, venne deciso che nessuno di loro sarebbe stato giustiziato per i crimini efferati commessi, ma anzi la loro punizione sarebbe stata quella di aiutare la ricostruzione delle città distrutte, di bruciare i cadaveri dei loro compagni e di ripulire tutto il sangue versato con qualsiasi opera di generosità.

Con il Re rimasero solo i figli di Elrond, Brethil e Gandalf, poiché un’altra urgente questione andava discussa: il vicino matrimonio con la futura Regina di Gondor.

Boromir e Faramir lasciarono insieme la Sala del Trono e passeggiarono sotto il cielo infuocato finalmente dal crepuscolo e non dalle ceneri del vicino Monte Fato. Camminarono dapprima in silenzio lungo le mura della Cittadella, soffermandosi ad osservare la loro terra martoriata dalla guerra ma ancora orgogliosamente viva. E il maggiore dei due non poté non soffermare lo sguardo sul dono appena ricevuto. Osgiliath era lì, dinnanzi ai suoi occhi, un ammasso di edifici in pietra distrutti e decadenti, eppure austeri e belli nonostante la distruzione. E lui, il suo nuovo Signore, l’avrebbe riportata ai fasti di un tempo che non aveva mai conosciuto ma che aveva solo potuto sognare dalle storie che il padre gli raccontava e dalle pitture appese lungo le pareti del Palazzo Reale.

«Avresti mai creduto che un giorno, dopo la mia partenza, ci saremmo potuti ritrovare qui, sulle nostre gambe, a parlare e a guardare nuovamente il nostro Regno?» domandò Boromir, poggiando i palmi secchi delle mani sulla nuda pietra del muro di cinta.

Faramir sorrise. «Mi sorprende di più il fatto che diventerai presto un marito, fratellone.» Accettò con una risata un pugno sulla spalla e, massaggiandosi la parte lesa, aggiunse: «Non biasimarmi, sai bene che sarebbe più credibile che io diventassi Re piuttosto che tu trovassi una moglie. Ma devo ammetterlo, Boromir, hai accanto una compagna degna di essere chiamata tua moglie e, consentimi di dirlo, anche tu devi ritenerti più che fortunato ad averla incontrata.»

«Non trascorre un giorno senza che io ringrazi i Valar o chi per loro per avermi concesso questa benedizione.» fece l’altro, volgendo uno sguardo verso il Palazzo, dove lei serviva devotamente il loro Re. Poi, con un sorriso da mascalzone, riportò l’attenzione sul minore. «Ma dimmi, fratellino, e correggimi se sbaglio, poiché come hai ben sottolineato più volte il tema dell’amore non è esattamente il mio campo... la bella Dama Éowyn domani si metterà in cammino con il fratello per seppellire la buon’anima dello zio, e faranno insieme ritorno a Rohan, la sua amata terra. Non temi che ella decida di rimanervi per aiutare il fratello o per semplice orgoglio?»

«No, Boromir, non temo che mi abbandoni, poiché ho letto nei suoi occhi lo stesso amore che io provo per lei. E se anche deciderà di rimanere a Rohan io glielo concederò, come atto di fede e di devozione. Dama Éowyn è selvaggia quanto la sua terra e non posso obbligarla ai confini di un palazzo, perché quella è sempre stata la vita che ha detestato.»

Il Sovrintendente annuì, stringendo un braccio del fratello con affetto. «Sai, credo che la Terra di Mezzo sia un mondo troppo vasto per essere esplorato tutto in una sola vita, eppure noi siamo riusciti a trovare le sue due donne più cocciute!»

«Bada a come parli, Uomo di Gondor, o una donna cocciuta potrebbe diventare una donna violenta.» fece una voce alle loro spalle.

I due si voltarono contemporaneamente, per guardare Brethil che accarezzava con una certa intensità l’elsa della sua Celeboglinn.

«Vuoi umiliarti nuovamente, donna?» chiese Boromir incrociando le braccia, e mal celando la sua ironia.

«L’ultima volta che le nostre spade si sono incrociate ero debole, malnutrita e disidratata. E ti lasciai vincere per compassione del tuo egocentrismo.»

«Oh, dunque chiedi riscatto?» L’Uomo estrasse la sua forte spada, lucidata e affilata solo qualche giorno prima in vista della cerimonia di incoronazione. «Ebbene, chi sono io per rifiutare un tale favore ad una bella dama come te?»

Brethil sorrise, accarezzando la lama di Boromir con la sua, mentre Faramir si sedeva su una panca nei paraggi, deciso a non perdersi nemmeno un istante di quell’incontro-scontro.

«Guarda e impara, fratellino, come un Sovrintendente sconfigge la Prima Guardia del Re.»

L’altro si finse amareggiato. «Neanche un matrimonio in arrivo ha insegnato come comportarti nei confronti di una dama?»

Brethil si voltò verso il minore dei fratelli. «Dama? Mio signore, desideri saggiare anche tu la mia Celeboglinn, per caso?»

«Abbastanza con le parole.» fece Boromir, riportando l’attenzione della donna su di lui. «In guardia.»

E dopo un sorriso complice i due diedero inizio alle danze.

 

«Ti ho lasciata vincere, per pareggiare i conti.» puntualizzò il Gondoriano, accarezzandole distrattamente un fianco. «La mia coscienza ora è pulita.»

«Pulita quanto il tuo fondoschiena sporco di polvere. Devo ricordarti che ti sei ritrovato in terra disarmato con la lama della mia spada sulla gola?»

«Effettivamente è stata una fine troppo esuberante; ma per farti felice questo ed altro, mia Prima Guardia.» L’Uomo si sporse su di lei, sdraiata sul suo stesso letto, e la baciò castamente sulle labbra sorridenti e sornione.

«Pipino ha persino composto una canzone in onore della mia vittoria.»

«Ah sì? E come recita?»

La donna ridacchiò. «Dovresti domandarlo direttamente al compositore. E vorrei essere presente, poiché dovrò difenderlo dalle tue grinfie quando canterà l’ultima strofa.» Brethil ammiccò, non riuscendo a nascondere il divertimento. «Ti anticipo solo che Sovrintendente fa rima con perdente

«Maledetto di un Tuc! Gli troncherò quelle gambe che sono già corte di natura!»

La donna scoppiò a ridere, e anche lui si unì all’ilarità.

Quella notte, Brethil e Boromir dormirono nuovamente insieme, come erano soliti fare nei momenti di sconforto. Era accaduto quando lui si sentiva ancora perduto per l’influsso dell’Anello, era accaduto quando lei aveva perso Halbarad. Ma non c'era niente per cui valeva la pena preoccuparsi in quel momento, perché finalmente niente osava intaccare quell'aura di pace e benessere che era calata sulla Terra di Mezzo, sui loro cuori e sulle loro vite. Dopo tutto il dolore e la morte che avevano dovuto sopportare, finalmente potevano tornare a respirare, senza la paura che qualcosa o qualcuno potesse riportarli nell’apnea più oscura. L’Anello era stato distrutto, il Portatore era salvo, Aragorn sedeva sul trono di Minas Tirith e loro erano i suoi più fidati consiglieri e amici. Qualche mese fa neanche avrebbero potuto sognare una situazione simile.

Quella notte, riscaldata dalle braccia di Boromir che la teneva stretta contro il suo corpo, Brethil sognò. Ma non fu uno dei suoi soliti incubi: non vi erano esseri viscidi e infidi che dovevano essere liberati per seguire il corso di una profezia, né uomini a lei cari che morivano davanti ai suoi occhi terrorizzati.

Quella notte Brethil sognò un bambino dai capelli scuri e gli occhi grigi, dall'animo ardente e battagliero.

Quella notte Brethil sognò suo figlio in braccio al Sovrintendente di Gondor.

 

 

 

 

*

 

“Figli di Gondor! Di Rohan! Fratelli miei!
Vedo nei vostri occhi la stessa paura che potrebbe afferrare il mio cuore.
Ci sarà un giorno in cui Il Signore degli Anelli non m’ispirerà più, in cui
abbandoneremo la scrittura e spezzeremo ogni link alle fanfiction.
Ma non è questo il giorno!
Ci sarà l'ora delle parole mancanti, e delle pagine vuote quando l'Era della Scrittura
arriverà al crollo, ma non è questo il giorno!
Quest'oggi leggiamo! Per tutto ciò che ritenete caro su questa bella
terra... vi invito a resistere alla prossima fanfiction! Uomini dell'Ovest!”

 

Beh, non potevo lasciarvi con i soliti e troppo mainstream saluti di fine storia. Insomma, mi avete dato così tanto con il vostro supporto che non me la sento di dirvi addio in due righe. Vorrei ringraziarvi singolarmente, ma mi dilungherei troppo. Sappiate che vi ringrazio, dal più profondo del mio cuore. E ve lo dico anche in Svedese, suvvia – tack mycket! Grazie mille!

Scrivere questa storia mi ha divertita, commossa, fatta arrabbiare, emozionato. Perché ho sempre sognato e continuerò a sognare le avventure nella Terra di Mezzo - e a volte mi chiedo come sia possibile che questo splendido posto non esista sul serio. Quindi tornerò sicuramente a scrivere de Il Signore degli Anelli, soprattutto perché c’è un Nano che ho sempre amato fin quando ero piccola e lessi per la prima volta Lo Hobbit, e ho qualche vaga idea per la mente. Il fatto che abbia visto e rivisto l’ultimo film – e primo della nuova trilogia – di zio Peter è un segno eloquente. E poi, Boromir rimane una fonte di ispirazione costante, quindi non chiudo le porte al mondo degli Uomini, né a lui e Brethil.

Un abbraccio e spero a presto,

Marta.
PS: Ho deciso di sistemare Betulla in un pdf scaricabile. Se qualcuno si è affezionato come me a questa storia e vuole rileggerla quando più preferisce... ecco il link di download. :)
E per chiunque fosse interessato, sto scrivendo anche il seguito: Pietra.

 

 

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