1.
Capitolo
uno.
Sguardi.
Non ho mai sofferto
d’allucinazioni.
Sebbene la mia
immaginazione tremendamente e facilmente stuzzicabile mi portasse
spesso a
perdermi nel mondo che io stessa mi creavo- innescato quasi come un
meccanismo
di autodifesa- la cosa non s’era mai estesa oltre la mia
mente, oltre quel
sottile e volubile confine fra fisico e metafisico, mai oltre il mio
potente
subconscio: era tutto nella mia testa.
Non aveva mai intaccato
il mondo esterno, quello vero, per
quanto potesse esserlo davvero.
Quando si è come me,
quando si è perso tutto, riesci a dubitare perfino
d’esistere.
Ma allora come potevo
essere tanto sicura che quella figura leggermente ingobbita che avevo
scorto
per pochi attimi accanto al portone d’ingresso una settimana
fa non fosse
soltanto immaginazione?
Non poteva esserlo:
mi conosco troppo bene.
Una ciocca di capelli
corvini e ribelli, e due occhi neri, assorti e lontani,
imperscrutabili.
Sogno, forse?
Soggezione? Impossibile.
No, Miharu non ha mai
sofferto d’allucinazioni.
C’è tanto da
osservare qui: tanti volti, tanti lineamenti da studiare,
tanti gesti da
decifrare, personalità mutevoli, magnetiche, inusuali.
C’è così tanto da
osservare che per un attimo forse potrei lasciare il mio, di mondo, e
far parte
di quello reale.
Il bambino dai
capelli color platino è rannicchiato come sempre nel suo
angolo, a comporre e
scomporre ripetutamente un puzzle. I suoi movimenti misurati e mai
esitanti
denotano un’abilità fuori dal comune: mi da le
spalle, eppure posso immaginare con
chiarezza lo sguardo nei suoi grandi occhi vagare preciso sul
pavimento, ad
afferrare i piccoli pezzi e incastrarli immediatamente con gli altri,
senza mai
sbagliare.
«Puoi venire a
giocare anche tu, se vuoi. Vedo che stai sempre lì da
sola» sussurra improvvisamente
il bambino, senza staccare gli occhi dalla sua attività
«anch’io sono solo, ora
che non c’è lui.»
«Chi è lui? Watari?»
In effetti, è da un
po’ che non lo vedo: al suo posto c’è un
tale di nome Roger, che ne fa
praticamente le veci, e ha pressappoco la stessa eleganza misteriosa
che
dovrebbe metterti a disagio, e invece non fa che incrementare la tua
stima e
fiducia. Paradossale, vero?
Il bambino non
risponde ma gira verso di me il piccolo viso pallido, allunga una mano
in segno
d’invito: solo ora mi accorgo di quanto sia giovane, a
dispetto della sua
calma, di quella freddezza tanto inusuale, di quello sguardo serio sul
viso
infantile. E’ così giovane, ma non puoi fare a
meno di sentirti insignificante,
accanto a lui.
Mi limito ad avvicinarmi
ed osservarlo in silenzio, mentre incastra l’ultimo pezzo,
solleva la
composizione e la lascia nuovamente schiantarsi a terra e disfarsi, per
poi
ricominciare.
«Tutto sta
nell’osservare bene ogni singolo pezzo» mormora,
quasi fra sé e sé, iniziando
stavolta a comporre da alcuni pezzi disegnati, a formare una L
maiuscola, in
nero «è sempre così. Se si osserva
molto attentamente, si può dare risposta a
tante domande.» conclude, prestandomi sempre meno attenzione
(o almeno, così
appare), concentrato in un modo quasi maniacale.
Ferma il veloce
scorrere delle dita sul pavimento e mi rivolge un’occhiata
d’attesa,
attorcigliandosi attorno al dito una ciocca chiara.
«Prova tu.»
Incastro
alcuni pezzi in
poco tempo,- complice la fortuna, probabilmente- sotto lo sguardo
indagatore
del bambino: l’orologio ticchetta nel silenzio, scandisce i
respiri, i gesti,
quel muto scambio di sguardi, fa da colonna sonora a quella inattesa
compagnia
reciproca.
«Ti chiami Miharu, vero?» dice, mentre inserisco
l’ultimo
tassello. Ora che ci penso, è così strano questo
puzzle: è completamente
bianco.
«Come sai il mio nome?»
«Ho sentito Watari parlare con Roger di te.»
Breve, conciso: mai m’era capitato di dover parlare
così
poco con una persona. Per me è una bella sensazione.
«Non vuoi sapere qual è il mio nome?» mi
chiede,
riprendendo a giocare con quella ciocca di capelli.
«Chi sono io per pretendere una cosa del genere? Spetta a
te decidere se dirmelo o no: d’altronde, sapere il nome
l’uno dell’altro è già
l’inizio di una conoscenza; la conoscenza al cinquanta per
cento diventa amicizia, e bisogna
analizzare sinceramente se ne valga la pena o meno, no?»
«Mi infastidisce, avere troppa gente intorno»
esordisce
senza mezzi termini, spostando il suo interesse su un pupazzetto che
infila
sul dito «tuttavia, tu sei silenziosa, e quando parli non
dici mai cose
stupide. La tua presenza non è fastidiosa, Miharu, e questo
è un pregio.»
Sentirmi dire ciò da un bambino che sembra avere poco
più
di dieci anni non è propriamente usuale, ma
c’è da dire che basta un giorno qui
per capire che non c’è e non ci sarà
mai nulla di ordinario, a partire dalla mente
di molti di quelle incredibili e geniali creature (fra le quali io non
c’entro
assolutamente nulla, a pensarci bene).
Tuttavia, sembra un complimento, per quanto bizzarro.
«Grazie.»
Il mio serio interlocutore riprende i suoi giochi: è
così
interessante osservarlo, non servono le parole.
«Mi chiamo Near» sussurra atono, quasi per caso
«quindi
ora io so il tuo nome, e tu il mio.»
«Vorresti essere mio amico, dunque?»
«Suppongo di sì» riflette per un attimo,
come se ci
stesse davvero pensando su «tu saresti mia amica?»
«A me piace il tuo silenzio. E anche i puzzle. Quindi
sì,
direi di sì.»
Il rumore della porta d’ingresso che viene aperta risuona
nell’atrio vuoto: riconosco la voce calma di Watari
rivolgersi ad una seconda
persona: la voce di quest’ultima ha una cadenza regolare, mai
alterata, lenta e
ipnotica.
La ascolto affievolirsi pian piano, lasciando che la mia
mente prenda di nuovo il controllo di tutto, indifferente.
Per
quanto mi sforzi non riesco a starci molto, nel mondo
reale.
«Stamattina
eseguirete un piccolo test» esordisce Roger, facendo
risuonare la sua voce fra
le pareti dell'aula «non è nulla di diverso dal
solito, né particolarmente
difficile, non preoccupatevi: tuttavia, i risultati saranno
determinanti
per l'esito della nostra, della vostra missione.
Confido nel fatto che
ognuno di voi agogni al massimo e s'impegni ben oltre le sue
possibilità»
conclude, riservandoci un sorriso d'incoraggiamento e dando uno sguardo
all'orologio accanto alla porta nera «avete venti minuti a
partire da adesso:
buona fortuna.»
Chino gli occhi sulla decina di fogli depositati ordinatamente sul mio
banco,
sfogliandoli e dando un'occhiata sommaria alle domande.
Come immaginavo, sono per lo più quesiti che richiedono
discrete capacità di
logica e deduzione: mi ricordano qualcosa che ho già fatto,
come succede
spesso, ma non so perché.
Questo
è il
terzo test in una sola settimana. Mi chiedo cosa se ne facciano, di
tutti quei
risultati: forse hanno a che fare con quel lui
che nomina spesso Near, quel lui che tutti sembrano conoscere tranne la
sottoscritta.
Oh beh, le
cose sono più interessanti, se avvolte da un certo alone di
mistero.
Barro la
casella di una risposta della prima domanda, seguita dalla seconda,
dalla
terza, e dalla quarta.
Ho
l’impressione
che questa persona sia davvero molto importante: tutto sembra ruotare
attorno a
lui, ogni parola, ogni avvenimento. Mi chiedo se sia possibile che una
figura
tanto astratta sia presente in maniera così palpabile,
così concreta.
Il mistero è
affascinante, sì: ma quando la curiosità prende
il sopravvento, diventa
piuttosto fastidioso.
Writer's
space:
Primo capitolo, prime 'conoscenze', mettiamola così.
Personalmente, credo di aver rispettato abbastanza fedelmente il
carattere e gli atteggiamenti di Near e le situazioni possibili
all'interno della Wammy's House.
Uhm, questo è tutto. Se avete già
drizzato le orecchie alle parole capelli
corvini e ribelli e occhi neri, sappiate che ci avete visto
giusto, lol.
Recensioni, critiche e consigli sono sempre ben accetti.
Angelsv.
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