La qui presente Annika Mitchell non sa come dimostrare quanto questa storia l’abbia lusingata. È tanto bella e altrettanto immeritata. Insomma, grazie di che? Che la cosa più utile che posso dire è che sei bravissima e che adoro la tua sensibilità: sai cogliere particolari che per il resto del mondo sono insignificanti. Insomma, forse dovrei essere io a ringraziarti.
Ma comunque asdfghjkl, parliamo di questa one-shot.
Il titolo, Dio mio. Mi piacciono così tanto i tuoi titoli, racchiudono tutta la storia senza svelare nulla. Sono come dovrebbero essere tutti i titoli: un quadro, un’immagine generale, come una panoramica dall’alto delle storie che verranno narrate, senza in realtà dire nulla, come se fossero un po’ sgranate, luoghi non ancora del tutto familiari.
“Di ritardi puntuali e di false partenze”. Dio.
Io sono puntualmente in ritardo, per inciso, e l’accostamento è meno ossimorico di quanto si possa credere, ma richiama un immagine ben precisa, probabilmente differente per ognuno di noi.
(Puntualmente in ritardo per prendere un treno, puntualmente in ritardo per ogni appuntamento, puntualmente in una sorta di ritardo mentale nei confronti del cosmo e – soprattutto – puntualmente in ritardo sulla linea del cuore).
Le false partenze sono i sogni irrealizzati, sono i desideri messi a tacere un po’ dalla vita, un po’ dalla nostra coscienza masochista, un po’ dai sogni altrui. A volte semplicemente dalle occasioni sbagliate. Ma il desiderio di partire c’è sempre, nonostante resti magari assopito in noi. È falso perché lo stiamo ad ascoltare solo nell’inquietudine dei sogni, dove siamo fisicamente immobili – non partiamo mai – ma viaggiamo al di là di ogni limite.
Siccome ho letto la citazione là in alto, ho deciso di ascoltare proprio quella canzone, mentre leggevo.
Tra l’altro ti ringrazio per le infinità di canzoni che mi fai conoscere, sai bene il perché sia così importante per me.
Amelia, primo personaggio, prima sfaccettatura umana, se vogliamo. Una ragazza che sogna di andarsene via, “volare via” (il sogno dell’essere umano da sempre), e che non ha altro che una laurea in tasca e delle ideologie in valigia. Ah, se solo sapesse che quelle ideologie sono semplici convenzioni, che non c’è nulla di così necessario nella vita, da dover occupare posto dietro di noi, quando si parte! È tutto così relativo che fa tenerezza pensare a questa ragazza piena di sogni ma senza la consapevolezza che tutto muta e che di certo lo faranno anche quelle ideologie, che sono false verità con cui ci riempiamo la testa perché non sappiamo in cosa credere. La verità è che “le idee sono come le stelle, che non le spengono i temporali”. E allora sorridiamo pensando a tutte le buffe idee che ci accompagnano sempre lungo la nostra esistenza, lungo le nostre scelte. Sorridiamo perché siamo Amelia, tutti noi.
Claudio, sessantottino: stanco di aspettare. Meravigliosa immagine, il senso della pesantezza degli anni, dell’attesa, di una vita passata a lottare senza mai ricevere nulla in cambio. Il desiderio costante di tornare a casa. Ah, il concetto di casa. È sempre così difficile da definire, io spesso mi sento più facilmente a casa in un treno, nella solitudine dei miei pensieri e in compagnia di me stessa, che non nel luogo in cui abito.
Qual è la casa di un uomo ormai disincantato, che è semplicemente stanco? Mi ricorda un viaggio ben più lontano, che va là dove stanno i confini tra la vita e la morte.
E chi non se lo chiede, ogni tanto, se riuscirà mai a trovare pace, da qualche parte, in un qualche tempo? La risposta sembra essere che tra gli affanni della vita terrena difficilmente riusciremo a trovarla.
Andy, mani di forbice; sei riuscita a rendere la delusione per non essere riuscita a realizzare il suo sogno talmente bene che quasi risulta palpabile, realtà pulsante.
I desideri mai avverati pesano sul petto, fanno male all’anima, generano solitamente mostri e sofferenze. E utopie, altrettanto pericolose per la loro irraggiungibilità.
Questa donna che spera, quando ormai il cambiamento è talmente impossibile, talmente lontano, da non risultare altro che mitologia. Che immagine meravigliosa hai descritto, parlando di “chimera di un cambiamento”. Soffriamo insieme a lei, pensando a tutti i sogni che non abbiamo soffocato tra le lacrime, a quanti ne abbiamo gettati via per orgoglio e a quanti forse dovremo rinunciare per il volere di chissà chi.
Da apprezzare il coraggio con cui decide di ricominciare, di nuovo, lontano. Come lo scoprirà, in un modo o nell’altro. La speranza è una delle poche cose che abbiamo e che avremo sempre.
La zingara dalle calze azzurre mi ha fatto sorridere, un po’, nonostante tutto. Nonostante abbia “le mani piene di bugie”, nonostante non meriti quei soldi che i passanti le lasciano caritatevolmente, mi fa sorridere. Perché osa come ha sempre fatto, e come farà per sempre, osa come fa solo chi non ha niente da perdere, ma come dovremmo fare tutti. Questa zingara ha tanto da insegnare ad Andy, ha tanto da dimostrarle. Scommettere sui propri sogni, osare e gettarsi anche nel fuoco dell’inferno, pur di vederli realizzati. È questo che ci insegna, dietro alle bugie, alla gonna lunga e ai segreti ben celati.
Francesco il poeta, che fa del bene mentre pensa a cosa dire. Abbiamo questo sporco vizio, noi, del vagliare tutte le discussioni possibili con le persone, specie le persone che sono in qualche modo più importanti – in questo caso una madre mai incontrata -, come se non volessimo rimanere impreparati, come se avessimo in qualche modo paura di restare senza nulla da dire. Paura del silenzio, dal mio canto.
È bello la maniera in cui i suoi pensieri si interrompono: scontrandosi con una musicista. La vita per un attimo gli pone davanti un’occasione, una possibilità. Lui la lascia andare come si lasciano andare le cose che ci sembrano troppo belle. E Dio, quanto ho adorato quel piccolo pensiero, quel piccolo desiderio costretto a svanire come una bolla di sapone: sfiorarle i capelli. Un gesto così intimo e tenero da accapponare la pelle. La tenerezza giusta che vorremmo si scontrasse con noi, ogni tanto.
Giulia, la chitarrista. Giulia è uno dei miei nomi preferiti, perché ha un suono dolce e armonioso. Sa di musica leggera, breve ma esatta. Gli occhi di gatta, il sorriso concesso ad uno sconosciuto, la maglietta del suo idolo. Bella e di passaggio, come il personaggio centrale di un quadro che risulta però meno comprensibile di tutti. Lo ammetto: ci ho visto i tuoi occhi, nei suoi, e i tuoi segreti nelle parole non dette. Ed è bella così, perché si scontra con la vita di qualcun altro, ma poi sfugge via, come un particolare che nessuno nota perché nessuno osserva.
Mattia, il sognatore, ha un nome che mi fa male per motivi personali e qualche volta infantili, o patetici. Ma comunque ha diciotto anni e sogna, perché, come scrisse Baricco (ti piace? Non ricordo di avertelo chiesto) “Avevamo diciotto anni ed eravamo tutto”. È così, questa età che si affaccia finalmente nel mondo adulto, piena di speranze e non ancora disillusa, orgogliosa di ciò che è. Confida nel mondo, Mattia, con il suo basso in spalla – il suo sogno in spalla – ed il suo vizio tra le dita.
L’immagine della gioventù, che spera e sbaglia, nello stesso tempo, come qualcosa di ancora troppo vero, così lontano dalle regole di non contraddizione. Qualcuno con tante imperfezioni che nell’insieme risulta bello, gradevole. (Cumberbatch?)
Giovanni, l’innamorato. Non l’ho afferrato come non si afferra chi si distingue dalla massa e di primo acchito ci risulta “strano”, quasi “sbagliato”. Che convenzione stupida, la normalità.
Antonello, il cantautore. Sorride e con il suo talento aiuta una donna a ricordarsi del proprio sogno nel cassetto. Si diverte, nel farlo, per quell’antica storia che dice che chi si occupa di musica riesce a conservare sempre molto di ciò che è l’infanzia e l’innocenza.
L’arte è bambina, capricciosa e volubile: segue le leggi fittizie dell’ispirazione, nasce figlia del talento.
Maria, la madre. Una madre che ha perso un figlio – ovvero tutto – dimenticandosi quasi di un sogno.
Aspetta sempre, nonostante sappia. Non è forse quello che facciamo tutti, in questa vita? Aspettiamo che qualcosa avvenga, sempre, aspettiamo che la vita cambi e che le cose capitino di per sé, nonostante siamo consapevoli che questo non possa accadere – mai – se non facciamo altro che rimanere immobili nell’attesa. A volte, però, come in questo caso, l’attesa è l’unica cosa che resta, l’unica cosa che lenisce un po’ il dolore della perdita. Ci illudiamo perché a volte è più facile, vivere così.
Dieci personaggi, tutti differenti, tutti con una storia, tutti con dei sogni (vivi, persi, in attesa).
Tutti veri, tutte sfaccettature dell’animo umano. Uniti da una partenza, da un viaggio, dall’abbandonarsi dietro le spalle qualcosa, per guardare negli occhi qualcosa di nuovo, una nuova esperienza.
È un racconto che è metafora della vita.
Grazie di tutto, Ritux.
Ti voglio bene.
Un po’ commossa, perché è sempre così che va a finire quando ho a che fare con le cose belle,
Ann. |