Ciao, ecco il mio taccuino per quattro storie e... (un arbitro)
LOCATION (titolo e intro): 6/10
Il titolo è una parte complicata, forse la più complicata di tutta una storia. Va scelto con cura, perché deve essere accattivante per il lettore, deve convincerlo a cliccare su una storia – o a scegliere di acquistare proprio quel libro, romanzo o saggio che sia – e deve abbracciare il lettore, farlo sentire a casa e introdurlo all’interno del racconto che si sta per leggere.
Una rogna, non giriamoci intorno.
Qui il titolo suggerisce qualcosa che mi porta a ritenere che sia la protagonista la persona abituata a vivere; invece, la lettura del racconto mi porta in tutt’altra direzione.
L’introduzione – altra bestia nera di ogni scrittore – deve invogliare alla lettura avendo a propria disposizione un maggior numero di parole. Se il titolo è l’esca, l’introduzione deve essere l’amo che agguanta il lettore e non lo lascia andare. Qui ce la caviamo con una micro-sinossi che riassume la vicenda senza sbilanciarsi troppo. Forse, ci si sbilancia troppo poco, regalando all’introduzione il sapore di un riassunto come quelli che appaiono sulle schede di lettura in biblioteca.
MENU (trama e personaggi): 4/10
Il voto è veramente basso perché questa sezione paga lo scotto di una serie di problemi.
Il primo, è l’ingenuità. La storia è ambientata in Giappone, a Tokyo, ma il lettore più smaliziato coglie che quella descritta non è Tokyo, ma una qualsiasi altra città che l’autore ha deciso di chiamare Tokyo. Questo perché non traspare affatto la mentalità giapponese che ci si aspetterebbe dagli abitanti di Tokyo, e del Giappone in generale (ci ritorneremo).
Il secondo, è che il personaggio di Shizue, la protagonista, è decisamente sopra le righe.
Il terzo è che l’ossessione che affligge la protagonista non viene percepita come una vera e reale ossessione.
È come se l’autrice avesse voluto tentare un esperimento, e gli esperimenti, si sa, possono o non possono riuscire.
Il punto forte di questo racconto è la scena di sesso che si consuma all’interno del locale, ed è anche quella che ha uno spazio maggiore all’interno del racconto. L’autrice si sente a casa, a proprio agio; sembra quasi che sia questo, il suo pane, tanto conduce con scioltezza e consapevolezza la descrizione di questa scena. Il problema è che questa scena gode di uno spazio che sbilancia l’equilibrio del racconto. È come se in un menù vegetariano il pezzo forte fosse costituito dal roast-beef. Il sesso è una componente del racconto, e le note lo dicono chiaramente, quindi mi sarei stupita dell’assenza della suddetta scena. Tuttavia, la scena di sesso è l’unica, in tutto il racconto, in cui l’autrice mostra, e non dice.
Show, don’t tell è – o dovrebbe essere – la regola aurea di ogni scrittore, dal professionista allo scribacchino.
Se mostri, il lettore entra in confidenza con la tua storia.
Se mostri, il lettore percepisce sulla propria pelle i sentimenti dei personaggi di cui legge le vicende.
Ma se l’autore dice, cominciano i guai, ché se l’autore dice, è come se io lettrice mi ritrovo con il terzo incomodo, l’autore. È come, restando in metafora, se nel letto ci fosse una terza persona; la mamma – o peggio ancora – la suocera. E non è esattamente un’esperienza piacevole, almeno non per gli amanti del genere!
L’autrice dice più e più e più volte una serie di informazioni su Shizue, ma non ce la mostra. Sottolinea in grassetto delle frasi che avrebbero avuto una maggiore forza se solo fossero state o dei pensieri di Shizue, oppure se l’autrice avesse deciso di mettere in bocca suddetti pensieri a qualcun altro personaggio. Invece, inserendole all’interno del racconto, tramite il filtro della voce narrante, è come se l’autrice avesse lasciato una scia d’evidenziatore su un testo in bianco e nero. Spicca, certo; ma dice, non mostra, ed è un peccato, ché se l’autrice avesse avuto il coraggio di fare un passo indietro, la storia ne avrebbe tratto giovamento. Forse l’autrice deve solo prenderci le misure.
Shizue è un personaggio sopra le righe, si diceva sopra. Capisco che, essendo lei la protagonista, la si debba strutturare con maggiori dettagli e debba avere maggior spazio nell’economia della storia: stiamo facendo una passeggiata nelle sue ossessioni, dopotutto.
Ma si fatica davvero a considerare Shizue una donna giapponese. Shizue è una ragazzina viziata e boriosa – e la sua caratterizzazione riesce benissimo all’autrice; vien quasi voglia di assestarle un paio di schiaffi. A Shizue, non all’autrice, sia chiaro! – ma la vedo più come una donna italiana, europea al massimo, non come una giapponese.
Non esiste società più ossessionata dal senso del dovere di quella giapponese, e il dovere si declina anche nell’occupare il proprio posto nella società, tramite il lavoro, o tramite il matrimonio. Shizue lavora, è una fotografa; eppure, parla di sé come se la fotografa fosse un’estranea. Il fatto che consideri suo padre, il rispettabile notaio – anche se temo che la figura del notaio sia un retaggio medievale che sopravvive soltanto in Italia – di buona famiglia, sia una specie di bancomat cui accedere per soddisfare i propri sfizi. E io mi chiedo perché il padre di Shizue non abbia chiuso da tempo i cordoni della borsa.
Le stravaganze si possono accettare durante l’adolescenza – si tende a chiudere un occhio nelle famiglie normali, non nella buona società – ma se è vero che il padre di Shizue occupa un posto in società, io lettore mi aspetto che costui tenti di rimettere in riga la figlia. In Giappone esistono i nullafacenti, sia chiaro; ma sono esterni alla società. Non hanno legami, radici. La società giapponese è molto simile ad un formicaio, o ad un alveare: in gruppo, si vince. Da soli, si perde, e le figure solitarie sono destinate ad una fine tragica e disperata.
Ma mettiamo il caso che il padre di Shizue abbia cercato di arginare la figlia trovandole un lavoro come fotografa: costei, Shizue, viaggia senza posa, a destra e a sinistra per i suoi reportage fotografici. Chi paga? Perché questi viaggi sono costosi, e i giornali, anche il National Geographic, difficilmente pagano tutto il viaggio: alle volte, quando va bene, si ha o l’albergo o il volo; quando va male, c’è un rimborso spese, che spesso non può sforare un certo tetto. Shizue, invece, viaggia a destra e a manca, senza nemmeno preoccuparsi di sistemare le proprie fotografie o di stendere i resoconti di viaggio che le sono stati commissionati. Anzi, Shizue arriva a denigrare il proprio lavoro affermando di collaborare con un giornaletto sovvenzionato dal proprio paparino.
La stranezza sta nel fatto che anche quando si svolge una professione artistica – che sono quelle meno benviste dalla società – si cerca di renderle presentabili e appetibili, agli occhi della gente. Shizue, no. Shizue sfida quasi il mondo, e a venticinque anni (se ho ben compreso l’età della protagonista) è un po’ tardi per farsi prendere dalle crisi di ribellione adolescenziale, no?
L’impressione che se ne ricava è che all’autrice piacesse l’idea di ambientare questa vicenda in un paese straniero; desiderio più che legittimo, ma quando si attuano codeste scelte, si deve tenere conto della società in cui si va ad inserire il racconto. Qui, ancora una volta, non si sono prese bene le misure, col risultato di avere un Giappone di nome e non di fatto, del tutto sovrapponibile all’Italia.
Le ossessioni di Shizue sono ben poca cosa rispetto all’approccio che la protagonista ha nei confronti del mondo. Shizue sembrerebbe affetta da un delirio di onnipotenza, più che da un’ossessione. Le ossessioni sono paure. E o le si teme – generando delle fobie – o le si porta avanti attivamente – e si generano le manie. Shizue, qui, ha solo paura di essere banale. Se ripetesse due volte la stessa azione, non si fermerebbe il mondo, non proverebbe una paura irrazionale che le blocchi il respiro; l’unica cosa che indispettirebbe Shizue sarebbe essere simile alle altre persone.
Shizue si sente onnipotente, al punto da permettersi qualsiasi nefandezza, dall’usare una donna come se fosse una bambola, all’accoltellare una ragazza, al rivelare le sue colpe con i poliziotti dall’altra parte di una parete. Certo, poi paga le sue colpe – e ci mancherebbe altro! – ma qui non c’è l’ossessione di fare le cose in maniera sempre diversa, quanto quella di non essere banale, un delirio di onnipotenza che l’autrice è riuscita a rendere benissimo. Peccato davvero per la mancata aderenza alla cultura giapponese. Peccato davvero.
SERVIZIO (grafica e impaginazione): 6/10
Quello che si nota subito è una certa compattezza del testo. C’è poco spazio, poco respiro.
In alto a sinistra troviamo il classico schema che i giudici di un concorso impongono – resti tra noi, ma li trovo odiosi È come avere una staccionata in mezzo al proprio giardino, tra il cancello e la porta di casa. – e c’è poco da fare, se non rispettare le regole. Però si può ovviare a quest’obbligo inserendo qualche spazio in più tra le note obbligatorie e il titolo. Da evitare il sottolineato per il titolo.
Anche un’interlinea (tra 1,5 e 2,0) non guasterebbe. Quando si legge un testo su di un supporto elettronico – specie se retro-illuminato come lo schermo di un computer o quello di uno smartphone – ci si stanca con maggiore facilità rispetto alla parola su carta stampata.
Più spazio si inserisce tra una riga e l’altra del testo, meno l’occhio si affatica e più si gode una storia. Si tende a dimenticarlo troppo spesso, così come si tende a dimenticare di andare a capo il più spesso possibile, onde evitare dei periodi troppo densi.
Quanto agli stili, c’è una sorta di insicurezza che porta a strafare. Corsivo e virgolette alte per i pensieri si rivelano pleonastiche. O l’uno, o le altre. Il troppo stroppia. Il corsivo regala anche enfasi a ciò che evidenzia, come se la voce calcasse la parola o la frase in questione. Qui è usato per sottolineare il carattere della protagonista e i suoi sentimenti – invece di mostrarli al lettore – e non per le parole straniere. Maid, -san e –sama sono termini stranieri, e il corsivo ci vuole. È come se fossero delle eccezioni all’interno della lingua usata per il racconto – in questo caso, l’italiano – e le eccezioni si sottolineano, che sia tramite lo stile corsivo o tramite delle virgolette alte.
Non ho apprezzato l’uso della parola maid come sinonimo di cameriera. Non lo è. Lo è per i giapponesi, che distinguono tra メイド (maid), ウェイトレス (waitress, che è colui o colei che troviamo nei ristoranti), e 給仕 (Kyuji, cameriere in giapponese). Per loro ha senso usare un termine al posto di un altro, ché maid indica solo la cameriera col grembiulino bianco e la crestina che lavora in certi locali, e nient’altro. Maid non fa parte del vocabolario italiano, e l’autrice avrebbe dovuto usare il nostrano cameriera.
Anche il nome del locale è a metà strada. L’opzione migliore sarebbe stata Pink Maid, rispetto ad un pedissequo Pinku Maido.
Ho davvero apprezzato l’uso di È al posto dell’abusato ed inflazionato E’, che ritroviamo anche nei libri stampati – romanzi o saggi che siano.
Ho trovato un solo refuso in tutto il racconto: Spero che le mie ragazze l’abbiano servita con cortesia.
CONTO (gradimento personale e attinenza alle note): 6/10
Purtroppo, il voto deve tenere conto delle problematiche riscontrate nella sezione Menù. La sufficienza arriva grazie ai dialoghi e al rispetto alle regole grammaticali e sintattiche, qualità rare nel mondo della scrittura amatoriale, e perché i suoi personaggi mi hanno suscitato dei sentimenti forti: pietà per Mae e antipatia viscerale per Shizue.
La sufficienza, però, è data dal senso di straniamento che mi ha lasciato la lettura di questa storia. Il titolo suggerisce una cosa, l’intro aggiusta il tiro, ma la lettura mi pone di fronte a tutt’altro.
Mi aspettavo di leggere di un’ossessione – che può portare ad esiti violenti, sia chiaro! – ma qui l’unica ossessione che io riscontro non è tanto quella di compiere due volte la stessa azione, o di compierla nello stesso modo per più di una volta – ossessione che ci accoglie e abbraccia all’inizio della storia, ma poi scema, finendo quasi in sordina; qui l’ossessione è più quella di non essere come gli altri, che vivono le loro vite secondo schemi prestabiliti. Shizue si sente quasi superiore al resto dell’umanità proprio per questa sua ossessione di non ripetere due volte la stessa azione: è questo che interessa a Shizue, essere superiore al suo prossimo. È come se l’obiettivo scivolasse dalle piccole manie di Shizue – che assomigliano più a vezzi, a pallini, che a vere e proprie ossessioni – al suo latente delirio d’onnipotenza, che esplode come una granata tra le mani.
Gli altri, vivendo le loro vite lungo binari rassicuranti, ai suoi occhi assomigliano a bambole di carne, pecore al pascolo o poco più.
Shizue tramite i suoi comportamenti – che generano l’abitudine di evitare l’abitudine, paradosso dei paradossi – è come se potesse considerare se stessa l’unico, solo e vero essere umano.
Forse non avrei mai letto questo racconto se non fosse stato per l’iniziativa in corso, ché tendo ad evitare le storie con un risvolto psicologico: sono complesse da rendere e da gestire; ma, se ben scritte, sono molto, molto interessanti.
Ma l’audacia va premiata. Proprio perché non sono facili da gestire e da rendere, costituiscono delle sfide di per sé. E solo il fatto di averci provato merita un incoraggiamento.
Mi sento, però, di dare un consiglio all’autrice, quello di documentarsi meglio, prima di ambientare un racconto in un paese straniero così diverso dal nostro. L’ambientazione di un racconto è importante, sia quella storica, sia quella geografico-culturale. Se questo racconto fosse stato ambientato in Italia – magari ideando l’apertura di un Maid Cafè, che so?, a Milano, Firenze, Roma o Napoli – sarebbe stato molto, ma molto, ma molto più rotondo e ben radicato, e il mio voto, di conseguenza, sarebbe stato più alto.
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