Era da molto – moltissimo – che volevo recensirti, ma non l’ho mai fatto (e questo perché sono pigra) per lo stesso motivo per cui volevo disperatamente farlo: sei una delle mie autrici preferite. E non è che lo dica così, tanto per dire, lo dico perché è la sacrosanta verità: ho letto e riletto le tue storie – questa in particolare, perché questa è speciale. Non perché è la mia preferita – perché trovo che tutte le fic nel tuo profilo siano così riuscite e così vicine al mio modo di sentire da non poter scalare una classifica – ma perché è come un cristallo. Trasparente, preziosissima, fredda, e lucente. Sì, uh, okay. Così sembro solo pazza. Ricominciamo.
Trovo che questa storia debba essere letta più di una volta, che debba essere letta così tanto da perdere di vista il significato (o più che altro la struttura stessa, ecco), perché non ha una morale, d’accordo, ma il fine sta proprio nel non avere una fine, non avere una trama. Avere solo una vita vuota come il bicchiere della madre di Lucius durante i pranzi, ma con in realtà un contenuto che non si vede, che è un bianco più bianco, uno sporco che c’è ma si può solo intuire in contrasto col vuoto alle pareti.
Sono solo immagini e luoghi comuni (i ritratti crepati, sempre uguali, con pigmenti appena sfumati e i detti di Abraxas, che regolano l’intera esistenza di Lucius e l’intera storia, a partire dal titolo), non c’è niente di nuovo, ed è tutto detto, ridetto, fino allo sfinimento. Così tanto, che messo nero su bianco così, con la semplicità delle cose che ormai si sanno, fa quasi impressione.
Il fil rouge dell’intera vicenda, io l’ho trovato proprio qui: nelle ripetizioni. Nelle immagini che si susseguono sempre uguali e appena diverse, ma solo perché passano anni e cambiano i guanti, le mani, le guance rosse, si aggiungono quadri alle pareti, non c’è mai troppa polvere sui mobili, ma si trovano nuove schegge nei tappeti persiani della villa, al posto delle urla che arrivano da sotto.
Come sempre, ovviamente XD, ho amato particolarmente la scelta di parole, certo, ed in particolare l’appartenersi di Lucius e Narcissa, che non è un amarsi, ma solo perché Lucius e Narcissa non sono persone, sono successioni di lettere, sono armocromia, condivisione di silenzi, incontro-fusione di solitudini – sono più che umani e meno che umani, esattamente come nel ritratto che si fanno fare. Mi hanno piacevolmente colpito, anche, immagini ed espressioni, come il vestitino azzurro apocalisse di Narcissa, il ronzio delle api ch’è la voce della madre di Lucius, il sangue, il rossetto, il vino che si mescolano, che sono tutt’uno, che sono, semplicemente, rossi, carminio, un colore poco femminile sull’aspetto acerbo delle due signore Malfoy (almeno fino alle scene finali, dove Cissy è solo simile a sua madre, ma in realtà ha ben poco della precedente “Cara” di Abraxas). E il bianco più bianco, ch’è solo un altro modo per dire che c’è dello sporco che non si vede, l’attenzione generale per gli accostamenti – dai gioielli e gli occhi scelti per i gioielli e non viceversa, al rosa pallido delle labbra, ma anche, forse soprattutto, al bianco e nero della prima notte di nozze e alla scelta dei pezzi degli scacchi, le dita di Cissy che accarezzano le rose e il sangue che non deve sporcarle il vestito – come non dovevano macchiarsi di vino le gonne della moglie di Abraxas.
Altre cose che mi sono piaciute particolarmente: a) le caratterizzazioni. Lucius in primis, dal momento che in fondo è della sua vita che si parla, del modo sottile in cui è in gabbia senza rendersene conto, di come fa suoi i detti del padre, cambiandoli però radicalmente nella forma e lasciandoli uguali nel contenuto (Buon sangue che non mente – buon sangue che mente e mente con costanza, ma non ci sono urla sotto i tappeti, non c’è polvere, è tutto dello stesso bianco, quindi non c’è nulla da dire e perciò non si può mentire; Una donna non si tocca neanche con un fiore – e neppure con le spine. Certo, coi guanti neri è un’altra cosa; il rosso, di nuovo, che non è un colore da donna, non dona nei segni della pelle, nel rossetto, né sui vestiti, ma è, paradossalmente, il rosso del sangue per cui vivono, …)
Ed anche, viste attraverso gli occhi azzurrissimi di Lucius, le caratterizzazioni perfettamente coerenti del padre e della madre, ed infine di Narcissa che è forse quella che cresce di più, matura e cambia: sboccia. Così come cambiano i colori che le donano.
b) I vari parallelismi fra Narcissa e la madre senza nome, ché una bella dose di complesso di Edipo fa sempre bene XD In special modo, il ribaltamento graduale, quasi naturale, di Narcissa che solo sulla carta è come sua madre, ma in realtà è di seta, acciaio e vetro e sa essere dura e spietata come un’arma (come sua madre, invece, proprio non era). Come la storia inizi con sua madre che è un’ombra elegante, che quasi non si vede, che siede sempre nell’angolo giusto della stanza. E finisca con Cissy, che non si deve guardare (e quindi è quasi impossibile da non notare), nell’angolo sbagliato della stanza.
Con Abraxas che usa i guanti anche per accarezzare sua moglie e con Lucius che invece se li toglie, per prendere (no, aspetta, offrire, che è più aristocratico) la mano a Cissy.
E i continui rimandi: il sangue che non è acqua, ma se lo fosse sua madre sarebbe un fiore i fiori che poi finiscono nella tomba – le rose che Narcissa non raccoglie; i tappeti su cui la madre cammina in punta di piedi – i tappeti sotto cui si sento grida – i tappeti fra le cui maglie, a guardare bene, si possono trovare schegge di vetro. E poi di nuovo, il sangue, il sangue che come un talento, un merito, si può vedere da lontano.
c) I dialoghi-non-dialoghi. Così. Perfetti. Oh. L’effetto che hanno lasciato a me, più che di un film in bianco e nero, è quello di una storia raccontata su un arazzo. Come se ci fosse un velo, fra la fiaba e l’ascoltatore, qualcosa che dovrebbe edulcorare, ma in realtà rende solo più evidente in non detto. Perché questa è in effetti una favola di sangue, una tragedia annunciata, ma è molto dolce, nei termini in cui è raccontata. Lascia solo all’ultimo la sensazione raccapricciante dello sporco che c’è ma non si vede e delle urla attutite dai tappeti e io continuo a ripetermi perché, davvero, non ci sono similitudini più azzeccate di quelle che hai usato tu.
E qui posso tranquillamente allacciami al punto d), perché in realtà non è un vero punto, ma solo un “ramo” del c): la mancata morale, chiamiamola così. Il fatto che questa non è una favola (non ha morale), ma è una fiaba: la storia di una vita già decisa, precisa, tutta racchiusa in un armadio. E qui riporto pari pari quello che hai scritto tu, ché se no non la finisco più: “Suo padre gli raccontava delle Sacre Ventotto prima di andare a dormire, tra le mani guantate una prima edizione de’ Il Canone dei Purosangue di Cantankerus Nott: se una storia fa addormentare un bambino con un sorriso sulle labbra, qualcuno potrebbe dire, è una fiaba. Lucius è fortunato, però, perché l’unica fiaba che gli sia mai servita per sorridere è la propria vita […] Questa è la loro storia, e non c’è alcuna morale, e se la si racconta troppo tardi non lascia più dormire.”
Il fatto è che tutto, in questa OS, grida È GIÀ SUCCESSO, ad Abraxas e alla Cara Signora Malfoy, È GIÀ SUCCESSO, a tutti i quadri che nascondono il bianco più bianco, e celano lo sporco che non si vede, È GIÀ SUCCESSO, NULLA DI NUOVO, È GIÀ STATO TUTTO RACCONTATO. E non c’è un riscatto, se non nel cambio-colore dei vestiti, nell’orgoglio sezionato (bellissima scelta di termini) di Lucius e in quello di seta, acciaio e cristallo di Narcissa (che, certo, potrebbe essere scambiato per rassegnazione, ma è affilato e tutto il resto). E nella frase di chiusura, che mamma mia *^*
Be’, okay, questa non è una vera recensione perché in una recensione come si deve bisognerebbe anche dire cosa non è piaciuto, ma non c’è qualcosa che non mi sia piaciuto, per cui uh. Mi rendo conto che suoni come una sviolinata, ma, davvero, ho amato tutto dalla prima all’ultima parola con l’intensità di mille soli. Non ho niente di nuovo da dire.
Forse, ecco, forse c’è una cosa che mi ha lasciata un po’ perplessa, ma che poi ripensandoci ho scoperto azzeccatissima e assolutamente coerente con la dinamica della storia e quindi niente – è il fatto che questa storia (una trama che non è una trama, una vita riassumibile in un ritratto con gli stessi pigmenti) non ha un nodo. Un argine. Un momento in cui il flusso continuo si blocca, per poi sciogliersi in altro modo. Continua imperterrita, incurante, tutta allo stesso modo, fino a quando, alla fine- ah, ma è già finita? Non si nota subito, non si riconosce immediatamente, lo svolgimento, la rottura dell’equilibrio iniziale. Solo che, be’, c’è, ma è in fondo. Così infondo, nelle ultimissime righe, che poi c’è solo lo spazio per la conclusione, che però non ristabilisce l’equilibrio, ma lo cambia, lo riscrive, delinea nuove regole. Che poi è una cosa che si ricongiunge al discorso favola-fiaba, a nessuna morale etc etc, ma lì per lì mi ha lasciato con un senso di incompiuto che non riuscivo a sciogliere (in realtà, poi, è proprio questo uno degli aspetti che ho amato di più della OS, ma, ecco, questo solo col senno di poi.)
(A questo punto, stabilito che questa non è una recensione, ma solo una serie di fangirlamenti senza un filo logico, posso dirti che una delle mie scene preferite è quella del matrimonio, subito seguita dal pranzo con Abraxas che parla dei Valpurga e la madre che per la prima volta “Caro…” lo interrompe, ma poi nulla di nuovo, nessun rumore, solo il sole abbacinante e la tovaglia macchiata.
Ma — il matrimonio. Cioè, il ballo. La costola. Il vestito rosso alle prove, e le caviglie fasciate e Lucius che pensava che Narcissa fosse fatta per ballare e invece no, e – l’ho già detta la costola? – e come il fatto che il nome di Cissy non sia importante, anche se non sa che effetto fa sulle sue labbra pallide e fra i suoi denti un po’ storti, almeno finché non scopre che L, M, N.
e poi si sposano il 29 Febbraio. Perché la classe, come il sangue, non è acqua – ma loro hanno comunque un sangue così puro che in un bicchiere sarebbe trasparente. Il. Ventinove. Febbraio. Ché “c’è un certo fascino a sposarsi in un giorno che sposso non esiste.” Penso di aver strillato di gioia, a quel punto.)
E, well, niente, okay, è tutto fantastico,
(Tutto questo in effetti solo per dire: è tutto fantastico.)
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