Ma allora dillo, che ti sei messa d'impegno per farmi stamazzare a terra.
E no, diciamo pure che il caldo di questi giorni non c'entra granchè. Anzi. Sei tu! Colpa tua! Perchè non puoi fare così. Nononono! Non puoi spuntare quatta quatta come un funghetto, mentre me ne sto qui a cercare documenti sull'autonomia trentina, e uscirtene con. Con questo!
Che mi riporta in mente la mia Parigi, la sua atmosfera. Che mi si fissa nello stomaco con la quotidianità delle atmosfere della prima parte, e la malinconia dell'esule della seconda. Non puoi fare così o, ti avverto, mi avrai sulla cosicenza XD.
Scherzi a parte, è stupenda. Davvoro.
E poco importa se la Marsigliese è uno delgi inni nazionali più sanguinari al mondo. C'è la vita, in quell'inno. La vita con le sue crudezze e la sua realtà sbattuta in faccia; la vita che è una battaglia per tirare avanti un giorno in più, ogni giorno, da quando hai emesso il primo vagito.
La vita che senti in quei due quadretti che hai trattteggiato, rapidi e aguzzi. Perchè sono due verità, e verita messe così fanno sempre male.
C'è la memoria, e ha un sapore vagamente proustiano, nella prima parte. Il ricordo di un'infanzia che sa di lavanda e cicale, il ricordo di un'altra vita, un'altro mondo, un altro tempo. E c'è Camus. Anzi Etienne. C'è la sua nostalgia e quella determinazione che è solo sua, quel modo di vivere Atena che appartiene ad un bambino francese cresciuto sotto il cielo di Grecia. E i ghiacci della Siberia, ovvio.
Ma qui siamo lontani dalla battaglia. Eppure è così presente. Così pesante.
Come la memoria. Come il peso dei ricordi e delle consapevolezze delle scelte fatte. Come il ricordo sfumato di una patria lasciata alle spalle per un'altra patria. Una patria che non è nè terra nè cielo, ma gli occhi di una donna e l'ideale che le sorride sulle labbra. Per una patria che sono campi di battaglia, rossi come il sangue, come i tramonti sulla Senna, come le labbra delle donne di Pigalle. Rossi come è rossa la bandiera di Francia (una banda. Ok.), l'eco di una canzone e il riverbero dei capelli di Etienne ai piedi del Palladio (che, tra parentesi, tu non puoi snocciolare così questa parola. Con la grazia di una danza. Mi hai fatto morire, quando l'ho letta. Mo.ri.re!).
E ti pogno una domanda: queste drabble. In queste drabble cui ti stai dedicando, mi chiedo se tu in qualche modo non ti sia messa in testa di creare come degli archetipi. Oddio. Forse forse archetipi in senso jungiano no. Ma qualcosa di simile. Delle immagini di sentimenti, di condizioni.
O forse sono io che ce le vedo. Sono io che sovrascirvo all'evocaticità delle tue parole.
Comunque. Se Aioros era ai miei occhi l'innamorato, Camus è l'esule.
L'uomo che sa cos'è la nostalgia per la patria smarrita; l'uomo che la ricorda con rimpianto e dolcezza, che basta il soffio di una canzone, una data sul calendario, un colore intravisto di sfuggita, per riportarla alla sua memoria. Viva e presente e pulsante. E da far male. Molto male.
Ma è anche l'esule che si è rassegnato; che ha capito cosa ha perso e lasciato. E si acocntenta. Complemamente. Di una nuova patria, di una nuova realtà, di una quotidianità che forse non ha gli accenti melodici del francese, ma la musicalità impennate dell'attico, il fagocitarsi delle lettere del cicladico, la durezza del dorico. O qualsiasi altra cosa ti passi per la mente. Ma che può, vuole, sente di poter chiamre casa.
Anche in giorno come questo, quando l'infanzia bussa alla porta e ti ritrovi a conticchiare una canzone di morte e di sangue, di cambiamento e rivoluzione, all'ombra della statua di quella dea che hai scelto di seguire. Senza rimpianti.
Grazie!!!
Davvero! Mi stai ravvivando questi giorni di frenetica attesa. E mi stai regalando boccate d'ossigeno. Meravigliosa! (la drabble; e tu. Soprattutto tu!)
Un abbraccio |