Aspettavo da tempo che qualcuno mettesse una pezza al comportamento dissennato tenuto da Camus in <i>Soul of Gold</i>. Aspettavo che qualcuno mi spiegasse perché costui (Camus) rinsavisse non davanti ad un Milo congelato prima e arrostito poi, ma davanti a Shura. Insomma, “amico di qua, fratocugino di là” e poi?
Ma mai disperare, come diceva quel tale, ché spesso la vita ti fornisce delle spiegazioni – o ti allunga una zolletta di zucchero – quando meno te lo aspetti. Che è anche il momento in cui tu ne hai più bisogno. E sì, avevo bisogno di leggere qualcosa di tuo, sulla faccenda, ché una cosa del genere no, non può passare inosservata. Sotto silenzio. Il silenzio è d’oro, ma certe volte è più eloquente di qualsiasi orazione si potrebbe mai assemblare (con buona pace di Cicerone, s’intende).
Quindi, grazie.
Grazie per aver scritto questa storia (ché sì, sarà pure lunga, non lo metto in dubbio; ma da quando in qua la lunghezza è un problema?, chiese la studentessa alle prese colla versione di un testo di Erodoto).
Grazie per averci provato.
Grazie per aver messo in scena questi due adorabili cretini (detto con tutto l’amore del mondo, s’intende!), di averli spogliati delle corazze, sia in senso metaforico che in quello letterale, e di aver fatto emergere gli uomini che si nascondo al di sotto. Con le loro ferite, con le loro paure, con i loro rimpianti e i loro ricordi.
Grazie per aver costruito un passato per ciascuno di loro. Grazie per averci mostrato che le persone come i personaggi (quelli scritti bene, s’intende!), non spuntano dal terreno, come una pianta infestante, che ieri non c’era ed oggi ha invaso il tuo giardino, ma che hanno radici, un passato, dei ricordi.
Grazie per averci mostrato il povero Milo farsi carico delle incombenze relative alla dipartita di un caro amico: il portare la ferale notizia, il seguire il corteo funebre della madre del tuo amico, il vegliare, a modo tuo, sulla famiglia e sull’allievo che il caro estinto ha lasciato alle sue spalle. Diventare parte, di quelle vite, come a compensazione, come a voler ripagare colla propria, di vita, quell’assenza che, in fondo in fondo, credi sia colpa tua. Anche se ti assolvi – in parte – dicendoti che non avresti potuto prevedere una simile reazione, da parte sua, una simile testardaggine. Anche se ti dici che ti è scappato di mano, nemmeno fosse il filo di un palloncino (sempre rosso) o quello di un aquilone dispettoso che è andato a farsi un giretto nell’azzurra immensità del cielo.
Grazie per averci fatto conoscere un Camus, il tuo Camus, dal nome impronunciabile, cocciuto come solo un bretone sa essere, freddo non tanto per carattere, quanto per imposizione: schivo, riservato. Una persona – due persone – che risolvono la situazione smettendo di ignorare l’elefante in salotto e guardandosi in faccia (pur se nella complice connivenza della penombra) e rimettono assieme i cocci di una vita davanti al mare di notte, alla pioggia che incombe, ad un braciere e a delle bottiglie di sidro.
La parte migliore è stata, senza dubbio, quella in cui hai eviscerato i nostri due baldi ragazzotti come se fossero delle trote da fare al forno. Non ci sei andata giù leggera, ma hai fatto quello che dovevi fare. Noi lettori volevamo vedere oltre le corazze metaforiche e letterali che ciascuno di noi si porta addosso, oltre le ferite, le incomprensioni, i silenzi. Ché sì, Louan ha fottuto Milo. Totalmente. Completamente. <i>One more time</i>, mi verrebbe da dire – da canticchiare – contando anche l’incidente alla Settima Casa, quando il gioco è scappato di mano a tutti e due (la scalata del Santuario durante il risveglio di Ade non la conto, ché lì, almeno alla fine, il nostro Milo ha avuto contezza di cosa diamine stesse accadendo e ha potuto rimettere il tutto in prospettiva. Pure se ha stretto le sue dita attorno al collo di Camus.).
Ma, mi permetto di aggiungere, il problema non sta tanto nell’averlo gonfiato come una zampogna e nell’aver voltato le spalle ad Athena (rigorosamente in quest’ordine, tanto Anissa ne è consapevole e non s’arrabbierà con loro tramutandoli in due ragnacci pelosi), quanto nell’aver dato per scontato, da parte di Louan, che Milo avrebbe capito.
Ed è una reazione umanissima, intendiamoci: quante volte pecchiamo allo stesso modo, con le persone che ci stanno vicino, come se loro fossero nella nostra testa e partecipassero dei nostri stessi pensieri?
Innumerevoli.
Tutti i santi giorni.
Ma se il silenzio è d’oro, alle volte la parola è più importante. Alle volte, occorre chiarire, per evitare qualsivoglia malinteso. Ma per chiarire – per prendere il toro per le corna – devi avere il coraggio di guardare in faccia l’altro. E il coraggio, come diceva un certo personaggio, uno non se lo può dare. O ce l’hai, e guardi nelle palle degli occhi chi hai di fronte – compreso colui al quale hai accoppato l’adorato fratello maggiore – oppure glissi. Ti nascondi. Svicoli. Come fanno capesante, granchi e aragoste, scivolando sotto alla prima roccia disponibile. Fino a quando, da sotto a quella roccia, non ti viene a stanare un altro esperto. Uno scorpione. Che avrà sì il carapace croccante – e le chele di un’aragosta quanto vuoi che ci mettano ad avere ragione di una corazza chitinosa? – ma <i>in cauda venenum</i>. Letteralmente. E anche se non lo strozza, Milo riesce comunque a cantargliene quattro, al suo amico (e sono sincera, c’è stato un momento in cui avrei assestato a Louan una serie di schiaffoni ben piazzati), tanto, che ha da perdere?
Meglio un finale col botto, che una lenta agonia.
Meglio le grida, dell’indifferenza.
Alle grida, alle parole, ai fatti, puoi rispondere; ma come rispondi all’indifferenza? Come ti difendi, se non spaccandola tu per primo?
E mi è davvero piaciuto vedere come questi guerrieri, alla fine, giochino a dadi colle proprie esistenze: un costante rilancio, un costante affidarsi ad un bluff – per convincere Surtur, per giocare alla pari con Andreas/Loki, ma anche per fregare Ade colla sua stessa medicina – un puntare sul piatto tutto ciò che hanno in mano affidandosi al coraggio – o all’incoscienza – che ti fa giocare anche quando non si possiede neppure una coppia vestita, ma, al massimo, un paio di sette. Quando gira bene.
E non è per scommessa che Milo lo ha raggiunto nella sua tana?
Mi piace la coerenza interna; che non è solo chiamare le cose col loro nome e ricordarsi che Tizio è mancino o adora il gelato alla fragola. La coerenza interna è quel filo rosso che scorre per tutta la storia, il racconto, la novella, e si riaffaccia, sempre uguale a se stessa. Qui ne possiamo contare diverse: la metafora della vita come una partita di poker; il superare un lutto (e sì, Anatolji ha tutta la mia stima quando afferma che non esiste un modo giusto ed uno sbagliato per affrontare un lutto, ma solo quello che tu riesci a trovare, quello che ti si adatta sulle spalle come un vestito su misura); il tradimento/incomprensione (che Camus non è la prima volta che delude Milo, e Milo non è la prima volta che ripone un’eccessiva fiducia nel bretolone taciturno); l’essere come due pettini, due conchiglie di San Giacomo, che non si aprono colla forza, ma col calore della padella sul fuoco (o di un provvidenziale vecchio braciere piazzato davanti alle sedie a sdraio); la voglia, nonostante tutto, di riprovarci, di ricucire quello che ci è rimasto tra le mani. O, quantomeno, di fare un tentativo. Per tutto quello che sono stati. Per quello che potrebbero essere. Perché sì, dici bene, alla fine della novella: il passato è passato e non si può pretendere che ritorni tutto com’era prima (ché se questo com’era prima fosse andato bene, non si sarebbe arrivati a questo punto, no?); ma si può costruire qualcosa di nuovo, una volta sgombrate le nuvole e le incomprensioni e i non detti.
Insomma, hanno attraversato l’ora più buia, che è sempre quella che precede l’alba, ed è stato bello vedere come anche la natura – la scenografia – partecipasse di questa chiacchierata, con quel freddo che solo la rena umida sa regalarti – che ti entra nelle ossa per benino, pure se tu te ne stai nel caldo afoso di Roma, e non su di una spiaggia bretone – e quell’invadenza che solo la salsedine possiede – e che ti entra dritto per dritto nel naso, nei polmoni, ovunque, regalandoti qualche lacrimuccia di nostalgia, quella che provi quando incontri un vecchio amico. E la dolcezza quasi stucchevole del sidro che t’invade la bocca e lo stomaco e.
È stato bello.
È stato bello vedere questa scena, questo chiarimento, ché no, non potevano bastare le due parole in croce che si sono scambiati Milo e Camus prima di finire a fare a cazzotti col cattivone di turno.
Non bastavano a me.
Non bastavano a te.
È stato bello trovare un senso a tutta la faccenda; è stato bello entrare nelle teste dei personaggi in punta di piedi, con la tua penna che ci ha dato l’impressione di assistere alla nascita stessa di quei pensieri – e in questo, tu sei maestra indiscussa; è stato bello – e qui parla la vanità della lettrice – vedere tornare nella tua storia alcuni punti di vista che sono anche miei, da quel <i>Lo so io. E lo sai anche tu.</i> al sacchetto di frattaglie da gettare ai corvi.
È stato bello perché mi ha dimostrato – ancora una volta, anche se non ce n’era bisogno – una comunanza di visioni e di sensibilità che fa davvero piacere condividere con qualcuno come te.
Un’ottima storia.
E, anche se ti diranno che è lunga, chissenefrega. Quando qualcuno vuole leggerti, il tempo – ed il modo – lo trova. Cascasse il mondo. Se poi piove anche qui che Dio la manda giù… Peccato, solo, non avere l’odore del mare ad invaderti le narici colla sua grazia ferina.
Alla prossima!!
P.S. Pur se non l’ho menzionato durante la recensione, questa storia mi lascia con una vaga inquietudine, colla paura mista alla voglia di capire fino in fondo a cosa alludesse Camus quando parlava del corpo di Aiolos. Ché sì, l’ho capito: come può essere quello, il corpo di qualcuno che è morto passato a fil di spada, se non ha neppure un graffio che sia uno?
Temo di avere la risposta.
E temo che farà scopa con quella che, prima o poi, darai tu. E non so se esserne contenta o spaventata. Non tanto dalla comunanza della risposta (non potrebbe farmi che piacere), quanto dalla risposta in sé e per sé…
Com’era, la faccenda di Pandora e del vaso, e del gatto e della curiosità?
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