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Autore: Sylphs    24/03/2012    5 recensioni
Questa è una storia di mia invenzione che si ispira a grandi linee ad uno dei miei romanzi preferiti, "Il Fantasma dell'Opera". Irene, ragazza distratta e persa nel suo mondo, si trasferisce insieme al padre nella sperduta Heather Ville, una residenza recentemente ristrutturata a seguito di un misterioso incendio. Nel corso del suo soggiorno in quell'oscuro palazzo, si rende lentamente conto di avvertire una presenza intorno a sè che una notte, all'improvviso, decide di manifestarsi a lei...attratta dalla magia e dal romanticismo della situazione, la giovane si farà trascinare suo malgrado in una spirale di follia, di morte e di pericolo, per lei e per tutti coloro che ama. Spero che qualcuno leggerà, sarebbe importante per me!
Genere: Dark, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Amore di sangue'
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HEATHER VILLE

 
 
 
 
 
 
Irene aveva sempre saputo, fin da quando suo padre gliel’aveva comunicato, che le sarebbe piaciuto andare a vivere ad Heather Ville. E questo non solo perché la vita di città era terribilmente noiosa, e non c’era nessuno con cui parlare sul serio, e il suo animo si fosse sempre sentito fuori posto nella loro vecchia residenza, ma anche perché le parole con cui gliel’aveva descritta erano così piene di delizioso mistero che avevano solleticato la fantasia fervida della ragazza: “Un’abitazione molto grande, sperduta in campagna, poco lontana dalla città, come si vedono in quei vecchi film gotici di un tempo”.
La mente di Irene era partita a briglia sciolta dietro ad una serie di ipotesi, una più strana ed affascinante dell’altra, sull’aspetto della sua nuova casa. Il mistero, l’oscurità l’affascinavano fin da quando era bambina, e la prospettiva di vivere sperduta nel nulla in una grande casa abbandonata come la protagonista di una storia avvincente la riempiva di eccitazione. Durante gli ultimi giorni in città non aveva fatto altro che attendere con impazienza che partissero per la loro nuova casa. Il fatto che per parlare con qualcuno avrebbe dovuto percorrere sei chilometri a piedi non la spaventava, anzi, le rendeva il pensiero del trasferimento anche più gradito. Dopo la morte di sua madre, sia lei che suo padre sentivano il bisogno di staccare e di isolarsi dal mondo.
Accoccolata contro il finestrino della loro grande auto, osservava coi suoi grandi e limpidi occhi azzurri il paesaggio campagnolo scorrere al di là del vetro. Alberi dai rami contorti parevano salutarla, campi battuti da un tiepido sole sfilavano davanti ai suoi occhi uno dopo l’altro, ma non c’era né un contadino intento a zappare né una donna china a mungere quelle mandrie di pecore. Non passavano nemmeno le automobili: “Papà, come mai hai scelto proprio Heather Ville?” gli chiese forse per l’ennesima volta.
Giorgio Lancaster guardò con affetto la figlia ormai diventata donna, e in quel momento gli parve simile a una bambina, col suo volto pallido e delicato pieno di curiosità, e i soffici capelli biondi sparsi sulle spalle coperte dal vestito blu. Era bella di una bellezza introversa e fragile, e altrettanto pronta a spezzarsi al minimo dolore: “Perché era la residenza più isolata che ho trovato, Irene. E anche la più grande. Ho mandato Tommaso a sistemarla prima che arrivassimo, così non la troveremo in totale abbandono. Pare sia stata ricostruita da pochi anni, in seguito ad un incendio”.
“E l’hai davvero comprata per così poco?” chiese Irene con la sua voce soave. Giorgio annuì compiaciuto: “Un affare molto conveniente, considerate le dimensioni della residenza. Il tale che se ne occupava era un vecchio senza un occhio che, a parer mio, era leggermente confuso, e aveva una tal fretta di vendermela! Quasi quasi era pronto a cedermela gratis!”
La ragazza sorrise: “Non ci abitava nessuno? Spero che non abbiamo sfrattato qualche poveretto! Ci sono forse dei coinquilini? Una casa così grande…”
“Nessuno” la rassicurò Giorgio: “Il vecchio me l’ha ripetuto diverse volte. È completamente deserta. Sarà tutta per noi. La nostra Heather Ville”.
“La nostra Heather Ville…” ripeté Irene, sognante, guardando il cielo azzurro e chiedendosi che forma avessero le candide nuvole che ci galleggiavano sopra. Era una bella giornata, perfetta per accoglierli nella loro nuova casa. Con la mano affusolata giocherellò, in un gesto ormai divenuto inconscio, con l’anellino d’argento che le aveva regalato Stephan. Sull’argento era scolpito un motivo di rose e rami intrecciati.
Caro Stephan…la ragazza si lasciò sfuggire un lungo sospiro. L’unica cosa che rimpiangeva della sua vecchia vita era proprio lui. Era un bel ragazzo di origini piuttosto modeste, con l’aria del gran lavoratore, che una volta l’aveva notata al mercatino di Natale ed era rimasto attratto dalla sua graziosa fragilità. Tra loro non c’era mai stato nulla, neanche un bacio, ma era sempre aleggiato, silenzioso ma percepibile, un sentimento che s’era intensificato sempre più. Irene non aveva impiegato troppo tempo ad accorgersi dell’interesse di Stephan nei suoi confronti, ma, doveva ammetterlo, in realtà era stata riluttante ad avvicinarsi, e anzi diverse volte era rifuggita. Stephan aveva un bell’aspetto, era più sensibile della maggior parte dei giovanotti di vent’anni e quello che provava per lei era sincero e indistruttibile, ma Irene, con un po’ di senso di colpa, era sempre un po’ disturbata che non potesse offrirle altro che il suo amore e le sue attenzioni. Spesso chiusa nel suo mondo interiore, la giovane sognava ad occhi aperti un compagno interessante e fuori del comune che la portasse con sé a vivere avventure emozionanti e sapesse sorprenderla in ogni momento. Stephan invece era razionale e amante della vita quotidiana, e nel corteggiarla non aveva saputo fare altro che invitarla ai giardinetti pubblici o portarla in giro per negozi. Una cosa molto dolce e altruista, ma a volte, noiosa!
Perciò non era mai stata sicura di ricambiare appieno i suoi sentimenti, poiché però ne apprezzava la compagnia ed era lusingata dello sguardo protettivo che le riservava ogni volta che erano insieme. Quando gli aveva annunciato d’essere in partenza, si era rimproverata d’averlo fatto con troppa freddezza. Stephan, al contrario, l’era parso più triste che mai, anche se aveva cercato di nasconderlo dietro un sorriso forzato: “Se è questo quello che vuoi…”
Ecco, un’altra cosa che gli rimproverava era quel suo ostinarsi ad essere sempre composto e posato, senza mai lasciarsi andare alle emozioni. Se si fosse gettato ai suoi piedi implorandola di restare, e dichiarandole profondo amore, ci avrebbe anche fatto un pensiero, ma quella frase l’aveva raffreddata e anche, sì, indispettita. Se lui l’amava, allora avrebbe dovuto disperarsi che se ne andasse così lontana. Ma in fondo non ne avevano mai parlato, lui gliel’aveva solo fatto capire senza mai dirlo, e quindi perché farlo adesso che stavano per separarsi? Cosa poteva aspettarsi da un ragazzo che solo per prenderle la mano aveva atteso tre mesi, e quando finalmente l’aveva fatto s’era messo a tremare tutto che sembrava stesse male?
“Non sarò troppo lontana” gli aveva risposto bruscamente: “Se vorrai venire a farmi visita, ti basterà viaggiare fino a Heather Ville” e si era chiesta se l’avrebbe fatto, dato che era tanto attaccato all’officina di suo padre e non se ne separava quasi mai. Aveva fatto per andarsene, quando Stephan l’aveva trattenuta per un braccio: “Aspetta!”
Irene rammentò con amarezza il balzo di gradita sorpresa che aveva provato. Finalmente lui l’avrebbe sorpresa, confessandole il suo amore, o prendendola tra le braccia per baciarla come non aveva mai osato fare. Ma lui s’era limitato a porgerle quest’anellino, questo piccolo gioiello: “Tieni… portalo con te” poi si era sporto in avanti, tutto rosso, e le aveva dato un frettoloso bacio sulla guancia. Un bacetto.
Ecco cosa le era rimasto di lui, l’anellino d’argento e quell’insipido bacetto sulla guancia. Scosse la testa, scacciando quel pensiero con lo stesso fastidio con cui avrebbe scacciato una mosca: adesso voleva solo concentrarsi su Heather Ville. Tutto il resto, Stephan compreso, perdeva importanza.
“Ci stiamo avvicinando” l’avvertì suo padre. Anche lui, coi suoi sessant’anni alle spalle, era tutto eccitato della svolta che la loro vita aveva preso. Già, a nessuno dei due importavano solitudine ed isolamento, purché fossero abbinati alla pace e al mistero.
Lo scenario che aveva fatto da protagonista al loro viaggio non era molto cambiato, s’era solo fatto più spoglio e più desolato. L’erba, lunga e mal curata, era piena di cespugli d’erica verde scuro, gli alberi erano lugubri spaventapasseri avvizziti e non c’era traccia di fiori, pascoli e tantomeno di esseri umani. Irene tuttavia non era affatto scoraggiata da tanta desolazione: le sembrava d’essersi trasformata nella giovane bambinaia che in “Suspense” raggiungeva in carrozza la macabra tenuta dei bimbi che avrebbe dovuto accudire. Anzi, aveva la sensazione che quella natura morta si addicesse alla perfezione alla residenza dove sarebbero andati a vivere. Si scostò dal viso una ciocca dei capelli biondi e sul suo volto si fece strada pian piano un sorriso d’approvazione.
Un tempo doveva esserci stata una strada lastricata che conduceva ad Heather Ville, ma adesso era coperta da erbacce e da luridume, e la macchina avanzava a stento, tra sobbalzi e scossoni che facevano vibrare le valigie riposte con cura nel bagagliaio. Giorgio si raccomandò: “Tieniti stretta!”
Lei a malapena l’udiva: aveva scorto, infatti, la grande residenza di cui aveva tanto sognato che si stagliava all’orizzonte in modo sempre più nitido, rivelandosi ai loro occhi. Era esattamente come se l’era immaginata, un palazzo grande e scuro, con le finestre ermeticamente chiuse, un grosso portone di quella che sembrava pietra nera, e un tetto spiovente, che in certi punti era ancora bruciacchiato e inutilizzabile. Non era propriamente un luogo ameno, anzi, era avvolto come da un’aura d’abbandono e d’inquietudine, ma proprio per questo lei fremeva di desiderio al pensiero di entrarci. Non provava alcuna paura per quei muri scrostati, quel prato malcurato che circondava l’edificio, quelle finestre buie, ma solo voglia di scoprire cosa celavano. Tirava un forte vento che le sussurrava nelle orecchie un segreto che però non riusciva a comprendere.
“Oh, papà, è meraviglioso!” esclamò, stringendosi al genitore. Lui però era restato un po’ sorpreso, dato che le foto che gli aveva mostrato il vecchio erano assai più desiderabili: “Non avevo idea che fosse un luogo così dimenticato”.
“Proprio per questo è così bello!” disse la figlia con impeto: “Mi sembra d’essere tornata nel settecento”.
Poco convinto, Giorgio continuò ad osservare la lugubre dimora che s’avvicinava sempre di più. Il loro domestico Tommaso era in attesa davanti al portone, una figura colorata in un quadro bianco e nero, col suo solito portamento impeccabile e un’espressione di sollievo negli occhi quando li vide arrivare. Lo sguardo di Irene si perdeva in ogni sfaccettatura, ogni scrostatura di quell’edificio. Un incendio, aveva detto suo padre…beh, con tutta la ricostruzione, i segni ne erano rimasti!
La macchina si fermò sul prato malcurato davanti ad Heather Ville e la ragazza, impaziente come sempre, uscì in fretta dalla macchina, così in fretta che le prese uno spavento nel constatare quanto freddo faceva. Le battevano i denti. Tommaso accorse e l’avvolse paternamente in una giacca: “Signorina Irene, non dovevi metterti quel vestito così leggero! Qui fa un freddo del diavolo”.
Poi si rivolse cupamente a Giorgio: “Signore, ho dato un’occhiata dentro”.
L’uomo gli sorrise: “Ebbene, Tommaso? Cosa ti sembra?”
“Cosa mi sembra?” gli fece eco quello: “Mi sembra che…beh, non è molto comodo. I ricostruttori non hanno fatto un bel lavoro. C’è tanta sporcizia che sembra di stare in una stalla…e sono rimasti i mobili che c’erano prima dell’incendio. Quelli sopravvissuti, s’intende. Ed ecco, non sono, come dire…gradevoli. Ma guardi lei stesso”.
Mentre i due discutevano, Irene s’era avvicinata al portone e non aveva potuto fare a meno di provare un brivido di timore. Quella casa era antica e immersa nella sua pace, e in qualche modo si sentiva un’intrusa a violarla in quella maniera. In fondo cosa le permetteva di dire che le apparteneva? Un contratto firmato da suo padre, e per di più s’era trattato di una firma molto distratta. Sfiorò timorosamente il portone e rabbrividì. Quel contatto le aveva provocato uno strano senso di freddo. Possibile che Heather Ville non la volesse? Oh, ma che sciocchezza! Lei ora era la proprietaria e si trattava solo della suggestione di una cittadina non abituata a quell’isolamento.
Spinse con decisione il portone e quello, con un cigolio ben udibile, come se non venisse aperto da anni, si spalancò sull’interno della sua nuova casa. Irene fece qualche timoroso passo avanti, poi aggrottò la fronte: “Ma è tutto buio!” la sua voce spezzò come un cupo rintocco il silenzio pastoso che regnava dentro.
“Infatti, signorina Irene” convenne Tommaso. Aveva una lanterna nella mano destra, e con quella illuminava un pavimento di legno vecchio e mangiato dalle tarme, che produceva secchi scricchiolii ogni volta che le loro scarpe lo calpestavano e non aveva un’aria molto stabile. Anche se lei non riusciva a vederlo, sapeva che suo padre era proprio dietro di lei: “Ma com’è possibile?”
“Ho trovato tutte le tende ermeticamente chiuse, le lampade spente, le candele nascoste in posti impensabili” spiegò il domestico, con un piccolo brivido: “Come se, non so, l’oscurità fosse un prezioso tesoro, qui”.
Si avviò a tentoni in direzione di quelle che si supponevano essere le finestre e i suoi piedi produssero scricchiolii sinistri sul pavimento consunto. Irene e suo padre rimasero vicini sulla soglia, intimoriti da tutta quell’oscurità. Il domestico appoggiò la lanterna a terra, poi afferrò le consunte tende di broccato rosso scuro e le separò, invadendo il locale dov’erano della luce del sole di pomeriggio.
Sembrava essere una sorta di sala da pranzo. Un lungo tavolo di mogano, quadrato, era al centro della stanza, con sopra una tovaglia polverosa, sempre rossa, così lunga che toccava terra coi bordi. Sopra al tavolo c’erano due imponenti candelabri d’oro, senza candele. Il lampadario era vecchio e fragile, pieno di cristalli che gettavano riflessi nel buio, e aveva l’aria di cedere alla minima spintarella. La tromba delle scale che portavano al piano superiore cominciava appena dopo il tavolo, e i gradini erano sempre di legno, instabili e scricchiolanti. Irene aveva l’impressione che una pastosa cappa di polvere gravasse su quel locale. Sul soffitto di legno erano rimaste intrappolate alcune ragnatele spesse come stoffa.
Mentre Tommaso si dava da fare coi bagagli e apriva altre finestre, la ragazza si spostò alle camere successive. L’edificio sembrava vasto, ma in realtà dentro era più che altro composto da corridoi lunghi e soffocanti, disadorni, che portavano per lo più a vicoli ciechi oppure a porte cigolanti. Irene ne attraversò qualcuna. Tutte camere buie, e arredate con un gusto pazzo e insano: per esempio nel bagno, accanto ad un vecchio gabinetto ottocentesco, era stata messa una poltrona bucherellata, nella libreria, tra gli scaffali polverosi, c’erano letti o comodini con sopra strane lampade ad olio. Spadroneggiavano il buio e l’atmosfera raccolta, come se anziché essere una casa Heather Ville fosse in realtà un immenso nascondiglio, una prigione polverosa in cui poter restare rinchiusi per sempre.
Irene prese un libro da uno degli scaffali e nel farlo si sollevò una nuvola di polvere che la fece tossire. Aveva la copertina rilegata di cuoio scuro, era senza titolo. Lo aprì e sfogliò qualche pagina ingiallita, che frusciava, fragile, ogni volta che la girava. Era scritto a mano con quello che pareva inchiostro, in una calligrafia fitta e disordinata, quasi illeggibile. A fatica decifrò qualche frase, ma erano a tal punto intricate e senza senso che rimise il libro al suo posto e non ne toccò altri. Pensò di chiedere a suo padre di buttarli per fare spazio ai suoi: erano senza dubbio più interessanti e preziosi di quei volumi pieni di deliri scritti da una mano misteriosa e folle. Nella libreria c’era inoltre un vecchio scrittoio a cui la giovane si avvicinò, curiosa. Lo scrittoio aveva un cassetto, nella cui serratura era infilata una piccola chiave d’oro.
Irene esitò un istante, poi la girò e aprì il cassetto. Dentro c’era un paio di occhialetti da lettura con la montatura d’osso. Quella visione le strappò un sorriso divertito: “Ehi, e voi cosa ci fate qui?” di Tommaso non potevano certo essere. Li prese, se li rigirò tra le mani, poi, scherzosamente, se li mise. Da un occhio continuava a vedere come sempre, sull’altro era però calata come una cappa che rendeva sfocati i contorni delle cose e distorto lo strano mobilio. Si accorse, con un breve trasalimento, che quegli occhiali avevano una lente sì e una no. Che bizzarra cosa. Li ripose in fretta dove stavano e richiuse il cassetto.
Poiché Tommaso non aveva ancora aperto tutte le finestre, e lei voleva proseguire con l’esplorazione, prese con sé una candela che trovò tra i libri e la accese con uno dei fiammiferi che teneva in tasca. Se quella casa doveva diventare sua, allora doveva vederla tutta!
Entrò in quella che probabilmente era una stanza della musica. Pavimento e soffitto erano sempre di legno, e non c’erano mobili se non uno sgabello a tre gambe dinnanzi al quale c’era una vecchia arpa dorata a cui mancava una corda. Irene protese la mano e sfiorò le corde: si diffuse un suono lungo e lamentoso, come un grido di tristezza. Provò a pizzicarne alcune come faceva col suo violino e il brutto suono che le era venuto all’inizio si tramutò in una melodia assai più gradevole a sentirsi.
Un fruscio, lievissimo, come di qualcosa che si trascina. Le arrivò alle orecchie d’improvviso e la fece sussultare. Smise di suonare l’arpa e s’alzò di soprassalto, turbata: “Cos’è stato? Papà, sei tu?”
Non le rispose nessuno, né il fruscio si ripeté. Era stata solo una sua impressione. Voltandosi verso il punto in cui supponeva aveva sentito il rumore, la vide la prima volta. Una grata nei muri, una grata di metallo le cui sbarre erano ricoperte da polvere, sporcizia e ragnatele. Alzò un sopracciglio, perché non aveva mai visto una cosa simile, in nessuna casa che aveva visitato. Ora che ci pensava, la cosa più bizzarra di quella casa erano i muri: tutti bianchi, avevano un’aria assai più fragile del resto, e anzi, in diversi punti erano anneriti e la vernice era scrostata. Non vi erano stati messi né quadri né arazzi.
Si accostò, a dir la verità un po’ spaventata, all’ampia grata da cui credeva era uscito quello strano rumore. Possibile che i muri fossero cavi? Mise la testa più in dentro che poteva, anche se le sbarre le impedivano di farlo in maniera soddisfacente. Solo il buio. Un buio densissimo, tanto denso che la debole fiammella della sua candela non riusciva minimamente a rischiararlo. Oltre quella grata c’erano solo ombre e buio. Irene rinunciò a vederci qualcosa, ma non si arrese, perché era testarda di natura, e se sentiva qualcosa ci metteva un bel po’ prima di convincersi che era stata solo la sua immaginazione. Appoggiò un orecchio al muro in cui era la grata e si mise in ascolto: nulla. Batté il pugno contro l’intonaco e non ne provenne un rumore sordo come in qualsiasi altro muro, ma una sorta di eco che suonava a vuoto. Ripeté l’operazione e ottenne lo stesso suono insolito.
“Uhm” insospettita, si allontanò dalla stanza della musica e andò a raggiungere suo padre e Tommaso, che erano ancora nell’ampia camera da pranzo dell’inizio. Durante il tragitto, si accorse con un sussulto che in ogni stanza c’era una grata d’aspetto identico a quella che aveva visto nella camera della musica, e ogni grata mostrava solo un buio assoluto. Solo i corridoi ne erano privi.
“Tommaso!” esclamò quando ebbe finalmente raggiunto gli altri due. Giorgio era chino ad esaminare un divano pieno di buchi, di pelle, mentre Tommaso era sulla scala coi bagagli: “Sì, signorina Irene?”
“Ho notato una cosa piuttosto insolita nei muri” spiegò lei, tesa, avvistando immediatamente la grata della sala da pranzo, che era nascosta dalle ombre proiettate dalla scala. La indicò: “Quella strana grata è ovunque, e mi induce a pensare che i muri siano cavi, e che dentro ci sia qualcosa. Cunicoli, forse?”
“Che sciocchezza!” disse Giorgio, sbalordito. Irene si sentì punta sul vivo. Non voleva fare la parte di quella che si lasciava suggestionare: “Suonano a vuoto” lo informò seccamente. Per dimostrarlo bussò sul muro e ne venne lo strano rumore. Il padre spalancò gli occhi e guardò Tommaso come in cerca di una spiegazione. Il domestico, però, aveva un’aria calma: “È normale in case così vecchie, signorina Irene” spiegò pacato: “Non c’è niente in quei muri, se non forse dei condotti di areazione. Vedi, un tempo cose come l’aria condizionata non c’erano, e, diciamo così, per rinfrescarsi le persone facevano costruire questi ingegnosi condotti. La grata che vedi serve a far filtrare l’aria nelle stanze”.
Giorgio di tranquillizzò immediatamente e riprese il suo esame, ma Irene continuò ad essere accigliata. Benché avesse fatto la figura dell’ingenua e dell’ignorante, lei quel fruscio l’aveva sentito, e dubitava che un condotto in disuso da anni lo producesse. Ma forse era stata davvero soltanto suggestione. Quella era la sua nuova, splendida casa, e non poteva farsela rovinare da assurdi timori! Tommaso ne sapeva molto più di lei.
“Vieni con me, signorina Irene, ti mostro la tua stanza” la esortò infine il domestico, sollevando non senza fatica la valigia azzurra coi fiocchi della ragazza. S’avviò quindi su per le scale, e Irene gli venne dietro, ancora un po’ turbata dalla questione dei muri. Ogni gradino su cui appoggiava il piede scricchiolava in modo lugubre, tanto che fu costretta ad aggrapparsi al corrimano per timore che la scala le franasse sotto le scarpe. Davanti a lei Tommaso invece saliva con sicurezza, gravato dal peso aggiunto della sua valigia. Probabilmente s’era precedentemente assicurato della stabilità di quei gradini. Al piano superiore il tenore delle stanze era molto simile a quelle che aveva già visitato, e il mobilio c’era ugualmente, nella stessa sbagliata posizione. Poltrone accanto a vasche da bagno, tavolini accanto a tavole più massicce, sparsi in modo disordinato.
Ritraendo le mani nere di sporco dal corrimano, Irene osservò piano: “Sembra quasi che ci sia ancora qualcuno, qui” lasciando scorrere le dita su un vecchio plaid bucato buttato disordinatamente su di una poltrona lurida. Le tornarono alla mente gli occhiali da lettura che aveva trovato nella libreria e il fatto che mancasse una lente. In qualche modo il buio, che regnava sovrano anche al piano superiore, la disturbava, ed era una gioia che Tommaso aprisse tutte le tende che trovava. La luce rivelava ambienti fino al momento prima gravidi di mistero e di zone d’ombra.
Tommaso aprì un uscio dalla maniglia d’ottone: “Io e il signore abbiamo pensato che questa stanza andasse bene per te, signorina Irene” si introdusse nell’ambiente buio e andò ad illuminarlo accendendo una lampada appoggiata sul comodino polveroso piazzato accanto al letto, che aveva lenzuola e federa pulita, ma una vecchia coperta di un rosso stinto che doveva esserci da prima. Irene si fece avanti guardandosi intorno. Era piuttosto piccola e spartana, come stanza: c’era una sola finestra, e, anziché un armadio, una vecchia cassapanca in cui riporre gli indumenti, ma notò subito che era in miglior stato rispetto a molte altre, e il mobilio era sistemato in modo più coerente. Con un brivido vide che la grata non mancava nemmeno lì: era davanti al letto, dava su di esso, e come al solito era nera come la pece.
“Che ne pensi signorina?” la interrogò Tommaso apprensivo, deponendo il bagaglio della ragazza accanto alla cassapanca. Lei diede un’altra lunga occhiata alla stanza e infine tornò a guardarlo coi suoi occhi azzurri: “Direi che và bene. Mi metterò presto a mio agio”.
Il domestico sospirò di sollievo, perché temeva che lei si sarebbe lamentata. In effetti la sua camera in città era stata molto più sontuosa e meno inquietante, ma assai meno misteriosa, perciò Irene si disse che le piaceva proprio. Certo, le prime volte accoccolarsi in quel letto scricchiolante sarebbe stato un po’ strano, ma alla fine si sarebbe abituata.
“Lasciami pure sola, Tommaso” disse al domestico con un sorriso: “Penso io ai bagagli”.
Quello annuì, le fece un rispettoso cenno del capo e si ritirò in fretta, chiudendosi la porta alle spalle. Ritrovandosi sola nella sua nuova stanza, Irene sedette sul letto, che mandò un cigolio sotto il suo peso (era duro come un sasso) e si sfregò le mani: “Ebbene” commentò a se stessa: “Eccomi sistemata” il suo viso era rivolto verso la grata: “Mettiamoci a nostro agio”.
Calciò via gli scomodi stivaletti, si tolse la giacca che aveva indossato fuori e sostituì l’abito da viaggio con una camicia da notte, calzini pesanti e una vestaglia bianca che pescò dalla valigia. Si accorse con insieme disappunto e fastidio che nella stanza non c’erano specchi. Ora che ci pensava bene, non aveva visto un solo specchio in tutta la casa, fatto strano, dato che invece era piena di ogni impensabile cianfrusaglia, anche inutile.
“E ora come faccio a guardarmi, senza specchio?” si lamentò ad alta voce, dato che parlare da sola la aiutava a spezzare il gravoso silenzio: “Che razza di stranezza!” scosse la testa e si pettinò alla meno peggio, disponendosi i capelli come sapeva le stavano meglio, sciolti. Poi, dato che c’erano assai pochi modi di intrattenersi in quella stanza, passò il tempo a riporre ordinatamente i suoi effetti personali nella cassapanca, in cui ebbe la sorpresa di trovare un minuscolo libricino sporco di quella che sembrava fuliggine, sempre scritto a mano, ma che stavolta assomigliava ad un romanzo. Era scritto a metà, poi si interrompeva. L’ennesima bizzarria di Heather Ville, che ormai passava inosservata ai suoi occhi.
Non avendo nient’altro da fare, si distese sullo scomodo letto, con la lampada accesa accanto e si mise a leggere il libricino che aveva trovato. Decifrare quella terribile scrittura era forse più difficile che tradurre un testo dal greco, e certe parole proprio non capiva cosa significassero. Era una specie di diario, da quello che riuscì a capire. Cercare di stargli dietro era però quasi impossibile: un momento prima parlava di un’inconsolabile solitudine e di un continuo isolamento, e lei era quasi entrata in quelle emozioni che si interrompeva bruscamente e prendeva a parlare di tutt’altro, descrivendo nomi e persone totalmente sconosciuti. E la maggior parte di quelle persone erano vittima di pensieri omicidi da parte dell’autore.
Per fare un esempio: “Svegliandomi mi sentivo soffocare, la testa mi scoppiava, desideravo soltanto farla finita per sempre. Il signor Grant è un uomo dalla mente così gretta da non meritare di vivere un solo secondo!”
Quando fuori era già calata la scura notte, Irene rinunciò a finire lo strano libricino e lo appoggiò sul comodino assieme al suo “Orgoglio e pregiudizio”. Si sdraiò supina con un lungo sospiro. Il fatto che il buio della casa si scontrasse stavolta col buio di fuori rendeva ancor più mistica l’atmosfera. L’unica luce a cui poteva aggrapparsi era quella della lampada. Era tornato il freddo, così intenso che tremava e aveva le labbra bluastre. Ma non era riscaldata, quella casa? Si rintanò sotto le coperte e si portò le ginocchia al petto per scaldarsi col calore del proprio corpo, ma il freddo persisteva.
Con la punta delle dita sfiorò l’anello che le aveva regalato Stephan. Pensare a lui la aiutò a scacciare un po’ il senso di solitudine che inevitabilmente le aveva attanagliato il cuore. Caro, manieroso Stephan…sarebbe venuto a farle visita qualche volta? Se dietro il suo sorriso forzato aveva davvero nascosto amore, allora era molto probabile. Sulle labbra le comparve un dolce sorriso, mentre si stringeva ancora di più nelle coperte polverose. Erano sporche, ma calde, in fondo. E in fondo Heather Ville era inquietante, ma le piaceva davvero, le piaceva quella nuova vita romanzesca e ignota.
Passò la sua prima notte lì a dir la verità tra molti tormenti, girandosi e rigirandosi nel letto, madida di sudore nonostante l’intenso freddo, con l’ossessione di essere circondata da fruscii sinistri e suoni strascicati che le si avvicinavano, si allontanavano, tornavano ad accostarsi alla sua stanza, ma non le permettevano di identificare da dove provenivano. Erano probabilmente incubi, perché quando si svegliava di soprassalto, tacevano di colpo, e tutto ripiombava nel silenzio più assoluto.
Sarebbero cessati totalmente una volta che si sarebbe abituata. Doveva soltanto farci l’abitudine.

 
  
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