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Autore: BlueCinnamon15    25/03/2012    3 recensioni
“Blaine-“
“Tu non sai più chi sei, Kurt, tu-“
“BLAINE! Credi che sia stato facile non correre indietro? Credi che non abbia pensato mai a come sarebbe stata la mia vita se non avessi fatto quello che ho fatto? Ma non posso, dannazione, non posso!”
“Il problema è che non mi hai mai detto perché! Una spiegazione, Kurt è tutto quello che ti ho sempre chiesto!”
“Era il mio sogno, Blaine, non potevo lasciarlo, tu mi hai sempre detto di inseguire i miei sogni-“
“Beh, sai che ti dico Kurt? Vaffanculo! Perché indovina un po’ qual’era il mio sogno Kurt? Tu.”
E detto questo si girò e corse via, infilandosi velocemente in macchina e lasciando un Kurt tanto distrutto quanto non si era mai sentito in tutta la sua vita.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Blaine Anderson, Kurt Hummel, Un po' tutti | Coppie: Blaine/Kurt
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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capitolo 1

Benissimo gentaglia, innanzitutto buongiorno, o forse è meglio dire BUONASERA!
Eccomi qua con una nuova storia, non mi ricordo neanche come mi sia venuta inmente, so solo che un pomeriggio sono corsa a casa da scuola con le mani che fremevano perchè avevo una nuova idea e volevo scrivere.
Spero non sia un fiasco totale, ci sto davvero mettendo l'anima e mi farebbe piacere ricevere dei pareri, giusto per sapere se vale la pena continuare o no. *faccina-con-occhi-come-quelli-del-gatto-con-gli-stivali*
Ah, e non preoccupatevi, so che è un capitolo un po' da suicidio perchè è piuttosto malinconico, ma vi prometto che le acque si smuoveranno.

Un grazie a tutti

Buona lettura

Capitolo 1

 
Lo scroscio degli applausi riempì il teatro quando Kurt terminò il suo ultimo assolo. Fu talmente forte e pieno che ne fece tremare le pareti, gli rimbombò nelle orecchie e arrivò dritto al cuore, facendolo pulsare più forte.

Le guance gli si colorarono di rosso acceso e gli occhi brillarono riempiendosi di lacrime malcelate di felicità e soddisfazione, di fronte a quell’ aspettato successo.

Kurt amava paragonare come si sentiva sul palco all’ innamorarsi, il cuore che batte più forte, la sensazione di galleggiare nell’ aria, gli occhi lucidi e l’emozione che rimane intrappolata nella gola, impendendone il respiro.

Amava pensare ciò perché forse lo aiutava a sentirsi un po’ meno solo, un po’ meno triste, e lo illudeva che la sua vita fosse un successo in tutti i campi, non solo sul palcoscenico.

Kurt era veramente innamorato, era innamorato delle travi di legno scuro del teatro di Broadway, del pesante tessuto rosso del sipario, del sottile filo di luce che si intravedeva tra i due lembi accostati, quando lo spettacolo non era ancora iniziato e la sala iniziava a riempirsi, amava i profumi delle donne di alta classe che si sedevano nei divanetti sventolando un ventaglio ostentandone gli intarsi di diamanti, e i minuscoli grani di polvere che intravedeva nell’ aria quando cercava di distrarsi per non cadere nel panico.

Ma soprattutto amava il credersi innamorato. Perché se non si fosse creduto tale probabilmente sarebbe affondato, scivolato su una di quelle belle travi marroni o inciampato nel tessuto rosso cadendo dal palcoscenico rimanendo fermo, immobile.
Perché solo quando recitava e cantava riusciva a vivere, gli applausi erano il suo ossigeno, il resto, la sua vita al di fuori dei musicals, era solo una mera successione di eventi di poca importanza, così come le numerose donne che aveva avuto. Non contavano niente.

Era questo che aveva deciso di amare tempo addietro. Aveva potuto scegliere, e aveva scelto.

Si sentì raggiungere dai suoi colleghi che lo circondarono e, stringendosi le mani e portandole in aria, si inchinarono al pubblico che applaudiva.

Poi, in un rituale consolidato di spettacolo in spettacolo, lo sospinsero in avanti, permettendogli di raggiungere il centro del palco.

Senza vergogna fece una piroetta su sé stesso e si inchinò più profondamente, sentendo con compiacimento il rimbombo degli applausi aumentare vertiginosamente. Poteva addirittura sentire le mani degli spettatori arrossarsi per lo forza con cui lo applaudivano.

Indietreggiò tornando dagli altri e, dopo un ultimo inchino, il sipario si chiuse.

 

 Era ormai da due anni che lavorava a Broadway. Due anni pieni, si disse Kurt mentre, nel suo camerino, si toglieva il costume di scena.

Pose la calzamaglia sulla sedia accanto, e passò una buona quantità di salviettine struccanti sul viso, cercando di togliere il pesante strato di cipria che era costretto a mettere ogni spettacolo.

Era il momento più difficile della giornata, quello. Lo svestirsi segnava in modo definitivo il suo ritorno alla vita reale, sempre che per Kurt fosse più reale la vita fuori che dentro il teatro.

Ormai neanche lo sapeva più.

Vivere era diventato meccanico, come se dormire e magiare e camminare fossero solo una cornice non degna di grande attenzione.

Quando, nei momenti di maggiore sconforto, si ritrovava a pensare alla sua vita, a quello che aveva passato, si portava istintivamente le mani alla bocca, chiudeva gli occhi e canticchiava qualcosa per cancellare le immagini che riaffioravano dolorosamente alla memoria.

Cantare lo distraeva. Lo aveva sempre fatto e sempre lo avrebbe continuato a fare. Ne era sicuro.

Quando finì di rimuovere il trucco dal viso, indossò i suoi jeans da mille dollari a gamba e una delle sue ormai infinite magliette: se c’era qualcosa di cui almeno non si doveva preoccupare erano i soldi. Lavorare a Broadway fruttava bene, e almeno quello contribuiva a rendergli la vita più facile: non sarebbe mai rimasto senza soldi per la sua mania compulsiva di comprare vestiti firmati. No, quello non sarebbe decisamente mai stato un problema.

I soldi erano uno dei ragionamenti cinici che si costringeva a fare ogni giorno: lo distraevano. E non desiderava altro.

Non aveva mai desiderato altro.

Almeno non da quando si costringeva a ricordare.

 

 

Si stava mangiando le unghie dal nervoso.

Dannazione! Pensò quando se ne accorse,  Non le mie unghie, non le mie unghie così perfettamente e amorevolmente curate.

Così si costrinse ad allontanarle dai denti che continuarono a sbattere, non trovando però niente con il quale soddisfare la loro frustrazione.

E’ un’ ora che sono seduto qui, un’ ora! Quando si decideranno a venire a dirmi qualcosa, è una questione così difficile da decidere?

Poi si diede mentalmente dello stupido perché, sì, era una questione difficile, difficile quanto importante, avrebbe determinato il suo futuro, nel bene o nel male.

Il ragazzo al suo fianco fece un sorriso tirato, si vedeva che anche lui era nervoso, anche se cercava di non sembrarlo, d’altronde era lì per sostenere il suo ragazzo, non per renderlo ancora più spaventato.

Lentamente lasciò scivolare lo sguardo su di Kurt. Lo vide corrugare le sopracciglia in un’ espressione eccessivamente affranta nel notare le unghie ormai rovinate, lo vide cercare di rilassarsi prendendo due respiri profondi, e chiudere gli occhi canticchiando un motivetto per calmarsi.

Poi vide sé stesso allungare la mano prendere quella del compagno, e gli sorrise, mettendo in quel sorriso tutta la fiducia ed il calore che gli riuscì. L’altro ragazzo aprì gli occhi, smise di cantare e sorrise in risposta, facendogli capire che apprezzava il tentativo, ma che neanche lui sarebbe mai riuscito a calmarlo in una situazione simile.

Improvvisamente la porta di legno scuro intagliato si aprì, ed il direttore del teatro, un uomo sulla settantina con una folta barba bianca ed un cipiglio fin troppo severo, ne uscì  chiamando il nome di Kurt. Quest’ultimo saltò in piedi in una frazione di secondo, inciampando su se stesso e rischiando di cadere a terra, se non fosse stato per il ragazzo a fianco che, conoscendo la sua scoordinazione unita all’eccitazione del momento, aveva avuto il presentimento di ciò che stava per accadere e l’aveva afferrato saldamente fermando la caduta.

Aveva poi allargato le labbra nel più grande sorriso che aveva potuto, e, stringendo Kurt in un caloroso abbraccio, aveva  poggiato la faccia sul suo cappotto blu scuro, inspirandone il fresco profumo di menta e vaniglia.

L’uomo, ancora fermo vicino a loro ,si era quindi schiarito la gola con un’ espressione scocciata picchiettando con la punta della scarpa sul pavimento.

“Buona fortuna Kurt” gli sussurrò quindi dolcemente l’altro ragazzo.

“Grazie, Blaine”

E staccandosi da lui si diresse velocemente verso la porta seguendo il direttore del teatro.

 

 

Blaine.

Quel nome ancora gli lasciava l’amaro in bocca, quelle poche volte che si permetteva il lusso di pensarlo. Il che non succedeva spesso. Anzi, quasi mai.

Indossò il cappotto blu scuro, il suo preferito, e, chiudendo la porta dietro di sé, s’incammino fuori dal teatro.

Declinò cortesemente le proposte dei suoi colleghi di uscire insieme a bere qualcosa e, non appena fuori, respirò a fondo l’aria fresca di New York.

New York che ormai era casa sua, New York che gli ricordava che i sogni si possono avverare, credendoci. Ma New York che gli ricordava anche che il suo, di sogno, non si era avverato per davvero, non interamente, almeno. New York che stava diventando una prigione sicura.

Blaine.” Pronunciò lentamente quel nome, assaporandone il retrogusto dolciastro.

Quando però si accorse di cosa aveva fatto si insultò mentalmente, non doveva lasciarsi andare in un modo così esagerato, non doveva permettersi di lasciare che la sua mente vagasse così liberamente.

 

 

Quando Kurt attraversò la porta seguendo il direttore del teatro sentì il freddo invadergli le membra per aver lasciato Blaine nella sala d’aspetto, ma si impose di non pensarci, c’era già il nervosismo a renderlo incapace di ragionare razionalmente.

Il direttore lo condusse attraverso un dedalo di porte e corridoi verso il suo ufficio e lo fece accomodare su una sedia di fronte ad un’ elegante scrivania, mentre lui prendeva posto dall’ altro lato, sedendosi su una poltrona imponente.

“Bene” iniziò toccandosi la barba con fare pensoso e ordinando un plico di fogli sull’ angolo della scrivania “Kurt Hummel, giusto?”

Kurt annuì in preda all’ agitazione. Le mani che si muovevano torturandosi a vicenda, i denti che battevano, il sangue che gli pulsava nelle orecchie, il respiro che saliva a fatica.

“Ha passato le selezioni.”

Oh.

Si era preparato talmente tanto a ricevere un rifiuto, aveva immaginato talmente tante volte il momento in cui gli avrebbero comunicato che non aveva passato la selezione che non aveva minimante pianificato a come reagire in caso contrario.

Forse fu per quello che non appena lo sentì gli sembrò che il cuore si fosse fermato per un impercettibile secondo, che il suo stomaco gli fosse arrivato in gola insieme ai suoi polmoni.

Non era pronto, non era assolutamente pronto.

Una lacrima si affacciò agli occhi ormai rossi ma Kurt si affrettò ad asciugarla.

Non sapeva cosa dire, non aveva parole, boccheggiò per qualche secondo ma le nessun suono gli uscì di bocca.

Era il sogno di una vita. Che si avverava.

Quando vide che il ragazzo non accennava a parlare il direttore, comprendendone l’emozione, aggiunse che le prove per il musical sarebbero iniziate il giorno successivo e che avrebbe dovuto presentarsi un attimo prima dell’ orario prestabilito per prendere familiarità con i colleghi e con la troupe.

Kurt annuì ancora senza fiato e, dopo aver stretto la mano al direttore ed averlo ringraziato in tutti i modi possibili, si fiondò fuori dalla porta, tra le braccia di Blaine il quale capì, con una sola occhiata, che ce l’aveva fatta, che era andato tutto bene.

 

 

Kurt spalancò le braccia per attirare l’attenzione di un qualche tassista, e, con sua enorme fortuna, uno si fermò subito vicino al marciapiede.

Dopo esserci salito, gli disse l’indirizzo del suo appartamento, poi si appoggiò sul sedile e chiuse gli occhi, massaggiandosi le tempie e cercando di non pensare a niente.

Le luci di New York saettavano veloci fuori dai finestrini dell’ auto, spettacolo suggestivo per un turista, ma non di grande rilevanza per Kurt, che ormai era abituato.

Quando il tassista annunciò che era giunto a destinazione prese una manciata di soldi dal portafoglio e glieli porse, dicendo che il resto lo avrebbe potuto tenere, quindi si affrettò ad uscire dal taxi, non sopportando l’odore di muffa ed usato che ne impregnava i tessuti.

Cercò le chiavi nella sua borsa in ecopelle preferita e velocemente aprì la porta del suo loft, poggiò le chiavi sul comodino, appese il cappotto all’ appendiabiti vicino alla porta e si sdraiò sul divano rifugiandosi nella quiete.

Odiava quella quiete, perché lo faceva pensare. Aveva paura della notte, di quando si ritrovava da solo, perché i pensieri sarebbero inevitabilmente riaffiorati, e così ai ricordi.

Ed era per quello che quando poteva si circondava di persone, perché lo distraevano.

Si maledisse mentalmente per non aver accettato l’invito dei suoi colleghi. Tanto l’importante sarebbe stato fare presenza, intervenire due o tre volte nella conversazione, e poi ascoltare i loro discorsi lunghi ed inutili. Quello sì, che sarebbe stato utile. Avrebbe avuto la testa troppo impegnata a chiedersi come mai esistessero ancora stupide persone che credevano che il leopardato andasse di moda, per pensare al passato.

Invece si trovava sul divano, inerme, e quel giorno la sua mente sembrava molto più propensa del solito a lasciarsi andare, e quello non aiutava di certo.

Improvvisamente sentì il rumore del chiavistello girare e la porta sbattere. Non aprì gli occhi. Probabilmente era una ragazza. Bene. Significava distrazione.

Il tocco delicato di due mani lo raggiunse pochi attimi dopo attraverso la stoffa sottile della camicia, e, tra le ciglia semichiuse, intravide un viso famigliare.

Neanche se ne ricordava il nome, probabilmente era qualcosa di simile a Danielle o Michelle. Poco importava.

La ragazza iniziò a sbottonargli lentamente il colletto della camicia, i sui capelli che gli solleticavano il mento.

Non disse niente. Non diceva mai niente, perché gli unici sentimenti che provava erano disgusto e solitudine. Infinita, profonda, amara, cara, intima solitudine.

Con un sospiro si preparò a mentire un’altra volta, prima alla ragazza che si stava strofinando contro di lui ed infine a sé stesso.

 

 

 

Blaine si aggiustò il colletto della camicia guardandosi allo specchio e si annodò, con patologica lentezza, il suo papillon rosso.

Se c’era una cosa che adorava nell’ insegnare alla Dalton era che finalmente poteva vestirsi come voleva e rinunciare a quell’ orribile cravatta che sempre aveva odiato.

Guardò l’orologio e si accorse che il suo amore per il fiocco annodato con precisione millimetrica gli aveva fatto perdere un’ enorme quantità di tempo, e che ormai sarebbe arrivato inesorabilmente in ritardo alla lezione.

Poco male, i suoi studenti lo adoravano anche per i pochi minuti che guadagnavano dopo il suono della campanella. Ormai conoscevano tanto bene il loro professore da sapere che la sua seconda malattia, oltre ai ridicoli fiocchettini con cui adorava strozzarsi il collo, era il ritardo.

Blaine era un ritardatario, cronico. Senza speranza di redenzione.

Quest’ultimo si affrettò quindi, maledicendosi mentalmente, a prendere la sua tracolla con i libri, chiudere la porta del suo alloggio nella scuola e correre come un forsennato per raggiungere la sua aula.

Giunto davanti alla porta prese un respiro profondo, giusto per non avere l’espressione addormentata di un bradipo e si passò una mano nei capelli per sistemarseli.

Quando però si accorse che erano privi del consueto strato di gel quasi imprecò ad alta voce.

Se n’era scordato. Bene, quella giornata iniziava male, molto.

Appena mise piede nella classe gli alunni corsero ai loro posti, fingendo di esserci sempre stati, e non di essere appena stati beccati a chiacchierare con un compagno dalla parte opposta dell’ aula, ad essere appoggiati alla finestra a raccontarsi gli ultimi pettegolezzi o, ultimo ma non per importanza, a ballare la macarena facendo girare la cravatta sulla testa saltellando da un banco all’ altro. E con saltellando da un banco all’ altro si intende sopra il banco.

Blaine raggiunse la cattedra con studiata lentezza e assunse il cipiglio più severo che aveva nel suo repertorio, anche se dentro di sé ridacchiava e ricordava con nostalgia i momenti in cui anche lui era stato un alunno spensierato come i ragazzi in quella stanza.

Gli mancavano quei tempi. Dannazione se gli mancavano.

Costringendosi a cambiare la direzione dei suoi pensieri e vedendo che la classe continuava a parlare e non accennava a smettere si schiarì la voce attirando la loro attenzione.

“Buongiorno ragazzi” disse quindi.

Un mugugno indistinto si levò tra le file. Il professor Blaine Anderson, dall’ alto dei suoi venticinque anni, poteva anche essere il professore più simpatico e disponibile di tutta la scuola, ma perdeva di sicuro mille punti per il solo fatto che insegnasse storia.

Già, quello decisamente non lo aiutava ad essere apprezzato dai suoi studenti che ogni volta che leggevano sui loro orari la parola storia venivano presi dal panico.

L’ora passò in fretta. Almeno, per lui molto in fretta, per gli studenti scommetteva che era stata una vera a propria tortura. Ben sessanta minuti sulla guerra di secessione. Da suicidio.

Fortunatamente per loro Blaine aveva deciso che la prossima lezione l’avrebbe dedicata a guardare un film sull’ argomento.

Quando la campanella suonò si diresse verso la caffetteria.

Ricambiò il saluto di qualche studente che si affrettava in ritardo verso la sua classe e non appena entro nel piccolo locale sentì subito la fragranza di caffè invadergli le narici. Ah, il suo amato caffè. Non avrebbe mai resistito senza.

Seduto da solo ad uno dei tavolini del bar si perse a guardare i disegni del vapore che saliva dalla tazza di caffè fumante, divertendosi a soffiarci sopra per dissolverli.

 

 

Il giorno dopo l’audizione Kurt si era svegliato prestissimo. Se lo ricordava benissimo perché, essendo che dormivano nello stesso letto, non appena era balzato a sedere per il suono della sveglia il materasso si era alzato di colpo, infliggendo a Blaine un doloroso colpo alla spina dorsale.

Ricordava se stesso insultare ad alta voce il compagno e poi girarsi e tentare di tornare a dormire.

Fatica sprecata perché Kurt gli si era letteralmente gettato addosso urlandogli che era il gran giorno, che non gli avrebbe più parlato se, citando letteralmente, non avesse mosso quelle chiappe dal letto e non si fosse fatto trovare pronto per accompagnarlo a teatro, in cinque minuti.

Temendo le ire del suo ragazzo Blaine aveva fatto esattamente come richiesto. Si era fiondato giù dal letto e aveva occupato il bagno, sapendo ormai bene che se Kurt ci fosse entrato prima di lui sarebbe stata la fine.

Ricordava poco di quello che era successo poi, solo sprazzi dai colori confusi. Ricordava di aver bevuto tre caffè bollenti tutti di fila, per cercare di restare sveglio e di aver raggiunto il teatro con un taxi maleodorante.

Si ricordava che Kurt gli aveva stretto la mano talmente forte che credeva gliel’avrebbe distrutta.

Si ricordava stringerlo in un abbraccio soffocante prima di lasciarlo entrare in teatro, e di avergli sussurrato che l’amava e che era fiero di lui, che se lo meritava e che avrebbe fatto venire i brividi a tutti.

Quella era l’ultima volta che aveva avuto un contatto del genere con Kurt.

E tutto cio che successe dopo se lo ricorava bene, purtroppo.

 

 

“E’ libero, qui?” una voce lo risvegliò dai suoi pensieri, sollevò velocemente lo sguardo e vide un uomo, probabilmente della sua stessa età, rivolgergli un timido sorriso.

Si guardò un attimo intorno notando che tutti i posti nella caffetteria erano occupati, quindi rivolse lo sguardo al suo interlocutore e, sorridendo a sua volta, ripose affermativamente.

L’uomo prese posto nella sedia davanti a lui e gli porse la mano.

“Steve Dover, sono un nuovo insegnante” si presentò.

“Blaine Anderson, confinato in questo posto sin dal liceo” sorrise in tutta risposta il moro stringendogli la mano mentre per un secondo si concedeva il lusso di osservare il nuovo arrivato: alto, muscoloso, capelli castani e due grandi occhi verdi.

Poteva non aver avuto una relazione con un altro uomo da tanto ma Blaine sapeva riconoscere quando una persona era bella. E lui era bello. Dannatamente bello, e con un fare leggermente impacciato che lo rendeva ancora più interessante.

Rendendosi conto di dove erano andati a finire i suoi pensieri arrossì improvvisamente e si aggrappò al primo argomento che gli veniva in mente per fare un po’ di conversazione.

“Allora, ehm, Steve” si schiarì la voce in imbarazzo “Come mai qui alla Dalton?”

Cretino si insultò tra sé e sé, se è un insegnante sarà qui per insegnare, no?

Quello non sembrò accorgersi dell’ ingenuità della domanda “Insegno letteratura, sono qui in sostituzione al professor  Phillips, che è appena stato trasferito. Tu, Blaine, che cosa insegni?”

Blaine.

Era bello il suo nome pronunciato da lui, così consapevole.

Non si sentiva così da tanto. Non sentiva quel leggero battere del cuore nel petto da due anni ormai.

Forse non era esattamente la stessa cosa di quando stava con Kurt, con lui il cuore martellava quasi volesse uscire dal petto, ma quel battito leggermente velocizzato era comunque un buon inizio.

“Kurt.”

Sussultò quando si accorse di quello che la sua mente aveva appena formulato, di quello che si era imposto come termine tabù, e che invece aveva appena pronunciato, a bassa voce, senza neanche rendersene conto.

Steve sembrò accorgersene perché chiese se andasse tutto bene, e Blaine, riacquistando il sorriso di sempre, disse che si era semplicemente distratto un momento e si affrettò a rispondere alla domanda.

“Mi hanno affibbiato storia, perché evidentemente direttore del coro della scuola non è valido come lavoro”

“Direttore del coro?” chiese Steve stupito “Avete un coro, in una scuola di soli ragazzi?”

Blaine annuì compiaciuto “Sì, e sono anche bravi. Questa Domenica si esibiscono per gareggiare alle Provinciali contro latri licei della zona, puoi venire a vederli se vuoi”

StupidoStupidoStupidoStupidoTroppoAvventatoTroppoAvventanto.

“Volentieri” disse invece Steve, sorprendendolo.

Oh. Questo cambiava le cose.

“Perfetto” disse allora Blaine cercando di darsi un po’ di contegno e di non mostrare quanto la sua risposta lo avesse sorpreso e destabilizzato.

Non era più abituato a parlare con un bel ragazzo. No davvero.

“Ora devo andare” disse il moro ricordandosi che aveva un appuntamento per pranzo “Mi raccomando. Ti aspettiamo Domenica alle nove di sera all’ auditorium del McKinley.”

“Non mancherò per nulla al mondo”

Blaine era pronto a giurare che gli avesse appena fatto l’occhiolino.

 

 

Entrò nel ristorante italiano in ritardo di venti minuti, tanto per cambiare.

Non appena adocchiò Rachel Finn Brittany e Santana si affrettò a raggiungerli.

“Ehi” li salutò appena arrivato.

“Ti stavamo dando per disperso, gnomo” lo salutò amorevolmente Santana, ricevendosi una gomitata da Brittany che la guardò con fare ammonitrice, obbligandola a chiedere scusa, cosa che le sembrò costare un enorme sforzo.

Rachel e Finn si limitarono a sorridergli  teneramente.

Grazie al cielo aveva ancora loro ad aiutarlo ed a fargli dimenticare qualsiasi motivo per essere triste.

“Allora Blaine, come va la vita alla Dalton?” Chiese Rachel mentre il moro prendeva posto al tavolo con loro.

“Come al solito, studenti che saltano dalla gioia quando annuncio che non interrogherò e che si mettono a recitare il padre nostro quando invece c’è una verifica, l’unica cosa che rende felici tutti rimangono ancora le lezioni con gli Warblers, quelle vanno decisamente bene.” Guardò Rachel con un sorriso di sfida e aggiunse: “Quest’anno il tuo Glee Club non riuscirà a battermi, Rachel, te lo puoi sognare.”

La ragazza non sembrò minimamente toccata.  “Abbassa la cresta Blaine, non sarà così facile sconfiggermi, un altro anno le Nuove Direzioni passeranno le selezioni. Non so se te lo ricordi ma stai parlando con la più richiesta allenatrice di Glee Clubs di tutto l’Ohio”

Blaine sorrise al tono combattivo della ragazza ed alzò le mani in segno di resa.

Il pranzo passò velocemente, tra chiacchiere sulla squadra di Cheerleaders che Santana e Brittany allenavano, i racconti delle numerose vittorie di Finn nella nazionale di football, e gli infiniti sproloqui di Rachel su quanto sia difficile girare per tutto l’Ohio essendo enormemente richiesta da tutti i maggiori cori di canto coreografato.

Blaine adorava quei momenti, quando tutti si riunivano e parlavano delle loro vite. Certo, non accadeva spesso. Erano rari i momenti in cui si trovavano tutti a Lima, ma quando capitava non potevano di certo mancare i loro ritrovi.

La porta del ristorante sbatté di colpo facendo voltare i cinque amici contemporaneamente.

“Mercedes!” un urlo di sorpresa si levò da loro alla vista della ragazza che era appena entrata.

“Sorpresa” disse in tutta risposta quella prendendo una sedia e sedendosi vicino a loro.

Blaine fu il primo a risvegliarsi dallo shock in cui tutti erano caduti dopo il suo arrivo, dopo averla guardata con la bocca spalancata per una quantità di tempo infinita.

“Ma.. Ma.. Che ci fai qui? Non ti aspettavamo! Credevo- Credevo fossi a New York!”

Mercedes sorrise agli amici e mandò uno sguardo complice a Rachel, con la quale aveva segretamente organizzato il suo arrivo.

“Diciamo che avevo bisogno di una pausa” sorrise “e poi” aggiunse con una faccia esageratamente affranta “essere una cantante famosa è stancante, davvero, non ve lo augurerei mai!”

Tutti risero e iniziarono a tempestarla di domande su come fosse la vita a New York, su dove avesse trovato casa, su come fosse essere la cantante blues più richiesta in tutti i locali più in, quelli frequentati da VIP del calibro di Brad Pitt, per intenderci.

“…E poi dovreste vedere Starbucks, ogni volta che ci entro è una gioia per i miei occhi e per il mio palato,e ah la statua della libertà! Ogni volta che la vedo mi emoziono, è così.. così.. così grande!”

Tutti risero, gli occhi spalancati per l’invidia e luccicanti per il desiderio di essere nei panni della fortunata Mercedes.

“Ma la cosa più bella” aggiunse poi con gli occhi spalancati per l’emozione “e’ Broadway. Davvero ragazzi, ho appena visto una replica del Moulin Rouge che mi ha fatto piangere! Sul serio!”

Tutti la ascoltarono rapita raccontare di quanto fosse bello l’attore principale, di come la ragazza che cantava avesse la faccia da spocchiosa, di come le scenografie fossero grandiose, e, soprattutto, di come fossero comode le poltroncine in prima fila

Forse fu per quello che quando Brittany, molto ingenuamente, pose la domanda, il suo effetto fu così accentuato.

Perché non ci stavano proprio pensando, a quello. E, Dio, ci stavano riuscendo, per una volta ci stavano riuscendo.

“Ma Kurt non lavora a Broadway?”

 

 

Quella mattina Blaine aveva deciso di andare a fare una passeggiata in giro per negozi, gli serviva assolutamente un papillon verde da abbinare ai pantaloni che aveva appena comprato, e decise quindi di sfruttare il tempo durante il quale Kurt faceva le prove a teatro.

Passeggiò dunque nel centro di New York entrando in ogni negozio strano che adocchiava per cercare quel maledetto papillon che nessuno sembrava avere.

Ma insomma come si poteva vendere un papillon verde pino, verde sottobosco umido, verde limone, verde acqua di lago, verde acqua di mare, verde acqua di stagno, verde vomito, verde erba in primavera, verde erba in estate, verde erba quando un gatto ci ha urinato sopra e mille altre tonalità improponibili di verde e non un semplice e dannatissimo verde?

Blaine era così uscito distrutto da una sessione di shopping che non gli aveva fruttato niente ed era tornato al teatro per aspettare Kurt, sapendo che il solo vederlo gli avrebbe illuminato la giornata.

Non si aspettava sicuramente però di non trovarlo fuori ad aspettarlo.

Guardando confuso l’orologio  si era domandato perché mai non ci fosse, illudendosi poi che le prove si fossero protratte più a lungo del dovuto. Quindi si era seduto su un panchina ad aspettare tranquillamente. Quando però un’ ora era ormai passata si era deciso a farsi coraggio, alzarsi ed entrare a cercarlo nel teatro.

Tutto ciò che aveva trovato erano degli inservienti che si occupavano di pulire i pavimenti e che, con espressione scocciata, gli avevano detto che gli attori  se n’erano andati già da un paio d’ore e che lì non avrebbe trovato nessuno.

 

 

Finn spalancò gli occhi e boccheggiò.

Santana guardò la sua ragazza e le diede uno scappellotto sulla nuca guardandola con un’ occhiata ammonitrice.

Brittany, dal canto suo, si guardò in giro spaesata chiedendosi che cosa avesse detto di male.

Rachel iniziò a ridacchiare nervosamente.

Mercedes cercò di rimediare fingendo che non fosse successo niente e cercò disperatamente un argomento, anche il più stupido, a cui aggrapparsi per deviare il discorso, ma la sua mente era andata completamente in blackout.

Blaine rimase semplicemente bloccato.

La mascella si contrasse e le mani afferrarono convulsamente i bordi del tavolo facendo diventare le nocche bianche per la pressione.

Abbassò lo sguardo cercando di mascherare il fatto che, se lo sentiva, il colore avesse repentinamente abbandonato le sue guance e che gli occhi fossero diventati lucidi.

Riprenditi. Non è successo niente. Ci stavi riuscendo così bene, Blaine. Non rovinare tutti i progressi che hai fatto.

Sentì una mano delicata prendere le sue e stringerle, per comunicargli che non era solo, che ci sarebbe sempre stato qualcuno con lui, e si lasciò andare ad un gemito sconsolato e liberatorio, che gli fece tremare la colonna vertebrale.

Alzò gli occhi e incontrò quelli di Mercedes, che d’istinto strinse le mani ancora più forte.

si disse non sei solo Blaine.

Evitò però di pensare a quando la notte si svegliava, gli occhi lucidi e le mani tremanti, cercando invano nel letto un corpo caldo che, puntualmente, non trovava.

   
 
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