Storie originali > Drammatico
Ricorda la storia  |      
Autore: Red S i n n e r    25/03/2012    2 recensioni
Tre storie scritte e una mai iniziata, per raccontare di una vita che non è mai nata.
A Sofia pioveva dentro da un sacco di tempo, da un sacco di anni, e il sole fuori dalla finestra lo odiava a morte perché significava ‘caldo’ ed ‘estate’, e Sofia non voleva scoprirsi – in nessun senso, in nessun modo – perché il suo corpo era disgustoso e molle, pallido come un mollusco, come il muco nei mesi invernali. Non voleva farsi vedere ed evitava gli specchi e gli occhi degli altri, perché sapeva – ed era un’altra dolorosa certezza – di essere pallida come un mollusco anche dentro, nel carattere che non aveva. Nella forza che aveva ucciso abbassando il capo ogni volta.
[Forse vago nonsense e linguaggio volgare.]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Lei amava troppo, sai?

Così tanto e così a fondo che, a guardarsi allo specchio, solo odio riusciva a provare: di amore non ne era rimasto.

 

Parole d’acqua sporca.

 

 

 

La sua prima storia parlava di rabbia ed impotenza, il protagonista ne rimaneva assuefatto, distrutto, mangiato.  Lei lo gettava via, divenuto imperfezione imperante.

Il protagonista urlava, si ribellava, di certo morire non voleva, ma impotente era nato e nulla poté fare. Rabbioso, divenne carta da buttare.

Era un gioco cattivo che faceva da sola, uccideva la gente sulla carta e li immaginava a pregarla di non voltare pagina, di non lasciarli morire, di non farli soffrire. A lei non importava e girava pagina lentamente, quasi a far loro un dispetto, poi calcava forte con le dita, sui bordi bianchi, a volerli schiacciare.

Si chiamava Sofia ed era cattiva, tanto cattiva, ma lo era solo nella sua testa e le piaceva immaginare cose orribili solo per il suo cervello.

Sofia aveva poche cose, perché tante le aveva perse, e ne amava poche, ma le amava troppo.

 

 

 

Quand’era bambina le piaceva tanto giocare con l’acqua, ed apriva e chiudeva l’acqua del bagno un sacco di volte, se la faceva scorrere tra le dita, sulle mani, e rideva della carezza leggera sulla sua pelle.

 Le piaceva guardare l’acqua raccogliersi in un anello impalpabile alla fine di ogni dito, e pensare che fosse un regalo dell’acqua solo per lei. Poi arrivava qualcuno ad urlarle di smetterla, perché si consumava troppo, perché non doveva giocare così. Perché era stupido.

Sofia iniziò ad imparare che veniva sempre il momento in cui qualcuno ti urlava addosso, e che c’erano cose che si consumavano troppo. Come la pazienza.

Aveva notato che la pazienza si consumava sempre, che non bastava mai, che forse era preziosa come l’acqua del bagno. Aveva ascoltato migliaia di urla e di dinieghi, aveva vissuto abbassando la testa e ripetendosi che era finito il tempo di giocare, e non aveva mai detto nulla, nulla.

Allora la notte sognava di ucciderli tutti, di farli star male, di spaccargli la testa tanto per divertirsi. Sognava di dire a tutti che erano loro gli stupidi, che non avevano capito nulla e che non lo avrebbero capito mai.

Era cattiva Sofia, ma non riusciva a pentirsi di ciò che pensava, perché era colpa degli altri se voleva farli a pezzi. Era colpa loro se tutto l’amore che aveva l’aveva regalato e se non ne rimaneva più nulla per sé.

Avevano tutti sciocche presunzioni, patetiche idee, stupide frasi e amavano  lanciargliele addosso, come fossero moniti improrogabili di vita vissuta - ma vissuta da altri - perché la pazienza l’avevano consumata tutta e non avevano altro da rivolgerle: solo le parole brusche e distratte di chi ha troppe cose da fare e non ha il tempo di stare a pensare prima di parlare.

Sofia odiava un sacco di cose, nello stesso modo in cui amava tutto.

Sei un po’ stupida,” si diceva da sola.

 

 

La seconda storia era nata come un vaneggiante sogno ad occhi aperti, uno di quelli che fa più male di un trip allucinogeno, in cui niente può farti male e tutto è stato creato per te. Uno di quei sogni in cui la tua presenza è basilare, e non un optional di cui nessuno sentirebbe la mancanza.

Nel sogno Sofia era bella, così bella che volle descriversi e scrivere di nuovo. Era bellissima, magra e perfetta, tutti la adulavano e le ricordavano la sua bellezza, i suoi pregi e mai i suoi difetti.

Sofia era magra e aveva dei polsi sottili, eleganti, aveva gambe lunghe e flessuose. L’osso della clavicola sporgeva in modo meraviglioso sotto la sua pelle pallida e la maglietta troppo larga la infagottava in modo tenero, carino.

Aveva tutto e non le mancava nulla: aveva persone che l’amavano e l’amore la circondava come una coperta morbida. Quando entrava in un negozio non si sentiva goffa ed inadatta, ma sicura e bellissima.

Era perfetta, perfetta.

Sofia si innamorò un po’ della sua immagine, come un timido narciso, e volle guardarsi meglio, più a fondo. Aguzzò la vista e si vide davvero: vide il cumulo di grasso adiposo che si portava dietro, la sua faccia anonima e i suoi polsi tozzi. Vide il grasso trasbordare dai jeans, molliccio e bianco, e la sua vita per intero, in tutti i suoi miseri colori.

Sofia si arrabbiò, si arrabbiò a morte e con se stessa per essere stata così stupida da immaginare qualcosa di così bello che non si può neanche toccare. Nemmeno per un’ora o per un minuto.

Perché lo sapeva bene che certe cose si consumano, nella vita, e i sogni lo fanno, ma consumano te: ti spolpano fino alle ossa, ti illudono e poi ti lasciano da sola.

Sola a pensare a quanto è triste la tua vita, a quanto è stupida, e noiosa e patetica.

A sentire freddo anche se fuori è estate.

***

 

Sofia aveva poche cose, davvero poche. Certe cose non le aveva proprio mai avute, come la “forza di volontà”. Ma aveva delle certezze, e sapeva di essere signorina-non-sono-capace e non-lo-so-fare, signorina-non-sono-abbastanza e lasciami-in-pace.

Avere certezze nella vita, era indispensabile, o almeno così credeva, quindi ne era quasi contenta.

Sofia, però, aveva un’amica, ed era il dono più grande e la sofferenza più acuta, insieme. Sapeva che non poteva provare entrambe le cose, che era assurdo, ma sapeva di essere un po’ stupida ed era forse la sua prima certezza, quindi non ci badava.  Andava bene (anche se non andava bene niente).

Aveva un’amica che era bellissima e allegra e solare, amava la vita con tutta la sua forza e non si abbatteva mai, andava sempre avanti. Sorrideva alla vita come la primavera e Sofia si sentiva a disagio, ancora più goffa del solito, nel suo abito di lardo, a pensare a quanto erano diverse, mortalmente opposte. (Ma forse era la sua testa ad averla idealizzata così tanto, forse era l’ennesimo gioco cattivo per farla sentire inadatta.)

A Sofia pioveva dentro da un sacco di tempo, da un sacco di anni, e il sole fuori dalla finestra lo odiava a morte perché significava ‘caldo’ ed ‘estate’, e Sofia non voleva scoprirsi – in nessun senso, in nessun modo – perché il suo corpo era disgustoso e molle, pallido come un mollusco, come il muco nei mesi invernali. Non voleva farsi vedere ed evitava gli specchi e gli occhi degli altri, perché sapeva – ed era un’altra dolorosa certezza – di essere pallida come un mollusco anche dentro, nel carattere che non aveva. Nella forza che aveva ucciso abbassando il capo ogni volta.

Sofia aveva un’amica che aveva amato tanto, compreso ed abbracciato; e anche se non aveva mai avuto molto, aveva sempre dato troppo e c’erano incrinature e vuoti d’anima che niente avrebbe potuto coprire.

Aveva un’amica che si chiamava India, un nome particolare che ricordavano tutti, e ricordavano lei perché era speciale e bella.

Bella.

Si sentiva in difetto ogni volta che la guardava, si sentiva in colpa e sempre più brutta, sempre più banale e sempre più strana. Con tutti i suoi pensieri cattivi, e le sue storie dai finali tristi. Si sentiva goffa e inutile appena entrava in un negozio con lei, alla ricerca della nuova maglietta di turno, o di jeans stretti.

La commessa le accoglieva con un sorriso affettato e si rivolgeva subito a India, “E’ per te, vero?” le chiedeva, e guardava Sofia a malapena.

“E’ per lei, sì,” le rispondeva subito, cercando di farsi guardare. E infatti la guardava, e si soffermava sui jeans larghi e troppo lunghi che finivano sotto le scarpe da ginnastica, guardava il cappotto che si chiudeva a malapena e i capelli troppo lunghi e senza forma. Il suo viso troppo tondo e troppo bianco, senza niente di particolare e fatto apposta per essere dimenticato in fretta.

Era uno sguardo che sapeva di sufficienza, di una lieve forma di scherno, e Sofia voleva nascondersi ovunque, voleva scappare, ma rimaneva ferma a sentire i chili di troppo pesarle addosso come pietre di carne, ed andava a fondo. Sempre più giù.

Sempre più giù.

Le veniva da pensare che sarebbe affogata, perché non sapeva nuotare, e si diede della stupida per quei pensieri fuori posto e senza senso.

Sei un po’ stupida," si diceva spesso.

“Okay!” trillava la commessa, fasciata nei suoi bellissimi jeans stretti e nel maglioncino chiaro. “Seguitemi.”

Si guardava intorno, in quel negozio sconosciuto, e non sapeva che fare. Cercava di spostarsi in fretta appena arrivava qualcuno, per non intralciare, per non dare fastidio. Era stanca, voleva sedersi, cercare di farsi più piccola e meno ingombrante, ma non c’era nessun posto dove nascondersi e troppa gente ad osservarla. Aspettò che India pagasse, poi uscì dal negozio, pregandola di avviarsi a tornare a casa.

“Ho mal di testa,” mentì al volo.

Tornata a casa, si tolse i jeans ed afferrò a piene mani il grasso molle nell’interno coscia. Lo strinse forte e ci ficcò dentro le unghie, strinse i denti per il dolore improvviso, ed iniziò a piangere.

Afferrò la carne in eccesso sui suoi fianchi, e la tirò forte, quasi a volerla staccare dalle sue ossa con la forza della rabbia. Si guardò e vide un’estranea, un’orribile estranea, di cui non riconosceva nemmeno gli occhi, nemmeno la bocca, nemmeno i capelli dal colore anonimo.

 Era uguale a centomila persone, uguale a centomila persone anonime, senza carattere, senza bellezza, senza nulla che potesse far sì che qualcuno si ricordasse di lei.

“Sei grassa,” dicevano tutti, ma nessuno sapeva che per cambiare devi avere la forza, la voglia,  la pazienza… e la pazienza, Sofia lo sapeva, è la cosa che si consuma prima, è come l’acqua del bagno. La voglia è liquida e come l’acqua si asciuga subito, la forza scivola via come le gocce nel lavandino.

Sofia si guardava allo specchio e seguiva le lacrime sporche di eyeliner e matita scorrerle sulla faccia (come la forza), le seguiva correre, sporcare l’acqua e poi asciugarsi, scomparire.

Guardava la faccia che non riconosceva, una faccia così banale che si era confusa con la moltitudine di gente fuori dalla finestra e si diceva: “l’hai voluto tu, l’hai voluto tu… non hai mai voluto… adesso è tardi.”

Sofia non balbettava, ma a guardarsi da così vicino le veniva da piangere, quindi singhiozzava e non finiva le frasi, le finiva nella testa affinché non avessero quel non so che di definitivo e  finale. Come se non fossero condanne.

Solo pochi  sanno quanto sia meraviglioso guardare un sogno da lontano, ammirarne i colori e stare in disparte. Pochi sanno com’è allettante accarezzare l’idea di essere migliore e poi affondare fino alla vita nel ridicolo, nel patetico.

Quasi nessuno sa com’è bello odiarsi e ripetersi di non valere nulla, dirsi che non deluderai mai le aspettative di nessuno perché  tanto sei stato creato  come una delusione vivente. Sofia lo sapeva, come sapeva che era sbagliato e autodistruttivo, ma non riusciva a smettere.

Sei un po’ stupida, si diceva spesso.

 

 

 

La terza storia parlava di evasione e di un mondo migliore. Un mondo  immaginato in cui tutto ti è dovuto e la vita è più semplice: lineare, ridotta ai minimi termini.

Non c’erano obblighi e traguardi, non c’erano aspettative e nessuna voce ad urlarti di smetterla, a dirti che tutto quello che facevi non era abbastanza e, se lo era, era tutto sbagliato.

Non c’era vita, ma era bella.

Era una storia asettica e senz’anima, non c’era nulla per cui poter provare un’emozione forte, come un impeto di vita improvviso. Come il rimpianto di aver perso tutto nella vita e di star continuando a perder tempo, nella mancanza di tutta la voglia che non hai mai avuto.

Non era nemmeno una storia, perché non c’era nulla da descrivere, ma non c’era la paura di immergersi in un sogno bellissimo e crudele.

Era una negazione, ma andava più che bene per lei. Per Sofia che aveva sempre voluto troppo ed era affogata – perché non sapeva nuotare – nell’incapacità di afferrare un piccolo desiderio, almeno uno. Una piccola felicità che poi non avrebbe lasciato nulla, a parte un flebile ricordo.

Non aveva mai battuto i piedi, mai protestato, mai urlato forte e detto la sua, mai allungato la mano, mai avuto coraggio. Aveva vissuto una vita in disparte, mancandola in pieno, fallendo miseramente e guardandosi i piedi.

La vita l’aveva vista negli occhi di India, in tutti i suoi racconti, e nei racconti di tutti quelli che davano lezioni di vita in scatola, pronte e confezionate come un cibo in barattolo. Un consiglio istantaneo come il ramen.

Tutti a ricordare scene di vita passata con un sorriso nostalgico e gli occhi brillanti, persi. Tutti a dire di quant’è bella questa vita, di quanto c’è da vedere, di quanto va vissuta a pieno, in modo da non perdere neanche un secondo. Non devi perdere nulla della vita neanche quando lei gioca con te e non ti regala nulla, quando ti mette davanti sfide e tutti gli stronzi del mondo, tutta la merda del mondo.

Devi amarla lo stesso, devi amarla per questo.

Ma come fate, se si fa solo odiare? Come fate?, erano domande che le rimbombavano in testa e facevano un gran danno, perché non lo capiva per davvero.

La notte qualcuno moriva per invidia, allora, la sua invidia, perché c’erano riusciti tutti ed avevano corso veloce, come pesci argentati verso una fonte miracolosa dalla quale provenivano, sicuramente, i consigli-in-scatola-dell’esperienza .

Ma Sofia non sapeva nuotare, e con tutto quel peso addosso come poteva pensare di correre veloce?

Era zavorrata, pesante, tanto, tanto pesante.

Aveva la testa pesante, i pensieri pesanti, l’anima di un granchio che non vuole uscire dal guscio e cammina di lato per non dar nell’occhio – o almeno lo crede (in realtà è solo più ridicolo) – aveva stampata sulla fronte la frase: signorina-non-sono-capace, non-lo-so-fare, non-so-che-dire.

La cosa più divertente è che non sapeva di vivere, anche se lo stava facendo: mancare ogni obbligo e traguardo, non migliorare mai e fare sempre un passo indietro è vivere.

Noi siamo liberi di vivere come vogliamo.

 

Ed è una cazzata, una cazzata vera (le senti le risate?), perché ti devi uniformare, etichettare, inscatolare e confezionare al meglio – come se fossi una persona istantanea pronta per essere servita.
Non sei libero di pensare quello che vuoi, di fare quello che vuoi, di vivere come vuoi perché… li senti?  

Sono il giudizio degli altri, la vita degli altri, tutta la loro esperienza e le frasi formali, quelle di cortesia – come sta oggi, signora? Eh, io non tanto bene; l’ha visto il tempo? Promette pioggia; cosa farai nella vita? Quando ti farai una famiglia?; oh, e i bambini come stanno? – quelle che non servono a un cazzo. A un cazzo. E sono vuote e leggere come i palloncini gonfiati ad elio.

 Devi diventare e devi avere, non è importante essere. Lo era per Sofia, però, che cercava di ascoltare tutti e di non dare a nessuno le risposte frettolose che avevano sempre dato a lei. Ma questa è beneficenza e non l’ha mai pagata, non l’ha mai mantenuta. 

Si sono costruite crepe nella sua vita e vuoti -  arrampicati attorno alla sua vita come un edera velenosa - vertigini pericolose e incolmabili per tutte le cose di sé che ha dato e non ha mai riavuto.

È come quando presti una penna, una matita, una gomma, e alla lunga ti ritrovi l’astuccio vuoto, solo che certi vuoti non si possono ripagare e la vita non è un astuccio. Potrebbe essere una scuola, però, una crudele a cui nessuno sa di essere iscritto. Ma quanto è salato il conto da pagare! Quanto poco avrai in cambio!

E se la vita si può considerare una scuola, allora  Sofia era stata rimandata a settembre troppe volte.

"Tanto sei un po’ stupida,” si diceva, ed era la sua prima certezza, “è normale.”

Volendo era quasi rassicurante.

 

 

 

India era piena di quella vita che in Sofia era stata coperta dalla pioggia, come una piantina debole affogata da un acquazzone, e quindi mai fiorita, mai attecchita. C’era solo fango che sporcava le dita e acqua sporca che scorreva in rigagnoli, non come quella limpida nei suoi ricordi di bambina.

Sofia forse, quella sua amica, l’aveva troppo idealizzata, troppo purificata da ogni difetto che si tramutava in pregio, quasi fosse un miracolo. Sì, Sofia l’aveva sicuramente idealizzata troppo, perché non era poi così speciale, non così unica. Era uguale a tutte quelle ragazze che seguivano la moda, che potevano permetterselo, che compravano le magliette e i jeans esposti in vetrina, e non si facevano troppi problemi. 

Non avevano troppi pensieri, troppe idee, troppe passioni.

Erano banali e stupide: esemplari fotocopia nel meraviglioso multiforme cittadino di colori e forme. Erano stupide e frettolose, davano giudizi sommari – quando li davano – e frasi dette tanto per, frasi prestampate come le loro vite e le loro magliette. Erano odiose, stupide, India stessa lo era – non era mai stata così speciale, in effetti. Era stata solo tutto quello che quella ragazza di lardo, strana e pesante non poteva essere.

Sofia le odiava, la odiava. L’aveva sempre fatta incazzare tutta questa superficialità, tutta questa pigrizia nel non voler vedere, capire, chiedere, ascoltare. Cazzo, perché la gente non ti ascolta quando parli? PERCHE’?

Lei non aveva mai vissuto, è vero, mai corso, ma nella sua non-vita statica aveva pensato troppo, e si era fatta domande, non aveva trovato risposte. Aveva ascoltato la gente, aveva dato troppo nella speranza di ricevere qualcosa e, insomma, si era fregata da sola compiendo l’errore più grande di tutti: dare agli altri quello che vorresti ricevere tu.

È così patetico e scontato, che un qualsiasi idiota con un po’ di studio di filosofia avrebbe potuto capire qual era il suo problema. Evidentemente frequentava gente che non era un ‘qualsiasi idiota’, piuttosto un idiota integrale.

 Le veniva da dubitare dell’intelligenza della gente o, più probabilmente, della loro stracazzo di empatia. Forse quest’ultima non era un capo in saldo, dopotutto, forse era per questo che non se la comprava nessuno.

Rimaneva il fatto che Sofia era sempre arrabbiata, piena di bile ed acido gastrico, e non sapeva che cosa farne, non riusciva nemmeno a dimostrarlo, ad esplodere almeno un po’.

Ad abbassare sempre la testa, vedi che succede? Non sei padrone più di nulla, di nulla, e sei solo una marionetta nelle mani dei capricci degli altri.

Ci starebbe bene urlare, e prendere a pugni la porta, il muro, la faccia degli altri.
Sofia non lo fa, e scrive ed immagina storie in cui muoiono tutti: padre, madre, fratelli, amici e se stessa. Perché sono tutti colpevole di un omicidio di personalità che s’è svolto in silenzio e in disparte, come tutta la sua non-vita.

***

 

Siamo liberi di vivere come vogliamo.

È una bugia dolce che sa di tutte le rivoluzioni del mondo, di tutte le guerre e di tutti i trattati di pace insieme: sa di liberazione, di una vita migliore.

È una dicotomia interessante, affascinante,  ma è un altro sogno destinato a divenire incubo, un altro trip che ti lascia da sola a pensare a tutto quello che non sei, a fartelo pesare addosso come pietre di carne che ti mandano a fondo e ti fanno affogare – dentro – come tutta la vita che non è mai nata in Sofia.

Ha poche certezze, Sofia, davvero.

Sa di essere stupida, ed è la prima certezza. Sa di essersi abbassata un sacco di volte, e non sa se potrà alzarsi di nuovo. Sa che il protagonista della prima storia è lei.

Sa che ha dato troppo e che è troppo tardi per chiedere indietro tutte le parti di sé, è troppo tardi per fare causa e per battere i piedi. L’unica cosa che la massa di gente frettolosa le ha regalato, è un’infinità di vertigini altissime che le hanno spaccato il corpo e la faccia, come quei mosaici rovinati dal tempo e pieni di crepe.

Sofia è piena di crepe e ci entra l’acqua dentro, è acqua sporca, sporca come le parole d’impotenza che calcano tutti i suoi fogli pieni di stanchezza.

 Sbuffa, accartoccia fogli e non è nemmeno particolarmente disperata da tutto ciò, perché stare male è l’unica cosa che le riesce davvero, sa di meritarselo e non le crea molto fastidio. È sua la vita, l’ha vissuta da sempre così, e se è nata così vuol dire che forse un motivo c’è. E poi le piace così tanto compiangersi, compartirsi, immaginare come sarebbe essere migliore, ma farlo da lontano con la consapevolezza di non poter cambiare.

In realtà questa è una scusa, lei non vuole cambiare, lei non vuole muoversi. Le piace camminare di lato e non farsi vedere, le piace stare ferma a guardare gli altri affrettarsi e immaginarli morire.

Aveva un’amica, un’amica che aveva idealizzato tanto, amato tanto, amato in lei  il riflesso di quello che avrebbe potuto diventare. Poi India se n’era andata e non aveva lasciato nient’altro di sé che alcuni messaggi sul cellulare, un po’ sgrammaticati e pieni di puntini di sospensione, con frasi fatte e frettolose di chi, dice, di non avere più tempo per lei ora che si era innamorata. Ora che era felice e voleva godersela tutta questa stracazzo di vita, non c’era più posto per Sofia e per tutto il suo grasso molle e pallido.

Sofia aveva cercato di tenerla vicino a sé, perché le voleva bene e l’aveva odiata solo perché non poteva essere lei, ma India se n’era andata lo stesso e le aveva detto che se non capiva la sua felicità e le sue esigenze era un’egoista infantile.  

“Sono cambiata, sono più adulta,” le aveva detto, e Sofia l’aveva immaginata a guardarla dritta negli occhi, seria, e con l’aria di chi guarda cose che tu non puoi vedere “non posso più fare le cose che facevamo prima.”

La gente, si sa, non ti ascolta quando parli, ma il più delle volte non sa neanche cosa sta dicendo.
Le aveva regalato, di tanto in tanto, parole preconfezionate e consigli in barattolo con l’aria di chi ha capito tutto della vita, quando invece non ha capito proprio un cazzo.

Probabilmente si era anche sentita a posto con la coscienza, India, dopo aver dato via un po’ del suo tempo per servire a Sofia quelle frasi stantie.
Magari si era sentita saggia e  migliore nei suoi vent’anni scarsi .
 

Dovresti sentire delle risate, ora.

“Sei un po’ stupida,” si era detta senza un motivo apparente. Le frasi dette tanto per andavano per la maggiore, e stavolta non voleva essere da meno.

 

***

 

Nell’ultima storia avrebbe dovuto parlare di sé, una storia autobiografica, una di quelle che va sempre di moda.

Non l’ha mai scritta.

 

L’ultima certezza è che la pagina del quaderno le è caduta addosso e che qualcuno sta calcando sui bordi bianchi con cattiveria, per distruggerla.

 

La vita ha girato pagina e l’ha lasciata perdere, ha perso la pazienza anche lei.

   
 
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Drammatico / Vai alla pagina dell'autore: Red S i n n e r