Lei
amava troppo, sai?
Così tanto e
così a fondo che, a guardarsi allo
specchio, solo odio riusciva a provare: di amore non ne era rimasto.
Parole
d’acqua
sporca.
La
sua prima storia parlava di rabbia ed impotenza, il
protagonista ne rimaneva assuefatto, distrutto, mangiato. Lei lo gettava via, divenuto
imperfezione
imperante.
Il
protagonista urlava, si ribellava, di certo morire
non voleva, ma impotente era nato e nulla poté fare.
Rabbioso, divenne carta da
buttare.
Era
un gioco cattivo che faceva da sola, uccideva la
gente sulla carta e li immaginava a pregarla di non voltare pagina, di
non
lasciarli morire, di non farli soffrire. A lei non importava e girava
pagina
lentamente, quasi a far loro un dispetto, poi calcava forte con le
dita, sui
bordi bianchi, a volerli schiacciare.
Si
chiamava Sofia ed era cattiva, tanto cattiva, ma lo
era solo nella sua testa e le piaceva immaginare cose orribili solo per
il suo
cervello.
Sofia
aveva poche cose, perché tante le aveva perse, e
ne amava poche, ma le amava troppo.
Quand’era
bambina le piaceva tanto giocare con
l’acqua, ed apriva e chiudeva l’acqua del bagno un
sacco di volte, se la faceva
scorrere tra le dita, sulle mani, e rideva della carezza leggera sulla
sua
pelle.
Le piaceva
guardare l’acqua raccogliersi in un anello impalpabile alla
fine di ogni dito,
e pensare che fosse un regalo dell’acqua solo per lei. Poi
arrivava qualcuno ad
urlarle di smetterla, perché si consumava troppo,
perché non doveva giocare
così. Perché era stupido.
Sofia
iniziò ad imparare che veniva sempre il momento
in cui qualcuno ti urlava addosso, e che c’erano cose che si
consumavano
troppo. Come la pazienza.
Aveva
notato che la pazienza si consumava sempre, che
non bastava mai, che forse era preziosa come l’acqua del
bagno. Aveva ascoltato
migliaia di urla e di dinieghi, aveva vissuto abbassando la testa e
ripetendosi
che era finito il tempo di giocare, e non aveva mai detto nulla, nulla.
Allora
la notte sognava di ucciderli tutti, di farli
star male, di spaccargli la testa tanto per divertirsi. Sognava di dire
a tutti
che erano loro gli stupidi, che non
avevano capito nulla e che non lo avrebbero capito mai.
Era
cattiva Sofia, ma non riusciva a pentirsi di ciò
che pensava, perché era colpa degli altri se voleva farli a
pezzi. Era colpa
loro se tutto l’amore che aveva l’aveva regalato e
se non ne rimaneva più nulla
per sé.
Avevano
tutti sciocche presunzioni, patetiche idee,
stupide frasi e amavano lanciargliele
addosso,
come fossero moniti improrogabili di vita vissuta - ma vissuta da altri
-
perché la pazienza l’avevano consumata tutta e non
avevano altro da rivolgerle:
solo le parole brusche e distratte di chi ha troppe cose da fare e non
ha il
tempo di stare a pensare prima di parlare.
Sofia
odiava un sacco di cose, nello stesso modo in
cui amava tutto.
“Sei
un
po’ stupida,”
si diceva da sola.
La
seconda storia era nata come un vaneggiante sogno
ad occhi aperti, uno di quelli che fa più male di un trip
allucinogeno, in cui
niente può farti male e tutto è stato creato per
te. Uno di quei sogni in cui
la tua presenza è basilare, e non un optional di cui nessuno
sentirebbe la
mancanza.
Nel
sogno Sofia era bella, così bella che volle
descriversi e scrivere di nuovo. Era bellissima, magra e perfetta,
tutti la
adulavano e le ricordavano la sua bellezza, i suoi pregi e mai i suoi
difetti.
Sofia
era magra e aveva dei polsi sottili, eleganti,
aveva gambe lunghe e flessuose. L’osso della clavicola
sporgeva in modo
meraviglioso sotto la sua pelle pallida e la maglietta troppo larga la
infagottava in modo tenero, carino.
Aveva
tutto e non le mancava nulla: aveva persone che
l’amavano e l’amore la circondava come una coperta
morbida. Quando entrava in
un negozio non si sentiva goffa ed inadatta, ma sicura e bellissima.
Era
perfetta, perfetta.
Sofia
si innamorò un po’ della sua immagine, come un
timido
narciso, e volle guardarsi meglio, più a fondo.
Aguzzò la vista e si vide
davvero: vide il cumulo di grasso adiposo che si portava dietro, la sua
faccia
anonima e i suoi polsi tozzi. Vide il grasso trasbordare dai jeans,
molliccio e
bianco, e la sua vita per intero, in tutti i suoi miseri colori.
Sofia
si arrabbiò, si arrabbiò a morte e con se stessa
per essere stata così stupida da immaginare qualcosa di
così bello che non si
può neanche toccare. Nemmeno per un’ora o per un
minuto.
Perché
lo sapeva bene che certe cose si consumano,
nella vita, e i sogni lo fanno, ma consumano te:
ti spolpano fino alle ossa, ti illudono e poi ti lasciano da
sola.
Sola
a pensare a quanto è triste la tua vita, a quanto
è stupida, e noiosa e patetica.
A
sentire freddo anche se fuori è estate.
***
Sofia
aveva poche cose, davvero poche. Certe cose non
le aveva proprio mai avute, come la “forza di
volontà”. Ma aveva delle
certezze, e sapeva di essere signorina-non-sono-capace e
non-lo-so-fare,
signorina-non-sono-abbastanza e lasciami-in-pace.
Avere certezze
nella vita, era indispensabile, o almeno così credeva,
quindi ne era quasi
contenta.
Sofia,
però, aveva un’amica, ed era il dono
più grande
e la sofferenza più acuta, insieme. Sapeva che non poteva
provare entrambe le
cose, che era assurdo, ma sapeva di essere un po’ stupida ed
era forse la sua
prima certezza, quindi non ci badava. Andava
bene (anche se non andava bene niente).
Aveva
un’amica che era bellissima e allegra e solare,
amava la vita con tutta la sua forza e non si abbatteva mai, andava
sempre
avanti. Sorrideva alla vita come la primavera e Sofia si sentiva a
disagio,
ancora più goffa del solito, nel suo abito di lardo, a
pensare a quanto erano
diverse, mortalmente opposte. (Ma forse era la sua testa ad averla
idealizzata
così tanto, forse era l’ennesimo gioco cattivo per
farla sentire inadatta.)
A
Sofia pioveva dentro da un sacco di tempo, da un
sacco di anni, e il sole fuori dalla finestra lo odiava a morte
perché
significava ‘caldo’ ed
‘estate’, e Sofia non voleva scoprirsi –
in nessun
senso, in nessun modo – perché il suo corpo era
disgustoso e molle, pallido
come un mollusco, come il muco nei mesi invernali. Non voleva farsi
vedere ed
evitava gli specchi e gli occhi degli altri, perché sapeva
– ed era un’altra
dolorosa certezza – di essere pallida come un mollusco anche
dentro, nel
carattere che non aveva. Nella forza che aveva ucciso abbassando il
capo ogni
volta.
Sofia
aveva un’amica che aveva amato tanto, compreso ed
abbracciato; e anche se non aveva mai avuto molto, aveva sempre dato
troppo e
c’erano incrinature e vuoti d’anima che niente
avrebbe potuto coprire.
Aveva
un’amica che si chiamava India, un nome
particolare che ricordavano tutti, e ricordavano lei perché
era speciale e
bella.
Bella.
Si
sentiva in difetto ogni volta che la guardava, si
sentiva in colpa e sempre più brutta, sempre più
banale e sempre più strana.
Con tutti i suoi pensieri cattivi, e le sue storie dai finali tristi.
Si
sentiva goffa e inutile appena entrava in un negozio con lei, alla
ricerca
della nuova maglietta di turno, o di jeans stretti.
La
commessa le accoglieva con un sorriso affettato e
si rivolgeva subito a India, “E’ per te,
vero?” le chiedeva, e guardava Sofia a
malapena.
“E’
per lei, sì,” le rispondeva subito, cercando di
farsi guardare. E infatti la guardava, e si soffermava sui jeans larghi
e
troppo lunghi che finivano sotto le scarpe da ginnastica, guardava il
cappotto
che si chiudeva a malapena e i capelli troppo lunghi e senza forma. Il
suo viso
troppo tondo e troppo bianco, senza niente di particolare e fatto
apposta per
essere dimenticato in fretta.
Era
uno sguardo che sapeva di sufficienza, di una
lieve forma di scherno, e Sofia voleva nascondersi ovunque, voleva
scappare, ma
rimaneva ferma a sentire i chili di troppo pesarle addosso come pietre
di carne,
ed andava a fondo. Sempre più giù.
Sempre
più giù.
Le
veniva da pensare che sarebbe affogata, perché non
sapeva nuotare, e si diede della stupida per quei pensieri fuori posto
e senza
senso.
“Sei un
po’ stupida,"
si diceva spesso.
“Okay!”
trillava la commessa, fasciata nei suoi
bellissimi jeans stretti e nel maglioncino chiaro.
“Seguitemi.”
Si
guardava intorno, in quel negozio sconosciuto, e
non sapeva che fare. Cercava di spostarsi in fretta appena arrivava
qualcuno,
per non intralciare, per non dare fastidio. Era stanca, voleva sedersi,
cercare
di farsi più piccola e meno ingombrante, ma non
c’era nessun posto dove
nascondersi e troppa gente ad osservarla. Aspettò che India
pagasse, poi uscì
dal negozio, pregandola di avviarsi a tornare a casa.
“Ho
mal di testa,” mentì al volo.
Tornata
a casa, si tolse i jeans ed afferrò a piene
mani il grasso molle nell’interno coscia. Lo strinse forte e
ci ficcò dentro le
unghie, strinse i denti per il dolore improvviso, ed iniziò
a piangere.
Afferrò
la carne in eccesso sui suoi fianchi, e la
tirò forte, quasi a volerla staccare dalle sue ossa con la
forza della rabbia.
Si guardò e vide un’estranea,
un’orribile estranea, di cui non riconosceva
nemmeno gli occhi, nemmeno la bocca, nemmeno i capelli dal colore
anonimo.
Era uguale a
centomila persone, uguale a centomila persone anonime, senza carattere,
senza
bellezza, senza nulla che potesse far sì che qualcuno si
ricordasse di lei.
“Sei
grassa,” dicevano tutti, ma nessuno sapeva che
per cambiare devi avere la forza, la voglia,
la pazienza… e la pazienza, Sofia lo sapeva,
è la cosa che si consuma
prima, è come l’acqua del bagno. La voglia
è liquida e come l’acqua si asciuga
subito, la forza scivola via come le gocce nel lavandino.
Sofia
si guardava allo specchio e seguiva le lacrime
sporche di eyeliner e matita scorrerle sulla faccia (come la forza), le
seguiva
correre, sporcare l’acqua e poi asciugarsi, scomparire.
Guardava
la faccia che non riconosceva, una faccia
così banale che si era confusa con la moltitudine di gente
fuori dalla finestra
e si diceva: “l’hai voluto tu, l’hai
voluto tu… non hai mai voluto… adesso
è
tardi.”
Sofia
non balbettava, ma a guardarsi da così vicino le
veniva da piangere, quindi singhiozzava e non finiva le frasi, le
finiva nella
testa affinché non avessero quel non so che di definitivo e finale. Come se non
fossero condanne.
Solo
pochi sanno quanto
sia meraviglioso guardare un
sogno da lontano, ammirarne i colori e stare in disparte. Pochi sanno
com’è
allettante accarezzare l’idea di essere migliore e poi
affondare fino alla vita
nel ridicolo, nel patetico.
Quasi
nessuno sa com’è bello odiarsi e ripetersi di
non valere nulla, dirsi che non deluderai mai le aspettative di nessuno
perché tanto
sei stato creato come
una delusione vivente. Sofia lo sapeva,
come sapeva che era sbagliato e autodistruttivo, ma non riusciva a
smettere.
“Sei un
po’ stupida,”
si diceva spesso.
La
terza storia parlava di evasione e di un mondo
migliore. Un mondo immaginato
in cui
tutto ti è dovuto e la vita è più
semplice: lineare, ridotta ai minimi termini.
Non
c’erano obblighi e traguardi, non c’erano
aspettative e nessuna voce ad urlarti di smetterla, a dirti che tutto
quello
che facevi non era abbastanza e, se lo era, era tutto sbagliato.
Non
c’era vita, ma era bella.
Era
una storia asettica e senz’anima, non c’era nulla
per cui poter provare un’emozione forte, come un impeto di
vita improvviso.
Come il rimpianto di aver perso tutto nella vita e di star continuando
a perder
tempo, nella mancanza di tutta la voglia che non hai mai avuto.
Non
era nemmeno una storia, perché non c’era nulla da
descrivere, ma non c’era la paura di immergersi in un sogno
bellissimo e
crudele.
Era
una negazione, ma andava più che bene per lei. Per
Sofia che aveva sempre voluto troppo ed era affogata –
perché non sapeva
nuotare – nell’incapacità di afferrare
un piccolo desiderio, almeno uno. Una
piccola felicità che poi non avrebbe lasciato nulla, a parte
un flebile
ricordo.
Non
aveva mai battuto i piedi, mai protestato, mai
urlato forte e detto la sua, mai allungato la mano, mai avuto coraggio.
Aveva
vissuto una vita in disparte, mancandola in pieno, fallendo miseramente
e
guardandosi i piedi.
La
vita l’aveva vista negli occhi di India, in tutti i
suoi racconti, e nei racconti di tutti quelli che davano lezioni di
vita in
scatola, pronte e confezionate come un cibo in barattolo. Un consiglio
istantaneo come il ramen.
Tutti
a ricordare scene di vita passata con un sorriso
nostalgico e gli occhi brillanti, persi. Tutti a dire di
quant’è bella questa
vita, di quanto c’è da vedere, di quanto va
vissuta a pieno, in modo da non
perdere neanche un secondo. Non devi perdere nulla della vita neanche
quando lei
gioca con te e non ti regala nulla, quando ti mette davanti sfide e
tutti gli
stronzi del mondo, tutta la merda del mondo.
Devi
amarla
lo stesso, devi amarla
per questo.
Ma
come
fate, se si fa solo odiare? Come fate?,
erano domande che le
rimbombavano in testa e facevano un gran danno, perché non
lo capiva per
davvero.
La
notte qualcuno moriva per invidia, allora, la sua
invidia, perché c’erano riusciti
tutti ed avevano corso veloce, come pesci argentati verso una fonte
miracolosa
dalla quale provenivano, sicuramente, i
consigli-in-scatola-dell’esperienza .
Ma Sofia non sapeva nuotare, e con tutto quel peso addosso come poteva pensare di correre veloce?
Era zavorrata, pesante, tanto,
tanto pesante.
Aveva
la testa pesante, i pensieri pesanti, l’anima di
un granchio che non vuole uscire dal guscio e cammina di lato per non
dar
nell’occhio – o almeno lo crede (in
realtà è solo più ridicolo)
– aveva
stampata sulla fronte la frase: signorina-non-sono-capace,
non-lo-so-fare,
non-so-che-dire.
La
cosa più divertente è che non sapeva di vivere,
anche se lo stava facendo: mancare ogni obbligo e traguardo, non
migliorare mai
e fare sempre un passo indietro è
vivere.
Noi
siamo liberi di vivere come vogliamo.
Ed
è una cazzata,
una cazzata vera (le senti le risate?), perché ti
devi uniformare, etichettare, inscatolare e confezionare al meglio
– come se
fossi una persona istantanea pronta per essere servita.
Non sei libero di pensare quello che vuoi, di fare
quello che vuoi, di vivere come vuoi perché… li
senti?
Sono
il giudizio degli altri, la vita degli altri,
tutta la loro esperienza e le frasi formali, quelle di cortesia
– come sta oggi, signora? Eh, io
non tanto
bene; l’ha visto il tempo? Promette pioggia; cosa farai nella
vita? Quando ti
farai una famiglia?; oh, e i bambini come stanno? –
quelle che non servono
a un cazzo. A un cazzo. E sono
vuote
e leggere come i palloncini gonfiati ad elio.
Devi diventare e devi avere, non è importante essere. Lo era per Sofia, però, che cercava di ascoltare tutti e di non dare a nessuno le risposte frettolose che avevano sempre dato a lei. Ma questa è beneficenza e non l’ha mai pagata, non l’ha mai mantenuta.
Si
sono costruite crepe nella sua vita e vuoti - arrampicati
attorno alla sua vita come un
edera velenosa - vertigini pericolose e incolmabili per tutte le cose
di sé che
ha dato e non ha mai riavuto.
È
come quando presti una penna, una matita, una gomma,
e alla lunga ti ritrovi l’astuccio vuoto, solo che certi
vuoti non si possono
ripagare e la vita non è un astuccio. Potrebbe essere una
scuola, però, una
crudele a cui nessuno sa di essere iscritto. Ma quanto è
salato il conto da
pagare! Quanto poco avrai in cambio!
E
se la vita si può considerare una scuola, allora Sofia era stata rimandata a
settembre troppe
volte.
"Tanto
sei un po’ stupida,”
si diceva, ed era la sua prima certezza,
“è normale.”
Volendo
era quasi rassicurante.
India
era piena di quella vita che in Sofia era stata
coperta dalla pioggia, come una piantina debole affogata da un
acquazzone, e
quindi mai fiorita, mai attecchita. C’era solo fango che
sporcava le dita e
acqua sporca che scorreva in rigagnoli, non come quella limpida nei
suoi
ricordi di bambina.
Sofia forse, quella sua amica, l’aveva troppo idealizzata, troppo purificata da ogni difetto che si tramutava in pregio, quasi fosse un miracolo. Sì, Sofia l’aveva sicuramente idealizzata troppo, perché non era poi così speciale, non così unica. Era uguale a tutte quelle ragazze che seguivano la moda, che potevano permetterselo, che compravano le magliette e i jeans esposti in vetrina, e non si facevano troppi problemi.
Non
avevano troppi pensieri, troppe idee, troppe passioni.
Erano
banali e stupide: esemplari fotocopia nel meraviglioso
multiforme cittadino di colori e forme. Erano stupide e frettolose,
davano
giudizi sommari – quando li davano – e frasi dette
tanto per, frasi prestampate
come le loro vite e le loro magliette. Erano odiose, stupide, India
stessa lo
era – non era mai stata così speciale, in effetti.
Era stata solo tutto quello
che quella ragazza di lardo, strana e pesante
non poteva essere.
Sofia
le odiava, la odiava. L’aveva sempre fatta
incazzare tutta questa superficialità, tutta questa pigrizia
nel non voler
vedere, capire, chiedere, ascoltare. Cazzo, perché la gente
non ti ascolta
quando parli? PERCHE’?
Lei
non aveva mai vissuto, è vero, mai corso, ma nella
sua non-vita statica aveva pensato troppo, e si era fatta domande, non
aveva
trovato risposte. Aveva ascoltato la gente, aveva dato troppo nella
speranza di
ricevere qualcosa e, insomma, si era fregata da sola compiendo
l’errore più
grande di tutti: dare agli altri quello che vorresti ricevere tu.
È
così patetico e scontato, che un qualsiasi idiota
con un po’ di studio di filosofia avrebbe potuto capire qual
era il suo
problema. Evidentemente frequentava gente che non era un
‘qualsiasi idiota’,
piuttosto un idiota integrale.
Le veniva da
dubitare dell’intelligenza della gente o, più
probabilmente, della loro
stracazzo di empatia. Forse quest’ultima non era un capo in
saldo, dopotutto,
forse era per questo che non se la comprava nessuno.
Rimaneva
il fatto che Sofia era sempre arrabbiata,
piena di bile ed acido gastrico, e non sapeva che cosa farne, non
riusciva
nemmeno a dimostrarlo, ad esplodere almeno un po’.
Ad
abbassare sempre la testa, vedi che succede? Non
sei padrone più di nulla, di nulla, e sei solo una
marionetta nelle mani dei
capricci degli altri.
Ci
starebbe bene urlare, e prendere a pugni la porta,
il muro, la faccia degli altri.
Sofia non lo fa, e scrive ed immagina storie in cui
muoiono tutti: padre, madre, fratelli, amici e se stessa.
Perché sono tutti
colpevole di un omicidio di personalità che
s’è svolto in silenzio e in
disparte, come tutta la sua non-vita.
***
Siamo
liberi di vivere come vogliamo.
È
una bugia dolce che sa di tutte le rivoluzioni del
mondo, di tutte le guerre e di tutti i trattati di pace insieme: sa di
liberazione, di una vita migliore.
È
una dicotomia interessante, affascinante,
ma è un altro sogno destinato a divenire
incubo, un altro trip che ti lascia da sola a pensare a tutto quello
che non
sei, a fartelo pesare addosso come pietre di carne che ti mandano a
fondo e ti
fanno affogare – dentro – come tutta la vita che
non è mai nata in Sofia.
Ha
poche certezze, Sofia, davvero.
Sa
di essere stupida, ed è la prima certezza. Sa di
essersi abbassata un sacco di volte, e non sa se potrà
alzarsi di nuovo. Sa che
il protagonista della prima storia è lei.
Sa
che ha dato troppo e che è troppo tardi per
chiedere indietro tutte le parti di sé, è troppo
tardi per fare causa e per
battere i piedi. L’unica cosa che la massa di gente
frettolosa le ha regalato,
è un’infinità di vertigini altissime
che le hanno spaccato il corpo e la
faccia, come quei mosaici rovinati dal tempo e pieni di crepe.
Sofia
è piena di crepe e ci entra l’acqua dentro,
è
acqua sporca, sporca come le parole d’impotenza che calcano
tutti i suoi fogli
pieni di stanchezza.
Sbuffa,
accartoccia fogli e non è nemmeno particolarmente disperata
da tutto ciò,
perché stare male è l’unica cosa che le
riesce davvero, sa di meritarselo e non
le crea molto fastidio. È sua la vita, l’ha
vissuta da sempre così, e se è nata
così vuol dire che forse un motivo c’è.
E poi le piace così tanto compiangersi,
compartirsi, immaginare come sarebbe essere migliore, ma farlo da
lontano con
la consapevolezza di non poter cambiare.
In
realtà questa è una scusa, lei non vuole
cambiare,
lei non vuole muoversi. Le piace camminare di lato e non farsi vedere,
le piace
stare ferma a guardare gli altri affrettarsi e immaginarli morire.
Aveva
un’amica, un’amica che aveva idealizzato tanto,
amato tanto, amato in lei il
riflesso di
quello che avrebbe potuto diventare. Poi India se n’era
andata e non aveva
lasciato nient’altro di sé che alcuni messaggi sul
cellulare, un po’
sgrammaticati e pieni di puntini di sospensione, con frasi fatte e
frettolose
di chi, dice, di non avere più tempo per lei ora che si era
innamorata. Ora che
era felice e voleva godersela tutta questa stracazzo di vita, non
c’era più
posto per Sofia e per tutto il suo grasso molle e pallido.
Sofia
aveva cercato di tenerla vicino a sé, perché le
voleva bene e l’aveva odiata solo perché non
poteva essere lei, ma India se n’era
andata lo stesso e le aveva detto che se non capiva la sua
felicità e le sue
esigenze era un’egoista infantile.
“Sono
cambiata, sono più adulta,” le aveva detto, e
Sofia
l’aveva immaginata a guardarla dritta negli occhi, seria, e
con l’aria di chi guarda
cose che tu non puoi vedere “non posso più fare le
cose che facevamo prima.”
La
gente, si sa, non ti ascolta quando parli, ma il
più delle volte non sa neanche cosa sta dicendo.
Le aveva regalato, di tanto in tanto, parole
preconfezionate e consigli in barattolo con l’aria di chi ha
capito tutto della
vita, quando invece non ha capito proprio un cazzo.
Probabilmente
si era anche sentita a posto con la
coscienza, India, dopo aver dato via un po’ del suo tempo per
servire a Sofia quelle
frasi stantie.
Magari si era sentita saggia e migliore
nei suoi vent’anni scarsi .
Dovresti
sentire delle risate, ora.
“Sei
un po’ stupida,” si era
detta senza un motivo apparente. Le frasi dette tanto per andavano per
la
maggiore, e stavolta non voleva essere da meno.
***
Nell’ultima
storia avrebbe dovuto parlare di sé, una
storia autobiografica, una di quelle che va sempre di moda.
Non
l’ha mai scritta.
L’ultima
certezza è che la pagina del quaderno le è
caduta addosso e che qualcuno sta calcando sui bordi bianchi con
cattiveria,
per distruggerla.
La vita ha girato pagina e
l’ha lasciata perdere, ha
perso la pazienza anche lei.