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Autore: Miss Moony    31/03/2012    0 recensioni
Un tempo aveva una vita. Aveva amici, parenti, giochi, emozioni, sentimenti, gioie e dolori. Ma era ormai un tempo lontano. Quel giorno, davanti ai suoi ricordi grigi di tempo, quel che gli rimanevano erano solo effimere ombre di memoria, trasparenti e impalpabili, pronte a sparire alle prime luci del presente. La sua vita era ormai fatta di ombre. Sotto un cielo scuro di pioggia, il ragazzo bianco fissava con i suoi impenetrabili occhi neri altri occhi, altrettanto neri e impenetrabili, quelli del ragazzo dai capelli biondi. Poi cominciò a parlare.
Genere: Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: L, Near, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Un tempo aveva una vita. Aveva amici, parenti, giochi, emozioni, sentimenti, gioie e dolori. Ma era ormai un tempo lontano. Quel giorno, davanti ai suoi ricordi grigi di tempo, quel che gli rimanevano erano solo effimere ombre di memoria, trasparenti e impalpabili, pronte a sparire alle prime luci del presente. La sua vita era ormai fatta di ombre.
Sotto un cielo scuro di pioggia, il ragazzo bianco fissava con i suoi impenetrabili occhi neri altri occhi, altrettanto neri e impenetrabili, quelli del ragazzo dai capelli biondi. Poi parlò.
 
« Oggi vorrei raccontarti una storia, che per me è come una di quelle storie che si raccontano ai bambini in inverno sotto le coperte; come quelle che conosci a memoria, ma man mano che la racconti cambi sempre qualche particolare, sempre diverso; come quelle che quando iniziano non sai mai se ridere o piangere, perché sai che finiranno sempre nello stesso modo. Ma forse per te non sarà che un’altra vecchia memoria del passato.
 
Cominciò tutto da quella giornata scura di pioggia.
Nel cielo, nubi grigie e gonfie si accalcavano le une sulle altre; per terra, tra asfalto e marciapiedi, si formavano grandi e piccole pozzanghere, e pesanti gocce di pioggia battevano instancabilmente sulla strada. Una macchina percorreva le squallide vie della periferia cittadina. Uscita dal sobborgo, continuò ancora e ancora sulle strade sterrate della fitta brughiera nei dintorni di Winchester; intorno, la pioggia era diventata temporale e i tergicristalli servivano a ben poco di fronte alle gocce che si seguivano senza interruzione sulla carrozzeria e i vetri dell’auto, rendendo quasi impossibile la visuale dai finestrini: nonostante ciò, la macchina non si fermò né rallentò la sua corsa. Si arrestò solo davanti ad una stradina secondaria apparentemente uguale a tante altre, ci entrò con un po’ di fatica per via del fango che con l’acqua aveva impantanato il suolo, continuò poi fino ad arrivare davanti ad un alto cancello di metallo che sembrava sbucato improvvisamente da dietro gli alberi. Lì la macchina si fermò e ne scese l’autista che, cercando di ripararsi alla meglio sotto un ombrello nero, si affrettò ad aprire la portiera al passeggero del sedile dietro: ne uscì una figurina piccola e sottile, una bambina, avvolta in un impermeabile nero che la proteggeva ben poco dalla pioggia battente. I due, stretti sotto l’ombrello, entrarono dal cancello che si aprì per lasciarli passare.
 
Niente in quel cancello lasciava immaginare che fosse l’entrata di un orfanotrofio, né tantomeno che non si trattasse di un orfanotrofio qualsiasi, così come niente in quella sottile figura vestita di nero lasciava pensare che non fosse una bambina come le altre.
 
L’avevano portata all’asciutto; il suo bagaglio (una piccola valigia) era stato scaricato dalla macchina dall’uomo che l’aveva accompagnata fino a lì, e ora a lei rimaneva solo una borsa con dentro all’apparenza un involto di coperte: nessuno le aveva chiesto cosa contenesse, anzi molto probabilmente il signore che l’aveva portata via dal suo orfanotrofio, la sua unica casa, senza neanche dirle dove sarebbero dovuti andare, non si era nemmeno accorto di quel bagaglio aggiuntivo, tanto poco aveva fatto caso a lei. Proprio come se lei fosse stata un pacco: fragile, importante (per qualche motivo), da trattare con cautela, ma del cui contenuto ci si poteva tranquillamente disinteressare. Ed ora l’aveva lasciata seduta su una sedia in un angolo di quello studio, dove stava discutendo con un altro uomo seduto al di là della scrivania. I capelli della bambina gocciolavano ancora per la pioggia, che nel frattempo non aveva smesso un attimo di sferzare sul vetro della finestra di fianco a lei; le gocce le avevano già bagnato le spalle della giacca, rimasta asciutta perché coperta dall’impermeabile che ora era appeso ad un muro a gocciolare sul pavimento.
L’uomo seduto dietro la scrivania si alzò e si avvicinò a lei. Sembrava più gentile del suo amico, quello che le aveva fatto fare il viaggio in macchina. L’avrebbero spedita da qualche altra parte, da buon pacco, o finalmente si degnavano di spiegarle qualcosa?
 
Watari guardò a lungo la bambina seduta in un angolo, silenziosa, che Roger aveva appena portato alla Wammy’s House. Un genio, a sentire l’orfanotrofio in cui si trovava prima, diversa da tutti gli altri bambini. Una bambina normale, a sentire Roger, di cui si volevano sbarazzare perché faceva apparire stupidi gli altri bambini e che quindi stava antipatica a tutti, a partire dalla direttrice, la quale gli aveva fatto capire con un gran giro di parole che se la volevano portar via sarebbe stata solo felice. Una cara bambina, tanto brava, è sprecata per noi, è giusto che riceva un altro tipo di istruzione, se mi dite che il vostro istituto può offrigliela sarà doloroso per noi separarci da lei, era simpatica a tutti, ma per il suo bene la lasceremo andare, inoltre è anche giusto che gli altri bambini non si sentano in dovere di paragonarsi a lei perché potrebbero rimanerci male: morale, levatecela dai piedi. E così era stato fatto: la Wammy’s non negava ospitalità a bambini dotati di un’intelligenza fuori dal comune.
Watari la osservò bene, questa bambina indesiderata: indossava abiti consunti e di media qualità, come ci si sarebbe aspettato da un orfanotrofio di media qualità, ma li portava con la grazia di una principessa. Non piangeva, non dava alcun segno di turbamento, fame, freddo, fastidio per i capelli ancora bagnati, noia, no, sembrava solo un po’ scocciata della situazione. Probabilmente Roger non le aveva ancora detto niente su dove si trovava e perché era stata portata via così improvvisamente, era stata addirittura separata dal suo fratellino di nemmeno un anno che a quanto gli avevano detto era rimasto all’orfanotrofio dove stava prima. Decise che era arrivato il momento di spiegarle tutto quanto, le disse che era stata considerata abbastanza intelligente da poter accedere alla Wammy’s House e le spiegò la particolarità di quell’orfanotrofio: istruire bambini e ragazzi geniali. Come si aspettava, l’espressione scocciata sparì dalla faccia della piccola seguita da una stupita e, poi, da un sorriso gentile. Lui le chiese allora il nome, cioè il soprannome con cui voleva essere chiamata: lei rimase un attimo pensierosa, con lo sguardo perso nella tempesta fuori dalla finestra, poi rispose con voce chiara e limpida:
- Rain. »
  
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