Eterni.
Come la fenice.
Toc toc.
Il
ticchettio alla finestra mi fece alzare lo sguardo dalla pergamena che
stavo
studiando. Un bellissimo gufo nero
attendeva sul mio davanzale. Un sorriso increspò le mie
labbra. Gellert.
Ci
eravamo salutati da meno di mezz’ora ma aveva già
qualcosa da dirmi, sentiva
già la mia mancanza.
E
io la sua.
Aprii
la finestra per lasciar entrare Ares, il suo gufo. Gli accarezzai le
penne
lucide e splendenti mentre sfilavo dal suo becco la lettera:
“Albus
– lessi-
Ci
siamo salutati pochi minuti fa
ma sento già la mancanza delle tue argute opinioni, della
tua intelligenza
profonda e delle tue dolci labbra.
Stavo
pensando ai Doni. Una volta
che li avremo riuniti saremo i Padroni della Morte, i dominatori del
mondo
magico… Ci pensi?! Non moriremo mai. Potremo vivere insieme
per sempre.
Sai
cos’altro mi piacerebbe avere?
Una
fenice.
Per
quando saremo immortali, quale
animale migliore di quello per noi? Il simbolo
dell’eternità,
dell’indistruttibile. Un animale che rinasce continuamente
dalle proprie
ceneri, che ad ogni sconfitta sorge più forte.
Sarebbe
perfetto, non trovi?
Ci
vediamo domani, Albus.
Pensami”
Chiusi
la lettera continuando a sorridere.
Una
fenice… solo Gellert poteva pensare ad una cosa del genere.
Ed era un ulteriore
segno della nostra affinità, del nostro legame: lui non
poteva saperlo, ma la
Fenice era il mio animale preferito, avevo sempre desiderato averne una.
Presi
una pergamena pulita dalla scrivania e scrissi una risposta:
“Sai
che la Fenice è sempre stata
il mio animale preferito?
È
una creatura straordinaria,
estremamente rara e hai proprio ragione, come sempre, sarebbe il
simbolo
perfetto per i Padroni della Morte.
A
domani Gellert, ti penserò, come
sempre.
Buonanotte”.
Ignoravo
che quella sarebbe stata l’ultima lettera che gli avrei
mandato, ignoravo che
la vera natura di Gellert, la sua malvagità, si
sarebbe rivelata nel
modo più duro e crudele possibile. Non sapevo che di
lì a poche ore avrei avuto
il cuore spezzato e avrei maledetto il giorno in cui quel ragazzo, il
mio
ragazzo, aveva messo piede a Godric’s Hollow.
Erano
passati ormai dieci anni dalla morte di Ariana, dal giorno in cui tutti
i miei
incubi avevano preso forma. La foresta
vicino al castello era
silenziosa e deserta. Sedevo nella fresca ombra creata dai rami di un
vecchio e
nodoso faggio e riflettevo. Mi piaceva insegnare, lo trovavo un compito
adatto
a me, eppure ogni tanto alzando lo sguardo sulla classe mi sembrava di
scorgere
il volto triste e accusatorio di Ariana o il ghigno malevolo e
seducente di
Gellert.
Erano
sempre con me, soprattutto nei miei sogni. E purtroppo molti di questi
non
erano affatto incubi.
In
quei giorni in particolare mi capitava di pensare a Gellert anche
più del solito,
probabilmente a causa delle ricerche cui mi stavo dedicando: stavo
infatti
studiando le sostanze magiche da bacchetta, in particolare le piume di
fenice.
Era
quindi impossibile non pensare a lui:
“Una fenice.
Per
quando saremo immortali, quale
animale migliore di quello per noi? Il simbolo
dell’eternità,
dell’indistruttibile. Un animale che rinasce continuamente
dalle proprie
ceneri, che ad ogni sconfitta sorge più forte.”
Rivedevo
le parole galleggiare davanti a me, scritte in quella sua grafia
elegante. Non
riuscivo a dimenticare nulla di quello che ci eravamo detti, di quanto
ci era
stato tra noi… Certo, avevo accantonato il sogno di
diventare Padrone della
Morte, avevo capito quanto fossi inetto di fronte al potere. Ma per
quanto mi
sforzassi non riuscivo a dimenticare la fenice.
Era
sempre stato il mio animale preferito ma non avevo mai pensato di
poterne
possedere una, un giorno; almeno finché non
l’aveva suggerito Gellert. Da quel
momento il tarlo era entrato in me e potevo ammettere, anche se solo
con me
stesso, che il desiderio di avere una fenice fosse collegato in qualche
modo al
desiderio di avere accanto qualcosa di lui.
La
campana che segnava la fine delle lezioni echeggiò tra i
prati, giungendo ad
infrangere la quiete ovattata della foresta. Mi alzai e scuotendo i
fili d’erba
dalla veste mi incamminai verso il castello, dove la mia classe mi
stava
aspettando per la lezione.
Non
notai che, appollaiata maestosamente sul faggio, c’era
proprio una fenice, né
la piuma che lasciò cadere vicino a me.
-Tu
mi hai ucciso! Sei stato tu! Io
ti volevo bene… Perché mi hai ucciso?-
urlò Ariana piangendo.
Cercai
di parlare, di
giustificarmi, ma scoprii di non avere voce.
Intanto
due braccia forti mi
cinsero da dietro:
-Non
mi hai dimenticato, vero, Albus?-
soffiò dolce al mio orecchio- Hai dimenticato i nostri
sogni, i baci?
Non
riuscivo a parlare, né a
muovermi. Ariana continuava a piangere sempre più forte e le
braccia di Gellert
mi tenevano sempre più stretto…
Mi
svegliai di colpo, in un lago di sudore.
Improvvisamente
la stanza mi sembrava troppo calda, opprimente, piena com’era
dei residui del
sogno. Così mi alzai e uscii nel parco, cercando di calmare
il battito
impazzito del mio cuore, di non fermarmi ad analizzare cosa lo faceva
realmente
andare così veloce.
All’improvviso
vidi una fiamma davanti a me, un bagliore rosso e oro, e udii la
più bella
musica mai sentita.
Mentre
questa cresceva d’intensità, calmando il mio cuore
e riempiendo la mia anima.
Per la prima volta dalla morte di Ariana sentii una gran pace.
La
fiamma divenne più nitida, finché non scomparve,
sostituita da una fenice.
Rimasi
a bocca aperta, incapace di credere ai miei occhi. L’uccello
era lì, davanti a
me, magnifico nel suo piumaggio iridescente. Si avvicinò e
sollevai una mano
tremante a sfiorargli la lunga coda. Lei chiuse una volta i lucenti
occhi scuri
e si lasciò accarezzare, poi cominciò a volare
verso il castello.
Ipnotizzato,
la seguii fino in camera mia.
Non
sapevo come era successo né perché, ma ora quel
magnifico animale era mio. Mi
aveva scelto.
Accarezzai
la sua soffice testa e pensai, ovviamente, a Gellert.
Ma
per la prima volta nei miei pensieri non c’era amarezza,
senso di colpa, odio.
C’era
solo la dolcezza del ricordo.
Avevo
amato Gellert Grindelwald, di un amore totale e appassionato, e i miei
sentimenti per lui non sarebbero mai cambiati. Avevo creduto che
fossero ormai
morti, sepolti dall’enormità di ciò che
erano costati, ma mi sbagliavo. Erano
rimasti lì, sotto la cenere, ed erano risorti più
forti, proprio come una
fenice.
Non
voleva certo dire che l’avessi perdonato, o che avessi
perdonato me stesso, per
quello che era successo ad Ariana o che avessi ricominciato a illudermi
sulla
sua vera natura.
Solo
che, da qualche parte dentro di me, l’avrei sempre amato. I
ricordi del nostro
amore sarebbero stati eterni. Come la fenice.