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Autore: Sybeoil    03/04/2012    1 recensioni
Non è facile crescere in un paese che tutto il mondo critica ma che nessuno si scomoda ad aiutare, non è nemmeno facile crescere in una famiglia speccata come la mia. A dirla tutta non è affatto facile crescere in generale. La vita cambia, i problemi crescono, le delusioni aumentano e i sogni colano a picco. Ti rendi conto che tutto ciò in cui credevi da bambina, tutto ciò che la tua mamma ti raccontava, sono solo bugie vuote.
E così alla fine ti rassegni e ti integri a quel mondo che ti vuole schiava del lavoro. Diventi una dei tanti non una tra i tanti.
Succede però, che a volte e dico solo a volte, il Destino sembra volerti dare una mano e allora... allora succede l'impossibile. Ciò che hai sempre desiderato ti si presenta sotto gli occhi e tu non puoi fare a meno di afferrarlo e tenertelo stretto.
A volte ci si mette anche a l'amore, quello vero che fa battere i cuori e venire il mal di stomaco. Quell'amore così impensabile da sapere che è quello giusto.
Quando tutto va come dovrebbe andare, ci si mette l'amore per il ragazzo riccio conosciuto a Londra!
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Harry Styles, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Prologo

 

 

 

 

 

< Signorina Valentini, può avvicinarsi un momento alla cattedra? >

La voce del professor Lamberti interruppe il filo dei miei pensieri facendomi alzare la testa dal libro di letteratura inglese sul quale stavo leggendo la mia tragedia preferita: Romeo e Giulietta.

Infilai una matita all’interno del libro e con innaturale calma mi diressi verso il piccolo tavolo in legno scuro che costituiva la cattedra.

< Mi dica professore > sussurrai una volta di fianco alla cattedra.

< Vorrei che dopo la fine della lezione ti fermassi per una decina di minuti > annunciò continuando a guardare il suo registro scolastico dove, con grande rammarico di molti miei compagni, annotava ogni singolo voto. < C’è una cosa di cui vorrei parlarti > aggiunse alzando lo sguardo e dedicandomi un sorriso tirato.

< Certo > annui tornando al mio banco in seconda fila e rimettendomi a leggere come se nulla fosse.

Se pur contro la mia volontà, nei restanti quaranta minuti che separavano il mio corpo e la mia mente dalla libertà, mi ritrovai a pensare al motivo per cui il professor Lamberti mi volesse parlare.

Di sicuro non poteva essere per la mia media che nella sua materia, come anche nelle altre a dire il vero, era più che perfetta. Da che avessi memoria, non ero mai scesa sotto il nove in nessuna delle ben dodici materie che mi toccava seguire.

L’unica in cui avevo qualche difficoltà in più, che però riuscì presto a superare, era fisica. Per i miei gusti c’erano troppi schemi e troppe regole da sapere e da ricordare, preferivo di gran lunga le materie che permettessero alla mente di spaziare lungo vari corsi.

Per esempio adoravo filosofia; quel senso di continua ricerca, di continua attesa, era puro nettare per il mio cervello. C’era però da dire che amavo follemente anche inglese e che il mio sogno, per quanto utopistico esso fosse, era quello di trascorrere una piccola parte della vita proprio nella capitale inglese dove avrei potuto assimilare ogni singola goccia di vita British. Purtroppo però la mia situazione familiare o meglio ancora, la mia situazione economica, non me lo avrebbero permesso quest’anno né mai.

Non è facile crescere in un paese che tutto il mondo critica ma che nessuno aiuta, non è nemmeno facile crescere in una famiglia spezzata come la mia. Insomma non è facile crescere nei miei panni, soprattutto se quei panni sono sudati per lo sforzo di riuscire a scuola, nel lavoro e magari anche un briciolo nella vita privata. Non è per niente facile quando quegli stessi panni sono impregnati di ricordi vecchi e dolorosi di un padre senza cuore capace di apparire come il tuo eroe un giorno e come un mostro il giorno dopo.

E’ tremendamente difficile crescere, maturare e affrontare le sfide della vita quando sai di poter contare solo su te stessa. Non che mia madre fosse una pazza incapace di badare a me e mio fratello, ma faceva così tanta fatica per riuscire ad arrivare a fine mese con quello sputo di stipendio che le davano al ristorante, che alla fine imparai a cavarmela da sola per forza di cose.

Da ormai due anni a quella parte lavoravo come un qualunque adulto consapevole. Appena compiuti i sedici anni mi ero decisa a cercarmi un lavoretto che mi permettesse di lasciare un minimo di respiro a quella santa donna e dopo settimane di estenuanti ricerche lo avevo finalmente trovato.

Facevo la cassiera part-time in un piccolo supermercato poco lontano da casa, la paga non era chissà quale grande cosa, ma erano sempre soldi che avrei potuto usare per aiutare a casa quindi li accettavo più che volentieri.

All’inizio non fu facile conciliare la scuola con il lavoro anche perché questo mi teneva impegnata quasi tutti i pomeriggi rubando tempo prezioso allo studio, ma alla fine trovai il ritmo giusto e riuscì a conciliare entrambi.

Ora, dopo due anni di sacrifici, ero riuscita a mettere da parte un bel gruzzoletto che sarebbe bastato per il soggiorno di almeno due settimane nella città dei miei sogni ma ero sempre restia a decidermi.

Avevo paura che lasciando mamma sarebbe successa chissà quale tragedia, lo so è stupido ma ehi, quando l’unica persona su cui puoi fare affidamento è lei le cose diventano un po’ più complicate.

Così ogni mattina prima di andare a scuola, invece di lasciare un biglietto con scritto mamma ti voglio bene o cose del genere, le lasciavo cinquanta euro nel portafoglio. Era un po’ il mio modo per dirle grazie di avermi cresciuta, amata e rispettata in tutti questi anni senza chiedere mai nulla in cambio e senza mai lamentarsi.

All’una e dieci esatta la campanella risuonò nei corridoi del Liceo Linguistico Spinelli ed una massa di bufali impazziti, che fino a pochi minuti prima giurerei di aver scambiato per i miei compagni, si precipitò fuori dall’aula diretta alla fermata dell’autobus che li avrebbe riportati a casa.

Io invece, come poco prima mi aveva chiesto il professore, mi fermai una decina di minuti in più.

< Circa due mesi fa > cominciò togliendosi gli occhiali e passandosi una mano sul viso stanco < Ti ho iscritto nella graduatoria per un’importante borsa di studio e a quanto pare hai vinto >

Lui aveva fatto cosa? E perché io, la diretta interessata, non ne sapevo niente di niente?

< Cosa? > domandai spalancando gli occhi dalla sorpresa.

< Ti ho iscritto al concorso per vincere una borsa di studio in lingua inglese che comprendeva un soggiorno di tre mesi a Londra e a quanto pare l’hai vinta > ripeté questa volta in tono più dolce e comprensivo facendomi quasi convincere di essere una bambina.

< Ma… ma io non ne sapevo niente > sussurrai lasciandomi cadere sulla sedia rimasta accanto alla scrivania.

Non poteva avermi fatto una cosa del genere. Un conto era fantasticare sull’andare a Londra senza però averne mai avuto realmente la possibilità, un altro era avercela ad un paio di centimetri dalle mani e non poterla afferrare.

< Non te l’ho detto perché non volevo darti false speranze > spiegò poggiandomi una mano sul ginocchio < Però hai vinto e so quanto desideri andare a Londra, quindi mi sembrava giusto darti questa opportunità >

Non so per quale motivo, forse perché nella mia vita era totalmente mancata una figura maschile in grado di farmi sentire importante o forse semplicemente perché l’andare a Londra stava diventando reale, ma lascia che una lacrima mi scappasse giù dagli occhi prima che potessi fermarla.

< Io… io non posso comunque andare a Londra > dissi cercando di ingoiare il groppo che mi si era improvvisamente formato in gola e che mi impediva di parlare.

< Tu devi andarci, è la tua grande occasione di vivere un sogno > mormorò deciso ma al contempo dolce < Se è per i soldi non devi preoccuparti, è tutto pagato >

< Ma… ma > tentai di ribattere inutilmente. L’idea di poter camminare per le vie della mia amata città si era già impossessata di me colonizzando cervello, cuore, polmoni, stomaco e tutto ciò che di colonizzabile ci fosse nel mio corpo.

< Ho anche già parlato con tua madre > aggiunse il prof chiudendo il registro con un colpo secco e voltandosi per sorridermi raggiante.

< E’ d’accordo che tu parta, te lo sei meritata > detto questo, si alzò, mi batté una mano sulla spalla e lasciò l’aula in silenzio.

Io rimasi ancora qualche istante seduta in quella classe che mi aveva accompagnata per cinque lunghi anni della mia vita fino a quando la voce scocciata della bidella mi richiamò alla realtà invitandomi, molto gentilmente, a sloggiare.

Recuperato lo zaino dal pavimento mi alzai e lasciai anche io quell’aula.

Quel pomeriggio passò più rapido del solito, tra una signora un po’ sbadata e un tizio ubriaco che si mise ad urlare per l’intero supermercato, non ebbi molto per pensare a ciò che avrei detto a mamma una volta tornata a casa.

Per fortuna la primavera aveva allungato le giornate e con esse anche le ore di luce a disposizione, così tornare a casa non fu terribile come invece risultava in inverno, quando le strade erano buie e silenziose.

Prima di entrare mi fermai sul pianerottolo di casa per pensare a cosa avrei detto a mamma una volta dentro, a come avrei potuto ringraziarla per l’enorme possibilità che mi stava dando ma in mente non mi venne altro che un misero “ grazie mamma”.

Presi un bel respiro profondo e infilai la chiave di casa nella toppa, girai e lasciai che la serratura scattasse aprendo la porta. Da dentro proveniva il profumo di pollo fritto e carote bollite con aceto, segno che Jack non sarebbe tornato quella sera.

Quando c’era lui casa nostra si trasformava in un ristorante, ciò che mamma cucinava sembrava non bastare mai.

Lasciai che la porta sbattesse dietro di me in modo da far notare la mia presenza ed evitare un infarto a quella santa donna.

< Tesoro > disse lei venendomi in contro don il grembiule ancora legato in vita e le mano sporche di olio.

< Mamma io… > mormorai prima di scoppiare a piangere e rifugiarmi tra le sue confortanti braccia.

< Lo so, lo so > mormorò cercando di confortarmi sussurrandomi quanto orgogliosa fosse di me e di chi ero diventata.

< Io non vado! > singhiozzai una volta in grado di parlare < Non ti lascio da sola >

< Tu invece andrai > asserì lei seria staccandosi da me e fissando i suoi occhi scuri in quelli chiari miei, l’unica cosa che avessi ereditato da mio padre erano gli occhi. Verdi come un prato in primavera.

< Te lo sei meritata è giusto che sia così > poi tornò ad abbracciarmi.

Rimanemmo così una mezz’ora buona, il tempo che mamma si ricordasse di avere del pollo sul fuoco e andasse a spegnerlo, poi insieme apparecchiammo e mangiammo.

Da lì ad una settimana sarei partita per la più meravigliosa città del mondo. Sarei partita per Londra!

 

Prologo

 

 

 

 

 

< Signorina Valentini, può avvicinarsi un momento alla cattedra? >

La voce del professor Lamberti interruppe il filo dei miei pensieri facendomi alzare la testa dal libro di letteratura inglese sul quale stavo leggendo la mia tragedia preferita: Romeo e Giulietta.

Infilai una matita all’interno del libro e con innaturale calma mi diressi verso il piccolo tavolo in legno scuro che costituiva la cattedra.

< Mi dica professore > sussurrai una volta di fianco alla cattedra.

< Vorrei che dopo la fine della lezione ti fermassi per una decina di minuti > annunciò continuando a guardare il suo registro scolastico dove, con grande rammarico di molti miei compagni, annotava ogni singolo voto. < C’è una cosa di cui vorrei parlarti > aggiunse alzando lo sguardo e dedicandomi un sorriso tirato.

< Certo > annui tornando al mio banco in seconda fila e rimettendomi a leggere come se nulla fosse.

Se pur contro la mia volontà, nei restanti quaranta minuti che separavano il mio corpo e la mia mente dalla libertà, mi ritrovai a pensare al motivo per cui il professor Lamberti mi volesse parlare.

Di sicuro non poteva essere per la mia media che nella sua materia, come anche nelle altre a dire il vero, era più che perfetta. Da che avessi memoria, non ero mai scesa sotto il nove in nessuna delle ben dodici materie che mi toccava seguire.

L’unica in cui avevo qualche difficoltà in più, che però riuscì presto a superare, era fisica. Per i miei gusti c’erano troppi schemi e troppe regole da sapere e da ricordare, preferivo di gran lunga le materie che permettessero alla mente di spaziare lungo vari corsi.

Per esempio adoravo filosofia; quel senso di continua ricerca, di continua attesa, era puro nettare per il mio cervello. C’era però da dire che amavo follemente anche inglese e che il mio sogno, per quanto utopistico esso fosse, era quello di trascorrere una piccola parte della vita proprio nella capitale inglese dove avrei potuto assimilare ogni singola goccia di vita British. Purtroppo però la mia situazione familiare o meglio ancora, la mia situazione economica, non me lo avrebbero permesso quest’anno né mai.

Non è facile crescere in un paese che tutto il mondo critica ma che nessuno aiuta, non è nemmeno facile crescere in una famiglia spezzata come la mia. Insomma non è facile crescere nei miei panni, soprattutto se quei panni sono sudati per lo sforzo di riuscire a scuola, nel lavoro e magari anche un briciolo nella vita privata. Non è per niente facile quando quegli stessi panni sono impregnati di ricordi vecchi e dolorosi di un padre senza cuore capace di apparire come il tuo eroe un giorno e come un mostro il giorno dopo.

E’ tremendamente difficile crescere, maturare e affrontare le sfide della vita quando sai di poter contare solo su te stessa. Non che mia madre fosse una pazza incapace di badare a me e mio fratello, ma faceva così tanta fatica per riuscire ad arrivare a fine mese con quello sputo di stipendio che le davano al ristorante, che alla fine imparai a cavarmela da sola per forza di cose.

Da ormai due anni a quella parte lavoravo come un qualunque adulto consapevole. Appena compiuti i sedici anni mi ero decisa a cercarmi un lavoretto che mi permettesse di lasciare un minimo di respiro a quella santa donna e dopo settimane di estenuanti ricerche lo avevo finalmente trovato.

Facevo la cassiera part-time in un piccolo supermercato poco lontano da casa, la paga non era chissà quale grande cosa, ma erano sempre soldi che avrei potuto usare per aiutare a casa quindi li accettavo più che volentieri.

All’inizio non fu facile conciliare la scuola con il lavoro anche perché questo mi teneva impegnata quasi tutti i pomeriggi rubando tempo prezioso allo studio, ma alla fine trovai il ritmo giusto e riuscì a conciliare entrambi.

Ora, dopo due anni di sacrifici, ero riuscita a mettere da parte un bel gruzzoletto che sarebbe bastato per il soggiorno di almeno due settimane nella città dei miei sogni ma ero sempre restia a decidermi.

Avevo paura che lasciando mamma sarebbe successa chissà quale tragedia, lo so è stupido ma ehi, quando l’unica persona su cui puoi fare affidamento è lei le cose diventano un po’ più complicate.

Così ogni mattina prima di andare a scuola, invece di lasciare un biglietto con scritto mamma ti voglio bene o cose del genere, le lasciavo cinquanta euro nel portafoglio. Era un po’ il mio modo per dirle grazie di avermi cresciuta, amata e rispettata in tutti questi anni senza chiedere mai nulla in cambio e senza mai lamentarsi.

All’una e dieci esatta la campanella risuonò nei corridoi del Liceo Linguistico Spinelli ed una massa di bufali impazziti, che fino a pochi minuti prima giurerei di aver scambiato per i miei compagni, si precipitò fuori dall’aula diretta alla fermata dell’autobus che li avrebbe riportati a casa.

Io invece, come poco prima mi aveva chiesto il professore, mi fermai una decina di minuti in più.

< Circa due mesi fa > cominciò togliendosi gli occhiali e passandosi una mano sul viso stanco < Ti ho iscritto nella graduatoria per un’importante borsa di studio e a quanto pare hai vinto >

Lui aveva fatto cosa? E perché io, la diretta interessata, non ne sapevo niente di niente?

< Cosa? > domandai spalancando gli occhi dalla sorpresa.

< Ti ho iscritto al concorso per vincere una borsa di studio in lingua inglese che comprendeva un soggiorno di tre mesi a Londra e a quanto pare l’hai vinta > ripeté questa volta in tono più dolce e comprensivo facendomi quasi convincere di essere una bambina.

< Ma… ma io non ne sapevo niente > sussurrai lasciandomi cadere sulla sedia rimasta accanto alla scrivania.

Non poteva avermi fatto una cosa del genere. Un conto era fantasticare sull’andare a Londra senza però averne mai avuto realmente la possibilità, un altro era avercela ad un paio di centimetri dalle mani e non poterla afferrare.

< Non te l’ho detto perché non volevo darti false speranze > spiegò poggiandomi una mano sul ginocchio < Però hai vinto e so quanto desideri andare a Londra, quindi mi sembrava giusto darti questa opportunità >

Non so per quale motivo, forse perché nella mia vita era totalmente mancata una figura maschile in grado di farmi sentire importante o forse semplicemente perché l’andare a Londra stava diventando reale, ma lascia che una lacrima mi scappasse giù dagli occhi prima che potessi fermarla.

< Io… io non posso comunque andare a Londra > dissi cercando di ingoiare il groppo che mi si era improvvisamente formato in gola e che mi impediva di parlare.

< Tu devi andarci, è la tua grande occasione di vivere un sogno > mormorò deciso ma al contempo dolce < Se è per i soldi non devi preoccuparti, è tutto pagato >

< Ma… ma > tentai di ribattere inutilmente. L’idea di poter camminare per le vie della mia amata città si era già impossessata di me colonizzando cervello, cuore, polmoni, stomaco e tutto ciò che di colonizzabile ci fosse nel mio corpo.

< Ho anche già parlato con tua madre > aggiunse il prof chiudendo il registro con un colpo secco e voltandosi per sorridermi raggiante.

< E’ d’accordo che tu parta, te lo sei meritata > detto questo, si alzò, mi batté una mano sulla spalla e lasciò l’aula in silenzio.

Io rimasi ancora qualche istante seduta in quella classe che mi aveva accompagnata per cinque lunghi anni della mia vita fino a quando la voce scocciata della bidella mi richiamò alla realtà invitandomi, molto gentilmente, a sloggiare.

Recuperato lo zaino dal pavimento mi alzai e lasciai anche io quell’aula.

Quel pomeriggio passò più rapido del solito, tra una signora un po’ sbadata e un tizio ubriaco che si mise ad urlare per l’intero supermercato, non ebbi molto per pensare a ciò che avrei detto a mamma una volta tornata a casa.

Per fortuna la primavera aveva allungato le giornate e con esse anche le ore di luce a disposizione, così tornare a casa non fu terribile come invece risultava in inverno, quando le strade erano buie e silenziose.

Prima di entrare mi fermai sul pianerottolo di casa per pensare a cosa avrei detto a mamma una volta dentro, a come avrei potuto ringraziarla per l’enorme possibilità che mi stava dando ma in mente non mi venne altro che un misero “ grazie mamma”.

Presi un bel respiro profondo e infilai la chiave di casa nella toppa, girai e lasciai che la serratura scattasse aprendo la porta. Da dentro proveniva il profumo di pollo fritto e carote bollite con aceto, segno che Jack non sarebbe tornato quella sera.

Quando c’era lui casa nostra si trasformava in un ristorante, ciò che mamma cucinava sembrava non bastare mai.

Lasciai che la porta sbattesse dietro di me in modo da far notare la mia presenza ed evitare un infarto a quella santa donna.

< Tesoro > disse lei venendomi in contro don il grembiule ancora legato in vita e le mano sporche di olio.

< Mamma io… > mormorai prima di scoppiare a piangere e rifugiarmi tra le sue confortanti braccia.

< Lo so, lo so > mormorò cercando di confortarmi sussurrandomi quanto orgogliosa fosse di me e di chi ero diventata.

< Io non vado! > singhiozzai una volta in grado di parlare < Non ti lascio da sola >

< Tu invece andrai > asserì lei seria staccandosi da me e fissando i suoi occhi scuri in quelli chiari miei, l’unica cosa che avessi ereditato da mio padre erano gli occhi. Verdi come un prato in primavera.

< Te lo sei meritata è giusto che sia così > poi tornò ad abbracciarmi.

Rimanemmo così una mezz’ora buona, il tempo che mamma si ricordasse di avere del pollo sul fuoco e andasse a spegnerlo, poi insieme apparecchiammo e mangiammo.

Da lì ad una settimana sarei partita per la più meravigliosa città del mondo. Sarei partita per Londra! 


Angolo autrice:
Benvenutiiiii!! Dunque questa è la mia prima fan-fiction sui One Direction, quindi vi chiedo di essere clementi. Sarà forse un po' diversa dalle altre, almeno per quanto riguarda la protagonista principale. La sua, come avrete capito, non è una vita facile e Londra è in un certo senso la sua Terra Promessa. La città dei sogni e delle speranze, ma anche dell'amore. Quell'amore che travolge e che trascina, che strega e rapisce. Insomma se ne vedranno delle belle.
Ogni commento, di ogni genere, è più che gradito... quindi sbizzarritevi!
Alla prossima, Sybeoil!








 

  
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