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Autore: xRetteMichx    03/04/2012    0 recensioni
Mia avrebbe voluto un cane, forse più piccolo, da poter portare a letto con lei a tenerle compagnia, voleva un cane che avesse la faccia da Agata, o Margherita. Alice si era arrabbiata quando le aveva detto i nomi che immaginava per il suo cane, se un quattro zampe potava chiamarsi Agata o Margherita perché non Russell?
Genere: Dark, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sette e ventidue.





Mia aveva fatto male i calcoli, e se ne era resa conto decisamente troppo tardi. La leggera maglietta che indossava quella mattina le era sembrata sufficiente per resistere alla temperatura di giugno, ma evidentemente si era sbagliata.

Rabbrividì e mosse qualche altro passo, le scarpe da ginnastica consunte che affondavano fra l’erba fresca che cresceva in spettinati ciuffi dappertutto intorno a lei. Un paio di fiori sparsi qua e la aprivano pigramente i petali per salutare il nuovo giorno altri invece, venivano calpestati dalle altre persone senza alcun riguardo.

Mia non era distratta, né tantomeno viveva con la testa fra le nuvole come dicevano tutti. Semplicemente aveva cura per i dettagli, le piccole cose di cui molti, presi dalla loro vita frenetica, nemmeno si accorgevano. Poteva chiudere gli occhi ed essere capace di spiegare a parole il profumo dell’erba o l’esatta tonalità del legno delle panchine che costellavano i sentieri piastrellati del parco.

Ce ne erano esattamente ventitré, ma a lei interessava solamente una. Era quelle che dava al bordo dello stagno, o laghetto, a seconda di come la volevi vedere. L’acqua era più o meno sempre sporca e gli unici animali erano qualche girino annoiato, alcune ranocchie e  un paio di pesci rossi che ormai avevano perso la brillantezza delle loro scaglie.

Il legno della panchina era consumato, ornato di incisioni e scritte fatte con pennarelli colorati. Mia a volte si fermava a pensare agli innamorati che si erano seduti su quella stessa panchina, magari per mano, ragazze e ragazzi che avevano lasciato una traccia del loro sentimento. Mia non si era mai sentita innamorata, non sapeva cosa fosse l’amore che tanto faceva impazzire le persone. Chissà dov’erano i proprietari dei nomi incisi, se si ricordavano di aver impresso qualcosa su un’anonima panchina di un parco.

Ma Mia se li ricordava tutti. Alle volte se li ripeteva fra sé e sé, era una litania di nomi senza volto, eppure la facevano sentire a casa, come se li conoscesse personalmente e sapesse qualcosa di loro.

Frizionò le braccia con le mani nel tentativo di scaldarle. A quell’ora della mattina la sua panchina era al sole, forse non avrebbe fatto poi così freddo.

Si sedette e rannicchiò le gambe verso il petto e chiuse gli occhi nell’istante in cui alzò il viso per rivolgerlo al sole e bearsi del calore che si irradiava sulla sua pelle chiara costellata di lentiggini. Una volta aveva provato a contarle, ma si era fermata a metà guancia sinistra, erano decisamente troppe e tutte vicine, e poi le si incrociavano gli occhi a stare troppo davanti allo specchio. Le sarebbe piaciuto che qualcuno le avesse contate per lei, sarebbe stato meno faticoso e più divertente.

-Freddo?-  Mia aprì gli occhi e li puntò sulla figura seduta accanto a lei.

-Mh-Mh, stamattina ho pensato che facesse abbastanza caldo e cos’ ho lasciato la felpa sulla sedia- annuì convinta, rannicchiandosi ancora di più su sé stessa.

-Vorrei prestarti la mia, ma poi sono sicura che avrei freddo io, non la vedo una cosa sensata. Forse si può fare a metà?-

Mi rise, grattandosi la nuca –Ali non credo si possa fare sai?-

La  ragazza seduta accanto a lei pareva quasi della sua età, i capelli erano ricci e disordinati, gli occhi brillanti e curiosi. Mia a volte la invidiava, i suoi capelli erano biondi e spenti, tanto lisci da sembrare senz’anima. Secondo lei ogni chioma aveva un suo io interiore, i ricci erano vivaci, ondeggiavano sulla testa della gente e attiravano l’attenzione su di se. I suoi non le piacevano per niente si appiattivano sulla testa come se fossero tristi e depressi.

Mia sapeva perché ogni mattina cercava sempre la stessa panchina: sapeva che alle sette e ventidue ci avrebbe trovato Alice, sempre vestita uguale, ma i suoi ricci avevano una forma diversa ogni giorno. Anche i suoi occhi cambiavano sfumatura ogni giorno e quel mattino erano più scuri, forse era il freddo.

Alice non veniva mai li senza il suo cane, era un incrocio anche se Alice continuava a dire che era un Setter Irlandese di pura razza, e aveva rischiato di finire i suoi giorni in un cassonetto della spazzatura, se Alice non lo avesse sentito guaire. Russell era un nome piuttosto serio per un cane, secondo Mia. A lei ricordava un altolocato signorotto con la pancia gonfia da vino e il monocolo ficcato tra le ossa dell’occhio destro, non un nome per un cane magro e dal pelo fulvo. Alice però aveva detto che per lei aveva un muso da Russell, e Mia aveva scrollato le spalle, il cane non era il suo dopotutto.

Mia avrebbe voluto un cane, forse più piccolo, da poter portare a letto con lei a tenerle compagnia, voleva un cane che avesse la faccia da Agata, o Margherita. Alice si era arrabbiata quando le aveva detto i nomi che immaginava per il suo cane, se un quattro zampe potava chiamarsi Agata o Margherita perché non Russell?

Ogni discorso sui cani era comunque inutile, dove stava Mia non glielo facevano tenere. Aveva chiesto perché e le avevano risposto che i cani puzzavano e sporcavano. Mia si era alzata in piedi e aveva risposto che allora anche un signore del terzo piano puzzava di sudore e lerciume e sporcava ma loro non gli proibivano di vivere li.

-Come sta oggi?- chiese Mia, il capo appoggiato alle ginocchia e lo sguardo fisso su Russell sdraiato a pancia all’aria sull’erba. La coda che allontanava ogni tanto qualche insetto che lo infastidiva.
Alice scosse le spalle, estraendo una confezione di cracker dalla tasca della felpa. –Né bene né male. Stanotte ha dormito poco, l’ho sentito girare per casa e rovesciare il pattume verso le tre, ho paura che non riesca più a distinguere quando è giorno e quando è notte- Russell era il suo migliore amico, e Alice era cosciente che un cane non vive per sempre. Era stato con lei per diciassette anni della sua vita, e ora lei ne aveva ventuno. Ne aveva tanti di anni davanti, ma il prospetto di affrontarli senza Russell la faceva stare male.

Anche Mia soffriva, dopotutto erano sessantotto giorni che veniva alla panchina difronte allo stagno –o al laghetto- del parco alle sette e venti. Alice era sua amica, Russell era importante per Alice quindi Russell era suo amico.

E poi era la cosa più vicina ad un cane suo che avesse, lo aveva coccolato e gli aveva dato da mangiare, lui aveva dormito con la testa poggiata sulle sue gambe e gli aveva anche starnutito in faccia. E quella era una cosa piuttosto personale. Insomma, nessuno si fa starnutire in faccia da un cane qualunque, ma Russell aveva una specie di permesso speciale, non sapeva bene come.

Alice si era alzata dalla panchina, aveva sbriciolato i cracker ancora dentro il loro involucro di plastica e poi si era avvicinata alla staccionata del laghetto, aveva aperto la confezione e aveva iniziato a lanciarli nell’acqua, i pesci rosso opaco che risalivano verso la superfice per mangiare le briciole in una boccata. Alcune erano finite sul terreno, non che Alice se ne preoccupasse, c’erano tanti passeri e piccioni nei dintorni che sarebbero sparite entro sera.

-A che ora devi andare oggi?- Alice le faceva la stessa domanda tutti i giorni, anche se sapeva benissimo che Mia andava via sempre allo stesso orario, le otto e mezza. C’erano giorni come quello in cui Alice sembrava dimenticarsi le cose, la guardava confusa e ripeteva due volte le stesse domande. Mia si sentiva responsabile, forse si mangiava le parole quando rispondeva e non si faceva capire?

-Solito, otto e mezza. Forse resto qualche secondo in meno oggi, non lo so, continuo ad avere freddo-.

Non si ricordava come aveva incontrato o conosciuto Alice come avevano parlato o come aveva fatto a sapere così tante cose di lei, Alice non parlava mai molto. Si ricordava quando, ma non come. Era piuttosto strano, e Mia ne era consapevole.

Russell si alzato sulle quattro zampe e ora guardava fisso nel vuoto, come se non ci vedesse davvero.

-Ho paura che peggiori ancora- Alice non sembrava preoccupata, era semplicemente apatica. Mia si disse nuovamente che aveva avuto ragione quella mattina, ad aver detto che i suoi occhi erano più spenti. Sembravano vuoti.

-Vedrai che starà meglio. Forse è offeso perché lo hai chiamato Russell-. Alice le tira una gomitata per l’ennesima frecciatina sulla scelta del nome del suo setter irlandese.
Il sole era riuscita a scaldarla leggermente, ma Mia non ne voleva sapere di sciogliersi dalla sua posizione rannicchiata, sembrava proteggersi da sola. Da cosa poi, lo sapeva solo lei.

-Ti trovo qui domattina?- chiese voltandosi verso la massa di ricci che era Alice, adesso nuovamente seduta sulla panchina.

Alice rispose senza voltarsi –Come tutte le mattine- e le sorrise.

Mia sentì una mano posarsi sulla sua spalla e si voltò. Dietro di lei due signore probabilmente sulla cinquantina la guardavano sorridendo. Erano vestite uguali, entrambe di bianco e sembravano gemelle, se non fosse stato per i capelli biondi di una e quelli rossicci dell'altra.

-Mia è ora di andare, vieni su- la signora bionda la fece alzare dalla panchina prendendola per mano e iniziando ad accompagnarla verso il limitare del parco, l'altra donna le seguiva da qualche metro di distanza, senza togliere gli occhi dalla schiena della ragazza

Mia si voltò indietro, gettando un'occhiata dietro la spalla della signora rossiccia, era arrabbiata, non le avevano lasciato salutare né Alice né Russell nemmeno questa volta.

Guardò verso lo stagno, una panchina vuota e il terreno senza briciole. L'acqua era melma putrida e priva di qualsiasi pesce o girino. L'erba e i fiori erano tornati a dormire, c'era solo terra arida e secca e una panchina che cadeva a pezzi.

Il cielo era grigio e il lembo di pelle della schiena lasciato scoperto dal camice sgualcito era continuamente percorso da brividi.

Tremò e in un battito di ciglia era soffocata da mura spente, bianche e fredde, l'unica finestra era sbarrata, l'odore asettico di detersivo e medicina.

Portò le mani su una sbarra di metallo, stringendovi le dita attorno, i piedi nudi sul marmo freddo del pavimento.

Sul tetto del palazzo di fronte Alice la salutava con le gambe incrociate sul cornicione.
 
 
 
  
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