“Ho
piena fiducia in Severus Piton”
“Avada
Kedavra!”:
parole d’amore per
un
padre
severo.
Haiku
per Severus - Nykyo.
PARTE PRIMA: La fiducia di
Silente.
1. Ammissione di
colpa.
“E’ davvero molto
agitato, Albus” – ripeté Minerva McGranitt, lei stessa un po’ più accalorata del
solito – “Non sembra nemmeno lui. Te lo ricordi com’era schivo e silenzioso? No,
non sembra lui. Gli ho ricordato che è un brutto momento… con tutto quel che sta
accadendo, con tutto quel che ‘Tu sai chi’ ha scatenato ultimamente, ma insiste
per vederti subito e ho creduto che sarebbe svenuto per la tensione, se non
fossi corsa ad avvisarti”.
L’alto mago canuto
sembrava non aver prestato la minima attenzione alle parole dell’amica e
collega. Voltato di spalle continuava ad armeggiare con qualcosa all’interno
dello scaffale che troneggiava dietro alla sua scrivania.
Solo alla fine si
girò, un guizzo negli occhi chiari schermati da lenti a mezzaluna, subito
sopito, e poi annuì – “Fallo salire subito, allora Minerva, e
grazie”.
Ma lo disse con calma
imperturbabile e senza mostrare la minima curiosità.
Poi sedette ad
attendere il giovane mago bruno.
Lo squadrò, quando
entrò con passo nervoso, troppo pallido, perfino per il suo solito, i lunghi
capelli neri che spiovevano a ciocche come serpentelli ritorti sul volto magro e
affilato.
Ancora così giovane
quel viso, eppure le iridi nere già segnate, incise in profondità da esperienze
premature e orribilmente sbagliate. Esperienze che non avrebbero dovuto mai
toccarlo.
Lo osservò con
attenzione, eppure l’altro non se ne accorse, perché lo sguardo del vecchio non
era stato insistente.
“Severus Piton” –
disse, infine – “Non è passato poi molto tempo dall’ultima volta che ci siamo
visti alla consegna dei diplomi… siedi ragazzo, ti ascolto” – e gli indicò una
pesante sedia in cui tanti studenti di Hogwarts si erano accomodati negli
anni.
Il mago bruno scosse
il capo e rimase in piedi, esitante; muto.
“Come preferisci” –
Silente si strinse nelle spalle e si lasciò andare sull’alto schienale del suo
scranno di Preside.
“Devo parlarle… “ –
riuscì finalmente a dire il giovane, poi si morse duramente le labbra, prima di
continuare – “Io ho… ho commesso un imperdonabile errore, ma ora… ora…
“.
Non riuscì a
proseguire, era ovvio che tentava di dominarsi, ma non vi riusciva del tutto.
Il sudore che gli
imperlava la fronte, le mani strette con troppa forza sui bordi del mantello,
fino a far sbiancare le nocche nell’emergere delle ossa sporgenti, un piede che
disegnava nette e lente linee inesistenti sul pavimento di pietra, lo tradivano
inesorabilmente.
Ha ragione
Minerva – pensò il Preside –
E’ un fascio di
nervi.
Immaginava il perché,
ne era tristemente conscio, e nel contempo era lieto di ritrovarselo
davanti.
Ancora una volta,
aveva avuto ragione: perduto e poi
ritrovato. Severus Piton non l’aveva deluso.
E, penso che non mi
deluderà nemmeno in futuro – si disse, ma non
parlò, non aiutò quel giovane uomo tormentato ad iniziare quella che, di certo,
sarebbe stata una confessione.
Non sarebbe stato
giusto. Se il male non fosse sgorgato da solo, profondo e doloroso, da quelle
labbra esili, fino a trovare totale sfogo, sarebbe stato
peggio.
Così, invece, il mago
si sarebbe forse sentito meglio alla fine. Era giusto, come il pagamento di un
pedaggio, e poi lui doveva sapere ogni cosa. Tutto era prezioso alla causa,
anche ciò che Piton magari non avrebbe ritenuto tale; né era bene essere
imprudenti.
Ero certo che saresti
venuto, Severus. Ti aspettavo. Ma devo essere comunque cauto, non è tempo di
rischiare.
Si limitò ad assumere
un’aria più grave e fargli cenno di continuare, agitando in aria una mano
ossuta, in un gesto inconfondibilmente suo.
Piton deglutì, poi
un’esplosione, roca e secca come lo spezzarsi di una lastra di ghiaccio ancora
troppo sottile su cui sia stato caricato un peso eccessivo – “Sono diventato un
Mangiamorte, un servitore dell’Oscuro Signore!”.
La manica che veniva
arrotolata con violenza, lo strapparsi sonoro della stoffa e il Marchio Nero
fissò le sue vuote orbite pulsanti sul vecchio mago
canuto.
“Questo è il simbolo
con cui ci ha marchiati tutti. Il segno che siamo i suoi schiavi” – sibilò il
giovane.
Ma Silente non degnò
di uno sguardo il grande teschio dalla lingua di serpente, pur comprendendo
quanto era costosa quell’esibizione per il disperato ventenne ritto dinnanzi a
lui.
Disperato, sì. Devi
essere davvero giunto al limite, ragazzo per piegare il tuo orgoglio a questo.
Ti conosco, Severus, ti ho osservato più di quanto tu non creda nei tuoi anni di
scuola. Quanto in basso sei caduto per essere qui ora? Eppure, vorresti
risalire, lo sento.
Ma tacque,
ostinatamente, attendendo che Piton incidesse da solo il suo cuore per lasciar
sgorgare tutto il veleno che gli colmava il petto.
Severus chinò il capo,
vinto da quel silenzio. Non era avvezzo ad un simile tipo d’umiltà, tanto in
contrasto col suo usuale orgoglio, ma Voldemort gli aveva insegnato a duro
prezzo quel gesto.
Lo compiva con
disgusto, anche verso se stesso, ogni volta che era al cospetto del Lord. Ora,
però, fu solo spontaneo segno della vergogna, per ciò che era
diventato.
Con stupore si accorse
che gli importava davvero del giudizio di Silente. Non era solo l’unico mago
che, forse, avrebbe ancora potuto tendergli una mano e salvargli l’anima, era
soprattutto – solo adesso Severus se ne rendeva conto, anche se l’aveva sempre
saputo – un uomo profondamente retto e integro, come lui non poteva più
definirsi ormai.
“Mi sono lasciato
accecare dai miei sogni, da ideali assolutamente folli” – mormorò. I suoi occhi
guizzarono per un istante, come nere fiamme, a perdersi in quelli azzurri del
Preside, cercandovi condanna.
“Sono diventato un
assassino… “ – un ulteriore sibilo, quasi strozzato; il braccio sinistro ricadde
inerte, senza che il teschio dalla lingua di serpente cessasse di
irriderlo.
Dannazione, cosa sono
venuto a fare qui? Cosa spero da questo vecchio mago che ha solo motivi per
biasimarmi? Che non mi condanni, che mi dica che posso salvarmi? E come, come,
quando non merito che di pagare il prezzo per aver buttato via la mia anima? Ma
forse… se solo Silente potesse intervenire, fermare almeno quest’ultima
pazzia…
“Lo so, o meglio, lo
temevo, ragazzo” – fu, infine, la risposta pacata del
Preside.
Lo temevo da tempo è
non ho potuto far nulla per impedirlo, Severus. Perdonami, ho tentato, ma ho
anche io le mie colpe, perché non ci ho mai messo abbastanza impegno. Non
potevo. Non lo ritenevo giusto.
Ciascuno deve seguire
la sua strada, quella che sceglie e costruisce, eppure, a differenza di te, io
sentivo che stavi entrando nelle tenebre, ma non eri privo di luce. E’ in questo
il mio sbaglio: se avessi pensato che eri senza speranza, perché non lasciarti
andare? Cosa sarebbe cambiato? Invece, Severus, tu eri forse l’unico che avrei
potuto fermare in tempo, sull’orlo dell’abisso.
Erano aguzzi i sassi
che ti hanno spezzato, incrinandoti il cuore, come mi mostra il tuo sguardo? Sì,
lo erano e io ti ho lasciato cadere sul fondo del
baratro.
Ho anche io le mie
colpe, verrà anche il mio tempo. Intanto ho compreso; non accadrà mai
più.
Se mai dovessi un
giorno osservare un’altra anima in bilico, mi ricorderò di te, ragazzo, e
tenterò, se appena scorgerò la speranza. Tenterò di evitarle di precipitare, a
qualunque costo.
Il giovane mago lo
fissò incredulo, gli occhi nerissimi colmi di confusione che si sommava
all’angoscia.
Silente sapeva? Oh,
quel vecchio conosceva sempre ogni cosa in anticipo. E, ovviamente, non c’era
alcun timore nelle iridi chiare che incontravano apertamente le
sue.
Nemmeno gli aveva
domandato di consegnare la bacchetta. Certo, chi era mai lui, Severus Piton,
sciocco ragazzino appena fatto uomo e già bruciato per sempre, per poter anche
solo lontanamente pensare di incutere paura o preoccupazione in un mago potente
ed esperto come Albus Silente?
Si sentì piccolo; non
solo troppo sciocco, sbagliato e giovane, dinnanzi a quello stregone serio, già
carico d’anni, ma veramente insignificante e minuscolo. Meschino, depravato e
inutile, con tutte le sue paure e con i rimorsi che lo tormentavano soltanto per
colpa della sua stessa incosciente follia.
Gli sembrò vano essere
andato lì, a Hogwarts, a chiedere aiuto.
Aiuto per cosa? Per
salvarsi la vita? Per non marcire per il resto dei suoi giorni ad Azkaban, come
per altro meritava?
No, no, solo perché
finisca. Perché non accada di peggio, per non dover lacerare oltre la mia anima,
se ancora esiste. Io non ce la faccio da solo. Io devo rimediare. Io devo
sfuggire all’oscurità che mi soffoca; devo fermare quel pazzo. Non ne posso più!
Non ce la faccio più, basta, basta, basta!
Le sue pupille
dilatate lo gridavano ossessivamente.
“Mi dispiace, ma non
mi sorprende affatto” – aggiunse Silente, con una certa dolente dolcezza, senza
condanna, solo come un’amara constatazione.
Quelle parole
colpirono il giovane Piton come una frustata.
Dispiacere? Solo
questo? Come ci si rammarica bonariamente con un bambino che ha rotto una
suppellettile, anche se era stato avvertito di non toccarla? Io ho ucciso, ho
spezzato vite. Io sono diventato un mostro!
“Le dispiace?” – la
voce del mago bruno risuonò stridula e irosa, eccessivamente acuta, ancora
troppo immatura, mentre le parole gli sgorgavano di bocca, irrefrenabili –
“Dispiace? Ho…io ho commesso colpe atroci. Ho le mani sporche di sangue, non lo
vede? Io sì, io lo vedo anche adesso. Continuo a vederlo perfino se chiudo gli
occhi” – sollevò le mani al viso; ora tremavano incontrollabili, contro ogni sua
volontà.
“Lo vede anche lei?” –
continuò, fissandosi le dita, ma senza realmente osservare più niente, perduto
nell’abisso della propria coscienza – “Come fa a non urlare di disgusto? Come fa
a posarmi gli occhi addosso senza che la nausea la sconvolga? Io… io non riesco
più nemmeno a guardarmi allo specchio… “.
Silente si alzò e
sospirò rumorosamente, mentre si sporgeva verso di lui, imponente nel corpo
esile che non poteva nascondere l’emanazione di uno spirito forte, potente, e
assolutamente superiore.
“Mi dispiace” –
ripeté, ostinatamente paterno – “Ma ne ero al corrente, o meglio lo immaginavo e
temevo da tempo che sarebbe successo. Eppure, sapevo anche che non eri realmente
perduto. Ti aspettavo, certo che prima o poi saresti venuto. Ne ho visti di
giovani maghi come te, rovinati dal proprio nome, o dall’ambizione, oppure solo
dalla loro crudeltà e pochezza. Ho provato a mostrarvi quali valori contano
davvero, ma evidentemente non è bastato a tenervi lontani dall’orrore. Però,
sapevo che tu avresti capito. Mi dispiace che sia accaduto solo ora, immagino
che sarebbe stato meglio per te e soprattutto per coloro che hanno incrociato la
tua strada, se tu non avessi mai commesso un così terribile sbaglio. Ma sei qui,
ora. Ti ascolto, ragazzo”.
Il giovane mago bruno
si lasciò cadere sulla sedia che poco prima aveva rifiutato, spossato,
disarmato.
Prese fiato e aprì la
bocca, ma poi la richiuse, serrando il labbro inferiore tra i denti,
ferocemente.
Provò, ancora ed
ancora, ma le parole non volevano lasciare la sua gola.
Infine riuscì. Chiuse
gli occhi e lasciò andare il dolore, il rimorso, la disperazione, la paura; ogni
singolo orrore e ricordo, serbando solo una delle sue colpe, quella che più lo
affliggeva. Quella che l’aveva convinto, oltre il suo giovanile terrore di
Voldemort, a recarsi a Hogwarts.
Non riusciva ancora a
parlarne, ma non celò nient’altro al Preside.
Si accusò a lungo.
Sillabe pesanti come macigni che graffiavano il suo petto, trafiggendogli il
cuore, prima di diventare finalmente suono.
Il vecchio l’ascoltò
in silenzio, traendo spesso lunghi sospiri di disapprovazione, inscindibilmente
mescolata a comprensione.
L’ascoltò, fino a che
le parole non tornarono a morire dietro alle esili pallide labbra del mago più
giovane.
Eppure, c’è ancora
qualcosa che non mi hai detto, Severus. Qualcosa che non riesci ancora a buttar
fuori e ti annoda le viscere. Aspetterò, è proprio quella la cosa che più di
tutte desideri confessarmi, lo sento.
Attenderò, e tu me la
dirai, non appena sarai pronto.
Infine, si volse e
trasse dallo scaffale un pesante bacile piatto di pietra istoriata, deponendolo
con delicatezza sulla scrivania, come se fosse estremamente leggero. Era
evidente che era abituato a maneggiarlo.
“Bene” – disse col
tono più cupo che avesse usato fino ad allora – “Sai cos’è questo,
Severus?”.
Ancora accasciato,
come svuotato anche del fiato, il mago bruno scosse il capo. Qualunque cosa
fosse quello strano catino, come poteva avere a che fare con ciò che era appena
riuscito a confidare al Preside e con quel che ancora gli bruciava in gola non
detto?
“E’ un Pensatoio,
ragazzo” – continuò Silente, impugnando la propria bacchetta – “Dovresti sapere
a cosa serve e come funziona. Sei sempre stato uno che ama conoscere ogni
cosa”.
Piton annuì – “Non mi
crede? Vuole i miei ricordi per verificare se le ho mentito? Li prenda pure, se
ha davvero il coraggio di immergersi in un simile inferno, anche se non vedo a
cosa possa servirle. Vedrebbe solo i miei gesti, ma senza i miei pensieri cosa
le darà la certezza che ho detto la verità e sono realmente
pentito?”.
“Me la darai tu” –
sentenziò il vecchio, asciutto – “Sarai tu stesso, a
fornirmela”.
Il giovane mago
rabbrividì, in un lampo atroce di comprensione.
No, no, questo no. Non
ho già sufficientemente piegato me stesso? Non avrà mai fine questa tortura?
Ricordare è terribile, ma rivivere ogni cosa… no, non voglio, non
posso!
“Vuole che io entri
con lei nei miei stessi ricordi?” – voleva essere una domanda distaccata, ma fu
quasi un grido di dolore – “No, non me lo chieda, mi domandi qualunque altra
prova, qualunque altra cosa… “.
Oh, so cosa ti sto
imponendo, ragazzo. Se davvero, come credo, il tuo è pentimento sincero, se
realmente è così doloroso per te guardare a ciò che sei diventato, sarà una
tortura, ma ho i miei motivi ed è giusto.
Se hai ancora luce in
te, come io penso e spero, questo sarà il primo prezzo da pagare.
Anche io, a volte,
posso solo essere spietato. Ci sono occasioni in cui devo
esserlo.
“Sei venuto qui perché
desideri il mio aiuto” – gli rispose severo – “Benissimo, ma detto io le
condizioni. Non voglio ferirti o umiliarti, ma devo sapere ogni cosa; entrare in
te realmente. Vuoi prenderti carico delle tue colpe, non è così? C’è sicuramente
voluto coraggio per venire fin qui, ora mostra di averne a sufficienza per
affrontare quel che hai fatto fino in fondo”.
Poi fissò la
finestrella dai vetri policromi e aggiunse, col tono di chi non ammette repliche
– “E’ l’alba, dirò a Minerva McGranitt che non desideriamo essere interrotti.
Non importa quanto tempo ci vorrà, sei giovane e resistente. Quanto a me, ho
visto cose ben peggiori di quel che possono essere i tuoi
ricordi”.
Uscì svelto, per
rientrare poco dopo pronto ad esigere il suo tributo.