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Autore: BeGD    05/04/2012    0 recensioni
Un 40enne alla ricerca, finalmente, della felicità. Un 40enne stanco di una vita basata sulla finzione, su un teatrino nemmeno magistralmente architettato da una moglie ormai così falsa da risultare disgustosa. Un 40enne che decide di cercare qualcosa che lo realizzi, ma forse lo ha già trovato. Una storia iniziata di getto, il mio ritorno dopo tanto tempo. Spero vi piaccia.
Genere: Drammatico, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Billie J. Armstrong, Mike Dirnt, Tré Cool
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I personaggi non mi appartengono e non scrivo per lucro, come al solito. Spero proprio che questa “cosa” che mi è venuta così, senza motivo, vi piaccia e aspetto i vostri commenti che, come sempre, mi fanno piacere. Come sempre, ben accette le critiche, se fondate e motivate. Grazie e buona lettura!
 
Era l’ennesimo giorno di registrazione. Altra estenuante fatica, in più sempre con una telecamera puntata addosso. Era come essere privati della libertà di movimento, con quella lucina rossa sempre accesa: era come essere incatenati, tentavi di fare un movimento ma ecco, il rumore di ferro ti riportava alla realtà e al fatto che, tanto, un passo di più di dieci centimetri non lo potevi fare senza il rischio che quel maledetto ferro ti segasse le caviglie già sanguinanti per il peso, la rabbia, la costernazione. Sempre quella persecuzione, sempre quel leggero ronzio, impercettibile e proprio per quello asfissiante, sempre il fiato sul collo, e tutto questo per realizzare dei video, in modo che i fan vedessero che sì, la loro band preferita stava lavorando ad un nuovo album e non ci sarebbe stato tanto altro da aspettare. Avrebbero avuto altro da consumare e criticare, altri CD da collezionare, altri file pirata da scaricare e infilare nell’ iPod o nell’ultimo marchingegno elettronico che andava di moda, altri pezzi da sentire alla radio lungo il tragitto per l’ennesimo centro commerciale. E meno male che c’era la crisi, e meno male che la gente perdeva posti di lavoro. Tutta la preoccupazione di quelli che si potevano definire suoi fans era, secondo Billie Joe, la data dell’uscita del prossimo album, nulla di che. Ecco perché, attraverso quell’odiosa telecamera, indirettamente, lo tenevano sotto controllo, quando questo a lui dava un immenso fastidio. Cosa ne era delle belle giornate passate in studio, a cercare l’ispirazione, a chiacchierare sul divano e mettere appunto le ultime novità foniche? Niente, tutto sparito: dovevano lavorare, lavorare, lavorare, e fare anche finta di divertirsi, di spassarsela con quel mini-televisore sempre appresso. La verità era che tutto ciò che lo circondava era finto e fatto apposta per distrarre, incantare. Era l’ultima trovata di Rob, quella: “rendiamo partecipe il pubblico, facciamogli seguire il work in progress!” aveva sentenziato. In effetti i fans gradivano parecchio la trovata, come sempre Rob Cavallo non si smentiva. Billie Joe lo conosceva bene, e anche Rob conosceva lui, e sapeva quanto l’essere sempre nel mirino delle registrazioni mettesse a disagio ed infastidisse Billie. Però se ne era strafregato, e ora Billie ci ripensava, stizzito, seduto al tavolo di cucina davanti ad una enorme tazza di latte bollente. Aveva due occhiaie tremende e si sentiva come se un camion lo avesse travolto.
“dovresti ritornare al solito nero, amore, tra un po’ uscirà il nuovo album, e sai quanto i fan preferiscano il loro frontman tenebroso a questo Mocio Vileda” rise Adrienne, scompigliandogli la frangia.
“Hai ragione, domani mi tocca” rispose alle spalle della moglie, intenta a cercare i suoi sonniferi.
“Ma domani non dovete registrare? O deciderai di dare forfait?” ammiccò lei. Lo sapeva che a Billie scocciava quella specie di reality. “Ricordati solo che ci perderesti un sacco di credibilità” aggiunse poi, saggiamente. Non voleva che Billie saltasse la mattinata agli studios, ci avrebbero rimesso le vendite dell’album, probabilmente.
“Forse. O forse finalmente capiranno che mi sono rotto di dover sempre dar conto di quello che faccio. Sono una persona libera, o no?”
“Non più tanto, mi sa, ma alla fine è la tua vita, no?” sorrise scostandosi dal viso i folti capelli color mogano e ingoiando distrattamente un paio di compresse con un sorso d’acqua. Prima che Billie avesse il tempo di aprir bocca, sparì in camera da letto, accompagnata dal fruscìo sottile della camicia da notte di seta che toccava terra e le accarezzava i polpacci torniti.
Una moglie che va a letto vestita come sua nonna e convinta che, dopo i 40 anni, la passione finisca e vi subentri la pace dei sensi, un lavoro costantemente controllato da milioni di ragazzini, la costante insoddisfazione, la ricerca frustrante di qualcosa in più, di qualcosa di mancante, era questa la vita? Era questo ciò che aveva sempre sognato?
Si alzò, prese la tazza ancora fumante e iniziò a fare il giro di casa sua, stanza per stanza.
Ecco il soggiorno: era dove Adrienne riceveva le sue amiche, dove spettegolava e serviva il thè cinguettando spensierata, convinta che il suo matrimonio andasse a gonfie vele e il fatto di aver retto a tante corna l’avesse talmente fortificata da permetterle di tenersi stretto il marito, perché la sua forza sarebbe bastata a tutti e due. Billie si chiese se ne fosse davvero sicura o fingesse, esasperando la sua tranquillità per nascondere la sua inquietudine. La vedeva così serena, quando accavallava le gambe appollaiata sul divano e raccontava di quanto andasse tutto bene, tutto fosse sempre secondo i piani, quanto il suo rapporto si basasse sui piccoli gesti, sulla quotidianità, sull’affetto reciproco, sulle tenerezze e la sincerità. Alzava la voce e la acuiva vistosamente, quando pronosticava che il suo matrimonio sarebbe durato in eterno e l’amore di suo marito sarebbe rimasto intatto, come la sua fiducia non sarebbe stata mai tradita e il suo cuore mai macchiato. Sorrideva trionfante e sicura, tanto sicura da essere falsa, per poi affondare gli occhi nel suo thè nero, e forse, lì, specchiarsi, per rendersi conto di quanto, finita quella farsa, la sua vita stesse andando a rotoli e suo marito non la amasse più. Billie pensava questo, almeno, e sperava ardentemente che, un giorno di quelli, Adrienne avrebbe posto fine a quella recita, avrebbe calato il sipario e gli avrebbe permesso di andarsene via, tanto l’ideale della famiglia felice era stato tradito già da tempo, e quel limbo di falsità faceva male soprattutto a lei, che era la regista di quel film dell’assurdo.
Ecco il ripostiglio: c’erano tante di quelle cose, impilate sui vari ripiani che, messe tutte a terra, avrebbero occupato un campo da calcio. Vecchi ferri da stiro, pentole, soprammobili, tostapane, cestini ormai scheletri di vecchi regali di Natale, stracci, elastici per capelli, scatole di cosmetici, forse addirittura una chitarra in disuso, conserve, souvenirs rotti. Quello sopra la lavatrice, per esempio, era un modellino del Colosseo, che Billie aveva portato da Roma quando Joey stava studiando l’arte romana a scuola, ma ormai gli mancavano varie gradinate, e l’Anfiteatro Flavio si era ridotto ad una specie di posacenere inservibile. Quell’altro, accanto al vaso scheggiato, sulla mensola, era un piccolo vaso ateniese con sopra dipinto un satiro: veniva da Atene, e lo aveva scelto proprio Adrienne, perché quel satiro le ricordava Billie quando voleva fare il buffone per conquistarla, tanti anni prima. Billie non ci si era mai rivisto, in quella figura dai contorni esasperati e anzi, aveva tentato di dissuadere la moglie e convincerla a propendere per un mezzobusto di Alessandro Magno in miniatura, che sarebbe stato un bel modello da proporre ai bambini. Ma niente, non c’era stato verso: era lei che aveva sempre comandato in famiglia, forse perché Billie era sempre stato via per mesi ed anni, forse perché non aveva mai avuto abbastanza carattere da tenere in piedi la baracca, forse perché gli aveva sempre fatto comodo delegare. Quell’altro oggettino, appeso al muro, era stato un regalo di Mike, dalla Sicilia: un sole di ceramica dipinto a colori sgargianti che sorrideva smagliante. Un tempo era stato lucido e ben esposto, ora giaceva impolverato, opaco e scheggiato in un paio di raggi. Ad Adrienne non era mai piaciuto, quel sole, diceva che le sembrava la ingiuriasse, e Billie, in quel momento, nella penombra di quella stanza, si rese conto che aveva sempre avuto ragione, perché quel sole sapeva tutto, sapeva che non era stato un regalo alla famiglia di Billie, ma a Billie solo e da parte di Mike solo. Era anche chiaro perchè Adrienne non lo aveva mai sopportato, perché dietro quel sorriso di ceramica rossa si nascondeva la passione di due che non si erano mai mollati, e quegli occhi dal taglio allungato, appesi in cucina, avevano fissato la donna per mesi, come a dirle che era lei ad essere fuori posto e che, qualunque cosa avesse fatto, per quanto avesse cercato di farsi desiderare, suo marito avrebbe sempre avuto come riferimento qualcun altro. Già, Mike: era da tanto che non stavano insieme davvero, e Billie si ritrovò a prendere un generoso sorso di latte tanto per sentirne il calore bruciargli l’esofago e riempirgli lo stomaco, dove era da troppo che non si agitavano le solite farfalle; aveva sperato che quella sensazione di caldo lo avvolgesse come lo aveva avvolto Mike, ma era tutta un’altra cosa. Voltò lo sguardo a destra, e anche quel piccolo piacere al ricordo dei bei momenti passati, che gli aveva ammorbidito per un momento le gambe, svanì, per lasciarlo rigido e freddo, immobile: i giocattoli dei suoi figli lo fissavano, freddi, come una minaccia, come qualcosa che lo opprimeva e lo rimproverava. Era stato un padre sbagliato, un padre mai vero, un padre assente: tutto quello che non avrebbe mai voluto essere. Aveva fatto rivivere ai suoi figli la sua stessa infanzia, con la stessa sensazione di vuoto, ma forse quello dei suoi ragazzi era ed era stato un dolore anche più grande del suo, perché suo padre era morto quando ancora lui non aveva mai capito cosa fosse davvero la morte, la consapevolezza di aver abbandonato una persona per sempre e di non poterla più rivedere, quella consapevolezza di essersi fatta sfuggire l’acqua tra le mani e di aver tanto voluto berla prima che se ne andasse, di aver voluto dare un addio migliore, quella consapevolezza di aver voluto accanto ancora per un po’ quella persona, egoisticamente, quella consapevolezza di essere rimasto incompleto con quel dolore che ti attanaglia le costole e ti costringe ad inginocchiarti davanti a qualcosa che è più grande di te ma che non vedi e non senti, quella consapevolezza dell’irrimediabilità degli eventi e dell’irripetibilità dei giorni che si susseguono, quella consapevolezza dell’assenza che ti strappa via i sensi e ti lascia impassibile, al di fuori del mondo, mentre guardi la realtà che scorre come ovattata e non senti niente, se non quel profondo buco nello stomaco che si scava e si scava da solo, sempre più profondo, sempre più giù, e fa sempre più male, finchè non ti trapana, e allora capisci tutto, che è finita. Quell’orribile sensazione, Billie non l’aveva mai provata prima, ma si accorse, da appena sua madre gli disse che papà non sarebbe tornato più a casa, di che cosa si provava ad impazzire dal dolore e non poterci fare nulla. Non poter rimediare, appunto, e sapere che, comunque, chi se ne è andato ha lasciato in te qualcosa che ancora vive e, quando ha potuto, non ti ha mai abbandonato per se stesso: così Billie ricordava i suoi 10 anni di tormenti, come il ricordo costante di quella figura che in casa faceva notare la sua assenza, ma si ricordava per tutto ciò che aveva fatto. Invece lui no, lui era stato semplicemente sempre assente, vivo, ma assente, e, anche potendo rimediare a tutto ciò, non ci aveva mai nemmeno provato, aveva lasciato correre, creando un vuoto, un annientamento nei suoi figli, cui non avrebbe più potuto porre rimedio. Lui sapeva cosa significa vivere senza un genitore, ma non sapeva cosa significa vivere senza un genitore per scelta del genitore stesso: poteva solo immaginare quanto l’abbandono distrugga e svuoti, come la mela lasciata marcire sull’albero: si svuota del suo zucchero, si annerisce, si raggrinzisce fino a cadere, fiacca, con un tonfo sordo. Si risolse ad uscire dallo sgabuzzino e proseguire il suo giro improvvisato.
Ecco la sala da pranzo: che teatro, come aveva tenuto bene la scena di quel matrimonio fasullo, come aveva visto quei sorrisi stampati, tirati, stereotipati, mentre tutti ingoiavano lamette, perché ormai era sicuro che nemmeno Adrienne ci credesse più, in loro due. Mike inghiottiva il suo veleno col sangue di fronte alla donna che gli aveva portato via ciò che aveva sempre tenuto in mano, Trè assaporava l’amaro gusto della contesa tra i due che gli sedevano affianco, Ollie beveva a fatica dal calice della disapprovazione per quella felicità spezzata del suo ultimo figlio, per quella mera recita a cui prendeva parte di malavoglia, i ragazzi capivano in silenzio che tra i loro genitori non c’era nulla più che un semplice contratto e ne digerivano le conseguenze, mentre Adrienne si sforzava di portare avanti una conversazione leggera che distogliesse tutti dai propri pensieri, e Billie semplicemente sorrideva, perché a mentire, in fondo, era stato sempre bravo solo in parte, ed era stanco di quel personaggio che gli calzava troppo stretto. Lì si fermò, e non ebbe la forza di continuare, perché rimuginare sul proprio passato senza far nulla per cambiare il proprio futuro, ma veder scorrere i fotogrammi di ciò che si è fatto o non si è fatto mentre i minuti scorrono veloci e l’alba è vicina, è inutile. Andò in camera e trovò la moglie addormentata che gli voltava le spalle. Fece la stessa cosa, ma domani avrebbe piantato tutto.
 
   
 
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