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Autore: Virgi Chris Salvatore    05/04/2012    1 recensioni
Christelle Hollister è una ragazza coraggiosa e testarda, con un passato da dimenticare e un futuro da scrivere. Si trasferisce a Mystic Falls cercando di ricominciare, tuttavia pezzi del suo passato torneranno a galla. Ma il suo principe dagli occhi di ghiaccio starà al suo fianco pronto ad aiutarla e difenderla.
[Dal capitolo nove:
"“Christelle, piantala di cantare!” mi urlò mamma, dopo l'ottava volta che ripetevo la ninna nanna che mi cantava sempre prima di andare a dormire.
“Io ti regalerò ogni singolo risveglio la mattina...” continuai senza darle ascolto.
“Christelle Jane Hollister, se non la smetti vengo io lì, papà sta guidando e non devi deconcentrarlo!” mi sgridò mamma, per l'ennesima volta.
“Non ti preoccupare cara, è solo una bambina.” disse, girandosi per sorridermi.
Una luce.
Un urlo. “Oddio, Paul!”
Fuoco, rumore, silenzio, lacrime, rabbia, ghiaccio. Un vortice di cose e emozioni che vedevo e provavo in quel momento.
“Papà!” un urlo strozzato di una bimba di quattro anni.
Sangue. Papà respirava piano, sfinito.
Mamma. Non la vedevo. Le lacrime scendevano copiose sul mio viso.
Un dolore alla gamba.
Un uomo. In piedi, davanti a papà. Mi guardava, e sorrideva.
“Papà.”sussurrai, mentre quell'uomo si avvicinava a lui, ormai morente.
“Addio, Paul.” disse l'uomo.
Buio.
Dolore.
Sangue.
Lacrime.
Fuoco.
Ghiaccio.
Rabbia.
Rancore.
Morte.
Mi sveglia di colpo.
Ero sola nel mio letto. Avevo la fronte bagnata di sudore freddo, e le guance bagnate dalle lacrime.
Mi alzai, scesi le scale e andai in cucina, dove presi un bicchiere d'acqua che bevvi tutto d'un sorso.
Mi appoggiai al muro della cucina, ripensando a quel sogno.
Era tutto così reale, così vero. Non era sfocato come i soliti sogni che facevo, sembrava di più... un ricordo.
Provai a rivedere quelle scene, così chiare e limpide, così dure e così follemente vere.
Non era possibile, non poteva essere. Non poteva essere vero, chi era quell'uomo?
Cos'era successo quel giorno di giugno di tredici anni fa?
Che cos'era successo ai miei genitori?
Che cosa voleva quell'uomo dai miei genitori?
Che cosa aveva fatto loro?
Perché io ero viva?
Qual era la verità?"]
[Dal capitolo 12:
“Non ci riesco...” balbettai, con le lacrime agli occhi.
“No Christelle. Tu ce la fai, ce l'hai sempre fatta e ce la farai anche adesso.”
Mi prese il viso tra le mani e incatenò i suoi lapislazzuli ai miei smeraldi. “Ci sono io con te, non sei sola.”
Presi un respiro profondo.
Lui era con me.
Ce l'avrei fatta.
Chiusi gli occhi e lasciai le dita scivolare sui tasti.
Era così semplice, sorrisi.
Mi ricordavo ancora le note della ninna che mi cantava mamma.
Non ricordo per quanto suonai.
Secondi, minuti, ore.
Mi ricordo solo quando smisi di suonare.
Ero felice.
Stavo bene.
Damon mi guardava e sorrideva.
Si avvicinò al mio viso e mi baciò lentamente, con dolcezza e passione.
Era mio, solo mio.
Lo sapevo.
E sapevo anche di appartenergli.
La parte più profonda di me era incatenata a lui.
Il mio cuore gli apparteneva.
Oggi, domani e per sempre.]
Spero vi piaccia, io ci ho messo corpo, anima e sangue.
Genere: Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Damon Salvatore, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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You Ever Love Me?
 

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Prologo.

 

Era una sera di Giugno, faceva caldo come mai aveva fatto a Dreep, un paesino sperduto del North Caroline.
Mamma e papà avevano promesso di portarmi al lago, dove andavamo ogni estate e dove non saremmo più andati, visto che ci saremmo trasferiti in Virginia per via di un importante promozione che papà aveva ottenuto dopo anni e anni di estenuante lavoro nell'azienda del nonno, ovvero suo padre, il prestigioso imprenditore nonché miliardario Sue John Hollister.
Io non passavo molto tempo in sua compagnia, e non potevo dire di essermi affezionata a lui perché per lui esisteva solo una cosa; quella cosa che chiunque vorrebbe avere, quella cosa che crea dipendenza, quella cosa per cui la gente è pronta ad uccidere. Sì esatto, avete indovinato: il denaro.
Il nonno credeva che con il denaro si potesse comprare tutto, persino l'affetto di una persona.
Infatti, quelle due volte al mese che mamma lo invitava a cena per via delle festività, arrivava fornito di magnifiche bambole di porcellana che alcuni bambini potevano solo sognare, quelle con i vestiti di seta, gli occhi di diamanti e la pelle di una porcellana pregiata che fabbricavano solo in Italia.
Io le accettavo e ringraziavo sempre, come mamma mi aveva insegnato, ma quando il nonno diceva che doveva andarsene presto per via dei suoi affari, le mettevo nello sgabuzzino insieme a tutti i suoi altri regali. Io ero una bambina testarda, mamma e papà me lo dicevano sempre.
Ero monella con un caratterino niente male. In poche parole, sin da bambina, non mi facevo mettere i piedi in testa proprio da nessuno nemmeno a scuola, quando i soliti bulletti cercavano di prendermi la merenda: quando intimorivano i miei compagni loro abbassavano immediatamente la testa, si guardavano la punta delle scarpe e ubbidivano, io no.
Infatti spesso tornavo a casa con qualche livido o qualche graffio, ma non mi importava; non mi sarei mai abbassata alla loro tirannia. Tuttavia, devo dire che mi piaceva quella piccola città di campagna, mi sarebbero mancati i miei amici, il mio cavallo e il mio lago.
Ci passavo sempre i pomeriggi, quelli caldi da morire, quelli in cui a casa proprio non ci si poteva stare.
Mi sedevo sulla riva del fiume e cercavo di acchiappare le rane, e spesso me le portavo a casa. Io amavo le rane, le amavo da quando mamma mi raccontò la favola
La Principessa e il Ranocchio.
E' sempre stata la mia favola preferita, infatti al lago le trattavo bene e cercavo di dar loro un po' d'affetto.
A nessuno piacevano le rane e i rospi, e per questo dovevano sentirsi molto soli. Secondo me, però, non era giusto.
Loro erano nati così, con gli occhi un po' sporgenti e la pelle verde e rugosa, ma non era colpa loro.
Loro non ne potevano
nulla.
Cercavo sempre di vedere le cose con il cuore, non con gli occhi; cosa che spesso la gente non fa.
ùNon sempre si decide cosa essere, lo si è e basta.
E' ciò che facciamo ciò che determina
quello che siamo.
Papà mi ripeteva una frase, quella frase tanto vera quanto famosa, che diceva così: “Non si vede bene che con il cuore. L'essenziale è invisibile agli occhi.” Esatto,
Il Piccolo Principe.
Era il suo libro preferito, me lo leggeva sempre prima di andare a dormire. Poi mamma mi dava un dolcissimo bacio sulla fronte e mi cantava una ninna nanna che mi cullava dolcemente nei mie sonni sereni:

 

Io ti regalerò ogni singolo

risveglio la mattina

e poi lascerò i capelli

scivolarmi fra le dita,

ti regalerò ogni singola carezza

quando è sera,

ho imparato già

ad amarti senza più riserva alcuna.”

 

Eravamo in viaggio ormai da qualche ora, l'alba era salita, e mancava poco più di mezzora all'arrivo. Io avevo preso qualche barattolo con della marmellata che mamma teneva per merenda e colazione, ma io lo presi per dare la marmellata alle rane e, magari, intrappolarci dentro qualche rana per poi portarla a casa.
Mamma si sarebbe arrabbiata. Oh si.
Scendemmo dalla macchina e io corsi subito verso il lago togliendomi le scarpette rosse fuoco che s'intonavano perfettamente ai miei capelli mossi e selvaggi che mi cadevano spesso sul viso, coprendo i mie due grandi occhi che sembravano due smeraldi. Immersi le gambe nell'acqua fino al ginocchio, tirando su con le manine affusolate il mio vestitino bianco, casto e puro, quello che a mamma piaceva tanto. Diceva che sembravo una bambola. Infatti era così, non solo lei me lo diceva. Intanto mamma e papà si erano sdraiati sull'altra riva del lago, avevano chiuso gli occhi e si erano abbandonati al più completo e assoluto relax. D'altronde se lo meritavano. Mentre stavo giocando con le rane che saltellavano di qua e di là, sentii gracchiare. Cra. Mi guarda attorno. Cra. Cra.
Eccolo lì. Un grosso e magnifico corvo era appollaiato su un ramo e mi fissava. Dio, quant'era bello. Il più bello che avessi mai visto: occhi profondi e neri, piume lunghe e lucenti e un becco lucido e senza graffi o sfumature. Ero quasi ipnotizzata da quegli occhi così belli ma allo stesso tempo così misteriosi, pieni di odio, di dolore e anche molto amore. Lo seguii. Non avevo più possesso delle mie azioni, mi muovevo senza accorgermene, imitando i movimenti di quel pennuto così misterioso ma allo stesso tempo così... rassicurante. All'improvviso il pennuto cominciò a volare in alto, sempre più veloce e all'improvviso svanì dalla mia vista. Solo quando lo feci mi accorsi in che diavolo di guaio mi ero cacciata. Mi guardai attorno: alberi.
Solo enormi e possenti alberi che mi fissavano, e mi impedivano la vista del sole.
Avevo davvero paura: non sapevo dov'ero, isolata dal mondo, nessuno mi avrebbe trovata. In quel momento mi sentivo una bambina come le altre, e non come mamma mi diceva che ero, “speciale”. Volevo la mamma e volevo tornare a casa.
Avevo paura, tanta paura.
Mi sedetti sulla terra umida ricoperta di erbetta verde e scura, appoggiai la schiena contro un albero, misi le ginocchia contro il petto e ci appoggiai la testa sopra. Leggeri brividi percorrevano la mia schiena, e così iniziai a canticchiare quella dolce melodia :
Io ti regalerò ogni singolo risveglio la mattina e poi lascerò i capelli scivolarmi fra le dita, ti regalerò ogni singola carezza quando è sera, ho imparato già ad amarti senza più riserva alcuna.”
E continuai così, ancora e ancora, fino a quando non mi tranquillizzai. Ad un certo punto, però, successe qualcosa che mi fece sussultare: una mano fredda si appoggiò sulla mia esile spalla coperta solo dalla bretellina del mio vestitino.
Alzai la testa e li vidi,
di nuovo.
Quegli occhi misteriosi, pieni di odio, dolore e amore.
Davanti a me, a un metro dal mio visto. Era un uomo alto, dai capelli neri e gli occhi...
Dio, che occhi.
Erano freddi e così glaciali. Di un azzurro ancora per me sconosciuto ma allo stesso tempo così bello.
Poi mi sorrise, un mezzo sorriso laterale, quasi
sarcastico?, e mi disse: “Ma ciao bella bambina, ti sei persa?” Io timidamente annuii, e così continuò: “Mi dispiace davvero tanto. Vuoi che ti aiuti a cercarli?” Non so come mai, ma sentivo un forte tocco di sarcasmo in quelle parole.
Non ci feci caso, ma mi sentivo...
Al sicuro.
Annuii ancora, cercandomi di alzare, cosa in cui fallii miseramente.
E fu un secondo. Improvvisamente mi ritrovai in braccio a lui, gli serrai dolcemente le braccia intorno al collo e posai la mia testolina sul suo petto. A quel gesto lo sentii irrigidirsi. S'incamminò, e dopo un lungo silenzio mi chiese: “Allora,
riccioli rossi,come ti chiami?”rimasi in silenzio per cercare di elaborare la risposta, così semplice, ma che in quel momento sembrava una legge di fisica avanzata: “Christelle” risposi solo. A quelle parole si fermò. Avevo detto qualcosa di male? Allora continuai per rilassare l'atmosfera: “Ma tutti mi chiamano Ranocchio”lui rise e poi mi disse, con il suo solito sorrisino sarcastico: “Ranocchio? Sul serio? Non sei così male da essere paragonata ad una rana o ad un rospo!” rise ancora. Quella sua frase mi diede sui nervi.
Non avrebbe dovuto dirlo, così avrei evitato di rispondergli a tono: “Ehi! Come ti permetti di insultare le rane?! Ma sarai bello tu, mister. Presunzione!” pure con gli sconosciuti dovevo avere battibecchi?, fatto sta che lui rise,
ancora. Che nervi! “E non posso darti torto: io non sono bello, sono magnifico.” Mentre lo diceva si avvicinò al mio viso e mi guardò con convinzione, come se fosse un avvertimento, come se volesse che non lo contraddicessi. Così dissi: “Si si, come vuoi tu, ma fatto sta che non per questo devi deridere le rane. E' vero, sono viscide e rugose, ma cosa ne possono loro? Non sono state loro a deciderlo, lo sono e basta. Anche loro hanno il diritto di amare e di essere amate, anche se sono i mostri che tutti disprezzano.”
A quelle parole si fermò, e il suo sorrisino sarcastico scomparve.
Stranamente cambiò direzione, senza proferire parole. E poi erano le rane quelle strane, tzè.
Dopo qualche minuto di silenzio, mi mise per terra, e riuscii ad intravedere la riva e i mie genitori che erano ancora assorti in quel sonno che doveva essere davvero profondo.
Non glielo avrei detto che mi ero persa e che un misterioso uomo dagli occhi di ghiaccio mi aveva salvata.
Si sarebbero preoccupati. E fu proprio lui ad interrompere i miei pensieri: “Allora, riccioli rossi, siamo arrivati. Non combinare danni, mi raccomando.” mi disse, strizzando l'occhio. Io non risposi, semplicemente corsi verso la riva, ma poi mi fermai girandomi verso di lui che ancora mi fissava: “E tu cerca di essere meno presuntuoso, mister. Presunzione!” gli sorrisi e corsi via, tornando nel mio laghetto in mezzo alle rane.
Ma sono più che sicura lui mi rispose con un “Arrivederci
Ranocchietta mia.”

 

 

                                                                                                                                                                                                   Non sapevo che quella sarebbe stata la mia ultima giornata felice per tanto tempo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Heilà, TVD dipendenti! ;)

Tanti di voi penseranno, “Ma chi cavolo è questa tizia squilibrata che ci importuna?!

Ebbene, sono Virginia, e questa è la mia prima FF su TVD, che emozioneeeeeee!

Scusate molto, ho pubblicato la storia senza però accorgermi di non aver pubblicato il capitolo.

Eggià, sono davvero brava ad usare il computer, se non si era capito! E, visto che sono malata, in

'sti giorni aggiornerò molto, spero! Scusatemi ancora, ma sono mooolto imbranata. D:

Intanto che aspettiamo con questa dannata 3x19, sto sclerando, leggetevi sti capp! ;)

Bacioni,

Virgi.

  
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