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Autore: Violet 95    05/04/2012    1 recensioni
Cassia disegna. Cassia crea. Cassia dipinge. E dona un cuore, una parvenza di vita ai suoi ritratti. A Radiant Garden è conosciuta solo per questo e come unici amici ha due ragazzini da lei soprannominati Rosso Veneziano e Turchese. Eppure tutti la temono per il suo dono e per una maledizione che sembra portarsi dietro da quando era piccola, dalla morte di suo padre. Un giorno, però, qualcosa sembra finalmente cambiare e la sua carriera trova uno sbocco: Ansem il Saggio le chiede di fare un ritratto ai suoi allievi, così che lui stesso possa vedere di persona il suo "dono". Niente di più semplice per lei. Finché non fa la conoscenza di Xehanort, allievo prodigio di Ansem.
Ombre da tempo assopite sembrano ridestarsi, così come sentimenti che Cassia credeva di non poter più provare. E intanto il ritratto non sembra prendere forma, né vita...
Fanfiction su Xehanort prima di diventare ciò che poi diventa e sul creatore del suo ritratto, esposto ancora nel suo ufficio.
Genere: Drammatico, Mistero, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti, Xemnas
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: KH Birth by Sleep
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Prologo

Rosso sangria

 

 

 

Da quando era uscito suo padre, erano passate due ore.

“È finito il sangria. Vado a comprarlo al negozio”, aveva detto davanti alla porta con l’impermeabile scolorito sottobraccio. Eppure il negozio era a pochi metri da lì, di solito ci metteva mezz’ora prima di tornare a casa, nel loro piccolo appartamento a tre stanze – un bagno, un soggiorno che fungeva da sala da pranzo, cucina e camera da letto e infine lo studio di suo padre – all’ultimo piano di un edificio grigio, sporco e pericolante. L’unica finestra che avevano si affacciava però sulla visuale della chiesa di Notre-Dame e su gran parte dei tetti dei palazzi antichi. Nonostante la sporcizia e il tanfo di piscio, a lei quel posto piaceva; spesso suo padre la rimproverava di non sporgersi dalla piccola finestrella tonda per godersi quel panorama. Proprio a quella finestra teneva lo sguardo fisso sulle strade acciottolate per riconoscere una figura, un impermeabile color caffè a lei familiare.

Invece niente, le strade erano deserte, silenziose.

E aveva iniziato a piovere.

Forse il negozio era chiuso ed era andato dall’altra parte della città, forse si era fermato a chiacchierare con il venditore – ex ritrattista anche lui –, forse aspettava dentro il negozio che smettesse di piovere. Forse, forse, forse…

Forse gli era successo qualcosa mentre tornava a casa. E lei era lì, con il viso appiccicato al vetro della finestra, a struggersi al pensiero che gli fosse capitato un incidente. I creditori, di quegli ultimi tempi, lo avevano lasciato finalmente in pace e avevano smesso di seguirlo fino a casa o di aspettarlo davanti alla porta, sotto lo sguardo inquisitorio di Madame Dubois, portinaia settantenne del palazzo. Ma forse uno di loro, uno di quelli agguerriti, non si era arreso e lo aveva fermato in strada, trascinandolo a forza in una via poco frequentata e…

 

Basta!

 

La pioggia cadeva fitta, rendendo ancora più miserabili i profili della chiesa e dei palazzi sotto quel cielo carbone, inghiottito dalle nuvole. Eppure, nonostante la precaria visibilità, vide una piccola macchia cappuccino che si distingueva palesemente dall’uniformità di grigio e nero in quelle strade. Una figura che correva trafelata sotto la pioggia verso il portone scrostato del loro palazzo.

Il suo cuore ebbe un tuffo.

Alcune ombre, però, accompagnavano quella figura a pochi metri di distanza. Ombre indistinte, piccole, capaci di insinuarsi fra le tenebre che grondavano come sangue da quella città bella e maledetta.

Il suo cuore, stavolta, perso un battito.

 

È finito il sangria. Vado a comprarlo al negozio.

 

Fu questione di pochi secondi e lei era già fuori dalla porta del loro appartamento, coperta da una misera mantella bianca e a piedi nudi, ricordandosi solo più tardi che fuori pioveva. La porta sbatté alle sue spalle e lei si gettò giù per le scale, scendendo gli scalini tre alla volta, con il cuore in fermento e la paura dipinta negli occhi.

A quell’ora non c’era nessuno nel palazzo e la confusione che lei stava creando non sarebbe stata notata, nemmeno da Madame Dubois. Nella foga di scendere pensò a suo padre, al suo lavoro che a malapena li faceva arrivare a fine mese, ai suoi quadri che sembravano dipinti da una mano divina, ai suoi ritratti. Al suo ritratto. Un piccolo quadretto privo di cornice appoggiato vicino al suo letto la osservava ogni volta che stava per coricarsi, con quello sguardo immobile e lontano che sembrava vedere cose a lei sconosciute. Occhi che non conosceranno mai la vecchiaia.

Suo padre era un genio, ma nessuno lo considerava tale e nemmeno lui si atteggiava a genio incompreso. E lei lo amava per questo. Ma lui non avrebbe mai voluto che la sua unica figlia prendesse la strada dell’artista, come aveva fatto lui da adolescente.

Odiava quando diceva così, ma faceva solo il padre.

Questi pensieri le fecero mettere male il piede e lei scivolò sugli ultimi tre scalini, storcendosi il piede e atterrando con un sonoro tonfo nell’ingresso. Si trascinò a gattoni fino alla porta che dava sulla strada, pregando il suo cuore di non abbandonarla proprio in quel momento.

Si alzò facendosi forza solo sul piede sano e strinse la mano tremante sul pomo della porta. Il silenzio dall’altra parte la inquietava sempre più e il fatto che suo padre non fosse ancora entrato la faceva cadere in uno stato di ansia sempre più abissale. Respirando a pieni polmoni l’aria fetida dell’ingresso, girò il pomello e aprì completamente la porta.

Gocce di pioggia le sferzarono il volto, facendola rabbrividire, e il silenzio delle strade parigine la avvolse nel suo manto oscuro. Zoppicò insicura fuori, tenendosi stretta al petto la mantella, e si guardò intorno: niente. Solo ombre.

Poi rivolse lo sguardo in basso e la gamba sana cedette. Non sentì subito le lacrime, forse perché si confondevano con la pioggia che imperversava sempre più. Non gridò nemmeno. Non un sussurro uscì dalle sue labbra.

L’impermeabile color cappuccino era steso a terra, coprendo un corpo freddo dal quale uscivano degli effluvi densi e neri. Una chiazza di un colore a lei familiare si estendeva lì sotto e si univa alle pozzanghere formatisi, tingendo l’acqua di rosso.

Il tubetto di sangria doveva essersi aperto. Proprio sotto il corpo di suo padre.

Si era aperto e si era diluito con l’acqua, pronto per essere usato. Usato da lei.

E lei, la figlia del pittore, caduta in uno stato di trance, intinse le sue dita nella pozzanghera rossa e cominciò a disegnare sulla fredda pietra della strada. Quelle ombre nere, le ombre che forse avevano aperto il tubetto di sangria, erano ancora lì, appostate nel buio. Enormi occhi gialli la fissavano, bramando qualcosa.

La bambina, con gli occhi sgranati e vuoti, terminò il disegno e rimase a osservarlo a lungo, inebetita. La pioggia doveva lavarlo via, ma invece rimase.

Un cuore. Quello che lei non sentiva più.

E un nome.

Cassia.

Questo era tutto ciò che le rimaneva, insieme a un tubetto di rosso sangria.

 

 

 

 

Spazio dell’autrice:

Allora, premettendo che questa storia mi è venuta in mente dopo aver visto il ritratto di Xehanort (è una fanart oppure c’è davvero nel gioco?) e premettendo che sono un’ignorante nello studio dei colori, ma mi affascina comunque, questo è ciò che è venuto fuori. Forse è una cosa stupida, insignificante, ma ci sto mettendo “letteralmente” (XD) il cuore nello scriverla… Speriamo solo di non rovinare il personaggio di Xehanort!

Questo è solo il prologo, spero che resterete con me fino alla fine… Con questo, vi aspetto al prossimo capitolo!

See you again!

 

  
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