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Autore: Agapanto Blu    06/04/2012    4 recensioni
Erica, ragazza liceale, deve lottare per proteggere il suo amore, Lorenzo, dai suoi genitori.
Lorenzo, ragazzo liceale, deve lottare contro l'ingiunzione restrittiva impostagli dai genitori della sua amata e che gli impone di stare lontano da Erica.
Paola, donna trentenne, vive nell'ospedale psichiatrico dove anche Erica viene rinchiusa dopo che ha tentato il suicidio.
Paola aspetta Ettore. Aspetta il suo amore che non si ricorda più di lei.
Erica e Paola, unite e simili sotto molti aspetti, daranno l'una all'altra il coraggio e la forza di lottare per i propri sentimenti.
Con loro tanti fiori e moltissime Violaciocche Gialle.
***
Questa storia è una One-Shot che mi è venuta in mente tempo fa e mi ha richiesto molto tempo. So che è un po' lunga ma spero davvero non vi annoi.
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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I Fiori di Paola
 

L’auto si fermò placida davanti all’ingresso dell’ospedale.
La donna sfilò piano le chiavi dal quadro e prese un respiro profondo poi afferrò i fiori con malagrazia e scese dalla macchina sbattendone la portiera.
Proprio non le andava la situazione che si era creata: le sue amiche avrebbero sparlato della sua famiglia alle sue spalle per chissà quanto!
Sbuffando entrò nell’ascensore senza guardare nessuno.
Raggiunse il secondo piano e, da lì, la stanza 55.
Bussò piano ed entrò senza aspettare risposta, certa che non sarebbe arrivata comunque.
Come previsto, la giovane nel letto era sveglia.
Sui diciotto anni, la ragazza teneva la testa ostinatamente voltata verso la parete laterale della stanza e non degnò di uno sguardo la madre appena arrivata nemmeno quando lei le spostò i corti capelli corvini dal viso.
“Lunghi sarebbero più femminili…” commentò la donna valutando come sempre le ciocche lunghe appena tre centimetri ma la ragazza si limitò a scuotere un poco la testa facendole scivolare i capelli dalle dita.
La donna sbuffò facendo ondeggiare i capelli, neri come quelli della figlia ma lunghi fino alle spalle, e posò i fiori in un vaso sul comodino: erano delle splendide orchidee.
Orchidea: raffinata bellezza…
L’associazione tra il fiore e il suo significato intrinseco fu automatica per la ragazza nel letto che sbuffò: non le si addiceva di certo, o meglio lei non voleva che le si addicesse.
Avrebbe preferito delle Rose Balsamine che rappresentavano la semplicità.
“Tanto è inutile che non mi parli” minacciò la donna strappandola ai suoi pensieri, “così come è inutile che non parli con la psicologa…”
Erica alzò le spalle senza parlare.
“Almeno perché!” esclamò la donna al limite dell’esasperazione, “Dimmi almeno perché l’hai fatto!”
Erica si sfiorò uno dei polsi fasciati con le punte delle dita dell’altra mano.
“Lo sai perché…” mormorò e la sua voce risuonò più morbida, dolce e triste di quella della madre.
“Oh, andiamo! Non mi sembra un comportamento maturo fare una cosa simile per un… inetto simile!”
Erica smise di ascoltare gli sproloqui della madre: d’altro canto, quando mai quella donna aveva ascoltato lei?, quando aveva anche solo provato a dare a Lorenzo una possibilità?
Mai: risposta perfetta ad entrambe le domande.
Cosa aveva di sbagliato Lorenzo? Il fatto che avesse lasciato la scuola superiore al quinto anno per andare a lavorare? Non era colpa sua: suo padre era improvvisamente mancato a causa di un infarto e lui stava cercando di aiutare in famiglia.
Ma quando mai i suoi le avrebbero dato retta?
A diciotto anni, una ragazza dovrebbe, per legge, essere libera di scegliersi il proprio futuro: per lei non era stato così e, alla fine, aveva cercato di rivendicare la propria emancipazione.
Ma l’aveva fatto nel modo sbagliato e così, non solo la donna di servizio era arrivata in tempo per trovarla in un bagno di sangue ma ancora viva sul pavimento, ma aveva anche perso Lorenzo che, su denuncia di suo padre, era indagato dalla questura per il suo gesto ‘inconsulto’ e aveva ricevuto un’ordinanza restrittiva nei suoi confronti.
Ma dov’era la Giustizia?!
Un cellulare iniziò a squillare nella borsa di sua madre ed Erica non faticò a distinguere la propria suoneria. I suoi le avevano, effettivamente, requisito il cellulare per impedirle di sentire Lorenzo ma lei era riuscita, in un certo senso ad aggirarli: quando a chiamare erano i numeri o del cellulare o del telefono di casa di Lorenzo, la suoneria era diversa.
Una melodia al pianoforte per lui, una canzone rock a volume decisamente alto per tutti gli altri. In un certo senso, Erica sperava che qualcuno che non fosse Lorenzo la chiamasse mentre sua madre era al circolo con le sue amiche così da farle fare una figuraccia terribile. Nei suoi sogni se l’era immaginata spesso, la scena, ma mai si era avverata, che lei sapesse.
Quella che suonava in quel momento, infatti, era una nostalgica musica di pianoforte.
Erica sapeva di non avere speranze ma tentò lo stesso.
“Non dovrei rispondere io?” chiese atona senza spostare lo sguardo dal muro di destra e dalle sue crepe sottili.
“Neanche per sogno!” sbottò sua madre guardando il numero, “Quel ragazzo ti ha già fatto troppo male: questa telefonata infrange senza dubbio l’ordinanza restrittiva, sono certa che tuo padre vorrà farlo presente al giudice!”
Un istante dopo la melodia si interruppe bruscamente quando la madre di Erica premette il tasto rosso e rifiutò la chiamata.
Erica non reagì.
La donna si alzò dal bordo del letto dove si era seduta, non invitata, e si avviò alla porta salutando la figlia con calore.
Erica rimase in silenzio fino a che l’eco dei tacchi alti di sua madre non si spense lungo il corridoio, allora chiuse gli occhi e iniziò a piangere in silenzio.
Le lacrime le solcarono le guance senza che il viso si muovesse, tutto il suo corpo parve congelato da quel dolore immenso che la schiacciava e rimase immobile a subire quella tortura ben accetta.
Perché, anche se non gli aveva parlato, Erica aveva avuto la conferma che anche Lorenzo non aveva smesso di lottare: nonostante tutto ancora la cercava, nonostante tutto ancora rischiava di mettersi nei guai per lei…
Nonostante tutto la amava ancora.
Erica aveva spesso tentennato prima di chiamare amore quello che c’era tra lei e Lorenzo, erano giovani in fondo, ancora al liceo e con la vita davanti, ma aveva capito quanto grande fosse il loro sentimento quando lo aveva perso.
E ora aveva paura di lottare contro il nemico sbagliato come già aveva fatto.
La porta si aprì cigolando ma Erica, in lacrime, non la sentì.
Non si accorse di non essere sola finché una donna non si sedette sul bordo del suo letto facendola sobbalzare.
Erica sgranò gli occhi blu e fissò la nuova venuta da sotto le ciglia folte.
La donna sembrava malata in modo grave, doveva avere sui trent’anni ma la pelle pallida e tirata sul viso smunto e i capelli castani arruffati le davano un’aria da anima in pena.
Gli occhi neri sembravano due voragini di dolore.
Erica si raddrizzò e aprì la bocca per chiederle chi fosse ma la donna le mise una mano sulle labbra facendola tacere.
C’era una così dolorosa rassegnazione nei suoi gesti e nei suoi occhi che la giovane non ebbe il coraggio di replicare e la voce le si spense in gola.
La donna le appoggiò l’altra mano chiusa a pugno sul ventre poi la aprì e lasciò qualcosa di grigio chiaro sulle coltri bianche.
Erica abbassò lo sguardo sul mucchietto e si accorse, con sorpresa, che si trattava di petali.
La donna, silenziosa come entrata, si alzò e uscì dalla camera con la veste bianca che ondeggiava facendola sembrare uno spirito.
Ma Erica non credeva ai fantasmi e riconobbe, con orrore, la camicia che indossavano i pazienti del reparto psichiatrico dell’ospedale.
Rabbrividì e tremò al pensiero di essere stata così vicina ad una pazza ma poi realizzò che lei stessa era lì dentro perché la pensavano instabile, e abbassò gli occhi sui petali nel suo grembo.
Non erano petali, ma piccoli fiori bianchi che sembravano più scuri a contrasto con le lenzuola immacolate: fiorellini bianchi a cinque petali che lei avrebbe riconosciuto ovunque.
Achillea millefoglie: cura per un cuore spezzato.
Rialzò gli occhi sulla porta, ormai richiusa, mentre nella sua mente si insinuava il dubbio che quella donna non fosse poi così pazza.
 
Il sole che sorgeva le illuminò gli occhi chiusi, svegliandola.
Erica aveva fatto lasciare apposta le tende aperte per essere svegliata all’alba.
Le sue iridi blu brillarono nella luce rosata come due zaffiri e la ragazza si mise seduta.
Si guardò attorno ma la stanza anonima la rattristò.
Era sabato, che voleva dire che la sera prima i suoi erano stati senza dubbio ad una di quelle cene mondane che tanto gli piacevano e quindi non si sarebbero presentati a trovarla.
Piano, Erica scese dal letto.
La camicia dell’ospedale le arrivava azzurrina sino alle ginocchia e sotto di essa la ragazza indossava solo la biancheria intima ma comunque, a piedi nudi, la giovane si alzò e uscì dalla sua camera.
Le infermiere al banco la videro e lei ebbe cura di sorridere loro per evitare che notassero che era scalza poi proseguì a camminare.
Il medico le aveva consigliato di fare qualche passo ma, fino a quel momento, lei si era rifiutata. Ora, capiva di aver sprecato per stupidità un’occasione, così come aveva rischiato di farlo quando aveva preso le lamette del rasoio del padre e si era tagliata le vene.
Piano, la giovane vagò senza meta per i corridoi dell’ospedale con la luce che, a ogni suo passo, aumentava entrando dalle finestre e faceva brillare le cose bianche in modo quasi insopportabile.
Erica non sapeva dove stesse andando ma sapeva chi stava cercando.
 
Le ricerche di Erica, quel giorno, non ebbero successo e, per i corridoi, incontrò il suo dottore che la rispedì a letto.
Ma lei era testarda: riprovò il giorno dopo, e quello dopo, e quello dopo ancora.
Uscì nel piccolo giardino ignorando i richiami delle infermiere fino a che quelle non la afferravano per le braccia e la trascinavano di nuovo dentro, girò in ogni corridoio, vagò per ogni reparto.
Ma niente: la donna della notte pareva svanita nel nulla, al punto che Erica stessa avrebbe dubitato della sua esistenza, se non avesse avuto i fiori di Achillea attentamente messi a seccare tra le pagine di un libro.
Mercoledì a Erica toccò la visita della psicologa.
Non essendosi lei presentata alle precedenti sedute, la donna si era risolta a presentarsi nella sua stanza per parlarle.
“Allora, patti chiari e amicizia lunga, d’accordo?” esordì la donna chiudendosi la porta alle spalle dopo aver sbattuto fuori la madre di Erica, “Io non so cosa tu stia pensando di me, ma lo posso immaginare, però credo proprio che questa notizia ti interesserà: il tuo ragazzo è finito dentro…”
Erica, che si era attentamente preparata a passare una o due ore con la testa ostinatamente girata verso il muro e le labbra serrate, si voltò di scatto verso la dottoressa con gli occhi sgranati e la bocca spalancata.
“Perché?!” esclamò dopo un lungo momento di silenzio attonito.
La donna sospirò, si sedette sulla sedia accanto al letto di Erica e iniziò a sfregare le mani l’una contro l’altra.
“Beh, se non altro ho scoperto com’è la tua voce…” commentò, “Chissà perché, non mi fa così piacere, sai?”
Erica sgranò ancora di più gli occhi e la dottoressa sostenne il suo sguardo blu con i suoi occhi verdi.
“Ha chiamato trentacinque volte il tuo cellulare Sabato, Domenica ha provato al telefono di casa tua per quaranta volte, Lunedì è riuscito a raggiungere tua madre perché ha chiamato il tuo cellulare da un numero che non avevi in memoria e, che tu ci creda o no, ha preteso di parlarti. La discussione è letteralmente degenerata fino al punto che tuo padre lo ha insultato e, a quel punto, il tuo Lorenzo, si chiama così giusto?, ha dichiarato che avrebbe girato ogni ospedale pur di trovarti. I tuoi sono passati subito per le vie legali e lui è stato arrestato in misura cautelare…” spiegò la donna con i capelli biondi che le scendevano sugli occhi.
Erica non l’avrebbe mai creduto ma la voce di quella donna sembrava davvero piena di dispiacere.
“Lei non è d’accordo?” non riuscì a impedirsi di chiedere.
La psicologa si raddrizzò e fissò la ragazza dritta negli occhi.
“E tu?” chiese a tradimento poi, siccome Erica non rispondeva, si rispose da sola, “Tu non lo sei, probabilmente daresti qualsiasi cosa perché Lorenzo ti trovi davvero…”
Erica strinse le labbra e valutò l’ipotesi di riprendere il suo muto silenzio e iniziare lo sciopero della fame per convincere i suoi a lasciar stare Lorenzo ma la sua interlocutrice dovette capire le sue intenzioni perché si lasciò sfuggire un sorriso dolente.
“Sono la tua unica alleata, per ora, lo sai?” chiese.
“Lei non è una mia alleata…” ribadì dura Erica mentre ragionava che, con la statura che si ritrovava, la sua infermiera non avrebbe certo potuto costringerla a ingoiare cibo e medicinali con la forza, “Lei è qui per i miei genitori…”
“Io sono qui per te…” la interruppe la psicologa, “Questo è il mio lavoro: fare il bene dei miei pazienti, indipendentemente dallo scemo e dall’oca di turno che mi chiamano…”
Erica cercò di trattenersi ma alla fine una risatina nervosa le scappò nel sentire il giudizio della dottoressa sui suoi genitori.
Annuì.
“Mettiamo il caso che io le creda e le chieda consiglio: se davvero fosse la mia alleata, cosa mi consiglierebbe?” chiese quindi, ancora sospettosa.
“Ti consiglierei di rispondere a questa domanda: è stato Lorenzo a spingerti a tentare il suicidio?” chiese la donna, diretta.
Erica si sigillò le labbra e la fulminò con un’occhiataccia.
“Io posso considerare valido solo ciò che ti sento dire o ti vedo scrivere, sai?” buttò con nonchalance la dottoressa, “Non posso, per esempio, considerare valido un tuo annuire…”
Erica sorrise poi scosse la testa.
La dottoressa la guardò confusa.
“Era la tua risposta a prima?” chiese.
Erica annuì e la dottoressa sorrise.
“Il tuo ragazzo ti ha mai fatto del male?” chiese.
Erica scosse di nuovo la testa.
“Lo ami?”
Erica annuì, senza più esitazione, e fece sorridere la donna.
“Ma ai tuoi non va bene…” commentò e, stranamente, non si trattava di una domanda.
Erica rispose lo stesso con una smorfia di assenso e la dottoressa sospirò.
“Lo sai che sarà dura risolvere questa situazione fino a che tu sarai rinchiusa qui?” chiese.
Erica sospirò.
“Va bene lo stesso…” cercò di rassicurarla la psicologa alzandosi e dirigendosi alla porta, “Mi farò venire in mente un’idea…”
“Aspetti!” la fermò Erica.
La dottoressa si voltò, sorpresa.
“Ho bisogno di aiuto…” sussurrò la ragazza.
La donna non disse nulla ma tornò indietro, si sedette e attese che la giovane si sfogasse.
Alla fine del racconto, Erica tirò un sospiro di sollievo.
La dottoressa sorrise.
“Va meglio?” chiese.
La ragazza annuì.
“Senti…” iniziò la donna con cautela, “Io non posso prometterti nulla ma, siccome tu mi hai parlato, io posso testimoniare in tribunale, va bene? Mi segui?”
Erica annuì.
“Allora, il mio giudizio è che Lorenzo sarebbe una figura utile alla tua guarigione e, con il mio parere, forse il giudice acconsentirebbe a spostare l’attenzione del processo su ciò che tu vuoi, va bene? Se riusciamo a portare al dubbio la giuria, chiederanno di sicuro la tua testimonianza diretta…”
“E nessuno meglio di me può sapere se Lorenzo mi abbia mai fatto del male!” comprese Erica con un sorriso.
La psicologa annuì.
“Esatto, nel frattempo tu devi startene buona qui e non dare pretesti agli avvocati per dichiararti instabile o inattendibile come teste, capisci? Questo vuol dire: niente scioperi della fame o della sete, niente assalti alle infermiere né medicinali buttati nel lavandino, mi sono spiegata?”
Erica annuì.
“Cosa faccio allora?” chiese.
La dottoressa le sorrise.
“Continua la tua caccia alla donna misteriosa…” rispose enigmatica.
Erica sgranò gli occhi.
“Sa chi è?”
“Forse…” ammise la donna alzandosi per andare via, “Ma, se è chi credo, allora tu sei davvero speciale…”
Detto questo uscì chiudendo la porta alle spalle.
 
“Lei dovrebbe riposarsi!” esclamò il medico sbuffando quando incrociò Erica nei corridoi.
La ragazza sorrise.
“Vorrei fare due passi, le prometto che non combinerò niente!” implorò.
Il dottore ci pensò su per un po’ poi annuì.
“Non si affatichi, però!” si raccomandò prima di sparire dietro un’infermiera diretto all’ufficio ‘burocrazia’ come lo chiamavano i pazienti.
Erica sorrise e riprese a camminare tra i corridoi bianchi.
Svoltò un angolo.
Davanti a lei comparve un’infermiera che usciva da una stanza con una pianta di Achillea Millefoglie in mano.
Erica sgranò gli occhi ma non ebbe la prontezza di fermare la donna che sparì in un altro corridoio.
La ragazza raggiunse la porta da dove la donna era uscita e vi si fermò, incerta, per un momento: poteva inseguire l’infermiera o entrare direttamente.
Quale delle due?
Erica sospirò e stabilì che non avrebbe saputo rintracciare la donna nell’ospedale così si avvicinò esitando alla porta.
Bussò piano.
Nessuna risposta.
Provò di nuovo e di nuovo non ottenne nulla.
Alla fine la curiosità prevalse e la giovane aprì appena la porta.
La stanza dove si trovava era un singola, bianca e azzurra, con un letto bianco perfettamente rifatto e un vaso di girasoli sul comodino accanto.
Erica aggrottò la fronte.
Girasole: false ricchezze; non le sembrava certo un dono da portare a una malata ma, d’altronde, un sacco di persone regalavano fiori senza conoscerne il vero significato.
La camera era molto luminosa grazie ad una grande finestra sulla parete di fronte alla porta e lo sguardo di Erica fu attratto da una sagoma nera in controluce.
Una donna stava seduta davanti al vetro e guardava fuori, non era esattamente in fronte alla finestra ma leggermente spostata di lato così che di lei si distingueva il profilo.
Con la luce solare che le faceva brillare i capelli, la donna sembrava leggermente più sana della prima volta in cui Erica l’aveva vista: nella sua camera da letto quando le aveva portato i fiori di Achillea.
La donna conosceva il significato dei fiori? O le aveva regalato quella pianta solo per qualche motivo che le aveva suggerito la sua mente malata?
Perché a me?, si chiese Erica poi ripensò alle parole della psicologa, Cos’ho di speciale?
Piano, entrò nella stanza ma la donna non reagì.
Bussò contro lo stipite della porta ma, ancora, nessuna reazione.
Alla fine, la ragazza prese coraggio e si avvicinò alla donna.
“Signora?” osò chiedere ma quella non le rispose.
Erica arrivò fino a metterle una mano sulla spalla eppure la donna non diede segno di udirla.
Semplicemente se ne stava lì, a guardare fuori, ma il suo sguardo vacuo e l’espressione gelida la facevano sembrare in un altro mondo.
Erica la osservò.
Gli occhi neri parevano svuotati di tutto ciò che li aveva riempiti la prima volta, la pelle era sempre pallida e le labbra erano immobili ma parevano avere un’impercettibile piega verso il basso che dava al viso un’espressione di tristezza.
Lo sguardo della donna era ostinatamente fisso sul parcheggio dell’ospedale.
E, in quel momento, Erica fu certa che stesse aspettando.
Qualcosa o qualcuno, non lo sapeva: ma lei aspettava.
“Signora?” provò ancora Erica.
“Non ti risponderà…” commentò una voce dalla porta facendo sobbalzare Erica.
La ragazza si voltò e si trovò davanti l’infermiera che era andata via poco prima con il vaso di Achillea.
“Non lo fa mai…” sussurrò la donna entrando.
Erica deglutì.
“Non volevo disturbare è solo che…” azzardò ma l’infermiera scosse la testa sorridendole.
Un’ombra di tristezza le passò sul viso, quasi che il dolore della paziente l’avesse pervasa.
“Non disturbi: avrebbe bisogno di un po’ di compagnia e io non sono poi granché…” rispose poi si richiuse la porta alle spalle e andò a sedersi su una sedia facendo segno ad Erica di andarle accanto.
La ragazza si avvicinò confusa e si sedette.
“Come mai la cercavi?” chiese l’infermiera.
“Volevo chiederle perché fosse venuta da me e…”
“Venuta da te?!” esclamò la donna sgranando gli occhi, “Cara, è impossibile che fosse lei!”
Erica fu presa in contropiede.
“Come sarebbe?” riuscì a chiedere.
“Tesoro, quella donna non esce da questa stanza da almeno dieci anni!”
 
Erica accettò con garbo il tè caldo nel bicchierino di plastica e vi soffiò sopra per raffreddarlo.
L’infermiera prese per sé un caffè dalla macchinetta e la imitò poi bevve un sorso e sospirò.
“Non so cosa dirti, Erica…” commentò scuotendo la testa, “Mi sembra davvero impossibile che si sia alzata per venire da te…”
Erica bevve a sua volta.
“Cosa le è successo?” chiese.
La donna sospirò.
“Qualcosa di davvero brutto che non ha mai assimilato…” commentò poi lanciò alla ragazza uno sguardo triste, “Sicura di volerlo sapere?”
Erica ci pensò su: aveva già abbastanza problemi, vero, ma la psicologa le aveva consigliato di continuare la sua ricerca, inoltre quella donna era andata da lei per dirle qualcosa, qualcosa di importante, e forse la chiave di quel messaggio era nella sua storia.
“Devo…” commentò sentendo quella parola scenderle stranamente amara giù per la gola.
Sapeva già che non sarebbe stata una bella favola.
 
"Il suo nome è Paola e ha trent'anni esatti.
Vive qui dentro da quando ne aveva venti, sempre che la sua possa essere considerata vita. 
A diciotto anni si innamorò di un uomo, a quanto raccontano i suoi parenti, e quello fu il periodo più bello della sua vita.
Avevano una passione in comune: il linguaggio dei fiori.
Lui le regalava collane di corolle che significavano frasi intere, poesie addirittura, e lei rispondeva donandogli petali discreti che lui potesse nascondere in tasca.
Parlavano così e il fiore che più si regalavano, quello che nel loro piccolo paese era stato soprannominato “Il fiore di Paola”, era la Violacciocca Gialla.
Violacciocca Gialla: Fedeltà nelle difficoltà.
Quella povera ragazza purtroppo non sapeva quanto davvero quel fiore l’avrebbe rappresentata nel futuro.
Comunque…
Paola e quel ragazzo dovevano sposarsi ma accadde qualcosa che non avevano previsto: un incidente. 
Il ragazzo rimase coinvolto in una valanga mentre terminava gli studi in Svizzera e di lui non si ebbero notizie per un anno. 
Ma Paola era una donna determinata e non si diede per vinta: lo cercò a lungo fino al giorno in cui, malauguratamente, scoprì dov’era. 
Venne a sapere che viveva a Zurigo e lavorava come medico nell’ospedale locale, era ricercatore, e cercò di incontrarlo.
Mentre camminava per i corridoi dell’ospedale dove lui lavorava, alla sua ricerca, gli andò a sbattere contro.
Lui le sorrise e la aiutò a rimettersi in piedi e lei era così felice che stava per saltargli al collo dalla gioia.
Ma lui non la salutò.
“Stia attenta, signora, avrebbe potuto farsi male…” fu la frase gentile che le rivolse prima di proseguire per la sua strada.
Paola rimase lì, immobile, nel mezzo del corridoio a chiedersi cosa stesse accadendo.
La risposta non tardò ad arrivare: il prestante medico italiano era diventato ricercatore in quell’ospedale per i casi di amnesia totale poiché ne era, a sua volta, una vittima da quando una valanga lo aveva travolto.
A Paola si spezzò il cuore: il suo amore aveva perso la memoria, probabilmente per sempre, e non l’avrebbe più riconosciuta.
Tentò di parlarne con gli altri medici e, a sottintesi, anche con lui ma la risposta fu sempre la stessa: shock come ritorni di persone o cose dal passato potevano essere molto pericolosi per i casi come il suo.
Paola capì di non avere altra scelta: andarsene, per sempre, era l’unica cosa che le era concesso fare.
E così fece ma, prima di partire, volle salutare per un’ultima volta il suo grande amore ormai perduto.
E lui la stava aspettando, le sorrise e, per festeggiare la sua partenza, le donò un mazzo di fiori.
Un mazzo di Violacciocche Gialle.
“Non so se ti piacciono: quando le ho viste mi sei venuta in mente tu e ho pensato che andassero bene per salutarti…” le disse mentre glieli porgeva.
Lui non sapeva, non ricordava, quale significato avessero le Violacciocche Gialle, in generale ma soprattutto per Paola, e non poteva capire il brillare degli occhi di lei quando le vide.
Paola si convinse che, dentro di lui, il loro amore fosse ancora vivo e che avrebbe superato la malattia che lo aveva colpito così partì.
Arrivata a casa, mise le Violacciocche a seccare tra le pagine di un libro e poi si sedette alla finestra, lo sguardo puntato alla strada, in attesa che il suo amore si ricordasse e tornasse per stare con lei, per sempre…"


Erica vide il bicchiere di tè tremare tra le sue dita e deglutì, incapace di alzare lo sguardo sull’infermiera.
Era per quello che Paola era lì?
“Da quando si sedette su quella sedia non si mosse più, non per sua volontà…” spiegò la donna, anch’ella fissando il bicchiere senza berne un sorso, “Per tre giorni non toccò né cibo né acqua, né andò a dormire… Alla fine, i suoi parenti tentarono di ricondurla alla ragione ma era come se lei non li sentisse, come se non potesse sentire… Così la portarono qui ma lei non disse nulla… Ha bisogno di tutto: va nutrita, messa a letto, portata in bagno, lavata… Lei non reagisce più… L’unica cosa che fa è alzarsi la mattina, all’alba, e andare a sedersi su quella sedia per guardare fuori in attesa del suo amore…”
Erica cercò di darsi un contegno, di smettere di tremare e di nascondere lo sgomento che sentiva, così portò il bicchiere alle labbra e bevve un sorso di tè anche se quello, ormai, era diventato freddo.
“E lui è…?” osò chiedere.
L’infermiera scrollò le spalle.
“E chi lo sa…” rispose, “Forse si è ricordato di lei ma non può trovarla: ormai tutta la sua famiglia si è trasferita per essere nei paraggi in caso di necessità… O forse semplicemente non l’ha ricordata… Nessuno ha più saputo nulla di lui e i parenti di Paola non hanno voluto raccogliere informazioni…”
Erica annuì.
Gettò il bicchiere vuoto in un cestino e sorrise all’infermiera senza però avere il coraggio di dirle una sola parola.
Se ne stava andando quando fu fermata da una frase.
“Forse vede se stessa in te…” le urlò dietro la voce dell’infermiera.
Erica si girò piano.
“Probabilmente, se davvero era lei, ti ha visto come qualcosa che la riguarda e che le somiglia: forse ha capito come ti senti è ha pensato di aiutarti con quel fiore…”
Erica sorrise e annuì poi si voltò.
Non appena ebbe voltato l’angolo si trovò di fronte la psicologa.
“Lei conosceva la storia di Paola?” chiese la ragazza.
La donna annuì.
“L’avevo in cura ma poi è stato palese che non potessi aiutarla…” rispose con un sospiro, “Nessuno di noi può…”
“O forse posso io…” sussurrò Erica mentre un pensiero le entrava in testa.
Paola conosceva il linguaggio dei fiori, lo aveva sempre conosciuto, ed era praticamente impossibile che le avesse regalato l’Achillea Millefoglie senza sapere cosa volesse dire, specialmente dato che i fiori erano l’unica speranza a cui ancora si aggrappava.
No, Paola sapeva esattamente cosa stava facendo e dicendo e, probabilmente, lo sapeva ancora mentre, immobile, scrutava l’entrata dalla sua finestra.
La psicologa guardò Erica con confusione.
“Come?” chiese.
“Voglio testimoniare…” dichiarò Erica, “Voglio farlo e voglio oppormi: è questo che voleva dirmi Paola… Lei mi stava avvisando su ciò che passerò se ora permetto a me stessa di arrendermi…”
La psicologa annuì.
“Ho sempre pensato che quella donna, sotto sotto, fosse pienamente consapevole delle sue azioni…” commentò poi sorrise a Erica, “Andiamo a fare una certa telefonata?”
Erica sorrise.
“A un avvocato difensore…” completò.
 
Erica si abbottonò meglio la camicetta, poi tolse dei granelli di polvere inesistenti dalla giacca e si lisciò le pieghe della gonna.
Prese un respiro profondo e si guardò allo specchio: nonostante il completo beige e la mise perfetta per andare in tribunale la ragazza non si convinse.
Certo, era ancora pallida e aveva ancora le fasciature ai polsi ma il vero problema era dentro: era terrorizzata.
Se in aula non fosse stata convincente, sarebbe stata la fine per lei e Lorenzo.
Una testa fece capolino dalla porta e la psicologa le sorrise.
“Pronta?” chiese.
“Quasi…” rispose Erica.
Avrebbe fatto del suo meglio, sì, ma prima doveva fare una cosa.
Uscì dalla camera a testa alta e percorse i corridoi a passo sicuro fino alla camera di Paola.
Entrò.
Ovviamente, lei era sempre lì: seduta alla sua sedia, davanti alla sua finestra, nella sua solita posizione.
Erica le si avvicinò e le posò in grembo un fiore che, però, Paola non prese in mano.
La ragazza non se ne preoccupò: ormai, dopo aver passato alcuni giorni accanto alla donna, sapeva che i fiori erano una cosa che lei non mancava mai di notare anche se non lo dava a vedere.
“Biancospino…” le sussurrò all’orecchio, “Speranza…”
Però sapeva che Paola aveva già capito.
“Come si chiamava?” osò chiederle, sempre piano, sempre all’orecchio.
Paola non si mosse, non reagì.
Erica attese un poco poi sospirò, si raddrizzò e si voltò per uscire.
Quando fu sulla porta, una voce la fermò.
“Erica…” disse Paola, la sua voce era roca per il rarissimo utilizzo ma ferma, “Solitudine…”
Erica, che dapprima aveva pensato che la donna l’avesse chiamata, capì: era il significato del fiore di cui lei portava il nome.
Sorrise.
“Ancora per poco, Paola…” mormorò poi si voltò e uscì.
Come la porta fu chiusa dietro di lei, le parve di sentire la voce di Paola che sussurrava un’unica parola, un nome.
“Ettore”.
Erica non ne era certa ma sorrise lo stesso e si avviò verso la sua sfida.
 
“Pensi che si ricorderà di te?” chiese Lorenzo guardando la facciata dell’ospedale.
Erica annuì.
Erano un uomo e una donna adulti ormai, erano sposati, erano padre e madre di due gemelli che, in quel momento, ascoltavano i genitori parlare.
“Non penso che mi abbia mai dimenticata anche se non sono più potuta tornare da lei…” sussurrò.
Lorenzo annuì e i suoi capelli biondi gli scivolarono negli occhi.
Se li spostò con un gesto lento e sospirò.
“Vuoi che ti accompagni?” chiese puntando gli occhi grigi in quelli blu della moglie.
Lei scosse la testa.
“Devo andare da sola…” sussurrò, “Ho fatto passare troppo tempo…”
Lorenzo le sorrise.
“Se hai bisogno di aiuto, io ci sono…” le garantì poi si sporse e le posò un bacio sulla fronte.
“Mamma?” la chiamò Carlo, uno dei due gemelli, “Pensi che davvero si ricordi di te?”
Erica si voltò e guardò per un momento i due ragazzi.
“Ne sono certa: Paola non ha mai dimenticato nessuno…” rispose prima di scendere dall’auto con il mazzo di fiori stretto tra le mani.
Salì le scale in fretta e furia e quasi corse per raggiungere la stanza che era la sua meta.
Non bussò, sapeva che non serviva, ed entrò.
Paola era sempre lì, allo stesso posto e nella stessa posizione, ma era cambiata: era invecchiata eppure la sua attesa paziente le aveva lasciato sul viso una luce, una traccia che la faceva brillare per la sua fedeltà incondizionata.
Erica entrò, si chiuse la porta alle spalle e poi raggiunse la donna.
Lentamente le posò il mazzo in grembo.
Come al solito, Paola non si mosse.
“Sono Erica…” esordì la ragazza aprendosi in un sorriso di scuse poi iniziò a mostrarle i fiori della composizione.
“Giacinto viola,” perdonami, ti prego, “Zinnia,” la tua assenza mi addolora, “Petunia” la tua presenza mi consola, “Nocciolo”riconciliazione, “Fiori d’arancio,” la tua purezza è pari alla tua bellezza, “Bella d’Irlanda” buona fortuna, “Biancospino e Celidonia insieme”speranza in gioie future, “Fresia” amicizia duratura, “Garofano rosa e Nontiscordardimé” non ti dimenticherò mai e tu non dimenticarmi, “e Mughetto…” ritorno della felicità, “So che sono tanti e tutti diversi ma sono tutto quello che avrei voluto dirti…”
Paola non spostò lo sguardo ma mosse un poco la mano e sfiorò uno dei fiori: la Petunia.
Erica sorrise.
“Sono passati troppi anni, Paola…” sussurrò, “Venti… E me ne dispiace, non volevo abbandonarti ma è stata durissima… Adesso però sono felice: alla fine ho sposato Lorenzo, ti ricordi?, e abbiamo avuto due figli, Carlo e Luca… Loro adesso hanno diciannove anni e andranno all’Università…”
Erica rimase a lungo con Paola e le raccontò tutto, a volte la donna le rispondeva sfiorando qualcuno dei fiori che aveva in grembo ma Erica non la sentì più parlare.
Erica aveva trent’anni, Paola cinquanta.
Erano di nuovo lì come vent’anni prima.
Alla fine, Erica si alzò, sfiorò con le dita il Garofano rosa e il Nontiscordardimé poi si voltò e uscì.
Paola non la chiamò indietro.
La donna chiuse la porta e alzò lo sguardo.
E lo vide.
Fermo a cinque passi dalla porta, stava un uomo.
Cinquant’anni anche lui, sembrava indeciso e spaventato.
Erica non lo aveva mai visto ma sapeva chi era.
Lo sapeva dal grosso mazzo di Violacciocche Gialle che teneva delicatamente in mano.
Sorrise mentre gli passava accanto.
“Va’ da lei, Ettore…” sussurrò facendolo sussultare.
Ettore si voltò.
“Paola ti aspetta da tanto ormai: non allungarle ancora l’attesa…” continuò Erica guardandolo dritto negli occhi.
Occhi neri e sofferenti come quelli di Paola la prima volta che loro due si erano incontrate.
Ettore annuì e riprese a camminare.
Erica lo guardò entrare nella stanza dopo aver bussato con delicatezza poi si voltò e uscì.
Salì in macchina accanto a Lorenzo, che la aspettava.
Carlo e Luca non c’erano più.
“Com’è andata?” chiese Lorenzo.
“Finalmente le hanno portato un mazzo di fiori…” rispose Erica sorridendo, “Un grosso mazzo di Fiori di Paola…”

Ecco...
Non è nulla di speciale ma mi era parsa molto "tenera" e ho deciso di condividerla...
Vorrei solo precisare che è stata una scelta volontaria il mantenere anonimo ogni personaggio al di fuori degli affetti più stretti di Erica e Paola, quindi le infermiere, la psicologa etc...
Fatemi sapere cosa ne pensate!
A presto!
Ciao ciao!
L. Catherine
  
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