Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: Adrienne Sunshine    07/04/2012    4 recensioni
Due vite sospese tra sogno e realtà.
Nuove verità, del tutto sconcertanti.
Barbara e Dario, nemici da cinque anni. Nemici inseparabili, sia chiaro.
Lei, ragazza dal cuore puro. Testarda e orgogliosa come poche. E lui, alle prese con problemi troppo grandi per un ragazzo della sua età.
Il destino li sta preparando a qualcosa di più potente? Forse.
Gli amici scommettono su Cupido, mentre loro si dichiarano odio a cuore aperto.
Chi avrà ragione? Lo scopriranno presto.
Anche se si sa, la vita non sceglie sempre il percorso più semplice.
E la loro storia ne è l'esempio più eclatante.
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A



1. What's happened?


Avevo urlato con quanto più fiato avessi in gola, tanto da sentire i polmoni bruciare per lo sforzo.
 
“Sei la persona più meschina che abbia mai conosciuto! Mi chiedo come tu possa essere circondato da tante persone… Ah già, forse lo so”avevo sputato quelle parole con tutto il risentimento accumulato in anni di litigi. Provavo fastidio al solo pensiero di averlo a meno di un chilometro di distanza, era come se mi mancasse l’aria per la troppa vicinanza perché la sua cattiveria mi rubava l’ossigeno.
“Tieni d’occhio le tue vittime come se fossero prigionieri di una fortezza di massima sicurezza, le bracchi quando assapori la loro debolezza e li manipoli con la tattica del terrore” avevo continuato imperterrita, nonostante vedessi la sua ira crescere parola dopo parola. “Hai bisogno di minacciare le persone per tenertele strette. Non ti sembra patetico?”domandai sarcasticamente con sguardo compassionevole.
 
“Attenta Bratz, potrei non rispondere più delle mie azioni…”
 
“Sai Dario, le tue particolari attenzioni non mi fanno paura. Sei solo un ragazzino troppo cresciuto che crede ancora di potersi comportare come se avesse quindici anni, perché papà a quel tempo ancora correva in tuo soccorso no? Ciò di cui non ti rendi conto è che le cose sono cambiate, i tuoi genitori ti hanno sbattuto fuori di casa e la polizia ti tiene sotto controllo in attesa del primo passo falso per sbatterti dentro. Quindi tra i due quello che dovrebbe prestare più attenzione a come si comporta sei tu, non certo io”provocatoria fino all’ultima sillaba, sapevo di essere sulla buona strada per scatenare la bestia che era in lui.
Eppure ero così stanca di quella situazione da non riuscire a trattenermi. Ero un fiume in piena, stavo rompendo consapevolmente ogni argine straripando in zone ancora a me sconosciute ma poco importava: dovevo sfogare la rabbia repressa per tutto quel tempo oppure mi sarei dovuta trovare una buona psicologa perché di quel passo lo stress mi avrebbe inghiottita senza via di scampo.
 
“Ti avevo sottovalutata, nanerottola. Non ti facevo così temeraria, ma devo ricredermi. Sarebbe davvero un peccato se ti capitasse qualcosa di brutto, magari proprio per questo nuovo lato del tuo carattere che ho appena scoperto. Mi dispiacerebbe. Certo, non al punto da venire al tuo funerale ma mi dispiacerebbe non avere più tempo per conoscerlo a fondo e vedere fin dove si spinge la tua pazienza. Potrei metterti uno dei miei scagnozzi alle spalle, sai giusto per evitare che qualcuno meno tollerante mi rovini il divertimento prima del previsto! Ho delle priorità quando si tratta di te…”La sua risata era finta, un semplice oggetto d’arredo per rendere più efficaci le sue minacce se pur con scarsi risultati, vista la mia testardaggine nell’andare fino in fondo a questa storia.
Con gli anni però avevo imparato che Dario non si spingeva mai oltre un certo limite né mai l’avrebbe fatto, soprattutto con me. Il nostro rapporto era sempre stato molto strano, costellato da periodi di odio reciproco a momenti di quasi tolleranza; non eravamo mai approdati all’indifferenza reciproca, però.
In molti si erano divertiti a giocare a Cupido, facendo scommesse su di una possibile storia d’amore tra me e il mio acerrimo nemico, ma vinceva solo chi scommetteva contro dal momento che dopo cinque anni di convivenza forzata nella stessa classe l’unica voglia che avevamo era quella di prenderci per i capelli.
 
“Priorità? Forse non hai capito che sei l’ultima persona che può avanzare diritti su di me. Sparisci, prima che il desiderio di denunciare la tua ennesima stronzata si faccia troppo prepotente!”
Questa volta la vittima era un povero scivolo situato in un parco giochi per i bambini della scuola materna del quartiere. Quel teppista si era armato di bomboletta spray e aveva imbrattato tutte le scalette con frasi poco consone ad un luogo pubblico, per di più se adibito allo svago dei più piccoli.
Ero arrivata in tempo per impedirgli di beneficiare della sua arte l’ultimo scalino, precipitandomi a strappargli di mano l’arma del crimine. Lui non l’aveva certamente presa bene, tanto da scaraventarmi contro la panchina lì di fianco un po’ per la rabbia di essere stato interrotto ma anche perché non si aspettava che qualcuno si prendesse una tale confidenza.
Non gli era passato per la mente che potessi attraversare quel ciottolato e trovarmi lì proprio mentre lui compiva l’ennesimo misfatto.
 
“Denunciare per cosa? Aver dato un po’ di allegria a queste scale di legno? Dovrebbero solo ringraziarmi, i bambini amano i colori…” ghignò soddisfatto, come se il suo gesto fosse tutt’altro che illegale.
 
“Prima o poi avrai ciò che meriti e quando quel momento arriverà, sarò lì in prima fila a godermi la scena. E’ una promessa, ragazzino.”
 
“Sei quasi riuscita a farmi venire un brivido” mi strizzò l’occhio, prendendosi gioco di me come sempre.
La verità è che sapevamo entrambi di avere un qualche strano potere l’uno sull’altra e nessuno dei due avrebbe avuto la forza di combattere il proprio nemico, perché non eravamo nessuno da soli.
Il nostro non era certo amore né tanto meno odio, ma era come se una corda invisibile non ci permettesse di allontanarci troppo per paura di perdersi.
 
“Non scherzerei tanto se fossi in te, ho appena composto il 112 e sono sicura che qualcuno avrà riconosciuto la tua voce da imbecille” sorrisi sorniona. Era questo il tipo di rapporto che ci accomunava da qualche anno, una provocazione dopo l’altra finivamo per vendicarci chi prima chi dopo senza mai lasciarci scappare l’occasione. In questo caso, io mi ero vendicata prima.
 
“Che stronza! Che c’è? Essere stata scaricata da Tironi ti frustra a tal punto da volerti rifare su di me? Avremmo potuto risolvere il tuo problema in ben altro modo, se solo me lo avessi chiesto…”
Ammiccava il bastardo, sapendo bene come colpire il mio orgoglio già ferito.
 
“Ti odio”
Tutto quello che sentii dopo furono solo rumori confusi di cui non capivo la provenienza. Urla che si sovrapponevano tra loro, voci differenti tra cui riconobbi subito la sua a me ormai così familiare, un grido più acuto di altri… “Barbara, no!”
E il buio.

 
 
La luce era di un bianco accecante, mi ricordava gli abbaglianti di quelle macchine che in un attimo di confondevano la vista perché i conducenti si erano dimenticati di spegnerli all’occorrenza.
Quello che m’infastidiva maggiormente però era non riuscire a capire dove mi trovassi e il perché di quei fari puntati addosso che m’impedivano di aprire gli occhi per mettere a fuoco ciò che mi circondava.
Si rincorrevano molti bisbigli, quei pochi che riuscivo a percepire parlavano di regolamento di conti, polizia e Dario… A quel punto sbattere le palpebre e lasciare che la luce inondasse le mie iridi dietro due piccole fessure non fu più tanto difficile. Mi era chiaro ben poco di quello che potesse essere successo ma ricordavo con certezza che lui fosse con me e che mentre litigavamo ai giardinetti pubblici per quella bomboletta, fossimo stati bruscamente interrotti da un gruppo di ragazzi molto più alti di me che avevano cominciato ad urlargli contro. La mia memoria aveva di certo subito un grave trauma tanto da sembrare apparentemente vuota degli ultimi avvenimenti, ma aveva registrato un dettaglio non trascurabile: la sua voce che gridava il mio nome.
 
“Guardate, si sta svegliando” La voce di mia madre era giunta ovattata alle mie orecchie, ma la stretta della sua mano mi avevano confermato  ciò che avevo sentito. Così presi coraggio e con un ‘Bentornata al mondo, Barbara’ avevo completato l’opera spalancando i miei occhioni nocciola scorgendo la gioia ed il sollievo delle persone sedute attorno al mio letto.
 
“Come ti senti, tesoro?” mi aveva subito domandato mio padre, l’uomo più apprensivo che conoscessi. Sebbene non fossi a conoscenza dei fatti, ero sicura di averlo fatto stare molto in pensiero e la cosa mi dispiacque non poco visto il suo animo immensamente buono.
 
“Mmm…” avevo mugugnato in risposta, essendo ancora sprovvista delle forze per sostenere una vera conversazione, ma dando comunque loro modo di apprendere quanto poco gravi fossero le mie condizioni. Per cosa poi, questo ancora non mi era dato di saperlo.
 
“Perché sono…in ospedale?”domandai quando finalmente ne fui in grado.
 
“Oh tesoro, ci sono così tante cose da raccontare! Ora, però, non è il momento. Il dottore ci ha detto di non farti stancare, anche se può sembrare assurdo visti i tre giorni di sonno che ti sei fatta.”
Mia madre era capace di sorridere in qualsiasi situazione, anche la più drammatica, e questo lo doveva a mia nonna che le aveva insegnato la capacità di apprezzare la vita assaporandola in ogni suo attimo con le labbra distese in un sorriso. Non a caso era una delle persone che più mi mancava.
 
“Tre giorni? Ma…ma come è possibile? Mi volete spiegare cosa è successo, per favore?” Avrei voluto sollevarmi da quella posizione scomoda in cui ero costretta dalla rigidità delle lenzuola che sapevano di disinfettante; ma i miei genitori furono più veloci nell’impedirmelo, aiutandomi comunque a trovare un compromesso.
 
“Devi prometterci che non ti farai prendere dall’ansia come tuo solito, però, o interromperemo subito il discorso fino a che non sarai sufficientemente lucida da non preoccuparci per le tue condizioni” si raccomandò mia madre, mentre mia sorella annuiva al suo fianco.
 
“D’accordo.” E il racconto ebbe inizio.
 
 
“Ti odio”avevo sussurrato con tono amareggiato. Non mi feriva tanto il suo essere spietato, quanto il fatto che lo fosse stato su una cosa che mi era così a cuore.
No, non ero innamorata di Samuele ma un tradimento non era mai semplice da affrontare e Dario questo lo sapeva bene perché nonostante i nostri continui battibecchi mi era stato vicino più di qualunque altra persona.
 
“Ti fai mettere i piedi in testa da una ragazzina adesso? Sei caduto proprio in basso eh” si era intromessa una voce a me sconosciuta proveniente da un punto non ben definito, probabilmente nascostomi dalla figura del mio interlocutore.
 
“E’ sempre un piacere, Abram” aveva risposto Dario voltandosi verso di lui con un sorriso strafottente, lo stesso che usava ogni qual volta volesse mostrarsi forte.
 
“Non ne sarei così convinto, Maltese, a meno che tu non abbia risolto quella questione…”
Per un attimo mi era parso di vedere il ragazzo in difficoltà, ma così fu non potei dirlo con certezza perché assunse in breve la sua solita espressione sprezzante, da duro.
 
“Come sei fiscale, Giac…”Non ebbe nemmeno il tempo di finire che quel tizio aveva già estratto una pistola dalla tasca della giacca e l’aveva puntata contro di me.
 
“Non uccido te solo perché poi non potrei riscuotere ciò che mi spetta; ma la tua amichetta non sarebbe un grande spreco. Forse così capirai che con Abram non si scherza.”
Non riuscii a realizzare le sue parole finché non vidi Dario fiondarsi su di me gridando: “Barbara, no!” E uno sparo, un solo rumorosissimo sparo.
 
Fui scaraventata a terra nello stesso istante in cui un dolore lancinante mi colpì al braccio, trasformandosi in fuoco vivo sulla mia pelle pochi secondi dopo.
Avevo sbattuto la testa nel brusco atterraggio e un peso non ben definito mi schiacciava il corpo contro il ciottolato di quel viale dove fino a poco prima stavamo discutendo animatamente io e lui. Già, lui. Un brivido mi percosse mentre la consapevolezza di non aver traccia di quel ragazzo dilagava in me imperterrita. L’ultima volta che lo avevo visto si stava precipitando verso di me. Poi ero caduta… E in quegli ultimi istanti di lucidità realizzai una cosa: Dario mi aveva protetta con il suo stesso corpo.
 
 
“No tesoro, non fare così…” L’abbraccio di mia madre si strinse di poco lasciandomi libera di dar sfogo ai singhiozzi repressi nel minuti precedenti, mentre le voci dei tre componenti della mia famiglia si alternavano per rendere il racconto ancor più dettagliato. Probabilmente era stato in quell’arco di tempo, tra un respiro mozzato e l’altro, che alcune lacrime silenziose mi avevano rigato il volto trasfigurato dall’ansia per la sua sorte.
 
“Lui…lui dov’è?” chiesi un istante prima di scoppiare di nuovo a piangere convulsamente.
 
“Al piano di sotto, in camera intensiva. I dottori hanno detto che preferiscono accertarsi che l’intervento sia andato per il meglio e che il risveglio non gli causi problemi prima di procedere. Quindi per ora è bene tenerlo sotto stretto controllo” aveva risposto questa volta mio padre, mentre mia sorella si era avvicinata ad accarezzarmi i capelli lasciandosi stringere morbosamente la mano libera.
 
“Appena ti sarai ripresa un po’ potrai andare a trovarlo, Barbie. So che vorresti precipitarti da lui subito, ma devi riguardarti anche tu per il momento” mi sorrise bonaria quell’angelo di sorella maggiore che avevo, Roberta.
Annuii, consapevole di non poter ottenere di più. In fondo il proiettile mi aveva colpita solo di striscio e il trauma cranico dovuto alla caduta non sembrava poi così grave; quindi non sarebbe passato molto tempo da lì alla mia guarigione. Entro uno, massimo due giorni, sarei andata a fargli visita: glielo dovevo e ne avevo bisogno, inutile negarlo.
Erano passati cinque anni da quando per la prima volta Dario Maltese ed io ci eravamo rivolti la parola e da allora non era passato giorno in cui non ci scambiassimo anche solo uno sguardo, una battuta sarcastica o un sorriso complice. Non ci eravamo mai scambiati i numeri di telefono -anche perché, conoscendolo, mi avrebbe tormentata con i suoi stupidi scherzi- né ci eravamo mai cercati sui social network più in voga al momento; mai un bigliettino in classe per accordarci sul vederci quel pomeriggio eppure inevitabilmente ci incontravamo ogni giorno, fuori o dentro la classe che fosse. Eravamo assuefatti dalla presenza altrui, seppur non sopportandola che per pochi secondi e a volte neanche quelli bastavano a non farci litigare come cane e gatto. Antitetici era l’aggettivo giusto che descriveva cosa fossimo: io bionda, lui moro; io occhi marroni, lui occhi verdi; io bassa, lui alto. Magri entrambi, questo era forse l’unico elemento che avessimo in comune; ma anche qui le discussioni non erano mai abbastanza e Dario più volte aveva tentato di offendermi dandomi del pompelmo anche per via della sfumatura rossastra che assumevo quando perdevo la pazienza.
Insomma, mai coppia di nemici fu più diversa di noi. Eppure mai coppia di nemici fu più di qualsiasi cosa fossimo noi.

 
 
I giorni trascorsero lenti e inesorabili e, a dispetto di ciò che avevo creduto possibile, non mi era stato permesso di allontanarmi dal letto di ospedale sul quale stazionavo ormai da tempo immemorabile. Altri due giorni e non ero riuscita a vederlo, mi sembrava quasi una mancanza nei suoi confronti perché lui mi aveva salvato la vita ed io non l’avevo ancora ringraziato a dovere. Era con questa stupida scusa che cercavo di convincere dottori e parenti a lasciarmi libera di scendere al piano di sotto anche solo per qualche minuto; in realtà sentivo la necessità di andare da lui perché mi mancava, non era mai passato così tanto tempo senza che ci vedessimo e soffrivo ogni ora di più all’idea di dover posticipare di nuovo quella visita.
 
“Toc, toc! E’ permesso?” Roberta fece il suo ingresso nella stanza accompagnata da un peluche e da un mazzo di fiori, probabilmente un regalo di pronta guarigione, l’ennesimo che ricevevo in quei giorni.
 
“Ciao, Robi” sorrisi incapace di proseguire i miei pensieri di fronte a lei.
 
“Come va stasera? Mi sembri più in forma… Riesci anche a stare seduta finalmente!”
 
“In effetti ho riacquistato quasi tutte le forze e il braccio fa molto meno male, quindi credo di essere sulla retta via per uscire da questa camera a breve, non credi?” smorfia innocente di chi fa conversazione solo per passare il tempo.
 
“Credo di sì, forse anche stasera stessa stando a quello che mi hanno appena detto i dottori” buttò lì così, rischiando di farmi venire un colpo al cuore e prolungare la mia permanenza in ospedale.
 
“Davvero?” Dovevo avere gli occhi lucidi per l’agitazione e forse fu per questo che mia sorella mi poggiò una mano sulla spalla, delicatamente, spingendomi verso il cuscino; se non mi fossi calmata, il medico non avrebbe ritenuto opportuno farmi compiere un tale sforzo più che per la mia salute fisica, per quella mentale.
 
“Più tardi però, quando l’ospedale sarà meno caotico e se mi prometti che non ti farai prendere dall’ansia. Sono stata a trovarlo oggi e non è proprio lo stesso ragazzo che mi aspettavo di trovarmi di fronte; quindi mi devi promettere che manterrai la calma e che ti farai accompagnare da me, o da mamma e papà.” E anche in quel caso non mi restò che accettare le sue condizioni: avrei fatto di tutto pur di riuscire finalmente ad andare da Dario.
 
Un paio d’ore dopo stavo attraversando il lungo corridoio del mio reparto su di una sedia a rotelle spinta da mio padre; le pareti erano così lucide da sembrare di cartongesso e il silenzio che aleggiava contribuiva a quell’atmosfera tesa che si era creata attorno a noi, costringendoci a ingannare gli sguardi indagatori che tra di noi ci posavamo addosso.
L’odore di disinfettante sembrava non essere una prerogativa esclusiva delle lenzuola del mio letto, ma un elemento caratteristico di tutto l’ospedale come la prevalenza del colore bianco. Non c’era molto traffico in quel frangente, forse perché avevano scelto apposta quel momento della serata per accompagnarmi fino al primo piano dove avrei trovato il mio acerrimo nemico, lo stesso che qualche giorno prima mi aveva salvato la vita.
 
“Sei sicura di sentirtela? Non è in buone condizioni, nonostante sia fuori pericolo ormai. Non si è ancora ripreso dal coma e non me la sento certo di mentirti su quanto i dottori siano preoccupati all’idea che il risveglio possa essere ancor più difficile del sonno.” Era stata diretta mamma Lucia, probabilmente per evitarmi lo shock del primo impatto; quello che non sapeva però era che nulla mi avrebbe impedito di stare accanto a quel ragazzo per i pochi minuti che mi erano stati concessi dopo richieste su richieste di accordarmi tale permesso. No, non avrei rinunciato.
 
“Non ti preoccupare, mamma”mi limitai a rispondere mentre varcavamo le porte dell’ascensore.
Da lì alla sua camera il passo fu breve.
 
“Noi restiamo qui fuori… Chiama per qualsiasi cosa, tesoro.”
Le parole dei miei genitori furono attutite dal suono incessante del mio cuore che batteva all’impazzata, tanto da farmi temere un attacco cardiaco da lì a pochi secondi.
Dario era straiato subito con le braccia stese ai fianchi con una miriade di tubicini addosso che lo tenevano collegato ad altrettanti macchinari, alcuni più imponenti e spaventosi di altri. Il volto era sfregiato da alcuni graffi dovuti probabilmente alla brusca caduta nel tentativo di salvare me, ma la mia attenzione fu catturata da quei tratti, solitamente distesi in smorfie sprezzanti o provocatorie, adesso completamente tumefatti. E quella importante fasciatura che il camice lasciava intravedere, la quale celava sicuramente la traccia dei punti di sutura dovuti a quella rischiosa operazione che aveva avuto come protagonista un polmone. Il polmone sinistro, per la precisione.
 
“Dario…” sussurrai come se temessi di poterlo svegliare. Naturalmente non ottenni risposta.
“Dario” alzai di poco la voce, nervosa. Se i miei genitori mi avessero vista in quel momento, avrebbero sicuramente ritenuto opportuno riaccompagnarmi in camera e non avrebbero voluto sentir ragioni. Come dargli torto, in fondo?
“Dario… Dario… Dario!” Mi resi conto di aver alzato troppo la voce quando voltandomi incrociai gli sguardi preoccupati dei miei genitori e di mia sorella. Decisi quindi di tentare un sorriso rassicurante che li convinse ben poco a giudicare dalla smorfia scettica di Roberta, ma che li fece desistere dal trascinarmi via da lì prima del tempo.
Trascorsi i minuti restanti accanto a quel corpo inerme nella vana speranza di vederlo reagire a contatto con la mia mano che stringeva delicatamente la sua; ero rimasta in silenzio, un silenzio assordante per un rapporto conflittuale come quello che c’era tra me e lui, ma che non avevo la forza di spezzare se lui non fosse stato il primo in grado di farlo.
 
“Barbara, è ora di andare.” E il silenzio proseguì anche durante il viaggio di ritorno alla mia stanza.

 
 
Quei pochi minuti divennero ore con il passare dei giorni senza che mi stancassi di premere il pulsante con il numero uno e scendere al piano sottostante il mio per far visita al paziente lì ricoverato. Per dieci volte avevo visto quelle ventiquattro ore ripetersi uguali le une alle altre, senza poter godere del sorriso sbeffeggiatore di quel ragazzo che si era preso il peggio di me trasformandolo in una carica di dinamite pronta ad esplodere all’occorrenza. Lui si era preso il peggio di me senza chiedere il permesso, non preoccupandosi di portare via anche il meglio perché quello sarebbe stato riservato per sempre alla mia famiglia e a chi avrebbe lasciato un ricordo effimero in me, i miei ex e futuri fidanzati o amici. Lui si era preso ciò che sapeva nessuno avesse mai scoperto in me, la ragazza più gentile e dolce della scuola a detta di tutti; la più scontrosa ed orgogliosa, a detta sua. Lui si era preso un pezzo raro, non si accontentava mai lui.
 
“Dario…” Anche quel giorno ripetei il suo nome, come sempre d’altronde, attendendo una sua risposta che ancora una volta non arrivò.
 
“Sai, oggi il medico mi ha detto che se continuo così a breve potranno dimettermi. Non so se esserne triste o felice… Chi verrà qui ad assillarti con queste chiacchiere inutili cinque volte al giorno poi? Consumerei più benzina così che per andare e tornare dagli States!” ridacchiai della mia stessa battuta, ormai abituata a non stupirmi del suo mutismo di fronte ad una oscenità del genere. “Sei patetica, Bratz” sarebbe stata la sua risposta.
I dottori mi avevano invitata a parlare con lui tutte le volte che ne avessi la possibilità; dicevano lo aiutasse a mantenere i contatti con il mondo esterno e che continuando così presto si sarebbe svegliato. Inutile dire che non me lo fossi fatto ripetere due volte, cogliendo l’occasione per stare il più vicino possibile a quell’odioso ragazzino che si era cacciato in un pasticcio più grande di lui rimettendoci quasi la vita… Per salvare la mia.
E con questi pensieri, la sua mano stretta nella mia e la testa appoggiata accanto al suo corpo, sprofondai in un sonno pesante popolato da sogni movimentati.
  
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: Adrienne Sunshine