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Autore: Pichichi    09/04/2012    2 recensioni
Diventare madre è il traguardo che ogni donna vorrebbe raggiungere sin da bambina, motivo di orgoglio e piena realizzazione di sé. Così le hanno sempre insegnato, ma per quanto ci provi Elisabetta, preda di rimorsi, sensi di colpa e attimi di stizza irrefrenabile, non riesce proprio ad essere serena.
«Che bello essere mamme, eh? Che bello… ma chi l’ha detto? Ma dove sta scritto? Ma perché non… io nemmeno ero pronta per la gravidanza, semplicemente è successo, così. Ma perché non se lo prendono loro, perché me lo lasciano, visto che sono tutti così felici? Perché non se lo prende lei?»
[...]
«Tutti pretendono che io sia felice, che debba essere felice di tutto… è una grande fortuna, questa, essere mamma! Sono costretta a mostrarmi felice, sì, costretta, perché non lo sono proprio! E non posso mostrarmi diversamente, altrimenti sono una madre snaturata! Ma quale madre non è contenta di aver partorito il proprio bambino, quale?»
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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UNA BUONA MADRE

 

Il crepitio di passi cresceva sempre di più e si avvicinava alla sua stanza, almeno per quello che poteva immaginare stando sdraiata sul suo lettino, la testa rivolta alla finestra. Dovevano essere poco più che le due, a giudicare dal sole ancora alto nel cielo. Faceva caldo. Luigi se n’era andato via da poco, lasciandola a godersi il silenzio della stanza d’ospedale e i fili d’aria che di tanto in tanto le procuravano sollievo: era Giugno e quei momenti di frescura divenivano sempre più rari.

Elisabetta era ben felice di starsene lì da sola, in tutta quiete, perciò all’avvicinarsi dei passi e delle voci concitate storse il naso e si voltò sul fianco, sperando che fingendo di dormire l’avrebbero lasciata in pace. Non era possibile, lo sapeva: non poteva sottrarsi alle domande che le avrebbero posto, alla loro euforia e soprattutto alle loro facce estatiche; ecco, quelle erano la parte peggiore: avrebbe anche potuto sopportare tutto quanto, se solo non le si fossero presentate davanti con quei sorrisi.

«Eccola qui, eccola!»

Con la coda dell’occhio notò tre donne che oltrepassarono la porta e l’attorniarono in meno di un secondo; decise di non scomodarsi nemmeno per mettersi seduta: era il suo primo momento di riposo della giornata ed aveva trovato un’ottima posizione lì, sdraiata sulle lenzuola, con la testa poggiata sulla federa fresca del cuscino.

Ci fu un momento di silenzio ed Elisabetta si godette i loro visi curiosi vagare in giro per la stanza, aspettandosi evidentemente di trovare il bambino nella culla. Ma la gabbia di ferro posta accanto al suo letto era vuota e lei, del tutto tranquilla, non pareva voler dare loro spiegazioni.

«Be’, allora! Com’è, com’è andata?» esordì una delle tre, la più piccola, che Elisabetta sapeva chiamarsi Annalucia. Era un’amica di sua sorella.

«Come vuoi che vada… è andata» rispose, voltando lentamente il capo per comprenderle tutte nel suo campo visivo. Non poté evitare la comparsa di un sorriso ironico, smussato dalla stanchezza e dunque trasformato in un gesto cordiale.

Sapeva anche che l’amica di sua sorella era una donna che, passati i trentacinque anni, non aveva ancora trovato marito e tanto meno uno spasimante. Lei era forse la più ingenua e la più compatibile, non aveva colpa nella sua gioia; diventare madre doveva sembrarle la gioia più grande del mondo.

«Dov’è il piccolino?» si azzardò a domandare la più vecchia, un’amica di famiglia di nome Grazia, dalla voce molto rauca e rumorosa.

«Con la nonna, non so. A fare degli esami.»

«Ah, ce l’ha lei» fu l’esclamazione sollevata che emisero le tre.

A quel commento Elisabetta si rivoltò supina, osservandole con attenzione mista a sarcasmo.

«Ci sono i confetti lì, servitevi.»

«No no, grazie, eravamo passate giusto per vederlo.»

«Capisco. Forse stasera sarete più fortunate, fino a mezz’ora fa c’era anche Luigi.»

«Ah, anche Luigi! Eh, come dev’esser contento, immagino!»

Di nuovo fu Annalucia a smuovere la conversazione.

«Ma insomma, io non resisto, sono troppo curiosa! Non hai una foto? Ma com’è, dicci!»

«Su, dicci, dicci! Ci siamo fatte portare apposta da Grazia.»

«Non ho nemmeno pranzato, sono uscita dall’ufficio e sono corsa a prenderle, non vedevamo l’ora di vederlo!»

«Chi ve l’ha detto?»

«Tua suocera» rispose prontamente Grazia.

Elisabetta convenne di aver posto una domanda assolutamente superflua. Era dalle undici passate che vedeva la madre di Luigi correre di qua e di là come un’ossessa, ora portando con sé il bimbo e ora con il cellulare attaccato all’orecchio. Erano stati giorni molto frenetici: con lei aveva scambiato davvero poche parole, ma non doveva essere stato nulla d’importante, perché non lo ricordava nemmeno; poi aveva preso in braccio il bimbo, l’aveva vestito e aveva annunciato che sarebbe corsa a prenotare gli esami così da sbrigare in fretta tutte le faccende. Elisabetta sapeva benissimo che era una scusa nemmeno troppo valida per poter circolare nel reparto con in braccio quel quieto bambolotto e annunciare a tutte le infermiere che sì, sua nuora aveva partorito, che era diventata nonna!

«Insomma, qualche notizia! Ci vuoi tenere proprio sulle spine?»

«Okay, vediamo… è piccolo, leggero, con certe dita sottilissime.»

«Sì, ma gli occhi? A chi assomiglia? E le guance?»

Ad Elisabetta dispiacque di doverle deludere in quel modo affermando che non era stata in grado di stabilire un bel nulla, che si era limitata a custodirlo diligentemente, allattarlo e poi deporlo nella culla d’ospedale accanto a lei, con l’intenzione di addormentarsi per recuperare un po’ le forze. Non le era stato possibile riposare, perché le visite si erano succedute dal giorno del parto con una regolarità inusuale: sospettava che sua suocera dirigesse una sala d’attesa, lì fuori, in modo da smistare i visitatori e impedirle di recuperare le forze. L’ultimo era stato suo marito Luigi e le tornò in mente proprio una delle frasi che le aveva dato molto fastidio, da lui ripetuta con sempre maggiore orgoglio in quella mezz’ora di visita.

«Somiglia tutto a lui, somiglia tutto a Luigi, pare.»

«Al papà? Oh, come sarà contento allora! E immaginate la mamma!»

Elisabetta aveva provato a individuare una qualche somiglianza fra il bambino trovatosi fra le sue braccia e se stessa o suo marito o sua suocera; niente, non le appariva uguale a nessuno: era semplicemente una creatura nuova e del tutto sconosciuta. Luigi e sua madre, invece, osservandolo da vicino con certi occhi dilatati ed estatici, avevano convenuto che la forma del naso, il taglio della bocca e quel modo speciale di agitare debolmente gli arti fossero in tutto e per tutto riconducibili agli atteggiamenti del papà.

«Ma ancora non si può vedere bene, gli cadranno i capelli, cambierà colore degli occhi… » aveva obiettato Elisabetta, allungando il collo per ottenere attenzione.

Niente da fare: sua suocera le aveva rivolto un sorriso che non le era piaciuto per nulla, assieme ad uno sguardo compassionevole, per poi aggiungere:

«Lascia stare, te lo dico io che ne ho visti tanti, di bambini… somiglia tutto a lui.»

Zittita ed impotente, Elisabetta li aveva lasciati a trastullarsi col bimbo per un po’, risentita di quell’esclusione e dei loro commenti del tutto infondati; quando finalmente gliel’avevano restituito, prima che sua suocera lo conducesse in giro per gli esami, lo aveva guardato bene in faccia, con attenzione, affermando fra sé che somiglianze non ce n’erano e che quei due erano semplicemente un paio di fanatici troppo esagitati.

«Insomma sei contenta, eh?» le domandò Grazia.

Lei si sentì quasi obbligata a comporre un veloce sorriso.

«Sì, certo.»

«Che domande fai?» la rimbrottò Annalucia. «Ma certo che è contenta!»

Il sorriso di Elisabetta si allargò ancora di più. Non conosceva uomo, non era madre: cosa poteva sapere? Lei vedeva solo il lato migliore, quello esterno, non aveva idea né del dolore provato né dei sentimenti che si agitavano nella neo-mamma.

Quando le tre donne la salutarono prenotando una visita per l’indomani, alla stessa ora, Elisabetta tirò un intimo sospiro di sollievo e una volta che si furono richiuse la porta della stanza dietro le spalle poté tornare a distendersi in quella comoda posizione supina.

La sua stanchezza era tale che si addormentò immediatamente, la testa affondata nell’informe cuscino del lettuccio; non sognò nulla, non ricordò alcunché del suo stato di incoscienza finché non aprì gli occhi a causa di un movimento esterno che le scuoteva il corpo.

Quando riprese coscienza si rese conto di trovarsi sul solito letto, nella stessa stanza di prima, con le serrande abbassate per ricreare il buio della notte. Non ricordava di averle tirate giù prima di addormentarsi e gli avvenimenti le furono più chiari quando riconobbe sua suocera che le premeva sul braccio, porgendole un fagotto piuttosto rumoroso.

Elisabetta capì che si trattava nientepopodimeno che di suo figlio Michelangelo, evidentemente di ritorno dal tour di esami, che necessitava di essere sfamato.

«Ecco, ecco, attenta.»

Non fece nemmeno caso a quello che le stava dicendo sua suocera, prese il bambino, si scoprì il petto e lo avvicinò al seno destro così come l’ostetrica le aveva insegnato. Quello andò in cerca del capezzolo a cui aggrapparsi e, quando trovò la giusta posizione, si acquietò e cominciò a succhiare.

Eliminato il fastidio uditivo Elisabetta poté domandare notizie.

«Come sono andati gli esami? Che hanno detto?»

«Oh niente, tutto in ordine, sanissimo, nemmeno una virgola fuori posto! Avremmo dovuto pure aspettare qualche giorno in più, ma conosco un’infermiera lì in neonatologia che mi ha fatta passare subito, se no a quest’ora…»

Si sedette insieme a lei sul letto.

«In questo modo, forse, già domani possiamo riportarti a casa.»

«Domani?» commentò spontaneamente Elisabetta.

«Be’, sì… meglio, no? Così cominciamo a sistemarci.»

Il significato celato dietro quelle parole non le piaceva per nulla e decise di non domandare ulteriori delucidazioni; pensò che avrebbe inventato qualche scusa per allungare il suo soggiorno in ospedale: non si sentiva assolutamente pronta a far ritorno a casa, con un bambino, in quello stato fisico. Avrebbe aspettato almeno due giorni in assoluto riposo, prima di poter riprendere tutti i suoi abituali doveri.

«Domani ti faccio portare il passeggino da Luigi» continuò sua suocera, «è il migliore, naturalmente, conservato benissimo con tanto di tettuccio reclinabile, rete porta-oggetti… »

Elisabetta aveva pensato più volte che avere come suocera Antonietta La Porta, infermiera pensionata del nido ospedaliero, avrebbe significato subire la sua ingerenza in tutte le questioni che riguardassero il bambino, ma lì per lì non se n’era curata, dicendo a se stessa che avrebbe saputo conservare la sua autorità in modo da prendere insieme qualunque decisione ed evitare che la suocera ordinasse e disponesse tutto a modo suo. Certo però non aveva considerato il dispendio di energie comportato dal parto: si sentiva poco meno di uno straccio, nonostante le due ore di sonno le pareva di avere accumulato un debito di fatica davvero ingente, recuperabile solo con giorni di assoluto far nulla. Antonietta le proponeva invece di uscire prestissimo dall’ospedale e di tornare subito a casa, dove ci sarebbero stati da preparare il pranzo, rassettare le stanze per prepararsi alle visite che sarebbero seguite, badare al bambino e, in tutto ciò, riuscire a non farsi travolgere dagli eventi!

Per fortuna che si trovavano al buio, pensò, altrimenti sarebbe stato evidentissimo il suo stato devastato e soprattutto l’occhiata scettica che le stava rivolgendo in quel momento. Lasciò che le raccontasse di quali erano state le reazioni delle sue conoscenti e di come l’indomani, se non la sera stessa, sarebbero venuti a farle visita tutti i suoi parenti, cugini e zii; lasciò che sproloquiasse quanto le pareva, immaginando che comunque avrebbe potuto far finta di dormire e privare quel pubblico esigente dello spettacolo tanto agognato.

Il protagonista di tutto ciò, nella mezz’oretta in cui Antonietta informò la nuora su ciò che era capitato fra le undici di quella mattina e l’ora attuale, aveva smesso di succhiare la sua colazione e si era beatamente addormentato fra le braccia della mamma.

«Guarda, sta dormendo!» le fece notare Antonietta con voce troppo stridula.

Il fastidio per quel rumore improvviso fece scuotere di poco Michelangelo e infastidì la mamma che, senza pensare, le fece cenno di star zitta.

«Dai qua, dammi, lo metto nella culla.»

«Lo metto io, non disturbarti.»

«No no, dammi qua» insistette lei, afferrando i lembi della copertina che avvolgeva il bambino.

Nulla poté Elisabetta se non lasciare che lo prendesse lei, che lo portasse nella sua culla provvisoria e che se lo guardasse da tutte le angolazioni possibili, per quanto la poca luce permetteva.

Una volta che ne ebbe abbastanza di contemplare il viso del bimbo salutò la nuora, esortandola a chiamarla immediatamente qualora avesse avuto bisogno di qualche cosa.

«Sì certo, proprio te chiamo» borbottò fra sé Elisabetta, una volta rimasta da sola.

Rimase seduta sul letto, riflettendo sul fatto che da quella mattina in avanti non aveva avuto nemmeno un momento da trascorrere insieme a suo figlio, nemmeno un attimo per guardarlo per bene, per verificare se effettivamente esistesse qualche somiglianza con suo padre, se fosse già in grado di riconoscere la sua voce, quanto fossero piccole le sue dita.

D’istinto fece per scendere giù, andare verso la culla e riprenderselo in braccio, ma poi le venne in mente che se malauguratamente avesse dovuto svegliarsi sarebbe accorsa sua suocera – era certa che stesse facendo la posta là fuori per impedire ai visitatori di turbare il sonno di suo nipote, non certo preoccupata per lei – con tutto il codazzo di gente che si tirava dietro, e giù una serie di malcelati giudizi su quanto la mamma fosse inesperta e non sapesse assolutamente in che modo doversi prendere cura del piccolo.

Per questo lasciò perdere e si rimise sdraiata, provando a liberarsi di tutti i pensieri che quella riflessione aveva portato con sé. Non ci riuscì; ci aveva pensato spesso nelle ultime settimane della gravidanza, poi, tutta presa dall’imminenza del parto, se n’era dimenticata. Ecco ora che tornava quel dubbio. Sarebbe stata davvero in grado di badare a quel bambino?

Non era stupida, sapeva benissimo che l’aiuto di sua suocera, di suo padre, di suo marito potevano sopperire a certi suoi momenti di stanchezza, ma quel bimbo aveva assolutamente bisogno di lei per esplicare tutte le sue funzioni primarie. Finché si trattava di cacciargli in bocca un seno per farlo quietare ogni volta che piangeva, poteva anche andar bene; ma quando se lo sarebbe portato a casa e ci sarebbe stato bisogno di cambiarlo, di farlo addormentare, poi d’insegnargli a parlare, di abituarlo a dormire nella culla, come avrebbe fatto?

Le era sembrato assai stupido ingurgitare libri sulla gravidanza e sulla crescita del bambino, così come comprare un diario per annotare tutte le fasi della sua maternità; aveva sentito dire, confrontandosi con altre sue amiche già madri, di quanto fosse importante dialogare col bambino fin da quando era immerso nella placenta, aveva visto donne curvarsi e mormorare parole dirette alla loro pancia; ci aveva provato anche lei, a dir la verità, ma dopo qualche secondo aveva accantonato l’idea, dandosi della stupida. Cosa c’era da dire ad una pancia che non faceva altro che ingrossarsi, allargarsi e diventare sempre più pesante? Che poteva capire l’esserino al suo interno?

Ed anche ora, di che cosa mai avrebbero dovuto parlare lei e Michelangelo? Di quanto non sopportasse Antonietta La Porta?

Come avrebbe fatto a distinguere, fra vagiti e gridolini, quale di questi significasse che era ora di mangiare?

Per fortuna in quei primi giorni di vita il bambino si era dimostrato piuttosto tranquillo; effettivamente non faceva altro che starsene sdraiato nella sua culla, sonnecchiare ignaro di tutto quel mondo che si muoveva intorno a lui, emettere qualche lamento sottile, nemmeno troppo acuto e fastidioso, quando voleva da magiare o esser cambiato.

Quando Tommaso Totta, il padre di Elisabetta, giunse a farle visita quella sera, affermò con una lieve punta di sorpresa:

«Non può essere figlio a te, non dice nulla! Non piange nemmeno!»

«Meglio così, no? Già sono stanca per fatti miei, finché dorme e non capisce nulla ben venga che stia zitto.»

«Non dire così.»

«E sì, invece! Qua pare una sala ricevimenti, ogni volta che aprono quella porta ho sempre paura che lo sveglino! Voglio dire, non posso mica farlo ingozzare di latte…»

A causa del buon rapporto che aveva con suo padre, Elisabetta si sentiva libera di poter esprimere finalmente quello che le passava per la testa. Era la sera del suo terzo giorno da mamma e i segni della stanchezza si facevano più evidenti negli occhi cerchiati, nei capelli sudati e arruffati perennemente legati con un elastico, ma specialmente nell’espressione della donna, sempre più riottosa e volubile ogni secondo che passava.

Suo padre conosceva quel suo carattere e non le diceva nulla, limitandosi a contemplare il viso liscio di Michelangelo, ora abbandonato pigramente fra le sue braccia.

Si era seduto su una poltrona, mentre sua figlia andava avanti e indietro per la stanza, per la prima volta libera di agire come più le suggeriva l’istinto. Certo, Elisabetta avrebbe voluto riposarsi ancora, ma sentiva premere forte un rigurgito di pensieri accumulati in quei giorni che premevano per uscire fuori. Le sembrava proprio il momento adatto per sfogarsi.

«Che è inutile che vengono a visitarmi quelle quattro zitelle amiche di mamma e farmi quelle facce… quelle facce! Ma dovresti vederle! Ma che credono? Facile fare le smorfie e guardarlo con quei sorrisi schifosi… proprio schifosi, sì! Più le guardo più non capisco se sono invidiose oppure se lo fanno apposta, pare che ci provano gusto a vedermi tutta disfatta, con i capelli all’aria, grossa, grassa, debole.»

«Va be’. È normale, no?»

«Ho capito che è normale, ma che non mi vengano a fare quei sorrisi! Quei sorrisi li odio, capito? Sono così finti, così falsi! Mi verrebbe da dire: ma che cazzo vi ridete? Ma che c’è da ridere? Sono tre giorni che sono uno straccio, oltre tutto ‘sto peso che mi porto dietro da nove mesi… non vedevo l’ora di partorire, ma non pensavo che i giorni successivi sarebbero stati così orrendi! Mi trattano come una pezza, non sto scherzando! Proprio come una pezza, uno straccio, una cosa tipo: hai fatto il tuo dovere, mo’ fatti da parte che ci pensiamo noi.»

Anche se bloccato su quella sedia, con un paio di gambe molto deboli e un bambino addormentato in braccio, Tommaso non mancava di assistere allo sfogo di sua figlia con apprensione; ad ogni parola che le usciva di bocca vedeva il suo viso contorcersi, deformarsi di rabbia in smorfie grottesche e quella visione lo inquietava e preoccupava molto. Tuttavia, sentiva che intervenire prematuramente sarebbe stato un errore: capiva che Elisabetta aveva bisogno di buttare fuori quelle parole.

«Poi, quell’altra! L’ape regina, così la chiamano in ospedale, lo sapevi?»

«La mamma di Luigi?»

«Lei, chi altri? Se ne va a destra e a sinistra e se lo porta in braccio come un trofeo! Nemmeno il buongiorno mi dà, un altro po’! Stamattina è venuta per prenderselo e due ore, dico due ore se l’è tenuto… chissà che ci ha fatto, chissà dove se l’è portato! Ma la cosa più brutta è che mi guarda con una faccia… quasi schifata. Sembra che io sia una cretina, l’ultima ruota del carro, non la sopporto quando mi guarda come se fossi un’idiota! Mi verrebbe da gridarle in faccia un sacco di cose. Ce l’ha sempre in braccio lei, ce l’ha sempre addosso, poi appena piange me lo porta e me lo molla… una roba tipo self-service: quanto vuoi, un litro di latte? Inserisci il gettone e via!»

«Ma è normale che sia così, immagina… il primo nipote maschio.»

«Già, il primo nipote maschio.»

Ora Elisabetta era poggiata contro il davanzale della finestra e nel voltarsi rivolse al padre un sorriso cattivo.

«Mi chiedo se fosse stata femmina allora, apriti cielo! Me l’avrebbero mollata tutto il giorno, giusto nei momenti delle visite dei parenti. Magari me l’avrebbero fatto pesare, avrebbero detto che era colpa mia, se fosse nata femmina!»

Tommaso si rese conto di star assistendo ad una vera e propria crisi: aveva paura anche solo di dire qualcosa e osservava con malcelato timore gli occhi della figlia che si allargavano sempre più.

«Che bello essere mamme, eh? Che bello… ma chi l’ha detto? Ma dove sta scritto? Ma perché non… io nemmeno ero pronta per la gravidanza, semplicemente è successo, così. Ma perché non se lo prendono loro, perché me lo lasciano, visto che sono tutti così felici? Perché non se lo prende lei?»

Il labbro aveva preso a tremarle e d’un tratto s’interruppe, mettendosi una mano davanti alla bocca; era evidente che stava per piangere, soffocata da quei pensieri.

Tommaso si dispiacque troppo nel vederla in quello stato per non dire qualche cosa, anche solo per darle modo di rifiatare.

«Sei solo stanca, tesoro, devi solo riposarti. Ti stanno succedendo un sacco di cose nuove, è normale che ti senta così confusa… so benissimo che tipo di donna è quella lì. Ma non ci pensare, non ci pensare. Sta’ serena. Lei può dire quello che vuole, può vantarsi quanto le pare… ma il bambino è tuo. È tuo e basta, questo non te lo può togliere nessuno. Lei può tenerselo stretto quanto vuole, ma lui riconoscerà solo le mani della sua mamma. Eh? Va bene?»

Forse la visione del padre anziano che, con tutti i problemi di salute che aveva, era venuto lì da lei per conoscere quel bambino e per controllare come stesse sua figlia ed ora si era rattristato per via di quelle sue parole crude, aumentò in Elisabetta il senso di rimorso che già intimamente provava. Non riuscì più a tenere le lacrime, cominciò a piangere copiosamente senza provare a fermare il labbro e le mani che le tremavano convulsamente.

Fece due rapidi passi verso il padre e allungò le mani per prendere in braccio Michelangelo, portandoselo al petto; provò a dominarsi, ma il suo respiro fu rotto da un nuovo singhiozzo e si accasciò per terra, contro le ginocchia di Tommaso.

«Tutti pretendono che io sia felice, che debba essere felice di tutto… è una grande fortuna, questa, essere mamma! Sono costretta a mostrarmi felice, sì, costretta, perché non lo sono proprio! E non posso mostrarmi diversamente, altrimenti sono una madre snaturata! Ma quale madre non è contenta di aver partorito il proprio bambino, quale?»

Parlava a scatti, traendo di volta in volta grandi respiri, mentre il corpo le tremava tutto e faceva vibrare anche il piccolo corpicino di Michelangelo, che aveva voluto stringere. Le ci volle qualche minuto per calmarsi, per ricordare che se qualcuno fosse entrato e l’avesse trovata in quello stato, seduta per terra con addosso solo una camicia da notte, col bambino addormentato fra le braccia e il volto tutto bagnato di lacrime, chi sa che avrebbe pensato! Altro che madre snaturata: una pazza, l’avrebbero presa per pazza.

A un certo punto Tommaso le prese una guancia per farle alzare lo sguardo e mormorò:

«Guarda, guarda… ha aperto gli occhi.»

Elisabetta smise bruscamente di piangere e prima di concentrarsi sul bambino notò benissimo come anche gli occhi stanchi di suo padre fossero coperti da un velo umido; resasi conto di non aver fatto altro, col suo sfogo, che provocare dispiacere nel padre, subito si passò una mano sulle guance per asciugarle e tirò su col naso. Poi allontanò da sé il bimbo, che si era tenuta contro la spalla fino a quel momento.

Con grande sorpresa lo trovò sveglio, gli occhi spalancati e attenti, forse disturbato nel suo sonno dal pianto della mamma e dal tremore del suo corpo. Eppure non dava l’impressione di voler piangere o protestare: stava aggrappato alla sua camicia con le manine e, per quanto gli era possibile, cercava di tener dritta la testa per guardare bene Elisabetta; lei si disse che era impossibile, ma sembrava proprio che anche lui la fissasse con infinito dispiacere, come se percepisse il suo dolore e stesse cercando, scrutando con quegli occhi ancora cangianti, di partecipare anche lui al momento, di farle sentire la sua presenza.

Era una sciocchezza, certo, solo un caso, ma Elisabetta ne fu molto turbata.

 

Il rientro a casa fu una grande rivoluzione per tutti, a cominciare dalla mamma per finire al bambino che, superati i primi giorni d’incoscienza e di vita essenzialmente vegetativa, sviluppava giorno dopo giorno nuove capacità e si mostrava sempre più capace d’intendere e di volere. Aveva ad esempio imparato che bastava produrre qualche strillo un po’ troppo acuto e straziante, far finta che la propria gola stesse per infiammarsi dal troppo sforzo, perché la sua mamma accorresse con furia, pronta a sfamarlo. Le sue urla erano un’arma potentissima ed efficace, in grado di far passare in secondo piano qualsiasi cosa. Luigi, il padre, non si era fatto vedere troppo spesso nei primi giorni: era stato occupato a correre fra la sua casa e quella della sua famiglia, trasportando vestitini, lenzuola, culle, seggiolini, passeggini ed un’infinità di altri oggetti essenziali e minuscoli.

Elisabetta aveva già deciso quale fosse il suo aggeggio preferito: un succhietto di caucciù, dei più semplici possibili, che era per lei come un salvavita; quando Michelangelo strillava, le era sufficiente cacciarglielo in bocca per qualche secondo perché il piccolo si quietasse e la lasciasse in pace.

Elisabetta era l’unica a non aver ancora trovato un equilibrio, in quella nuova sistemazione. C’era riuscito suo figlio, che passava le giornate o adagiato sul materasso del passeggino, con le lenzuola fresche, pulite e il cuscino morbido, o in braccio a qualcuno che era venuto a far visita ed aveva voglia di tenerselo vicino; le volte in cui si trovava assieme alla mamma erano quelle in cui la sua presenza era strettamente necessaria: il momento della poppata e il cambio del pannolino.

Luigi si divertiva molto a tenere in braccio Michelangelo, a proporgli tutta una serie di smorfie buffe e cantargli canzoncine allegre e senza senso per farlo divertire, ma nel momento in cui il bimbo incrinava la sua espressione e cominciava a piangere, chiamava subito sua moglie perché provvedesse. Anche lui era riuscito a trovare il suo equilibrio con la nuova creatura in casa: bastava soltanto sopportare quelle grida di tanto in tanto, si diceva. Antonietta, inizialmente tutta preoccupata di avvalorare il suo trascorso di nutrice facendo sfoggio delle tecniche più varie – dai ripetuti colpetti per farlo addormentare allo sfioramento di una guancia per capire se avesse fame o meno – aveva ora lasciato alla madre naturale questi compiti; lei si limitava a tenerlo in braccio mentre sua nuora aveva da lucidare i mobili della cucina, oppure cullarlo per farlo addormentare mentre Elisabetta preparava il pranzo.

Sembrava insomma che la nuova situazione andasse bene a tutti quanti, meno che a lei. Se in ospedale era stata assolutamente trascurata, se nessuno aveva tenuto conto di quel suo umore così fragile e volubile, facilmente soggetto a depressioni, se tutti avevano giudicato normale la sua stanchezza fisica, ora si pretendeva che avesse recuperato appieno le forze e fosse in grado di svolgere tutte le sue precedenti mansioni ed in più di badare al bambino.

Elisabetta andava a dormire distrutta, con la speranza che l’indomani potesse essere migliore del giorno trascorso; il suo rapporto con Michelangelo non aveva subito grossi miglioramenti, ma lei avrebbe tanto desiderato poter trascorrere una giornata da sola, con lui e le sue cose, senza dover rendere conto a nessuno, senza preparare il pranzo ad un orario prestabilito – le tre, perché a quell’ora suo marito terminava di lavorare – rimanendo tutto il pomeriggio in panciolle sul divano a premere pigramente i bottoni del telecomando. Prima o poi si stancheranno di farmi visita, si annoieranno anche loro di contemplare un bamboccio che non fa altro che  piangere e bere, pensava, mi lasceranno da sola e allora potrò gettare via i confetti e mettermi a dormire quanto mi va.

Sembrava però che non si stancassero affatto e che nel giro di amicizie di sua suocera si parlasse soltanto della moglie di Luigi che aveva avuto un bambino tutto uguale al papà.

La sopportazione di Elisabetta si protrasse finché non Michelangelo non tagliò il traguardo del primo mese. Del tutto ignara dell’importanza di quella ricorrenza, ebbe la sfortuna di incontrare sua suocera al mercato del paese, mentre tentava di procacciarsi qualche zucchina.

«Ciao Bettina!»

«Oh, salve.»

«Di che andavi in cerca? Fagiolini?»

«Sì, cercavo qualche verdura per cucinare oggi… non so mai che cosa preparare!»

«Eh, lo so, lo so… se ti serve un aiuto, basta dirlo.»

«No, no, non vi disturbate.»

«Anche per venerdì, dico… se ti serve aiuto con i dolci, col rinfresco, vengo io la mattina e ti aiuto, così non ti stanchi.»

Elisabetta rimase perplessa, non colse subito l’allusione, ma non disse nulla per paura di avanzare qualche sciocchezza; a sua suocera non servivano certo altri pretesti per farla sentire una menomata del tutto incapace, le bastava anche solo salutarla con quell’orrendo diminutivo. Finse di aver capito e la rassicurò affermando che sarebbe riuscita a fare tutto da sola.

«Sicura? E va bene. Allora come ci mettiamo d’accordo? Dico di venire a casa tua verso le sette?»

«A casa mia?»

Presentiva che c’era qualcosa di sbagliato in quella conversazione, ma non volle cedere e capì che avrebbe fatto meglio a tagliar corto.

«Sì sì, a casa mia, non vi preoccupate. Faccio tutto io.»

«Ah, benissimo! Allora per le sette a casa tua. Mi raccomando la pizza e i palloncini, che fanno tanta allegria. Mo’ scappo che devo mettermi a cucinare, ci vediamo venerdì?»

«Sì, venerdì.»

«Buon appetito!»

«Altrettanto.»

Liberata da quell’impiccio Elisabetta percorse la strada a ritroso, fermandosi alla prima bancarella del fruttivendolo che trovò, scegliendo un fascio di erbe qualsiasi e tornando di gran carriera verso la sua abitazione. Poggiate le buste della spesa sul tavolo, preparata la pentola con l’acqua per la pasta, si piazzò davanti al calendario per indagare che cosa ci fosse di tanto importante quel venerdì. Era certa che non si trattasse di un compleanno, che non ci fossero ricorrenze religiose da onorare e che anche gli onomastici fossero da escludere – non c’era nessun Arsenio nella sua famiglia e nemmeno in quella di suo marito – per cui, perplessa, si sedette sul divano a far riposare le gambe e lambiccarsi il cervello.

La soluzione si presentò in forma di lievi vagiti; l’udito di Elisabetta si era allenato moltissimo a percepire, nella baraonda che normalmente si creava in casa, la sottile voce del bambino.

Fu quando lo prese in braccio per farlo tacere che capì a che cosa si stesse riferendo Antonietta; durante il secondo che separò i momenti dell’intuizione e dell’elaborazione il suo viso subì un radicale cambio di espressione: dalla più totale perplessità all’ira più nera.

«Ah, è così? Sta organizzando una festa per il mese? Una festa per il mese? Così, senza nemmeno parlarne con me? Una cosa scontata, una cosa ovvia… quale madre non festeggerebbe in grande stile il primo mese di vita di suo figlio?»

Cominciò a percorrere la stanza a grandi passi, contorcendo il viso nelle smorfie più varie, mentre parlava fra sé. Era da un po’ di tempo che aveva preso quest’abitudine, quella di esprimere ad alta voce i suoi pensieri senza curarsi di sembrare matta; in questo modo era riuscita a tirar fuori almeno una piccola parte di tutto il nervosismo che si teneva dentro.

«Una festa per il mese, ma roba da matti! Cosa vuol preparare, le lasagne? È incredibile, non ci si può pensare, ha organizzato una festa per venerdì e mi ci ha messo dentro così, come se nulla fosse! Anzi, mi ci sono messa da sola e non posso nemmeno dire di no! Già me la vedo, con quella faccia compunta a dire: eh su, Bettina, facci questo piacere… siamo tutti contenti per questo gioiellino! Ah be’, se siamo tutti contenti, allora…!»

Michelangelo diede un colpo di tosse ed Elisabetta si riscosse, ammutolendo e fermandosi al centro della stanza; non se n’era nemmeno accorta, ma aveva le guance calde e il respiro corto. Aveva ancora addosso la stizza del momento da scaricare, ma, notando che gli occhi del bambino la seguivano con attenzione nei suoi movimenti, mise a tacere quel tumulto interiore.

«Che cosa c’è? Hai fame? Sempre fame hai tu… mangiare e dormire, non faresti altro.»

Si sedette sul fianco del letto e con movimenti bruschi liberò un seno per porgerlo al bambino. Anche quello era diventato un gesto spontaneo: ficcargli in bocca un capezzolo per farlo star zitto e alleviare quel senso di responsabilità materna che di tanto in tanto le faceva visita.

Michelangelo sembrò essersi quietato, ma dopo qualche secondo Elisabetta si accorse che il piccolo non doveva avere molta fame, perché se ne stava lì fermo a fissarla. Le faceva una grande impressione quello sguardo così attento e interessato che non fu capace di sostenerlo per molto; in cuor suo ammise che ne era anche un po’ timorosa, in quanto non comprendeva cosa volesse significare.

«Che c’è, insomma, che c’è?» le venne spontaneo domandare ad un certo punto. «Vuoi la festa? Vuoi che facciamo una festa? Vuoi rimanere soffocato da tutta quella marea di gente che manco conosci? Dalla nonna, che chissà quante me ne dirà? Chissà quante… è ovvio: che razza di madre, non si preoccupa nemmeno della festa, non l’ho mai vista tenerlo in braccio… »

Si fermò, quasi credendo che il bimbo fosse in grado di ascoltarla e dirle qualche cosa di conforto, rassicurarla che sì, lei era una madre bravissima, che almeno non gli riempiva la testa di versetti e canzoncine e lo lasciava lì per i fatti suoi. Elisabetta si rese conto solo in quel momento di quanto effettivamente desiderasse sentirselo dire, di quanto necessitasse di qualche parola d’incoraggiamento, lei che non si sentiva ancora molto legata a quel figlio e che spesso non sapeva come comportarsi; alla tremenda paura di sbagliare reagiva minimizzando le sue mansioni di madre, limitandosi all’essenziale, evitando ulteriori coinvolgimenti.

«Che razza di madre… »

Cosa c’era di sbagliato? Non riusciva ancora a provare quello straordinario istinto materno di cui tanto aveva sentito parlare; ancora non si rendeva conto che quell’essere minuscolo era lo stesso che aveva dormito nella sua pancia dieci mesi addietro, era passato troppo poco tempo. Certo, doveva essere questo il motivo, si ripeteva, col tempo ci avrebbe fatto l’abitudine, era solo troppo scossa dal parto e dai cambiamenti che il bambino aveva portato nella sua vita. Elisabetta covava però un’enorme paura: se non si fosse abituata? Se le cose non fossero cambiate? Dipendeva da lei oppure no, quell’indifferenza?

Il rumore dell’acqua che cominciava a bollire l’aiutò a riscuotersi, deporre Michelangelo nella sua carrozzina e rivestirsi, oltre che ad accantonare un profondo senso di tristezza che pareva lì lì per assalirla.

Pensò molto a quella storia durante la giornata e giunse alla conclusione che non importava che cosa provasse intimamente: avrebbe acconsentito al volere della suocera e preparato quella ridicola festa per il primo mese del suo bambino.

 

Il problema stava tutto lì, nell’aggettivo “suo”. Il bimbo che stava in braccio alla nonna e volgeva il capo a destra e sinistra, dimostrando grande attenzione, era lo stesso che le aveva assestato di tanto in tanto un paio di calci quando si trovava nella sua pancia?

Più ci pensava e più Elisabetta non voleva crederci, mentre, sedutasi per un momento sulla sedia accanto al tavolo, prendeva fiato; la sua piccola casa non aveva mai ospitato così tanta gente come quella che Antonietta aveva radunato quella sera e il suo tavolo da pranzo non aveva mai sorretto una quantità di cibo come quella che vi era stata sistemata sopra in quel momento: lasagne, pizza, frittelle, acciughe, parmigiana, mozzarelle affettati di vario genere; per non parlare del dessert, che Elisabetta sapeva ben custodito in cucina, comprendente una torta, vari pasticcini, i tipici dolci a base di miele e di uova, senza dimenticare i Baci Perugina.

«Prendi l’altra teglia di pizza, che questa è quasi finita?» le domandò Antonietta.

«Sì, vado.»

Se l’era imposto con la forza: sopportare tutto quanto senza mostrare musi lunghi e disappunto troppo evidenti. Doveva far sì che la festa riuscisse, perché era giusto così, e doveva mostrarsi allegra ed eccitata, perché quale madre non lo sarebbe stata? Il primo figlio maschio, dopotutto!

Il piccolo Michelangelo doveva divertirsi molto, a giudicare da come se lo facevano passare fra le braccia amici e parenti; Elisabetta aveva visto Luigi prenderlo in braccio e mostrarlo ad un paio dei suoi amici più stretti, orgoglioso. Si era intenerita ed aveva pensato che fosse meglio defilarsi in un angolo per non turbare quella felicità collettiva.

Con molta calma spostò le fette di pizza dal cartone alla teglia, sperando che giungesse presto l’ora di andare a dormire, pregustando il momento in cui si sarebbe infilata sotto le coperte; forse dopo quella ricorrenza l’avrebbero finalmente lasciata in pace.

«Oh, sei qui!»

Sulla soglia della porta comparve l’ultima persona con cui avrebbe voluto avere a che fare: sua cognata, la sorella di Luigi, Stefania.

«Aspetta, ti aiuto!» fece lei, premurosa.

«No, no, figurati…»

Provò l’impulso di dirle la verità e così ammise:

«In realtà sono venuta qui per avere un momento di pace, c’è troppa confusione di là.»

«Ah sì, roba da matti. Mi dispiace, mamma ci teneva tanto a questa cosa. Sai, il primo nipote maschio…»

«Sì, lo so, lo so.»

«Una gran rottura, eh?»

Non del tutto certa del confine fino al quale potesse spingere la sua confidenza, Elisabetta tentennò un attimo, rispondendo vagamente.

«Be’, che ci vuoi fare… insomma, sono felice per lei, per loro. Ma anch’io sono contenta!» Si sforzò di fare comparire un sorriso, incurante che potesse sembrare forzato. «Sono solo un po’ stanca, ecco tutto.»

Se l’allegria non l’aveva del tutto convinta, la stanchezza evidente indusse Stefania a commentare:

«Forse sarebbe stato meglio se non si fosse fatta, ‘sta festa. Glielo potevi dire, a mamma…»

«Ma tranquilla, è tutto a posto! Sabato e Domenica li passo a dormire, non c’è problema.»

«Ti ha sottoposto a una dieta ferrea.»

«Come, scusa?»

«Mamma, dico. Immagino: niente broccoli…»

«Ah sì, be’, è per il bambino, no? Per il latte.»

«So che a volte è un po’ pesante, però capiscila: quando le avete dato la notizia era fuori di sé.»

«Oh sì, mi ricordo. Tempo una settimana e lo sapevano tutti quanti.» commentò Elisabetta, memore della stizza che aveva dovuto trattenere nell’apprendere che tutto il paese sapeva della sua gravidanza.

Stefania non gradì molto la tonalità acida nella sua voce e ribatté:

«Be’, poverina, era solo contenta. Ti dobbiamo ringraziare, perché altrimenti…»

Ecco, era quello il tasto che Elisabetta non voleva venisse toccato: i sensi di colpa. In quella famiglia erano tutti molto bravi a farla sentire inadeguata e sciocca. Stefania prese il vassoio con le pizze per portarlo di là, lasciandola nella cucina senza aggiungere altro. Elisabetta ebbe un moto istintivo di rabbia: tirò un sospiro lungo, strinse i pugni, si morse le labbra, ma non riuscì a calmarsi.

«E certo!» prese a borbottare «La colpa dev’essere sempre mia! Ho la colpa di tutto, qua dentro! Che c’entro io se non può avere figli, quella?»

In realtà, sotto la stizza, si nascondevano pericolosi sensi di colpa e rimorsi che sapeva l’avrebbero accompagnata fino a quando non fosse riuscita a superare quella fase; poteva fingere davanti agli altri, ma non ingannare se stessa. Tutti la attorniavano entusiasti quando prendeva in braccio Michelangelo, come in quel momento.

«Assomiglia anche a te, sai?»

«Eh, va be’, però il naso e la bocca sono del padre. Poi guardagli le guance. Le guance, le vedi? Sono uguali a quelle di mio marito, uguali!»

Elisabetta dispensava sorrisi e battute accondiscendenti, ma la sua simulata serenità vacillò alla domanda che pose un’amica di sua suocera:

«Chissà quale sarà la prima parola che dirà, che dite?»

«Sicuramente non “mamma”» le sfuggì in un bisbiglio che per fortuna nessuno udì.

Ne era sicurissima, non c’era nemmeno bisogno di attendere la conferma: una volta cresciuto, Michelangelo non l’avrebbe affatto apprezzata e si sarebbe rifugiato ogni giorno a casa della nonna, dichiarando che “la mamma mi sgrida sempre, la mamma queste cose non me le fa fare, la mamma non mi vuole bene”.

Poco ci mancò che una volta che anche sua suocera fu andata via di casa, accompagnata da Luigi, non si mettesse a piangere dalla gioia.

Michelangelo si addormentò subito e lei, infilatasi la camicia da notte informe che aveva eletto a pigiama ufficiale, si stese sul letto per godersi il meritato riposo.

 

Si svegliò una prima volta quando sentì il materasso abbassarsi e il peso di un altro corpo stendersi accanto al suo; capì che suo marito doveva essere rientrato e si mosse nel buio per toccarlo.

«Lu?»

«Eh?»

Più rassicurata, tornò a stringere il cuscino alla ricerca di uno spazio fresco dove poggiare la guancia. Si sentiva decisamente meglio rispetto a qualche ora prima; il rapido svuotamento della casa e il silenzio della camera da letto, udire il suo respiro unito a quello di Luigi, più pesante e sconnesso, e del bambino, l’aveva resa più tranquilla e a suo agio.

Quando, come quella sera, faceva troppo caldo, né lei né suo marito riuscivano a prendere sonno in fretta; a volte rimanevano in silenzio, intenti a rigirarsi sul materasso, o si abbracciavano e carezzavano sperando di prendere sonno, oppure si raccontavano vicendevolmente la giornata in modo da alleggerire la mente dai troppi pensieri. Quella volta scelsero di restare ognuno per i fatti propri: Luigi disteso a pancia in su, un braccio sospeso fuori dal letto, lei raggomitolata su se stessa, la testa sul cuscino, dandogli le spalle.

Ad un certo punto Michelangelo emise un piccolo vagito; Elisabetta si volse in direzione della culla, attenta ad ogni piccolo movimento per cercare di capire se stesse per piangere, Luigi non se ne accorse nemmeno. Il rumore delle coperte che venivano spostate, i versetti che risuonavano a brevi intervalli di distanza confermarono le previsioni di Elisabetta: dopo qualche difficile colpo di tosse, Michelangelo iniziò a piangere.

Il primissimo istinto, quello di mettere a tacere la fonte del rumore indesiderato, suggerì a Elisabetta di alzarsi, prenderlo in braccio e cullarlo un po’. Sapendo però che anche suo marito era sveglio e dicendo a se stessa che il suo intervento non era del tutto necessario, preferì aspettare, rimanendo immobile, curiosa della reazione di Luigi.

Lui, per i primi minuti, sembrò disinteressarsi della questione; quando si accorse che la moglie non accennava a muoversi voltò il capo verso di lei.

«Oh?»

Elisabetta non rispose né a quella né alla seguente incitazione.

«Ma che, dormi?»

Luigi si sedette e le si avvicinò per controllare se avesse gli occhi chiusi.

«Sei sveglia?»

Elisabetta finse di ridestarsi improvvisamente da un sonno profondo, muovendo lentamente le braccia e la testa all’indietro.

«Che c’è?»

«Il bambino piange.»

«Piglialo in braccio» rispose, senza accennare ad aprire gli occhi.

Luigi tentennò un attimo, dando uno sguardo prima alla culla, intravedendo un paio di pugni che si agitavano, poi alla moglie stesa a fianco a lui, che pareva non avere alcuna intenzione di intervenire.

«Non puoi prenderlo tu, scusa?»

La domanda che le rigirò confermò il suo timore e la mise in agitazione; scelse nuovamente di restare in silenzio.

A quel punto Luigi, infastidito dal rumore sempre più forte, le prese un braccio con decisione.

«Oh dai, che si sfianca a furia di gridare!»

«Ho sonno, prendilo tu. Devi solo prenderlo in braccio, mica farlo bere!» replicò con inflessione più marcata Elisabetta, scrollandosi di dosso la sua presa.

«Ma quello mica vuole me! Alla mamma, vuole!»

«Ma se sei già alzato, se hai tanta voglia di parlare, fai lo sforzo e prendilo tu, no?»

«E che, ti secca?»

«Sì, mi secca, sono stanca e voglio dormire! Non posso, forse?»

Senza accorgersene aveva alzato la voce e l’aveva aggredito con troppa foga; se ne accorse e si girò a guardarlo, intimidita dal suo sguardo stupito e sospettoso. Ora non si sentiva più così sicura di se stessa.

«Ma che ragionamenti…»

Fosse stato anche solo per sfuggire lo sguardo del marito, Elisabetta si affrettò ad alzarsi e andare verso la culla. Prese in braccio Michelangelo, cullandolo e udendo le sue strilla scemare sempre più, finché non si calmò del tutto.

«Contento?» sfuggì a Elisabetta, un bisbiglio ben udibile nel rinnovato silenzio.

Luigi emise uno sbuffo, che lei non seppe classificare né come stizza né come disapprovazione; lo guardò uscire dalla camera senza darle risposta e non poté evitare di sentirsi colpevole.

Subito la sua mente reagì con ferocia a quell’ammissione di colpa: non c’era niente di sbagliato, lei aveva tutto il diritto di delegare quei compiti a suo marito, perché non c’era scritto da nessuna parte che ad occuparsi del bambino dovesse essere solo lei. Ma qualcosa di più viscerale, di atavico, si era mosso in lei a quell’occhiata intrisa di disprezzo; Luigi non avrebbe potuto trovare parole più efficaci per farla sentire più a disagio e in difetto di quanto non si sentisse in quel momento.

Elisabetta si sentì crollare un peso gravoso addosso: era proprio una buona a nulla, non sarebbe mai stata capace di far da madre al suo bambino; possibile che sbagliasse sempre, qualsiasi cosa facesse? Possibile che non riuscisse a comportarsi naturalmente? Possibile che in lei non ci fosse la minima traccia di quell’istinto materno?

Michelangelo non si era ancora addormentato, ma fra le braccia della mamma aveva trovato il suo spazio e la sua quiete. Elisabetta si avvicinò alla finestra della camera per osservarlo meglio, avvalendosi della luce lunare.

Ancora pochi capelli in testa, due occhi semichiusi, il naso ben arcuato, l’origine di tutti i suoi problemi era lì, in quel corpicino esile e fragile. Nessuno poteva prendersela con lui, era troppo innocente e indifeso, sarebbe stata una barbarie attribuirgli una qualche sorta di colpa. Elisabetta comprese di essere gelosissima di quella speciale premura che tutti gli riservavano.

Nessuno, nessuno l’avrebbe preferita a lui, doveva farsene una ragione; era inutile comportarsi in quel modo.

Se lo strinse di più, carezzandogli una mano con due dita, poi si piegò verso il suo orecchio e cominciò a cantargli:

«Gesù bambino caro, nudo sei sulla paglia: la tua mamma non aveva vestitini da darti; la tua mamma non ave-e-va vestitini da darti.»

Il bambino chiuse gli occhi, riaddormentandosi.

«Su non pianger Maria, quel che dico ascolta: le tue pene son le mie che io porto con me; le tue pene son le mi-i-e che io porto con me.»

Di tanto in tanto s’interrompeva e lo chiamava:

«Michelangelo? Michelangelo! Tu le vuoi bene, alla mamma, sì?»

   
 
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