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Autore: TheOnlyWay    10/04/2012    5 recensioni
Ho sempre pensato che i ragazzi fossero stupidi e insensibili. Poi ho conosciuto lui e ne ho avuto la conferma: sono dei completi idioti.
E non è colpa loro, probabilmente è una questione genetica, anche se in effetti dovrebbero iniziare a cercare una cura per questa stupidità dilagante.
Insomma, ci sarà pur qualcosa che si possa fare, per evitare che diano aria alla bocca, tanto per dimostrare che sono addirittura in grado di formulare un pensiero coerente.
Quando ho capito che Louis Tomlinson è un idiota?
Non mi ci è voluto molto, se devo essere sincera. È bastato che lo incontrassi nel corridoio, vicino al mio armadietto.
«Ciao, bambolina.»
Era il mio primo giorno nella nuova scuola e tutto ciò che desideravo era diventare invisibile. Essere al centro dell’attenzione non mi era mai piaciuto un granché: preferivo starmene sulle mie, parlare il tanto necessario e ignorare completamente tutto il resto. Louis aveva rovinato i miei piani, perché aveva catturato l’attenzione di tutti i presenti con due semplici parole.
Sorrideva, mentre dietro di lui quattro ragazzi osservavano la scena con particolare interesse. E poi si dice che sono le ragazze a girare in branco.
«Bambolina ci chiami tua sorella, idiota.»
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Louis Tomlinson, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie '"Like an Hurricane"'
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Chapter 1.
 
 
 
 
«Tesoro, potresti passarmi il martello?»
La voce di mia madre mi raggiunse dalla cucina, un po’ smorzata. Andai a vedere cosa stesse facendo, lievemente preoccupata; mamma aveva la pericolosa tendenza a mettere mano in cose che la maggior parte delle volte non sapeva come gestire.
In quel momento era infilata fino a metà busto nella credenza accanto al frigo e, a giudicare dai colpi che continuavano a far traballare il mobile, stava cercando di fissare un ripiano.
«Non sarebbe meglio, che ne so, comprare dei mobili nuovi? Mamma, questa cucina sta cadendo a pezzi…» mormorai, allungandole comunque il martello.
«Non dire assurdità, tesoro. – riprese a martoriare quel povero pensile, senza un briciolo di pietà – I mobili sono in perfette condizioni, è solo che questa mensola… ecco. Ho fatto.» Gettai un’occhiata piuttosto scettica al ripiano, mentre mamma si levava dalla fronte una ciocca di capelli biondi che era sfuggita al controllo dello chignon. Ero sicura che entro sera mi avrebbe chiesto di guardare dove fosse il mobilificio più vicino.
«Allora, com’è andata a scuola, oggi?» la sua espressione speranzosa mi fece desistere dal mio progetto iniziale, ossia dirle che in quel posto erano tutti un branco di idioti.
«Bene. Sono tutti molto simpatici.» risposi perciò, guardando altrove per non farle capire quanto fossi ben lontana dal dire la verità.
«Mi fa piacere. Lo sapevo che ce l’avremmo fatta, Cass.» sostenne, mentre gli occhi le si facevano lucidi.
Non mi ero mai soffermata a pensare che trasferirci a Doncaster potesse essere difficile anche per mamma. Lei era sempre così forte, così coraggiosa. E aveva preso la decisione migliore per entrambe, quando aveva approfittato dell’assenza di papà per preparare i bagagli e caricarli su un furgone a noleggio.
Tempo cinquanta minuti ed Halifax era lontana, così come papà, che al suo ritorno avrebbe trovato solo un biglietto. Non avevo fatto in tempo a leggerlo, perché mamma mi aveva letteralmente trascinato fuori di casa.
«Tu sai sempre tutto, mamma.» le sorrisi, prima di lasciarle un bacio sulla guancia, afferrare una mela dalla busta della spesa e avvicinarmi al ripiano appena montato.
Appoggiai la mela e la mensola cedette, cadendo sul fondo del pensile.
«Ora che ne dici se cerchiamo un mobilificio?»
«Odio quando hai ragione.» borbottò, incrociando le braccia sotto il seno.
«Lo so.» ridacchiai, divertita.
 
 
***


«Quando inizi a lavorare?» chiesi, mentre stendevo la tovaglia a quadretti bianchi e blu sul tavolo della cucina.
«Domani. Samantha dice che hanno bisogno immediatamente; spero solo di non aver perso il tocco.» mormorò mamma, aiutandomi a disporre i piatti di plastica. Ad Halifax faceva la parrucchiera, ed era veramente bravissima: quando c’era lei, il salone era sempre pieno. Poi le cose erano degenerate, e aveva dovuto licenziarsi.
«Potrei trovarmi un lavoretto anche io. Come baby-sitter, magari.» proposi.
Da quando avevamo messo piede a Doncaster, circa una settimana prima, ci avevo pensato continuamente. Potevo e dovevo aiutare mamma a ricominciare una nuova vita.
«Non è necessario, tesoro. Credo proprio che guadagnerò bene, da Sam.»
Ovviamente lo sapevo che avrebbe bocciato la mia idea, perciò avevo già deciso per conto mio. Non appena avessi ingranato bene con la scuola, avrei fatto in modo di cercare un piccolo lavoretto. Non necessariamente come baby-sitter, mi sarei accontentata anche di un part-time in un bar, o qualcosa del genere.
«Lasciamo perdere questi discorsi, d’accordo? Non devi preoccuparti.»
Mi scompigliò i capelli e andò a spegnere il gas. Dopo aver scolato la pasta, me ne versò una porzione non troppo grande nel piatto e iniziammo a mangiare.
Speravo davvero che lasciasse perdere il discorso scuola, perché non mi andava di inventarmi una marea di bugie. Volevo che stesse tranquilla, visto che ultimamente avevamo già avuto un sacco di problemi.
In quel momento, poi, Louis Tomlinson era completamente assente dai miei pensieri.
«Credi che papà…» cominciai, ma mi interruppi subito, quando il viso di mamma si adombrò parecchio. Credevo fosse inevitabile parlarne, prima o poi.
«Tuo padre non è più affar nostro, Cassidy.» E seppi che il discorso era stato chiuso.
Mamma si allontanò, con la scusa di dover sistemare l’ultimo scatolone in camera sua e mi lasciò da sola, preda dei sensi di colpa.
Buttai la pasta nella spazzatura: mi era passata la fame. Dopo aver sparecchiato e lavato i piatti, recuperai il mio zaino dal salotto e salii in camera mia. Magari avrei fatto i compiti di matematica per il giorno seguente, oppure me ne sarei direttamente andata a letto, visto che non avevo nient’altro da fare.
Niente compiti, non ne avevo voglia. Li avrei fatti l’indomani mattina in classe.
Frugai nel cassetto alla ricerca del pigiama e lo indossai. Poi mi infilai sotto le coperte, e chiusi gli occhi.
Non era stata per niente una bella giornata, pensai. Prima quel simpaticone di cui ancora non conoscevo il nome mi aveva chiamata bambolina, poi mia madre si chiudeva in camera per il resto della serata.
Le cose non potevano peggiorare, vero?
L’ultima cosa a cui pensai, prima di addormentarmi, fu papà. Chissà come se la stava cavando, senza di noi. Sapevo che era sbagliato, continuare a pensare a lui come ad un uomo buono e gentile.
La verità era che, prima di diventare alcolizzato, papà era davvero buono e gentile. Poi aveva iniziato a bere, dopo che il suo datore di lavoro l’aveva licenziato e la situazione era precipitata. Da lì a picchiare mamma il passo era stato breve. Quando, alla fine, aveva tirato uno schiaffo anche a me, mamma aveva perso la pazienza e la speranza, aveva raccolto baracca e burattini e aveva allontanato entrambe da quell’uomo che ormai era diventato irriconoscibile.
 
 
***
 
 
La mattina seguente mi svegliai di pessimo umore. Avevo dormito poco e niente, tormentata dai sensi di colpa per quello che avevo detto a mamma e avevo continuato a rigirarmi nel letto per parecchie ore, prima di riuscire a prendere sonno.
E quando finalmente mi ero addormentata, era suonata la sveglia.
Dopo essermi vestita con le prime cose che trovai nell’armadio, scesi al piano di sotto. Volevo chiedere scusa a mamma per la sera prima, ma lei era già uscita. Sul frigo aveva lasciato un bigliettino rosa, attaccato con un pezzo di scotch.
“Buona giornata, tesoro. E non sentirti in colpa, per ieri. È stata solo una brutta giornata. Ti voglio bene, ci vediamo stasera” aveva scritto, con quella sua calligrafia un po’ spigolosa ma tutto sommato elegante.
Sapere che non se l’era presa mi fece stare decisamente meglio, così mi sentivo pronta ad affrontare quel secondo giorno di scuola un po’ più di buon umore.
Una volta arrivata davanti all’ingresso della scuola, però, il poco ottimismo che avevo guadagnato scemò velocemente, di fronte al gruppo di ragazzi appostati all’entrata.
E non avevo alcun dubbio: guardavano me.
«Guarda un po’ chi si rivede. Ciao, bambolina.» mi si pararono davanti, quasi in formazione. Probabilmente cercavano di intimidirmi, ma ero abituata a quelli come loro. Si facevano forza perché stavano insieme, ma da soli erano come tutti gli altri.
«Mi faresti passare, per cortesia?» domandai, con una punta di acidità. Non avevo davvero voglia di perdere il mio tempo con quell’ammasso di idioti.
Lo fissai negli occhi, tranquilla. E lui ricambiò il mio sguardo, sornione. Evidentemente, non aveva nessuna voglia di lasciarmi in pace.
«E dove vorresti andare? È presto, ancora.» insinuò, senza muoversi di un centimetro.
«Non credo che sia un tuo problema. Spostati.» intimai, posandogli una mano all’altezza del braccio e spingendolo lievemente da parte.
Non oppose nemmeno resistenza. Anzi, si spostò subito, con quel sorriso irritante stampato in faccia e gli occhi azzurri che scintillavano divertiti.
«Ehi, Lou, si può sapere che ti prende?» sentii chiedere, dietro di me.
«Niente. Mi sto solo divertendo.» rispose lui. Sentivo il suo sguardo trapassarmi la nuca e non mi piaceva affatto. Odiavo sentirmi posta sotto esame.
‘Fanculo, pensai, mentre inserivo la combinazione del mio armadietto.
Poi qualcuno picchiettò sulla mia spalla, facendomi spaventare. Mi voltai di scatto, ma le parole mi morirono in gola.
Sembrava proprio che non volessero lasciarmi stare, quel giorno. E dire che non avevo fatto niente per attirare la loro attenzione.
Rivolsi al biondino un’occhiata colma di risentimento e di stizza, poi lo invitai a parlare.
«Mi chiamo Niall.» si presentò, porgendomi una mano. La fissai per qualche secondo, senza la minima intenzione di stringerla. Lui ridacchiò, per niente offeso, e si appoggiò all’armadietto accanto al mio, fissandomi attentamente.
«Be’? Cosa vuoi? Impedirmi di andare in classe?» chiesi, sarcastica. Ne avevo già abbastanza e le lezioni non erano nemmeno cominciate.
«Voglio accompagnarti.» spiegò lui, con tono di ovvietà.
«Ma davvero? Grazie, non ne ho bisogno.» rifiutai, afferrando il libro di storia e chiudendo l’armadietto con più forza del dovuto. Mi stavo innervosendo parecchio.
«E dai, non c’è bisogno di fare così. Tanto siamo in classe insieme.»
«Che incredibile fortuna.» sibilai, mollandolo lì su due piedi e dirigendomi in classe.
Niall mi seguì: evidentemente aveva deciso di farmi da guardia del corpo, o più semplicemente da stalker.
Quando entrammo in classe, l’attenzione di venti persone – no, dico: venti! – si concentrò immediatamente su di me.
Dio, qualcuno mi salvi, pensai. Ma, come al solito, non successe niente. Anzi, le cose peggiorarono sempre di più, visto che quella seccatura dell’insegnante di storia entrò in classe in quel momento.
«Cosa fate ancora in piedi, voi due? Fuori! Se non avete voglia di stare in classe, uscite.»

 

***

Pubblico subito il primo capitolo, in modo che possiate farvi un'idea minuscola sulla storia. Solo il prologo mi sembrava un pò pochino...
Spero vi sia piaciuto!
Ripeto, se vi và, fatemi sapere che ne pensate ;)
   
 
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