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Autore: Mika_mika    07/11/2006    4 recensioni
fic ItaSasu a uso e consumo di Rekichan! L'abbiamo creata in cinque minuti salendo sugli scivoli dell'acquapark quest'estate, e ora arriva anche su EFP XDDD i primi dieci capitoli (o giù di lì) non sono molto yaoi! enjoy the reading! "E quando l’ultimo colpo andò a segno, quel messaggero di decadenza e distruzione ebbe la sua stessa visuale offuscata dal sangue. Non riuscì più a distinguere se fosse il proprio o l’altrui. Mentre l’assassino si passava stancamente il dorso della mano sugli occhi, tergendone linfa vitale e sudore, l’ignaro innocente per la cui salvezza tutto ciò era stato compiuto riposava tranquillo nel suo letto. Il suo sereno sorriso era eternamente preservato dal genjutsu che era stato per lui appositamente creato." "Che quel giorno, per quelle due figure snelle, così piccole in confronto a tutta quella magnificenza, segnava l’epilogo di una vita. E l’Inizio, forse in grande stile, di un’altra."
Genere: Romantico, Demenziale, Erotico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Itachi, Akatsuki, Sasuke Uchiha
Note: Lemon, What if? (E se ...) | Avvertimenti: nessuno
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Lucente come un lampo in una notte senza luna, un’affilata lama fendeva il suo ennesimo, repentino colpo

Lucente come un lampo in una notte senza luna, un’affilata lama fendeva il suo ennesimo, repentino colpo.

Una vischiosa scia purpurea imbrattò la sua consistenza argentea, per poi scivolare silenziosamente via, quasi fosse acqua su un vetro durante un temporale.

Similarmente, del suo passaggio non rimase nulla, se non uno scialbo alone, impossibile da distinguere dai numerosi altri, alcuni risalenti alle ore prima, alcuni vecchi di solo pochi secondi.

Un sacrificio di mille innocenti, per la salvezza di un unico piccolo ignaro.

Tutto questo perché ci sono legami e patti stipulati col sangue, e in esso tramandati, e solo con quello stesso sangue possono essere recisi, annegandoli in un carminio fiume di porpora.

Un solo carnefice ne era il fautore, e volteggiava dentro questo rosso con grazia e sicurezza degne dell’angelo della morte più impietoso.

E quando l’ultimo colpo andò a segno, quel messaggero di decadenza e distruzione ebbe la sua stessa visuale offuscata dal sangue.

Non riuscì più a distinguere se fosse il proprio o l’altrui.

Mentre l’assassino si passava stancamente il dorso della mano sugli occhi, tergendone linfa vitale e sudore, l’ignaro innocente per la cui salvezza tutto ciò era stato compiuto riposava tranquillo nel suo letto.

Il suo sereno sorriso era eternamente preservato dal genjutsu che era stato per lui appositamente creato.

Quando Sasuke si svegliò, quella dannata mattina, un’atmosfera diversa, tremendamente diversa, aleggiava nella grande villa orientale dove era nato e cresciuto, sul cui suolo avevano camminato generazioni e generazioni del suo celeberrimo e fastoso clan, conosciuto in tutto il continente.

Nella quiete delle due stanze e nel calore del suo letto, nulla pareva mutato.

L’acuto cinguettare degli uccellini, che da tempo avevano trovato alloggio e rifugio per sé e per i propri piccoli tra le floride fronde del giardino, penetrava lieve dalle finestre, insieme a sottili raggi di luce attorno e dentro ai quali danzava leggero e impalpabile il pulviscolo.

Ma all’odore solitamente rilassante che aveva sempre emanato il connubio dei legni pregiati con cui la casa era stata edificata e decorata, c’era mischiato qualcos’altro.

Un odore indecifrabile che trasmetteva una sensazione incomprensibile, penetrante al punto da divenire quasi un sapore percepito dalle papille gustative.

Quando, perplesso, posò delicatamente i delicati piedi infantili sui tatami tiepidi, una scossa di tensione l’attraversò da parte a parte, propagandosi lungo la sua spina dorsale.

Lasciò dietro di sé solo una profonda inquietudine.

C’era decisamente qualcosa che non andava.

Percorse con lenti passi i corridoi che si diramavano per la struttura, il cui silenzio si faceva sempre più opprimente e incalzante ad ogni piè sospinto.

Prese a chiamare a gran voce suo padre, sua madre e infine anche suo fratello maggiore, lasciando anche da parte l’orgoglio che lo avrebbe portato a trattenersi per non sentirsi dare del fifone da lui.

Ma il nulla in cui si ritrovò nuovamente immerso quando l’eco della sua voce si fu dileguata, risultò essere un più che eloquente segnale.

Sempre più titubante, si decise, quasi facendo violenza su sé stesso, ad aprire uno shoji che separava il soggiorno principale dal giardino interno, su cui si affacciava.

Ogni anticipazione gli era negata dall’ombra scura che lo spesso muro di cinta proiettava scontrandosi con la bassa luce del sole mattutino, occultandogli la verità.

Quando infine il pannello finì di scorrere, andando a scomparire nell’incavo del muro che gli era riservato, ai suoi occhi venne arrogato il diritto di vedere.

E fu l’inferno.

Ciò che un comune essere umano può solo provare ad immaginare.

Con tutta probabilità, se avesse potuto cancellare la propria memoria e tornare indietro, avrebbe preferito di gran lunga restare ignaro di quella visuale angosciante.

L’intricata consistenza dei tatami e la morbida terra del prato avevano assorbito litri e litri di sangue, finché le loro fibre e la loro stessa materia non ne erano uscite saturate, ed erano state costrette a farlo traboccare in pozze purpuree.

In mezzo a questi liquidi, abbandonati alla brezza leggera che scuoteva l’erba ancora verde, decine e decine di cadaveri, totalmente irriconoscibili alla stregua di ammassi di carne al macello.

Capire a chi appartenessero, o meglio, fossero appartenuti, era una macabra battaglia persa in partenza.

Gli unici riconoscibili, forse per la familiarità, forse per qualcosa di più profondo e meno nominabile, risultarono essere solo due dei corpi esanimi.

Il primo, era stato proprietà di sua madre, ed era decisamente il meno mutilato tra tutti.

La fresca bellezza che l’aveva caratterizzata da quando il figlio minore ne aveva memoria, non era stata scalfita dal rigor mortis, ma esso gli aveva aggiunto un elemento in più.

Sasuke non era più così sicuro che sua madre potesse essere definita un angelo…

Integro, a parte lo squarcio sulla schiena, era accasciato accanto alla figura, austera perfino nella morte, di suo padre.

Il ragazzino poté facilmente immaginare, perfino in quel profondo sconvolgimento in cui versava, che gli altri fossero i restanti membri di quello che era stato un magnifico clan.

Gli sembrava quasi di vedere, oltre le lunghe mura del giardino, il proseguire di quello sfacelo lungo le strade del quartiere che a quel muro erano adiacenti.

Incurante del fatto di stare imbrattandosi di rosso la pelle morbida e candida, si avvicinò ai suoi genitori.

Fu in quel momento che vide qualcosa che distrusse totalmente le sue speranze insieme agli ultimi esigui cocci della sua vita tranquilla.

Immersi in quello che un tempo era stato un liquido portatore di vita, due oggetti che si affrettò a raccogliere.

Non poteva essere…

Non poteva…

Non anche quello…

Il suo sospetto fu però irrimediabilmente confermato.

D’altronde la certezza era stata nella sua mente da quando li aveva appena intravisti.

E ora li teneva uno per mano.

Nella destra, un aikuchi, il cui taglio su un manico, segno di una vecchia missione ANBU, ne rese identificabile l’appartenenza.

Stesso concetto per la collanina che le dita della mano sinistra stringevano spasmodicamente.

Erano senza dubbio di suoi fratello maggiore.

Uchiha Itachi, primogenito del capo clan, futuro erede.

Colui a cui aveva sempre guardato più come a un Dio che come ad un fratello, ammaliato dalla sua abilità e dal suo carisma.

Evidentemente caduto a sua volta vittima di quella carneficina.

Persino niisan non aveva potuto nulla…

E lui era l’unico superstite.

Vivo in mezzo ad un lago di sangue.

Lui che respirava in mezzo ai morti.

E non poteva fare altro che rimanere lì, fuori luogo in un posto che oramai non apparteneva più ai viventi, ma senza altro luogo in cui andare.

Solo, senza più nessuna al mondo.

Con la vista appannata dalle lacrime, le uniche cose che lo trattenevano su quel piano dimensionale erano il duro del tatami impregnato di sangue su cui si era accasciato e gli oggetti appartenuti a suo fratello che stringeva fino a far tremare le piccole nocche sbiancate.

Rimase così, in mezzo ai resti della sua famiglia e della sua ormai vuota esistenza, scosso da brividi intensi, sebbene il sole emanasse un lieve tepore che poteva sembrare un tentativo di conforto.

Fino all’arrivo dei soccorsi, l’utilità dei quali gli parve alquanto dubbia.

Non c’era più nessuno da aiutare.

Avrebbe preferito lo lasciassero lì a sé stesso…a fissare quel cielo che incurante della sua tragedia continuava ad essere terso e languido…finchè la morte non avesse raggiunto anche lui.

Ovviamente non gli fu permesso.

E forse anche questa può essere annoverata tra le crudeltà dell’essere umano…

Un anno intero era passato da quel giorno.

Un anno in cui, sostanzialmente, nulla era cambiato.

Né la sua psiche né il mondo che lo circondava, salvo alcuni particolari, alla fin fine irrilevanti.

Il genocida degli Uchiha non aveva volto, né tanto meno nome.

Il motivo per il quale solo lui era sopravvissuto, risparmiato da quella che pareva una furia implacabile, rimase sconosciuto.

Il sangue non invadeva più quella grande casa, meticolosamente ripulita.

Ma, seppure tatami e terreno erano stati sostituiti, la sua famiglia non era tornata, e lui si ritrovava solo in una villa enorme rimessa a nuovo.

Pronta per essere la dimora di quello che non era niente di più che un fantasma che aveva dimenticato come si giunge al nirvana, ed era stato lasciato indietro dagli altri spiriti.

Rimaneva lì solo nell’attesa che essi si ricordassero di lui e tornassero a prenderlo.

Interminabili secondi si sommavano fino a diventare interminabili minuti.

I minuti si trasformavano lentamente in ore vuote.

Le ore si trascinavano stancamente fino ai giorni.

I giorni, non sapeva bene come, andavano avanti, fino a mesi interi di profonda malinconia.

Ed un giorno, dal baratro di torpore in cui si ritrovava immerso, si accorse di essere riuscito a trascorrere un intero anni nella solitudine più totale.

Perché non si ricordavano di lui?

Perché mamma, papà e Itachi non si ricordavano di tornare a prenderlo e non lo portavano insieme a loro in un posto dove sarebbero potuti stare tutti insieme di nuovo?

La sua presenza nella loro vita era stata così labile che nella morte l’avevano immediatamente dimenticato?

Pianse a dirotto, quella notte, di tutte le lacrime ingoiate in trecentosessantacinque giorni.

Sfogò il suo dolore che non prevedeva lenimento sull’inerme federa del cuscino bianco.

Non sapeva che quel momento di liberazione dalla propria frustrazione stava venendo osservato in silenzio dalla fronda dell’albero vicino alla finestra.

Non se ne accorse nemmeno quando, addormentatosi per lo sfinimento che le lacrime e la sofferenza acuta gli avevano provocato, la figura scivolò sinuosamente all’interno, immersa nello stesso silenzio con cui era venuta.

Facendo involontariamente frusciare la sua lunga veste nera, sulla superficie lucida della quale si riflettevano i pallidi raggi lunari, si sedette sul bordo del materasso, accarezzando appena la testa mora di Sasuke che dormiva prono.

Rimase lì, tutta la notte, spostando lo sguardo dal ragazzino di otto anni alla luna millenaria che compiva il suo abitudinario percorso sulla volta celeste, tinta di un intenso blu scuro e ammantata di stelle per fare compagnia a quel freddo satellite.

Forse messaggero di un Dio, che aveva ascoltato le preghiere di quell’anima distrutta.

Forse qualcos’altro, ma con medesime intenzioni.

Forse venuto a mostrare al ragazzino un futuro diverso da quello a cui ormai si era preparato.

Aspettava il mattino, che portava con sé il risveglio.

  
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