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Autore: Yuki Delleran    12/04/2012    3 recensioni
"«Per favore. » sibilò l’inglese, stizzito. «Se hai intenzione di fare scenate ti ricordo che siamo in un locale pubblico. »
«Nessuna scenata, voglio solo sapere cosa ci facevi con Francis. »
«Ma che diav…? »
«Arthur. »
«Cosa? »
«Voglio saperlo. »
Oh, maledizione! "
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: America/Alfred F. Jones, Francia/Francis Bonnefoy, Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: La differenza tra me e te
Fandom: Axis Powers Hetalia
Rating: giallo
Personaggi: Arthur Kirkland (Inghilterra), Alfred Jones (America), Francis Bonnefoy (Francia)
Pairings: America/Inghilterra
Riassunto: "«Per favore. » sibilò l’inglese, stizzito. «Se hai intenzione di fare scenate ti ricordo che siamo in un locale pubblico. »
«Nessuna scenata, voglio solo sapere cosa ci facevi con Francis. »
«Ma che diav…? »
«Arthur. »
«Cosa? »
«Voglio saperlo. »
Oh, maledizione! "
Disclaimer: Hetalia e tutti i personaggi appartengono a Hidekaz Himaruya.
Il titolo si ispira all'omonima canzone di Tiziano Ferro.
Note: Fic scritta in occasione del compleanno di Masuko e a lei dedicata, nonostante io continui ad essere convinta di non essere capace di scrivere UsUk...
Beta: Mystofthestars
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Il cavaliere procedeva spedito verso la meta, una lontana torre che si stagliava all’orizzonte, protetta dal più feroce dei draghi della contea. Il sentiero impervio e irto di ostacoli non avrebbe fermato né lui né la fida cavalcatura che avrebbe saputo guidarlo al meglio attraverso qualunque boscaglia. I cielo si stava via via incupendo per l’approssimarsi della notte e nell’inquietante silenzio poteva quasi distinguere i ruggiti del mostro a guardia della prigione di pietra che era la sua destinazione. Una bellissima principessa dai lunghi capelli dorati vi era tenuta rinchiusa, segregata da una perfida strega gelosa che aveva incatenato ai suoi ordini la bestia magica con un potente incantesimo. Nessun uomo, finora, era riuscito a sconfiggerla e a liberare la povera fanciulla dalle grinfie della fattucchiera. La ricompensa sarebbe stata grande, la mano della principessa certamente, ma le forze del male erano troppo potenti per essere sconfitte da un semplice essere umano.
Il cavaliere ne era consapevole, aveva bisogno del sostegno e del potere delle fate del bosco, che avrebbero incantato la sua spada rendendolo invincibile. Proprio uno di questi delicati esseri sfrecciò a pochi centimetri dal suo elmo fermandosi davanti al suo naso. Emanava un debole bagliore dorato e le sue minuscole ali si muovevano ritmicamente per mantenerne il corpo sospeso.
«Ti porgo i miei omaggi, signora del bosco. » disse solennemente il cavaliere.
La fata s’inchinò graziosamente e sorridendogli in modo soave esclamò: «Svegliati, Arthur! Le fate non esistono! »
Il cavaliere sgranò gli occhi e Arthur si destò di soprassalto, balzando a sedere sul letto.
Recuperato il controllo della situazione, sospirò e si strofinò gli occhi. Che pessimo risveglio!
Di solito i sogni erano grandi fonti d’ispirazione per il suo lavoro, ma da qualche mese non riusciva a ricavarne altro che ansie e ricordi angoscianti camuffati sotto strati di fantasie. Erano passati due anni da quando lui se ne era andato eppure ancora ritornavano, ricorrenti, le parole che gli aveva detto durante l’ultima, furiosa litigata.
«Svegliati, Arthur! Le fate non esistono, la realtà è ben diversa! »
Alfred lo aveva sempre rimproverato per il suo animo sognatore, affermando che lo portava a parlare con una frequenza inquietante di creature inesistenti. Eppure, per Arthur, razionale e concreto in qualunque altro aspetto della vita, quel lato mistico e fantastico diventato parte integrante del suo lavoro, rappresentava qualcosa di indispensabile.
Arthur Kirkland, giovane regista trentenne, aveva sempre desiderato specializzarsi nel campo del fantasy: ai suoi occhi non esisteva nulla di più affascinante che rendere concreti e tangibili i sogni che faceva da bambino. L’emozione che provava davanti alla materializzazione di personaggi fiabeschi e magici era indescrivibile e avrebbe fatto di tutto per coinvolgere più persone possibili nei mondi immaginari che spesso si era trovato a vivere attraverso romanzi, canzoni o sogni da occhi aperti. Purtroppo Alfred non era dello stesso parere.
Di cinque anni più giovane e figlio dei vicini americani della famiglia Kirkland, era cresciuto con Arthur come un fratello minore a cui quest’ultimo era molto affezionato. Amava raccontargli sempre nuove storie di maghi e cavalieri, fate e streghe, draghi e unicorni, e ogni volta si beava del suo sguardo affascinato. Lo adorava, letteralmente, e, per qualche innata convinzione era certo che sarebbe stato sempre al suo fianco. Ovviamente non era stato così. Crescendo Alfred aveva cominciato a frequentare altre persone e a coltivare altri interessi, primo fra tutti la musica, e le favole di Arthur avevano smesso di affascinarlo. Per contro l’inglese si era barricato ancora di più nelle sue convinzioni, decidendo di trasportare quel mondo incantato fuori dalla dimensione protetta dell’infanzia per farne una professione. All’inizio Alfred lo aveva sostenuto, ma l’avvio zoppicante della carriera di un regista sconosciuto non era stato non era stato semplice da sopportare. Arthur era spesso nervoso, arrabbiato con sé stesso e con il mondo che gli riservava una lunga lista di rifiuti. Perennemente alla ricerca dell’idea perfetta, aveva finito per isolarsi nel suo mondo fantastico, dando per scontato ciò che scontato non era. Nello stesso periodo Alfred aveva ricevuto una proposta che gli avrebbe consentito di debuttare come cantante country a patto di trasferirsi negli Stati Uniti ed, entusiasta alla sola idea, lo aveva annunciato all’amico. Arthur ricordava di aver reagito male: frustrato dall’ennesimo rifiuto, gli aveva praticamente proibito di andarsene, senza rendersi conto di non avere, a conti fatti, nessun diritto sulle scelte di vita di un’altra persona. Era finita nel peggiore dei modi. Alfred, profondamente irritato da quell’atteggiamento egoista ed esasperato dal trattamento che gli era stato riservato negli ultimi tempi, gli aveva risposto per le rime, dando via ad una lite furibonda, dopodiché era scomparso. Arthur supponeva che fosse effettivamente partito.
Imponendosi di non ricominciare a rimuginare su quella vecchia storia, si alzò e si diresse spedito verso il bagno. Quel giorno aveva un incontro con il produttore del suo nuovo film, quello che sicuramente sarebbe stato il suo più grande successo, e quella sera una cena per conoscere di persona il potenziale protagonista, non aveva tempo per rinvangare vecchi ricordi. Eppure, mentre l’acqua calda della doccia scivolava sulla sua pelle in rivoli confortevoli, non poté fare a meno di ricordare tutte le volte che aveva fatto ricorso ad un simile espediente per convincere sé stesso che quelle che scorrevano sul suo volto non erano lacrime. Non era mai stato tanto male in vita sua come nei due mesi successivi all’abbandono di Alfred, si era sentito come se il mondo intero gli avesse voltato le spalle, come se la luce del sole si fosse spenta, precipitandolo nell’abisso della disperazione. Aveva capito sulla sua pelle cosa significasse perdere la persona più importante e, suo malgrado, si era reso conto che quello che lo legava al ragazzo era molto di più di semplice affetto fraterno. Ad un certo punto dei tanti anni trascorsi insieme era diventato amore, ma l’aveva realizzato troppo tardi per impedirsi di buttarlo al vento.
Frustrato dall’essersi di nuovo perso in quei pensieri inconcludenti, Arthur si strofinò con forza i capelli: aveva sofferto a sufficienza, ora doveva smetterla di piangersi addosso!
Terminata la doccia uscì dal bagno a passo di carica e con una nuova determinazione negli occhi verdi: stava andando ad incontrare chi avrebbe reso possibile la realizzazione dei suoi sogni, non aveva tempo per vecchi ricordi ma solo per indossare il suo completo migliore e precipitarsi fuori casa.

Dopo un’intera giornata trascorsa in compagnia del nuovo produttore, Arthur aveva stabilito che lui e i francesi non sarebbero mai andati d’accordo. Monsieur Francis Bonnefoy era troppo espansivo, troppo spigliato e decisamente troppo libertino per i suoi gusti. Più di una volta, nel corso di discussioni che avrebbero dovuto vertere su dettagli tecnici della sceneggiatura, aveva dovuto mettere un freno alla sua mano lunga che aveva la pessima tendenza a lanciarsi nell’esplorazione di lidi proibiti. Aveva dovuto portare pazienza, evitare di rompergli in testa un piatto a pranzo, trattenersi dal colpirlo con qualunque oggetto contundente durante la visita agli studi e limitarsi a qualche strillo indignato: dopotutto Bonnefoy era quello che metteva i soldi e gli serviva.
Arrivare all’ora di cena fu una vera odissea e Arthur ringraziò che la giornata fosse praticamente finita. L’incontro con il potenziale protagonista era importante ma avrebbe lasciato che fosse Bonnefoy a parlare, limitandosi a studiarne l’atteggiamento. Se non gli fosse piaciuto, al termine della cena l’avrebbe liquidato.
Erano già seduti al tavolo da una buona mezz’ora e di quel sedicente attore neanche l’ombra: pessimo segno, indice di scarsa professionalità, Arthur gli avrebbe concesso dieci minuti la massimo.
«Non sia impaziente, monsieur Kirkland, vedrà che ne varrà la pena. » disse Bonnefoy notando la sua agitazione. «Oh, eccolo che arriva! »
Seguendo il suo gesto Arthur alzò lo sguardo e si sentì gelare.
Ah, no, questo era troppo. Il destino gli stava giocando il peggior tiro mancino del suo repertorio.
Dall’altra parte del tavolo, con ancora il volto atteggiato ad un’espressione di scusa, Alfred lo fissava con un’aria via via più incredula.
Il primo istinto dell’inglese fu quello di balzare in piedi e allontanarsi a grandi passi da quella che sempre più stava assumendo le sembianze di una trappola mortale. Istinto che però non gli impedì di notare lo sguardo perplesso di Bonnefoy che saettava dall’uno all’altro, come a voler indagare su chissà quale segreto. Poi il momento passò, Alfred sorrise e si sedette al tavolo.
«Arthur! È incredibile! È passato un secolo! » esclamò con la sua consueta esuberanza, come se nulla fosse. « Francis, perché non mi hai detto che era lui il regista che volevi presentarmi? »
«Forse perché non potevo immaginare che vi conosceste? » ipotizzò Bonnefoy con espressione maliziosa. «Quale piacevole sorpresa! Dobbiamo brindare a questa riunione! »

Quello fu solo il primo di una lunga serie di brindisi alla quale Arthur inizialmente aveva stabilito di non partecipare, vedendosi poi costretto a capitolare. Il forte sapore del vino che gli scorreva giù per la gola gli permetteva di non pensare a chi gli fosse seduto di fronte e quando, al termine della cena, si passò alla birra e successivamente al whisky, venne meno anche il proposito di tacere, valutare e decidere. Ben presto si ritrovò a tenere banco su come avrebbe dovuto comportarsi un eroe che si rispetti per sconfiggere il drago e liberare la fanciulla prigioniera.
«… E poi sguainerai la spada, che brillerà di luce magica, » esclamò balzando in piedi sulla sedia e brandendo il bicchiere mezzo pieno come se si trattasse della suddetta arma. «per conficcarla nel ventre del drago, dal quale sgorgherà sangue nero come la pece. Si tratterà di un veleno che t’infetterà, ma non per questo abbandonerai la tua missione! »
Gli giunse vagamente una voce che mormorava qualcosa di assai poco epico come: «Arthur, ti prego…»
Ignorandola, continuò a declamare il suo copione.
«Giungerai dalla principessa ormai in fin di vita e lei ti accoglierà a braccia aperte disperandosi per le tue condizioni! »
Allargò le braccia nel medesimo gesto e si sarebbe schiantato a terra se Alfred non l’avesse afferrato al volo. Abbandonandosi inconsapevolmente contro il suo petto, continuò: «A questo punto la fata del bosco vi rivelerà che esiste un solo modo per annullare gli effetti del veleno, il bacio del vero amore! »
Rosso in volto e ormai completamente perso nell’estasi del racconto, Arthur si alzò in punta di piedi, gli circondò il collo con le braccia e lo baciò.

Il taxi filava spedito per le vie del centro, il silenzio dell’abitacolo interrotto solo dalla musica discreta proveniente dalla radio di un autista particolarmente comprensivo. Alfred teneva la fronte premuta contro il vetro freddo, nel tentativo di placare il fastidioso pulsare delle tempie. Arthur era crollato appoggiato alla sua spalla.
La serata al ristorante si era conclusa in modo del tutto inaspettato. Vi era arrivato con l’esaltante idea di conoscere un giovane regista che avrebbe dato una svolta alla sua carriera, da semplice musicista semisconosciuto ad attore del grande schermo, ed era uscito dopo un incontro-scontro con il suo passato. Passato che, nello specifico, gli era piombato tra le braccia ubriaco fradicio dopo averlo baciato. A quel punto Alfred aveva detto basta, quello era troppo anche per lui, che non era mai stato un tipo particolarmente discreto. Aveva salutato Francis, si era caricato in spalla Arthur e aveva chiamato un taxi che li riportasse in hotel. L’avrebbe ospitato nella sua stanza fino all’indomani, non si fidava in nessun modo a lasciarlo solo in quelle condizioni.
Senza particolare riguardo e sentendosi enormemente a disagio, lo scaricò sul letto e si fiondò nel bagno per darsi una rinfrescata. Tra tutte le persone, tra tutti i registi che c’erano al mondo, perché aveva dovuto incontrare proprio Arthur? Alfred non era il tipo da portare rancore e, in effetti, qualunque tipo di irritazione in lui era svanita da tempo, il vero motivo del suo disagio era un altro. Ora, osservando con orrore le proprie guance arrossate riflesse nello specchio, gli tornarono alla mente tutti i turbamenti di due anni prima, quando si era reso conto dell’attaccamento quasi morboso che provava per l’amico di sempre. Per spirito di contraddizione, quando Arthur aveva tentato di tenerlo legato a sé, era scappato il più lontano possibile, ma era servito a poco. Poteva fare finta finché voleva ma i sentimenti che provava per Arthur non sarebbero scomparsi. Andarsene lontano era stato di poca utilità, il pensiero di quello che aveva lasciato lo aveva seguito fino in America, nonostante fosse consapevole di aver ferito irrimediabilmente la persona a lui più cara. Era stato convinto di non rivederlo mai più, persino quando Francis lo aveva invitato a tornare a Londra con la promessa di un provino, non aveva minimamente pensato di incontrarlo. Invece la sorte aveva deciso diversamente e ora si trovava nella stessa stanza d’albergo con l’unica persona che avesse mai amato e che, oh, God, lo aveva appena baciato.
Passandosi una mano sulla faccia nel disperato tentativo di non mettersi a strillare come un ragazzetto alla sua prima cotta, si fece coraggio e uscì dal bagno.
Nonostante la confusione emotiva quello che vide lo fece sorridere. Arthur era sdraiato sul suo letto in posizione scomposta, la camicia del completo ormai irrimediabilmente spiegazzata e i capelli spettinati. La testa reclinata sul cuscino e la bocca leggermente aperta gli davano un’espressione talmente buffa che Alfred non poté fare a meno di ridacchiare. In un flash gli tornarono alla mente altre espressioni di Arthur che aveva sempre ritenuto carine e, in un improvviso moto di tenerezza, si ritrovò ad allungare la mano e accarezzare gentilmente la guancia del ragazzo. In quel momento Arthur aprì gli occhi, lucidi per l’alcool e delle piccole lacrime a stento trattenute, e lo fissò con un’espressione così addolorata che avrebbe potuto spezzargli il cuore.
«Mi sei mancato. » mormorò coprendo la mano di Alfred con la propria, in un gesto così dolce, così poco “da Arthur”, che l’americano mise da parte ogni disagio e si chinò su quelle labbra rosee.
Era consapevole che il suo comportamento non era corretto, che Arthur non era in sé e che, se lo fosse stato, probabilmente lo avrebbe preso a pugni, ma sapeva anche che aveva sognato di toccarlo in quel modo per troppo tempo e che non gli sarebbe ricapitata mai più un’occasione del genere. Sì, probabilmente era a sua volta piuttosto brillo.
«Anche tu. Tanto. Troppo. » sussurrò sulle sue labbra mentre le mani, agendo quasi in maniera autonoma, scendevano a slacciare i bottoni della camicia.
L’impaccio delle dita sulle asole venne interrotto da Arthur che, in un impeto quasi famelico, gli circondò il collo con le braccia, trasformando un semplice sfiorarsi di labbra in un bacio appassionato e carico di desiderio. Desiderio che Alfred stesso faticava ormai a nascondere e che esplose in mani frenetiche che scorrevano sulla stoffa sfilando maniche, slacciando bottoni ed esplorando pelle sempre più calda.

Arthur non avrebbe saputo dire se a svegliarlo era stata la luce, il mal di testa o il leggero russare che sentiva accanto all’orecchio sinistro. Semplicemente aveva aperto gli occhi e, realizzato chi aveva di fianco e in che condizioni erano entrambi, aveva lanciato un urlo che aveva svegliato di soprassalto Alfred. Ora l’americano lo fissava dal pavimento, dove era ruzzolato, con gli occhioni azzurri spalancati e un’espressione ebete sul volto.
«Che cosa significa?! » strepitò. «Tu… Io… Dove siamo? Cosa… OH, MY GOD! »
«Non urlare…» si lagnò Alfred tappandosi le orecchie e tirando più a sé il lenzuolo.
Arthur lo fulminò con lo sguardo e trattenne la stoffa tra le mani.
«Invece urlo! Cos’è successo? Cosa mi hai fatto?! »
«Cosa ti ho fatto io? » ribatté Alfred balzando in piedi. «Cosa hai fatto tu! A cena. Non ti ricordi? »
«Ero ubriaco! Certo che non… Oh, per l’amor del cielo, copriti! È uno spettacolo indecente! »
«Non sembrava lo trovassi tanto indecente, ieri sera. »
Arthur arrossì all’inverosimile e lo fissò con la sua peggiore espressione indignata, senza riuscire a trovare parole abbastanza sferzanti per ribattere. La sola idea di trovarsi in una stanza sconosciuta da solo con Alfred, lo metteva in ansia, se poi ripensava a quanto successo (e lo ricordava, nonostante la sbronza lo ricordava eccome) andava nel panico totale. No, doveva imporsi la calma e andarsene il più presto possibile. Ogni minuto che trascorreva in sua presenza lo faceva sentire peggio.
Afferrò i suoi boxer, che per qualche strana legge della fisica erano finiti sull’abat-jour, e se li infilò velocemente, prima di lasciare il letto e raccogliere i suoi vestiti sparsi per la stanza. Evitò di guardare Alfred per tutto il tempo, consapevole del suo sguardo su di sé. Solo quando ormai era pronto e con la mano sulla maniglia l’americano aprì bocca.
«È stato così orribile? » chiese titubante. «Pensavo lo volessi anche tu. Arthur, è tanto tempo che io ti…»
«Sta’zitto! » lo interruppe bruscamente l’inglese. «Non dire stupidaggini, è chiaro che non lo volevo, ero solo ubriaco. Se vuoi la parte nel film, scordati di questa notte! »
Così dicendo abbandonò la stanza, sigillando al suo interno ogni carezza, ogni brivido, ogni gemito e tutta la folle speranza che quel ritrovo gli aveva portato.

La corsa in taxi fino a casa passò quasi inosservata per Arthur e, una volta che vi giunse, vi si barricò senza nemmeno alzare le tapparelle o aprire le tende. Si raggomitolò sul divano, strinse le ginocchia al petto e concentrò tutte le proprie energie per trattenere le lacrime: non esisteva proprio che ne versasse altre per quell’egoista. Di colpo tutto il peso del dolore che aveva tentato di scacciare gli ripiombò addosso facendolo tremare. Tutti quei mesi di lavoro su sé stesso andati in fumo eppure, in un angolo remoto della sua mente, fremeva al ricordo dei pochi istanti di lucidità della notte prima. Alfred gli aveva detto che gli era mancato, era stato lui il primo ad avvicinarsi e ad abbracciarlo, tutto quello che era seguito era stata una conseguenza.
Infatti.
Non era stata una sua responsabilità, lui era ubriaco e inerme, Alfred ne aveva approfittato, era stato meschino da parte sua prendersi gioco dei suoi sentimenti. Perché ormai li conosceva di certo, ma questo non gli aveva messo un freno. Era evidente che il tempo non era stato sufficiente, che Alfred lo odiava ancora e che aveva scovato il modo più crudele di ferirlo. Ed era inutile che quell’angolino nascosto della sua mente continuasse a sussurrargli che forse le intenzioni dell’americano non erano quelle di fargli del male. Perché se così fosse stato non lo avrebbe lasciato da solo tutto quel tempo, non lo avrebbe lasciato da solo ora. In fondo il suo numero di telefono non era cambiato, se gli fosse importato qualcosa avrebbe potuto chiamarlo. Arthur, dal canto suo, aveva giurato a sé stesso di non farlo mai, aveva ancora una dignità, anche se la sera prima sembrava averlo dimenticato.
Perché non era possibile, Alfred non poteva ripiombare nella sua vita in quel modo e pretendere che lui la prendesse bene. Non poteva assolutamente pensare di passarla liscia dopo quello che aveva fatto. Sarebbe stato un folle a credere che lui l’avrebbe ancora cercato.
No, non voglio più vedere la tua faccia.
Idiota.
Chiamami.
Perché non mi chiami?
Ho bisogno di te…


Alfred non aveva messo il naso fuori dalla stanza d’albergo per tutto il giorno. Si era fatto portare colazione e pranzo direttamente là perché, anche nei momenti più bui, non bisognava mai scordarsi di alimentarsi a dovere. Aveva camminato avanti e indietro dall’armadio al letto e dal comodino alla finestra per quelle che gli erano sembrate ore, un pensiero fisso in testa: Arthur ce l’aveva ancora con lui. Beh, da una parte era comprensibile, ma dall’altra Alfred non ci voleva credere. Nei due anni appena passati molto probabilmente l’inglese lo aveva detestato, anche se il suo comportamento della sera prima lo aveva indotto a pensare il contrario. (E in quel momento la sua mano si era allungata verso il telefonino.) Ma probabilmente era stata davvero colpa del vino – e della birra e del whisky. (E la mano si era ritratta, per infilarsi nervosamente in tasca.)
Non riusciva a capacitarsi del fatto che il sentimento che aveva nutrito per due anni non fosse corrisposto. Si era imposto di non cercare Arthur, di crogiolarsi in quella nostalgia struggente dell’affetto di un tempo, custodendola in un angolo del cuore, ma non era certo preparato ad una situazione del genere.
Lasciò che il suo sguardo vagasse inquieto dalla porta della stanza allo sportello del frigobar: forse iniziava a capire cosa avesse indotto Arthur a bere tanto la sera prima, anche lui aveva una gran voglia di smettere di pensare. Non riusciva a smettere di immaginare che l’inglese varcasse quella soglia e gli dicesse che poteva essere ancora il suo fratellino. Ad Alfred sarebbe andato bene anche quello pur di non avvertire più il senso di vuoto che gli opprimeva il petto.
Allungò di nuovo la mano e afferrò il telefonino. Questa volta arrivò addirittura a richiamare il numero dalla rubrica, se conosceva Arthur non lo aveva cambiato, e a premere il pulsante di chiamata.
Davvero non hai mai pensato a me per tutto questo tempo?
Io non riuscivo a togliermi il tuo pensiero dalla testa.
Ho bisogno di te…
Ho paura.
Stupido inglese, non voglio sentirti dire che mi odi.


Bonnefoy aveva dovuto trascinarlo fuori di casa praticamente a forza, arrivando a minacciare di ritirare i finanziamenti al film se quel giorno non si fosse presentato agli studi. Le riprese non erano ancora iniziate e Arthur, ai suoi occhi, era “ingiustificatamente depresso” quando invece avrebbe dovuto essere al settimo cielo. Quell’ultima minaccia era servita smuovere il giovane regista dal torpore in cui era precipitato da due giorni. Se si trattava del suo film avrebbe fatto tutto il necessario e anche di più.
Di certo non si sarebbe aspettato di trovarsi ad una seduta dal vivo della “Posta del Cuore”.
«Il tuo problema è più che chiaro, mon ami. » sentenziò Bonnefoy con fare saputo, mentre si rigirava tra le mani il bicchiere di vino appena ordinato. «E per l’esattezza si tratta di un problema con grandi occhi azzurri e un forte accento americano. »
Arthur sgranò gli occhi, in preda all’orrenda sensazione di essere improvvisamente finito sotto un enorme microscopio.
«È chiaro, è chiaro. » ribadì Bonnefoy. «Il caro Alfrèd è il tuo ex amant? Un vecchio pretendente? Una fiamma non ricambiata? »
Arthur balzò in piedi, pallido e con lo sguardo acceso dall’ira, ogni traccia di imbarazzo ormai superata. Come si permetteva, quel francese da strapazzo, di impicciarsi e fare ipotesi sulla sua vita privata? Oltretutto facendo dell’ironia su una ferita ancora aperta.
«Come si perm…! »
«Oh, suvvia, suvvia, calme-toi, Arthùr, s’il te plaît. » lo interruppe di nuovo Bonnefoy passando con allegra disinvoltura all’uso del tu e del nome proprio. «Non è mia intenzione prenderti in giro, sono solo preoccupato che il mio regista non svolga il suo lavoro al meglio. Non è nel mio interesse sprecare soldi per un progetto scadente, quindi intendo adoperarmi perché tu sia al top della forma.»
Così dicendo, si alzò a sua volta e circondò con un braccio la vita di Arthur, attirandolo a sé. Allibito da quel gesto improvviso e apparentemente fuori contesto, l’inglese ritardò un secondo di troppo le proteste e si ritrovò con le labbra dell’altro ad un centimetro dalle proprie.
«Wait! Wait! Wha…! »
«Arthur! »
La scena si gelò in quel preciso istante, con Francis che tentava di baciarlo, Arthur con gli occhi spalancati e Alfred, appena entrato nel locale, che li fissava sconvolto. Nel momento in cui l’inglese si divincolava dalle braccia del produttore, il giovane americano lo afferrò allontanandolo bruscamente dall’uomo.
«Alfred! »
«È per questi che te ne sei andato lasciandomi da solo come un idiota? »
«Questo cosa? Farnetichi! »
«Alfrèd, mon cher, credo tu sia vittima di un fraintendimento. »
Nella confusione del momento entrambi fulminarono Francis con lo sguardo.
«Credo che tu ora te ne debba andare. » sentenziò Alfred in tono freddo e decisamente inusuale per uno come lui.
Il francese alzò le mani in segno di resa e si allontanò, non prima di averli salutati entrambi con un sorrisetto sghembo.
Alfred invitò Arthur a tornare a sedersi, per poi prendere posto di fronte a lui.
«Per favore. » sibilò l’inglese, stizzito. «Se hai intenzione di fare scenate ti ricordo che siamo in un locale pubblico. »
«Nessuna scenata, voglio solo sapere cosa ci facevi con Francis. »
«Ma che diav…? »
«Arthur. »
«Cosa? »
«Voglio saperlo. »
Oh, maledizione! Arthur si passò una mano sugli occhi e poi tra i capelli, esasperato. Quella situazione rasentava l’assurdo. L’insistenza di Bonnefoy per vederlo, il suo comportamento, il tempismo di Alfred, era troppo per essere del tutto casuale.
Sospirò.
«Non facevo nulla. » si risolse infine a rispondere. «Mi ha imposto di uscire, minacciando di ritirare i finanziamenti al film, dopodiché mi ha fatto uno stupido terzo grado e… il resto lo hai visto. »
Non riuscì a trattenersi dall’arrossire e dall’abbassare gli occhi, a disagio. Sentiva un’inspiegabile nodo di colpa in fondo allo stomaco all’idea che Alfred avesse assistito a quella scena. Sensazione, tra l’altro, troppo contraddittoria per essere rivolta a qualcuno che aveva appena rifiutato (o almeno quella avrebbe dovuto essere l’intenzione).
«Perché ti ha imposto di uscire? Significa che te ne stavi chiuso in casa? »
Da quando Alfred era così perspicace? Questa di certo non era una buona cosa.
«Se pensi che me ne stessi a rimuginare su quello che è successo l’altra notte, ti sbagli di grosso! » sbottò infine Arthur, troppo sotto pressione per rendersi effettivamente conto del significato delle proprie parole.
L’espressione di Alfred, fino ad un attimo prima corrucciata e indagatrice, si addolcì.
«Prima credevo che fosse impossibile, ma adesso ne ho la certezza assoluta. »
«Ah, per favore, non dire scempiaggini! »
Per la prima volta da anni Arthur si trovava nelle condizioni di non saper gestire la situazione. Aveva l’orribile sensazione di essere tornato indietro nel tempo a quando Alfred gli parlava come se niente fosse, quando non c’erano problemi tra loro e lui era la cosa più importante. Era spiazzante, debilitante e riportava alla luce tutto il dolore che aveva patito. Non voleva pensare alla possibilità di illudersi di nuovo. Se avesse permesso all’americano di avvicinarsi, nel momento in cui l’avesse abbandonato, e sapeva che sarebbe successo, sarebbe stato di nuovo male come due anni prima. Aveva faticato a riprendersi, a convincersi che la vita proseguiva, che esistevano mille cose più importanti di quel sorriso che aveva illuminato l’esistenza ed era riuscito, a fatica, a fingere che andasse comunque tutto bene, che non avesse bisogno di lui, che non ne avesse mai avuto. Rompere quell’equilibrio significava rischiare di trovarsi di nuovo con il cuore a pezzi e Arthur non era certo di poterlo sopportare. Inoltre lo irritava terribilmente il fatto che Alfred si rifacesse vivo in quel modo dopo due anni di silenzio, osasse venire a letto con lui e addirittura fargli delle domande di cui pretendeva una risposta. Era un comportamento assolutamente inammissibile.
In ogni caso qualunque tipo di rapporto tra loro non avrebbe funzionato, Arthur lo sapeva già, erano troppo diversi. Lui era sempre stato pacato e riflessivo, con qualche occasionale scoppio d’ira, certo, ma fondamentalmente pacifico. Alfred, al contrario, aveva una personalità esuberante e spumeggiante, era in continuo movimento e sprizzava energia da tutti i pori. Arthur era un amante del buon tè inglese, Alfred s’ingozzava di hamburger e bevande ipercaloriche. Arthur si era sempre considerato un gentleman, Alfred aveva modi sguaiati e invadenti. No, non avrebbe mai funzionato. A volte si chiedeva come fosse possibile che si fosse innamorato di un tipo così.
Di fronte a lui, l’americano si schiarì la voce.
«A proposito, l’altra sera non abbiamo avuto modo di parlare molto. Come stai? » chiese rivolgendogli uno dei suoi sorrisi solari, che gli illuminavano gli occhi e facevano sembrare il mondo un luogo pieno di luce.
Oh, ecco perché.
Bastò quel piccolo particolare e Arthur ebbe l’impressione che i pezzi del puzzle del suo cuore, sparpagliati per anni in un ammasso confuso, fossero magicamente tornati a posto. Forse non era necessario porsi tutte quelle domande, forse sarebbe bastato accettare ciò che aveva di fronte e che gli veniva offerto con la freschezza e la schiettezza di un sentimento mai davvero sopito dagli anni.
Abbozzò un sorriso imbarazzato e borbottò: «Sto bene. Potresti… potresti venire a cena, una sera di queste. Potremmo parlare del film… e di altre cose. »
Lo sguardo di Alfred s’illuminò come se gli fosse stata appena promessa la luna.
«Potremo parlare anche dell’altra sera? E di noi? Sai, è stato Francis a chiedermi di venire qui, oggi. Probabilmente sospettava già qualcosa. Parleremo anche di questo? Perché tutti capiscono al volo che siamo fatti l’uno per l’altro. Solo tu non hai mai…»
«Oh, sta’ zitto! » sbottò Arthur, brusco come sempre.
Controllò che nessuno nel locale li stesse osservando, poi lo afferrò per il colletto della camicia e lo attirò ad un centimetro dal proprio naso.
«Adesso baciami! È una vita che aspetto. »
E Alfred, raggiante, non se lo fece ripetere due volte.
   
 
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