In front of the sky
sono solo stasera
senza di te,
mi hai lasciato da solo davanti a scuola,
mi vien da piangere,
arriva subito,
mi riconosci ho le scarpe piene di passi,
la faccia piena di schiaffi,
il cuore pieno di battiti
e gli occhi pieni di te.
Jovanotti - Le tasche piene di sassi
Lo zaino pesa sulle spalle. Il venticello di aprile
le fa muovere le trecce bionde, ogni tanto le finiscono sulle labbra.
Si siede sugli scalini, la cartella delle
principesse Disney scivola vicino alle sue gambe. Stende le ginocchia, si vede
il numero trentasei sul velcro delle scarpette.
«Se ne sono dimenticati?»
«No.» risponde ancor prima di capire chi le ha fatto
la domanda. Tanto sa che quella è la risposta giusta.
Veronica Parker, della quarta A, porta una tracolla
che sembra storcerla un po’. Fa un sospiro e anche lei la poggia sulle scale.
«Mia mamma chiude il bar fra dieci minuti.» Lizzy è
andata un sacco di volte al bar della mamma di Veronica; la signora vende un
gelato al fior di latte che le fa dimenticare tutti i dispetti di Ian.
Veronica si siede accanto a lei, i capelli neri e
lunghi che le cadono sulle spalle, lisci.
«Forse mia mamma è andata a fare la spesa.» Lizzy si
sistema la gonnellina a quadri. Lo stesso pomeriggio Waltie Water ha provato ad
alzargliela, quello sbruffone. Menomale che lei è sempre pronta a proteggersi
con l’album dei disegni.
«Vuoi?» Veronica le offre una barretta di
cioccolato, quella con la carta rossa e bianca della pubblicità.
«Grazie.» Lizzy accartoccia la carta e la poggia
sulle gambe. Oggi è il suo giorno fortunato, ha avuto un cioccolatino anche da
Lucy, per la nascita del suo fratellino.
«È al latte, ti piace?»
«È… il mio pfefefito.»
Veronica ride, ride con gli occhi chiusi, le si
separano tutte le ciglia.
«Pufe il
mio!» È una risata rumorosa, assomiglia ai piatti che sbatte il maestro Wilkman
nell’aula di musica.
«Ma tu sei Lizzy frizzy?»
Il sapore del cioccolato le pizzica la lingua,
forte.
«Chi te lo ha detto?»
«Walter.»
«Waltie Water?»
«Sì! L’altro giorno era al bar della mamma e stava
ridendo. Gli si vedeva tutto l’apparecchio.»
«È proprio stupido.» Il gusto del cioccolato sta per
sparire, le dispiace tanto.
«Sì, si vede da lontano.»
«Mi chiama così perché alla festa di Dina… ho
cercato di aprire la coca-cola e mi è andata addosso… »
«Ah-ah!»
«Almeno ci ho provato e non ho aspettato il cugino
grande!» Lizzy si sistema la giacca blu, quella con le fatine sulla tasca
laterale. Abbassa la voce, come se stesse dicendo un segreto. «Stava facendo
dei versi strani dallo stanzino… con la baby-sitter.»
«Ve… Veramente?»
«Sì, doveva farci da baby-sitter anche lui, ma ha
fatto tutto tranne quello.»
«Ma i maschi sono sempre così scemi?»
«Spero di no! Altrimenti non mi sposerò mai, nemmeno
se quello che incontro è bello come quello del film della nave che affonda.»
«Jack?»
«Non si chiama Leo?»
«Ah, boh!» Veronica scrolla le spalle. Ha l’uniforme
rossa, come tutti i bambini di quarta elementare. «Comunque, tu sai come mi
chiamo?»
«Sì, Veronica. Vai in quarta A.»
«No, per piacere, è *orribilissimo. Ronnie.»
«Va bene. Però tu non chiamarmi Lizzy frizzy.»
«Ovvio!»
Sorridono.
Ora stanno bene così, non sono sole. Se sono
insieme, non lo saranno mai.
«Ma quello chi è?»
Un bambino ricciolino corre verso la parte della
fermata del bus, veloce, senza trattenere l’affanno.
«Ah, è Peter della quinta C, oggi l’hanno messo in
punizione, sarà per quello che l’hanno fatto uscire più tardi… oh, è arrivata
la mamma!» Adesso il sorriso di Ronnie dà molta più luce dei lampioni lì
vicino, soprattutto sulla sua carnagione dorata.
Ronnie alza la mano a mo’ di saluto; i fari della
macchina grigia – sicuramente è una station wagon, l’ha visto in tv, nella
pubblicità con la musica classica – si spengono all’improvviso. Una signora con
i capelli scuri scende dall’auto, Ronnie le corre incontro.
«Tesoro,
aspetta un attimo.»
Lizzy non aveva mai visto la signora Parker senza
grembiule. La sua voce è gentile, pacata, somiglia tanto a quella della sua
mamma. Forse un po’ tutte le mamme si somigliano.
«È vero! Stavo dimenticando la tracolla!» Ronnie
ritorna indietro, «Ciao, Lizzy.» le dice.
«Ronnie, un momento… tu sei Lizzy Audley, vero,
piccola? La figlia di Annie?»
Gli occhi della signora sono lucidi e chiari,
sembrano non aspettare altro che parli.
«Sì, sono io.» risponde lei.
Il sorriso della signora si spegne.
«Vieni, stasera starai a casa nostra, potrai giocare
con Ronnie.»
Il sorriso ritorna, ma non assomiglia per niente a
quello che aveva prima.
«Mia mamma deve venire a prendermi.»
«Non… non verrà, stasera.»
«E perché?»
«Ti spiegherà tutto tuo padre… e… Ronnie, di’ alla
tua amica… sono buone le mie frittelle? »
«Sì! Sì, Lizzy, che bello! Vieni, sono buonissime.»
Ronnie le prende la mano, sorridente.
Lizzy non ha tanta voglia di sorridere, le sembra
tutto troppo strano, anche quando sale in auto e alla radio c’è una canzone che
conosce a memoria. La mamma la canta sempre, ma è bella soprattutto se cantata
dalla sua voce.
Dopo la serata a casa di Ronnie, Lizzy tornerà a
casa e rivedrà la piccola Silvya, di quasi un anno.
Papà abbraccerà lei, la mamma e la piccolina; si
sentirà un profumo buonissimo.
I capelli rossi di mamma danno di fiori, come la
camomilla che si prepara per dormire. La camicia di papà sa di menta, come il
dentifricio sullo scaffale. Quando ha un po’ di barba la graffia, ma Lizzy ride
perché le fa anche il solletico. Silvya dice un sacco di cose ma non si capisce
niente di niente. Ridono tutti, e le risate sono come i rumori dei cucchiaini
sui bicchieri di cristallo.
È come la musica.
Non vede l’ora di risentirla.
Non sono mai tornata a casa.
Mia madre non è più venuta a prendermi da scuola, e nemmeno
mio padre.
La porta cigolava, quando entrai nel salone, e non
me ne ero mai accorta prima. C’erano tanti fiori, talmente tanti da far venire
il mal di testa.
Era finito tutto.
Ronnie mi aveva tenuto la mano. Avevo sentito sua
madre piangere al telefono, la sera in cui ero andata a casa sua. Le frittelle
e le barbie mi avevano annebbiato il suono e la prova della morte di mia madre.
Quella non era più la mia casa.
Mio padre mi seguì, da dietro. Per poco non fece
cadere il passeggino dove teneva Silvya, che dormiva beata, che non sapeva
niente.
Si sbatté la porta alle spalle.
Era un giorno d’aprile e pioveva, si sentiva l’acqua scorrere sulle finestre. Mio
padre aveva gli occhi gonfi, arrossati, indossava un abito elegante come al
matrimonio di zia Bonnie. Si passò una mano sulla fronte, e in quel momento mi
accorsi di quanto potesse sembrare vecchio… con i capelli biondi, gli occhi
azzurri, e un viso con delle rughe che non gli avevo mai visto. Il suo viso,
quello che io mi divertivo a tirare da ogni parte e lui rideva e ridevo
anch’io.
«Hai fame?»
Mio padre tossì, forte.
«Papà…»
Ci
sono io con te, papà. Ci sono io. Hai solo sonno, è per questo che hai questa
voce. Ce la faremo, basta mettere le brioches nel forno la mattina, il latte in
quello piccolo che si chiama microonde, no? La mamma lo chiamava sempre così.
«Forse… forse abbiamo degli avanzi de… dell’altro
giorno.»
«Ci siamo noi.» Corsi contro le sue gambe, mi
aggrappai alla stoffa liscia dei suoi pantaloni, l’odore di tabacco, cuoio e
menta.
«Lizzy…»
«Papà, ci sono io, c’è anche Sil. E la mamma…»
Lo sentii sospirare, abbassarsi. Abbracciarmi
ancora.
Era buono, l’odore di mio padre.
Era tutto quello che avevo.
Voltò lo sguardo e lo fissò nei miei occhi per
pochissimo tempo, quel tempo che mi fece desiderare di non esserci mai stata.
Perché mi guardò come se avesse visto qualcosa di
brutto.
«La mamma è morta.» disse.
Morta.
Che
parola è? Non la conosco, papà. Perché la dici? Non la dire, mi fa stare male.
Vuoi che stia male? Papà, perché non dici più niente? Perché? Le brioches vanno
nel forno, il latte in quello piccolino che si chiama microonde, ti posso aiutare…
Ma non lasciarmi da sola, ti aiuto io. Silvya piange poco, è buona. Saremo
buone ma tu resta. Ho paura del buio, lascia la luce accesa. Ma resta.
In quel momento, a otto anni, sentii qualcosa di
incredibilmente pesante sulle spalle, molto più pesante di uno zaino con libri
e quaderni.
Mio padre era malato, ed io non potevo guarirlo.
Riuscii a prendere in braccio mia sorella, anche se
si lamentava spesso. Dovevo stare attenta a salire le scale e a non farla
cadere, la prendeva sempre in braccio la mamma quando andavamo al piano di
sopra.
L’avevano messa in una cosa di legno, nella sua
stanza da letto, non mi ricordavo come si chiamava, era solo la cosa di legno con cui avevano messo sotto
terra mia madre. Lei aveva dei graffi lungo le braccia… l’incidente l’aveva uccisa
sul colpo.
Il giorno del funerale mio padre coprì la mamma con un velo bianco… poi si accasciò sul letto, la foto del matrimonio di fronte a lui: mia madre con il vestito bianco, lui che la stringeva, Annie e Frank sposi – Seattle 1989.
Vidi
le sue spalle incurvarsi, le sue spalle diventare sempre più curve… credeva che
non ci fosse nessuno ma c’ero anch’io.
Corsi via. Lizzy,
non correre. Dove vai? Voci, voci di tante persone.
Piansi. Piansi con la nonna, piansi con Ronnie che
era troppo piccola per capire, piansi chiusa in cameretta, davanti alle bambole
con il sorriso disegnato in faccia.
Era mia madre, e non si svegliava.
Più
nessuno a raccontarmi le fiabe la sera. Cenerentola perde la scarpetta e poi il
principe la ritrova. Più nessuno a rimboccarmi le coperte, a darmi il bacio
sulla guancia la sera. Ma non mi importa se ci viene qualcun altro, voglio la
mamma.
Non si svegliava più.
Qualche settimana dopo mio padre ricominciò a
parlare e ad andare a lavoro, ma non mi guardava mai.
I miei capelli stavano cominciando a scurirsi. Ero
proprio davanti allo specchio, quando lo sentii parlare al telefono. Mio padre
disse di sì dopo nemmeno trenta secondi.
Uscii dalla stanzetta con le treccine un po’ storte,
avevo imparato a farle da sola.
Mio padre partì qualche settimana dopo per l’Alaska.
Sarebbe ritornato solo due volte l’anno.
Oggi ho quindici anni, è un normale giorno di
aprile; mio padre non è venuto per anniversario di mamma, anche se aveva
promesso. Guardo il cielo verso la finestra, piove proprio come quel giorno.
Ho dato il mio primo bacio due mesi fa al gioco
della bottiglia e la prima cosa che mi viene in mente da dire è appiccicoso.
Sì, quello lì – com’è che si chiama? Ian? Mi faceva
i dispetti alle elementari – può anche essere carino ma bacia male.
Mia nonna ha fatto la pizza e Silvya sta guardando
“Il re leone” nel DVD di casa. Va tutto bene, in fondo. È passato tanto tempo e
i suoi capelli rosso fiamma – ondeggiano al sottofondo di “Hakuna matata” –
sembrano quelli di mamma.
La sento sempre con me: la sento nei fiori alla
camomilla, nelle risate di Silvya, nei centimetri di altezza che cresce.
Va tutto bene.
«Allora, cosa faccio?» La voce di Ronnie mi arriva
alle orecchie, squillante. Non è il momento di guardare “Il re leone”.
«Come cosa fai? E me lo chiedi!»
«E che ne so! Sei tu quella che deve consigliarmi.»
Sospiro, senza trattenere un sorriso. Ronnie mi dà sempre
tanto a cui pensare.
«Tu gli piaci, lui ti piace… »
«… Sesso? »
«Così presto?» Scoppio a ridere, mentre Ronnie
soffoca nella sua stessa risata, gli stessi capelli neri, lo stesso sorriso
bianco e la stessa carnagione dorata.
«Dai, chiamalo… andrà alla grande.»
«Dici?»
«Peter mi sembra un tipo a posto.»
«Ed è così… bello. E simpatico… lo sai che sa
suonare la chitarra?»
«Me l’hai detto cinque volte.» Prendo in mano il
cordless e faccio segno di darglielo.
«Quindi? » fa lei.
«Chiamalo.»
«Mi vergogno.»
«Ma scema.»
«Scema tu.»
«Compongo io il numero?»
Ormai lo so a memoria, l’ha ripetuto così tante
volte che potrei scriverlo con gli occhi chiusi.
«Lizzy, Lizzy, aspetta… Ma che dico? »
«Come che dici? Lui ti ha detto: “Vuoi uscire con me
Venerdì sera?”. E tu rispondi :“Sì, Peter, voglio uscire con te”. »
«Ah.»
«Eh.»
«Oh.»
«Vuoi dire tutte le vocali?»
«Acida.»
«Non è vero, lo sai.»
«No.»
Ronnie ci ha messo due ore per chiamare Peter, il
bambino con i capelli ricci che avevo visto correre verso la fermata del bus.
Oggi è uno dei ragazzi più carini della scuola; non
è un tipo che se la tira, no. O forse sì.
È strano come si intreccino i percorsi di tutte le
persone. Il mio segue una linea tutta sua, non so ancora chi mi farà inciampare.
Spero solo di non ferirmi, quando succederà. Spero di avere sempre la forza di
rialzarmi.
A capodanno Ronnie ha mischiato Vodka e aranciata,
se l’è trovata sotto il naso il fratello. Il piccolo Tyler ha cominciato a
cantare la sigla dei pokèmon a squarcia gola, nessuno capiva cosa gli fosse
preso. Ronnie è corsa in bagno, è diventata tutta rossa per le risate ed io con
lei.
Poi però diventa timida all’improvviso, come quando
deve chiamare un ragazzo per dirgli che vuole uscire con lui.
«Visto? Era così difficile?»
«Devo trovarti un ragazzo.»
«Buonanotte.»
«Che ne pensi di Mark?»
«È solo un amico e non è il mio tipo.»
«Non devi fidanzarti per forza con Leonardo Di
Caprio.»
«Ma in “Titanic” è così… bello!»
«Intendi scopabile?»
«È un artista!»
«… povero.»
«Il ragazzo non lo cerchi, il ragazzo ti trova.»
«Filosofica.»
«Realista.»
«Ah-ah! Tu?»
«Sì, io.»
«Mi mollerà la prima sera.»
Peter le ha lasciato un foglietto nell’armadietto
con due biglietti per il cinema.
Si sono baciati alla terza uscita. Subito dopo Ronnie
è corsa a casa mia, mi ha abbracciato e mi ha detto: «Ti farò una statua,
Elizabeth Elle.»
«Esagerata.»
«Ti voglio bene.»
«Anch’io… Veronica.»
«Non chiamarmi così, scema!»
«Scema tu!»
Aveva già cominciato a camminare sulle nuvole e mi
ha portato con sé.
Non
ci credo.
Ronnie sognava di fare la ballerina, e entrare nella squadra delle cheerleader le avrebbe dato punti per entrare alla Juliard. Per gli ultimi due mesi ci siamo sentite sempre meno, gli allenamenti la impegnavano tanto e quelle streghe non facevano altro che assillarla. Secondo lei erano molto più brave ed esperte, ma Ronnie era sempre stata la migliore. Sono anche uscita con loro, qualche volta; mi sono anche convinta che potessero essere simpatiche.
Che cosa non si fa
per le amiche?
Alla fine della stagione dello sport e degli
allenamenti saremmo ritornate a correre al parco, a mangiare il gelato alle
fragole e al cioccolato insieme… e a cantare le canzoni di Brian Adams per
strada, con Peter che ci guardava male e poi rideva con noi. Di solito ci
incontrava con Waltie Water – Walter – Dina, Mark e Lucy. Peter dava un bacio
sulla guancia a Ronnie e poi se ne andavano insieme.
Non
ci credo.
Io e Peter abbiamo visto insieme il suo ultimo
saggio di danza. Ronnie si era già fatta le meches arancioni; aveva un vestito
bianco, quasi trasparente.
Sembrava una fata.
«Sta benissimo, vero?» ho detto io.
«Sì.» Peter si è voltato verso di me, gli occhi
marrone cioccolato a illuminare il buio. «È splendida.»
Ronnie era in segreteria, con tanti moduli in mano,
una matita posata sull’orecchio. «Ehi, Ronnie, oggi vieni a casa mia?» Mi ha sorriso.
«Ma certame…»
«Ronnie, oggi ci sono gli allenamenti, non vuoi
mancare, vero?» Le si è avvicinata Cassie, con una gonna che sembrava solo un pezzo
di stoffa appiccato sul basso ventre. Ronnie mi ha guardato, senza trattenere un
sospiro di amarezza.
Non ci siamo mai più riviste.
Ho ancora il suo ultimo messaggio, me l’aveva
mandato qualche ora dopo.
Devo
dirti una cosa importante. Domani ci vediamo per forza, allenamenti a quel
paese. Mi manchiiii.
Peter è partito due mesi dopo la sua scomparsa, dopo il diploma.
Non ho più saputo niente di lui.
Ho perso.
Ho perso di nuovo.
Non
ci credo.
Mi tremano le mani.
Ho diciassette anni ed è un piovoso giorno di
aprile. Siamo nel garage di Kyle e Jake mi tiene stretta, mi accarezza i
capelli, mi tocca il viso.
Io tengo gli occhi chiusi, sto ancora tremando.
L’immagine del lupo rosso che taglia l’aria davanti
a me potrebbe essere quella di un sogno. Invece è quello che ho visto solo
mezz’ora fa. E questa è stata una mezzora piena di parole, cose impossibili e
voci spezzate.
L’interrogatorio della polizia è stato sufficiente a
togliermi il sonno la notte insieme al pensiero che a Ronnie fosse successo
qualcosa di orribile. All’inizio pensavo che avesse fatto qualche cavolata con
Pete, ma lui non sapeva niente; non riusciva a parlare senza voltare il viso
con le parole che gli affogavano in bocca. I giornalisti erano sempre davanti
alla scuola. Mi hanno chiesto quando l’avevo vista l’ultima volta, io sono
scappata…
Peter non ci è riuscito. Peter era maggiorenne e
appariva in televisione proprio com’era. Il sorriso da sono il ragazzo figo schiacciato sotto i piedi. Una domanda, due
domande e gli si rompeva la voce.
«Eri innamorato, vero?» Peter metteva la mano davanti
alla telecamera.
Lo hanno visto tutti.
Non
ci credo.
Il sonno è ritornato… forse per tutta la stanchezza
di quei mesi. E di notte mi ha salvato l’oblio, che mi faceva dormire senza
sogni né incubi.
Poi è arrivata la rassegnazione. Un comportamento
che non ha spiegazioni e che fino a questo momento aveva quasi retto.
Come da quel giorno di maggio, al progetto di
scienze per le terze e quarte classi, ora non mi rimane che guardare un banco
vuoto, freddo. Qualche cuore scritto con un pennarello indelebile.
R
&L. «Ronnie, aggiungi
“Mitiche” sotto.»
Sospiro
rumoroso. «Scrivilo tu.»
«E
dammi la penna!»
«Si
è scaricata!» Risate.
«Vedo
che la fotosintesi vi fa ridere, signorine.» Scuse sussurrate.
È un posto che nessuno ha ancora il coraggio di
occupare anche solo per pochi minuti o comodità.
Il
suo.
La mamma di Ronnie ha chiuso il bar un mese dopo,
solo da cinque mesi è stata rimessa dalla clinica in cui era stata ricoverata
per depressione. L’altro giorno l’ho vista al supermercato, lei ha evitato il
mio sguardo.
«Liz?»
Ronnie è morta.
Morta.
Lei ha offerto la cioccolata, lei mi ha abbracciato
al funerale, lei mi ha aiutato in ogni momento triste, io ho aiutato lei ogni
volta che aveva bisogno di aiuto.
«Liz, per favore…»
Jacob.
Il ragazzo del parcheggio. Capelli neri, sorriso.
Chi
sei?
Il ragazzo per cui mi sono presa una cotta. Pelle scura, occhi liquidi.
Il ragazzo che mi ha detto la verità. Manto rosso, lo stesso sguardo.
«Non te ne andare.»
Vampiri,
leggende… che cos’è tutto questo?
È
un incubo.
Adesso
siamo legati per sempre?
Non
lo so. Non so niente.
«Liz, se vuoi che rimanga resto.»
«Resta.»
Sto ancora tremando, sto ancora piangendo.
Non
ci credo.
«Ma… Perché? » dico. «Come… com’è possibile…»
«Non lo so.»
Ronnie, capelli neri, sorriso, meches arancioni.
L’hanno presa, morsa alla gola, tre giorni di dolore.
Risveglio, esercito, mostro.
Sangue, mesi, morta.
È finita così.
«Non lo so, Liz.»
Sospiro, voglio aprire gli occhi, voglio guardarlo. Perché
c’è tanto buio, qui?
Jacob mi guarda, ci separano solo pochi centimetri.
Ora c’è la luce.
«È tutto uno sbaglio… » Si alza, mi lascia.
«No.» La mia voce è rotta. «Tu non vuoi che io… tu
ed io…»
«Cazzo, non voglio metterti in pericolo.»
«Ci pensi adesso? »
«Non volevo più nascondermi.»
«Non ti nascondere.» Dio, non riesco a parlare.
Prendo un respiro profondo. Non posso perdere tutto, non posso perdere anche
lui. Anche se è un muta-forma, anche se il suo compito è uccidere i vampiri. «Io
voglio… voglio sempre la verità.»
E se quella sera avessero preso me? Se fossi andata
io a casa di Ronnie? Sarei stata trasformata e ora sarei morta e…
Jacob mi viene incontro all’improvviso, passa un
secondo e sono di nuovo aggrappata a lui, ora non tremo più.
«Ti amo.» La sua voce è roca, mi fa venire i brividi
sulla pelle.
Sto per rispondergli.
Jacob mi prende il viso fra le mani, mani ruvide,
grandi.
Mi bacia, mi bacia come non mi ha mai baciato prima.
Sento il suo corpo premere contro il mio, le gambe intrecciate, il fiato che
non basta più, la lingua, la lingua nella mia bocca, giorni di pioggia, giorni
passati, giorni che arriveranno.
Un altro ragazzo avrebbe fatto finta di niente, io
sarei rimasta la fidanzata che crede che sia tutto normale quando tutto è il
contrario.
Le
mani, le labbra, i sospiri.
Non voglio credere in qualcosa che non esiste, e lui
esiste davvero.
Lui è qui con me.
«Anch’io ti amo.»
Mi passo una mano fra i capelli, mi fanno male gli
occhi.
Non so cosa avrei voluto. Non so se avrei voluto
credere che Ronnie stesse bene, ovunque fosse, e che un giorno sarebbe tornata
a casa.
Penso a mia madre.
Non so se c’è un paradiso, o se l’anima si reincarna
o se tutti finiremo nello stesso posto. Voglio solo che lei e Ronnie stiano
bene.
«Liz… Liz, è la cosa più pericolosa che possa
esistere.»
«Non dirò niente a nessuno.»
È un segreto. È un segreto che era solo suo e che
ora è anche mio.
Adesso è nostro.
«Non permetterò che ti succeda mai niente. Non
starai mai male per questo, mai più.»
Quasi trema, lo sento nell’abbraccio in cui mi stringe.
Gli accarezzo il viso, non so dove guardare: perché
se il mio sguardo cade sugli occhi mi gira la testa e se finisce sulle labbra potrei
perdere quel poco di ragione che mi è rimasta.
«Non succederà.» Mi appoggio a lui, gli occhi chiusi, il fuoco dentro. Sento le sue mani scendere sulla mia vita. «Non succederà.»
È arrivato un altro giorno di pioggia.
Si volta un attimo, sono alla finestra. Intrappolata
in una morsa invisibile che mi fa soffocare.
Tornerò.
Leah guarda i ragazzi allontanarsi. Non voleva fare altro
che combattere ed è costretta a restare qui con me ed Emily. Il mio riflesso si
distorce nel vetro. Forse ama Brian a tal modo da rinunciare a una cosa così
importante solo perché gliel’ha chiesta lui.
Il tempo non passerà mai. E il pensiero di Jake, dei
Volturi e del pericolo sarà sempre nella mia mente. Da giorni non fa altro che
bucarmi il cervello.
Mi siedo e sfoglio quel vecchio libro della tribù di
Opstead; è come se le pagine scorressero a rallentatore, il tempo passa e io
tremo. Non trascorrerà senza farmi sentire sul punto di accasciarmi a terra per
il terrore.
Leah si versa un po’ di caffè e la caraffa le
scivola dalle mani. Sussulto, ormai è fin troppo facile. Emily le si avvicina.
«Ti aiuto.»
«No.» Il caffè sporca il tappeto fra i pezzi di
vetro.
Devi
stare calma.
Non
ci riesco.
Andrà
tutto bene.
Non
ci credo.
Comincio a leggere qualcosa verso il centro del tomo,
respirare in modo normale è un obbiettivo ancora lontano; Emily sbatte la porta
del bagno, la sento piangere. La parola
“Imprinting” mi si intrufola nella testa.
Non ne uscirà mai più.
*
*
Salve gente!
*Ania offre cioccolatini per tirare su di morale*
Grazie mille per aver letto. C'è anche un'anticipazione di quello che succederà nei prossimi capitoli di DH :D (la faccina sorridente forse non è molto appropriataxD )
Ringrazio tantissimo Postergirl84 che ha letto questa storia prima di tutti e mi ha dato la sua benedizione, passate a leggere L'inizio di sempre <3
Virgy, se ti piace è tutta tua. Non vedo l'ora di commentare uno ad uno i capitoli di Moonglow quando la riposterai <3 Non smettere mai di scrivere <3
*orribilissimo: so che in italiano non esiste, ma ho sentito dei bambini parlare ed è scappato queto aggettivo XD è una licenza poetica, diciamo :D
Per quello che succede: chi ha letto DH si ricorderà di Ronnie, mi dispiace di non poter inserire il link del capitolo in cui appare per un problema. Penso che la prossima settimana non riuscirò ad aggiornare, mi dispiace. Vi ringrazio tanto per il vostro sostegno <3
So che S. Meyer ha scritto un libro su Bree, la vampira neonata che viene uccisa dai Volturi in Eclipse, ma io non l'ho letto. Non so se la storia di Ronnie è simile alla sua, ma questo è esattamente quello che è successo. E' probabile che in fututo ne sapremo di più.
Ci sono sempre dei ringraziamenti speciali da fare, perché ho delle persone bellissime che mi vogliono bene. So che loro sanno quanto sono importnati per me. Grazie a tutti voi che leggete, se volete potete lasciarmi due parole.
Grazie davvero.
Un bacio
Ania.