Per chi non mi conoscesse, diciamo che sono un'habitué di questo fandom, ma non è di Twilight che voglio parlarvi in questo momento. Prima di lasciarvi alla lettura, perciò, ci tengo a dirvi alcune cose... Per il primo centenario dell’affondamento del transatlantico Titanic, ho decido di fare un piccolo omaggio al suo ricordo.
Sono in pochi a sapere che questa tragedia non portò solo morte e dispiacere, ma segnò anche la fine di un’epoca. L’affondamento della nave RMS Titanic, ha influito in maniera piuttosto incisiva nella storia e sulla coscienza dell’Europa e dell’intero globo. Non a caso, alla vicenda del Titanic, sono stati dedicati innumerevoli titoli bibliografici e almeno una dozzina di pellicole cinematografiche. Ho deciso di ambientare la storia nel fandom di Twilight, solamente perché - a MIO parere - sarebbe stato un po' assurdo scrivere un'originale, quando la seguente flash-fic, è stata volutamente ispirata, non copiata, riadattata, all'indimenticabile film di James Cameron, prendendo informazioni REALI dell'accaduto.
Spero apprezzerete questo piccolo omaggio - a cui tengo davvero moltissimo - a questa triste, quanto evitabile, tragedie di cento anni fa.
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Una data da ricordare
« Sai qual
è l'errore che si fa sempre?
Quello di credere che la vita sia
immutabile,
che una volta preso un binario lo si debba
percorrere fino in fondo.
Il destino invece ha molta più fantasia di
noi.
Proprio quando credi di trovarti in una
situazione senza via di scampo,
quando raggiungi il picco di disperazione
massima,
con la velocità di una raffica di vento
tutto cambia,
e da un momento all'altro ti trovi a vivere
una nuova vita. »
Susanna Tamaro.
Era
il 15 Aprile
1922 e come ogni anno, da dieci anni, tornavo nella mia
città natale.
Southampton era una
città della contea dell'Hampshire nella regione del Sud Est
del Regno Unito. Situata
sul bordo meridionale della Gran Bretagna, sul golfo del Solent di
fronte all'isola
di Wight, era sempre stata molto famosa per il suo grande porto
– uno dei
maggiori sulla costa meridionale. Fu proprio da qui che, il 10 Aprile
1912,
salpò il transatlantico più grande al mondo: l’RMS Titanic.
Erano passati dieci
anni, eppure ricordavo ancora tutto alla perfezione. La mia ricchezza,
la mia
testardaggine, la mia famiglia – troppo attaccata al denaro
per comprendere
altre cose. La maestosità di quella nave, il grande salone,
i balli… Ma il
dettaglio più vivido, che il tempo non aveva mutato di una
virgola, era il
colore dei suoi occhi. Due smeraldi
liquidi. Era passato così tanto tempo, ormai, che era
assurdo tutto quello che
percepivo ancora quando chiudevo gli occhi: l’odore della
vernice fresca, i
servizi di porcellana mai stati usati, le lenzuola
immacolate… Il Titanic era
chiamato la nave dei sogni. E
lo era, lo era davvero.
Cercai di
riscuotermi da quella trance e di darmi un contegno. Il sole stava
tramontando,
dietro la linea dell’orizzonte, ed io dovevo tornare a casa.
Il fischio di una
nave in partenza mi fece voltare di scatto e, come se fossi stata
investita da
una doccia fredda in pieno inverno, i ricordi tornarono con prepotenza,
manifestandosi davanti ai miei occhi.
* * *
Mercoledì, 10 Aprile 1912.
Southampton, Inghilterra.
Nonostante
i miei
capricci, non riuscii a far cambiare idea ai miei genitori.
Si erano convinti
che, come famiglia ricca e benvista, fosse doveroso partecipare
all’inaugurale
viaggio del più grande transatlantico mai costruito prima di
allora.
Arrivammo al porto
di Southampton poco prima delle dodici, tempo accessibile
perché i nostri
bagagli potessero venire caricati sul Titanic.
Tutta l’Inghilterra
– e non solo, da quel poco che avevo capito – era
in agitazione per questo
evento. La questione mi lasciava indifferente. Era una nave, non
concepivo il
motivo di tutto quel fracasso.
― Quindi è questo,
il fantomatico Titanic. ― disse mio padre, scendendo
dall’automobile.
― Sono
impressionata. ― commentò mia madre, porgendo la mano a suo
marito, affinché
l’aiutasse a tornare con i piedi per terra.
― Non capisco il
motivo di tutta questa meraviglia. ― esordii, visibilmente annoiata ―
Non mi
sembra molto più grande del Mauretania.
― Si può essere blasé
riguardo ad alcune cose,
Bells, ma non riguardo al Titanic.
―
mi rimproverò il mio futuro marito, tale Michael Newton ― È almeno trenta metri più
lungo del Mauretania, e molto
più lussuoso. Sua figlia è davvero
impossibile da sbalordire, Renée. ― concluse,
rivolgendosi a mia madre.
Sbuffai accigliata. Erano molte le cose che odiavo, ma detestavo di
gran lunga
quando la gente parlava di me in mia presenza, senza però
calcolarmi.
Presi un profondo
respiro e mi concentrai sull’oggetto che mi era davanti.
Il Titanic era una
nave passeggeri britannica dell’Olympic
Class, costruito presso i cantieri Harland
and Wolff di Belfast. Rappresentava la massima espressione
della tecnologia
navale ed era il più grande e lussuoso transatlantico del
mondo, fino ad oggi,
almeno, progettato e realizzato. Seconda, da quel che si diceva, di
altre due
navi gemelli, quali l’Olympic
e il Brittanic. Fu progettato per
offrire un
collegamento settimanale di linea con l'America e garantire il dominio
delle
rotte oceaniche alla White Star Line.
Non lo avrei
ammesso nemmeno sotto tortura, ma guardandolo meglio, e con occhio
critico,
risultava essere davvero mastodontico.
― Allora, Bells? ―
domandò Mike, offrendomi il braccio sinistro ― Andiamo? ―
annuii, e insieme ci
incamminammo sul ponte, affinché salissimo a bordo.
Una volta entrati,
ad attenderci, trovammo di tutto: dai più ricchi ai
più poveri, e c’erano perfino
dei cani. Mio padre si fece largo tra la gente e ci invitò a
seguirlo. La prima
classe era situata verso il ponte E.
― Le signore
vogliono visitare la nave, prima della partenza? ― domandò
Mike, richiamando il
suo fidato Tyler Crowley, una sorta di guardia del corpo personale.
― Andate pure. ―
disse mio padre ― Farò vedere io alla servitù
dove sistemare i nostri bagagli.
Mr. Crowley, venga con me e mi dia una mano. ― e detto ciò,
sparirono tutti e
due.
Io e mia madre, invece,
seguimmo distrattamente Mike, che ci fece da guida.
L’interno era anche
più splendido dell’esterno…
L’arredamento era molto sfarzoso; sale, cabine e
ponti erano davvero molto decorati. Il grande
scalone di prima classe, una scala che collegava tutti i
ponti riservati
alla prima classe, dal ponte aperto al ponte E, era arredato in stile
Luigi XVI
ed era sormontato al ponte aperto da una grande cupola in vetro e ferro
battuto
che illuminava l'intero ambiente. Il corrimano del pianerottolo del
ponte A era
decorato da una grande lampada bronzea raffigurante un cherubino. Sui
pannelli
dei pianerottoli di mezzo ponte erano situati grandi quadri. La grande
scala
sfociava al ponte D nella sala della reception, con un grande
candeliere di ventuno
lampade. Sul retro della scala erano situati tre ascensori, decorati
nello
stesso stile. Un ambiente identico ma rivestito di pannelli di legno
chiaro
collegava i ponti A, B, e C, ed era utilizzato come sala di reception
per i
ristoranti del ponte B. Il salone,
situato fra il secondo e il terzo fumaiolo, era stato ideato per i
passeggeri
che desideravano trascorrere il tempo leggendo, giocando a carte,
bevendo il
tea o ascoltando la musica dell'orchestra. La sala era decorata da
grandi
pannelli in quercia, secondo lo stile Luigi XV, i cui motivi
ornamentali erano
stati tratti dal palazzo di Versailles. Su un lato della sala era
situato un
piccolo camino in marmo, sul quale poggiava una statuetta di Artemide.
Al
centro, sul soffitto, un grande lampadario illuminava l'ambiente. La sala di scrittura e di lettura, era
interamente ideata per le signore, che si potevano riunire a qualunque
ora del
giorno o della notte. Arredata in stile georgiano, era disposta in due
ambienti
separati da un grande arco sostenuto da colonne con capitelli corinzi.
Non
poteva mancare il salone per veri maschi, ovviamente. Essi potevano
raggiungere
la sala fumatori per tutta la
giornata, ma soprattutto dopo cena. Era arredata in stile georgiano,
con grandi
pannelli in mogano scuro e intarsi di madreperla. A decorare la stanza
vi erano
anche grandi vetrate colorate, illuminate artificialmente. Le finestre,
che
davano sul ponte di passeggiata, erano ornate con scene di porti di
tutto il
mondo.
― Assolutamente
sublime. ― disse mia madre, per l’ennesima volta.
― Adesso possiamo
andare in camera? ― domandai, cominciando a sentire un doloroso
fastidio ai
piedi.
― Isabella, sei una
guastafeste. ― mi accigliai. Ero una guastafeste? Insomma, stavamo
andando su e
giù per quella nave da almeno un’ora. Tra poco
sarebbe partita, perfino! Non
meritavamo un po’ di tranquillità, dopo aver fatto
un lungo viaggio in
automobile?
― Forse Bells è
stanca, Renée. ― sussurrò Mike, baciandomi il
dorso della mano.
― Esatto, sono solo
molto stanca. ― affermai ― E credo di avere anche un leggero mal di
testa, che
non vorrei peggiorasse. Avremo molti giorni per visitare il Titanic,
anche
meglio di ora, perché non raggiungiamo la nostra suite?
― E va bene, Isabella.
― rispose Renée, sospirando. Il mio sorriso si
allargò e ci apprestammo a
raggiungere le nostre stanze.
Le cabine di prima
classe erano le più eleganti di qualsiasi altro
transatlantico. Erano arredate
in vari stili – reggenza, olandese moderno, olandese antico,
impero, Luigi XV,
Luigi XVI, Regina Anna, georgiano e Rinascimento Italiano. Per i
passeggeri più
abbienti erano disponibili le suites: due Presidential
suites e due Royal suites.
La nostra,
ovviamente, era
Mentre camminavamo
lungo i ponti e i lunghi corridoi, sentii il primo fischio della nave.
Era un
avvertimento per chi era ancora a terra, tra poco saremmo salpati.
Passata
la giornata
a cercare di rendere più accogliente la mia stanza, la sera
era arrivata in un
batter d’occhio. Mentre rimiravo l’oceano, dinanzi
a me, attendevo che mia
madre si decidesse ad uscire dalle sue stanze.
― Mike. ― chiamò
mio padre, uscendo dalla suite ― Tu e Bells andate pure, io e mia
moglie vi
raggiungeremo a breve.
― La signora non
trova il vestito, Charlie? ― lo punzecchiò il mio futuro
marito, gentilmente.
Mio padre lo adorava, come mia madre del resto. L’unica
insoddisfatta di tutta
quella situazione ero io.
Avevo diciassette
anni, perciò ero in età da marito. Sposare Mike,
però, non mi rendeva felice.
D’altro canto, non potevo fare altrimenti. La mia famiglia
aveva perso tutta la
sua ricchezza e i Newton erano i magnati più ricchi di tutta
Eravamo fermi a
Cherbourg, in Francia. Il Titanic stava sostando con tutte le luci
accese
davanti al grande porto, dopodiché sarebbe ripartito alla
volta di Queenstown,
in Irlanda.
Io e Mike ci
stavamo dirigendo a cena, esattamente come aveva richiesto mio padre. A
scortarci, come sempre, c’era Mr. Crowley – meglio
conosciuto come scagnozzo
tutto fare, o guardia privata, di Mike Newton.
Scendemmo dalla
grande scalinata della prima classe, per dirigerci verso il salone
ristorante.
Come tutta la nave,
anche quella stanza era curata in ogni minimo dettaglio. Era lunga
trentacinque
metri, arredata in stile giacobiano e georgiano. L’ambiente
era illuminato da
una moltitudine di plafoniere; le sedie erano rivestite in pelle verde,
mentre
le pareti e il soffitto erano stuccati di bianco.
― È davvero
bellissimo, tutto questo. ― dissi, sfortunatamente a voce alta. Mi
morsi la
lingua, maledicendomi per l’enorme errore. Dovetti ammettere
a me stessa che il
Titanic mi stava lasciando senza fiato.
― Noto che stai
facendo trasparire finalmente il tuo apprezzamento, Bells. ― disse
Mike,
sorridendo a diversi uomini, mentre mi scortava al tavolo ― Ma
comunque, tu sei
molto più bella di questa nave, tesoro.
― arrossii leggermente. Nonostante non saltassi di gioia
all’idea di sposarlo,
dovevo ammettere che sapeva sempre cosa dire per elogiarmi e, di
conseguenza,
mettermi in imbarazzo.
Abbassai lo
sguardo, per dare un’occhiata al mio abbigliamento.
L’abito era intero,
realizzato in seta giallo-oro con inserti in merletto verde scuro.
L’acconciatura
era curata; capelli arricciati alzati sulla nuca, tenuti fermi da una
miriade
di ferretti. Mike, invece, indossava uno smoking nero e una
semplicissima
camicia bianca, sotto. I capelli erano pettinati e tirati completamente
all’indietro.
― Signor Newton! ―
sentimmo chiamare. La voce proveniva da un tavolo circolare, piuttosto
grande.
― Carlisle! Ma
quale piacere trovarti qui! ― rispose Mike, dirigendosi verso
l’uomo.
Era adulto, anche
se dimostrava meno anni di quelli che realmente aveva. Alto, ben posato
e di
bell’aspetto, con capelli scuri e occhi chiari. Alla sua
sinistra sedeva la
signora Cullen, Esme, sua prima e unica moglie. Notai anche i figli:
Mary Alice
e Emmett Royce Cullen.
― C’è tutta l’alta
borghesia, mio caro Mike. Come potevamo mancare? ― domandò
Carlisle,
invitandoci a sedere.
La famiglia Cullen
era quella che mia madre considerava i “nuovi
ricchi”. Persone nate povere che,
dopo una grande fortuna, erano divenute molto ricche. A me non era mai
importato nulla di tutto ciò. Al contrario, trovavo molto
simpatici i loro
figli – soprattutto la piccola Alice.
― Isabella, che
piacere averla a bordo. ― disse Jasper Hale, spostandomi la sedia
perché mi
accomodassi ― Spero che il Titanic sia di vostro gradimento.
― Grazie mille, signor
Hale. ― risposi, accomodandomi ― La nave è bellissima,
davvero i miei
complimenti. ― conclusi, ricambiando il suo sorriso.
Jasper Hale Jr. era
un progettista irlandese, amministratore delegato e capo del reparto di
architettura per la società di costruzioni navali Harland e Wolff di Belfast, Irlanda. Fu
lui, infatti, il
responsabile costruttore navale addetto alla realizzazione dei piani
per la
nave. Era a bordo con sua sorella minore, tale Rosalie Lillian Hale.
Orfani di
madre e padre, potevano contare solo su loro stessi e
sull’enorme patrimonio
che, proprio i genitori, gli avevano lasciato.
Pochi minuti dopo,
anche mia madre e mio padre – seguiti da Mr. Crowley
– riuscirono ad unirsi a
noi. La tavola era, così, finalmente al completo.
Erano sempre pasti
molto abbondanti, troppo forse. Come se avessimo bisogno di mangiare
fino a
scoppiare, con l’unico vero motivo di osteggiare in
continuazione la nostra
esorbitante ricchezza. Diversi tipi di antipasti, compresi di ostriche
e
caviale; una varietà eccessiva di portate principali, che
andavano dall’agnello
alla menta al filetto, controfiletto, pollo alla lyonnese, risotti; per
non
parlare, poi, delle innumerevoli varianti di contorni – dalle
patate cucinare
in qualsiasi modo possibile, fino alle creme di piselli - e di dessert.
― Dicono che questa
nave sia inaffondabile, signor Hale. ― disse mio padre, mangiando il
suo
pudding.
― Ho cercato di
creare una nave molto sicura. Il Titanic è stato varato e
controllato con
minuziosità… Si dice che nemmeno Dio in persona
potrebbe affondare questa nave.
― E chi ha pensato
al nome “Titanic”? ― domandò la signora
Cullen, sorseggiando un bicchiere di
punch ― È stato lei, vero Eric?
― Beh, a dire il
vero, sì. ― rispose lui ― Volevo
trasmettere grandezza pura. E grandezza significa stabilità,
lusso, ma
soprattutto, forza.
― Ha mai sentito parlare del dottor Freud, signor
Yorkie? ― domandai, palesemente annoiata da tutte quelle chiacchiere,
ma
soprattutto da tutta quella falsità ― Le
sue teorie sulla preoccupazione del maschio riguardo alla grandezza
potrebbero
risultare particolarmente interessanti per lei. ― notai i
miei genitori
accigliarsi, soprattutto mia madre. Mentre a tutti gli altri, la mia
piccola
battuta sembrò essere stata particolarmente gradita. Emmett
per poco non si
strozzò col suo punch, mentre il signor Hale ridacchiava
sotto i baffi.
― Isabella! ― mi
riprese mio padre ― Ma cosa diavolo ti prende?
― Nulla. ―
sussurrai, spostando la sedia all’indietro ― Con permesso.
Con la coda
dell’occhio notai tutti i signori alzarsi, per galanteria e
bon-ton; riuscii
perfino a sentire la domanda più cretina che poteva essere
fatta.
― Freud? E chi
sarebbe, uno dei passeggeri? ― domandò il signor Yorkie,
senza ricevere alcuna
risposta.
Quella
sera era
piuttosto mite e le stelle si mostravano chiare, in tutto il loro
splendore.
Lasciato il ponte
E, ero risalita fino alla prua. Davanti a me – a tutti noi
–, c’era solo l’oceano
scuro.
― La nave dei sogni… ―
mormorai sarcastica
― La nave dell’ipocrisia e della falsità acuta!
Dannati tutti! Mi sono proprio
scocciata di stare qui.
Avevo davanti agli occhi tutta la mia vita,
come se l'avessi già vissuta. Un'infinita processione di
feste, balli di
società, yacht, partite di polo… Sempre la stessa
gente gretta, lo stesso stupido
cicaleccio. Mi sentivo sempre come sull'orlo di un precipizio, e non
c'era
nessuno a trattenermi; nessuno a cui la cosa importasse o che se ne
rendesse
almeno conto.
― Ed io che pensavo
che le signore di alto rango avessero un’educazioni senza
pari. ― sentii
mormorare, e mi voltai di scatto.
Dinanzi a me,
sdraiato su una panchina di legno, con solo una maglietta nera e un
pantalone
con bretelle marroni, c’era un ragazzo. Dimostrava poco
più di vent’anni ed era
di una bellezza devastante. I capelli erano di un insolito colore
bronzeo, gli
occhi di un inaudito verde smeraldo… La sigaretta tra le
labbra, poi, gli
donava un’aria molto attraente.
― E lei chi
sarebbe? ― chiesi, indispettita dal suo commento ― Non le hanno mai
detto che è
maleducazione ascoltare i discorsi della gente?
― Io ero qui da
prima, signorina. ― rispose, buttando fuori un po’ di fumo ―
È lei che ha
parlato a sproposito, senza prima accertarsi che ci fosse qualcuno o
meno, nei
paraggi. ― la sua risposta mi fece fumare il cervello. Insomma, chi
diavolo era
questo ragazzino arrogante?
― Non mi ha ancora
detto chi è lei.
― Mi chiamo Edward
Masen. ― rispose, alzandosi, e venne verso di me. Spense la sigaretta e
mi
porse la mano destra.
Restai a fissarla
per un po’, indecisa sulla mossa successiva da fare. Potevo
fidarmi?
― A questo punto
lei dovrebbe stringere la mia mano e presentarsi. ― incalzò,
sfoggiando un
sorriso sghembo che mi lasciò senza fiato. Il cervello si
scollegò e l’istinto
prese il sopravvento.
― Isabella Marie
Dwyer Swan. ― risposi, con una voce da ebete ― Piacere di conoscerla.
― Caspita, che
nome! Non mi chieda di ripronunciarlo perché sarebbe
impossibile, per me. Mi
sono fermato ad “Isabella”! ― lo fissai per un
breve istante, dopodiché scoppiai
a ridere.
Non so perché lo
feci, ma mi fermai a parlare su quel ponte, con quel giovane, per quasi
tutto
il resto della serata.
Scoprii che Edward
era un poveraccio –
esattamente come
aveva detto lui – e che era originario
dell’America, ecco perché si trovava sul
Titanic: stava tornando a casa. Viaggiava con un suo amico di infanzia,
un
certo Jacob Black, che al momento se ne stava ad una festicciola in
terza
classe a rimorchiare qualche bella donna.
― È mai stata nel
Wisconsin? ― domandò Edward, improvvisamente.
― Ehm no, non ho
mai viaggiato molto.
― Io sono vissuto
lì, vicino ad un piccolo paesino che mai nessuno conosce
davvero. ― sorrise,
forse a causa di ricordi felici ― Ricordo che una volta, da bambino,
andai a
fare pesca sul ghiaccio con mio padre… Ehm, la pesca sul
ghiaccio è quando… ―
l’unica pecca era che mi considerava una perfetta imbecille.
― So cos’è la pesca sul
ghiaccio! ― lo
interruppi bruscamente ― Edward, nonostante la mia ricchezza e il mio
non aver
girato molto il mondo, so molte più cose di quello che pensa.
― Mi scusi,
davvero. Solo che lei ha tanto l'aria di,
come dire, di una timorata di Dio… ―
spiegò, facendomi sgranare gli occhi
per lo shock ― Comunque, il ghiaccio ha
ceduto e io sono caduto in acqua. E mi creda, cadere in acque gelide,
come
quelle laggiù, è come avere tutto il corpo
trafitto da mille lame. Non riesci a
respirare. Non riesci a pensare a nulla. E il pensiero di
viaggiare su
acque ancora più fredde di quelle mi mette un po’
d’ansia. Ma sono su una nave
inaffondabile, no? ― domandò, facendomi un sorriso che
contagiò anche gli
occhi.
― Perché mi sta
raccontando tutto questo? ― chiesi, senza sapere il motivo.
― Sinceramente non
lo so. Mi sembrava solo una persona che volesse distrarsi un
po’ e ho pensato
di darle una mano… Mia madre sosteneva che fossi un ottimo
lettore di anime,
che capivo al volo le persone. Spero di non aver sbagliato proprio con
lei.
― No, non ha
sbagliato. ― risposi, arrossendo leggermente ― Sua madre sembra una
donna molto
saggia. Come si chiama?
― Chiamava. Si chiamava Elisabeth.
― mi
corresse, prima di rispondere ― È morta di crepacuore dopo
l’assassinio di mio
padre, quando avevo quindici anni. È per questo che sono
andato via di casa…
Dovevo trovare un modo di racimolare qualche soldo e così ho
cominciato a
suonare in qualche bettola. Il salario non era mai troppo, ma almeno mi
consentiva di non dormire sotto i ponti.
― Oh, mi scusi. Non
lo sapevo.
― Cosa? Che fossi
uno scapestrato? Direi che il termine “poveraccio”
poteva farglielo capire, non
trova? ― mi stuzzicò sorridendo.
― No, quello si
vede… ― dissi, ma mi porsi la lingua ― Nel senso…
― mi ero incartata come una
cretina!
― Ho capito! ―
disse, scoppiando a ridere ― La sto solo prendendo in giro, non si
preoccupi.
― Mi dispiace
davvero per lei, Edward. ― sussurrai, abbassando lo sguardo sulle mani
―
Immagino che non sia stata una vita facile.
― Immagina? ―
domandò, non smettendo mai di ridere ― Con tutto il rispetto
che merita,
signorina, non credo che lei possa immaginare una cosa del genere. ― mi
spiazzò, lasciandomi la bocca secca. Forse aveva ragione,
navigando nell’oro
non potevo capire alcune cose. Ma ci stavo provando, non contava forse
qualcosa?
― Povera ragazzina ricca, che ne sa lei della
miseria? ― sussurrai, continuando a guardare altrove ―
È questo che sta
pensando, dico bene?
― Veramente no. ―
rispose deciso, costringendomi a guardarlo negli occhi ― Sto pensando,
più che
altro, a cosa è potuto succede a questa ragazza per arrivare
a farle avere una
luce così spenta negli occhi, ad avere un’aria
così triste e malinconica. ― lo
fissai per qualche istante, cercando di capire come fosse possibile che
uno
sconosciuto mi comprendesse più di tutte le persone che mi
vivevano tutti i
santi giorni. Era così palese la mia infelicità?
E se così era, perché solo
questo giovane si stava preoccupando di chiedermi quale fosse il
problema?
― Praticamente tutto! ― scoppiai,
alzandomi in piedi, e cominciai a camminare avanti e indietro sul ponte
― L'intero mondo in cui vivo, e tutta la
gente
che ne fa parte! E l'inerzia della mia vita, che si tuffa in avanti, e
io che
non sono capace di fermarla. ― tornai di fronte a lui,
facendogli vedere il
mio anello di fidanzamento. Era un enorme diamante nero, incastonato in
un fiore
fatto di piccole pietre preziose.
― Miseria! ― urlò
Edward, afferrando le mie dita ― Non ho mai visto una cosa del genere
da questa
distanza.
― Sono stati inviati cinquecento inviti.
―
ripresi, ignorando il suo commento ― Sarà
presente tutta l'alta società di Philadelphia. E tutto il
tempo mi sento come
se stessi in una stanza affollata, urlando a squarciagola, senza che
nessuno
alzi nemmeno lo sguardo.
― Lo ama? ― domandò
sfacciato.
― Come dice?
― Lo ama o no?
― Ma che gran
maleducato. Non dovrebbe pormela una domanda del genere!
― Perché no? È una
domanda facile. Lo ama quest’uomo, sì o no?
― Questa
conversazione è inopportuna!
― Ma non può
semplicemente rispondere alla domanda? ― continuò
imperterrito, sghignazzando,
mentre io rasentavo l’imbarazzo più sfacciato.
― È ridicolo. ―
dissi, una volta ripreso il mio abituale contegno ― Lei
non conosce me e io non conosco lei, e questa conversazione non sta
avendo luogo. Lei è maleducato, rozzo e presuntuoso, e ora
me ne vado. Edward,
signor Masen anzi, è stato un piacere. ― conclusi,
porgendogli nuovamente la
mano, che lui afferrò ― L’ha ringrazio per la
conversazione avvenuta, ma ora
che l'ho ringraziata…
― E anche
insultato, direi. ― disse, continuando a sghignazzare.
― Beh, sì. Ma se
l’è meritato!
― Ovviamente.
― Ecco! ― dissi,
senza muovermi di un passo ― Si può sapere cosa la fa ridere?
― Beh, ad essere
sincero, lei. ― rispose schietto, procurandosi una nuova onda di
ilarità.
― Lei è irritante,
Edward! ― dissi, non rendendomi conto che stavo ridendo anche io.
― Però la faccio
ridere, signorina. ― replicò, tornando serio.
Lo fissai a lungo,
cercando di calmarmi anche io. La mascella dritta, i denti bianchi, la
pelle
chiara… Era assolutamente perfetto. I suoi occhi, poi, erano
pieni di vita.
Dovevo ammetterlo: invidiavo quegli occhi; invidiavo la sua vita.
― Sua madre aveva
ragione. ― dissi, qualche minuto dopo ― Lei ha dono: sente le persone.
Non avevo mai
provato quelle sensazioni, e consideravo assurdo che fosse uno
sconosciuto a
donarmele.
Distolsi lo
sguardo, sentendo il mio cuore battere come mai prima, e cercai di
spostare il
discorso su qualcosa di più frivolo. Decisi, quindi, di
stuzzicarlo.
― Ah sì? E quindi,
cosa sente? ― lo sfidai, alzando il mento per darmi un’aria
da nobildonna.
― Crede nel
destino, Isabella? ― domandò, lasciandomi spiazzata ― Io
sì. E credo che sia
stato il destino a farci incontrare, stasera. ― passai il resto del
tempo a
fissarlo, senza sapere cosa rispondere.
― Bells! ― sentii
chiamarmi, ma la voce mi sembrava così lontana ― Isabella,
sta’ lontana da quel
giovane! Non vedi che è uno straccione? Potrebbe farti del
male!
― Lei ha visto
troppi film, signore. ― rispose Edward, indietreggiando di qualche
passo. Mi
voltai in direzione dei suoi occhi e notai Mike, accanto a me.
― Mike. ― lo
salutai, sperando che non avesse sentito il commento sarcastico di
Edward.
― Ti stavo cercando
dappertutto. ― disse, mettendomi la sua giacca addosso ― Pensavamo ti
fosse
successo qualcosa, zuccherino.
― Perché mai,
scusa? ― domandai, non capendo la sua preoccupazione ― Sono venuta sul
ponte e
il signor Masen si è intrattenuto qualche minuto con me. ―
spiegai, cercando di
restare calma ― È stato molto gentile, non credi?
― Gentilissimo. ―
disse ironico, alzando gli occhi al cielo ― Beh, andiamo in camera?
― Certo. ― risposi,
avvilita. Sapevo che non avrei mai vinto contro di lui. Inoltre, Mike,
aveva un
potente ascendente sui miei genitori; se non fossi andata con lui,
probabilmente,
li avrebbe mandati a cercarmi. Non volevo fare figuracce.
― Allora ci
vediamo, Isabella.
― Signorina Isabella, prego. ― lo
ammonì Mike,
facendo alzare un sopracciglio al ragazzo dagli occhi verdi.
― Non è necessario,
Mike. ― dissi, spingendolo via ― Ci si vede, Edward. ― lo salutai,
camminando
verso l’interno della nave, con Mike che borbottava tra
sé e sé.
Sospirai,
rassegnandomi al fatto che la breve vacanza dalla mia vita fosse appena
finita.
A
Queenstown
salirono altre persone, rendendo il Titanic finalmente completo di
tutti i suoi
passeggeri. Tra noi e l’equipaggio, a bordo,
c’erano all’incirca 3550 persone.
Il Titanic era un
gioiello di tecnologia ed era ritenuto “praticamente
inaffondabile”– frase che
avevo sentito più in due giorni che in tutta la mia vita. La
sua stazione radio,
poi, era considerata la più moderna e potente mai installata
su un bastimento:
la portata raggiungeva una distanza di quattrocento miglia e le antenne
erano
collocate sui due alberi maestri ad un'altezza di sessanta metri,
distanti tra
loro centottanta metri. La chiglia della nave aveva un doppio fondo
cellulare e
lo scafo era suddiviso in sedici compartimenti stagni, le cui porte a
ghigliottina si potevano chiudere automaticamente dal ponte di comando.
Questi
comparti, però, non attraversavano tutta l'altezza dello
scafo ma si fermavano
al ponte E. Il Titanic, perciò, avrebbe potuto galleggiare
anche con due dei
compartimenti intermedi allagati, oppure con tutti i primi quattro
compartimenti di prua allagati.
― Mi perdoni,
signor Hale. ― dissi, rivolgendomi al mio cavaliere per
quell’occasione.
Stavamo visitando tutta la nave, insieme ai fratelli Hale, appunto ― Ho fatto un veloce calcolo del numero delle
scialuppe moltiplicato per la capacità di ognuna. E mi
perdoni, ma… Pare che
non ce ne siano a sufficienza per tutti i passeggeri.
― Solo per la metà. ―
rispose,
sorridendomi come se nulla fosse ― Ah, Bells, non le sfugge nulla, eh? Infatti feci installare questo nuovo tipo di
gru – il modello "Welin", in grado di sostenere
complessivamente trentadue
scialuppe di salvataggio e ammainarne sessantaquattro – che può tenere una fila di scialuppe in
più da questo lato. Ma c'era
chi sosteneva che il ponte avrebbe avuto un aspetto troppo disordinato.
Così la
mia proposta fu bocciata, facendo montare soltanto sedici
scialuppe.
― Uno spreco di
spazio, infatti, signor Hale. ― intervenne Mike, con aria strafottente
― Questa
nave è praticamente inaffondabile! ― questa frase stava
cominciando a
stancarmi.
― Dorma sogni
tranquilla, piccola Bells. Le ho costruito un’ottima nave,
forte e robusta. Ma
la vera bellezza e il verso sostegno di essa e di questo viaggio
inaugurale è
lei, signorina. ― disse, sorridendomi caloroso.
― Fratello, ti
dispiace se io e la giovane Isabella andiamo nella sala di lettura? ―
domandò
Rosalie, notando il mio improvviso malumore.
― Per me non vi è
alcun problema. ― rispose il signor Hale, lasciandomi il braccio ― E
lei, Mike?
Lascerà andare la sua dolcissima futura sposa con mia
sorella?
― Basta che non
esca dalla prima classe. ― disse, lanciandomi uno sguardo piuttosto
eloquente ―
In quel caso, puoi andare tranquillamente, zuccherino.
Seguii Rosalie per
i vari ponti e, anche se non ero una cima nell’orientarmi,
capii che non ci
stavamo dirigendo dove aveva detto.
― Stiamo andando al
Café Parisien. ― disse,
inaspettatamente
― Prima che mio fratello mi trascinasse in questo giro turistico, come
se non
conoscessi questa nave a memoria!, ho incontrato la signorina Cullen,
Alice, e
mi ha dato appuntamento qui per il tea delle cinque. Spero che non ti
dispiaccia.
― Oh, no! Affatto.
Anzi, ti devo molto.
― Lo sospettavo. ―
disse, ridacchiando ― Non mi sembravi molto contenta nel fare il giro
anche
della sala macchine.
― Si vedeva molto?
― chiesi, cercando di ridarmi un tono. Erano un po’ troppe,
ora, le persone che
riuscivano a capirmi solo guardandomi in faccia. Che stessi diventando
un libro
aperto?
Il Caffè Parigino, era
ideato per assomigliare ad una tipica passeggiata parigina, completa di
piante
rampicanti e mobili in vimini. L’ambienta era arioso e molto
luminoso.
Raggiungemmo Alice
ad un tavolino abbastanza in fondo. Era già lì e
ci stava aspettando.
― Bene arrivate. ―
disse, salutandoci ― Com’è stata la passeggiata
sul ponte?
― Buon pomeriggio a
te, Alice. ― salutò Rosalie, prendendo posto di fronte a lei
― Conosci mio
fratello, quando comincia a parlare dei suoi gioielli non la smette
più.
― Vero. Ma è
adorabile. ― controbatté la ragazza che ricordava tanto un
folletto.
Le due giovani
donne, sedute ai miei lati, erano molto diverse l’una
dall’altra. Mary Alice
Cullen, era minuta; con un colorito chiaro e i capelli neri, i quali
incorniciavano un viso rotondo, sul quale erano incastonati due occhi
azzurri
come il cielo. Rosalie Lillian Hale, invece, sembrava più
matura per l’età che
aveva. I capelli biondi, lunghi e lucenti, stavano alla perfezione su
un viso
lungo e sottile; gli occhi erano castani, e il sorriso di una tenerezza
disarmante. Sotto quella debole parvenza di dolcezza, però,
si avvertiva la
presenza di una donna forte e temeraria.
― E lei, Isabella?
― mi domandò Alice, destandomi dai miei sciocchi pensieri ―
Pronta per il gran
giorno? Mio padre mi ha comunicato del vostro matrimonio con il
venerante
Newton. ― a quelle parole storsi il naso.
― Sì, pronta. Ma mi
dia del “tu”, Alice, la prego.
― Come desideri,
Isabella, ma questo vale anche per te. ― ribatté lei,
sorridendomi.
― D’accordo, Alice.
Restammo a
chiacchierare lì, nel Café
Parisien,
per almeno un’ora. Scoprii che la piccola Cullen era
interessata al fratello di
Rosalie, mentre quest’ultima aveva iniziato una
frequentazione con Emmett,
nonché fratello di Alice. Erano due persone particolarmente
simpatiche, e mi
piacque moltissimo stare in loro compagnia.
― Jake, stai
attento!
― Non dovrei stare
attento, se i passeggeri di prima classe evitassero di mandare qui
giù i propri
cani a fare le loro cagatine!
Mi bloccai
all’istante, riconoscendo quella
voce. Mi sporsi dal ponte e lo notai. Era al piano inferiore rispetto
al mio.
Sedeva su una panca, esattamente come la sera precedente, e aveva una
sigaretta
mezza consumata in bocca. I capelli sempre scompigliati e il sorriso in
bella
mostra.
― Isabella?
Isabella? ― chiamò Rose, costringendomi a voltarmi ― Cosa
stai guardando?
― Ehm, ecco…
Sentite, ve la prendete se vi lascio qui? Ho visto una persona che
conosco e
vorrei andare a salutarla.
― Ma quello è il
ponte di terza classe. ― disse Alice, senza
ribrezzo nella voce ― Chi conosci in terza classe?
― Una persona. ―
risposi, arrossendo.
― Non so se sia una
buona idea. Mike mi ha pregato di… ― tentò
Rosalie, ma la bloccai all’istante.
― Oh, e chissene
frega di Mike! ― sbottai, vedendole sgranare gli occhi ― Voglio
dire… Ho anche
io una vita mia, no? Vorrei solo andare a salutare una persona che
conosco, non
mi sembra di commettere chissà quale affronto. ― Inoltre, lui mi soffoca, pensai, ma non
lo dissi. Era vero, però.
Per Mike ero una bambolina, un premio da osteggiare come il
più importante o
prezioso. Cominciavo ad esserne stufa.
― Va bene,
Isabella. ― disse Rosalie, sospirando ― Ti aspettiamo nella sala di
lettura, ma
non metterci troppo. ― mi salutarono e si allontanarono, senza
però smettere di
lanciarmi occhiate interrogative.
Come una pazza,
afferrai l’orlo della gonna del vestito, e mi precipitai
verso il ponte di
terza classe. La gente mi fissava stranita, chiedendosi dove stesse
correndo
una giovane altolocata come me. Non davo loro tutti i torti, il mio
comportamento lasciava perplessa anche me.
― Questa sera suoni
o no? Paul vuole saperlo. ― disse il ragazzo dai capelli neri,
piuttosto
abbronzato. Avevo sentito che Edward lo aveva chiamato Jake.
― Non lo so, Jake.
Se mi va suono, altrimenti no. ― rispose Edward, dandogli le spalle.
Era appoggiato con
i gomiti alla ringhiera e fissava le onde che, a causa della nostra
velocità,
si infrangevano contro la nave. La sua espressione era assorta e seria.
Assolutamente affascinante.
― Devo mettermi a
pregarti in cinese? ― domandò Jake, inginocchiandosi di
fronte ad Edward ―
Guarda che lo faccio! ― e dopo averlo detto, cominciò a
mettere insieme parole
senza senso. Il gesto, però, fece ridere Edward, che si
voltò per parlare con
il suo amico.
― E va bene, Jake!
Adesso alzarti cortesemente!
― Fantastico! Vado
subito a dirlo a Paul. Tu cosa fai? ― domandò, mentre si
rimetteva in piedi.
― Vengo anche…
Isabella? ― mi chiamò Edward, incrociando il mio sguardo.
― Chi? ― chiese
Jake, voltandosi dalla mia direzione. Appena mi dive sgranò
gli occhi,
dopodiché fischio, dando una pacca sulla spalla al suo amico
― Bravo, amico!
Così si fa! Adesso vi lascio. Signorina… ―
sussurrò in saluto, mi superò e ci
lasciò soli.
― Cosa porta una
dama altolocata come te, qui nei bassifondi di terza classe? ― mi
chiese
Edward, appoggiandosi al cornicione bianco.
― Ti ho visto da
sopra, stavo andando nella sala lettura e…
― Sala lettura? ―
chiese fischiando ― Addirittura? Avete proprio un bel po’ di
roba qui sopra,
vero? ― arrossi, mordicchiandomi il labbro inferiore ― Scusa, non
volevo
mancarti di rispetto e… Oddio, le chiedo scusa! ―
strillò quasi, dandosi una
mana in faccia. Lo raggiungi, facendo tre grandi falcate, e gliela
tolsi dal
viso.
― Sono stata io la
prima ad essere maleducata. Non siamo amici e mi sono rivolta a te, a
lei!,
come se ci conoscessimo da anni… Non so cosa mi sia preso,
sono desolata.
Eravamo così
assorti nel cercare di capire di chi fosse la colpa, che non ci
accorgemmo che
le nostre mani erano ancora intrecciate.
Le sue dita erano
lunghe, affusolate e perfette, ma soprattutto calde. Le mie mani
stavano alla
perfezione nelle sue. Isabella!, mi
ammonì la mia coscienza. Ma cosa
diavolo
stai facendo? Sei fidanzata con Mike, ti devi sposare con Mike!
Inoltre, ai
tuoi genitori verrebbe un infarto se sapessero che provi attrazione per
un
giovane squattrinato! A quel pensiero ritrassi le mie mani
all’istante,
come se mi fossi scottata.
― Mi perdoni. ―
disse Edward, allontanandosi da me. Tornò a guardare
l’oceano, e il suo viso
assunse un’espressione che non riuscivo a decifrare.
Dispiacere, forse?
― È immenso, non è
vero? ― domandai, cercando di trovare un argomento di cui parlare.
― Ti fa sentire
piccolo. ― rispose, mentre io speravo silenziosamente che continuasse a
parlare.
― Cosa intendi? ―
chiesi, ma questa volta evitai volontariamente il
“lei”.
― Beh, guarda! ―
disse, allungando la mano di fronte a lui ― È una distesa
d’acqua infinita, e
noi siamo solo degli esserini minuscoli che galleggiano su questa
superficie. Eppure,
nonostante tutto questo, ognuno di noi serve a qualcosa; ogni cosa
serve a
qualcosa. C’è chi offende il mondo ogni giorni, ma
mi chiedo come non si
rendano conto di quanto esso sia incredibile… Secondo
me la vita è un dono, e non ho intenzione di sprecarla. Non
sai
mai quali carte ti capiteranno nella prossima mano. Impari ad accettare
la vita
come viene. Così ogni singolo giorno ha il suo valore.
― Come fai? ― gli
chiesi improvvisamente.
― A fare cosa? ― domandò,
voltandosi verso di me.
― A vivere con
tutto questo ardore e tutta questa passione.
― È semplice, Bella. ―
disse, chiamandomi in un modo
tutto suo ― Quando non hai niente, non hai niente da perdere.
― Perché non posso
essere come te, Edward? ― domandai, forse più a me stessa
che a lui ― Dirigermi
verso l'orizzonte quando ne ho voglia. Dimmi che un giorno faremo tutto
quello
che ci pare, che potrò fare tutto ciò che non ho
mai potuto fare prima di
adesso, anche se dovessero restare solo parole.
― No, lo faremo. ―
rispose, sorridente ― Sei un’ottima compagnia, tralasciando
alcune piccole
pecche. ― sussurrò, sfiorando il mio orecchio con il suo
fiato fresco ― Berremo della birra da quattro
soldi, e
andremo sulle montagne russe fino a vomitare! Poi cavalcheremo lungo la
spiaggia, sopra le onde. Ma tu devi farlo da vero cowboy, niente
cavalcata
all'amazzone.
― Intendi con una
gamba su ogni lato? ― domandai, non sapendo se ne fossi realmente
capace ― E
potremo anche aprire una pasticceria?
― Certo! Ma come
mai quest’idea?
― Beh, amo cucinare
dolci, anche se mia madre odia questa mia piccola passione. ― ammisi.
Non lo
avevo mai detto a nessuno… ― Sostiene che non sia nella
nostra natura impastare
e fare tutte queste cose, che cucinare sia qualcosa di molto frivolo
che spetta
solo alla servitù. ― non appena conclusi la frase, mi resi
conto di quanto
fosse sbagliato tutto quello. Era realmente possibile stabilire quali
fossero
le persone importanti o quali no, solo in base ai soldi che
possedevano? La
risposta era no, non c’era ombra di dubbio.
― Una tipetta
decisa tua madre, eh?
― Perché non vieni
a cenare con me? ― chiesi, quasi contemporaneamente alla sua domanda
piuttosto
sarcastica.
― Come, scusa?
― Ti invito a cena.
Da me, in prima classe. ― ribadii, non consapevole del guaio in cui mi
stavo
per andare a cacciare ― Allora, ci stai?
― Certo, va bene. ―
rispose sorridendo.
― Vieni allora, ti
faccio fare un giro in prima classe! E ti mostro come raggiungere il
ristorante.
Tra chiacchiere e
risate, passò l’ennesima ora. Edward era uno
spirito libero, una piuma nel vento,
e il tempo in sua
compagnia passava rapido, fino quasi a scivolare via dalle mani come
acqua. Mi
sentivo bene quando mi trovavo con lui; mi sentivo libera, come non mi
ero mai
sentita prima di allora. Come se fossi sempre stata malata e lui fosse
la mia
medicina, l’unica cosa che riuscisse realmente a farmi
sentire me stessa.
― Isabella! ― mi
sentii chiamare e mi voltai. Davanti a me, ritrovai la signora Cullen.
Era sempre molto
bella, nella sua semplicità: indossava un lungo abito nero,
abbinato al grande
cappello che portava sul capo. Accanto a lei, c’era mia
madre, insieme ad altre
signore di alto rango.
― Signora Cullen. Mamma. ― salutai,
notando lo sguardo
terrorizzato di Edward, sentendo la seconda parola.
― Isabella, non eri
con le ragazze? ― domandò Renée, squadrando il
mio accompagnatore senza
ritegno.
― Sì, ma ho incontrato
un amico. ― risposi, con risolutezza ― Edward Masen, queste sono la
signora
Esme Cullen e mia madre, Renée Dwyer Swan.
Le altre erano
cortesi e curiose verso l'uomo che consideravo all’altezza di
starmi accanto –
nonostante la classe sociale, visibilmente riconoscibile, anche a causa
del suo
poco curato abbigliamento. Ma mia madre
lo guardava come se fosse un insetto. Un insetto pericoloso, che doveva
essere
schiacciato immediatamente.
― L’ho invitato a
cena con noi, stasera. ― dissi di colpo, provocando un innaturale
silenzio.
Stavo cercando di
eludere lo sguardo di mia madre il più possibile, ma sapevo
benissimo che non
potevo evitarlo a lungo.
― Come hai detto,
prego?
― Che ha invitato a
cena con noi, questo bel giovanotto! ― rispose, al mio posto, Esme ―
Sembra un
tipo piuttosto interessante, Edward. Saremo contenti di averla tra di
noi! Non
è vero, Renée?
― Certamente. ―
rispose mia madre, ovviamente sarcastica.
― Beh, noi andiamo
a prepararci! ― urlai, cercando di smussare la tensione ― Edward, ci
vediamo
più tardi, ok? Signora Cullen. ― conclusi salutando, per poi
trascinare via mia
madre.
Mi
trovavo dinanzi
all’enorme specchiera della mia stanza. Jane, la mia
cameriera personale, era
riuscita a domare i miei ricci. Adesso avevo un’acconciatura
perfetta, con
un’infinità di boccoli curati, fissati sul capo
con un leggero chignon. L’abito
che indossavo era molto bello ed elegante, formato da due pezzi
– corpino e
gonna lunga – in velluto di seta e tulle, su fondo di taffetas, con ricami di perline di vetro
e pailletes. Colore di fondo era un
grigio tendente all’azzurro, come
le rifiniture; la tinta vera e propria del vestito, invece, era blu
cobalto.
― Sta’ benissimo,
Miss.
― Grazie, Jane. ―
risposi, mentre mi passavo un leggero strato di cipria sulle guance. Mi
recai
verso lo scrigno dei gioielli e ne estrassi un girocollo a festone, che
sfoggiava – al centro del ciondolo ovale – una
gemma di zaffiro lucentissima.
Proprio in quel
momento la porta si aprì, venendo varcata dai miei genitori
e Mike.
― Può andare. ―
disse mia madre, congedando Jane in malo modo.
― Bells, sei
incantevole, stasera. ― parlò Mike, avvicinandosi a me. Mi
baciò la mano e mi
sorrise, convinto che quello spettacolo fosse per lui.
― Grazie, Mike. ―
risposi, sottraendomi alla sua presa ― Mamma, papà, anche
voi siete un incanto.
― Come sempre,
tesoro. ― rispose Charlie, sistemando i lunghi baffi neri –
nello stesso colore
di capelli.
― Siamo reali,
Isabella. ― disse mia madre, perforandomi con lo sguardo ― Dobbiamo
essere
sempre presentabili e al meglio. Noi siamo la ricchezza di ogni paese,
è nostro
compito essere impeccabili. ― non risposi, percependo un brivido di
freddo
lungo la schiena.
― Com’è questa
storia, zuccherino? ― mi domandò Mike ― Tua madre mi ha
comunicato il tuo
invito verso quel rozzo giovanotto di terza classe. Cosa ti ha spinta a
concedergli il beneficio di sedere alla nostra tavola?
Pietà, forse?
― Pietà. Certo, sarà
stata sicuramente quella. ― dissi, in tono sarcastico. Ma nessuno lo
notò.
― Visto, cara? ― si
rivolse Charlie e mia madre ― Nostra figlia non ha perso il senno, ha
voluto
solo fare un’opera di carità! ― concluse,
scoppiando a ridere. Io e Mike seguimmo
la sua ilarità – ovviamente, io fingevo senza
saperne il motivo. Mia madre, al
contrario, non sorrise per niente e non mi spostò gli occhi
di dosso nemmeno
per un istante.
― Andiamo, Bells? ―
chiese Mike, porgendomi il braccio. Annuii, non molto decisa, e lo
seguii lungo
quella miriade di corridoi, fino ad arrivare alla grandissima e
lussuosa
scalinata di prima classe.
― Io andrò al
tavolo, ad intrattenermi col signor Yorkie e i fratelli Hale. ―
annunciò mio
padre, entrando nel salone.
― Spero che questo
balordo sappia cosa sia la parola
“puntualità”. ― sussurrò mia
madre, rivolta a
Mike. Stavo seriamente cominciando ad innervosirmi.
― Oh, guardate! ―
disse Mike, indicando la scalinata ― Stanno arrivando anche i Cullen.
― Chissà dov’è
Carlisle. ― commentò mia madre, vedendo solo Alice scortata
da Emmett ed Esme
sotto il braccio di… Non posso
crederci!
Sotto i miei occhi
sgranati, il suo sorriso sghembo concretizzò ogni mio
dubbio. Era proprio lui,
solo tirato a lucido. I capelli, sempre scompigliati, adesso erano
ordinati e
tirati indietro; i vestiti di strada, poi, erano stati sostituiti da
uno
smoking nero, che lasciava intravedere la camicia bianca. I due
smeraldi
liquidi, però, erano rimasti esattamente identici.
― Edward… ― mi
sentii sussurrare, senza rendermene conto.
Come se avesse
sentito quel sussurrò, Esme lasciò andare il
ragazzo, prendendo sotto braccio
suo figlio. Edward, dal canto suo, accelerò un po’
il passo e si parò di fronte
a me; afferrò la mia mano destra e fece un perfetto
baciamano.
― L'ho visto fare una volta in un cinema di
terza visione. ― disse, sollevandosi di poco ― Non
vedevo l'ora di rifarlo. ― concluse, facendomi scoppiare a
ridere.
― Sei
irriconoscibile.
― Tutto merito di
Esme. ― disse, indicandola con la testa ― Mi ha lasciato indossare un
abito di
suo marito, va un po’ largo, ma non mi lamento. ― sorrisi,
ringraziando i
Cullen con un cenno del capo, e lo trascinai da mia madre e Mike che,
nel
frattempo, si stavano intrattenendo con la contessa Lucille Duff-Gordon.
― Tesoro… ― dissi,
chiamando Mike ― Ti ricordi del signor Masen, vero?
― Edward Masen? ―
domandò strabuzzando gli occhi ― Stupefacente! Conciato
così passa quasi per un
gentiluomo.
― Ha detto bene. ―
rispose Edward, sempre col sorriso ― Quasi.
Mike ribadì ancora
uno “stupefacente”, dopodiché
offrì il braccio a mia madre, e tutti entrammo
nella sala da pranzo.
Notavo il
nervosismo di Edward, nel cercare di essere all’altezza di
quel posto. Per me
era perfetto com’era. Decisi, però, di metterlo a
suo agio.
― Quella è la contessa di Rothes.
― dissi
indicandola ― E quello, invece, è
John
Jacob Astor, l'uomo più facoltoso in viaggio su questa nave.
La sua nuova
mogliettina, Madeleine, ha la mia età ed è in
dolce attesa. ― notai che, a
differenza di tutte le altre dame, si copriva con la borsetta, o le
mani, il
ventre poco piatto ― Vedi come tenta di
nasconderlo? A suo tempo fu uno scandalo. ― lo sentii
sghignazzare, così
continuai ― E quello è Benjamin
Guggenheim, e la sua amante, Madame Aubert. Naturalmente la signora
Guggenheim
è rimasta a casa con i bambini. Da questa parte abbiamo Sir
Cosmo e Lucille,
Lady Duff-Gordon – la signora che stava
intrattenendo mia madre e Mike,
poco fa. Tra i suoi vari pregi c'è
quello
di disegnare biancheria audace. È molto popolare tra i reali.
― a questa
ultima confessione, scoppiò sonoramente a ridere.
― E io che pensavo
di annoiarmi! ― disse, tra le risa.
― Sapevo che erano
informazioni che ti sarebbe piaciuto sapere.
Nonostante i miei
numerosi tentativi di metterlo a suo agio, si capiva benissimo che
fosse nervoso.
Non mostrò la minima esitazione, però. Tutti
erano convinti che fosse uno di loro, forse l'erede di qualche fortuna
nel ramo
ferroviario. Un nuovo ricco, ma, tuttavia degno di essere un membro del
loro
club. Naturalmente, mia madre non si lasciò
sfuggire l'occasione per
ricordargli chi fosse.
― E mi dica, signor
Masen, come sono gli alloggi di terza classe? ― domandò
Renée, prima di mordere
una tartina con caviale.
― Niente male,
signora. ― rispose Edward, che sedeva davanti a me ― Ho viaggiato
molto, con
mercantili e quant’altro, ma ammetto che nessuna camera
è mai stata così pulita
e ben curata.
― Il signor Masen
si è unito a noi dalla terza classe. ― spiegò
Mike, senza perdere tempo ― È
stata la mia fidanzata, Isabella, a concedergli il privilegio di unirsi
a noi,
questa sera. ― lo fulminai con lo sguardo. Possibile che non riusciva a
capire
quando stare zitto? Insomma, al tavolo non c’eravamo solo
noi, ma anche altre
persone! A partire dai fratelli Hale, al signor Yorkie, la famiglia
Cullen al
completo, e molti altri. Non mi sembrava molto carino o educato,
ricordare che
Edward non fosse… ricco.
― Ancora
complimenti per la sua nave, signor Hale. ― dissi, notando Esme che
spiegava ad
Edward come usare tutta quella varietà di posate ― Il
Titanic è davvero
incantevole.
― Grazie, Isabella.
Incantevole come lei. ― rispose, sorridendomi.
― Dove vive con
precisione, signor Masen? ― domandò mia madre, ancora, dal
nulla.
― Per il momento il
mio indirizzo è la terza classe del Titanic, signora. ―
rispose lui, molto
garbato. Non era uno stupido, capiva benissimo che le domande di mia
madre
erano poste solo al fine di schernirlo. Ma lui non si scompose mai,
neppure per
un secondo.
― E come ha trovato
i soldi necessari per comprare il biglietto del Titanic? ― chiese mio
padre
che, fino a quel momento, lo aveva completamente ignorato.
― Beh, non ci
crederà, signore, ma l’ho vinto con una mano
fortunata a poker. ― rispose, per
poi sposare il suo sguardo su di me ― Una
mano molto fortuna. ― arrossii, senza capirne il motivo.
― E a lei piace quest'esistenza
priva di radici, signor Masen? ― riprese mia madre.
― Beh, sì, signora, mi piace.
― rispose
Edward, assumendo la sua espressione seria ― Insomma,
ho tutto quello che occorre proprio qui, con me. Ho aria
nei polmoni, salute e un letto che posso definire immacolato. Mi piace svegliarmi la mattina e non sapere
cosa mi capiterà, o chi incontrerò, dove mi
ritroverò. Proprio l'altra notte ho
dormito sotto un ponte, e ora mi trovo qui, sulla più
imponente nave del mondo,
a bere champagne insieme a delle persone raffinate come voi.
― disse,
alzando il calice ― Come ho detto a sua figlia proprio oggi pomeriggio,
io
credo che la vita sia un dono. E non ho nessuna intenzione di
sprecarlo. ― a
quella risposta, nessuno replicò. Tutto il contrario, i
commensali gli fecero i
complimenti e mia madre fu costretta a desistere all’idea di
metterlo in
cattiva luce.
La serata passò tra
ottime portate e fantastiche risate. Non mi ero mai divertita tanto,
nel mio
mondo, come quella sera. Nonostante volessi negarlo a me stessa,
dovetti
ammettere che il merito era completamente di Edward.
Una volta finita la
cena, era solito degli uomini, ritirarsi nella sala fumatori e parlare
di
affari. Normalmente, a quel punto, me ne andavo in camera –
stufa di sentir
parlare mia madre del mio avvenente matrimonio – ma quella
sera speravo che le
cose procedessero diversamente.
― Viene anche lei,
Edward? ― domandò Carlisle, salutando Esme.
― No, grazie lo
stesso per l’invito, signore.
― Non vorrà restare
qui, con le donne, mi auguro. ― lo schernì Mike,
sogghignando.
― No, si figuri,
Mike. ― rispose Edward, con suo stesso tono ― Penso che
tornerò nella mia
cabina. ― quella frase mi riportò alla realtà.
Speravo di passare
una serata diversa, invece la realtà stava tornando
prepotente a svegliarmi.
― Te ne vai
davvero, Edward? ― piagnucolai, sperando che mi rispondesse che sarebbe
rimasto
con me.
― Devo andare,
Bella. ― disse, alzandosi e venne davanti a me ― La mia piccola
parentesi tra i
reali è finita. Adesso devo tornare a remare con gli
schiavi! ― concluse,
ridendo.
― Mi sono
divertita, Edward. ― ammisi, sottovoce ― Per la prima, mi sono
divertita a
stare nel mio mondo, senza sentirmi un pesce fuori dall’acqua.
― Buona notte,
Bella. ― parlò, prima di farmi nuovamente il baciamano.
Sorrise e lo sentii
sussurrare ― Se vuoi venire ad una vera
festa, ti aspetto all’orologio. ― si alzò di
scatto e, continuando a fissarmi,
sparì tra la gente.
Restai interdetta
per diversi secondi, mentre le sue parole continuavano a vorticarmi in
testa.
Cosa intendeva dire con quella frase, quale vera festa? Ma la domanda
da pormi
era un’altra: volevo davvero saperlo? La risposta era no.
Volevo separarmi da
lui, già da ora? Ancora no. Lo avrei seguito, quindi?
Assolutamente sì.
Il
clima che si
respirava in terza classe, era assolutamente diverso da quello a cui
ero
abituata tutti i giorni. Non c’era cattiveria nello sguardo
delle persone,
ognuno aiutava l’altro – anche in cose
semplicissime, come dare una mano al
compagno di bevute che, troppo sbronzo, cadeva a terra –
senza volere nulla in
cambio. I volti delle persone, poi, erano rilassati, sinceri e
spensierati. Per
la prima volta in tutta la mia vita, desiderai essere nata sotto un
ponte.
― Quindi tu sei la
famosa Bella! ― disse Jake, l’amico di Edward ― Eddy non
smette mai di parlare
di te, da quando ti ha conosciuta.
― Davvero? ―
domandai, sorseggiando la mia birra.
― Giuro,
principessina! Gli sei entrata dentro! Anche se penso che lui voglia
entrare
dentro di te, mmm… ― a quella frase sputai la bevanda,
bagnando un signore che
mi sedeva davanti.
― Mi scusi! ―
urlai, cercando di sovrastare la musica con la mia voce.
― Jacob, cosa le
hai fatto? ― domandò Edward, correndo verso di noi ― Bella,
stai bene?
― Io? Non le ho
fatto niente! Le ho solo detto che ti è entrata dentro e
che… ― lo bloccai,
prima che potesse dire altro.
― E che questa è
una cosa bellissima! Edward, balliamo un po’? ― chiesi,
alzandomi, e trascinai
Edward sulla pista. Il problema, però, era che non sapevo
come diamine si
ballava! Non conoscevo quella musica, ottenuta da zampogne irlandesi,
violini,
e note così rumorose e ritmate.
― Allora? Non ti va
più?
― Ehm, non so come
si fa. ― ammisi, guardandomi intorno ― Non ho mai ballato questa
musica! ―
urlai, affinché mi sentisse.
― Fidati di me, ok?
― domandò, afferrando le mie mani ― Dovrei… ―
sussurrò, facendo scivolare la
mano sinistra sul mio fianco. Quel contatto mi fece tremare,
provocandomi una
marea di brividi. Prese la mia mano sinistra, nella sua destra, e mi
attirò a
sé con uno scatto deciso ― Dobbiamo avvicinarci di
più. ― sussurrò al mio
orecchio, e il suo fiato – a contatto con la mia pelle
– mi incendiò le guance.
Senza rendermene
conto, stavo ballando. Una danza vera, fatta di risate e passi
divertenti. Mi
sentivo libera, era come volare senza avere le ali; era come respirare
sott’acqua, senza aver bisogno dell’ossigeno.
Edward era il mio ossigeno; lui
era la mia libertà.
― Allora, ti sei
divertita? ― domandò il mio accompagnatore, mentre stavamo
camminando sul
ponte.
L’aria era fresca,
quella sera, così mi aveva gentilmente offerto la
“sua” giacca. La accettai
senza riserve, e per tutto il tempo che la ebbi addosso ispirai
vergognosamente
il suo odore. Sapeva di mente piperita; deciso, forte e dannatamente
sexy.
― Moltissimo,
Edward. ― risposi, fermandomi davanti all’entrata della prima
classe ― Grazie
per questa serata. È stato tutto incantevole.
― Tu sei
incantevole. ― sussurrò, guardandomi intensamente.
Non riuscivo a
togliergli gli occhi di dosso. Era come se il suo sguardo fosse una
calamita
per il mio. Quello smeraldo brillante era come una droga, per me; una
droga a
cui non avrei mai voluto rinunciare.
― Non voglio
andare. ― parlai flebile, facendomi scappare una risata isterica ― Non
voglio
che finisca, questa sera.
― Tutte le sere
finiscono, Bella. ― rispose, sorridendomi amaramente ― Così
vanno le cose. La luna
sorge in cielo e poi scompare, per lasciare posto al sole e quindi al
giorno. ―
era la prima volta che lo vedevo così… rassegnato.
Era strano vedergli quell’espressione sul viso; mi domandai
se non ne fossi io
la causa.
Alzai il volto e mi
persi a guardare le stelle. Erano incredibili, belle e brillanti. Non
tirava un
soffio di vento, nonostante l’aria quasi gelida; di nuvole,
poi, non ve n’era
alcuna traccia.
― Guarda, Edward!
Sono incredibili. ― dissi, avvicinandomi alla balaustra del ponte ―
È così
vasto e infinito quassù. I ricchi si credono
chissà chi, ma sono solo polvere
agli occhi di Dio. ― affermai, continuando a contemplare il cielo
scuro.
― Una stella
cadente! ― urlò lui, indicandomi una scia nel cielo ― Almeno
credo. Che scia
lunga… ― mormorò tra sé e
sé ― Sai, mio padre sosteneva sempre che le stelle fossero
le anime delle persone che ora non ci sono più, mentre le
stelle cadenti
rappresentassero le nuove nascite; una nuova vita che veniva al mondo.
― Davvero? ―
domandai stupida da quella visione ― Sì, mi piace.
― Il blu ti dona. ―
disse, cambiando argomento.
― Grazie… ―
risposi, arrossendo. Il cuore aveva già preso a correre da
solo, come un razzo
― Ehi, ma non dovremmo esprimere un desiderio?
― Un desiderio? ―
chiese scettico, alzando un sopracciglio ― Cosa potrebbe mai desiderare
una
fanciulla altolocata come te? ― domandò, avvicinandosi
pericolosamente al mio
viso.
Te…,
avrei voluto rispondere. Ma sapevo benissimo che era impossibile.
C’erano
troppe discrepanze tra di noi. Il mondo da cui provenivamo,
soprattutto, era
totalmente l’opposto. I miei genitori non mi avrebbero mai
lasciata libera di
seguire il mio cuore; di seguire qualcosa che, nonostante andasse
contro tutto
quello in cui credevano, mi rendesse felice. Qualunque cosa stessi
provando per
Edward, dovevo sopprimerla.
― Qualcosa che non
posso avere. ― risposi, rendendomi conto che fosse ora di andare.
Feci qualche passo
indietro e gli restituii la sua giacca. Lui
l’afferrò, senza staccare per un
secondo gli occhi dai miei, e mi sorrise in modo strano.
― Buona notte,
Bella. ― sussurrò, molto lentamente. Non risposi, gli voltai
le spalle e tornai
nella mia stanza.
Fortunatamente, Mike e gli
altri non erano ancora rientrati. Decisi quindi di cambiarmi, ma volevo
farmi
un bagno, prima. Chiamai perciò Jane, la mia fidata
cameriera e consigliera.
Una volta preparata la vasca, mi immersi, pregando che tutti i miei
pensieri
venissero portati via.
* Le parti in corsivo - eccezion
fatta per i pensieri di Isabella e alcune parole - sono prese da film Titanic, di James Cameron.
Inoltre, se a qucluno può interessare, sul mio blog, sempre domani in serata, pubblicherò un post con tutta la vicenda e i nomi delle persone che vissero realmente quel dramma.
Il mio blog si chiama Violet Moon, se vi va... :)
Detto questo vi lascio, un abbraccio!