Fanfic su artisti musicali > Tokio Hotel
Ricorda la storia  |      
Autore: LadySherry    16/04/2012    3 recensioni
«La verità è che ho sempre avuto paura di me stesso. Sì, credo sia per questo che l'ho lasciata andare. Ho avuto paura di amarla, di rendermi conto, un giorno, di non poter più stare senza di lei. Di svegliarmi la mattina e avere la certezza di non vederla sparire come una poco di buona alle prime luci dell'alba. Sì, le certezze mi spaventavano, mi spaventano ancora oggi. Non credo d'esser pazzo, solo un po' strano. Mi dica, secondo lei, qual era la cosa giusta da fare?».
Erano ore che conversavamo, io e lui. Con i suoi occhiali tristemente calati sulla punta del naso, appuntava tutto ciò che fuoriusciva dalla mia bocca, tutte le parole tristi, allegre, prive di significato e intrinseche di tutto il resto.
Non lo sopportavo, ma avevo bisogno di parlare con qualcuno e, per mia sfortuna, quel qualcuno era lui. Avevo visto troppe persone sparire e allontanarsi per permettermi di fare il moralista e pretendere di poter scegliere.
«Signor Kaulitz, lei non è pazzo. Ha mai considerato l'idea di aver fatto davvero la cosa giusta?»
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Tom Kaulitz
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Cara Lili, sei stata a lungo

tutta la gioia, tutto il mio canto;

adesso, ahimè, sei tutto il dolore,

e tutto il mio canto, ancora.

(J. W. Goethe)

 

 

 

 

 

«La verità è che ho sempre avuto paura di me stesso. Sì, credo sia per questo che l'ho lasciata andare. Ho avuto paura di amarla, di rendermi conto, un giorno, di non poter più stare senza di lei. Di svegliarmi la mattina e avere la certezza di non vederla sparire come una poco di buona alle prime luci dell'alba. Sì, le certezze mi spaventavano, mi spaventano ancora oggi. Non credo d'esser pazzo, solo un po' strano. Mi dica, secondo lei, qual era la cosa giusta da fare?».

Erano ore che conversavamo, io e lui. Con i suoi occhiali tristemente calati sulla punta del naso, appuntava tutto ciò che fuoriusciva dalla mia bocca, tutte le parole tristi, allegre, prive di significato e intrinseche di tutto il resto.

Non lo sopportavo, ma avevo bisogno di parlare con qualcuno e, per mia sfortuna, quel qualcuno era lui. Avevo visto troppe persone sparire e allontanarsi per permettermi di fare il moralista e pretendere di poter scegliere.

«Signor Kaulitz, lei non è pazzo. Ha mai considerato l'idea di aver fatto davvero la cosa giusta?» mi chiese, senza guardarmi e senza staccare gli occhi da quella dannatissima cartellina gialla.

«Allontanarla?».

«Esatto».

«Mi manca. Mi manca lei, mi manca l'aria e il respiro quando non c'è. Se soffro così tanto, com'è possibile aver fatto la scelta giusta?».

«Allora perchè l'ha fatto?».

«Non lo so, ma ieri l'ho vista al centro commerciale. Era bella, bella da non credere. Credevo di avere un'allucinazione, una visione mistica, qualsiasi cosa ma che fosse la realtà, proprio no. Poi le si è parato accanto un ragazzo alto, biondo e muscoloso, e ho capito che sì, era tutto vero. L'ho vista felice, sorrideva, stringeva la sua mano e lì ho capito di aver fatto la cosa giusta per lei. Ho sempre fatto qualsiasi cosa, pensando a lei. Dormivo, per lei. Sognavo, per lei. Sorridevo e amavo, per lei. E tutto ciò che ho ricevuto è stato questo, un rimpiazzo».

«Si sta contraddicendo di nuovo, Tom».

«Le racconto com'è andata, così magari la smetterà di torturarmi con queste frasi strazianti».

 

 

 

 

Com'è possibile che in un mondo come questo le persone riescano a soffrire? In un posto dove si può raggiungere tutto? Dove si può toccare il cielo con un dito e due secondi dopo finire all'Inferno?

Mi chiedo cosa ci sia, allora, di sbagliato nelle persone, specialmente in quelle che incontro io. Perchè tutti sentono il costante bisogno di dover appartenere a qualcuno? Di doversi legare, in qualsiasi modo possibile, fino alla morte? Perchè privarsi della propria libertà?

Mi chiedo queste cose mentre passeggio lungo le vie di Los Angeles con le mani nelle tasche dei jeans diventati improvvisamente della taglia giusta, con il sole a scaldare il viso di un uomo che ormai non si riconosce più. Non mi riconosco davanti allo specchio, non mi vedo negli occhi degli altri.

Mi sento un po' un alieno; chissà che lassù, nello spazio, qualcuno assomigli un po' a me. Mi aiuterebbe a non sentirmi diverso, strano, tagliato fuori.

L'uomo è posseduto da una sostanza che lo muove come pedina di un gioco da tavolo che dura una vita; mi muovo come un automa sapendo perfettamente dove le azioni mi porteranno, alla fine del gioco. Siamo tutti destinati a un unico destino, eppure so perfettamente che il mio sarà diverso. Ognuno di noi, ce l'ha diverso. Qualcuno dovrebbe insegnare nelle scuole che la vita al di fuori di quelle mura è spietata, vige la legge della meritocrazia solo dove risulta più comoda, con meno compromessi.

La gente evita i compromessi, lo fa per pura natura, per puro istinto innato.

O almeno, io ora sono così.

Ricordo perfettamente il giorno in cui accettai di vivere una vita non mia per stare con lei. Ricordo perfettamente il giorno in cui, lei, accettò di tenere il mio passo.

Ricordo anche, purtroppo, quando le dissi che le nostre strade si sarebbero divise snodando quel groviglio di fili che ci teneva uniti.

Avrei voluto che qualcuno mi avesse detto che stavo sbagliando, che la mano che afferravo dieci minuti dopo era quella sbagliata. Avrei voluto che le lacrime servissero a nutrire qualcosa di nuovo, non di micidiale. Avrei voluto non arrendermi.

Ho accettato un compromesso.

Dio, io vivevo di compromessi.

Ora per cosa vivo? Io vivo?

Mi fermo sedendomi a una panchina sotto l'ultima palma del viale, osservando la gente scorrermi davanti. Quando anche l'ultima persona che ti è rimasta ha deciso che non servi più, cosa resta da fare? Quando vorresti non esserti mai arreso, non aver accettato uno stupido compromesso?

Se c'è una cosa che imparato dalla signor Fitz, è che guardarsi indietro non può che peggiorare le cose. La vita ha bisogno di sapere che non abbiamo voglia di viverla, questa è la verità.

Noi abbiamo bisogno di questo, di essere leali con noi stessi e poi con il mondo.

Lili lo era. Lo è ancora.

E' altruista, forte, coraggiosa e spensierata. Non ha bisogno di me, non più.

Ma io sì, ho un fottutissimo bisogno di lei. Di sentire che qualcosa è rimasto, che noi siamo diversi, che possiamo farcela.

Tiro fuori il cellulare dalla tasca della giacca e faccio scorrere i numeri della rubrica fino ad arrivare al suo. Esito un attimo, poi lo lascio squillare.

Sentire la sua voce mi farà male, mi renderà triste, starò male. Ma quando si ha bisogno di qualcosa le conseguenze non contano. Perchè ho bisogno di essere felice, anche solo per dieci secondi. Ho bisogno di vivere ancora un po', almeno un altro po'.

«Pronto?».

E' lei, lo so. Guardo l'Oceano di fronte a me e il suono della sua voce mi fa tornare in Paradiso. Non esiste momento più bello di questo. Vorrei farlo durare per sempre.

«Pronto?».

Se solo sapesse cosa sento, se solo sapesse che sono io a chiamarla sarebbe tutto più facile. Sarebbe tutto più semplice. Ma non sarebbe così...perfetto.

«Pronto?».

Non ho intenzione di parlare, ma la forza di premere il tasto rosso è svanita. Non ci riesco, voglio sentire il suo della voce.

Ancora.

Ancora.

E ancora.

«Tom?».

Il mio cuore si blocca per un paio di secondi, per poi riprendere a battere nella sua folle corsa. Sorrido impercettibilmente, alzando di appena gli angoli della bocca.

Riesce a sentirmi, come io sento lei. La sento a chilometri di distanza, i mio cuore sa dove andare quando la vuole.

«Tom, sei tu?».

«Sì».

Lo dico senza volerlo, con l'impulso irrefrenabile di mangiarmi la lingua.

Sospira, quasi come se avesse sperato fino all'ultimo di sentirsi dare risposta negativa.

Non dico altro, chiudo la telefonata e ripongo il cellulare nella tasca della giacca. Non sarebbe servito a niente, devo tornare sui miei passi.

Devo voltare pagina e guardare al di là di ciò che non posso vedere perchè non mi sforzo di farlo nemmeno un po'.

Mi alzo dalla panchina e inizio a camminare.

Le mie gambe sanno dove andare.

Il mio cuore sa dove andare.

Mi affido a loro e non bado più a niente.

 

 

* * *

 

 

«Tom, oggi voglio che mi spieghi tutta la storia, dall'inizio alla fine».

 

Lo diceva ogni volta e io sapevo che nella sua testa tutto questo doveva avere un senso.

 

«Signor Fitz, lei mi sta dicendo che dovrei, per l'ennesima volta, spiegarle tutta la storia?».

«Esatto. Avanti, non farti pregare».

 

Aveva cominciato a darmi del tu già dalla terza seduta; forse aveva capito che per quel poco che era rimasto di me, valeva la pena di considerarlo.

Ogni volta ripetevo tutto, dall'inizio alla fine.

Il brutto è che mi sentivo anche meglio, dopo essermi svuotato del marcio che c'era.

Ero passato dalla fase di adorazione alla fase di disprezzo per Lili. Non c'era essere peggiore al mondo, per me. Non la consideravo se non per accusarla di avermi rovinato la vita.

Lei mi aveva dato il suo numero, lei aveva accettato di ballare con me, lei aveva preso l'iniziativa al quinto al appuntamento e lei aveva gestito tutta la storia.

Ma per quanto potessi odiarla, sapevo che dentro di me qualcosa di lei ancora era rimasto.

 

«E' cominciato così, per scherzo. Al pub facevano la serata karaoke e mio fratello mi ci aveva trascinato praticamente di peso; avevo altri programmi, quella sera. Ma nonostante tutto, accettai. Arrivati al pub Bill si era fiondato sul palco intonando, nemmeno a farlo apposta, una delle nostre vecchie canzoni. Il lupo perde il pelo ma non il vizio, giusto? Poi è entrata lei con le sue amiche e un ragazzo che non la smetteva di toglierle gli occhi di dosso, anche se lei sembrava non filarselo proprio. Mi sono alzato dallo sgabello, mi sono avvicinato e ho detto: “Ciao, io sono Tom”. Tutti sono scoppiati a ridere, lei no. Credo sia stato questa la scintilla, capisce? Mi ha preso la mano, l'ha stretta e ha risposto: “Io sono Lili, ciao”.».

 

Dopo un po' mi fermavo, forse perchè i ricordi erano sempre troppo forti anche per me.

Il signor Fitz non sembrava farne un caso di stato, per questo riuscivo a prendermi tutti il tempo che mi serviva.

Mi piaceva parlare con lui perchè, nonostante l'età, sembrava voler dimostrare che non era mai stata un problema. Gli piaceva aiutare gli altri, prendersi cura dei bisognosi, ascoltare chiunque avesse bisogno di un po' di silenzio e un paio di orecchie.

 

«Abbiamo parlato tanto, quella sera, e ci siamo divertiti un sacco a prendere in giro Bill che ormai non era più abituato ad avere un microfono in mano. Quella sera mi ha dato il numero di telefono. L'ho chiamata il giorno dopo, non volevo aspettare. Siamo usciti, usciti e usciti. Andavamo a mangiare un gelato al pomeriggio o la portavo a cena la sera. Poi è arrivata la chiamata dell'Universal, volevano concederci una nuova possibilità; il video caricato su youtube da una fan presente la sera del karaoke aveva portato fortuna alla band. Erano eccitatissimi, Gustav e Georg ci avevano raggiunti due giorni dopo la telefonata. Io stavo a pezzi. Lili stava a pezzi. Non sopportavo l'idea di dovermi separare da lei per dedicarmi a un sogno che ormai avevo imparato a sopprimere. Rinunciai a firmare il contratto, la band si sciolse. Bill iniziò ad odiarmi. Gustav e Georg iniziarono ad odiarmi. Le fan si presentavano sotto casa pregandoci di tornare. Non volevo ascoltarle, non le ascoltavo affatto. In quei momenti mi giravo verso Lili e il suo sorriso comprensivo riusciva a tranquillizzarmi, a farmi capire che avevo fatto la scelta giusta. Ma qualcuno soffriva, io soffrivo. Come poteva essere la scelta giusta?».

Il signor Fitz appuntò nuovamente qualcosa, per poi togliersi gli occhiali e riporli sulla scrivania. Spostò il suo sguardo su di me e sospirò, comprensivo. «Tom, non esistono cose giuste o sbagliate. Esistono cose che vanno fatte e altre no. Devi seguire te stesso, chiederti “Cosa voglio veramente da me stesso? Cosa voglio dalla vita? Cosa voglio dagli altri?”».

«Per lei è facile parlare, dottore. Lei non ha vissuto tutto questo» risposi, cercando di mantenere il mio solito fenomenale autocontrollo.

«Mia moglie è morta venticinque anni fa. E' stato straziante, sai? Ma poi si impara a convivere con il dolore e tutto diventa più facile».

Esitai un attimo prima di parlare, poi mi lasciai sfuggire un sospiro e non parlai affatto.

 

Discutere sul dolore degli altri non faceva per me, proprio no. Del mio avevo un sacco di cose da dire, eppure degli altri non avevo mai idea di come fare.

Forse perchè sapevo di non essere mai stato compreso abbastanza, forse stavo ribaltando la situazione credendo di fare ciò che più mi sembrava opportuno.

Il signor Fitz era un uomo buono, leale.

L'unico di cui mi fidassi, l'unico che si fidò di me.

 

 

 

* * *

 

 

 

Arrivo davanti a casa sua. E' proprio come la ricordavo.

Attraverso il piccolo giardino lasciato aperto senza recinzione e busso tre colpi sulla porta.

Mi apre quasi subito e quel mi si para davanti è la visione più bella e terrificante del mondo. I capelli perfettamente raccolti in una coda alta, il vestitino a fiori che si era comprata in Messico due anni fa, gli occhi truccati al punto giusto in modo da far risaltare quel colore immenso come il mare.

E' perfetta, perfetta da non credere.

«Cosa fai qui?» chiede, stupita.

«Sono venuta a dirti un paio di cose, ma fammi entrare, odio stare sulla soglia della porta come un imbecille» sbuffo, facendomi strada per poi fermarmi al centro del salotto.

Chiude la porta e mi raggiunge, facendomi segno di seguirla in cucina. Non aspetto il suo invito, mi siedo su una sedia e la guardo mentre armeggia con il pentolino del tè.

«Sei bellissima» lascio sfuggire, pentendomi due secondo dopo di quel che ho detto.

Si gira a guardarmi, con un sorriso appena tirato, a malapena convinto. «Grazie».

«Sei anche una stronza. Mai pensato di darmi un colpo di telefono? Di chiamarmi e dirmi “Ehi, la nostra storia è finita”. Oppure “Ehi Tom, vattene a fanculo, ma grazie di avermi dato di nuovo la libertà”. Perchè devo sempre suggerirti cosa fare?».

Si avvicina e mi accarezza una guancia. Istintivamente chiudo gli occhi, dimenticando per un momento tutto l'odio che provo per lei, tutto l'amore che provo per lei. Tutto il rancore e la rabbia che provo per noi.

«Sei stato tu ad allontanarti da me. Io ti avrei amato sempre, lo sai».

«Non c'era altra soluzione».

«Ti amo».

«Ti odio».

Sorride, senza staccare la sua mano dalla mia guancia. Prendo quella mano tra le mie e la guardo per un attimo, beandomi di quel momento perfettamente identico a qualche mese fa.

«Meglio se te ne vai. Tra un po' dovrebbe tornare Matt.»

«E' così ce si chiama, allora. Bene, adesso almeno so il suo nome».

«Mi dispiace».

«Di spiace più a me».

Mi alzo dalla sedia e senza voltarmi indietro e senza aggiungere altre esco di corsa da casa sua.

Ogni passo mi ricorda che ho fatto male ad andare da lei.

Ogni passo mi rende felice, esausto, triste.

Ogni passo è una pugnalata al cuore, ma più mi allontano e più sto meglio.

Le ho detto tutto, non le ho detto praticamente niente. Di tutto quello che avevo nel cuore, un buon novanta per cento è morto in gola ancor prima di vedere la luce.

Sono un idiota e un essere umano.

Due sinonimi che, purtroppo, per me fanno la differenza.

 

 

 

 

Two years later

 

 

 

Dicono che prima o poi scriveranno il mio nome sui muri delle case, dei palazzi, dei ponti, delle chiese. Dicono lo scriveranno ovunque, che echeggerà nei giorni e negli anni senza svanire mai.

Io ci credo.

Forse un po'. Forse tanto.

Forse per niente.

Ciò che so è che la mano che stringo nella mia non è la sua, ma si eguaglia perfettamente.

Camminiamo da ore lungo la spiaggia di Sacramento e ciò che riesco a pensare è a quanto perfetta sia ora la mia vita. A quanto il percorso fatto con il signor Fitz mi sia servito a caricarmi per bene.

«Oddio, Tom!» urla ad un certo punto, fermandosi di colpo.

Mi volto verso di lei e la guardo, preoccupato.

«Cindy, che succede?».

«Ha calciato. Tom, ha calciato!».

Porto una mano sul suo ventre gonfio e sorrido come uno scemo, beandomi di una delle gioie più belle della vita. A volte penso che se non mi fossi lasciato Lili alle spalle, probabilmente sarei finito a vendere cioccolatini nel Bronx, provando a renderlo un posto migliore. O a fare il bagnino a Venice Beach, o a raccattare rifiuti per le vie di Los Angeles, chi lo sa.

Camminiamo ancora un po' fino a fermarci in fondo alla spiaggia. Ci sediamo su un tronco di legno bianco, ossidato dalla salsedine, e guardiamo l'orizzonte di fronte a noi.

«Ho chiamato Bill, ieri. Dice che verrà a trovarci non appena la bimba o il bimbo sarà nato».

Batte le mani, felice. «Non vedo l'ora, anche perchè ha promesso di aiutarmi ad arredare la cameretta!».

«Non era una cosa che avremmo dovuto fare insieme?» le chiedo, accigliato.

Scrolla le spalle, indifferente. «Non importa, io e tre avremo tutta la vita per prenderci cura dei nostri figli e di certo non sarà una camera a fare la differenza».

Le sorrido, lieto di udire il per sempre uscire dalla sua bocca.

Con il braccio sinistro circondo le sue spalle, mentre con la mano destra accarezzo piano il ventre, dove si trova nostra figlia.

Sono felice, felice che dal profondo di lei siano nato un qualcosa di speciale e unico come questo.

 

 

Non so se sono vivo o morto, ma sono qui, con te.

E mi piace.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note: eccomi qui. Non scrivo una one shot dai tempi dell'età della Pietra! Spero vi piaccia e fatemi sapere cosa ne pensate :)

  
Leggi le 3 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Tokio Hotel / Vai alla pagina dell'autore: LadySherry