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Autore: Anouk92    17/04/2012    1 recensioni
"Così alla giovane età di diciassette anni scappai di casa e andai a rifugiarmi sulla collina di Monmatre. Non potrò mai dimenticare la sensazione di libertà provata dopo aver varcato il cancello di casa mia quella notte d’inverno. La neve era altissima ma io, riuscii ad uscire da quella villa e ad andare via.
Da quel momento in poi per nessuno sarei più stata Isabel, la figlia dei Louvet ma tutti mi avrebbero chiamata Fanny, la ballerina del Moulin Rouge. "
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
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Il mulino era fermo e illuminato. Rosso come un pomodoro maturo. I miei occhi da bambina luccicavano al vedere quello spettacolo, quando la sera passavo sporadicamente con i miei genitori da Pigalle. Mia madre veniva prontamente a prendermi a forza e portarmi via da quel posto. A me piaceva guardare il Moulin Rouge, e rimanere affascinata dalle luci,dalla musica e dalla gente che usciva ed entrava entusiasta. Lo vedevo come una sorta di filtro magico per l’allegria, come una pillola che desse felicità e spensieratezza. Ma allora avevo solo sei anni ed ero troppo piccola per capire cosa succedesse lì dentro. Io avevo sempre visto Monmatre come il quartiere della libertà e Pigalle mi sembrava il massimo, forse perché ero cresciuta in una famiglia troppo oppressiva e pressante. Mia madre era una donna di classe che amava i gioielli e i bei vestiti del tempo e mio padre passava parte del suo tempo a controllare i suoi investimenti, le entrate e le uscite e tutto il resto. Ora forse ci si potrebbe chiedere: come mai una ragazza cresciuta in tanto sfarzo e lusso decide di abbandonare la sua villa a place vandome per andare a vivere a due passi dal quartiere del Moulin Rouge? Vi spiegherò la mia storia a partire da quando, dopo la morte della mia adorata nonna, la mia vita diventò un inferno. Non avevo una vita mia. Mia madre continuava a preoccuparsi di trovarmi un buon partito per condurmi all’altare e la mia vita passava tra i salotti di Parigi, conoscendo famiglie ricche e benestanti, ragazzi belli e antipatici oppure brutti e un po’ sciocchi. Mio padre era sempre preso dalle sue faccende di lavoro e per lui ero un peso che bisognava scaricare a qualcun altro, ovvero ad un marito imminente. Così alla giovane età di diciassette anni scappai di casa e andai a rifugiarmi sulla collina di Monmatre. Non potrò mai dimenticare la sensazione di libertà provata dopo aver varcato il cancello di casa mia quella notte d’inverno. La neve era altissima ma io, riuscii ad uscire da quella villa e ad andare via.
Da quel momento in poi per nessuno sarei più stata Isabel, la figlia dei Louvet ma tutti mi avrebbero chiamata Fanny, la ballerina del Moulin Rouge.
 
Il mulino rosso
 
Ovviamente, una volta scappata di casa mi ero ritrovata sola per una Parigi a me sconosciuta e nemica. Quella notte stessa in cui fuggii attraversai tutta la città in cerca di quella collina tanto desiderata. La strada era piena di neve e la città ornata di luci sfavillanti. Continuai la mia corsa pazza fino alla prime luci dell’alba. Il cuore sembrava un cavallo da corsa e avevo la sensazione che stesse per scapparmi via dal petto tanto era forte il suo battito. Poi, ad un tratto, quando ormai avevo visto la strada diventare sempre più buia, e la neve sempre più alta, e la salita sempre più ripida, la vidi la mia amata collina. Notai le stradine illuminate dai lampioncini ai margini e le insegne dei negozietti luccicare leggermente grazie alla luce. Il sole era quasi sorto, e lo vedevo salire da dietro la basilica del Sacro- cuore, che splendeva bianca, come una colomba. Avevo i piedi gelati, e i capelli umidi come non mai. Con le mani tenevo lo scialle che mi avvolgeva dal collo ai fianchi, mentre il mio povero vestito rosso di seta era sporco nella parte finale della gonna, che poggiava a terra. Avevo l’aspetto di una profuga, ma mai mi ero sentita  più felice in vita mia. Cominciavo a vedere il quartiere prendere vita. Niente a che vedere con il centro di Parigi. La gente apriva i balconi dei piani superiori delle piccole casette, le madri gettavano in terra secchiate d’acqua o scuotevano i panni dalle finestre. I caffè erano già aperti e si andavano riempiendo di artisti, letterati e gente che sembrava tirare avanti giorno dopo giorno, mentre la piazzetta di Pigalle era piena zeppa di pittori e artisti, che passavano le loro giornate con il cavalletto sotto braccio e i pennelli in mano, pronti a ritrarre qualche scena significativa e non. Il mio viaggio continuava imperterrito, e nonostante la stanchezza, il freddo, la fame, e gli apprezzamenti poco carini da parte di certi uomini e credo anche donne, cominciai la mia discesa tra i negozi fino al Mouline Rouge. Sui muri liberi da vetrine, porte e finestre, i miei occhi cominciarono a posarsi sulle stampe di ballerine di can can e su tutti i manifesti che non era facile trovare nella Parigi centro dell’epoca.
Da lontano intravidi il mulino rosso. La mia felicità si trasformò in ansia. E se qualcosa fosse andato storto? E se non fossi riuscita a farmi una vita lì? Con che faccia sarei tornata a casa da mia madre? E, cosa più importante, avrei avuto il coraggio di sposare uno di quegli uomini che per tanto tempo mi avevano fatto schifo?
Tante domande cominciarono a balenarmi nella testa, troppe! Non riuscivo a sopportare l’idea di tornare a casa per vivere da schiava, così presa dal coraggio e dall’incoscienza, entrai dalla porta del Moulin Rouge.
Il pavimento era appena stato lucidato, e c’erano delle donne che stavano pulendo il resto del locale.
Tutto aveva un calore particolare e mi sentii avvolta in una piacevole sensazione di affetto. Stavo già cominciando a fantasticare sul mio futuro non tanto prossimo, quando una mano mi afferrò il braccio destro con forza. “Ah!”- urlai io, tanto più per lo spavento, quanto per il dolore. Mi voltai di scatto e vidi un uomo che non sembrava avere alcuna intenzione di lasciarmi andare. La figura che avevo dinanzi era possente, gli occhi di un azzurro- grigio malinconico, le labbra piuttosto carnose e il naso lungo, quasi aquilino, mentre i capelli erano tirati indietro. Aveva in viso un pallore cadaverico, ma il pizzetto e i baffi gli davano una certa classe. Mi guardò con quegli occhi per qualche secondo. Mi squadrò tutta, dalla testa ai piedi, senza saltare una sola parte del mio corpo. “Quanti anni hai?”- mi chiese, rivelando una voce gentile e pacata.
“Diciassette, signore”- risposi, chinando un po’ la testa per la vergogna.
“Non sei un po’ piccola per venire qui da sola?”.
“No, signore. Io ho bisogno di lavorare!”.
La scaltra volpe allora trasse in inganno il piccolo agnello ingenuo.
“Sicura di voler lavorare qui? Guarda che qua non scherziamo. Non è un posto per bambini, né tanto meno ci si lamenta. E tu- mi strappò via lo scialle- non sembri essere molto resistente! Piuttosto sembri una di quelle viziatissime …”.
Lo bloccai all’istante: “Signore, io voglio stare qui!”.
“Vieni con me, allora!”.
Lo seguii. Mi aveva portato in una stanza con al centro una scrivania. Lui si sedette, mentre io rimasi in piedi a guardarmi intorno. Era tutto così perfetto. La moquette, le librerie, il fumo della pipa…tutto era perfetto.
“Allora, quanti anni hai?”.
“Diciassette”.
Prese un foglio e lo appuntò.
“Come ti chiami- e dopo avermi lanciato un’occhiataccia, aggiunse-veramente?”.
“Isabel… Isabel Louvet, messere..”.
Scrisse anche questo.
Si alzò dalla sedia e si avvicinò a me. Mi prese il viso con una mano e me lo spostò di qualche centimetro, giusto per guardarmi bene.
“Occhi scuri, capelli castani, labbra carnose, il naso è apposto…”- farfugliò tra sé e sé.
Poi con l’altra mano mi tocco il collo e mi odorò i capelli. Mi guardò tutta una seconda volta.
“Mmm…bene, bene….sai cantare?”.
“Si.”.
“Ballare?”.
“Non bene…”.
“Imparerai, allora.”.
Mi girai verso di lui.
Vidi arrivare di lato una donna alta, bionda, e con gli occhi più scuri di un cervo.
Il signore allora le disse: “Bettina, accompagna Fanny a vestirsi!”.
Io sorrisi e mi lasciai guidare dalla donna.
Arrivammo in una grande sala con degli specchi e dei trucchi.
Bettina si mise davanti a me, fumando un sigaro. Mi guardò e disse: “Bel vestito, ma da oggi non esiste più!”.
“Va bene..”.
“Si, va bene… ora spogliati e metti questo.”
E così dicendo mi prese un costume rosso da can can.
Lo misi. Ero carina, ma la parte migliore doveva ancora venire fuori.
Bettina mi fece sedere su una sedia e cominciò a truccarmi. Dopo qualche ora ero un’altra persona. Avevo lo stomaco che brontolava per la fame.
“Devi abituartici!- mi disse Bettina- qui si mangia solo se si lavora bene!”.
Da quel momento ero Fanny. Solo Fanny! Un’altra persona. Qualcuno che nessuno avrebbe potuto giudicare. E anche se così fosse stato avrei saputo cavarmela.
Mi guardai allo specchio. Il trucco che avevo sul viso mi rendeva bella ai miei occhi, ma non sapevo che il mio Inferno era appena cominciato.
“Sai ballare?”- mi chiese Bettina, dandomi un paio di scarpe nere lucide col tacco .
“Si, non tanto bene però..”.                       
“Imparerai…se sei piaciuta al capo devi imparare perché la tua vita è qui adesso Fanny!”.
Quella frase che mi era sembrata di speranza, che quasi mi aveva donato una nuova gioia qualche anno dopo mi avrebbe fatto tremare e rimpiangere di non aver rifiutato.
Io, così giovane e inesperta come ero mi ero cacciata nel guaio più grosso della mia vita. Quel mulino mi sarebbe costato lacrime e dolore.
 
  
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