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Autore: FitzChevalier    17/04/2012    3 recensioni
Sembrava tutto tranquillo, aveva detto, poi quei figli di puttana erano saltati fuori dal nulla e Takeshi si era trascinato fino alla base con solo metà della faccia. Non c’era stato bisogno che ci spiegasse come si era fatto fregare. L’avevamo sentita tutti, quell’esplosione.
Guardai il mio orologio da polso: le lancette nere segnavano le sei di sera. «Dobbiamo sbrigarci.»
Genere: Azione, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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NON CHIAMARMI BIANCONIGLIO
 


L’aria lì sotto era soffocante, e puzzava di muffa.

Mi sedetti contro la parete dello scantinato, fra le gambe la borsa di scuola e la mia Glock 17 a portata di mano. Bevvi in un unico sorso quel che rimaneva dell’acqua nella borraccia, senza staccare gli occhi dal buio di fronte a me.

«Rilassati, Kaiyo» sussurrò Akito. «Sembra tutto tranquillo.» Si passò una mano fra i capelli neri con un sospiro, poi anche lui cercò la sua borraccia.

«Non è mai tranquillo, quando ci sono quei bastardi di mezzo» sibilai. «Anche Takeshi aveva detto che sembrava tutto tranquillo, due giorni fa.»

Sembrava tutto tranquillo, aveva detto, poi quei figli di puttana erano saltati fuori dal nulla e Takeshi si era trascinato fino alla base con solo metà faccia. Non c’era stato bisogno che ci spiegasse come si era fatto fregare. L’avevamo sentita tutti, quell’esplosione.

Guardai il mio orologio da polso: le lancette nere segnavano le sei di sera. «Dobbiamo sbrigarci.»

La nostra divisa scolastica ci permetteva di muoverci liberamente, ma dopo le sette... Mi alzai e mi spolverai di riflesso la gonna rossa a quadri. Non volevo passare un’altra notte a succhiare cazzi in caserma.

Mi sistemai la coda di cavallo, mi rimisi la borsa su una spalla, presi in mano la pistola e mi rimisi in marcia. Sentii i passi pesanti di Akito che mi seguiva.

Lo stanzone in cui ci trovavamo era completamente spoglio. Le pareti erano scrostate e in più punti buttste giù, piene di graffiti illeggibili. Sentivo un sommesso gorgoglio provenire dall’interno del muro, e dal soffitto cadevano ritmicamente gocce d’acqua che andavano ad alimentare pozzanghere maleodoranti. Nessuna luce, solo qualche lampada a neon che pendeva dal soffitto e che pulsava debolmente. Le punte dei miei anfibi neri erano diventate bianche per la polvere e i calcinacci che continuavo a colpire.

Raggiunsi una porta. Era socchiusa. Mi sporsi e diedi un’occhiata all’interno: non c’era nulla.

Armai la mia cara, vecchia Glock 17. Esalai un lungo sospiro per calmarmi, poi annuii ad Akito che mi guardava. Lui mi disse con un gesto del braccio di arretrare. Mi spostai due passi dietro di lui. Akito scardinò la porta con un calcio ed entrammo insieme, schiena contro schiena, con le pistole puntate davanti a noi. Niente.

Abbassai l’arma.

«Forse non sono qui» bisbigliò Akito.

«No, sono qui. Si nascondo, i bastardi.»

La stanza era più piccola della precedente, occupata da un grosso tavolo di legno e da un armadio senza ante. Non c’era nessun posto dove nascondersi. Non erano lì.

«Continuiamo» dissi.

«Kaiyo, non sono qui!» obbiettò Akito. «Se fossero qui si sarebbero già fatti avanti con l’ostaggio.»

Camminai attorno al tavolo, guardandomi attorno.

«Kaiyo! Quelli che cerchiamo non sono qui! Le informazioni erano sbagliate.»

Non risposi.

«Porca puttana, non voglio rischiare le palle per te! Torniamo indietro!»

«Alcuni di loro sono sicuramente qui» risposi. «Dobbiamo stanarli e ucciderli.» Andai da Akito, mi alzai sulle punte dei piedi e lo baciai. «Andiamo avanti. Fallo per me.»

Akito sbuffò, ma annuì.

Attraversammo altre stanze, tutte buie e silenziose, con lo stesso terribile odore di muffa e la stessa aria soffocante, le macerie e i muri scrostati.

Mi accostai alla porta dell’ultima stanza, e stavo quasi per dire ad Akito che forse aveva ragione, che forse l’edificio era veramente deserto, quando sentii un suono. Era debole, attutito dalla porta chiusa. Ma l’avevo sentito così tante volte che era inconfondibile. Era il debole grattare delle loro unghie sul cemento.

Mi girai verso Akito, e gli feci un cenno. Appoggiai lentamente la borsa a terra e la spinsi via con un piede, abbastanza lontano perché non desse fastidio. Mi feci da parte, e Akito buttò giù la porta e si gettò al sicuro dietro al muro.

La prima raffica di spari arrivò quasi subito. Mi tenni lontana dalla porta, in attesa di un attimo di pausa in cui rispondere al fuoco delle automatiche. Quando arrivò mi sporsi oltre lo stipite della porta e sparai alla prima macchia che vedi. Poi mi ritirai appena in tempo per evitare la seconda raffica.

Un gemito e un «Porcoddio!» a denti stretti mi fecero girare verso Akito. L’aria era coperta da un sottile strato di polvere alzata dai proiettili che colpivano il muro, ma riuscii a vedere il mio compagno piegato in due che si teneva il braccio destro, abbandonato lungo il fianco. Quanto si liberò dalla stretta e si guardò la mano vidi che il palmo era coperto dal sangue.

«Quanto è grave?» chiesi.

«Abbastanza. Ma riesco a sparare anche con la sinistra.»

Mi allungai oltre la porta e sparai tre colpi. Quando mi ritirai sentii un proiettile fischiarmi proprio all’altezza dell’orecchio.

Prima il rumore degli spari rendeva impossibile contare il numero dei nemici, ma ora ero certa a sparare fossero solo in due. Quando si fermarono per caricare di nuovo mi allungai un ultima volta e sparai. Ne uccisi uno, mentre all’altro ci pensò Akito.

Attesi un attimo, poi mi allontanai dal mio rifugio e oltrepassai la soglia. Silenzio. Mi girai. «Ce la fai?»

Akito annuì. «Non è niente.» Si staccò dal muro e mi seguì.

La stanza era anch’essa completamente spoglia, tranne per un ammasso di casse di legno che loro avevano utilizzato come barricata. Saltai sopra una di questa cassa e guardai in giù. Eccoli, i bastardi. Uno di loro era solo ferito ad una zampa posteriore. Lo afferrai per le lunghe orecchie pelose e lo tirai su. Il coniglio mi guardò con i suoi occhietti rossi e prese a scalciare, squittendo terrorizzato. «Rilasciami!»

Presi la Glock 17 con la mano libera e la puntai contro la pancia del Bianconiglio, facendo affondare la volata nella pelliccia bianca. «Solo se mi dirai dove tenete l’ostaggio che avete preso ieri.»

Il Bianconiglio scalciò. «Ostaggio? Non so di cosa tu stia parlando...»

Gli diedi una scrollata. «Il ragazzo che avete catturato ieri sotto la torre! Quello della resistenza!»

«Rilasciami» ripeté il Bianconiglio. «Tu mi fai domande alle quali non so rispondere, donna. »

Gli sputai sul musetto.

«Non prenderci per il culo, bastardo d’un Bianconiglio!» intervenne Akito. Si sedette con un sospiro su uno degli scatoloni, dando le spalle alle altre creaturine morte.

«Non sono un Bianconiglio! Geoffrey, mi chiamano. Questo è il mio nome!»

«Ah! Ora vi date pure dei nome umani? Ma che bello!» Gli diedi un altra scrollata, poi cambiai idea e gli sparai alla zampa sana.

Il Bianconiglio gridò. «Al Santuario! È là che rinchiudiamo i sediziosi. Se non è morto è al santuario di Yasakuni.» Un colpo di tosse. «Ora uccidimi. Ora che ho risposto alla tua domanda... uccidimi.» Agitò le zampette anteriori. «Io ti prego. La vergogna del fallimento è un peso troppo grande, il mio cuore non può sopportarlo.»

Gli puntai la Glock 17 contro il pancino da coniglietto e premetti il grilletto. Il proiettile distrusse il giubbotto militare e fece un buco nel corpo.

«Ce li portiamo a casa?» chiese Akito.

Guardai i cadaveri.

«Sì.» Appoggiai il coniglio che tenevo per le orecchie su una scatola, sfilai la baionetta dalla cintura e segai un orecchio alla radice. Avvolsi l’orecchio insanguinato in un pezzo di stoffa e lo nascosi nella mia borsa di scuola, tra il libro di matematica e quello di economia domestica. L’avrei fatto mummificare e l’avrei aggiunto alla mia collana, assieme alle altre. «Stasera potremmo mangiare uno o due di quei bastardi arrosto...» proposi.

Per mia sorella, giurai che mi sarei goduta ogni boccone.

   
 
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