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Autore: SkyScraperI3    17/04/2012    5 recensioni
Piegata in due, spezzata, inesistente.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Harry Styles
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La vidi sparire davanti ai miei occhi. Piegata alla volontà di qualcosa più grande di lei.
Piegata da quel mostro, che pone le sue radici nella tua mente e non ti lascia più respirare. Quella diabolica creatura che irradia la sua cattiveria nelle tue vene, non lasciando più spazio al sangue pulito, alla vitalità, all'allegria.
Piegata in due, spezzata, inesistente.
Non era più la mia Kimberley. Non aveva più le guance arrossate dal freddo, i capelli scompigliati dal vento e intrisi di fiocchi di neve.
Non aveva più quel sorriso che mi scaldava il cuore, restituendomi l'anima.
Kimberley piegata a due forze troppo pesanti per il suo fragile corpo: se stessa e il destino.
Non doveva andare così. Kim doveva sorridere al mondo, non esserne una squallida vittima, una marionetta nelle mani veramente poco esperte e impacciate di un burattinaio alle prime armi.

Feci la sua conoscenza il 14 Marzo 2010, a casa del suo migliore amico, nonché mio cugino.
Quel 14 Marzo fu ricco di guardi scambiati fugacemente, di nascosto, con occhi timidi e guance rosse tiziano per l'imbarazzo. Quel giorno Kim chiese il mio numero al suo migliore amico, quella sera mi chiamó: «Harry, sono Kimberley, ci siamo conosciuti oggi da Lou».
Il 5 aprile, ci baciammo per la prima volta sotto la grande quercia del terrazzo del suo circolo di tennis, sotto gli occhi di anziani con la puzza sotto al naso che ci classificarono come "svergognati" o "scostumati'.
Il 22 Maggio, qualche stupida, idiota gallinella la urtò per i corridoi della scuola facendole piovere il mondo addosso
«Cicciona, fai attenzione» la mia Kimberley cambiò lasciando spazio a una Kimberley sempre più triste.
«Harry, sono grassa?» ricordo che la guardai come se fosse uscita di senno. Lei? Grassa?
Risi, e la strinsi forte
«No, principessa, sei stupenda» annuì poco convinta.
Il 15 Giugno, Kimberley mi svenne fra le braccia.
Fu li che capii. Kim non s'era messa a dieta, Kim aveva scritto una sua dieta.
Kim non aveva iniziato sport, stava ore in bagno piegata su una tazza di ceramica bianca. Kim, la mia piccola Kim, era malata.
Quale sciocco pensiero mi passò per la testa quando decisi di non dirlo a nessuno? Perché negavo l'evidenza? Cosa mi frenava dal dirlo ai genitori?
Nulla, eppure decisi che io dovevo salvarla, io e nessun altro.
Fui stupido e se solo non avessi posto ancora una volta me stesso al centro del mondo probabilmente lei starebbe ancora qui ad accarezzarmi i capelli.
Il 20 Luglio 2010 Kim svenne per un periodo di tempo che mi parve interminabile.
Lì capii - e quella volta davvero- che dovevo aiutarla. Stava seriamente sparendo, dimagriva a vista d'occhio, cambiava vestiti una volta al mese perché quelli del mese precedente le andavano larghi.
La madre negò il cambiamento della figlia, e mi costrinse a urlare per farle capire che sua figlia stava morendo.

Il 2 Agosto, Kim fece il suo ingresso nella clinica di riabilitazione per adolescenti con disturbi alimentari.
Per tutto il tragitto verso la clinica, Kim non parlò. Teneva gli occhi fissi in un punto sconosciuto fuori dal finestrino e la sua mano fra le mie.
«Non portatemi lì, Harry, ti prego» abbassai gli occhi, evitai il contatto con i suoi, e strinsi le labbra a due fessure impedendo loro di tremare.
«Harry...» La voce rotta dal pianto mi spezzò il cuore. Come poteva non capire? Perché non realizzava che lo stavamo facendo per lei? «So guarire, Harry! Non sono malata, so smettere se voglio» intrecciai le sue dita alle mie e la strinsi delicatamente, accarezzandole i capelli e, di tanto in tanto, cantando la sua canzone preferita
«Amore, starai poco lì dentro, giuro» la sentii reprimere un singhiozzo e poi una smorfia di dolore: troppo debole anche per piangere.
L'ingresso fu più doloroso di quanto mi aspettassi. Ero preparato a singhiozzi e pianti, e invece mi salutò con un bacio veloce e si allontanò piegata dal peso delle valigie.

Quel pomeriggio la mia prima tappa fu la casa di quella ragazza che aveva rovinato la sua e la mia vita.
«Non pensavo ci rimanesse cosi male» si asciugò una lacrima, e capii che forse non era colpa sua. Forse era il "mostro" che era da sempre nella mente di Kim e che aspettava solo il momento giusto per attaccare la sua preda, e Kimberley era debole e facilmente suscettibile.

La scuola ricominciò e Kim non tornò. Tutti mi chiedevano notizie, mi davano amichevoli pacche sulle spalle - in segno di incoraggiamento, credo- ma io ero di fatto bloccato con la mente da Kimberley stesa su un letto d'ospedale.
Le sue condizioni miglioravano, iniziava a guarire, era ormai in grado di fare qualche passo senza cadere e rompersi l'osso del collo, eppure più lei guariva più la luce nei suoi occhi spariva.
«Sono grassa, Harry» mi disse un pomeriggio
«Non è vero, piccola, sei bellissima» amava i complimenti ma ormai non ci credeva più. Kim non era più lei, e non aveva più un'anima: quel mostro la stava distruggendo e io non glielo stavo impedendo.

Jay, la mamma di Kim, mi venne incontro sorridente il 12 Ottobre 2010
«Esce, Harry! Esce!» Ci misi qualche secondo a realizzare le sue parole. Stava bene, si era ripresa quasi del tutto e la sua terapia poteva continuare a casa! A casa, ventiquattro ore su ventiquattro, stava bene.
Sapevo quanto Kimberley si odiasse per averci fatto soffrire cosi tanto, ma sapevo anche quanto ora stesse meglio e questo dava la forza sia a me sia alla mamma di sorridere e essere felici.

Kimberley stava meglio. Il suo peso era fisso, ma non ne perdeva altro e non stava più male.
Stava migliorando molto.
Purtroppo, ci ingannò ancora una volta. Quella ragazza aveva la possibilità di rigirarsi la frittata a suo piacimento, di farti credere che i suoi pensieri fossero quelli giusti e ti influenzava su qualunque scelta: era carismatica come poche. E riuscì ad ingannarci anche quella volta.
Convinse tutti che stava bene e che mangiava quel che doveva mangiare, ma noi non sapevamo che aspettava la notte per rigettare tutto ciò che aveva ingerito durante il giorno.
Era sempre più depressa.
Il mondo le cadeva addosso, tutto le sembrava nero, scuro: un tunnel senza luce.
Volevo essere la via d'uscita di quel tunnel, volevo essere la luce della sua vita, la salvezza, la mano protettrice, ma riuscii soltanto ad ucciderla più di quanto lei non stesse già facendo.

15 Gennaio 2011, un giorno normale.
Un velo grigio ricopriva il cielo di Londra, la pioggia cadeva insistente sull'asfalto bagnato producendo quel rumore a cui non ti abitui neanche dopo diciassette anni di vita.
Parcheggiai come tutti i pomeriggi la macchina davanti al vialetto di casa di Kim, bussai alla porta di casa alle quattro precise, come tutti i pomeriggi, e non appena feci il mio ingresso a casa l'odore del tè caldo mi invase, come tutti i pomeriggi.
Per quanto Kimberley stesse un po' meglio aveva bisogno di assistenza, sempre, così almeno aveva detto il medico, ma lei respingeva tutti eccetto la sua musica.
Entrai in casa, e appesi la giacca all'attaccapanni
«Jay? Kim?» non rispose nessuno e dedussi che Jay non fosse ancora tornata da lavoro, perciò pensai che Kim dormisse e salii piano le scale per non svegliarla.
Dalla sua camera veniva la musica al massimo del volume: Simple Plan.
Mi avvicinai piano e abbassai la maniglia, scostai delicatamente la porta e mi affacciai e vidi il mio mondo in frantumi.

 

Kimberley Morgan morì il 15 Gennaio 2011 nel letto della sua camera.
Quando mi si presentò la scena davanti agli occhi temetti di morire. Era magra, tanto magra, come non l'avevo vista da qualche settimana. Il braccio sinistro penzolava fuori dal letto, e la sua bianca e delicata mano destra teneva ancora un barattolino di sonniferi.
Corsi verso di lei, urlando, piangendo, cercando di stoppare il dolore che mi assaliva il petto, la voragine che s'era aperta.
Sentivo gli occhi bruciare, tanti spilli conficcati ovunque nel mio corpo rendevano difficili i movimenti.
Kim, dimmi che stai dormendo, ti prego, Kim, non lasciarmi, ti prego» la scossi delicatamente.
Una lacrima cadde sul suo viso e quando non la vidi muovere un muscolo mi resi conto che era andata. Finita. Non l'avevo salvata, non ero riuscito a guarirla.
E quel maledetto, diabolico mostro l'aveva ucciso.
Le aveva portato via tutte le sue energia, la sua vitalità, il sangue buono, tutto.
Era nulla. Era un'anima che vagava per la città.
Morì per aver preso troppi sonniferi.
Da quel giorno sua madre non ha più sonniferi nell'armadietto del bagno ma tanto, anche quelli, non la aiuterebbero più a dormire.

La mia vita? La mia vita non andrà avanti senza Kimberley, perchè non l'ho salvata.  




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erre's space
ciau belli! piangete? naaaah mica è scritta così bene (?)
E' quasi più triste di quella di Rebecca e Louis... mmh.. vi piace?
Da dove mi è venuta l'idea? non lo so.
Perchè? boh. 
Come mi sono sentita a scrivere? ipocrita haha
Scopo? riflettete prima di prendere qualsiasi decisione.
OK, non ha senso HAHAHAH
Spero vi sia piaciuta.<3

  
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