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Autore: Lilith Lancaster    18/04/2012    4 recensioni
Questa storia non tiene in nessun modo conto degli avvenimenti della terza serie. Payson Keeler ha vinto l'oro alle Olimiadi, lei e Sasha si sono persi di vista. Dopo dieci anni, ormai donna, Payson ritorna per cercare ciò che in fondo ha sempre desiderato, quella persona che ha creduto in lei e che l'ha portata alla vittoria. Che ha migliorato la sua ginnastica, ma anche la sua vita.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Payson iniziò ad attorcigliarsi nervosamente una ciocca di capelli intorno all’indice. Era nervosa. Non sapeva neanche perché si trovasse in quel posto. Pioveva a dirotto e i capelli le si erano ormai inzuppati, aderendo al suo viso un tantino più sottile di quanto non fosse dieci anni prima.
Non era cambiata molto, Payson, in dieci anni. Da quando aveva smesso con le competizioni e aveva iniziato ad allenare era allungata di un paio di centimetri, il suo corpo era più magro e sottile e anche il suo viso assomigliava di più a quello di una donna. Ancora non era scesa a compromessi con l’utilizzo del make up e presentava al mondo il suo viso acqua e sapone.
“Scusa, il coach Belov è dentro?” domandò ad una ragazzina appena uscita dalla palestra.
La ragazza la guardò per qualche istante, cercando di riconoscerla. Probabilmente era un po’ difficile associare l’immagine di quella donna con jeans blu e maglietta bianca alla ginnasta aggraziata e dal viso perfettamente truccato che aveva vinto l’oro alle Olimpiadi del 2012.
“è ancora dentro” le rispose continuando ad osservarla. Il cuore di Payson perse un battito. Una parte di lei aveva sperato che lui non ci fosse..
“tu sei Payson Keeler per caso?” domandò la ragazza avvicinandosi. Payson annuì, ricambiando l’occhiata. La ragazza aveva capelli nerissimi, ancora stretti in una coda dopo l’allentamento. Gli occhi erano grandi e verdi, la pelle lattea. Doveva avere circa quindici anni e la guardava con una curiosità discreta che a Payson piacque molto.
“Sasha parla sempre di te” buttò lì la ragazza mentre si andava riparare sotto una tettoria. Pyason la seguì, con il cuore sotto le scarpe.
“ah si? E cosa dice il coach Belov?” domandò cominciando a mordicchiarsi le unghia praticamente inesistenti della mano destra. Lo faceva spesso, quando era nervosa.
“dovresti chiederlo a lui” rispose la ragazzina con un largo sorriso. Poi le tese la mano. “Comunque io sono Catherine” Payson strinse le piccole dita della ragazza, avvertendo il familiare contatto con i calli tipici delle ginnaste. Anche le sue mani erano segnate dagli allenamenti, testimoniavano le fatiche che aveva affrontato per arrivare in alto. Ma ne era valsa la pena.
Payson guardò verso la palestra, indecisa se entrare o meno. Fece un passo avanti ma si fermò di colpo. Erano circa quattro ore che questo si ripeteva. Quattro ore passate a guardare l’entrata di quella stupida palestra. In realtà la stupida era lei, che aveva affrontato un volo incredibilmente lungo per arrivare a Londra, e che probabilmente sarebbe ripartita senza avere il coraggio di entrare in quella palestra. Senza avere il coraggio di rivederlo.
“penso che sia il caso di entrare sai” la esortò una vocina alle sue spalle. Payson si era quasi dimenticata di Catherine. La ragazzina la guardava con un sorriso furbo.
“tu dici?” domandò quasi senza volerlo. Mentalmente Payson si diede della stupida. Da quando in qua chiedeva consiglio ad una ragazza sconosciuta? Lei era Payson Keeler, quella che quando si prefiggeva un obiettivo andava avanti incurante di ogni ostacolo. Perché non riusciva a varcare quella semplice porta? Nella sua vita aveva superato di tutto. Problemi economici, familiari, un terribile infortunio alla schiena, la distorsione di una caviglia e tanto altro ancora…cosa poteva essere mai una porta? Ma il problema non era la porta in se, il problema era ciò che l’aspettava dall’altra parte. Qualcosa a cui era totalmente impreparata nonostante non avesse fatto altro dalle olimpiadi che programmare quel momento.
“ma certo che si! Scommetto che non vede l’ora di riabbracciare una vecchia amica” rispose entusiasta Catherine. Vecchia. Già, Payson si sentiva molto più vecchia. Aveva ventisei anni adesso, non più sedici. Era ufficialmente adulta, con il suo carico di responsabilità sulle spalle.
Catherine si alzò in punta di piedi e iniziò a guardare il suo viso in modo strano, con la faccia di un investigatore alla ricerca delle prove di un crimine.
“si può sapere che c’è?” domandò Payson allontanandosi dal visetto della ragazzina, a disagio sotto la sua occhiata. Catherine sorrise enigmatica e iniziò a girarle intorno.
Certo che quella ragazza era proprio strana! Payson per un secondo valutò l’idea di andarsene e basta, lasciando Catherine e Londra senza voltarsi indietro.
“perché hai tanta paura di entrare? Non sarai cotta di Sasha vero?” domandò la piccola insolente, tornando a guardare Payson dritto negli occhi.
“ma che stai dicendo! Ovvio che non sono cotta! Non ci vediamo da dieci anni come potrei avere una cotta per un uomo che non vedo da dieci anni? e l’ultima volta che ci siamo visti ero solo una ragazzina e lui era quasi come un padre per me… È solo che non so se si ricorda ancora di me o se gli farà piacere vedermi. ” strillò mentre le sue guance si imporporavano di rosso e la sua voce di alzava di due ottave. La ragazzina sogghignò, un sorriso terribilmente irrisorio.
“the lady doth protest too much” la apostrofò la ragazza mostrando una sorprendente conoscenza di Shakesperare e un sorriso a trentadue denti. Payson sbuffò. Quella  non era una ragazza normale, doveva essere geneticamente modificata perché era acuta e molesta come una zanzara.
“senti ma non devi andare a casa?” la esortò notando che il sole stava iniziando a tramontare. E che la pioggia non accennava a smettere. Ma ovvio, quella era la piovosa Londra!
Catherine si strinse nelle spalle, continuando a sorridere.
“mi sembrava che avessi bisogno di un angioletto sulla spalla”
Payson avrebbe voluto dirle che più che un angioletto sulla spalla in quel momento era simile ad un riccio nelle scarpe, ma non le sembrò il caso. In fondo non era colpa di Catherine se era così nervosa.
“credo che tu abbia svolto il tuo ruolo, ora puoi anche andare” la liquidò desiderando ardentemente restare da sola. Catherine la guardò per qualche istante, poi le voltò le spalle e iniziò ad incamminarsi verso una strada silenziosa alla sua destra. Si fermò di colpo.
“Sasha dice che sei la persona più forte che lui conosca. Che sei generosa e altruista e che anche nei momenti bui riesci a portare agli altri un sorriso. Dice che ami quello che fai e fai ogni cosa solo perché ami farla. Dice che non ti arrendi mai, che hai il coraggio di affrontare qualunque cosa. Ci dice che sei una persona speciale perché non solo cerchi di essere perfetta nella tua ginnastica ma perché sei leale e onesta, silenziosa e obbediente. Che fai quello che è necessario fare. Dice che hai vinto l’oro perché hai trovato la poesia dentro di te. Dice che hai una determinazione incredibile e che non hai mai capito di essere bella e che proprio questa tua ingenuità ti rendeva speciale.” Tacque per un secondo, lasciando Payson con gli occhi sgranati, il cuore paralizzato.
“chi lo conosce, chi si ferma realmente ad ascoltarlo, sa che prima o poi, ogni giorno, sentirà il tuo nome. Tu ci sei sempre per noi, Payson.” Finì il suo discorso e Payson la vide sparire dietro l’angolo. Quel discorso l’aveva spiazzata. Terrorizzata. Sasha. Quanto tempo non lo vedeva? Dieci anni che non era bastati a cancellarle dalla mente gli attimi passati insieme. Perché lui era stato l’unico a credere in lei fino in fondo, a starle accanto anche quando gli altri avevano lasciato la speranza. Non era stato solo un allenatore, per Payson. Lui le aveva insegnato la vita. E non sarebbe stato fiero di vederla davanti a quella porta, indecisa, come se tutto quello che aveva affrontato, come se tutto quello che avevano affrontato insieme, non fosse mai successo.
Fece un respiro profondo, poi un passo avanti, incurante della pioggia che le martellava il viso. Rabbrividì, non soltanto per il freddo, mentre passo dopo passo, si avvicinava a quella porta. Poggiò una mano su quel portone freddo, cercando di trarre dal metallo immobile la forza per andare avanti. Poi spinse ed entrò.  
  
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