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Autore: manicrank    19/04/2012    5 recensioni
[U-Kiss] [VinSeop]
Mi dispiace per quello che narrerò. Se lo leggessero gli U-Kiss mi ucciderebbero, penso.
One shot ispirata da A Shared Dream.
***
Mi sono sempre chiesto cosa penserebbe una persona, sapendo che un minuto dopo sarebbe morta. Quali addii, quali sogni, quali parole ti verrebbero in mente mentre senti le forse abbandonarti, e la vita svanire lentamente.
Era una mia curiosità, e mai, mai, mai in vita mia, avrei pensato di dover fare una cosa piuttosto simile. Una lettera. Una lettera d'addio.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Note dell'autrice.
Questa storia è nata dopo la visione di A Shared Dream, ed ha come protagonisti Kevin e Kiseop.
È un po' l'idea di come può essere nata la canzone nella mente di Kevin.
È una situazione del tutto ipotetica e senza un contesto temporale né materiale, in quanto non so se i luoghi da me indicati esistono veramente. Per questo non ho messo alcun tipo di nomi di strade.

Disclaimer. I protagonisti non mi appartengono (per sfortuna) ed ogni riferimento è puramente casuale. Questi contenuti non vogliono essere offensivi ma sono solo il frutto della mia fantasia.

 

Se vi è piaciuta, lasciate un commentino. Vi prenderà solo un secondo, e mi farebbe felice.

Baci. MR.

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Mi sono sempre chiesto cosa penserebbe una persona, sapendo che un minuto dopo sarebbe morta. Quali addii, quali sogni, quali parole ti verrebbero in mente mentre senti le forse abbandonarti, e la vita svanire lentamente.

Era una mia curiosità, e mai, mai, mai in vita mia, avrei pensato di dover fare una cosa piuttosto simile. Una lettera. Una lettera d'addio.

Scorro la lista di persone che mi sono preparato, lasciando una frase ed un addio ad ognuno di loro. Ci scrivo anche che mi dispiace lasciarli, che non vorrei, ma che ormai è diventato un obbligo farlo.

Potrebbe arrivare da un momento all'altro. Devo sbrigarmi.

Lasciare Te, è la cosa più difficile.

Non ti ho detto nulla, non volevo farti preoccupare, non volevo vederti triste. Ieri siamo andati a mangiare la pizza insieme, ricordi? È bello uscire con gli amici. Ed è ancora più bello uscire con la persona che ami. Ma è orribile uscire con la persona che ami, alla quale non confesserai mai i tuoi sentimenti, e nemmeno che stai per morire. È davvero orribile.

Mi sento nudo mentre la penna continua a vergare gli Hangul sulla carta. Il mio telefono squilla, è una tua mail.

Vediamoci stasera, devo parlarti.

 

Non ti rispondo. Sarebbe triste dirti che non posso, tu proveresti a convincermi, ma io, non potrei lo stesso. Non posso. Mi sento morire, adesso, e vorrei davvero accadesse.

I dolori sono quasi tutti svaniti, non c'è più traccia delle fitte che mi stavano portando nell'oblio.

Per un attimo spero che l'incubo sia finito, ma poi ricordo le parole chiare del dottore, ieri mattina.

Ci dispiace.

Dispiace anche a me.

Davanti a me, sulla scrivania, la boccetta con le pillole è ancora sigillata. Avrò il coraggio? Mi chiedo, finendo la lettera con una firma.

Poi prendo un altro foglio, mettendoci il tuo nome sopra, accanto ad un: Segreto!

Non voglio venga letta da altri. Sarebbe una brutta cosa se accadesse.

Il telefono squilla ancora, mi stai chiamando, anche se non ho la forza di rispondere. Le mie dita si muovono da sole, e portano il BlackBerry all'orecchio.

“Finalmente! Pensavo non rispondessi! Hai visto il messaggio?” chiedi con entusiasmo, smorzato però dalla mia risposta fredda.

“Si”

“E allora?” ti sento sospirare, in attesa del mio: certo, vediamoci al parco. Che però non arriva e non arriverà.

“Kise, senti io...” provo a dire, mentre calde lacrime scivolano via dai miei occhi, colandomi sul mento e poi sulla pagina che tengo tra le mani.

“Che hai? Che succede?”

“N-nulla, non posso uscire oggi... né domani, e nemmeno dopodomani”

“Perché?” la tua voce è triste, non voglio sentirti triste.

“Non ti devi preoccupare, ok? Va tutto bene” no, non va per niente tutto bene. Non va. Non va! E vorrei dirtelo, vorrei venissi qui ed aspettassi con me. Vorrei davvero non aver sbagliato. Ma l'ho fatto, e ne sto pagando le conseguenze.

“Va bene? Kev, puoi dirmi che hai...? Ti prego”

“Poi, p-prometti di non preoccuparti?”

“Si, lo prometto”

“È una cosa stupida, lo so, ma... è morta mia nonna ed io sono un po' triste” mento, e spero tu non te ne accorga. Ho cercato di usare un tono ironico, quasi stessi sdrammatizzando, e sembra funzionare.

“Sicuro?”

“S-si, ora vado”.

Appena attacco ricomincio a piangere più forte, chiudendomi a riccio contro il muro. Le gambe al petto e la fronte posata sulle ginocchia. Per non far vedere le lacrime.

Sul comodino c'è una foto, ci siamo tutti, sorridenti, sotto la neve. Quegli occhi sembrano scrutarmi e di corsa abbasso la cornice.

Fa male, tanto male. Ma non sono le fitte, non sono i problemi, è il cuore. Ad ogni battito sembra volermi sfondare il petto.

È quasi arrivata l'ora. Se adesso non squilla il telefono, dovrò farlo. Almeno salvaguarderò il mio orgoglio. Voglio farlo. Penso, per un istante.

Voglio farlo, prima che lo faccia Lui. Sono quasi arrivato a dargli un nome, come se chiamarlo e dirgli che lo odio lo potesse far svanire.

L'orologio segna le otto precise. Il mio sguardo si posa sul cellulare. Sto pregando per la prima volta nella mia vita. Sto pregando che squilli. Che questo maledetto minuto non passi mai.

Ma non accade nulla, il telefono rimane immobile sulla scrivania, in un funesto silenzio.

I muscoli mi fanno male, mi sento stanco, il mio stomaco si ribella. Non ce la faccio nemmeno ad alzarmi per andare a vomitare.

Mi gira la testa. Mentre il cuore non la smette di pompare veloce il sangue nelle mie vene. Quanto vorrei si fermasse, adesso, così tutto finirebbe. Sarebbe un bel modo. Indolore. Veloce.

Rimango fermo un altro po', maledicendo la mia paura.

Dovrei alzarmi e prendere le pillole, così finirebbe tutto davvero. Ho deciso sarebbe stato oggi. Ho preparato tutto nei minimi dettagli. E ora mi manca il coraggio.

Non ce la faccio. Proprio non ci riesco.

Sarà l'istinto di autoconservazione, o forse solo tanta paura, ma non ci riesco ad alzarmi ed uccidermi. Ma devo farlo, prima che lo faccia lui.

Mi sento immerso nell'acqua, in un limbo privo di suoni, nella pace assoluta. Le mie membra stanche si riposano, sostenute dal liquido invisibile.

Mentre scivolo verso il basso, verso l'oblio. I raggi del sole si smorzano, piombo nel buio. Non sento più niente. Mi si chiudono gli occhi.

Il mio corpo brucia.

Mi sento sporco, sporco e nudo. Mentre continuo a scivolare verso il basso. Gli occhi ormai chiusi.

Le mia braccia rimangono immerse nell'acqua, aprendosi come ali. Vorrei alzare una mano, emergendo, chiedendo aiuto. Vedere le tue dita intrecciarsi alle mie e tirarmi a riva.

Ormai i miei piedi toccano il fondo sabbioso dell'oceano. Il mio corpo bianco è stanco. Mi accascio, mentre sopra di me l'oscurità pesa.

Mi arrendo. Non riesco più nemmeno a respirare, oppresso dalla pressione dell'acqua.

Vedo un bagliore fendere la nebbia, scivolare fino a me. L'acqua diventa aria. Riesco a respirare.

Il mio telefono squilla, e mi si aprono gli occhi. Non so quanto tempo sia passato.

Mi sento stanco, le lacrime sono finite, ne ho piante troppe.

Mi alzo con poca voglia, avvicinandomi al ripiano di legno della scrivania.

C'è ancora, in bella vista, il barattolo di pillole bianche.

“Pronto?” farfuglio nel microfono, la voce mi esce strozzata. Le corde vocali stridono, come se avessi urlato a squarciagola, o come se avessi respirato acqua salata e sabbia.

Mi sento abraso. Nudo, sporco, mentre scivolo via. Mentre la vita scivola via dalle mie dita incapaci di chiudersi e trattenerla.

“Kevin, sono dell'ospedale. Il dottore vorrebbe parlarti, dice che è urgente” sospiro uno stanco: “Si” e mi rimetto seduto, giocherellando con il barattolino di vetro. Rigirandomi tra le dita una pillola bianca, chiusa nel suo involucro plastico. Sarebbe facile adesso, portarla alle labbra. Schiuderle. Ingoiare e morire.

Prima che lo faccia Lui.

“Kevin” la voce cambia, è più roca. “Sono Lee Kyo, ti ricordi di me?”.

Come dimenticarlo? È stato lui il primo ad uccidermi, il mese scorso.

 

Non ci credo. Non voglio crederci. Piango.

Mi sento spezzato. Davanti a me, Han Sewon si alza dal letto, rivestendosi. Mi sento male.

Allora, piaciuto?” mi chiede, con un aria strafottente.

Mh” non so dire se mi è piaciuto. Non l'avevo mai fatto. E, a dir la verità, avrei preferito fosse stato Kiseop la mia prima volta. Però, va bene. L'ho scelto io. Potevo benissimo non accettare il suo invito.

In effetti, non so bene perché l'ho fatto. Mi andava, credo.

Ti lascio il mio numero, an nyoung” addio.

 

Mi sento male, vomito. Ma il dolore non svanisce. Devo andare in ospedale. Penso, riuscendo ad uscire di casa senza svenire. Il posto non è lontano, ed impiego relativamente poco.

Ma quando arrivo non riesco nemmeno a parlare con un dottore, svengo sul pavimento freddo. Quando mi sveglio vedo soltanto un soffitto bianco, e sento un fastidioso suono ripetitivo. Tanti Bip. Dove sono? Un uomo mi raggiunge, iniziando a parlarmi. Non capisco le sue parole, non subito almeno. Sono malato. Grave.

Ragazzo, ti resta poco” è questo il messaggio implicito. Il dottore, un certo Lee Kyo, alla fine riesce a farmi capire cosa ho. Almeno dalle prime analisi sono risultato sieropositivo. HIV.

La vita mi è crollata addosso. Ed è solo colpa mia.

 

Avrei voluto chiamare quel tipo, Han Sewon, e dirgli quanto lo odiassi. Perché in fin dei conti, era anche un po' colpa sua. Non mi aveva detto di avere malattie. Non aveva usato alcun tipo di riguardo e protezione. Ed io, stupido, non sapevo nemmeno come funzionasse. Sono stato davvero stupido.

“Dottore, devo venire in ospedale?” chiedo, continuando a rigirarmi tra le mani la pillola. L'avevo deciso io. Se, rifacendo le analisi, sarei risultato ancora sieropositivo, mi sarei ucciso. Preferivo così, invece che attendere che la malattia facesse il suo corso.

“Sarebbe meglio, e se vuoi porta qualcuno” annuisco e gli rispondo che sarei arrivato.

Mi fanno male le gambe.

Prendo il telefono e ficco in tasca le pillole, poi, sulla strada, mando un messaggio a Kiseop. Voglio che sia lui a stare con me, qualsiasi cosa debba dirmi il medico.

Non potrebbe essere nessun altro.

Quando raggiungo l'ospedale lui è già li davanti ad aspettare. Cammina nervoso davanti alla porta d'ingresso del grande edificio, e non appena mi vede, finge un sorriso.

“Kevin”

“Ehy”

Ci salutiamo, ed io, senza spiegargli nulla, entro. Mi segue fino al terzo piano, Malattie Infettive, leggo sul cartellino davanti ad una delle tante porte. Kiseop fa lo stesso prima di lanciarmi un'occhiata preoccupata e confusa. Ma non domanda nulla.

Raggiungiamo l'ufficio del dottor Lee e l'uomo mi saluta stanco.

“Allora, che c'è?” chiedo, preoccupato, e forse rassegnato.

“Fai un'altra analisi, l'ultima” mi dice, ed io annuisco, lasciando il braccio tra le mani di un'infermiera che si sbriga a farmi il prelievo. La vedo svanire in un laboratorio, ed attendo infinito tempo su quella sedia.

L'orologio a parete scandisce i secondi con il suo ticchettio noioso. Sorrido, ripensando a Tick Tack. Amo quella canzone.

Kiseop cerca di non sembrare nervoso, ma si tortura le mani e si morde il labbro. Il dottore esce, portando poi il mio sangue in altri laboratori.

Solo allora, dopo aver preso un bel respiro, il moro si gira e mi chiede in un fiato: “Che diavolo succede?” e sembra terrorizzato.

“Nulla” rispondo con tono monocorde.

“Nulla? Dio, siamo in un reparto d'ospedale che tu non dovresti nemmeno conoscere!”

“E invece lo conosco” dopo la rassegnazione, sento solo frustrazione e rabbia. Ho bisogno di sfogarmi. Di emergere dall'oceano buio in cui sono scivolato, e prendere fiato. Riempire i polmoni. Urlare fuori il dolore. E piangere.

“Kevin, ti prego dimmi che hai” mi prende entrambe le mani, stringendole con forza, quasi volesse aiutarmi, dandomi quello che a me manca. Coraggio. “Ti prego, dimmelo. Io devo saperlo”

“Perché?” non vorrei essere così bastardo. Davvero non vorrei. Ma è una sorta di difesa, suppongo.

“Perché sono tuo amico, e sto qui ad aspettare qualcosa... con te. E sono preoccupato. Per noi, per la band. Per te” ammette infine, abbassando lo sguardo. Lo vedo quasi arrossire.

“Sto per morire” dico in un sussurro, facendogli alzare di scatto la testa. Meglio essere diretti, non girare intorno all'argomento. Kiseop non mi è mai sembrato più indifeso e spaventato di così. I suoi occhi vagano su di me, cercando appiglio. Io non riesco nemmeno a guardarlo in faccia.

“C-cosa?” chiede, iniziando a tremare lievemente.

“HIV” spiego, mentre lui sgrana gli occhi e si porta una mano al viso, cercando di trattenere le lacrime. Io non riesco a piangere. Non riesco a fare nulla. Mi sento... vuoto.

“N-no, impossibile... Kevin... t-tu...”

“È stato un ragazzo... un mesetto fa” ho solo tanta voglia di parlarne con qualcuno. Dire tutto. Lasciare che le emozioni escano dal mio corpo.

“N-no... Kevin... n-no!” grida Kiseop. Ricomincia a tremare. Gli passo una mano sulla spalla, sorridendo amaro.

Ti amo. Ti amo. Vorrei dirgli, ma non esce una parola dalle mie labbra. Ti amo, non ti voglio lasciare. Non mi lasciare. Resta con me. Ma non riesco ad alzare lo sguardo. Preferisco nascondermi. Ti prego, ti amo. La mia mano scivola dalla sua spalla, cadendo penzoloni oltre le mie gambe. Baciami. Non posso dirlo. Non posso. Però lo faccio.

“Baciami”.

Il moro alza la testa, mostrandomi il viso perfetto, ora rigato dalle lacrime silenziose.

“Baciami” ripeto, incapace di sostenere quel dolore. Non volevo lo sapesse, ma gliel'ho detto. E lui ora soffre. Non è giusto.

Non sarebbe stato difficile morire, se non avessi avuto nessuno da lasciare.

“Kevin...” sospiri, avvicinandoti davvero al mio viso. La tua voce è spezzata. Le tue labbra tremano.

“Perché?” mi chiedi, soffiando il tuo fiato caldo sul mio viso.

“Non chiedere, baciami e basta” sarebbe difficile dirti che ormai sei la persona più importante per me. Che ti ho sempre guardato con ammirazione, e con amore. Ho cercato di fare mio ogni istante in tua compagnia, ogni dettaglio, per non scordarti mai.

E tu lo fai, chinandoti piano su di me. Lasci che le tue labbra morbide assaggino le mie per un istante, le fai sfiorare, premi leggermente. Poi ti allontani, rosso in viso, e cerchi una conferma nei miei occhi. Non so cosa riesci a leggerci, però ti inchini di nuovo, questa volta chiudendo gli occhi e baciandomi davvero.

Posso sentire il tuo profumo ed il tuo sapore mentre continui ad accarezzarmi le labbra, dipingendole poi con la lingua, cercando un tacito accesso.

Schiudo la bocca. Ho sempre sognato questo momento, non me lo voglio negare adesso, quando so che sarà l'ultimo.

La tua lingua scivola piano contro la mia, stuzzicandola, giocandoci, in un caldo vortice di emozioni. I sapori si mischiano, così come gli odori, e non so più di chi sia il battito che adesso sento nel petto. Faccio scorrere una mano su di te, soffermandomi sul ventre e poi lì, dove il cuore pompa veloce. Sento il tuo respiro accelerato. E spero che per te, questo sia qualcosa di più di un semplice desiderio di un morente. Lo spero davvero.

Ti stacchi piano, e sento freddo quando ormai il tuo viso si fa lontano, e le tue mani lasciano le mie.

“S-scusa, io mi... sono fatto trasportare” dici, sei tutto rosso. Mi piaci.

“Va bene”.

Chiudo il pugno, cercando di non piangere, ed aspetto in silenzio che torni il dottore. Nella mia tasca la pillola mi ricorda costantemente che questo non è un incubo, ma la realtà.

“Perché me l'hai chiesto? Di baciarti?” chiedi ad un certo punto, spezzando l'aria pesante con la tua voce calda.

“Perché...” non so cosa dirti. Lo volevo fare, ti amo, mi è piaciuto. “Perché mi andava”.

Entra il dottore con in mano una cartella. Ha il fiato corto, come se avesse corso. Si siede alla scrivania, iniziando un discorso poco sensato, e dopo aver notato la mia confusione, mi passa il documento.

I miei occhi vagano tra le parole nere, salto da una riga all'altra con disattenzione, cercando solo quella casella, in fondo, con l'unica parola che vale.

Il mio cuore smette di battere per un attimo, il mio respiro si fa veloce. Gli occhi pieni di lacrime. Poso la cartellina sulla scrivania, prendendo dalla tasca il barattolino di vetro e posandolo poi sulla cartellina. Kiseop segue le mie azioni confuso.

“Credo che queste... allora...” non riesco a finire la frase, perché le lacrime continuano a cadere, ed i singhiozzi mi fanno tremare. Il moro mi passa un braccio sulle spalle, abbracciandomi, facendomi posare la testa sul suo petto.

“Kev, che succede?” mi sussurra. È preoccupato, forse più di prima.

“Io...” ma sono incapace adesso anche di parlare. Mi sono dimenticato addirittura come si pronunciano le parole. Mi stacco, prendendo direttamente la cartella e passandogliela. Il dottore sembra contrario, ma non obbietta. So che c'è la privacy, ma io voglio che lui sappia.

Vedo i suoi occhi seguire le righe, e poi fermarsi. Rileggere quell'unica parola per almeno mille volte.

Poi alza la testa, mi guarda, e scoppia in una risata nervosa. Mi abbraccia di nuovo. Piangendo con me.

L'acqua dell'oceano mi avvolge, portandomi con lei fino a riva.

Alzo una mano, disperato, e le dita di Kiseop si intrecciano alle mie. Mi tirano con lui sulla sabbia bianca. Lui è un angelo. E mi trattiene, impedendomi di scivolare ancora in balia della corrente.

“Kevin... non mi lasciare mai più” dici.

Ci alziamo, salutiamo il dottore, e siamo di nuovo all'aria fresca di Seoul.

Mi porti al parco, tenendomi per mano, e mi offri un gelato.

Non riesco più a collegare nemmeno i pensieri.

Le analisi hanno parlato chiaro, e non posso fare a meno di esultare. Ha funzionato. Penso, mentre nella mia mente scorrono i segni in nero che ho letto, e che mi si sono impressi a fuoco nella memoria. Sieronegativo. Mi sento... vivo. E non più nudo nell'acqua.

“Kiseop, per prima... io... sai, il bacio...” farfuglio, sedendomi su di una panchina. Il moro mi sorride, stringendomi al petto.

“Va bene, non ti preoccupare. Se tu vuoi... io lo dimenticherò” impiego qualche instante a capire la tua frase, e poi, contro la tua felpa, dico: “Tu vuoi dimenticarlo? Perché io non ne ho la minima intenzione”. Non so da dove mi esca tutto questo coraggio. E non so nemmeno perché tu mi allontani di colpo e mi baci di nuovo.

Non mi importa.

Ora voglio solo sentirti vicino. Mentre i nostri respiri si mescolano. 





 

   
 
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