Capitolo 17
Questione di fama.
Quando Hime aveva
annunciato al fratello che avesse trovato una data per l'intervista che doveva
a Yayoi Aida aveva anche previsto la sua reazione esageratamente esaltata. Non
aveva pensato, invece, agli effetti collaterali - come per esempio il fatto che
Hanamichi fosse entrato in una pseudo sindrome da indecisione femminile.
«Secondo te cosa mi devo
mettere? Insomma, sto andando alla mia prima intervista!», esclamò, in un misto
di euforia e di panico. «Devo indossare una cravatta? Hicchan, io non so mettere
la cravatta!».
«Sembri una ragazzina
isterica», ridacchiò Hime, dando voce al pensiero di Rukawa, trascinato in quel
vortice di demenzialità senza neanche sapere il motivo - anche se il sospetto
che la Sakuragi avesse venduto anche lui per avere i dati delle squadre
avversarie iniziò ad insinuarsi nella sua piccola testa addormentata.
«Non sono isterico!».
«Una ragazzina?».
«Volpe, taci tu! È un
momento critico, questo!».
Hime sedò gli animi con
una tirata d'orecchie a entrambi e finalmente il silenzio regnò sovrano. Per
almeno un'altra manciata di secondi. «Hana, luce dei miei occhi, e se ti
vestissi come tutti i giorni? Non stai andando in televisione e abbaglierai
comunque la signorina Aida con la tua bellezza».
Kaede non fece in tempo
ad alzare gli occhi al cielo per maledire quell'adulatrice della seconda
manager, che quello era già partito per la tangente senza via di ritorno,
blaterando qualcosa a proposito di un inesistente servizio fotografico che
avrebbero stampato su tutte le copertine delle riviste di machi sportivi più famosi del Giappone.
«Sei consapevole che
tutto ciò non gioverà a nessuno?», domandò Kaede all'amica, che non smetteva di
ridere.
Lei annuì. «Ma è troppo
divertente per farlo smettere. E poi, quello che abbiamo guadagnato è parecchio,
Ede, non sottovalutare le schede avversarie».
«Io la chiamo
corruzione».
Hime agitò le mani, come
se volesse scacciare una mosca fastidiosa. «Chiamala come vuoi, ma ci aiuterà
lo stesso. Insomma, non stiamo andando a spaccare le gambe dei nostri avversari
per farli fuori, no?».
«Hn,
sarebbe più divertente». Avrei giusto un paio di bersagli in mente.
«E no, Ede, non pensare
minimamente di torcere un capello ad Akira e Nobu».
«Strega».
Lei sorrise. «Non c'è
bisogno di avere super poteri per capire che ti passa per quella testolina
bacata. Anche un cieco avrebbe visto l'espressione omicida che avevi cinque
secondi fa».
Rukawa non rispose,
pienamente convinto che fosse davvero una strega. Insomma, con
quell'improbabile colore di capelli di certo non era normale.
Appena Hanamichi, dopo
quasi un'ora di preparazione, fece la sua trionfante uscita dalla sua stanza,
mostrando al mondo quanto bello e solare fosse.
«Hana, sei sicuro di
voler andare al Ryonan conciato così?».
«Sì, perché?», domandò
insicuro l'altro.
«Ecco, perché non
passerai di certo inosservato con la tua testa rossa, se poi ti presenti così
allora è un chiaro invito a ricevere le ire dell'intero liceo».
«Magari fosse!»,
commentò Kaede, beccandosi l'occhiataccia del suo compagno di squadra.
«Ede, ci terrei tanto a
riportare a casa sano e salvo mio fratello».
«È necessario?».
«Kit, ammazzati».
«A te l'onore di
iniziare, Do'aho».
«Giovini, potete
cortesemente smetterla?».
I due borbottarono
qualcosa alla volta dell'altro, ma fu Hanamichi a riprendere. «Ma Hicchan, se
indosso la divisa così almeno si vede quando io sia attaccato alla squadra, no?».
Hime si grattò il naso,
incerta. «Allora fai una cosa, indossa la maglia ma evita i pantaloncini. Anche
perché oggi fa fresco, non vorrai ammalarti?».
«Sta facendo di tutto
per liberarci dalla sua presenza, lascialo fare», continuò Kaede, che si
ritrovò il suo miglior nemico al collo, con il chiaro intento di farlo fuori.
La ragazza rinunciò a
qualsiasi tentativo di farli smettere e trotterellò in cucina, riempiendosi un
bicchiere di the verde, che tanto adorava. «Quando finite fate un fischio!». In
risposta ottenne solo il suono di un qualcosa di fragile che si frantumava al
suolo. Sperò vivamente che non fossero le tartarughe in vetro della madre...
altrimenti sì che si sarebbe ritrovata senza fratello. E probabilmente anche
senza migliore amico.
Quando Hanamichi si
precipitò dalle scale, trascinandosi dietro sorella e Volpe, Hime capì che il
danno era stato fatto.
«Hana, sai bene che
mamma vi ucciderà, vero?».
Sakuragi si guardò le
spalle, come se la donna fosse dietro di lui con una mannaia in mano pronta a
farlo fuori sul serio. «No, Hicchan, mamma è buona e gentile, non farebbe male
ad una mosca. E poi è stato lui a spingermi contro il mobile!».
«Spara balle», fece
serafico Kaede, mani in tasca e spallucce di desolazione.
«Ede, per una volta non
mi riesce difficile pensare che stia dicendo la verità», lo ammonì la seconda
manager, con aria da bacchettona.
«Che significa per una volta?! Hicchan, io non dico le
bugie!», esclamò Hanamichi, con il labbro all'infuori, triste e sconsolato. La
risposta della sorella fu la sua occhiata eloquente, che diceva a chiare
lettere: vedi? Lo stai facendo anche ora!
E tra un'infinita
filippica sulla sua sincerità e sui suoi occhioni da cerbiatto indifeso,
Hanamichi accompagnò le loro povere orecchie fino al Liceo Ryonan, dove Yayoi
Aida li attendeva per la sua intervista sulle gradinate della palestra, dove la
squadra di basket si allenava. Il sorriso cordiale della donna svanì nel
momento in cui l'intervistato quasi si strappò la felpa per mostrare al mondo
intero la sua lucente maglia rossa, facendo finire l'indumento in campo. Più
precisamente sulla testa del Coach di casa, che non impiegò troppo tempo a
sbraitare e inveire contro il rossino, che in risposta neanche si curò di lui.
«Sono Hanamichi
Sakuragi, piacere di conoscere la donna che mi renderà famoso! Anzi, famoso lo
sono già, ma un po' di lustro al mio nome su una bella copertina patinata non
fa mai male, no?».
«Hana, datti una calmata»,
mormorò Hime, salutando allegramente la donna e ringraziandola per la sua
disponibilità.
«Nessun problema,
ragazzi», fece la giornalista. «Era da un po' che volevo fare due chiacchiere
con il numero 10 dello Shohoku e mio fratello ha insistito così tanto che non
ho potuto rifiutare. Ma non sapevo che anche Rukawa sarebbe stato dei nostri».
«Infatti, se lo può
anche scordare», s'affrettò a dire l'ala piccola, incrociando le braccia e
puntando gli occhi sul campo da gioco. Akira lo intravide e sollevò una mano
per salutarlo, solare e limpido come sempre. Il malumore del Volpino crebbe a
vista d'occhio e sia Hime che Yayoi decisero di lasciarlo perdere.
La giornalista prese il
suo taccuino e una penna, appuntando la data e rivolgendo un sorriso a
Hanamichi. «Allora, iniziamo. Prima di tutto vorrei complimentarmi per il tuo
talento, Hanamichi. Non si vedono spesso giocatori come te».
«Lo so, lo so. In
effetti, bisogna essere dei geni nati per certe cose. Io il basket ce l'ho nel
sangue, non so se mi spiego».
«Credo che si riferisse
alla tua demenzialità, Do'aho».
«Sei solo verde
dall'invidia, Kit».
Yayoi, facendo finta di
niente, appuntò qualcosa e rivolse ancora una volta un sorriso al rossino. «Come
hai iniziato ad appassionarti a questo sport?».
Hanamichi si arruffò i
capelli, pensieroso. Avrebbe dovuto raccontare a quella sconosciuta che era
stato a causa della tenera e dolce Haruko? Lanciò una richiesta d'aiuto alla
sorella, che sollevò le sopracciglia per esortarlo a parlare. «Beh, ecco, è
stato grazie a... a Hicchan, la mia sorellina. Lei ha sempre giocato a basket
con il Volpino e alla fine mi ha contagiato».
«Così tardi? Hai
quindici anni, ormai e molti giocatori, anche più piccoli di te, hanno iniziato
da bambini».
«Non è mai troppo tardi
per diventare delle star di uno sport!», esclamò Hanamichi, esaltato. Ma poi si
fece serio d'un tratto. «In realtà ho iniziato per gioco, per dimostrare a
tutti che anche io avrei potuto fare canestro... poi mi sono innamorato di
questo sport e ora non ne posso più fare a meno. Mi sento vivo solo quando ho
quel pallone tra le mani e quando segno qualche punto importante».
Hime sorrise, con gli
occhi lucidi. Perché sapeva che quelle parole fossero sincere e provenissero
direttamente dal cuore del fratello. Hanamichi amava davvero il basket più di
qualsiasi altro hobby, ne era sicura, ed era felice che finalmente avesse
trovato qualcosa di nobile e bello da fare, anziché vagabondare con i Gundam e
fare a botte con i primi che capitavano. Anche Kaede, se non fosse stato così
freddo e impassibile, si sarebbe commosso per quello slancio di sincerità.
Sì, come no.
«Nel basket, come in
ogni gioco di squadra, non è importante solo il talento personale, ma anche
avere un buon rapporto di complicità con i propri compagni. Cosa mi dici del
team?».
Hanamichi partì
nell'elogio di ogni singolo amico e compagno di squadra, perché ognuno di loro
gli aveva insegnato qualcosa di importante. Ayako, santa donna, i fondamentali
in pochi mesi, Akagi la difesa sotto canestro, Ryota la smarcatura, Hisashi la
testardaggine e l'onore e soprattutto il Coach Anzai, con il tiro dalla lunetta
e affini. E tutti, soprattutto, gli avevano dato prova di una profonda
amicizia. Credere in qualcuno come lui, testa calda e davvero scarso
all'inizio, è stato un punto indispensabile nella sua crescita sia sportiva che
umana.
«Se continua a essere
così sdolcinato mi farà diventare diabetico», commentò Kaede, mentre Hime gli
si avvicinava per lasciare soli i due.
«So che ti fa piacere
sentirlo parlare in quel modo, Ede. Anche se non ti ha nominato ci sei anche
tu, tra coloro che lo hanno aiutato».
«Hn,
figurati. Non perdo tempo con casi irrecuperabili».
Lei ridacchiò. Ma il
riso le morì in gola nel vedere quel colosso di Daichi Anami muoversi goffamente
a centro campo. «Anche Akagi avrebbe problemi con un mostro come quello. Anche
se non mi sembra molto sveglio».
Kaede vide Sendoh
avvicinarsi al bestione, dirgli qualcosa e battergli una mano sulla spalla.
Daichi, solo in quel momento, tornò sotto canestro, come se si fosse ricordato
di cosa realmente fare. «Sembra tuo fratello, insomma».
Lo sguardo perforante di
Hime non gli fece battere ciglio, se non un leggero increspamento delle labbra,
che a lei ovviamente non sfuggì. Rimasero a osservare gli allenamenti del
Ryonan per una mezz'ora intera, finché l'attenzione di Hime fu riportata
all'intervista.
«E tu, Rukawa? Come vedi
il prossimo Campionato Invernale, ora che il tuo avversario principale è
diventato Capitano?», domandò la giornalista.
La Sakuragi arrossì nel
vano tentativo di svegliare l'amico che si era appisolato sulla sua spalla,
infilandogli con la delicatezza di un elefante un gomito tra le costole. «Ede,
sei nel mezzo di un'intervista, non dormire!».
Il Volpino dello Shohoku
le rifilò un'occhiataccia. «Non deve fare domande stupide solo al Do'aho?».
La seconda manager dei
Diavoli Rossi si accorse, con preoccupazione, che una vena pulsava
pericolosamente sulla fronte di Yayoi e sorrise, imbarazzata. «Lo scusi,
signorina Aida, ma diventa molto irascibile quando esce dal letargo».
La giornalista scosse il
capo, scribacchiando qualcosa sul suo taccuino, e la Sakuragi sudò freddo.
Qualunque cosa stesse scrivendo la donna sul suo amico non doveva essere
piacevole - vista anche la pesante infatuazione verso il suo acerrimo nemico,
che ora si faceva bello e simpatico con la presunta cugina... che indossava una
divisa dello Shoyo.
«Certo che gli somiglia
molto, quella ragazza», commentò Hime, sporgendosi per vederla meglio.
«La stessa faccia da schiaffi».
Le sue povere costole
iniziarono a chiedere pietà alla seconda gomitata di Hime. «Ssh!
Stanno venendo qui!».
E infatti ecco Akira,
sorridente e allegro, con a braccetto la ragazza misteriosa, sorridente e
allegra anch'essa, in una perfetta coppia per la pubblicità di un miracoloso
spazzolino, per una dentiera più bianca e splendente.
«Ehilà, amici! È un
piacere vedervi», li salutò il Capitano del Ryonan, facendo digrignare i denti
al suo rivale, che neanche lo degnò di uno sguardo, ma borbottò solo un "Potessi dire lo stesso".
Hime si alzò,
saltellando e salutando l'amico con un bacino sulla guancia. «Piacere nostro, Akira! Veniamo in pace, non
preoccuparti».
«Oh, nessun problema.
Sapevo dell'intervista a tuo fratello. Hikoichi non faceva che parlarne!», rise
Akira, affabile come sempre.
«Idem Hanamichi, era più
esaltato del solito. Il che è tutto dire. Ma non ci presenti la tua amica?»,
chiese curiosa Hime, rivolgendo un sorriso alla cugina.
Akira si batté una mano
sulla fronte. «Chiedo venia, luce dei miei occhi. Lei è Reiko Azamui, mia
cugina. Rei, loro sono Hime Sakuragi e Kaede Rukawa, due vecchi amici». Il
cestista marcò bene l'ultima parola e si divertì parecchio nel vedere la
mascella contratta dell'altro, che continuò deliberatamente a ignorarli.
«Piacere di conoscervi!
Akira non fa altro che parlarmi di voi, non vedevo l'ora di incontrarvi», fece
la ragazza.
«Piacere mio, Reiko. Ma,
sbaglio o ho già sentito il tuo nome?». Poi sbarrò gli occhi nocciola e
schioccò le dita, trionfante. «Certo che ti ho sentita nominare! Sei una
nuotatrice, giusto?».
La studentessa dello
Shoyo non sembrò sorprendersi della sua fama. «Non sbagli. Segui il nuoto?».
Hime arrossì. «Non da
molto, in effetti. C'è un'amica che è molto brava e sto iniziando ad appassionarmi
ora, seguendola».
Reiko annuì. «Kiyo
Kobayashi, scommetto. È molto brava, quella ragazza, e se continua a essere
così determinata arriverà molto lontano. Non vedo l'ora di incontrarla di nuovo»,
disse, sinceramente. Hime, che sapeva riconoscere l'invidia dalla stima, si
sorprese. Era abituata ad avere a che fare con sportivi capaci e talentuosi
che, per il solo fatto di essere i numeri uno, si gasavano e diventavano
egocentrici e, spesso, arroganti, soprattutto nell'ambiente femminile. Eppure non
c'era veleno in quelle parole e quella ragazza le parve genuina e davvero
compiaciuta della bravura della sua amica. Anche se, era ovvio, quella era la
cugina di Akira Sendoh, lo sportivo per antonomasia, non poteva essere
altrimenti.
«Sappi che la cosa è
reciproca. Ti stima molto e ora capisco perché. Ma dimmi...», fece la seconda
manager dello Shohoku, con un tono divertito. «Se sei dello Shoyo conosci Kenji Fujima, posso
stringerle la mano?*».
Reiko scoppiò in una
risata cristallina. «Questa frase lo perseguita, ormai, ogni giorno! Ma sì, lo
conosco di vista, siamo nella stessa sezione».
«Wow. Hai sentito, Ede?
Conosce Kenji Fujima, posso
stringerle la mano!», esclamò Hime, che non ricevette risposta. «Scusalo, è
sempre così», aggiunse, sorridendo alla ragazza, che si strinse nelle spalle e
si sporse verso il ragazzo taciturno e scuro in volto.
«Non sono una Sendoh
vera e propria, dato che mia madre è la sorella di sua madre. Puoi anche
rivolgermi la parola, sai?».
Hime sgranò gli occhi,
tappandosi la bocca con le mani per non ridere in faccia all'amico. Cosa che
invece fece Akira, senza troppi problemi.
Kaede, d'altro canto, si
limitò a voltare il viso verso la ragazza, che gli sorrideva in quel modo
innocente e fastidioso tipico di Sendoh. «Fintanto che sorridi come un'ebete
come lui la cosa non cambia».
«Ede!», sbraitò Hime,
che questa volta gli tirò uno scappellotto in testa che lo stordì per parecchi
minuti.
Ma i cugini risero, come
se niente fosse.
Erano proprio un fattore
genetico dei Sendoh, pensò sconcertata Hime.
«Tra un quarto d'ora
finiamo gli allenamenti e stavamo pensando di andare a bere qualcosa al bar
dietro l'angolo. Siete dei nostri?», domandò Akira.
«Preferisco la morte»,
rispose Rukawa, sempre più incacchiato. Non bastava un Sendoh, ora ci voleva
anche la copia al femminile!
«Intende dire che
sarebbe felice oltre misura di farvi compagnia», replicò Hime, ormai stanca di
pestare l'amico. «Anche se vi avverto, dovrete sorbirvi la gazzosa di
Hanamichi. Sarà gasatissimo».
Akira fece spallucce.
«Ci siamo abituati tutti, no?».
«Tecnicamente lei no»,
gli fece notare la manager.
«Non mi spavento
facilmente, Hime», disse quella, strizzandole un occhio con complicità.
La rossa le si appese al
braccio, allegra, rivolgendosi all'amico. «Dov'è che l'hai tenuta nascosta
tutto questo tempo?».
Il cugino dell'anno
rise. «È lei che preferisce stare attaccata ai libri e al suo nuoto, anziché
venirmi a coccolare».
«Potresti fare anche il
contrario, ogni tanto», lo rimbeccò Rei. «Non sono solo io ad abitare dall'altra
parte di Kanagawa».
Il numero 4 del Ryonan
si grattò la nuca, imbarazzato. «È che è così lontano che mi passa ogni
fantasia. Una delle poche volte che son salito sulla metro mi sono addormentato
e mi son ritrovato al capolinea senza neanche accorgermene».
Le due ragazze scossero
mestamente la testa, mentre a Rukawa scoppiò una coronaria, invece di una
risata.
«A quanto so anche tu
sei uno che ama dormire».
Kaede si chiese se
quella Reiko ce l'avesse davvero con lui, o se fosse scritto nel libro della
sua vita che tutti i Sendoh del mondo dovessero perseguitarlo a prescindere.
«Almeno arrivo in orario agli allenamenti, io».
«Touché», fece la ragazza, puntando un dito al cugino, che alzò le
braccia al cielo.
«Ma non devi finire di
allenarti?», borbottò Kaede ad Akira.
«Ti preoccupi che non
sia alla tua altezza?».
«No, così ti levi dalle
palle, idiota».
Il Porcospino piegò le
labbra in un sorriso, salutò le donzelle e tornò agli allenamenti - ma solo
perché Taoka aveva ripreso a sbraitare come un isterico contro di lui e non
voleva far prendere un colpo al suo Coach.
«Era ora».
Reiko guardò il ragazzo
che aveva parlato. «Ti sta antipatico perché è più bravo di te o perché è bravo
come te?».
Il numero 11 dello
Shohoku sollevò un sopracciglio. «Nessuna delle due. Mi irrita e basta».
«Capisco».
L'altro sopracciglio
raggiunse il precedente, regalandogli l'espressione più perplessa che potesse
sfoggiare. Che diavolo significava quel tono e quel capisco? Cosa capiva?
Kaede non si sbagliava di certo se pensava di aver udito del sarcasmo in quella
semplice parola. Un po' come dire certo,
come no. Ma che ne poteva sapere una perfetta sconosciuta, per giunta
parente di quello squilibrato, di quello che gli passava per la mente? Solo una
persona era in grado di capirlo, e di certo non si chiamava Reiko Azamui.
Il fatto era che odiava
Sendoh solo per la sola ragione di esistere. Poteva odiarlo anche solo perché
gli stava rubando l'aria da respirare. Non era un buon motivo, quello? Per lui
bastava e avanzava, capitolo chiuso.
«Akira dice che hai del
talento. Solitamente, quando si complimenta con qualcuno, non mente», proseguì
la ragazza dalla divisa verde, tranquillamente.
«Non ho talento. Sono un fuoriclasse».
«Oh, non lo dubito,
davvero!».
Kaede strinse i pugni,
oltre che i denti. Se avesse continuato a sorridere come una deficiente,
conscia di irritarlo oltremodo, le avrebbe spaccato il muso, parola d'onore. E
a quel paese la cavalleria. Era morta da tempo, ormai.
Hime, d'altro canto,
trovò quella piccola discussione immensamente interessante e divertente. Era
bello trovare, ogni tanto, qualcuno che potesse tener testa al suo amico.
Soprattutto che riuscisse a farlo innervosire con così tanto candore. Neanche
lei ci riusciva, accidenti!
Per l'immensa sfortuna
di Rukawa, prima di vedere nuovamente il viso lindo e profumato di Akira,
reduce dalla doccia post allenamento, passarono tre quarti d'ora - era lento
anche a lavarsi, il ragazzo. Ma non ci fu niente da gioire, perché da una parte
aveva una palla al piede dai capelli rossi che si vantava della splendida
intervista rilasciata solo pochi minuti prima, dall'altra ne aveva altre due
dagli intensi occhi blu che non facevano altro che ridere alla vita, come se
tutto fosse rose e fiori. Ciliegina sulla torta: Hime lo trascinò letteralmente
con loro al bar all'angolo, e continuò a chiedersi per il resto della serata
cosa diavolo ci facesse lì in mezzo - anzi, come diavolo ci fosse finito, dato
che non trovava ragione alcuna della sua presenza al Ryonan, per accompagnare
quel cerebroleso di Hanamichi.
La situazione peggiorò
quando trovarono un tavolo da biliardo libero e pronto solo per loro e,
ovviamente, finì invischiato in un due contro due, in coppia con la sua
manager - almeno quella era una piccola fortuna in mezzo a tanta sfiga, si disse per farsi forza. Non
avrebbe saputo di che morte morire, se avesse dovuto scegliere tra il
Porcospino e la Scimmia; per non parlare della nuotatrice che, grazie a Buddha,
non aveva mai giocato a biliardo e non sapeva neanche da che parte iniziare.
«Ehi, guarda che hai le
palle piene tu, intesi?», gli fece Hanamichi, puntandogli la stecca contro.
Rukawa sollevò gli occhi
al cielo. «Scimmia, non c'era bisogno di dirmelo. Che ho le palle piene di te
lo sapevo da tempo».
Un'unica risata si sentì
per l'intero locale ed era quella dei cugini Sendoh.
Kaede sbuffò.
Ottimo, era diventato
anche il clown della situazione.
*
Al rientro verso casa, sopravvissuti
a un pomeriggio denso come quello appena trascorso, incrociarono Ryota, con la
sacca dell'allenamento in spalla, reduce da due tiri al campetto vicino alla
spiaggia.
«Ehi, Pigmeo! Bacia la
terra che calpesto, presto sarò famoso!», esclamò Hanamichi.
«Ha dato l’intervista
con Aida», spiegò la sorella.
Ryota sollevò gli occhi
al cielo. «È da ingenui sperare che la cosa lo calmi un poco, almeno fino
all'inizio del torneo?».
«No, è da stupidi. Con
affetto, Capitano», s'affrettò ad aggiungere la ragazza. «Ora non vede l'ora di
leggere l'articolo».
«Buddha, salvaci. A volte
sento la mancanza di Akagi».
«A chi lo dici!», esclamarono
in coro Kaede e Hime.
«Ehi, Ryo-chan, che ne
dici se passiamo un attimo a casa, mangiamo qualcosa e giochiamo un altro po'?»,
chiese il rossino, che per loro fortuna non li aveva sentiti, troppo perso
nelle sue elucubrazioni geniali che i comuni mortali come loro non avrebbero
potuto capire.
Miyagi si strinse nelle
spalle. «Per me va bene, non sono stanco. Almeno mi fai vedere se le ore spese
a insegnarti lo scarto dell'altra sera sono servite a qualcosa oppure ho perso
solo tempo».
«Abbi fede, amico mio!»,
si pavoneggiò il rossino.
«Nel senso che forse se
preghi in arabo avverrà il miracolo», continuò Kaede, che fece gli ultimi
cinquecento metri azzuffandosi con il suo miglior nemico - o peggior amico, che
dir si voglia.
Quel momento idilliaco
fu spezzato nel momento in cui i quattro varcarono la soglia di casa Sakuragi,
dove una troppo calma Misato attendeva i gemelli con i resti delle sue preziose
tartarughe portafortuna tra le mani.
«Finalmente siete
tornati. Aspettavo giusto una spiegazione», esordì l'infermiera, con un tono
fintamente cortese e un sorriso che metteva i brividi.
Hanamichi si grattò la
testa, guardando prima la sorella e poi Rukawa, che se ne stava poggiato contro
il muro. «Ti posso spiegare».
«Sono tutta orecchie,
Hana».
Il rossino strinse le
labbra, cercando di ingranare qualche scusa plausibile. «Ecco, è che... è
entrata una volpe in casa, mamma».
Hime e Ryota si
voltarono contemporaneamente a guardarlo, confusi e increduli che avesse
davvero trovato una scusa del genere. Che poi avesse citato una volpe in onore
del loro comune amico era un altro paio di maniche.
«Una volpe?», ripeté la
donna, scettica. Fece scivolare lo sguardo dai figli all'ignaro (o finto-ignaro) Kaede, che ora aveva iniziato a osservare con crescente
interesse il soffitto.
«Sì, una volpe, mà», continuò Hime, annuendo innocente e genuina come una
banconota falsa. «Sai, quel mammifero tenero, dalle orecchie importanti e la
coda pelosa e morbida...».
La signora Sakuragi si
voltò verso il forno appena questo l'avvisò che i biscotti che aveva messo in
caldo erano pronti, e posò la teglia sul tavolo, guardando critica il risultato
di tanto lavoro. «Potete dirmi la verità, ragazzi, non sono arrabbiata. Quando
preparo biscotti sono sempre felice, dovreste saperlo».
Ma prima ancora che Hime
potesse tappare la bocca del fratello con un dolce e soffocarlo, sapendo che
quella fosse una trappola bella e buona, Hanamichi aveva già iniziato a inveire
contro Rukawa, attribuendogli tutte le colpe del mondo e sbraitando come un
pescivendolo che le adorate tartarughe della madre le avrebbe ricomprate a sue
spese anche se la responsabilità del danno non fosse assolutamente la sua.
Con un ghigno degno del
miglior Takenori Akagi, la donna mise i biscotti in un contenitore di plastica
e lo porse a Hime. «Portali tutti a
Yohei, so che gli piacciono tanto».
La figlia si grattò il
naso, perplessa. «A me neanche uno?».
«No, li hai difesi
entrambi». Poi Misato sorrise, ora divertita. «E poi stai iniziando a metter su
qualche chilo di troppo, devo smetterla di viziarti».
Le urla di disperazione
dei due fratelli - chi per una fame tremenda, chi per la disperazione di tali
parole velenose - furono udite fino a Tokyo. Sconsolati e sconfitti, i gemelli,
seguiti dalla Volpe e dal Tappo, s'incamminarono verso la casa di fronte.
Quando Mito aprì la
porta e vide il dono che Hime gli porgeva, sorrise come un angioletto. «Adoro
quando ne combinate una. Ci guadagno sempre qualche delizia di vostra madre».
«Che ti rimanga sullo
stomaco», grugnì Hanamichi, imbronciato.
«Non è che possiamo
dividere? Ho un po' di fame», fece Ryota, sbadigliando.
«No, tu non mangi!»,
strillò la ragazza, quasi con le lacrime agli occhi. «Devi... giocare, non va
bene mangiare prima di un allenamento».
«Ma se sei tu la prima a
dire che...».
«Dico tante cavolate,
ora su, verso il campo!», lo interruppe bruscamente Hime, trascinandolo lontano
dai biscotti profumati e ancora caldi.
Non poteva mangiare lei?
Non avrebbe mangiato nessuno!
*
Ma quella serata lunga e
stancante fisicamente e psicologicamente non era ancora giunta al termine,
neanche alle otto e mezza di sera. Quando i ragazzi, di rientro dalla
partitella blanda vicino alla spiaggia, videro il gruppo di motociclisti e
riconobbero il capo branco strinsero gli occhi e i denti per la rabbia. Avevano
a pochi metri di distanza i bastardi che avevano ridotto Mitsui su un paio di
stampelle, rischiando di compromettere per sempre la sua carriera sportiva e
privandoli della sua bravura in campo per le prime partite di Campionato. Oltre
al fatto che i danni psicologici, senza un sostegno amichevole, avrebbero
potuto essere ben più importanti di quelli fisici, e loro sapevano bene cosa
avesse dovuto passare Hisashi per riprendersi dalla disperazione di non poter
più giocare a basket.
Solo un unico pensiero
iniziò a farsi strada nelle menti dei tre, che si scambiarono una rapida
occhiata e capirono subito cosa avrebbero dovuto fare.
Per il loro amico.
E per la ragazza del
loro amico.
Nessuno avrebbe dovuto
osare alzare un dito contro uno di loro, perché erano una famiglia. E in
famiglia ci si difende a vicenda.
Mossero i primi passi
verso i teppisti, ma una mano fermò il braccio di Hanamichi, che si voltò di
scatto, un pugno già pronto a colpire. Ma quando i suoi occhi castani incontrarono
quelli di Yohei Mito si arrestò immediatamente.
«Cosa pensate di fare?»,
gli domandò l'amico, accompagnato dai fedelissimi Gundam. Hime strinse forte le
mani del gemello e di Kaede, troppo spaventata dalla situazione e, soprattutto,
dai loro sguardi.
I tre cestisti sollevarono
lo sguardo dietro le spalle di Yohei e si accorsero solo in quel momento della
presenza di Tetsuo e della sua banda di delinquenti. Questo si accese una
sigaretta e sbuffò il fumo con prepotenza, in un ghigno di divertimento. «Lasciateli
a noi. Questo non è un lavoro per tre pivelli come voi».
Hanamichi fece per
ribattere, furioso e più rosso dei suoi capelli - nessuno lo chiamava pivello! -, ma Ryota lo fermò con
prontezza, intimandogli di non fare idiozie. «È quel deficiente il nostro
obiettivo, non lui».
«No, ragazzi, nessuno è
l'obiettivo di nessun'altro», fece Hime, con la voce tremante. «Non mettetevi
nei guai, per favore. Avete visto come hanno ridotto Hisashi?».
«Ma noi siamo di più»,
replicò Sakuragi, stringendo i pugni.
Yoehi li sorpassò,
fermandosi al fianco del migliore amico. «Fai come ha detto Tetsuo, Hanamichi,
e come sta dicendo Hime. Avete un campionato da giocare e avete anche promesso
di non fare più a botte con nessuno, ricordi? L'allenatore Anzai non deve sapere
niente».
Il rossino scambiò una
rapida occhiata con Ryota e Kaede, quest'ultimo deciso quanto lui a farla
pagare a quel bastardo. Ma tutti e tre capitolarono davanti alla calma e alla razionalità
di Yohei e agli occhi spauriti di Hime.
Hanamichi si ficcò le
mani in tasca, contrariato. «Spaccagli il naso da parte mia».
Le labbra di Mito si
piegarono in un sorriso e fece schioccare le dita. «Mi devi un favore, amico».
«Ti ho già dato i
biscotti di mia madre, che ti bastino per il resto della vita!».
Continua...
* * *
Salve a tutti, gente!
Finalmente trovo il tempo per scrivere e aggiornare questa
mia seconda "casa"! Quello che ho passato è stato un periodo troppo
denso di cose e novità e non ho trovato la testa e il tempo per dedicarmi come
avrei voluto ai nostri amati Ragazzi Selvaggi! Ma ora eccomi qui - sempre che
sia rimasto qualcuno là fuori ad attendere che venissero tolte le ragnatele a
questa storia!
Abbiamo conosciuto un po' meglio la misteriosa cugina di
Akira, spero che vi piaccia come piace a me - non come piace a Rukawa, che già
la detesta. :)
* Una piccola nota su questa frase in corsivo: l'ho ripresa
dal manga, quando Fujima, spettatore di una partita,
incontra una fan che gli chiede di stringerli la mano, innamoratissima e
rossissima, sotto lo sguardo divertito dei compagni di squadra. Ho pensato che
fossero stati proprio loro a far circolare la voce e a prendere in giro il loro
capitano. :)
A presto - spero!
Un abbraccio,
Marta.