Libri > Twilight
Segui la storia  |       
Autore: screaming_underneath    22/04/2012    10 recensioni
Sono passati tredici lunghi anni dallo scontro coi Volturi.
La piccola Renesmee è cresciuta e, nel migliore spirito Meyeriano, si è sposata con Jacob: tutto sembra andare per il meglio.
- Cosa succede allora se scopri che nulla di ciò su cui è fondata la tua vita è veramente.. reale?
Strani sogni inquietano la giovane Cullen: e mentre teme per un possibile allontanamento di Jake, una nuova minaccia arriva a turbare le visioni di Alice, gettando tutto e tutti ancora una volta sul ciglio del baratro.
_
Parole.
Somme di lettere.
Lingua schiacciata sul palato, corde vocali che vibrano.
In una vita umana, vengono pronunciate all'incirca centosettanta milioni di parole. Se le mettessimo in fila, come tanti piccoli trenini, faremmo all'incirca quattromiladuecentocinquanta volte il giro intorno alla Terra.
Impressionante, vero?

“Il ragazzo che hai sposato e che ami follemente un tempo era innamorato di tua madre.”
Parole. Parole come altre.
[In revisione]
Genere: Romantico, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jacob Black, Nuovo personaggio, Quileute, Renesmee Cullen, Seth Clearwater
Note: Lime | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Successivo alla saga
Capitoli:
   >>
- Questa storia fa parte della serie 'The New Twilight Saga '
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Introduzione:

[Questa storia verrà ripostata dal principio, con evidenti modifiche e miglioramenti: un grazie a coloro che hanno già letto in passato, e stanno leggendo il sequel proprio in questo momento; un grazie a coloro che leggeranno di nuovo, con la speranza che così rinnovata ed ampliata, la mia storia possa piacere ancora di più; un grazie a tutti i nuovi lettori, che vorranno accordarmi la loro bontà, con qualche parola di incoraggiamento e critica. Vi voglio bene, a tutti quanti. E un grazie a te, misterioso pirata informatico, che ti diverti a cancellare le storie altrui: non so come tu faccia, ma cancellando “Moonglow”, non hai fatto altro che darmi la forza di ricominciare da capo, rimodificando e ritoccando tutte le parti che stonavano, compreso un Jacob veramente poco IC. Mi hai fatto un favore, alla fin fine. Ringrazio solo che tu ti sia limitato nel danno a questa sola storia, di cui avevo una copia in hardisck esterno, e non a molte altre che ho solo qui pubblicato, salvaguardando quasi due anni di fanfiction scritte col cuore. Grazie, sul serio.]

 

 

Image and video hosting by TinyPic

 

°°Cap. I°°

Sogni

 

We all live, we all die
That does not begin to justify you
It's not what it seems
Not what you think
No, I must be dreaming
It's only in my mind
Not real life
No, I must be dreaming

(I must be dreaming – Evanescence)

 

 

 

Correvo, correvo a rotta di collo.

Il posto mi era sconosciuto: grossi abeti bianchi che non riuscivo a collegare a nessun luogo in particolare si piegavano al mio passaggio, sotto un cielo scuro e pesante come il piombo; parevano tanti maggiordomi ossequiosi. Intorno a me, oltre gli alberi, tutto pareva privo di un contorno ben preciso, sfuocato, come una foto scattata in movimento. Notai che nulla sembrava perturbare quel nero, non un solo rumore, non un solo odore o la presenza di qualcosa.

Un gemito salì sino alla mia gola, per estinguersi subito, in mancanza di eco: non potevo fermarmi. I miei piedi continuavano la loro folle corsa senza il mio aiuto, per quanto cercassi di bloccarli, impuntandomi con tutte le mie forze. Semplicemente, cervello e muscoli avevano smesso di dialogare tra loro, vittima di un qualche strano artificio.

Non sapevo dove fossi diretta, ma un senso di claustrofobia si impadronì di me lentamente, strisciando sulla pancia. Sulla sua schiena la Paura, quella viscida e collosa come pece, già scivolava in me, togliendomi il respiro.

La strada che percorrevo si faceva mano a mano più stretta, fino a diventare una stretta linea bianca in mezzo a tutta quell’oscurità spaventosa. Ero consapevole che smarrire quel nastro di luce avrebbe coinciso con lo sparire io stessa, probabilmente. Di chiunque fossi prigioniera, in quel momento, aveva già scelto la mia fine al posto mio. Mi si visualizzò all’improvviso nella mente la sagoma di qualcuno – qualcosa che si avvicinava lentamente, seguendo la mia stessa traiettoria: quando fossi stata abbastanza vicina, l’Essere avrebbe semplicemente aperto la bocca, ponendo fine alla me-Renesmee.

Ero così tesa nello sforzo di ribellarmi per sfuggire alla bocca dell’Essere che non prestai subito attenzione a ciò che avveniva intorno a me; quando alzai lo sguardo, dopo aver provato per l’ultima volta a riprendere il controllo delle mie membra, il nastro bianco che un tempo era stato un sentiero ben curato era sparito. Intorno a me, solo alberi, alberi e ancora alberi parevano ammiccarmi, chiamarmi a loro con voce frusciante di foglie secche... ma non era l’unico rumore, adesso: se fino a qualche momento prima non vi era stato veramente nulla, nemmeno il suono del mio respiro, ora ben distinguibile si poteva udire qualcosa che pareva il gemito di un animale ferito.

Sentii la pelle accapponarsi lungo le braccia e la schiena, mentre nel mio corpo centinaia di campanelli di allarme iniziarono a squillare in preda al panico, risvegliando il mio sopito istinto di conservazione. Non potevo muovermi liberamente e la mia corsa proseguiva ancora, lanciando il mio corpo tra gli alberi sempre più fitti... così, quando la Voce risuonò attraverso le mie mani premute forti contro la testa e il mondo iniziò a perdere aderenza, non caddi a terra, continuando invece a marciare veloce.

Nella sua direzione.

«M-mamma? Mamma! No, ti prego...»

La Voce era di mio figlio.

Per quanto lontana e distorta dalla paura, l'avrei riconosciuta tra mille; evocava in me tutto quel turbinio – dall'amore all'apprensione fino alla paura – di emozioni che ormai da quattro anni facevano parte del mio essere madre, concentrati in ricci ribelli e occhioni verdi.

Ben.

Ben stava urlando.

All'improvviso, urlai anche io. Non potei farne a meno, ma mi servì per recuperare quel minimo di buonsenso, o forse meglio, istinto, che bastava a farmi comprendere veramente la mia posizione. Per quanto paradossale, in tutta quella situazione – ancora non sapevo come fossi finita lì, perché non riuscissi ad essere padrona del mio corpo e che diavolo di posto fosse quello – il grido disperato e pieno di terrore del mio bambino era la cosa più reale e vivida di tutto il resto, grido cui risposi con un gemito carico di frustrazione che risuonò nelle mie orecchie come il ringhiare di un animale.

Confusamente, davanti ai miei occhi apparve la cameretta di mio figlio; io ero chinata sul letto di Ben, e lui ascoltava la favola della buonanotte con le coperte tirate fino alle orecchie. Mi aveva chiesto di saltare la parte della strega di Hansel e Gretel, perché gli faceva troppa paura, e non voleva fare incubi quella notte.

Era un ricordo talmente vivido da poterlo toccare con mani; ricordavo il profumo dei capelli del mio bambino, il ticchettare dell'orologio a muro e il canto di Jacob sotto la doccia, al piano inferiore. Ero sicura che tutto quello fosse accaduto, in un passato non troppo remoto. Doveva essere accaduto.

E allora come mai adesso siete qui?”

E' un sogno. Ecco tutto.”

... E io sono Gretel. Andiamo, Ness. Non si fanno brutti sogni sui propri bambini.”

Non di questo genere.”

Esatto. Almeno, non di questo genere.”

Fornelli, macchine, scivoloni al parco giochi, cadute di biciclette, cereali bloccati in gola. Erano queste le paure di una madre per il proprio figlio, ne ero sicura. Erano le cose di cui avevo paura io. Ma una foresta? Perché avere paura di una foresta?

Il bosco era parte di noi. Mio figlio aveva mosso i primi passi tra il muschio del sottobosco, a undici mesi. A due anni aveva fatto il suo primo bagno nel torrente, sotto la supervisione di suo padre. Andava a pesca tutte le volte che voleva e lo lasciavo camminare tra gli alberi intorno a casa nostra da solo, perché per quanto avesse solo quattro anni, era uno di quei rari ragazzini seri e molto responsabili.

Perché allora avevo paura del bosco?

Provai di nuovo a muovere i piedi e questa volta, con molta fatica, riuscii a modificare la mia corsa quel tanto che bastava per accelerare il passo ulteriormente. Il buio mi stava inghiottendo, stringendomisi addosso tra fronde di abeti secolari, alti quelle che mi parevano centinaia di metri.

 

Adesso le grida di mio figlio erano più vicine, provenivano da un punto imprecisato del nero davanti a me. Sentivo che continuava a pregare Qualcuno, o Qualcosa – forse ciò che teneva nel suo giogo anche me – di non fargli del male.

«Benjamin!» Gridai il suo nome con quanto fiato avevo in corpo, facendolo risuonare in un flebile eco. Quel dannato posto sembrava assorbire ogni cosa, persino il mio respiro. Io che non avevo mai sperimentato nulla del genere, avevo il fiato corto per lo sforzo fisico.

Sentii un altro grido, ancora più alto, e la frustrazione si impadronì di me. Dovevo raggiungerlo, proteggerlo, cullarlo e dirgli che era tutto ok, proprio come avevo sempre fatto. Era un bisogno forte, ancora più forte della rabbia e della paura. Era il mio bambino, il mio bambino quello laggiù e niente e nessuno lo avrebbe toccato anche solo con un dito. Sentii il calore dell'adrenalina avvamparmi il collo e il petto e corsi più forte, a testa bassa.

 

Dovevo arrivare in tempo.

Perché il bosco?”

Ben. Ben mi chiamava.

Perché il bosco?”

Un nuovo grido spezzò l'aria, quello definitivo. Era accompagnato da un ringhio bestiale che mi fece vacillare dalla paura.

 

Perché ci sono i lupi, Renesmee. Mi pare ovvio.”

 

~

 

Mi risvegliai di soprassalto, con un ansimo a metà tra un singhiozzo e un grido. Il cuore mi andava a mille.

Perché ci sono i lupi.”

Perché ci sono i lupi.”

Una sola frase in testa. Risuonava e risuonava senza che riuscissi a dargli un significato. Per quanto mi sforzassi, non ero capace di ricordare. Cosa mi aveva spaventato talmente tanto da svegliarmi, con la gola serrata dall'angoscia?

I lupi... i lupi”.

Quella frase mi stringeva il petto, fondendosi con il buio della mia camera da letto. Doveva essere ancora notte; dalle persiane di fronte a me non riuscivo a vedere che un piccolo spiraglio argentato, che serpeggiava sino alle lenzuola che mi avvolgevano il corpo.

 

Jacob dormiva della grossa.

Non si accorgeva mai quando mi svegliavo in preda agli incubi, se non quando lo riscuotevo io, troppo turbata per riuscire a riprendere sonno. Allora, quelle volte, mi stringeva forte sussurrandomi parole nella sua lingua natia, come una ninnananna e mi baciava ovunque, fino a quando il mio respiro non si faceva nuovamente regolare e cadevo addormentata, immersa in sogni colorati e piacevoli.

Non mi andava di svegliarlo adesso: dormiva troppo profondamente, e aveva avuto una giornata stancante, coi turni dei ragazzi da riordinare e un novellino da istruire. Inoltre, il sogno che non ricordavo mi aveva riempita di inquietudine, e per qualche strano motivo non vi era in me il desiderio di farsi coccolare da mio marito. Senza riflettere, allungai una mano verso la sedia accanto al mio comodino, per recuperare la mia veste da camera. In un soffio, scivolai fuori del nostro letto, attenta a non produrre movimenti troppo bruschi.

La stanza era un caos completo, vestiti e scarpe gettati in ogni dove. Non avevo ancora avuto il tempo di mettere in ordine la casa e Jake, con i suoi modi da licantropo svogliato, non mi incoraggiava a farlo. All'ultimo momento, quando per l'ennesima volta lo rimproveravo riguardo la precisione che volevo fosse tenuta nella mia casa, nel secondo imprecisato in cui ponevo una mano sul fianco in un gesto di stizza e con l'altra indicavo il casino che si era lasciato dietro, Jacob invariabilmente mi si avvicinava, con il suo miglior sorriso da giocatore di poker e mi strappava un bacio e un altro e un altro. I miei vestiti volavano a terra, seguiti da quelli che lui ancora non si era tolto e a me passava la voglia di essere la Precisa Mogliettina di Casa, diventando solo la Sporca, Sporca Nessie.

Ma quel pensiero in qualche modo mi turbò ancora di più, in quel momento. Pareva che qualunque cosa sognassi, da un po' di tempo a quella parte, mi stesse davvero mettendo a soqquadro il cervello. Mi passai una mano sui capelli arruffati, solo un gesto abitudinario che compievo sempre quando ero sovrappensiero.

Più ci pensavo, più il sogno sfuggiva. Pareva fatto di catrame viscido: mi scivolava dalle mani come mercurio, ma si era come incollato lassù, nella Centralina Principale. Forse avrei dovuto chiedere consiglio a Carlisle.

Non che avessi paura di qualche strana malattia, era ovvio. Mia madre e mio padre mi dicevano sempre che avrei vinto persino la peste e il colera e non solo per la strana natura di mezzavampira: ero talmente testarda che nessun tipo di disagio fisico avrebbe mai attecchito in me.

Magari era solo stanchezza. Avere un figlio piccolo poteva essere faticoso... ma non credevo fosse per colpa di Ben. Lui era un bambino esemplare, quei ragazzini fatti della pasta di un tempo, come dovevano essere stati i miei avi, oppure il mio papà da piccolo. Rispettoso, serio, posato e tanto, tanto buono.

Eppure Benjamin fa parte di tutto questo. Te ne sei accorta, Renesmee?”

E il mio cervello, finalmente, registrò qualcosa che non avevo notato. Pensando al mio bambino mi erano venuti di nuovo i brividi, e il cuore che già batteva velocissimo di suo pompava più forte, facendomi rimbombare il petto.

Che cosa succede? Cosa succede in quei sogni?”

Ma non riuscivo a ricordare.

 

Sovrappensiero com'ero, arrivai alla camera di mio figlio senza nemmeno rendermene conto. La porta mi accolse, con il suo verdolino prato primaverile; era un colore che Ben amava, e aveva pregato e tormentato il padre sino a quando Jacob, preso con l'inganno, non aveva accettato. Adesso vi campeggiavano sopra dei bellissimi disegni di uccellini. Benjamin aveva voluto abbellire la porta della sua cameretta con un tocco tutto suo, e il risultato era bellissimo.

Mentre mi soffermavo per un lungo momento a contemplare la rondine ad ali e becco spalancati al centro dell'affresco – nel buio della notte, illuminata solo dalla piccola luce antibuio che avevo installato per illuminare il corridoio sino al bagnetto di Ben, la rondine pareva sogghignare: sommato a tutto il resto delle cattive sensazioni di quella notte, potevo quasi dire di odiarla – una nuova ondata di panico mi strinse la gola. Ero sicura che dietro la Rondine Sogghignatrice, non avrei trovato che un letto vuoto, ancora tiepido.

Il Qualcosa si era portato via mio figlio, via, lontano nel bosco.

Mi costrinsi a respirare forte, pigiandomi le dita sulla fronte per tornare alla realtà. Non c'era nessun letto vuoto, nessun Qualcosa e soprattutto, la rondine di Ben era solo un bellissimo schizzo dipinto con le tempere da un genio bambino, illuminato di traverso da una lucetta a forma di Topolino.

Calmati. Ragiona.”

Il respiro di mio figlio era pesante, quello che si attribuisce ad un sonno di ferro, dove tutto è calma e pace. Era lo stesso tipo di respiro di Jacob, e sarebbe stato udibile benissimo persino da fuori della nostra casetta di legno e mattoncini a secco, per un orecchio ben allenato quale il mio. Era il respiro che controllavo con ansia quasi maniacale quando non aveva che pochi giorni di vita e che immaginavo avrei continuato a cercare, durante la notte, per il resto della mia lunga esistenza, quando ormai Ben sarebbe stato grande e avrebbe vissuto chissà dove una vita tutta sua, lontano da una madre apprensiva. Ed era reale, udibile. Non potevo convincermi del contrario.

Dietro la porta verdolina il mio primogenito riposava, dopo una giornata intera passata a scorrazzare per LaPush assieme ai figli di Sam. Nessuno me lo stava portando via e io ero solo una sciocca.

Sei solo turbata da quel brutto sogno che nemmeno ricordi. Ora entri, lo guardi dormire e poi torni a letto anche tu. Magari potresti pure svegliare Jacob e farti fare un po' di coccole, no?”

La Me razionale era tornata a prendere il sopravvento, con mia fortuna. Così, entrai il più silenziosamente possibile nel piccolo mondo privato di Benjamin Black, quattro anni iniziati in un Febbraio bisestile come quello appena passato.

 

Lo trovai con il capo ciondoloni dal letto e il suo taccuino delle meraviglie stretto tra le mani, con ancora la luce del comò accesa; aveva la bocca semiaperta e russava leggermente, arricciando il naso. Vederlo in quella posizione mi strappò un sorriso e mi donò la calma e la tranquillità di cui avevo bisogno. In un lampo, il mio incubo era già dimenticato, cancellato dalla meravigliosa bellezza di mio figlio che dormiva.

Con tutta la delicatezza del mondo, spostai la testolina riccioluta di Ben sopra il cuscino orlato di trenini che Esme aveva ricamato a mano per me un'infinità di tempo prima, baciandolo vicino all'orecchio. Profumava di albicocca, il suo frutto preferito e mi fece girare la testa. Non c'è profumo migliore della pelle del proprio bambino.

Lui, come se ne fosse accorto, mugolò qualcosa più forte, muovendo le spalle per cambiare posizione e lasciando scivolare l'album da disegno e la matita che ancora stringeva tra le dita. Con un guizzo, fermai la caduta del blocco da disegno prima che arrivasse a terra, sciupandone i fogli: così mi accorsi che nelle ultime tre pagine erano rappresentati dei bellissimi ritratti.

Uno rappresentava mio padre: Edward Cullen, col suo profilo serio e statuario, aveva l'unico occhio visibile scintillante di quello che, forse inconsapevolmente, Ben aveva ritratto come orgoglio; la bocca perfetta era appena incurvata all'insù, ma il disegno ti faceva capire che visto in tutta la sua interezza mio padre stava sorridendo radioso, quel suo sorriso un po' sghembo che tanto mia mamma quanto io adoravamo.

Ben amava profondamente suo nonno. Lo cercava e nominava ininterrottamente, come una macchinetta. E mio padre non poteva essere più felice, perché amava quel bambino come fosse figlio suo. Li legava un rapporto forte che immaginavo con il tempo non sarebbe mutato, ma anzi, sarebbe andato maturando sempre più. Erano molto simili, uno lo specchio dell'altro, mi resi conto in quel momento, con l'occhio di Edward che scintillava, morbidamente riprodotto su carta.

Il secondo ritratto era Jacob.

Ben lo aveva ritratto in una posa concentrata, con le sopracciglia aggrottate e una curiosa smorfia a metà tra il perplesso e l'arrabbiato dipinta sulle labbra e negli occhi. Tra le mani stringeva la sua canna da pesca – un regalo di Billy – e un amo con un vermiciattolo perfettamente proporzionato. Se strinevo gli occhi, potevo addirittura contare gli anelli che lo componevano, tutto contorto e attorcigliato com'era. Benjamin, con trucco che forse nemmeno un artista professionista sarebbe riuscito ad eguagliare, aveva creato con il carboncino dei bellissimi chiaroscuro sul viso e sul corpo di Jacob, e in ogni tratto d'ombra era possibile riconoscere la foglia d'albero che l'aveva generata. Questo secondo disegno era talmente bello che lo ammirai per minuti interi, cancellando tutto ciò che mi era intorno, ma fu l'ultimo che mi spiazzò, spezzandomi il respiro in un fremito di ammirazione e giubilio:

L'ultimo ritratto era mio.

Ma era una me bella, molto diversa da come mi apparivo ogni mattina allo specchio, da circa tredici anni. Questa Renesmee di Benjamin aveva gli occhi più luminosi che avessi mai visto, stretti in due fessure gioiose; la bocca era aperta e faceva intravedere denti candidi, perfetti; le labbra erano carnose, curvate all'insù in una risata piena di vita, le guance rosee e lisce come seta; i capelli, boccoli perfetti che le incorniciavano il viso.

Ero io, ma contemporaneamente non lo ero: un artificio talmente ben fatto da lasciarmi senza fiato. Mi riconoscevo nei particolari, come la piccola ruga che mi ornava gli occhi, segno indelebile della gravidanza e il modo in cui mi portavo le mani al petto per il troppo ridere. Contemporaneamente, quella dagli occhi belli, accesi da un sorriso, dai boccoli perfetti come una statua di marmo e le guance tanto rosee non potevo essere io. Non mi ero mai accorta di tanti particolari, quindi, finii per comprendere che Ben aveva aggiunto del suo, a quel suo ultimo disegno, ritraendomi come una dea.

Gli occhi dell'amore e del cuore sono una cosa meravigliosa, sapete.

 

«Sei così bella quando sorridi, mammina.»

Ben si era svegliato senza che me ne fossi resa conto, e adesso mi guardava, con un piccolo sorriso soddisfatto e assonnato. La sua voce mi fu tanto di sorpresa da lasciar cadere il blocco, che si richiuse con un piccolo tonfo. «Ben. Grazie. E tu sei molto, molto bravo. Il mio bambino speciale. Ma adesso dormi, va bene? Scusami se ti ho svegliato» mormorai. Lui annuì, rannicchiandosi di nuovo tra le coperte, mentre io raccoglievo i suoi schizzi e glieli posavo accanto, sul copriletto.

«Sei tanto, tanto bella...» fece un piccolo sbadiglio. «Dovresti sorridere più spesso.» Mio figlio annuì con vigore, impacciato dal lenzuolo. Poi, con un altro sbadiglio, chiuse gli occhi. «Buonanotte mammina. Spegni la luce quando esci.»

Le ultime parole le aveva appena masticate, di nuovo già immerso nel sonno. Così uscii, schioccandogli un bacio sulla fronte e spensi la luce, tirandomi dietro la porta.

 

Mi sentivo meglio. La paura e l'inquietudine del mio sogno si erano dissolte come per magia e dovetti ringraziare come sempre il mio bambino tutto speciale.

Dovresti sorridere più spesso” mi aveva detto.

E lo feci. Ripensai a quelle parole e ancora sorridendo, chiusi la porta della cameretta di Ben, sfiorando appena la rondine che era tornata a sorridermi anch'essa, con il suo becco e le sue ali spalancate.

Ritornai a letto ancora incantata dalle parole di Ben... e non ci fu bisogno di svegliare Jacob, per cercare qualche carezza di conforto.

Mi addormentai di colpo.

 

Stavo di nuovo bene.

 

~

 

Ma come spesso accade, i sogni, soprattutto se brutti, tendono a ripresentarsi.

 

Così, mi ritrovai per l'ennesima volta nel bosco di abeti bianchi.

Stavolta, la mia corsa già procedeva spedita; nell'aria, vivide come lacerazioni, le grida di mio figlio risuonavano, chiedendo aiuto.

Stavolta il nastro argenteo del sentiero non scomparve: invece iniziò pian piano a farsi sempre più ampio, sempre più ampio, man mano che gli alberi lasciavano lo spazio ad arbusti più bassi, con grosse spine acuminate. Di nuovo, sentii Ben pregare di essere lasciato andare con un gemito e il suo volto di bambino spaventato, con i grandi occhioni verdi scintillanti di lacrime, si fece strada violentemente in me, strappandomi un ringhio furioso.

Nessuno lo avrebbe toccato. Nessun Qualcosa o Qualcuno di quel maledetto bosco. «Arrivo. Arrivo! Arrivo!» gridai e l'eco mi si spense in gola. Ma il viottolo acciottolato che stavo seguendo ormai non c'era più.

Al suo posto, una scintillante radura, colpita da raggi di sole che sembravano avere origine da ogni cosa, dalla più piccola delle foglie alle lacrime di mio figlio. Ben era al centro di quello spiazzo, solo ed incolume, incorniciato da fiorellini di campo e uccellini svolazzanti; una rondine dal grosso capo nero planò su di noi, stridendo e volteggiando con grazia: aveva il becco spalancato, come una specie di sorriso di benvenuto.

In un attimo, strinsi forte tra le braccia mio figlio, baciando le sue lacrime. Qualunque cosa fosse successa pareva passata, anche se tutto quello che ci succedeva intorno mi gettava sempre più nell'inquietudine. Da un lato, le grida spaventate del mio bambino; dall'altra, quel posto senza nome, oscuro e privo di suoni e odori; ancora, il biancore della radura dove ci trovavamo adesso sembrava stridere con tutto il resto.

«Ho paura, mamma.» La voce di Ben era un tremito flebile contro il mio petto. Mi aveva inzuppato la maglietta di lacrime e sentivo la sua mano stretta sulla mia spalla. Lo abbracciai più forte, baciandolo e baciandolo.

«Tranquillo. Adesso ci sono io.»

«Possiamo andare a casa?» nuovo flebile tremito contro di me. Solo in quel momento mi resi conto che mio figlio era febbricitante, in preda ai brividi.

«Subito. Andiamo subito, non ti preoccupare. Usciamo da qui.»

Mi alzai e lo presi per mano, iniziando a camminare lentamente; la grande rondine nera, con uno stridio, volò sopra il nostro capo, con traiettorie circolari. Ci seguiva, ma non sapevo ancora se potesse essere un buon auspicio.

«Ho sonno, mammina.» La voce di Ben mi giunse come un pigolio ed io, spaventata, lo presi in braccio. Sentii la sua testa farsi pesante contro il mio petto, mentre il respiro accelerava un po'. Dovevamo andarcene, subito, subito.

Nel giro di pochi passi, per quanto paradossalmente, ci ritrovammo di nuovo tra gli alberi; gli abeti, sempre più alti e minacciosi, stavolta facevano di tutto per impedirci di passare. Con un grido di frustrazione, iniziai a correre a testa basta, lasciandomi frustare le braccia e la faccia e la schiena da rami, spezzandoli con schiocchi cupi.

Sal nulla del Silenzio, di nuovo, quel ringhio, che si alzava e si alzava, fece il suo ritorno trionfale, strappandomi un gemito.

Il torpore che sembrava aver paralizzato Ben iniziò pian piano a scivolare anche dentro di me. Le mie membra iniziarono a farsi pesanti, le palpebre si socchiusero come sotto il comando di un fantasma; all'improvviso, correre diventò un'impresa impossibile, anche se sapevo che abbandonandomi a quell'ennesima stregoneria non saremmo mai riusciti a sfuggire alla presa di quella foresta maledetta.

 

Il ringhio saliva di intensità, si faceva più vicino.

Inciampai, ormai priva di forze, e non ebbi animo di rialzarmi. Così strinsi più forte il corpicino di mio figlio, rimanendo accasciata a terra. Adesso, gli alberi sembravano chinarsi verso di me, con le loro lunga membra scheletriche, pronti a carpirci.

Erano gli emissari di Lui.

Il sonno mi tolse la vista proprio nello stesso momento in cui, dal nero più nero della foresta, appariva un'ombra ancora più scura, enorme e minacciosa.

Infine, Lui ci aveva trovati.

«Dammelo.» Il ruggito rabbioso dell'Essere mi ferì le orecchie, strappandomi dal petto un gemito di terrore puro. Ben, rannicchiato tra le mie braccia, dormiva, ma le sue membra erano tese, il volto tirato. Era mio figlio che voleva. Lui voleva ucciderlo.

«N-non posso.» Era una supplica, un grido di dolore. Si avvicinò ancora, potevo sentire il suo respiro caldo sovrastarmi. Allungai una mano, tremante, chiedendo pietà. Non volevo morire, non potevo lasciare che Ben mi venisse portato via. Era il mio bambino, il mio bambino.

«Renesmee. Lo sai che devi. Dammelo.» L'Essere aveva pronunciato il mio nome con infinita dolcezza, quasi con amore, per poi ritornare ad essere un ringhio di fiera in quell'ultimo comando. Cercai di aprire gli occhi, spingendomi indietro con le gambe; mi dovevo allontanare, o Lui l'avrebbe preso.

Lo sai che devi.”

Gli arbusti del sottobosco mi graffiarono le gambe, mentre scivolavo mettendo spazio tra me e Lui. Sentii il capo di Benjamin sbattermi forte contro la spalla e capii che doveva essere svenuto, o profondamente addormentato. Anche in me, il sonno ormai penetrava le ultime difese, distruggendomi. «No. No! Ti prego!»

Qualcosa di morbido mi sfiorò il viso, soffocandomi. La pelliccia del grande Lupo mi circondò, togliendomi il respiro. Potevo sentire il cuore dell'Essere battere forte, a pochi passi da me. Ma sapevo che, anche con tutta la mia volontà, non sarei mai riuscita a ribellarmi, tantomeno a battermi.

 

Mi aveva sconfitta. Mi ero lasciata prendere e adesso avrei dovuto accettare la fine.
Sentii Ben abbandonare le mie braccia, mentre il Lupo se lo portava via, con un grugnito mostruosamente soddisfatto: aveva capito che ero innocua, che non mi sarai difesa. In pochi attimi, il suo del suo respiro era di nuovo lontano da me.

«No!»

Ma lo aveva già fatto.

Con un ultimo sforzo, aprii gli occhi quel tanto che bastava per vederLo.

 

Il manto rossiccio ondeggiava ad un invisibile vento; tra i denti, stringeva delicatamente Ben.

Quando lo riconobbi, gridai, un lamento che di umano non aveva nulla, mentre il sonno mi catturava, trascinandomi nell'oblio.

 

«J-Jacob. Ti prego.»

 

L'urlo di Benjamin riempì il mondo.

Il buio mi sopraffece, spegnendo tutto.

Jacob se l'era portato via.

Via. Via.”

Via per sempre. È giusto così, vero, Ness?”

Via”.

 

~

 

Mi svegliai urlando, soffocando nel caldo.

Jacob mi abbracciava, cantando con il suo tono di voce più basso, ma io non riuscivo a sentirlo.

Negli occhi, nelle orecchie, nella bocca, nel petto, vedevo solo il suo manto color del bronzo che si muoveva a quel vento inesistente, mentre trascinava via il mio bambino, il mio Ben. Una bolla di terrore mi esplose nella gola, facendo tremare il mio grido, mentre Jake ancora mi stringeva, sussurrandomi che andava tutto bene, che ero sveglia, adesso, nel mio letto, al sicuro.

 

Cosa diavolo mi sta succedendo?”

 

 

 

 

 

Angolo di Vi'

E così, quest'avventura è ricominciata di nuovo. Un anno fa ero quasi alla fine di questa storia, e adesso sono all'inizio.

L'unica cosa che mi consola è sapere che adesso, è grammaticalmente correggiuta (anzi, ditemi eventuali sviste, visto che non sono una prof di italiano né un vocabolario!) e che forse contiene qualche parola e scena in più, in un capitolo che originariamente era di sole quattro pagine.

Non so se la mia Renesmee vi piacerà. Per me l'imprinting non dovrebbe esistere: mi fa venire i brividi leggere cose come “Chi non ha mai avuto un imprinting non sa cos'è il vero amore”, perché vuol dire che c'è chi crede in questo magico legame alla abracadabra (un attimo amo una donna, l'attimo dopo ne amo la figlia! Magia!) sia una manna dal cielo.

Per me è solo una cosa da brividi, ecco che l'ho detto.

L'amore va di pari passo col libero arbitrio, e qui, nelle mie storie, spero di metterne almeno un po'.

Caro Lettore, quindi, mi rivolgo proprio a te: se dopo aver letto questa prima introduzione ad una storia che si aggirerà sui quaranta capitoli, se questa mia Nessie un po' strana rispetto alla convenzionale delle fanfiction ti piace, se anche tu odi l'imprinting e pensi che Jake sia solo di Bella, se sei capitato qui per caso, se sei tra coloro che credono che Imprinting = Amore Vero... beh, in tutti i casi, mi piacerebbe sapere cosa ne pensi. Anche solo un'offesa, un vaffanculo o un “almeno hai azzeccato i tempi verbali”, ecco.

Mi farete felice comunque – sono una fottuta masochista.

 

Questa storia è per Ania, Emi, Ellie, Cate e tutte le meravigliose ragasse che mi hanno sostenuto in passato (Bea, Noemi, Vincenza, Emanuela...). Al di là delle recensioni perdute, il fatto che abbiate letto e incoraggiato è stato tutto e spero che lo farete di nuovo.

A questa storia ci tengo un sacco e ci tengo un sacco anche a voi, dolcezze!

Vì.

 

 

   
 
Leggi le 10 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Twilight / Vai alla pagina dell'autore: screaming_underneath