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Autore: Neko no Yume    22/04/2012    1 recensioni
Gli piaceva sedere sulla riva fangosa e osservare le navi passare e intorbidire la corrente, il volo dei gabbiani alla ricerca di pesce, la vita stessa del Tamigi.
Quel giorno però dei rumori insoliti si erano aggiunti alla solita sinfonia caotica che gli risuonava nelle orecchie: fischi e suoni di corde pizzicate appena con la punta delle dita, tintinnii metallici che sembravano scacciapensieri.
Genere: Commedia, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il vento agitava le fronde degli alberi e increspava la superficie del Tamigi in piccole onde traslucide, mentre nell’aria carica di umidità si addensavano nuvole e grida di marinai.
Nelle giornate come quella il fiume era sempre più agitato del solito, la gente sentiva la pioggia infiltrarsi sotto la pelle e veniva colta da una frenesia febbrile e angosciata nel tentativo di ripararsi e prepararsi all’acquazzone.
Gli piaceva sedere sulla riva fangosa e osservare le navi passare e intorbidire la corrente, il volo dei gabbiani alla ricerca di pesce, la vita stessa del Tamigi.
Quel giorno però dei rumori insoliti si erano aggiunti alla solita sinfonia caotica che gli risuonava nelle orecchie: fischi e suoni di corde pizzicate appena con la punta delle dita, tintinnii metallici che sembravano scacciapensieri.
Connor rivolse il volto lentigginoso all’ansa del fiume davanti a lui, le palpebre strizzate nel tentativo di vedere qualcosa tra i giochi di luce riflessa.
Improvvisamente delle vele colorate e dall’aria malconcia comparvero da dietro la vegetazione della riva, in una fila disordinata e chiassosa di imbarcazioni di legno scuro cariche di gente che sembrava ballare sulle loro assi.
Qualche operaio si voltò a guardare come lui e il ragazzino li sentì mormorare qualcosa su come riuscissero a spostarsi così velocemente o se avessero scorte di alcolici a sufficienza per le loro solite feste notturne, ma nessuno sembrava aver fatto davvero il nome di quella gente.
Probabilmente erano vecchie conoscenze del Tamigi, non avevano bisogno di presentazioni.
Sentì un sorriso incuriosito stirargli le labbra screpolate mentre i fantasmi di un’estate afosa e noiosa si dissipavano davanti ai colori e le musiche dei nuovi arrivati, ormai fermi lungo un’ansa del fiume all’ombra di alcuni alberi.
Erano poche barche, tutte delle stesse dimensioni e cariche di tinte sgargianti, ma sembravano contenere una quantità incredibile di persone.
Connor si alzò rapidamente in piedi, spazzolandosi il terriccio da dietro i pantaloni di tela grezza, e si avviò a passo svelto verso i nuovi visitatori, deciso a fare qualche amicizia nell’arco della giornata, magari eleggersi anche a guida turistica della labirintica Londra per chi avesse voluto farsi un giro.
Appena arrivato sull’orlo della riva, un visetto dalla pelle cotta dal sole gli si parò improvvisamente davanti.
-Hei, ciao!-.
Due parole pronunciate di slancio, con un accento strascicato che sembrava quasi cantilenante ma aveva un che di straniero e inequivocabilmente femminile.
Quasi gli sfuggì un sospiro deluso mentre gli occhi grigi scrutavano quel corpicino ossuto e pieno di sbucciature fino al viso tondo, adombrato da ciuffi di disordinati capelli corvini che ricadevano sui due occhi più azzurri che avesse mai visto.
Possibile che il primo straniero che gli si fosse parato davanti fosse una ragazzina smunta?
-… Ciao-, rispose in borbottio, cercando di scavalcarla.
-Come ti chiami? Io sono Cecile, piacere!-, lei continuò la presentazione come se niente fosse, parandoglisi di nuovo davanti e allungando una mano callosa verso di lui, una mano abituata ad armeggiare con reti da pesca e sartie.
Forse poteva darle una possibilità, dopotutto.
-Connor Welch, piacere-, declamò a petto in fuori, per poi stringere le dita che gli venivano offerte nelle proprie, lattee e spruzzate di lentiggini.
Cecile sfoderò un sorriso raggiante e poi si voltò con aria fiera verso la barca da cui era appena saltata giù.
-Forse un signorino di città come te non sa chi siamo-, iniziò con una punta di orgoglio –Ma di solito ci chiamano nomadi, gitani. Viaggiamo lungo i fiumi seguendo il vento, senza fermarci mai-.
Tornò a rivolgersi di lui come per godersi l’effetto che dovevano avergli fatto le sue parole e Connor le rivolse uno sguardo che trasudava ammirazione.
-E vivete sulle barche?-.
-Sulle barche. Però ora che siamo qui mi piacerebbe tanto sgranchirmi le gambe!-.
I due si scambiarono un’occhiata d’intesa che bastò a farli scattare in una corsa spericolata lungo lo scivoloso argine del fiume, fino a dominarlo interamente da sopra una collinetta.
Crollarono entrambi ansanti sull’erba mentre le risate riempivano l’aria attorno a loro tra un respiro affannato e l’altro.
-Veloce per essere una ragazza-.
-Veloce per essere un marmocchio-.
-Ma se avremo la stessa età!-.
Ora il londinese si era messo a sedere indignato, fulminando la nuova compagna di giochi che sembrava dimostrare anche meno anni di lui.
-Ma io ho più esperienza-, si limitò a canzonarlo Cecile, per poi alzarsi in piedi –Mi piacerebbe vedere Londra-.
Adesso era il turno di Connor di ostentare la propria superiorità con un sorrisetto saccente mentre si alzava a sua volta (e comunque erano alti uguali, checché ne dicesse lei) e iniziava a camminare svelto verso la città, seguito a ruota dall’altra.
Arrivarono in fretta al limitare di Whitechapel, il suo quartiere, l’agglomerato di baracche di marinai e stranieri che vivevano ai margini sporchi e fuligginosi della caotica capitale.
-Tu vivi qui?-, chiese incuriosita l’ospite –Non è la zona di Jack lo Squartatore?-.
Un brivido freddo gli percorse la schiena nell’udire quel nome.
Jack lo Squartatore, la figura che stava terrorizzando gli abitanti della sua città uccidendo nell’ombra, la figura per cui sua madre chiudeva la porta di casa a doppia mandata ogni notte e sbarrava le finestre nonostante il caldo.
-Si può sapere che ne sai tu?-, sbottò a disagio.
-Beh, le voci corrono anche sul fiume-, si limitò a rispondere lei con disinvoltura –Allora, è questa?-.
-Sì, è questa, contenta? Guarda che lo chiamo e ti faccio squartare-.
-Tanto non ne hai il coraggio, gelatina!-.
E ripresero a correre a perdifiato, questa volta lungo i vicoli tortuosi e ingombri e sporchi di fanghiglia del quartiere, urlandosi insulti scherzosi fino ad arrestarsi davanti a un muro imponente, in trappola.
Il ragazzino impilò qualche vecchia cassa su una sedia lasciata incustodita da qualcuno che abitava nei paraggi e si issò senza sforzi sul tetto, per poi voltarsi a tendere una mano a Cecile e scoprire che era già salita e lo stava scrutando con ilarità, seduta a gambe incrociate davanti a lui.
-… Okay, sai arrampicarti-, concesse.
-Ovvio, vivo su una barca. Le vele non si ammainano da sole-.
Connor incassò il colpo in silenzio, lo sguardo che vagava lungo i tetti di tegole e lamiera che brillavano sotto di loro, popolati solo da gatti, lucertole e qualche occasionale nido di rondini.
-Ti va di fare un giro, mozzo?-, chiese, allontanandosi verso il bordo del loro tetto senza darle il tempo di rispondere alla provocazione.
La ragazza gli trotterellò accanto in un attimo e per un po’ stette zitta, persa nella contemplazione dall’alto della City, il collo allungato nel tentativo di scorgere il Big Ben contro il cielo.
Per un po’ si limitarono a saltare da un edificio a un altro come due gatti randagi, attenti a non fare troppo rumore e destare l’attenzione di scorbutici padroni di casa, finché non si sedettero sopra un muretto appartato, quasi distaccato dal resto delle abitazioni e seminascosto da un enorme betulla argentea che gli cresceva accanto. 
Connor accarezzava distrattamente le crepe nell’intonaco grigiastro mentre si lasciava avvolgere dalla luce dorata e arancio del tramonto e seguiva con gli occhi lo sfilacciarsi delle nuvole, rosa e vaporose come ovatta.
-Allora, che te ne pare?-, chiese dopo qualche istante di silenzio.
Cecile fece finta di esitare e si batté la punta dell’indice sul mento con aria dubbiosa, per poi voltarsi verso di lui e trafiggerlo con uno dei suoi soliti sorrisi azzurri e terribilmente sinceri.
-È degna della mia armonica!-, decretò, le mani che già frugavano in una borsetta di tela grezza alla ricerca di qualcosa che si rivelò essere una piccola armonica con un semplice intarsio di legno rossiccio su un dorso.
L’altro stava per chiedere che roba fosse quella, quando la ragazzina si portò lo strumento alle labbra, chiuse gli occhi e iniziò a suonare.
Una melodia lenta e triste vibrò nell’aria attraverso i fori della cassa minuta, seguendo i movimenti delle labbra della musicista e riempiendo il tramonto di note dal sapore esotico che si disperdevano nel vento.
La melodia indugiò ancora per qualche istante attorno a loro, poi Cecile ripose con cura l’armonica nella sacca.
-Wow, sei… bravissima!-, esclamò Connor con un applauso che la fece arrossire appena.
-Grazie, troppo gentile-, accennò un inchino col capo –Se vuoi posso insegnarti-.
-Lo faresti davvero?-.
-Certo, è facile! Basta soffiare nei punti giusti e non sputacchiare saliva sul tuo pubblico, non fa molto piacere di solito-.
-Che schifo-.
-Eh, dovresti vedere il vecchio Joe-, la nomade ridacchiò persa tra i suoi pensieri, poi parve illuminarsi –Questa sera devi venire tu da noi a cena sulla barca!-.
Mentre gli ultimi bagliori infuocati nel sole tramontavano sul profilo degli edifici di Londra, Cecile lo trascinò di nuovo verso il fiume, parlando ininterrottamente di come si sarebbero divertiti e concedendogli a stento il tempo di avvertire sua madre che sarebbe tornato dopo cena, senza fermarsi ad ascoltare le sue rimostranze.
In breve tempo arrivarono alla barca della sua famiglia e un uomo dalle mane robuste e ancora più callose di quelle di Cecile lo aiutò a issarvisi sopra e lo fecero quasi cadere per terra con una poderosa pacca sulle spalle esili.
Quella che doveva essere la madre, una donna dagli stessi occhi della figlia e i capelli ricci legati in una treccia approssimativa, servì a tutti un sugoso stufato di pesce accompagnato da tè alla menta, radunando altra gente attorno alla pentola e mormorando in tono calmo ma autoritario di rispettare il proprio turno.
Connor si sedette accanto all’amica e iniziò a sorbire la zuppa, osservando affascinato la folla attorno a lui tra una cucchiaiata e l’altra.
-Siamo gente strana, ma non mordiamo-, lo rassicurò l’altra, che aveva già finito la sua porzione.
-Quando si suona?-.
Cecile e sua madre scoppiarono nella stessa risata argentina, poi all’improvviso sulla nave si fece silenzio. 
Appena fu sicuro di avere tutte le attenzioni per sé, un tamburello iniziò a tintinnare nella penombra del falò, seguito a ruota da un paio di violino che sembravano volersi dare battaglia sul suo ritmo e dall’armonica, questa volta suonata da quello che doveva essere il vecchio Joe.
La gente si alzò in piedi e iniziò a battere i piedi sulle assi di legno in una danza sempre più veloce e vorticosa nella quale il londinese avrebbe rischiato di perdersi se non fosse stato per la mano dell’altra che lo teneva stretto mentre giravano al suono della musica.
Trascorsero la serata così, piroettando e ridendo attorno al fuoco, facendo gli occhi dolci per avere un altro po’ di tè e ripromettendosi di vedersi il giorno seguente.
Ogni mattina Connor si precipitava al fiume e la portava in giro per la città, sui tetti o a gettare briciole di pane ai piccioni, mentre Cecile la sera lo invitava a cenare con loro.
Riuscì anche a insegnargli a suonare una semplice melodia con l’armonica che lei chiamava “robetta per principianti” ma che lui continuava a canticchiare estasiato dai propri talenti nascosti.
Talenti tra i quali figurava un’incredibile sveltezza di mani con cui durante una delle loro escursioni per i quartieri più poveri di Londra riuscì a infilarsi in una sacca cucita all’interno della camicia una manciata di ciliegie dall’aspetto troppo gustoso e invitante per rimanere in bella vista sul carretto del fruttivendolo.
Bastò scambiarsi uno sguardo d’intesa con l’amica e l’attimo dopo si erano dileguati verso un prato scoperto il giorno prima, al riparo dal pericolo di essere scoperti.
Connor ignorò i commenti sarcastici di Cecile sulla sua del tutto falsa aria da angioletto e si limitò a estrarre i frutti dalla tasca e porgerglieli con un ghigno.
-Allora, li vuoi sì o no?-.
Lei assunse la stessa espressione di quando si era chiesta se suonare o meno l’armonica, poi ne prese un pugno.
Si rigirò tra le dita due ciliegie gemelle, poi le appese per i piccioli uniti dietro l’orecchio.
-Guarda, neanche la regina Vittoria ha gioielli così preziosi!-, ridacchiò, la voce soffocata da polpa rossiccia e matura.
-Di sicuro ha maniere migliori delle tue!-, la canzonò l’altro, sempre a bocca piena –Hei, sembri un vampiro con tutto quel rosso-.
La nomade gli mostrò una lingua che sembrava insanguinata e lo spintonò sull’erba fingendo di volerlo mordere e facendogli il solletico rischiando di farlo strozzare con la ciliegia che stava mandando giù in quel momento.
-B-basta, pietà!-.
-Okay, ma voglio la tua ultima ciliegia-.
-Sei crudele, Cecile-.
-Lo s…-, Connor le piazzò tra le labbra macchiate l’ultimo frutto e ne approfittò per rimettersi a sedere, i capelli scarmigliati e un’espressione vagamente indignata che ebbe solo l’effetto di far ridacchiare ancora di più l’altra mentre si godeva la sua vittoria.
Una volta era rimasto a cena più del solito, trattenuto ora con una scusa, ora con un’altra, finché ormai a notte fonda non aveva potuto fare a meno di avviarsi verso casa.
Lei lo raggiunse di corsa, i piedi scalzi bagnati di rugiada e acqua del Tamigi che le aveva inzaccherato l’orlo della gonna. 
Il ragazzino le rivolse un’occhiata interrogativa a cui rispose con un sorriso mesto, tirato.
-Ricordi quello che ti dissi un mese fa, quando arrivammo qui?-, esordì con la voce ancora spezzata dal fiatone –Siamo nomadi, non restiamo mai nello stesso posto e il vento sta cambiando-.
Le parole riecheggiarono nel buio apparentemente prive di significato, prima che lui riuscisse ad afferrarne il senso.
-Connor, partiamo domani-.
Una folata di vento (o forse era solo la sua immaginazione?) gli sferzò il viso come uno schiaffo, scompigliando i capelli castani di Cecile in un modo che per la prima volta gli parve bellissimo.
-… Domani?-, fu tutto quello che riuscì a farfugliare.
-Domani-, ripeté lei –Ma vorrei che tu avessi questa-.
Quasi non riusciva a credere ai suoi occhi quando la vide posargli in mano la piccola armonica intarsiata, quella a cui teneva tanto, che suonava ogni volta che arrivava in un posto nuovo e che ora sarebbe stata sua.
-Non poso accettarla!-, protestò indignato, ma le dita dell’altra gli chiusero le proprie attorno allo strumento metallico con la stessa decisione dolce di quando sua madre serviva i pasti.
-Me la ridarai quando tornerò-, sorrise –E voglio che tu abbia imparato qualche altra canzone oltre a quella tiritera-.
-Tornerai davvero?-.
-Ma certo! Hai idea di quanti affari si facciano a Londra?-.
Lui scosse la testa ed entrambi scoppiarono a ridere per l’ultima volta, poi Cecile gli gettò le braccia al collo e lo strinse forte per un istante, scomparendo veloce nella notte subito dopo.
Connor rimase immobile per qualche istante, conscio solo del freddo dell’armonica tra le sue mani, poi si voltò lentamente e si diresse verso casa con gli occhi inspiegabilmente lucidi.
La mattina seguente si precipitò sulla riva del Tamigi quando ormai le vele colorate delle navi gitane erano quasi scomparse dietro l’ansa, ma si portò comunque l’armonica alla bocca e iniziò a suonare più forte che poté la sua melodia, sperando che il vento la portasse a pelo dell’acqua sino alle orecchie dei nomadi.
Appena finì di suonare gli sembrò di udire una lunga, sincera risata argentina. 
 
Yu’s corner.
 
Salve a tutti, belli e brutti~!
Questa originale è stata scritta per un concorso organizzato nella mia scuola che non è ancora finito, quindi ho un po’ i nervi a fior di pelle, sigh.
Eniuei, spero di aver scritto qualcosa di decente e che vi sia piaciuta, semmai fatemi sapere e distruggete la mia autostima.
Okay, la pianto. Un grazie comunque a chiunque (rimaaah) recensirà o leggerà!
Bye bye, Yu.
 
Questa originale è stata scritta per un concorso organizzato nella mia scuola che non è ancora finito, quindi ho un po’ i nervi a fior di pelle, sigh.
Eniuei, spero di aver scritto qualcosa di decente e che vi sia piaciuta, semmai fatemi sapere e distruggete la mia autostima.
Okay, la pianto. Un grazie comunque a chiunque (rimaaah) recensirà o leggerà!
Bye bye, Yu.
  
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