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Autore: Prisoners_    23/04/2012    3 recensioni
Un racconto per un concorso su un sito. L'ho pubblicato per sapere il vostro parere, lettori di EFP. Sono aperta a qualsiasi consiglio per migliorare quest'opera, se così posso chiamarla. In generale tratta di una ragazza che ha problemi con suo padre e non ha mai conosciuto la madre. Ovviamente la storia della protagonista sarà approfondita nel racconto. Recensite, mi raccomando.
L'autrice.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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documento 2 EFP

Incubo di vita

-Tra poco le diremo i risultati delle analisi, signorina Smith. Aspetti pure insieme al suo compagno.-

Le parole del signore in camice bianco non fecero altro che alimentare la paura di Diana, nel reparto di maternità dell’ospedale più frequentato di Beacon Hill.

Non le faceva paura il fatto che avrebbe potuto essere incinta. Il suo timore riguardava ben altro, ovvero il fatto di poter riservare a suo figlio, o a sua figlia che fosse, un destino come il suo. Ed era molto probabile dato che Vincent, il suo ragazzo, faceva parte dell’esercito. Considerò per un attimo il pensiero di una gravidanza. Aveva soltanto diciotto anni, come poteva essere? Sua madre aveva partorito a ventitre anni, età molto più accettabile. Soltanto che lei era morta subito dopo aver dato alla luce la bimba. E la bimba in questione era Diana.

Per tanto tempo si era sentita in colpa: aveva creduto che la causa della morte di sua madre fosse stata lei. E spesso aveva pensato di aver ragione, sebbene il suo compagno l’avesse sempre rassicurata su questa cosa.

Si sentì pervadere da un senso di preoccupazione e ansia, in quel momento, tra le mura dell’ospedale. Al solo ricordare ciò che aveva passato in quel collegio le salivano brividi lungo la schiena. Era stata umiliata, picchiata, maltrattata e punita. Ciò non sarebbe successo se suo padre non l’avesse abbandonata. S’egli avesse mollato il suo lavoro da “Pop Star” del suo tempo e ne avesse cercato un altro per stare più vicino a sua figlia, non sarebbe successo.

Una sensazione di rimorso le ribolliva dentro. Oltre a darsi la colpa per la morte di sua madre, provava rancore verso suo padre. Per aver lasciato che lei provasse il dolore e l’umiliazione sulla sua pelle, senza intervenire. Non l’aveva mai cercata, nemmeno scritto una lettera o cos’altro. Troppe volte Diana aveva pensato che fosse stato meglio se non fosse nata. Magari si sarebbe risparmiata tutta questa sofferenza. Troppo peso sulle spalle di una ragazzina, ormai strappata all’adolescenza come un frutto strappato dal suo albero ancora immaturo.

Erano queste le domande che si poneva da una settimana, malgrado sapesse già a grosso modo le risposte. Guardò il ragazzo biondo, seduto sulla sedia verdognola di fianco a lei, e incrociò i suoi occhi azzurro pallido. Trasmettevano voglia di sapere quella che per lui sarebbe stata una bella notizia, ma che per lei sarebbe stata spaventosa. D’altro canto non si poteva negare ad un ragazzo di soli vent’anni la gioia di diventare padre, seppur in un età prematura. Anche per Diana sarebbe stata una gioia se le cose fossero andate diversamente nella sua vita. Se suo padre non l’avesse abbandonata, se sua madre non fosse morta, magari non avrebbe permesso a nessuna paura di impossessarsi di lei, come stava accadendo.

Il suo ragazzo le prese la mano, racchiundendola nelle sue più forti. Le sorrise dolcemente, cercando di trasmetterle il calore di quell’atmosfera che li avvolgeva, ma che solo lui riusciva a percepire. Lei sentiva soltanto freddo, un freddo glaciale, forse dovuto al timore. Tremava, lui lo notò.

Il suo sguardo, infatti, mutò da felice a preoccupato per la sua compagna.

-Diana, stai tremando?- Chiese lui retorico.

-N... n... no...- Balbettò lei in risposta.

-Vieni qui.-

L’avvolse tra le sue braccia e le permise di appoggiare la testa sul suo petto. Lei non si mosse da quella posizione per un tempo che le sembrava troppo corto, anche se in realtà erano passati dieci minuti e il medico era ritornato da loro con una cartellina in mano. Si staccò a malavoglia dal suo lui. Nessun tempo era mai sufficiente per riposare nell’abbraccio di qualcuno che amava.

Il signore dall’aria rispettabile e con una calvizie incipiente, che lasciava immaginare un’età compresa tra i cinquanta ai sessant’anni, porse la cartellina ai due giovani. Vincent l’afferrò, comprendendo che la compagna non era in grado di farlo. Era troppo scossa per permettersi anche un’azione così innocua.

-La ringrazio.- Disse il ragazzo.

Il dottore si congedò educatamente e la coppia ne approfittò per uscire dalle mura bianche e imponenti dell’ospedale. Fuori pioveva a dirotto e tuonava pesantemente, quasi si ci fosse messo anche il clima a peggiorare la situazione. Più di quanto non fosse già disastrosa per Diana.

Nessuno dei due aveva l’ombrello, ma questo non bastò a fermarli lungo il loro percorso.

Vincent si tolse il giubbotto che aveva addosso e lo appoggiò delicatamente sulle spalle della sua ragazza, rimanendo soltanto con la sua maglietta a maniche lunghe.

-Vincent! Ma non hai freddo?- Chiese Diana.

-Non preoccuparti per me. Corri, andiamo in macchina!- Le rispose lui.

La prese per mano e iniziarono a correre sotto le goccioline di pioggia che li bagnavano senza sosta. Arrivarono alla macchina e ci salirono dentro, inumidendo i sediolini e i finestrini con i loro vestiti bagnati.

Si misero a ridere, dimenticando per un attimo quello che stava per accadere. Era questa la pace che Diana desiderava, la sensazione di calore anche se chiusa in una macchina o sotto la pioggia. La protezione che Vincent soltanto poteva offrirle.

Si guardarono. Diana era appoggiata con la testa al sediolino. I sintomi della stanchezza e di un imminente malanno si facevano sentire, ma nessuno dei due pareva farci tanto caso.

-Ti amo.-

-Anche io ti amo, Vincent.-

Il biondo si avvicinò a lei a poco a poco con l’intenzione baciarla. Diana pareva apprezzare quel gesto. Non si oppose, infatti.

Finalmente Vincent annullò totalmente la distanza tra loro e poggiò le sue labbra su quelle rosee e carnose di lei, suggellando quell’amore, che condividevano da ormai due anni, con un bacio che durò pochi secondi. Tutti e due sembravano non volerne sapere di smettere, ma furono costretti. Il loro futuro, l’esito di tutto quello che erano riusciti a costruire nel tempo che avevano passato insieme li attendeva.

Si allontanarono l’uno dall’altra lentamente, quasi a non voler dimenticare l’attimo precedente.

Il sorriso sparì dal volto di Diana. Le si leggeva in faccia la delusione di un eventuale scoperta.

-Dobbiamo aprirla prima o poi.- Disse il ragazzo.

La rossa di tutta risposta rivolse lo sguardo fuori dal finestrino.

-Fallo adesso.-

Vincent fece come gli aveva detto Diana e lesse il responso. Senza accorgersene trattenne il fiato per cinque secondi. La compagna non accennava a dire una parola o a guardare verso di lui, probabilmente troppo presa dalla paura per farlo.

-Diana?- La chiamò.

La rossa si voltò verso di lui e lo guardò negli occhi, incapace di emettere alcun suono.

Il biondo le porse il foglio con sopra diverse scritte.

La ragazza lo prese con mani tremanti e chiuse gli occhi sospirando, prima di leggere.

Li aprì dopo pochi istanti, cercando di calmarsi.

Non poté trattenere due lacrime silenziose, quando lesse la scritta in grassetto sulla pagina bianco sporco.

-Diana? Mi vuoi dire perché piangi?- Chiese lui.

-Sono incinta.-

-E allora? Dovresti essere felice! Porti una piccola vita dentro di te.-

-Capisci che significa?-

-Ascoltami. Non puoi farmi quella faccia. Non puoi piangere. Mi ascolti?-

Le prese il viso fra le mani, costringendola a guardarlo negli occhi lucidi.

-Quello che è successo a tua madre, quel fardello che ti porti dietro da diciotto anni, devi lasciartelo alle spalle. Sei maggiorenne, hai imparato molte lezioni dalla tua vita. Adesso non puoi negare a tuo figlio l’occasione di nascere, crescere, sposarsi, avere figli. Non puoi.- Le disse.

Lei si guardò il ventre, ancora piatto. Era presto per riuscire a notare un rigonfiamento.

Il suo compagno le mise una mano appena sotto l’ombelico, accarezzando il punto.

-Non posso dargli queste sofferenze. Non posso dargli le mie sofferenze. Chi mi garantisce che tu riuscirai a crescerlo se io dovessi morire?- Chiese la ragazza.

Vincent tolse la mano dal pancino di Diana, visibilmente alterato. Sbatté un pugno contro il manubrio, facendo involontariamente suonare il clacson della Range Rover nera.

La ragazza sussultò spaventata, rimanendo al suo posto.

-La cosa che mi fa arrabbiare di più è che pensi che io sia come lui. Io non sono come tuo padre, lo vuoi capire? Secondo te abbandonerei mio figlio?-

Quelle parole le arrivarono gelide in faccia. Le passò per la mente l’idea di non essere stata giusta nel domandargli quello che gli aveva chiesto prima. Non riuscì a ribattere. Lasciò che lui riprendesse a parlare, stavolta con più calma.

-Tu non morirai. E se anche dovessi morire, abbandonerei l’esercito per crescere il bambino. Fai quello che vuoi, ma qualsiasi cosa tu decida di fare, ricorda che quello che hai nella pancia è anche roba mia.-

Così dicendo mise in moto la macchina, senza aspettare nessuna risposta dalla ragazza seduta a lato. Ella non rispose, infatti, si limitò soltanto a piangere silenziosamente mentre le gocce di pioggia si schiantavano sul parabrezza.

Se doveva proprio morire, pregò di farlo in quel momento.

*******

Il rumore che le dita di Diana facevano sul tavolo in legno del portico risuonava e si espandeva per tutto il giardino.

C’era così tanto silenzio fra loro, che anche una minima cosa faceva rumore, destando l’attenzione dei due.

William era lì seduto sul tavolo da ormai un quarto d’ora. Accendeva e spegneva sigarette come se nulla fosse. La tensione era evidente, ma Diana tentava comunque di mascherarla.

Il fatto che fosse lì con suo padre non c’entrava nulla, ovvio. Ma certamente questo era sarcasmo.

L’uomo dai capelli neri si alzò dalla sua postazione, mostrando tutta la sua imponenza davanti alla figlia. Dal suo sguardo freddo non trapelava nessuna emozione e la sua posa dritta e immobile lasciava intuire che aveva ricevuto un’educazione severa fin da piccolo. Decisamente non aveva l’aspetto della pop star che era stato al suo tempo.

Diana si alzò dalla sua sedia, con altrettanta freddezza. L’uomo che doveva essere suo padre era un perfetto sconosciuto ai suoi occhi.

-Forse potresti dirmi il perché di quest’incontro- Disse lui, mantenendo un tono basso.

-Se ti ho fatto portare il testamento c’è un motivo. Non ti vedo da anni, abbi almeno la decenza di rivolgerti a me guardandomi negli occhi. Ci riesci, William?-

Quello lì non rispose. Si limitò ad alzare lo sguardo verso la ragazza.

-Sei diventata una bella ragazza.- Le disse.

Diana esplose, scaraventando la sedia da una parte indefinita del portico. Serrò le labbra e strinse i pugni. Tutto ciò non destò minimamente l’attenzione di Will.

-Tu non puoi dirmi questo. Non puoi dirmi nulla. Devi solo farmi firmare quel testamento.- Gli disse.

-Perché mai dovresti volere questa casa?- Domandò lui.

Lei fece un risolino debole, scuotendo la testa.

-Sono incinta. Aspetto un bambino. E voglio crescerlo qui insieme al mio ragazzo.-

William fu colto di sorpresa. Rivolse alla figlia uno sguardo freddo come i precedenti, non riuscendo a comunicare quello che voleva dirle realmente. Voleva scusarsi. Voleva riuscire a rimediare ai suoi errori. Lo aveva sempre voluto. Il rimorso e il senso di colpa lo avevano attanagliato per tantissimo tempo, ma non era mai riuscito a scacciarlo via. Adesso rimaneva un estraneo agli occhi di sua figlia. Il fatto che lo chiamasse per nome gli faceva tremendamente male, tanto da mandarlo fuori di sé. Lei non sapeva il motivo per il quale lui l’aveva abbandonata da piccola. William glie lo avrebbe fatto sapere prima di morire, con la lettera che le stava per dare. Dopo non avrebbe rivisto più sua figlia in vita sua.

Porse il documento alla ragazza e lei lo prese.

Estrasse una penna dal suo giubbotto e impresse la sua firma sul foglio. Passò la penna a Diana, cosicché potesse farlo anche lei.

Ella, titubante, lasciò che l’inchiostro macchiasse la carta vecchia segnando il suo nome.

Quando gli porse la penna lui l’afferrò, facendo in modo che le loro mani si toccassero. Non aveva un contatto fisico con sua figlia da tantissimo tempo.

Rimase a guardarla per alcuni istanti, lasciandole in mano il documento. L’unico che aveva portato con sé in realtà, per quell’occasione. Il resto dei fogli allegati li aveva lasciati a casa sua, sotto il materasso del suo letto.

-Puoi andare adesso. È finita. Come se non ci fossimo mai incontrati. Come se tu non fossi mio padre.- Disse Diana.

L’uomo s’incamminò, dando le spalle alla ragazza. Lei non si voltò, lo fece lui. Guardò le sue spalle e si maledisse per non essere stato lì a vederla crescere. Per averle causato tante sofferenze.

Le fece arrivare ai piedi una busta, facendola scivolare sul marmo bianco del pavimento.

-Scusa.- Mormorò alle sue spalle.

Passò qualche istante prima che Diana potesse rendersi conto che quello che aveva udito non era frutto della sua immaginazione.

-C...come?- Balbettò.

Si girò sconvolta verso la voce che aveva parlato, ma la persona che aveva pronunciato quelle parole se n’era già andata. Notò qualcosa a terra, davanti a lei. Lo raccolse.

Aprì la busta che aveva preso e ne tirò fuori una lettera.

Si rese conto che era di suo padre. Cominciò a leggerla, sedendosi sulla sedia che prima aveva gettato via con così tanta rabbia.

“Cara Diana,” poteva quasi sentire la sua voce mentre leggeva tra le righe.

“Non so se leggerai questa lettera, ma io te la scrivo lo stesso. So che non sono degno di chiamarti “figlia”, forse nemmeno di parlarti. La verità è che devi sapere il motivo per cui non ti sono stato vicino in tutti questi anni. Quello che hai passato nel collegio puoi saperlo soltanto tu, ma non riesco a non sentirmi in colpa per avvertivi rinchiusa. In realtà ero troppo indeciso e incosciente per sapere cosa fare quando scoprii di essere malato, cinque anni dopo la tua nascita. Avevo promesso a tua madre di prendermi cura di te, o anche di assicurarti un buon futuro. Purtroppo il cancro si era impossessato dei miei polmoni, impedendomi di crescerti come dovevo. Non volevo assolutamente metterti a disagio per la mia malattia, eri troppo piccola. Così ti iscrissi al collegio con la scusa del tour musicale, perché sapevo che se ti avessi avuto vicino ti saresti accorta che qualcosa non andava. Le analisi erano tante, troppi medici passavano per la mia casa. La mia carriera da cantante intanto finiva, ma niente mi consumava più del senso di colpa. Vorrei chiederti scusa. Scusa per la vita ingiusta che ti ho fatto vivere, per tutte le sofferenze che ti ho causato. E anche se so che questa lettera non basterà a farmi perdonare da te, spero tu capisca il mio dispiacere. Tesoro mio, questa malattia è continuata per molti anni e ormai sta giungendo a termine. Domani mattina, probabilmente, non ci sarò già più, ma volevo dirti che ti voglio bene. Ti ho sempre voluta bene, anche se non te l’ho mai dimostrato. Ho amato infinitamente te e tua madre e spero di ottenere il tuo perdono. 

Adesso è ora che tu volti pagina, che vivi la tua vita nel futuro che ti aspetta. Io non ho mai potuto costruirtelo, sei stata costretta a farlo tu. 

Qualunque cosa tu faccia, ricorda sempre che io ci sarò, ci sono sempre stato.

Ti voglio bene

Papà”

Con le lacrime che le rigavano il volto, urlò. Diana sfogò tutto quello che per diciotto anni non aveva detto, tutto quello che aveva pesato sulla sua anima, impedendole costantemente di vivere. Ogni singolo attimo della sua vita era stato accompagnato da un pensiero rivolto al padre. L’aveva incolpato, se l’era presa con lui, per poi scoprire che lo aveva fatto per lei. E questo la faceva sentire ancora più in colpa. Ma questo non avrebbe risolto la situazione. Era troppo tardi. Piangere non sarebbe servito a nulla.

*******

Diana fece scivolare una mano sul legno impolverato della sedia nell’enorme mensa del collegio. Quel posto era stato lasciato a fare muffa, essendo stato chiuso poco dopo che lei fosse uscita da esso anni prima.

La rivelazione di suo padre l’aveva sconvolta. Era andata al suo funerale due giorni dopo, in compagnia di Vincent. Gli aveva detto della morte di suo padre, ma non gli aveva ancora detto della decisione che aveva preso. Lo avrebbe fatto più tardi.

Era riuscita ad entrare dentro alla struttura, conoscendo tutti i passaggi segreti possibili di quell’edificio. La maggior parte della sua vita era appartenuta ad esso e lei conosceva quel posto come le sue tasche, ormai. Erano quattro anni che non andava a visitarlo. I ricordi le pervasero la mente come un turbine, lasciando che le emozioni prendessero il sopravvento su di lei.

Si ricordò di tutte le volte che aveva mangiato cibo rivoltante tra le mura di quella mensa, di tutte le volte che aveva dovuto cacciare via i ragni dal suo letto prima di dormire. Si ricordò di quando aveva dovuto dividere il suo stanzino con una ragazza che la picchiava sempre, e di quando si nascondeva per non essere punita. Le tornarono in mente tutte le fughe che aveva messo in atto, tutte le volte che una maestra più benevola le portava il cibo di nascosto e lei lo mangiava ingorda, sapendo che non l’avrebbe ricevuto spesso.

Avanzò verso l’uscita, non riuscendo più a stare in quel luogo. Ormai piangeva, ma non ci fece tanto caso. Montò in sella allo scooter parcheggiato davanti alla struttura vecchia e cadente e mise in moto. Si diresse dal suo fidanzato, ignorando le avvertenze dei segnali stradali che le imponevano di non superare un certo limite di velocità. Ci mise poco ad arrivare. Lasciò il motorino nel vialetto d’ingresso della casa di lui, dirigendosi verso la porta.

Bussò, impaziente di comunicargli la notizia. Egli le aprì subito, sorpreso di trovarsela davanti. Ella non andava mai a trovarlo senza avviso.

-Ciao, Vincent.- Gli disse.

-Diana! Che cosa ci fai qui?-

-Ho preso una decisione.-

La ragazza gli porse il foglio che aveva firmato due giorni prima, al colloquio con suo padre.

Vincent guardò curioso il documento, esaminandolo bene.

-Questo è il testamento di tuo padre, giusto?- Chiese.

Lei annuì.

-Ho accettato in eredità la casa. Ho incontrato mio padre due giorni fa e mi ha lasciato una lettera. Lui mi ha sempre pensata e voluta bene.- Disse.

-Dio, amore, mi dispiace.- Rispose lui, amareggiato.

La abbracciò, cullandola dolcemente tra le sue bracca forti.

-Voglio tenere il bambino. Voglio che cresca nelle mura della mia casa.- Affermò lei sicura.

A Vincent s’illuminò il viso. Lasciò da parte il documento e sollevò da terra la sua ragazza, facendola girare ripetutamente. Entrambi ridevano e scherzavano felici, ignorando gli sguardi delle persone che passavano e li guardavano.

-Mettici giù, Vincent!- Lo ammonì lei scherzando.

Lui fece come lei gli disse e la baciò.

-Grazie per questo regalo, amor mio. Adesso ci penserò io a voi.-

Diana sorrise, abbracciandolo forte.

Lui le mise una mano sul lieve rigonfiamento del suo ventre, come aveva fatto una settimana prima.

-E tu fai il bravo lì dentro, così quando uscirai ti comprerò le macchinine!- Disse, rivolgendosi al bambino.

La futura mamma soffocò una risatina.

-Guarda che potrebbe essere anche una bambina.- Lo avvisò.

Lui si grattò la testa imbarazzato.

-Beh, in tal caso le comprerò le bambole.-

Si persero nella felicità di quel momento e unirono le labbra in un dolce bacio.

Nulla poteva spezzare la contentezza di entrambi in quel momento.

-Ti amo, Diana.-

-Ti amo anch’io, Vincent.-

*******

Quindici anni dopo

Rosalie guardò disgustata la scena dei suoi genitori che si scambiavano abbracci. Quella sera era perfetta per stare a chiacchierare sotto a un portico, uniti come una vera famiglia. Le nuvole disegnavano in cielo delle figure astratte o forme indefinite, lei non seppe dirlo. Il colore rosso-arancione di quel tramonto trasmetteva calore. Tramonti così si vedevano soltanto in piena estate.

Finì di mangiare la fetta di torta al cioccolato che sua madre, Diana, aveva preparato per il suo quindicesimo compleanno.

-La volete finire di abbracciarvi?- Chiese ai suoi genitori.

-Amore mio, ti è piaciuta la torta?-

-Sì, mamma. Era buonissima.-

Rosalie si alzò e stava per andarsene, sperando di saltare il momento della canzoncina. Suo padre però la fermò.

-Dove credi di andare? È ora della canzone!- La ammonì.

-Papà, non ho più cinque anni!-

Ignorando gli sbuffi della ragazza, Vincent la tirò a sé e cominciò ad intonare “tanti auguri a te” con Diana. Alla fine della canzone la neoquindicenne si lasciò intenerire e abbracciò i suoi genitori.

-Vi voglio bene.- Disse.

-Anche noi te ne vogliamo, Rose.- Rispose la madre, parlando anche a nome di Vincent.

La chioma rossa della ragazza sparì rapidamente dentro casa.

La coppia rimase sola a osservare la sera calante.

-Quindici anni fa dicesti che non sarei morta. Quindici anni fa credevo di sbagliare, invece adesso eccoci qua: stiamo festeggiando il compleanno di Rose, abbiamo una casa tutta nostra e tu sei con me. Cosa potrei chiedere di meglio?- Disse Diana.

-Abbiamo una figlia con i tuoi stessi capelli e tratti del viso gentili. Meravigliosa come sua madre. Non potrei chiedere di meglio.- Replicò lui.

-Gli occhi sono i tuoi, però, professor Mayers.-

Vincent rise, capendo che lei si riferiva alla sua professione. Aveva spesso un tono simile a quello che usava con i suoi alunni e Diana era solita rinfacciarglielo.

-I tuoi genitori sarebbero fieri di te adesso. Hai avuto coraggio.- Le disse.

-Ho solo ascoltato il mio cuore.-

Il trentenne baciò sua moglie e rientrò in casa, spezzando quell’unita che si era creata pochi istanti fa, ma non del tutto.

Diana si affacciò sul colonnato del portico e guardò in cielo, fiera della donna che era diventata.


-Ti voglio bene, papà. Ti perdono.-




*Angolo autrice*
Salve!
Ho pubblicato questo racconto per sapre un po' la vostra opinione.
Dato che devo presentarlo ad un concorso, volevo sapere se è almeno decente.
Accetto qualsiasi consiglio, perdonate qualche erroruccio qua e là.
Recensite in tanti :))
Un bacio
L'autrice xx

  
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