Incubo
di vita
-Tra
poco le diremo i risultati delle analisi, signorina Smith. Aspetti pure insieme
al suo compagno.-
Le
parole del signore in camice bianco non fecero altro che alimentare la paura di
Diana, nel reparto di maternità dell’ospedale più frequentato di Beacon Hill.
Non
le faceva paura il fatto che avrebbe potuto essere incinta. Il suo timore
riguardava ben altro, ovvero il fatto di poter riservare a suo figlio, o a sua
figlia che fosse, un destino come il suo. Ed era molto probabile dato che
Vincent, il suo ragazzo, faceva parte dell’esercito. Considerò per un attimo il
pensiero di una gravidanza. Aveva soltanto diciotto anni, come poteva essere?
Sua madre aveva partorito a ventitre anni, età molto più accettabile. Soltanto
che lei era morta subito dopo aver dato alla luce la bimba. E la bimba in
questione era Diana.
Per
tanto tempo si era sentita in colpa: aveva creduto che la causa della morte di
sua madre fosse stata lei. E spesso aveva pensato di aver ragione, sebbene il
suo compagno l’avesse sempre rassicurata su questa cosa.
Si
sentì pervadere da un senso di preoccupazione e ansia, in quel momento, tra le
mura dell’ospedale. Al solo ricordare ciò che aveva passato in quel collegio le
salivano brividi lungo la schiena. Era stata umiliata, picchiata, maltrattata e
punita. Ciò non sarebbe successo se suo padre non l’avesse abbandonata. S’egli
avesse mollato il suo lavoro da “Pop Star” del suo tempo e ne avesse cercato un
altro per stare più vicino a sua figlia, non sarebbe
successo.
Una
sensazione di rimorso le ribolliva dentro. Oltre a darsi la colpa per la morte
di sua madre, provava rancore verso suo padre. Per aver lasciato che lei
provasse il dolore e l’umiliazione sulla sua pelle, senza intervenire. Non
l’aveva mai cercata, nemmeno scritto una lettera o cos’altro. Troppe volte Diana
aveva pensato che fosse stato meglio se non fosse nata. Magari si sarebbe
risparmiata tutta questa sofferenza. Troppo peso sulle spalle di una ragazzina,
ormai strappata all’adolescenza come un frutto strappato dal suo albero ancora
immaturo.
Erano
queste le domande che si poneva da una settimana, malgrado sapesse già a grosso
modo le risposte. Guardò il ragazzo biondo, seduto sulla sedia
verdognola di fianco a lei, e incrociò i suoi occhi azzurro pallido.
Trasmettevano voglia di sapere quella che per lui sarebbe stata una bella
notizia, ma che per lei sarebbe stata spaventosa. D’altro canto non si poteva
negare ad un ragazzo di soli vent’anni la gioia di diventare padre, seppur in un
età prematura. Anche per Diana sarebbe stata una gioia se le cose fossero andate
diversamente nella sua vita. Se suo padre non l’avesse abbandonata, se sua madre
non fosse morta, magari non avrebbe permesso a nessuna paura di impossessarsi di
lei, come stava accadendo.
Il
suo ragazzo le prese la mano, racchiundendola nelle sue più forti. Le sorrise
dolcemente, cercando di trasmetterle il calore di quell’atmosfera che li
avvolgeva, ma che solo lui riusciva a percepire. Lei sentiva soltanto freddo, un
freddo glaciale, forse dovuto al timore. Tremava, lui lo
notò.
Il
suo sguardo, infatti, mutò da felice a preoccupato per la sua
compagna.
-Diana,
stai tremando?- Chiese lui retorico.
-N...
n... no...- Balbettò lei in risposta.
-Vieni
qui.-
L’avvolse
tra le sue braccia e le permise di appoggiare la testa sul suo petto. Lei non si
mosse da quella posizione per un tempo che le sembrava troppo corto, anche se in
realtà erano passati dieci minuti e il medico era ritornato da loro con una
cartellina in mano. Si staccò a malavoglia dal suo lui. Nessun tempo era mai
sufficiente per riposare nell’abbraccio di qualcuno che
amava.
Il
signore dall’aria rispettabile e con una calvizie incipiente, che lasciava
immaginare un’età compresa tra i cinquanta ai sessant’anni, porse la cartellina
ai due giovani. Vincent l’afferrò, comprendendo che la compagna non era in grado
di farlo. Era troppo scossa per permettersi anche un’azione così
innocua.
-La
ringrazio.- Disse il ragazzo.
Il
dottore si congedò educatamente e la coppia ne approfittò per uscire dalle mura
bianche e imponenti dell’ospedale. Fuori pioveva a dirotto e tuonava
pesantemente, quasi si ci fosse messo anche il clima a peggiorare la situazione.
Più di quanto non fosse già disastrosa per Diana.
Nessuno
dei due aveva l’ombrello, ma questo non bastò a fermarli lungo il loro percorso.
Vincent
si tolse il giubbotto che aveva addosso e lo appoggiò delicatamente sulle spalle
della sua ragazza, rimanendo soltanto con la sua maglietta a maniche
lunghe.
-Vincent!
Ma non hai freddo?- Chiese Diana.
-Non
preoccuparti per me. Corri, andiamo in macchina!- Le rispose
lui.
La
prese per mano e iniziarono a correre sotto le goccioline di pioggia che li
bagnavano senza sosta. Arrivarono alla macchina e ci salirono dentro, inumidendo
i sediolini e i finestrini con i loro vestiti bagnati.
Si
misero a ridere, dimenticando per un attimo quello che stava per accadere. Era
questa la pace che Diana desiderava, la sensazione di calore anche se chiusa in
una macchina o sotto la pioggia. La protezione che Vincent soltanto poteva
offrirle.
Si
guardarono. Diana era appoggiata con la testa al sediolino. I sintomi della
stanchezza e di un imminente malanno si facevano sentire, ma nessuno dei due
pareva farci tanto caso.
-Ti
amo.-
-Anche
io ti amo, Vincent.-
Il
biondo si avvicinò a lei a poco a poco con l’intenzione baciarla. Diana pareva
apprezzare quel gesto. Non si oppose, infatti.
Finalmente
Vincent annullò totalmente la distanza tra loro e poggiò le sue labbra su quelle
rosee e carnose di lei, suggellando quell’amore, che condividevano da ormai due
anni, con un bacio che durò pochi secondi. Tutti e due sembravano non volerne
sapere di smettere, ma furono costretti. Il loro futuro, l’esito di tutto quello
che erano riusciti a costruire nel tempo che avevano passato insieme li
attendeva.
Si
allontanarono l’uno dall’altra lentamente, quasi a non voler dimenticare
l’attimo precedente.
Il
sorriso sparì dal volto di Diana. Le si leggeva in faccia la delusione di un
eventuale scoperta.
-Dobbiamo
aprirla prima o poi.- Disse il ragazzo.
La
rossa di tutta risposta rivolse lo sguardo fuori dal
finestrino.
-Fallo
adesso.-
Vincent
fece come gli aveva detto Diana e lesse il responso. Senza accorgersene
trattenne il fiato per cinque secondi. La compagna non accennava a dire una
parola o a guardare verso di lui, probabilmente troppo presa dalla paura per
farlo.
-Diana?-
La chiamò.
La
rossa si voltò verso di lui e lo guardò negli occhi, incapace di emettere alcun
suono.
Il
biondo le porse il foglio con sopra diverse scritte.
La
ragazza lo prese con mani tremanti e chiuse gli occhi sospirando, prima di
leggere.
Li
aprì dopo pochi istanti, cercando di calmarsi.
Non
poté trattenere due lacrime silenziose, quando lesse la scritta in grassetto
sulla pagina bianco sporco.
-Diana?
Mi vuoi dire perché piangi?- Chiese lui.
-Sono
incinta.-
-E
allora? Dovresti essere felice! Porti una piccola vita dentro di
te.-
-Capisci
che significa?-
-Ascoltami.
Non puoi farmi quella faccia. Non puoi piangere. Mi
ascolti?-
Le
prese il viso fra le mani, costringendola a guardarlo negli occhi
lucidi.
-Quello
che è successo a tua madre, quel fardello che ti porti dietro da diciotto anni,
devi lasciartelo alle spalle. Sei maggiorenne, hai imparato molte lezioni dalla
tua vita. Adesso non puoi negare a tuo figlio l’occasione di nascere, crescere,
sposarsi, avere figli. Non puoi.- Le disse.
Lei
si guardò il ventre, ancora piatto. Era presto per riuscire a notare un
rigonfiamento.
Il
suo compagno le mise una mano appena sotto l’ombelico, accarezzando il
punto.
-Non
posso dargli queste sofferenze. Non posso dargli le mie sofferenze. Chi mi
garantisce che tu riuscirai a crescerlo se io dovessi morire?- Chiese la
ragazza.
Vincent
tolse la mano dal pancino di Diana, visibilmente alterato. Sbatté un pugno
contro il manubrio, facendo involontariamente suonare il clacson della Range
Rover nera.
La
ragazza sussultò spaventata, rimanendo al suo posto.
-La
cosa che mi fa arrabbiare di più è che pensi che io sia come lui. Io non sono
come tuo padre, lo vuoi capire? Secondo te abbandonerei mio
figlio?-
Quelle
parole le arrivarono gelide in faccia. Le passò per la mente l’idea di non
essere stata giusta nel domandargli quello che gli aveva chiesto prima. Non
riuscì a ribattere. Lasciò che lui riprendesse a parlare, stavolta con più
calma.
-Tu
non morirai. E se anche dovessi morire, abbandonerei l’esercito per crescere il
bambino. Fai quello che vuoi, ma qualsiasi cosa tu decida di fare, ricorda che
quello che hai nella pancia è anche roba mia.-
Così
dicendo mise in moto la macchina, senza aspettare nessuna risposta dalla ragazza
seduta a lato. Ella non rispose, infatti, si limitò soltanto a piangere
silenziosamente mentre le gocce di pioggia si schiantavano sul
parabrezza.
Se
doveva proprio morire, pregò di farlo in quel momento.
*******
Il
rumore che le dita di Diana facevano sul tavolo in legno del portico risuonava e
si espandeva per tutto il giardino.
C’era
così tanto silenzio fra loro, che anche una minima cosa faceva rumore, destando
l’attenzione dei due.
William
era lì seduto sul tavolo da ormai un quarto d’ora. Accendeva e spegneva
sigarette come se nulla fosse. La tensione era evidente, ma Diana tentava
comunque di mascherarla.
Il
fatto che fosse lì con suo padre non c’entrava nulla, ovvio. Ma certamente
questo era sarcasmo.
L’uomo
dai capelli neri si alzò dalla sua postazione, mostrando tutta la sua imponenza
davanti alla figlia. Dal suo sguardo freddo non trapelava nessuna emozione e la
sua posa dritta e immobile lasciava intuire che aveva ricevuto un’educazione
severa fin da piccolo. Decisamente non aveva l’aspetto della pop star che era
stato al suo tempo.
Diana
si alzò dalla sua sedia, con altrettanta freddezza. L’uomo che doveva essere suo
padre era un perfetto sconosciuto ai suoi occhi.
-Forse
potresti dirmi il perché di quest’incontro- Disse lui, mantenendo un tono
basso.
-Se
ti ho fatto portare il testamento c’è un motivo. Non ti vedo da anni, abbi
almeno la decenza di rivolgerti a me guardandomi negli occhi. Ci riesci,
William?-
Quello
lì non rispose. Si limitò ad alzare lo sguardo verso la
ragazza.
-Sei
diventata una bella ragazza.- Le disse.
Diana
esplose, scaraventando la sedia da una parte indefinita del portico. Serrò le
labbra e strinse i pugni. Tutto ciò non destò minimamente l’attenzione di
Will.
-Tu
non puoi dirmi questo. Non puoi dirmi nulla. Devi solo farmi firmare quel
testamento.- Gli disse.
-Perché
mai dovresti volere questa casa?- Domandò lui.
Lei
fece un risolino debole, scuotendo la testa.
-Sono
incinta. Aspetto un bambino. E voglio crescerlo qui insieme al mio
ragazzo.-
William
fu colto di sorpresa. Rivolse alla figlia uno sguardo freddo come i precedenti,
non riuscendo a comunicare quello che voleva dirle realmente. Voleva scusarsi.
Voleva riuscire a rimediare ai suoi errori. Lo aveva sempre voluto. Il rimorso e
il senso di colpa lo avevano attanagliato per tantissimo tempo, ma non era mai
riuscito a scacciarlo via. Adesso rimaneva un estraneo agli occhi di sua figlia.
Il fatto che lo chiamasse per nome gli faceva tremendamente male, tanto da
mandarlo fuori di sé. Lei non sapeva il motivo per il quale lui l’aveva
abbandonata da piccola. William glie lo avrebbe fatto sapere prima di morire,
con la lettera che le stava per dare. Dopo non avrebbe rivisto più sua figlia in
vita sua.
Porse
il documento alla ragazza e lei lo prese.
Estrasse
una penna dal suo giubbotto e impresse la sua firma sul foglio. Passò la penna a
Diana, cosicché potesse farlo anche lei.
Ella,
titubante, lasciò che l’inchiostro macchiasse la carta vecchia segnando il suo
nome.
Quando
gli porse la penna lui l’afferrò, facendo in modo che le loro mani si
toccassero. Non aveva un contatto fisico con sua figlia da tantissimo tempo.
Rimase
a guardarla per alcuni istanti, lasciandole in mano il documento. L’unico che
aveva portato con sé in realtà, per quell’occasione. Il resto dei fogli allegati
li aveva lasciati a casa sua, sotto il materasso del suo
letto.
-Puoi
andare adesso. È finita. Come se non ci fossimo mai incontrati. Come se tu non
fossi mio padre.- Disse Diana.
L’uomo
s’incamminò, dando le spalle alla ragazza. Lei non si voltò, lo fece lui. Guardò
le sue spalle e si maledisse per non essere stato lì a vederla crescere. Per
averle causato tante sofferenze.
Le
fece arrivare ai piedi una busta, facendola scivolare sul marmo bianco del
pavimento.
-Scusa.-
Mormorò alle sue spalle.
Passò
qualche istante prima che Diana potesse rendersi conto che quello che aveva
udito non era frutto della sua immaginazione.
-C...come?-
Balbettò.
Si
girò sconvolta verso la voce che aveva parlato, ma la persona che aveva
pronunciato quelle parole se n’era già andata. Notò qualcosa a terra, davanti a
lei. Lo raccolse.
Aprì
la busta che aveva preso e ne tirò fuori una lettera.
Si
rese conto che era di suo padre. Cominciò a leggerla, sedendosi sulla sedia che
prima aveva gettato via con così tanta rabbia.
“Cara
Diana,” poteva
quasi sentire la sua voce mentre leggeva tra le righe.
“Non so se leggerai questa lettera, ma io te la scrivo lo stesso. So che non sono degno di chiamarti “figlia”, forse nemmeno di parlarti. La verità è che devi sapere il motivo per cui non ti sono stato vicino in tutti questi anni. Quello che hai passato nel collegio puoi saperlo soltanto tu, ma non riesco a non sentirmi in colpa per avvertivi rinchiusa. In realtà ero troppo indeciso e incosciente per sapere cosa fare quando scoprii di essere malato, cinque anni dopo la tua nascita. Avevo promesso a tua madre di prendermi cura di te, o anche di assicurarti un buon futuro. Purtroppo il cancro si era impossessato dei miei polmoni, impedendomi di crescerti come dovevo. Non volevo assolutamente metterti a disagio per la mia malattia, eri troppo piccola. Così ti iscrissi al collegio con la scusa del tour musicale, perché sapevo che se ti avessi avuto vicino ti saresti accorta che qualcosa non andava. Le analisi erano tante, troppi medici passavano per la mia casa. La mia carriera da cantante intanto finiva, ma niente mi consumava più del senso di colpa. Vorrei chiederti scusa. Scusa per la vita ingiusta che ti ho fatto vivere, per tutte le sofferenze che ti ho causato. E anche se so che questa lettera non basterà a farmi perdonare da te, spero tu capisca il mio dispiacere. Tesoro mio, questa malattia è continuata per molti anni e ormai sta giungendo a termine. Domani mattina, probabilmente, non ci sarò già più, ma volevo dirti che ti voglio bene. Ti ho sempre voluta bene, anche se non te l’ho mai dimostrato. Ho amato infinitamente te e tua madre e spero di ottenere il tuo perdono.
Adesso è ora che tu volti pagina, che vivi la tua vita nel futuro che ti aspetta. Io non ho mai potuto costruirtelo, sei stata costretta a farlo tu.
Qualunque cosa tu faccia,
ricorda sempre che io ci sarò, ci sono sempre stato.
Ti
voglio bene
Papà”
Con
le lacrime che le rigavano il volto, urlò. Diana sfogò tutto quello che per
diciotto anni non aveva detto, tutto quello che aveva pesato sulla sua anima,
impedendole costantemente di vivere. Ogni singolo attimo della sua vita era
stato accompagnato da un pensiero rivolto al padre. L’aveva incolpato, se l’era
presa con lui, per poi scoprire che lo aveva fatto per lei. E questo la faceva
sentire ancora più in colpa. Ma questo non avrebbe risolto la situazione. Era
troppo tardi. Piangere non sarebbe servito a nulla.
*******
Diana
fece scivolare una mano sul legno impolverato della sedia nell’enorme mensa del
collegio. Quel posto era stato lasciato a fare muffa, essendo stato chiuso poco
dopo che lei fosse uscita da esso anni prima.
La
rivelazione di suo padre l’aveva sconvolta. Era andata al suo funerale due
giorni dopo, in compagnia di Vincent. Gli aveva detto della morte di suo padre,
ma non gli aveva ancora detto della decisione che aveva preso. Lo avrebbe fatto
più tardi.
Era
riuscita ad entrare dentro alla struttura, conoscendo tutti i passaggi segreti
possibili di quell’edificio. La maggior parte della sua vita era appartenuta ad
esso e lei conosceva quel posto come le sue tasche, ormai. Erano quattro anni
che non andava a visitarlo. I ricordi le pervasero la mente come un turbine,
lasciando che le emozioni prendessero il sopravvento su di
lei.
Si
ricordò di tutte le volte che aveva mangiato cibo rivoltante tra le mura di
quella mensa, di tutte le volte che aveva dovuto cacciare via i ragni dal suo
letto prima di dormire. Si ricordò di quando aveva dovuto dividere il suo
stanzino con una ragazza che la picchiava sempre, e di quando si nascondeva per
non essere punita. Le tornarono in mente tutte le fughe che aveva messo in atto,
tutte le volte che una maestra più benevola le portava il cibo di nascosto e lei
lo mangiava ingorda, sapendo che non l’avrebbe ricevuto spesso.
Avanzò
verso l’uscita, non riuscendo più a stare in quel luogo. Ormai piangeva, ma non
ci fece tanto caso. Montò in sella allo scooter parcheggiato davanti alla
struttura vecchia e cadente e mise in moto. Si diresse dal suo fidanzato,
ignorando le avvertenze dei segnali stradali che le imponevano di non superare
un certo limite di velocità. Ci mise poco ad arrivare. Lasciò il motorino nel
vialetto d’ingresso della casa di lui, dirigendosi verso la
porta.
Bussò,
impaziente di comunicargli la notizia. Egli le aprì subito, sorpreso di
trovarsela davanti. Ella non andava mai a trovarlo senza
avviso.
-Ciao,
Vincent.- Gli disse.
-Diana!
Che cosa ci fai qui?-
-Ho
preso una decisione.-
La
ragazza gli porse il foglio che aveva firmato due giorni prima, al colloquio con
suo padre.
Vincent
guardò curioso il documento, esaminandolo bene.
-Questo
è il testamento di tuo padre, giusto?- Chiese.
Lei
annuì.
-Ho
accettato in eredità la casa. Ho incontrato mio padre due giorni fa e mi ha
lasciato una lettera. Lui mi ha sempre pensata e voluta bene.-
Disse.
-Dio,
amore, mi dispiace.- Rispose lui, amareggiato.
La
abbracciò, cullandola dolcemente tra le sue bracca forti.
-Voglio
tenere il bambino. Voglio che cresca nelle mura della mia casa.- Affermò
lei sicura.
A
Vincent s’illuminò il viso. Lasciò da parte il documento e sollevò da terra la
sua ragazza, facendola girare ripetutamente. Entrambi ridevano e scherzavano
felici, ignorando gli sguardi delle persone che passavano e li
guardavano.
-Mettici
giù, Vincent!- Lo ammonì lei scherzando.
Lui
fece come lei gli disse e la baciò.
-Grazie
per questo regalo, amor mio. Adesso ci penserò io a
voi.-
Diana
sorrise, abbracciandolo forte.
Lui
le mise una mano sul lieve rigonfiamento del suo ventre, come aveva fatto una
settimana prima.
-E
tu fai il bravo lì dentro, così quando uscirai ti comprerò le
macchinine!- Disse, rivolgendosi al bambino.
La
futura mamma soffocò una risatina.
-Guarda
che potrebbe essere anche una bambina.- Lo avvisò.
Lui
si grattò la testa imbarazzato.
-Beh,
in tal caso le comprerò le bambole.-
Si
persero nella felicità di quel momento e unirono le labbra in un dolce
bacio.
Nulla
poteva spezzare la contentezza di entrambi in quel
momento.
-Ti
amo, Diana.-
-Ti
amo anch’io, Vincent.-
*******
Quindici
anni dopo
Rosalie
guardò disgustata la scena dei suoi genitori che si scambiavano abbracci. Quella
sera era perfetta per stare a chiacchierare sotto a un portico, uniti come una
vera famiglia. Le nuvole disegnavano in cielo delle figure astratte o forme
indefinite, lei non seppe dirlo. Il colore rosso-arancione di quel tramonto
trasmetteva calore. Tramonti così si vedevano soltanto in piena estate.
Finì
di mangiare la fetta di torta al cioccolato che sua madre, Diana, aveva
preparato per il suo quindicesimo compleanno.
-La
volete finire di abbracciarvi?- Chiese ai suoi
genitori.
-Amore
mio, ti è piaciuta la torta?-
-Sì,
mamma. Era buonissima.-
Rosalie
si alzò e stava per andarsene, sperando di saltare il momento della canzoncina.
Suo padre però la fermò.
-Dove
credi di andare? È ora della canzone!- La ammonì.
-Papà,
non ho più cinque anni!-
Ignorando
gli sbuffi della ragazza, Vincent la tirò a sé e cominciò ad intonare “tanti
auguri a te” con Diana. Alla fine della canzone la neoquindicenne si lasciò
intenerire e abbracciò i suoi genitori.
-Vi
voglio bene.- Disse.
-Anche
noi te ne vogliamo, Rose.- Rispose la madre, parlando anche a nome di
Vincent.
La
chioma rossa della ragazza sparì rapidamente dentro casa.
La
coppia rimase sola a osservare la sera calante.
-Quindici
anni fa dicesti che non sarei morta. Quindici anni fa credevo di sbagliare,
invece adesso eccoci qua: stiamo festeggiando il compleanno di Rose, abbiamo una
casa tutta nostra e tu sei con me. Cosa potrei chiedere di meglio?- Disse
Diana.
-Abbiamo
una figlia con i tuoi stessi capelli e tratti del viso gentili. Meravigliosa
come sua madre. Non potrei chiedere di meglio.- Replicò
lui.
-Gli
occhi sono i tuoi, però, professor Mayers.-
Vincent
rise, capendo che lei si riferiva alla sua professione. Aveva spesso un tono
simile a quello che usava con i suoi alunni e Diana era solita
rinfacciarglielo.
-I
tuoi genitori sarebbero fieri di te adesso. Hai avuto coraggio.- Le
disse.
-Ho
solo ascoltato il mio cuore.-
Il
trentenne baciò sua moglie e rientrò in casa, spezzando quell’unita che si era
creata pochi istanti fa, ma non del tutto.
Diana si affacciò sul colonnato del portico e guardò in cielo, fiera della donna che era diventata.
-Ti
voglio bene, papà. Ti
perdono.-
*Angolo autrice*
Salve!
Ho pubblicato questo racconto per sapre un po' la vostra opinione.
Dato che devo presentarlo ad un concorso, volevo sapere se è almeno decente.
Accetto qualsiasi consiglio, perdonate qualche erroruccio qua e là.
Recensite in tanti :))
Un bacio
L'autrice xx