Desclaimer: tutti i personaggi
qui usati sono proprietà di altri all’infuori di me (e alcuni hanno il coraggio
di aggiungere “per fortuna”); creati da sir Doyle,
sono ora nelle mani del duo Mofftis, che non sai mai
se idolatrare o sperare di incontrarli solo per mettere loro le mani intorno al
collo e stringere forte.
Note:
questa... questa... cosa è passata
per cinque versioni diverse, corrispondenti a cinque stati d’animo diversi.
Prima doveva essere fluff
e far sorridere, poi doveva essere fluff e dolce, poi doveva essere fluff e
malinconica, infine fluff e filosofica. Posso dire che fluff lo è rimasta, ma mi
sono catapultata sull’amarezza. Stasera va così.
Allora, è giusto che
sappiate che, per scriverla, ho dovuto discutere a lungo con Wikipedia e con il sito della British
Army. Molte cose penso ancora che siano largamente
impossibili, ma prendiamola con filosofia e facciamo finta di sì.
Beh, in ogni caso, se
volete inculturarvi tutte le note stanno a fondo
pagina.
Avevo una voglia matta di
scrivere questo passo di questi due, di rimpirlo di
fluff e di mettere John in divisa. E for God’s sake, è una fanfic. Posso farlo, si suppone, in una fanfic.
Fantasticare a briglia sciolta, intendo.
E, ah, mi duole dire che
forse Sherlock è un poco OOC. Mettere insieme quel’uomo ed il fluff, seppure in
pov John, è un’impresa titanica 8D
Per il resto, buona lettura
a chi vorrà ♥
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Speak now or forever hold your peace
La
delusione funziona così:
Passi
un certo lasso di tempo immobile, bocca leggermente socchiusa perché il tuo
amor proprio le impedisce di spalancarsi del tutto, mentre ti rendi conto che
il suo “leggero ritardo” è diventato in realtà un ritardo mostruoso.
La
bocca poi si chiude del tutto in un’espressione contrita quanto finalmente ti
rendi conto che no, non verrà. O se lo farà, non sarà più in tempo. Il
funzionario di stato ha gettato la spugna prima di te, perché lui non ha il tuo
livello quasi da santificare di fiducia e la tua stessa dose di speranza ad
oltranza.
Cercando
di mantenere una calma che nemmeno la tua rigorosa educazione militare ti
assicura che reggerà saluti tutti gli ospiti, facendo finta di non vedere le
loro facce deluse, o peggio, le espressioni compassionevoli dei tuoi migliori
amici che sembrano puntarti contro il dito e dirti “è fatto così, dovresti
saperlo, dovevi immaginartelo; sei un povero cretino anche solo per averci
sperato”. Ovviamente in sovrimpressione, o su un canale audio supplementare alle
loro frasi standard di commiato.
Successivamente,
mentre le porte del Registry Office ti si chiudono
alle spalle e tu rimani in piedi come un cretino sotto l’imponente colonnato
dell’entrata, passi tutti i vari stadi di frustrazione che non ti sei potuto
permettere finché i suoi genitori,
ovviamente presenti, ti bombardavano di domande alle quali avresti voluto dare
una sola risposta: “chiedetelo a quello spostato del vostro figlio minore e non
rompetemi le palle, perché i miei nervi sono ad un punto critico di rottura e
non rispondo delle mie azioni se metto le mani sulla mia pistola”. È abbastanza
scontato dire che, ancora una volta, il tuo buon senso – che pensi sia quello
di Gesù Cristo, considerato quante volte è intervenuto per impedirti il
tracollo nervoso – ti ha sconsigliato di dire alla lettera quello che in realtà pensavi.
In
ordine, i precedentemente citati stati di frustrazione sono: rabbia di stato 1
(leggera), rabbia di stato 2 (mediamente pesante), rabbia di stato 3 (atomica),
declamazione tramite pensiero di vari intenti omicidi (Moriarty
sarebbe fiero di te e ti guarderebbe con occhi nuovi), rabbia di stato 4
(tendente al deprimente), altra declamazione tramite pensiero di intenti
omicidi con l’aggiunta di varianti che prevedono metodi di tortura fisica e
psicologica, rabbia di stato 5 (decisamente depressiva), sospiro rassegnato,
principio di psicosi delirante, realizzazione della realtà, annichilimento
emotivo.
Si
prosegue poi con il silenzioso combattimento interiore fra cuore e cervello, i
quali si fanno consigliare dal tuo intramontabile spirito romantico – che ora
accoltelleresti molto volentieri – dall’orgoglio smisurato che veste la divisa
e da quella punta di buon senso che credevi di aver definitivamente spinto al
suicidio quando avevi deciso di dire “sì”.
E,
oh, come ti stai pentendo di aver detto “sì”, in questo momento.
La
battaglia spirituale fra i tuoi vari alter ego emotivi si conclude con il
calare del sole dietro una nuvola grigia carica di pioggia e, tanto per sfogare
un po’ della frustrazione accumulata, mandi allegramente a donnine facili, con
un ringhio, sia l’oroscopo che ti aveva predetto una giornata positiva, sia il
meteo che ti aveva promesso una giornata serena.
Successivamente,
arriva il cupo silenzio. Comincia a piovere e tu te ne stai lì, impettito in
quella divisa che ti spinge a tenere la schiena dritta ed il mento sollevato,
con nella mente solo il nulla e nel cuore solo l’assenza. Hai smesso di pensare
perché senti in arrivo un’emicrania terribile e hai smesso di sentire i
sussurri del cuore perché pensi che sia troppo masochistico anche per uno come
te, che brama il pericolo e passerebbe volentieri il resto della vita a
combattere in guerra.
Poi
ti correggi e ti dici che no, per il resto della vita tu avevi, evidentemente,
altri programmi, visto e considerato dove ti trovi e cosa avevi intenzione di
fare fino a – guardi l’orologio – otto ore fa. Ti dici poi che sono passate
otto maledette ore, che piove e sei
fradicio, che sono le otto di sera e che non è mai troppo tardi per fare quello
che, in situazioni di profonda delusione come questa, ti riesce meglio: seguire
la dannata tradizione ed affogare il dispiacere nell’alcool.
Ti
dici che il bar di seconda mano a Whitechapel che
usavi frequentare quando zoppicavi e ti sentivi un derelitto – ovvero non molto
tempo fa, tutto sommato – è ancora là e che sicuramente non ha cambiato nome;
un posto un po’ malfamato dove il pericolo, forse inesistente, te lo senti
sulla pelle come l’umidità ma in cui nessuno è così stupido da attaccare briga
con uno che indossa una divisa dell’esercito.
Tu,
mio caro, ti chiami John Watson – John Hamish Watson – e
adesso, alle undici e mezza di sera, dopo esserti scolato tre pinte di birra e
circa cinque whiskey lisci, te ne stai con i gomiti appoggiati al bancone e il
viso fra le mani, con la giacca della tua divisa appoggiata allo sgabello di
fianco e immerso in una nube di fumo non tuo sotto luci soffuse dal tono caldo
ma poco rassicurante.
« Ne vuole un
altro? »
John
alzò il capo verso il barista, osservandolo con gli occhi lucidi e socchiusi.
Annuì, aggiungendo a voce un « doppio » che di ubriaco non aveva niente.
Semplicemente
perché non lo era.
Al
contrario di Harry, che aveva fatto di quella dell’alcolizzata una vera e
propria professione, lui aveva sempre avuto difficoltà a perdere la lucidità
bevendo. Prendendolo in giro, i suoi compagni dell’università gli avevano
sempre detto che andava dalla bevanda agli effetti collaterali senza passare
per la sbronza. Il che era dannatamente vero.
E,
in alcuni casi, anche dannatamente ingiusto.
Si
sentiva ancora la camicia umida, i capelli crespi d’acqua piovana e il freddo
nelle ossa. Era abbastanza fiducioso che la leggerezza in cui la sua testa
fluttuava sarebbe sparita dopo una passeggiata che, considerando l’ora e
l’intenzione di mettere radici in quel bar fino a notte fonda, sarebbe stato
comunque costretto a fare come conseguenza di avere volontariamente perso
l’ultimo treno.
E
gli importava poco, in realtà, in quel momento.
Accettò
con gratitudine il sesto whiskey (doppio), alzando il capo dalle mani il tempo
necessario per ingurgitarlo tutto in una volta. Al di là della musica soffusa
del locale, del chiacchiericcio degli avventori e dei vetri appannati, il
rumore della pioggia battente gli diceva che avrebbe piovuto probabilmente per
tutta la notte.
Avrebbe
dovuto prendere un taxi, ma la voglia anche solo di pensare all’eventualità era
totalmente assente.
Era
stato in collera, fino ad un paio d’ore prima. Anzi, più che in collera,
decisamente inviperito.
Poi
si era arreso all’evidenza che era una battaglia persa ed ora, con in circolo
un quantitativo spropositato d’alcool che non gli faceva nemmeno un ottavo
dell’effetto voluto, non poteva far altro che sentirsi amareggiato.
Chiuse
gli occhi, appoggiando la fronte alle mani e sospirando pesantemente. La
cravatta ancora impeccabilmente stretta intorno al colletto cominciava a dargli
fastidio, però l’onore con cui indossava quella divisa gli impediva di
allentarsela e di sbottonarsi il primo bottone della camicia.
Sentì
la porta aprirsi e richiudersi, e alcuni passi coprire la breve distanza che lo
separava dalla porta, interrompendosi proprio alle sue spalle.
Sapeva
già chi era. Aveva riconosciuto la cadenza dei passi, il respiro, l’odore.
Erano tutte cose che ad un certo punto erano diventate sue – lui era diventato suo – e dunque le
aveva memorizzate, incise in un ricordo indelebile che conservava con cura e
che lucidava ogni giorno.
Non
ebbe bisogno di voltarsi.
« C’è un dannato
posto in questa città in cui tu, o quel pomposo damerino di tuo fratello
maggiore, non riusciate a trovarmi? » domandò, mandando a donnine facili
insieme all’oroscopo e al meteo anche la cortesia.
« No » rispose
semplicemente la sua voce profonda. « Non finché non
esuli dalle tue abitudini, almeno » aggiunse poco dopo, precisando.
Precisava
sempre. Aveva un dannato bisogno
psicofisico e fisiologico di specificare qualsiasi fottuta cosa.
Lo
odiava. Sentiva di odiarlo.
Sospirò
di nuovo, ancora pesantemente. « Sei leggermente
in ritardo » fece notare,
fingendo una calma che aveva perso, riguadagnato e perso di nuovo negli ultimi
minuti.
Seguirono
alcuni istanti di silenzio in cui John sperò con tutto il cuore che non gli
rispondesse ciò che temeva gli avrebbe effettivamente risposto.
Speranze
vane.
« Si è presentato
un caso che– »
« Cristo... » lo interruppe il
soldato in uno sbuffo demoralizzato: « ...lo sapevo. O meglio, dovevo
immaginarmelo. Cos’altro avrebbe potuto trattenerti? » domandò
ironicamente, senza voler sentire davvero la risposta; cosa che non avvenne,
perché lui continuò: « cosa mi ha fatto
pensare, questa mattina appena sveglio, che Sherlock Holmes il Magnifico
avesse, per un giorno, messo da parte il suo preziosissimo lavoro per dedicarsi
completamente a me? Non lo so proprio. Forse la promessa che dovevamo
scambiarci. Insomma, mi sembrava abbastanza
importante per avere la prevalenza
sul resto » disse,
sottolineando le parole giuste con la voce.
Sherlock
non si mosse e non fiatò, almeno non subito. John rimase voltato e nella stessa
posizione, aspettando una qualsiasi frase soddisfacente senza la reale speranza
che lo potesse essere davvero. Non per lui, almeno. Lui e Holmes avevano idee
differenti su cosa significasse la parola “soddisfacente”. Tuttavia gli diede
il tempo di riflettere, perché era consapevole che Sherlock Holmes e le emozioni
erano compatibili quanto acidi e alcalini.
Ovvero
neanche un po’.
Sherlock
prese fiato e, come prima, la speranza di una comprensione – di una scusa – fu vana.
« Era un duplice
omicidio, John ».
« Era il nostro matrimonio, Sherlock! » e questa volta
urlò.
Alcune
teste si voltarono in loro direzione, compresa quella del barista, ma tornarono
alle loro precedenti conversazioni in quattro e quattr’otto.
Vedendo
la reazione della clientela e vergognandosi della propria poca compostezza,
mise sul bancone una banconota da cinquanta sterline con un rude « tenga il resto » e, infilandosi la
giacca della divisa, passò oltre Sherlock senza guardarlo dirigendosi
all’esterno del locale.
Holmes
lo seguì in silenzio, lo scalpiccio continuo dei suoi passi dietro ai propri
sul marciapiede coperto d’acqua.
Si
sentiva prudere le mani dalla voglia di prenderlo a pugni ma al contempo sapeva
che Sherlock moriva dalla voglia di raccontargli come aveva risolto il caso.
Perché sì, lo aveva risolto e John di questo era ampiamente sicuro, altrimenti
avrebbe continuato ad investigare e non sarebbe andato a cercarlo.
Lo
sapeva, e saperlo così bene faceva ancora più male.
Si
fermò, e così fecero i passi dietro di lui.
« Lo hai risolto? » domandò allora,
il tono duro, senza voltarsi verso l’altro.
« Sì » disse Sherlock.
« Interessante? » domandò ancora
John.
Sembrava
una conversazione pacifica, ma non lo era affatto. Watson stava semplicemente
raccogliendo dati, come spesso aveva visto fare a Sherlock, probabilmente per
dare una motivazione plausibile all’essere essere rimasto ad aspettare come un
idiota quella specie di miracolo impossibile.
« Un sei » ribatté Holmes: « le vittime erano
una donna di 36 anni, sposata, e il marito, 42 anni. Il figlio
tossicodipendente li ha uccisi perché avevano rifiutato di dargli i soldi per
pagarsi la dose e gli avevano impedito di rubare i soldi necessari dalla
cassaforte di famiglia cambiando la combinazione. Ha cercato di nascondere il
delitto inscenando un furto in villa. Poco efficacemente, aggiungerei » descrisse
velocemente: « la figlia
maggiore si è presentata in Baker Street verso le dieci di stamane. Ho
accettato il caso. Pensavo di... » una piccola pausa, indecisione: « ...metterci di
meno » disse poi.
John
rise di una risata amara. « Mai abbastanza in fretta, Sherlock » commentò
aspramente, ricominciando la sua camminata senza meta.
Tempo
un paio di passi ed Holmes, che non lo stava più seguendo, parlò di nuovo.
« Sei arrabbiato » constatò.
L’ultima
goccia della pazienza di John lo salutò con il fazzoletto bianco degli addii
ufficiali.
« No Sherlock,
no... no. Non sono arrabbiato. Sono inviperito, il che è molto diverso » ruggì, fermandosi
all’improvviso e facendo retro-front, guardandolo
dritto negli occhi: « quando sono solo
arrabbiato mi limito ad un tè e mi dico che, in fondo, non è successo niente.
Quando sono inviperito mi viene la voglia matta di mordere il collo della gente
fino a strappar via la giugulare con i denti. Motivo per cui non ti conviene
seguirmi, almeno per questa notte » sputò fuori, velenoso e incurante di ciò
che diceva.
Si
sentiva in diritto, in quanto sposo lasciato all’altare, di esprimere tutto il
suo disappunto al riguardo.
Sherlock
lo guardò senza mai distogliere lo sguardo; nonostante la strada fosse immersa
nella semi oscurità, i suoi occhi avevano un riflesso azzurro abbagliante.
Erano una delle tante cose che John amava di Sherlock e a cui faceva ancora
fatica a resistere ma, in quel frangente, la sua profonda delusione dava una
mano notevole a tenere a bada il suo lato soffice e Sherlock-dipendente.
Holmes
aggrottò le sopracciglia. « Lo sapevi anche da prima, John » disse poi, calmo
come se si parlasse del tempo e non di una promessa naufragata nel nulla: « io sono sposato
con il mio lavoro. Te l’ho detto la prima volta che ci siamo incontrati, te
l’ho ripetuto quando fra noi è successo l’inevitabile, te l’ho detto un’altra
volta quando ti ho chiesto di sposarmi e... »
« Appunto, mi hai
chiesto tu di sposarti » lo interruppe
però il medico, puntandogli un dito accusatore al petto: « il che presuppone
che tu ti prenda l’impegno di non essere compagno solo del tuo lavoro, il che vuol dire, di conseguenza, che sia
accreditato a me l’onore di essere almeno
allo stesso livello del tuo strafottuto lavoro! » gridò, e questa
volta fu solo una strada vuota e qualche auto parcheggiata a sentirlo.
« Ma no,
ovviamente. Io sono Sherlock Holmes e non mi abbasso ad essere, o a fare finta
di essere, una persona normale nemmeno il giorno del mio matrimonio. Me ne vado
in giro a risolvere puzzle lasciando quel povero imbecille che si è preso la
briga di vivere il resto della sua vita con me in piedi come un cretino per
otto ore davanti all’Anagrafe, cercando di dare spiegazioni sensate ad amici e
parenti che di spiegazioni sembrano non avere del tutto il bisogno, perché si
parla di Sherlock Holmes e chissà perché ci
si aspetta che faccia una cosa come non presentarsi al proprio matrimonio! » sbottò parlando
in fretta, scaricando la tensione tutta d’un colpo: « e io cosa faccio,
Sherlock, cosa? Io spero. Io mi fido. Mi dico che no, arriverà, perché Sherlock
mantiene le promesse, anche se a modo suo. Perché è strambo ma gentile, perché
è sociopatico ma umano, perché ha un cuore e io lo so, perché l’ho stretto fra
le dita molte volte, mi dico. Sono tutte belle parole ma io sono un illuso:
sono talmente abituato a farmi i discorsetti incoraggianti che perdo di vista
la realtà. E la realtà è che tu non sei arrivato e mi hai lasciato solo nel
giorno più bello della mia vita... o meglio, in quello che doveva essere il
giorno più bello della nostra vita...
» sottolineò irritato, il tono che si abbassava mentre
variava dalla rabbia alla desolazione.
Si
guardarono, ma Sherlock non disse nulla così John continuò. Aveva molto da dire
e dato che il suo coninquilino – migliore amico? Compagno? Fidanzato? –
sembrava giocare al gioco del silenzio, ne approfittò biecamente per far
sentire la sua, di voce, una volta ogni
tanto.
« È sempre la
stessa storia, Sherlock. Tu sparisci e io vengo lasciato indietro. Tu vai
avanti e io arranco per cercare di raggiungerti. Tu ti butti da un tetto ed io
rimango a raccogliere... a raccogliere i pez... i
pezzi... » si sentì mancare
la voce e chiuse gli occhi, senza terminare la frase.
Avrebbe
voluto dire “i pezzi delle mie speranze”; quelli che ogni volta si ritrovava a
tirare su da terra con le pinzette, pregando che un ennesimo giro di colla potesse
bastare per tenerle insieme almeno un altro po’.
Il
ricordo della “caduta” era ancora dolorosamente impresso nel suo essere, inciso
talmente in profondità da sanguinare ogni volta che veniva anche solo nominato.
La
memoria di quelle notti passate sveglio a fissare il soffitto, illudendo se
stesso che non fosse successo niente. Immergendosi nel buio in un mondo dove
Sherlock era ancora con lui, magari uscito di casa per una qualche indagine,
magari a scorrazzare nei Docklands alla ricerca di
chissà quali indizi.
Il
pericolo che tornava, l’aspettativa che mitigava il dolore.
Attendeva
il momento in cui avrebbe sentito i suoi passi sulle scale, e la porta al piano
di sotto aprirsi e poi chiudersi. Aspettava i rumori sordi dei suoi piedi nudi
sulla moquette della seconda rampa di gradini, la porta della propria stanza
cigolare piano sui cardini mentre si apriva, il materasso abbassarsi sotto il
peso irrisorio di Sherlock e poi la sua fronte appoggiarsi alla propria nuca,
ed il suo braccio magro cingergli la vita.
Aveva
immaginato cose che aveva ormai perduto e, nelle sue infinite notti bianche,
arrivava sempre l’alba senza che nessuna di esse fosse realmente accaduta.
Arrivava
il mattino a spazzare via la coperta di buio che biecamente usava per
nascondere le lacrime. Nasconderle a chi, poi, in verità nemmeno lo sapeva.
Era
sempre solo, quando si svegliava.
Poi,
aveva riavuto tutto. Si era arrabbiato, aveva pianto, lo aveva picchiato. Se ne
era andato, lontano, a Dublino, da qualche parente che ricordava solo di nome e
non di vista, spegnendo il cellulare, ignorando i messaggi e le chiamate,
ignorando tutto il mondo che implodeva e lo implorava di ritornare a
riprendersi la propria vita. Una vita da cui aveva allontanato le mani proprio
quando quel desiderio, quel miracolo chiesto ad una lapide vuota che credeva
piena, si era finalmente realizzato.
Si
era calmato e... aveva capito. Aveva accettato. Era tornato indietro.
Sherlock
lo aveva aspettato.
Aveva
suonato il violino per lui, quella sera. Avevano mangiato cinese e guardato
qualche telefilm alla tele. Tutto nel più profondo e religioso silenzio, in
equilibrio su di un filo molto sottile che sotto qualsiasi parola di troppo si
sarebbe prima sfibrato e poi spezzato.
Infine,
quella notte, nel buio della camera in cui nascondeva i più inguardabili
segreti ed irrealizzabili fantasie... stesi sul letto schiena contro schiena,
gli aveva chiesto come aveva fatto.
E
Sherlock aveva raccontato tutto.
E
John aveva pianto, in silenzio, facendo scivolare le lacrime sulle guance senza
darle a vedere, al sicuro nella sua culla di buio. Aveva sentito la fronte di
Sherlock sulla sua nuca ed il suo braccio magro circondargli la vita.
Gli
aveva detto che lo amava. Holmes si era stretto di più a lui e gli aveva posato
un bacio sul collo, in silenzio.
Non
c’era veramente bisogno di parole, fra loro. Non c’era mai stato.
Deglutì,
passandosi una mano sugli occhi e massaggiandoseli con le dita.
« Cristo... » sussurrò,
scuotendo il capo con un sorriso amaro sulle labbra.
Solo
allora Sherlock decise di prendere di nuovo parola.
« John » chiamò, la voce
bassa ma chiara.
Qualcosa
vibrò nel petto di Watson, ma mise a tacere quella nota. « Taci » gli ordinò.
« John » ripeté il
detective.
« Sherlock, sta
zitto » intimò di nuovo.
« No, John » gli rispose però
il moro: « guardami ».
Quelle
parole erano come una maledizione, per John Watson, perché ogni volta che
Sherlock si trovava nella posizione di chiedergli le cose travestendole da
ordini lui faceva tutto ciò che gli veniva detto. Era la sua voce,
probabilmente, o quella solenne sincerità con cui rivestiva le frasi – solo
quelle rivolte a lui e solo quelle importanti, segrete, per loro due solamente.
Alzò
lo sguardo e, finalmente, lo guardò bene.
Era
impeccabile nel suo completo nero, i mocassini di pelle lucida sotto l’orlo bel
fatto dei pantaloni a taglio classico. Una camicia bianca spuntava dalla giacca
bene abbottonata, ai polsini della quale vi erano due gemelli in oro – quelli
del padre, notò John; alla fine lo aveva accontentato e li aveva indossati.
Aveva i capelli fradici di pioggia incollati al volto, alla fronte ed alla nuca
ed il fazzoletto bianco da taschino, prima diligentemente ripiegato a doppia
punta, era ormai stropicciato e fuori posto.
Ma
la cosa che più lo stupì fu il fascio di seta color grigio perla che gli
chiudeva il colletto della camicia e ricadeva elegante sul petto, entrando
nello scollo formato dalla giacca abbottonata.
Si
concesse un sorrisetto sorpreso.
« Hai messo la
cravatta... » soffiò.
Sherlock
annuì con un cenno del capo. « Mi sembrava un’occasione abbastanza importante da
meritare lo sforzo di annodarla » aggiunse.
John
rise di cuore, non sapeva se almeno un po’ sollevato o semplicemente arreso
all’evidenza.
Sherlock
gli si avvicinò, la mano che frugava nella tasca dei pantaloni mentre parlava
di nuovo.
« È per questo
John. Proprio per questo » cominciò a dire: « tu mi guardi e
capisci senza bisogno di parole. Forse hai un’intelligenza mediocre, e non sei
tutta questa originalità, questo è vero... » non poté fare a meno di dirlo « ...ma sei l’unico
che riesce a capire come sto da un’occhiata. Sei l’unico che cerca di capirmi,
o che almeno ci prova. L’unico che sia mai riuscito a sopportarmi, l’unico che
prende le mie difese e l’unico che crede in me nonostante tutto » gli disse.
« Non ho bisogno
che gli altri mi dicano che ho un brutto carattere, quello lo so già. E ho
sempre pensato che non importasse più di tanto. Un brutto carattere per l’intelligenza
di essere superiore a loro era un prezzo accettabile, soprattutto perché non
avevo, e tuttora non ho, bisogno degli altri » spiegò.
John
cancellò ogni segno di sorriso e strinse le labbra. Non sapeva dove il discorso
di Sherlock volesse andare a parare ma non poteva evitarsi, soprattutto dopo
gli eventi della giornata appena conclusa, di aspettarsi uno dei suoi discorso
egocentrici e strampalati che sarebbe stato in grado di capire nel verso giusto
ma che non lo avrebbe comunque lusingato.
Per
fortuna sua – e forse anche un po’ di Sherlock, dato che fino a prova contraria
aveva ancora la ferma intenzione di sposare John – non fu così.
Gli
arrivò finalmente di fronte e, con un movimento lento, tolse dalla tasca dei
propri pantaloni la scatolina di velluto blu contenente le fedi.
« Quando ti ho
incontrato al Barts non pensavo che chiedere ad una
persona di dividere metà dell’affitto mi avrebbe portato a chiederle di
dividere anche metà della mia vita » disse.
Osservando
la piccola scatola, ancora fra le mani di Sherlock, John continuò ad ascoltarlo,
silenzioso ed attento.
« Ti ho deluso
molte volte John, lo vedo. Lo so. E so che ti deluderò ancora e non so
quantificare quanto profondamente. So che desideravi sposare una donna, l’hai
detto più volte, e avere figli, cosa che io non ti darò di certo » una piccola
pausa, la voce pratica del detective che prende le redini per un istante: « però tu hai
risposto “sì”. E non ho ancora capito perché tu ti sia preso questa
responsabilità con me, ma voglio che tu ci sia quando finalmente riuscirò a
trovare la risposta a quest’incognita » terminò.
Gli
porse la scatolina chiusa con un cenno della mano, rimanendo poi a guardarlo.
John,
in tutta la sua infinita e santa pazienza, chiuse gli occhi e trattenne il
fiato.
Sherlock
Holmes poteva lasciarlo indietro, non condividere con lui molti dei suoi
segreti, comportarsi come un perfetto imbecille un giorno, come un bambino
esaltato il giorno dopo e diventare il detective più geniale del mondo nel giro
di pochi istanti ed in qualunque momento. Poteva anche abbandonarlo
“all’altare” il giorno del loro matrimonio ma John Watson era geneticamente
incapace di odiarlo, anche per finta, ance imponendoselo, anche per una cosa
come quella, così grave per le
persone normali, così naturale per la
logica del mondo di Holmes.
Mondo
che John, per il momento, sfiorava soltanto. Mondo di cui voleva fare
integralmente parte.
Per
quello aveva risposto di sì, quando Sherlock gli aveva chiesto di sposarlo nel
bel mezzo di una sparatoria fra loro ed un trafficante di droga non molto
contento di essere stato beccato con le mani in pasta.
Aveva
detto “sì” come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Lo
era ancora.
E
lui era il pazzo che dava del pazzo al pazzo.
« Sai, Sherlock... » cominciò il soldato,
prendendo la scatolina dal palmo di Holmes senza il minimo residuo di rabbia,
ma ostentando una falsa ostilità: « ...tu sei la persona più odiosa e
detestabile che io abbia mai conosciuto. Molte volte mi fai venire voglia di
prenderti a pugni e un paio di volte l’ho anche fatto » piccola pausa, un
sorrisetto sghembo da parte di Sherlock: « ...ma sei anche la persona di cui mi
sono, a mio rischio e pericolo, innamorato. E non importa se dovrò passare la
vita a correrti dietro per cercare di stare al tuo passo, davvero... mi va bene
».
Le
fedi in oro bianco brillarono quando John aprì la confezione, estraendole con
la destra e mettendosi l’involucro nella tasca della divisa. Tese la mano libera
verso Holmes, afferrandogli il polso della sua sinistra fino a portare la mano
in mezzo a loro, le dita distese.
« Se hai qualcosa
da dire, parla ora o taci per sempre » pronunciò John, trovando sul viso di
Sherlock nient’altro se non un inclinarsi impercettibile di labbra.
L’anello
scivolò facilmente al suo anulare sinistro, prendendovi posto come un sigillo.
Afferrando l’altro anello dal palmo del medico, Sherlock fece la stessa cosa.
« il Civil Partnership Act possiamo firmarlo
anche domani... » gli disse il
moro, infilandogli a sua volta l’anello.
Il
cuore di John mancò un battito, nonostante tutto, e non poté fare a meno di
sorridere. Era stata una giornata da dimenticare, e probabilmente alcuni dei
loro amici e parenti si sarebbero lamentati per la mancanza della cerimonia
ufficiale, ma mentre osservava il piccolo circolo d’oro bianco al suo dito gli
veniva da pensare che non era assolutamente necessaria un’ufficialità in pompa
magna.
Quei
due anelli erano simbolo di una promessa privata, che apparteneva solo a loro.
Un giuramento muto e pronunciato con imbarazzo, ma pur sempre un giuramento.
« Tua madre se la
prenderà con me quando le diremo che non ci sarà un matrimonio ufficiale » disse John a
Sherlock, portando le mani a sistemargli il nodo leggermente storto della
cravatta: « era al settimo
cielo, questa mattina » gli disse,
notando in un pensiero sciocco quanto quell’anello – uguale al suo – stesse
bene al dito di Sherlock.
Quello
sbuffò, lasciandolo fare. « Le passerà » decretò solamente, perdendosi poi ad
osservarlo.
John
notò lo sguardo. « Cosa c’è? » chiese, non
potendo proprio evitarsi di sorridere, e dunque di suonare dolce.
« Non ti avevo mai
visto in divisa » disse Sherlock: « stai... stai
bene, ecco » ammise, scostando
gli occhi altrove.
« Grazie... » rispose John: « ma adesso andiamo
a casa, altrimenti passeremo la luna di miele con la polmonite ».
« Cosa che probabilmente
succederà » si limitò a rispondere
Sherlock, affiancandolo nella camminata verso Baker Street.
Due
settimane dopo, in una domenica sera battuta da pioggia e vento, ancora una
volta John Watson si trovò in attesa.
Sherlock
era in un ritardo da film dell’orrore, ma ormai sembrava non essere una novità.
Tant’è che era con Lestrade, dunque i ritardatari erano effettivamente due.
Rendeva la cosa un po’ più scusabile.
Angelo
aveva deciso di chiudere il ristorante e riproporre il pranzo matrimoniale,
dato che la cerimonia non era avvenuta (non come ci si aspetta, almeno: alla
fine lui e Sherlock si erano veramente presentati all’Anagrafe il mattino dopo,
firmando il documento con gli anelli già al dito e senza l’accompagnamento di
parenti e amici di sorta; il fattorino e una segretaria avevano fatto loro da
testimoni).
Il
lungo tavolo esattamente al centro della sala era apparecchiato a puntino,
dalla cucina arrivano diversi odori di altrettante pietanze cucinate per loro
da Angelo in persona e tutti gli ospiti erano già accomodati sulle sedie.
Molly
parlava allegramente con mrs. Hudson, che ancora
lamentava come fossero stati “sciocchi” a sposarsi senza dire nulla a nessuno.
L’aveva presa un po’ sul personale.
La
madre di Sherlock, Violet, stava ancora borbottando
qualcosa riguardo a quanto sconsiderato potesse essere il figlio minore in
direzione di Mycroft, che sembrava ascoltarla per
inerzia ma rimanendo comunque padrone della sua solita, elegante compostezza. Siger, il padre di Sherlock, semplicemente sorseggiava il
vino in silenzio.
Harry,
invece, parlava allegramente con Angelo che si divertiva a raccontarle qualche
aneddoto di quando era ragazzo e viveva ancora in Italia, dove i festeggiamenti
per i matrimoni – diceva – erano capaci di durare anche giornate intere.
Sorridendo
a quella scena, John portò lo sguardo sull’anello che aveva al dito e che non
aveva mai smesso di tormentarsi con il pollice.
Gli
sembrava incredibile quanto velocemente si fosse abituato a portarlo, anche se
si stupiva ancora, al mattino, trovandoselo al dito nell’intento di lavarsi il
viso. E non poteva impedirsi di sorridere di nascosto quando, osservando
Sherlock di sottecchi, vedeva la fede d’oro bianco cingere anche il suo anulare
sinistro.
Non
si era ancora stancato di portarla, non se l’era ancora tolta. Probabilmente
non l’avrebbe fatto mai, e questa era una di quelle cose che amava pensare ogni
volta – e non erano poche – che gli cadeva lo sguardo su quei loro anelli.
Era
felice da far schifo e se lo diceva anche da solo. Senza vergogna.
Praticamente
un miracolo.
« Se lo guardi ancora
un po’ lo consumerai » gli disse Harry,
sedendosi al suo fianco dopo che Angelo scomparve in cucina.
John
le sorrise. « Lascia che sia » le rispose poi,
serenamente.
« Oddio, ma
guardati... sei felice. Sei oscenamente
felice, oserei dire » gli disse lei « il che è una cosa
strana considerando che ti sei sposato una sorta di psicopatico amante dell’orrido,
ma ehi, i gusti sono gusti ».
« Harry... » la riprese
bonariamente John.
« Ok, ok, la
smetto. Ma non puoi impedirmi di lanciare battute sul marito di mio fratello,
soprattutto dopo che il suddetto mi ha sostituito nel ruolo di testimone con un
fattorino » gli lanciò la
frecciatina.
John
ridacchiò, lasciando perdere la conversazione non appena la campanella della
porta tintinnò e sulla soglia comparvero Lestrade e Sherlock.
« Sei leggermente in ritardo » apostrofò John,
sogghignando scherzosamente in direzione di Holmes.
Sogghigno
che l’altro ricambiò, prima di rispondere: « era un omicidio seriale, John ».
« E questo è il
nostro matrimonio, Sherlock » ribatté Watson.
« La cena » precisò subito
Sherlock « e nemmeno quella
ufficiale. E sono comunque in tempo » aggiunse, appoggiandogli una mano alla
spalla mentre si sedeva al suo fianco, dal lato opposto ad Harriett.
Finalmente
gli antipasti furono serviti, accompagnati da calici di vino bianco. Prima di
cominciare, Greg batté il coltello sul proprio flute, attirando l’attenzione.
« Bene, beh...
direi che ci vuole un brindisi » disse, alzando il bicchiere: « a Sherlock, che
ha trovato una persona abbastanza paziente – o altrettanto psicopatica, non l’ho
ancora capito – in grado di sopportarlo; e a John, che passerà il resto della
propria vita con Sherlock Holmes, e io non lo augurerei nemmeno al mio peggior
nemico ».
Tutti
ridacchiarono alla battuta palesemente scherzosa di Lestrade, tranne lo stesso
Sherlock, che si limitò ad inarcare un sopracciglio.
« Scherzi a parte,
ragazzi, auguri di cuore per la vostra vita insieme. Cin cin!
» esclamò l’ispettore,
seguito da un tintinnare di bicchieri e da un vociare concitato.
John
spostò gli occhi su Sherlock, che a sua volta li posò su di lui. Come al solito
non ebbero bisogno di dirsi nulla e, inclinando le labbra in lievi sorrisi d’intesa,
fecero tintinnare fra loro i loro calici di vino.
Avevano
appena bagnato le labbra con la bevanda quando Violet
prese parola.
« Allora, avete già
deciso quale utero prendere in affitto per i miei futuri nipotini? » domandò
candidamente.
A
John andò il vino per traverso.
The End ~
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1.
Il titolo è la traduzione inglese della frase “Parli ora o taccia per sempre”,
classica delle cerimonie nuziali.
2.
Il Registry Office non è altro che l’Anagrafe. Il
sistema di matrimonio civile nel Regno Unito è abbastanza semplice, dopotutto:
i due interessati si recano all’Anagrafe con il certificato di nascita almeno
due settimane prima della data ufficiale del matrimonio e, una volta che tutta
la burocrazia è smaltita, durante la cerimonia ufficiale viene fatto firmare
agli sposi (e ai loro testimoni) il contratto di unione civile. Funziona così
anche per il Civil Partnership Act,
documento che, dal 2004, ha reso legittime le unioni omosessuali nel Regno
Unito.
Non
è necessario, infine, che il matrimonio avvenga direttamente all’Anagrafe.
Tramite appuntamento, l’incaricato dello Stato può anche celebrare l’unione
civile in un luogo a scelta prescelto dagli sposi.
3.
È stata una dura lotta cercare di capire se John potesse o meno sposarsi in
divisa, e soprattutto quale divisa
avesse.
Considerato
che è congedato (parole di mio padre) non potrebbe sposarsi in divisa. Però (e
queste sono mie considerazioni) in “The Hound of Baskerville” il caro John
mostra al Caporale il documento che lo attesta come facente parte dell’esercito
di Sua Maestà, ed inoltre percepisce la pensione dell’esercito stesso (episodio
1, parlando con Mike: “Can’t afford London with ad army pension”
letteralmente: “non posso permettermi Londra con una pensione militare”). Il
che mi fa pensare che, anche se in congedo, dell’esercito faccia comunque
parte. Da qui, nel mio immaginario John si sposa con la divisa.
Ora,
quale divisa? È stata una gara dura.
Ho scoperto che la British Army
ha diversi tipo di divisa per diverse occasioni e tutte le uniformi cambiano a
seconda del grado e del battaglione di cui uno fa parte. Non so se è quella
giusta, ma la divisa di John dovrebbe essere molto simile a questa: click.
4.
Facendo un giro su Internet ho trovato alcune teorie per cui i genitori di
Sherlock e Mycroft si chiamerebbero Violet e Siger. Non so quanto
veritiere possano essere, ma in mancanza d’altro mi adeguo. Almeno ho un punto
di riferimento ;D
5.
Il flute è il bicchiere da spumante, alto
e longilineo.