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Autore: PaleMagnolia    25/04/2012    4 recensioni
“Buonasera, Mr. Holmes.” disse una voce, cortese, nell’oscurità della stanza.
Mycroft reagì con classe – molta classe, bisogna ammetterlo.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio, Mycroft Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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And she'll tease you
She'll unease you
All the better just to please you
She's precocious
And she knows just what it 
Takes to make a pro blush
All the boys think she's a spy,
She's got Bette Davis eyes
 
Kim Carnes, Bette Davis Eyes


 
Mycroft Holmes entrò nella sua bella casa georgiana ad Hammersmith, accolto dal familiare odore di cuoio, carta e olio per legno, e si richiuse alle spalle la porta blindata con un tonfo smorzato. Posò le chiavi sul coperchio dell’armonium a due manuali – un imponente strumento tedesco, di legno scuro e comprovata inutilità – che occupava il vano accanto alla porta.
Mycroft aveva una bizzarra inclinazione per quel tipo di oggetti: grandi, antichi, totalmente privi di un qualsivoglia uso pratico nel mondo moderno. La dimostrazione di questo era il suo onnipresente ombrello nero, con quell’aria di pipistrello addormentato, così anacronistico e poco pratico: il suo marchio di fabbrica, con la pioggia e col sole, per le strade di Londra e nei corridoi di Westminster.
Mycroft Holmes: compassato, formale, i gesti sicuri di un uomo che conosce le regole del gioco... che conosce le regole di tutti i giochi.
Era una bizzarra visione, da gentiluomo d’altri tempi: una silhouette riconoscibile anche da lontano – la figura massiccia, elegante, gli abiti su misura e le cravatte Gieves and Hawkes, le catene da orologio; con quella consapevolezza di sé da vecchio mondo, da nobile decaduto. Non era difficile immaginarlo camminare nella foschia della Londra vittoriana, con un cappello a cilindro accuratamente spazzolato in testa e una tabacchiera d’argento nella tasca interna della giacca.
Qualcuno, una volta – un membro anziano della Camera, uno che probabilmente aveva avuto modo di viaggiare su uno di essi - aveva detto che Mycroft Holmes era come uno Zeppelin: elegante, dignitoso, lento nei movimenti; e tremendamente pericoloso. Come quelle vecchie, raffinate navi dell’aria (piene d’elio e di belle signore in guanti e cappello) – che a volte, senza alcun preavviso, sbocciavano in volo come fiori gialli, in immensi roghi di morte – anche Mycroft Holmes (con la sua indolenza e i suoi completi firmati) era in grado di trasformare le immediate vicinanze di sé in un inferno.
 
“Buonasera, Mr. Holmes.” disse una voce, cortese, nell’oscurità della stanza.
 
Mycroft reagì con classe – molta classe, bisogna ammetterlo. La reazione più adatta a quel genere di avvenimento, se Mycroft fosse stato una persona normale, avrebbe dovuto comprendere grida di sorpresa, teatrali balzi all’indietro ed, eventualmente, una dose più o meno massiccia di terrore.
Ma, essendo un Holmes, Mycroft non era precisamente quel che si definisce “una persona normale”.
Fu invece ammirevole la disinvoltura con cui prese la notizia che qualcuno era appena entrato in casa sua… una casa la cui entrata era protetta da una porta blindata, la cui serratura consisteva in un codice alfanumerico di sedici cifre, la cui composizione casuale era generata elettronicamente alle sette in punto di ogni mattina.
L’uomo che, occasionalmente, era il governo inglese sollevò un sopracciglio e, con deliberata lentezza, nel suo modo noncurante (che fretta c’era, dopotutto? In fondo, c’era solo uno sconosciuto seduto nel buio dello studio di casa sua), fece scattare l’interruttore sul muro usando la punta dell’ombrello.
Mycroft Holmes era la prova incontrovertibile, se mai ce n’era stata una, che il maschio britannico di stampo etoniano coltivava ancora l’antica arte del self control – self control sempre e comunque.
La luce si accese con un lieve tremolio, e per un attimo l’unico suono nella stanza fu il lievissimo fruscio elettrico della lampadina. La luce rivelò lo studio di Holmes senior, un misto di sobrio ed eccentrico: mobili in legno scuro, pesanti tende alle finestre georgiane; un astrolabio di ottone nel vano di una finestra; un set di scrittura ottocentesco, pennini e calamaio, in un portapenne d’ebano; una lanterna cieca su una mensola.
“Oh”, mormorò Mycroft, lentamente, mentre sul viso gli compariva un’espressione ambigua – quella, insieme pensierosa e compiaciuta, di un’enigmista cui è stato appena posto un rompicapo particolarmente ben strutturato. L’ospite fece un impercettibile cenno di saluto col capo.
“Miss Adler.” Holmes Senior inclinò la testa, cortesemente.
“Mycroft”, rispose Irene Adler, con la stessa cortesia; sorrise appena, ma negli occhi le brillava un lampo di divertimento. Era seduta sulla poltrona preferita di Mycroft - un enorme oggetto di legno e cuoio rosso, di epoca vittoriana, posizionato davanti al camino spento - anche se, più che seduta, vi si era raggomitolata dentro come un gatto, le gambe ripiegate sotto il corpo. In quel momento si stirò (come una gatta, appunto), e accavallò le gambe con un gesto fluido e misurato. Portava guanti neri di pelle chiusi da bottoncini sui polsi, e un’ampia, soffice mantellina di visone bianco, o forse volpe – in ogni caso, aveva l’aria di essere maledettamente costosa, e Mycroft avrebbe potuto giurare che non aveva dovuto prendersi il disturbo di comprarla. Era una di quelle cose che, non si sa come, hanno tutta l’aria di essere un regalo.
Le gambe della donna erano fasciate da calze di seta, il tipo di calze anni Quaranta con la cucitura posteriore, e ai piedi portava un paio di Christian Louboutin nere coi profili bianchi, dai tacchi a stiletto sbalorditivamente alti. Quando si mosse, la luce scintillò sugli orecchini di diamanti – tre carati ognuno, come minimo. Una bella montatura antica.
“La trovo bene, Miss Adler. Specie considerando che l’ultima volta che l’ho vista era stesa sul tavolo di un obitorio a Karachi.”
“Oh, la morgue aveva una deliziosa vista sul fiume Malir. Ma sicuramente non era il tavolo più confortevole sul quale abbia avuto occasione di sdraiarmi. O il più pulito.”
“Devo dunque presumere che la notizia della sua morte fosse – beh, come dire...?” Mycroft agitò vagamente una mano in aria, come a cercare un termine adatto.
Irene sollevò entrambe le sopracciglia e atteggiò le labbra ad un grazioso, piccolo broncio.
“... Prematura?”
“Ecco, sì.” Mycroft schioccò le dita, ironico. “Prematura.”Proprio la parola che cercavo.”
 Irene alzò le spalle, noncurante. “Deve certamente presumerlo.”
Mycroft annuì, lento, e si dondolò distrattamente sulla suola delle scarpe. Sembrava che stesse valutando varie ipotesi - e le stesse scartando una dopo l’altra.
Infine alzò la testa e la guardò, di sottecchi. “Ma come - diavolo…?
Irene lo fissò, l’aria sempre maliziosa. Un’ombra di sorriso le incurvò gli angoli della bocca.
“Pensa, Mycroft. Pensa.”
Gli occhi le brillavano. “Ah.” Mycroft sospirò profondamente, come se avesse avuto la conferma di una vecchia supposizione.
Annuì di nuovo, pensoso. Si girò verso la grande scrivania e si mise a riordinare distrattamente una pila di documenti, facendo combaciare in modo perfetto gli angoli dei fogli come se fosse una questione di primaria importanza. Per qualche attimo la stanza fu di nuovo muta – l’uomo in piedi, le mani curate impegnate con le sue carte; la donna elegantemente seduta in poltrona, come in una scena d’altri tempi. Irene si tolse i guanti, senza fretta, tirando un dito alla volta.
Poi Mycroft ruppe il silenzio, in tono svagato.
“Ah, così, en passant, posso chiedere come è entrata? Sempre se non sono indiscreto.”
Lei inarcò un sopracciglio con finta sorpresa, e abbozzò un sorrisetto malizioso.
“Sono scesa giù dal camino.” Disse.
“Dal camino?”
“Ho, ho, ho. Buon Natale!”
Irene fece una breve risata e si lasciò scivolare la stola di pelliccia dalle spalle, rivelando un tubino nero, aderente: molto sobrio, a dire la verità, lungo al ginocchio e con una scollatura dritta a barchetta. Sarebbe stato quasi monacale, se Mycroft, con un’occhiata distratta all’abito, non avesse riconosciuto un modello Tom Ford dell’ultima collezione, con un prezzo che probabilmente si aggirava intorno alle milleduecento sterline. Castigato, sì, ma era un castigo sopportabile.
A Mycroft non sfuggivano mai i dettagli; anche se, in effetti, sarebbe stato può corretto dire non gli sfuggiva mai nulla - il che era la ragione principale per la quale il governo inglese aveva sempre così disperatamente bisogno di lui.
“E porti doni?”
“Solo se hai fatto il bravo bambino. Sei stato un bravo bambino, Mycroft?”, disse Irene, e poi rise di nuovo, una risata roca, di gola. “Altrimenti, ti toccherà una punizione.”
Mycroft la fissò.
Irene ricambiò lo sguardo, poi spalancò gli occhi per un attimo, come colpita da un’idea, e si portò una mano alla bocca. “Oh, vuoi che provveda personalmente?”
Mycroft inclinò la testa, come riflettendoci sopra.  “No.” Replicò dopo una breve pausa, imperturbabile e cortese come se stesse rispondendo a un cameriere in un bistrot. “Ma grazie per l’offerta. La terrò certamente in considerazione.”
“Oh, be’, come vuoi. Ma conosco alcuni tuoi colleghi che…” I loro occhi si incontrarono. Irene sorrise. “Beh, diciamo che conosco i loro gusti.”
Mycroft assunse la sua posizione caratteristica, la posa da battaglia (allo stesso modo in cui si immagina Napoleone sempre con la mano nella giubba, tutti coloro che conoscevano Mycroft Holmes non potevano fare a meno di rappresentarselo in questo modo): puntò l’ombrello a terra come un bastone da passeggio e vi appoggiò il peso del corpo, incrociando la gamba destra all’altra, la caviglia piegata in una rilassata, indolente “L”. Mise una mano nella tasca dei pantaloni, spostando un lembo della giacca: la catena da orologio che gli attraversava il panciotto scintillò flebilmente alla luce della lampada.
Guardò la donna, e assunse un’espressione seria; poi, improvvisamente, abbandonò le schermaglie e sospirò, pesantemente. Chiuse gli occhi.
Sembrava stanco, terribilmente stanco tutt’a un tratto.
“Che cosa vuoi, Irene?” Disse, e c’era la stessa vena di stanchezza nella sua voce.
The Woman inarcò un sopracciglio. “E tu che cosa vuoi, Mycroft?”
Irene Adler riusciva ad essere insieme aristocratica e provocante anche nei gesti più semplici, pensò Mycroft, come alzarsi da una poltrona; e usò quest’arte anche in quel momento. In un raffinato sfarfallio di lunghe gambe e crêpe de chine nero si portò di fronte a lui e lo guardò negli occhi, sollevando il mento. Nonostante i tacchi vertiginosamente alti, Mycroft la superava di tutta la testa, e accanto a lui la bella dominatrix dai capelli scuri e dalle labbra rosse sembrava piccola e fragile come uno scricciolo. Lei allungò la mano e gli afferrò la cravatta; la accarezzò fra le dita. Aveva le unghie a forma di mandorla, laccate di rosso vino. Portava un anello vintage, di brillanti dal taglio a rosetta, molto bello.
“Tu che cosa vuoi?”, ripetè, la voce bassa, roca. Aveva le labbra incurvate in un mezzo sorriso, leggermente aperte ed era, Mycroft lo sapeva, acutamente consapevole di quanto fosse desiderabile.
Lui la guardò, dall’alto. Era indubbiamente una delle donne più attraenti e – per quanto ciò potesse sembrare strano, considerando chi era – più raffinate che avesse mai incontrato. Conosceva duchesse che non avevano la metà della classe che aveva lei nell’unghia, smaltata di rosso, del dito mignolo.
Mycroft si stupì vagamente di come, nonostante avesse addosso almeno nove carati di diamanti e circa cinquemila sterline di abbigliamento, il primo termine che veniva in mente guardandola fosse “sobrio”. In coppia con “elegante”, naturalmente.
Le sorrise, beffardo, ma gli occhi rimasero seri. “Ho già tutto quello di cui ho bisogno, Irene. Ma grazie per l’interessamento, lo apprezzo molto. Davvero.”
Lei si morse il labbro. “Non senti mai il bisogno di qualcuno? Di… un compagno?”
Mycroft sorrise di nuovo, e questa volta era quasi sincero. “Oh, ma, Irene - io ce l’ho, un compagno.”
Irene rimase interdetta. “Davvero?”, disse, un po’ bruscamente.
Mycroft si raddrizzò dalla sua posizione rilassata, lentamente. Si girò a guardare l’ombrello, che teneva stretto per il manico come una stampella. Poi, con gesto fluido, lo lanciò verso l’alto e lo afferrò di nuovo, come un prestigiatore.
“Oh, sì”, disse, gli occhi che ora brillavano di malizia. “Ce l’ho.”
 
Irene rimase per un attimo immobile, congelata nella sua posizione, le dita che ancora sfioravano la sua cravatta. Poi realizzò, e si mise a ridere. Rise fino a perdere l’equilibrio, e si appoggiò alla spalla di Mycroft per reggersi in piedi. Rise finché non le spuntarono lacrime agli angoli degli occhi. “Oh Dio”, diceva, scuotendo la testa. “Oh, Dio. E pensare che ero venuta qui per sedurti.” Si asciugò una lacrimuccia con le dita, smise di ridere e alzò un sopracciglio. “Di solito mi riesce, sai.”
“Non ne dubito.”
“Ma devo ammettere che il mio consulente personale aveva ragione su di te, Mycroft.” Sorrise. “Sei proprio un uomo di ghiaccio.”
“Sì, me lo avevano già detto… Ma, Irene - se non ti secca lasciartelo chiedere: per quale motivo avevi intenzione di sedurmi?”
Irene accennò qualche passo verso la poltrona di cuoio. “Oh, beh, volevo chiederti qualcosa - un piccolo favore… una cosuccia, mettiamola così - ma stando così le cose, immagino sia inutile, no?” Fece un buffo gesto di rassegnazione, una piccola alzata di spalle.
Si chinò e prese i guanti dal bracciolo, dove li aveva lasciati, poi tornò da Mycroft per farseli allacciare, come una moglie che si faccia agganciare una collana prima di una festa.
Mycroft glieli abbottonò con impeccabile cortesia, i gesti misurati, garbati che avrebbe usato con una pari del Regno. Come se lei non fosse stata una pluriricercata.
Come se non avesse l'abitudine di manipolare (in più di un senso) gli altri e le altrui perversioni per i suoi scopi.
Come se non avesse appena ammesso di volerlo sedurre proprio per quello.
“Grazie, sei molto caro.” Irene tornò alla poltrona, prese la stola di pelliccia e se la avvolse di nuovo intorno al collo. Si avviò verso la porta, i tacchi che ticchettavano elegantemente sul pavimento di legno. Passandogli accanto, si fermò un attimo e gli sfiorò un braccio. “Ciao, Mycroft”, disse, senza guardarlo, poi proseguì fino alla porta, la aprì e fece per uscire sulla strada. “Ah, Mycroft?” disse, un attimo prima di chiudersi la porta alle spalle. “Porta a Sherlock i miei saluti, se non ti spiace.”
Mycroft sentì il consueto tonfo della porta blindata, il rumore di una portiera che sbatteva; un attimo dopo, un’auto partiva rapidamente, con uno stridio di pneumatici sull’asfalto.  
 
Mycroft espirò lentamente. Mise la mano in tasca e ne estrasse il telefono cellulare. Pensò a lungo a cosa scrivere, poi mise mano alla tastiera.
 
Irene è tornata. Non dirlo a S.
Fai molta attenzione.
Mycroft
 
Poggiò il cellulare sulla scrivania e si sedette, in attesa. Nel giro di pochi minuti arrivò la risposta. Mycroft avrebbe potuto giurare di sentire la voce di John – acuta, allarmata – mentre leggeva il messaggio.
 
Cosa è successo?
J
 
Mycroft sospirò, per metà stanco e per metà divertito. Cominciò a digitare la risposta.
 
È venuta a propormi un accordo, ma quello che mi offriva non
 
Si interruppe e alzò gli occhi; si guardò intorno, riflettendo. Ci pensò su, poi cancellò il testo e lo riscrisse.
 
Niente. Ma tieni gli occhi aperti.
Mycroft
 
Si abbandonò contro lo schienale della poltrona, chiuse gli occhi e respirò profondamente. Resto lì, ad occhi chiusi, a pensare, per molto tempo.
Poi, a un tratto, si riscosse. Allungò la mano verso il suo ombrello – fedele compagno di una vita – lo afferrò e lo usò come sostegno, per alzarsi.
“Ah, amico mio”, disse, a voce bassa. “È stata una lunga giornata.”
Si diresse verso la cucina, dondolando l’ombrello avanti e indietro come un bastone da passeggio.
“Una lunga, lunga, lunga giornata. Andiamo a farci una tazza di tè.”
  
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